Il lungo viaggio di Einar

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Alberto Manzi, noto a tutti come Il Maestro Manzi, docente, pedagogista e scrittore, è stato uno dei volti più noti della televisione italiana in bianco e nero. Negli Anni Sessanta conduceva la trasmissione Non è mai troppo tardi, che ha permesso a un milione e mezzo di italiani di prendere la licenza elementare. Esempio di cittadinanza attiva e di impegno civile a favore del diritto all’infanzia e all’istruzione, il suo metodo educativo ha rappresentato una rivoluzione per la didattica e il pensiero pedagogico.

UAO

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Alberto Manzi

Il lungo viaggio di Einar

dello stesso autore in queste edizioni: Testa Rossa

ISBN 979-12-221-0756-1

Prima edizione ottobre 2024 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo originale dell’edizione tedesca del 1963: Der lange Weg nach Arjeplog traduzione di Angela Ricci

Le illustrazioni di questo libro sono state elaborate dai disegni di Heino Meissl pubblicati nell’edizione originale tedesca del 1963.

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Alberto Manzi Il lungo viaggio di Einar

disegni di Heino Meissl traduzione di Angela Ricci

Care lettrici e cari lettori!

Dovete sapere che l’eroe di questa storia è esistito veramente, nel Nord della Lapponia. I nomi degli altri personaggi del libro, per esempio Eskil e Angol, sono inventati, quello del “dottor Einar” invece è reale, così come è reale anche la sua lotta contro le forze e la furia della Natura, per alleviare le sofferenze degli altri esseri umani.

Qualcuno di sicuro penserà che quel che racconto in questo libro sia impossibile, ma se alla fine di questa storia non sarete ancora convinti che il dottor Einar è realmente esistito, vi invito a pensare che al mondo ci sono tantissimi Einar, i cui nomi rimangono molto spesso nell’oblio. I pionieri infatti camminano davanti a tutti e la folla non li riconosce mai per quello che sono.

È a tutti questi Einar che dedico il mio lavoro. Ma lo dedico anche a voi, care lettrici e cari lettori, perché possiate ricordarli.

Alberto Manzi

Al dottor Einar Wallquist
Arjeplog – Svezia

Capitolo 1

«Einar! Einar!»

Il ragazzo scosse delicatamente l’uomo addormentato.

Questi si mosse un poco, voltò la testa e mormorò senza aprire gli occhi: «Che c’è?»

«Ha telefonato Angol. Ha detto che è urgente»

«Angol?» L’uomo ricacciò indietro uno sbadiglio. «Quale Angol?»

«L’Angol che ha tutte quelle renne. Ha camminato quattro ore prima di trovare un telefono per chiamarti. Quasi gli scoppiava il cuore dalla fatica» disse il ragazzo.

«E cosa voleva?» borbottò Einar, drizzandosi a sedere sul letto.

«Dice che Eskil ha urgente bisogno di te, è gravemente ferito».

Sempre borbottando, l’uomo cominciò a vestirsi mentre il ragazzo lo guardava.

«Dottore…» mormorò.

«Che c’è, figliolo?»

«Io non andrei se fossi in lei. I folletti delle montagne sono inquieti e anche la neve è di cattivo umore».

L’uomo rise.

«Io non andrei» ripeté il ragazzo. «I cani sono andati a nascondersi e non la smettono di abbaiare. Le renne si sono messe al riparo nella capanna».

L’uomo sembrò non dargli ascolto e continuò a vestirsi in fretta e furia. Il ragazzo ripeté allora il suo avvertimento una seconda volta, poi una terza, e infine gridò rosso in viso: «Ma cosa ti importa di Eskil?»

Il medico si voltò di scatto e lo guardò dritto negli occhi.

«Non volevo dire così» balbettò il ragazzo chinando il capo. «È solo che è pericoloso e tu non puoi morire»

«Perché mai?»

«Perché ci sei solo tu»

«Proprio perché sono solo, potrò pur morire quando mi pare, o no?» scherzò il medico.

«Ma tu sei l’unico dottore che abbiamo qui.

Non puoi morire… Posso venire con te?»

«Hai detto che i folletti sono inquieti e i cani abbaiano»

«Sì, è vero, l’ho detto, e fosse per me non andrei. Ma se tu vai, ti accompagno»

«Nick…»

«Non sarò un peso per te e magari potrei aiutarti»

«No, tu rimani qui!»

«Non mi hai mai portato con te, anche se me lo hai promesso tante volte»

«Quando sarai più grande…»

«Sono già più alto di te, e sono nato e cresciuto da queste parti»

«Cerca di capire, Nick! Devi ancora studiare molto se vuoi sostenere l’esame di Medicina. Non puoi permetterti il lusso di perdere del tempo prezioso»

«Ma così non farò mai pratica!»

«Quando sarai all’università ne riparleremo».

L’uomo prese lo zaino, legò per bene la borsa con gli strumenti e finì di vestirsi.

Il ragazzo uscì e tornò poco dopo con del caffè caldo.

«Ecco, bevi!» disse.

Einar posò una mano sulla sua spalla e gli disse:

«Ascoltami, Nick. Un giorno dovrai prendere il mio posto. È per questo che non ti porto con me ora, per non esporti ai rischi. E poi… non sono ancora così vecchio, ce la faccio anche da solo».

Una volta fuori, mise gli sci ai piedi, raddrizzò lo zaino sulla schiena e infine sfrecciò

giù per la collina. Nick rimase sulla porta e lo seguì con lo sguardo. Per lui Einar era anche più di un padre, considerando che spesso i padri si limitano solo a dare la vita. Qualche anno prima Einar la vita gliel’aveva restituita, scaldandolo con il calore del suo corpo mentre lo portava nel suo piccolo ambulatorio, con una temperatura esterna di quarantatré gradi sotto zero. In seguito gli aveva fatto dono del suo affetto e gli aveva trasmesso le sue conoscenze. Einar era per lui un vero e proprio dio, e non lo era solo per lui, ma per tutti i lapponi.

Allo stesso tempo era davvero un folle! Sfidare i maligni folletti e le foreste imbiancate di neve, le divinità perennemente tempestose e roboanti dei fiumi! E farlo da solo, per di più!

Dopo tre ore, Einar giunse alla capanna di Hoomei, nei pressi della quale c’era una vasta palude.

Hoomei attizzò il fuoco e vi mise dell’acqua a bollire.

«Da chi devi andare?»

«Da Eskil»

«L’Eskil che ha tutte quelle renne?»

«Sì, lui»

«Hmm»

Hoomei versò l’acqua calda in una tazza e aggiunse un paio di foglioline di tè.

«Non è molto» disse «ma ti farà bene. E se ripasserai di qui ce ne sarà dell’altro»

«Grazie, Hoomei»

«Vengo con te?»

«No, non sarà una bella nottata»

«Mia moglie dorme e vedrai che la nottata sarà bella. Posso venire»

«Non c’è bisogno. Lassù c’è già qualcuno»

«Va bene»

«Allora a presto, Hoomei!»

«Aspetta, ti metto un po’ di cera sugli sci»

«Grazie! E arrivederci!»

«Ehi, dottore» gli gridò dietro Hoomei mentre rientrava in casa. «Il ghiaccio nella palude gracchia come un corvo quando ci si passa sopra»

«Ma resiste!»

Einar viaggiava ora nell’oscurità più nera, perché le enormi montagne tutto intorno gettavano la loro ombra sulla palude a fondovalle.

A

ogni scricchiolìo del ghiaccio saltava da un cumulo di neve all’altro. Era “il passo del burat-

tino”, questo era il nome che aveva dato a quel modo di avanzare la prima volta che era passato da quelle parti. Un salto, un altro salto, e un altro salto ancora, da una zolla asciutta alla successiva, sempre che si potessero chiamare zolle quei minuscoli scampoli di terreno ricoperti da mezzo metro di neve. Andò avanti così per sei chilometri.

«Devo dire a questa gente che sarebbe meglio spianarle quelle montagne, così ci si potrà vedere qualcosa quaggiù» mormorò tra sé e sé, per poi ridere di quel bizzarro pensiero. «Chissà se lo farebbero per me». L’idea, in ogni caso, gli sembrava pur sempre meno campata in aria che ottenere dal governo la costruzione di una nuova strada.

Nella Valle degli Elfi fu costretto a mettersi a quattro zampe per poter avanzare nella tempesta. Ma andò avanti lo stesso, senza mai riposarsi.

Dopo quattro ore trovò il vecchio Angol ad attenderlo davanti alla stazione telefonica.

«Salute, Einar! Attacco le renne alla slitta e ho fatto. Là c’è del caffè».

Einar si scaldò accanto al fuoco, mangiò

rapidamente qualcosa e si sentì di nuovo in forze.

«Pronto?» chiese Angol. «Allora andiamo!»

Al suo grido le renne si misero in movimento.

Per cinque ore la slitta scivolò attraverso foreste innevate e sopra campi gelati, e i due non scambiarono neanche una parola. Solo quando, dalla cima di una collina, videro aprirsi davanti a loro un’ampia valle, Angol disse: «Mentre macellavamo una renna, il coltello è scivolato di mano a Eskil e lo ha ferito qui». Indicò un punto all’altezza del fianco.

«Ha perso molto sangue?»

«Parecchio. Ho ricucito il taglio come hai fatto tu con me l’anno scorso»

«Ah, è vero!»

Quella volta Angol si era ferito un piede con una scure.

«Ora vedremo» mormorò Einar.

Alcune donne uscirono da una capanna e tirarono un sospiro di sollievo quando scorsero Einar. La moglie di Eskil aveva pianto, lo si capiva dagli occhi, ma ora sorrise.

«Adesso che sei qui, lui starà bene» disse.

Einar entrò nella capanna buia e si inginocchiò accanto al cuscino del paziente.

«Mi servono luce e acqua calda!» ordinò.

Lavò la ferita e tagliò il filo con cui Angol l’aveva ricucita. Poi la osservò con attenzione.

L’arteria della gamba destra era quasi del tutto recisa, l’unico modo per salvare quell’uomo era sottoporlo a una difficile operazione chirurgica.

Il medico tamponò e fasciò la ferita.

«Vestitelo e avvolgetelo per bene nelle pellicce» ordinò alle donne.

«Sul serio?» chiese Angol.

«Sì, devo portarlo in ospedale»

«Nel tuo?»

Einar sorrise. Come si poteva chiamare “ospedale” la stanzetta con quattro letti che aveva sistemato nella sua casetta?

«No, un ospedale più grande. Dobbiamo portarlo a Stoccolma».

La moglie di Eskil si avvicinò e chiese al medico: «Perché vuoi portarlo via?»

«Non posso guarirlo da solo»

«Ah!»

«Ma devi stare tranquilla»

«Lo sono. Adesso che sei qui, lui starà bene»

«Farò tutto il possibile» disse Einar «ma solo Dio sa se…»

«Lui starà bene, perché ci sei tu» ripeté fiduciosa la donna.

«D’accordo» borbottò Einar. Lui era lì, e per i lapponi rappresentava speranza e salvezza allo stesso tempo. Come spiegare loro che era soltanto un povero dottore e non poteva far altro che tagliare, suturare e praticare iniezioni?

“Adesso che sei qui, lui starà bene”. Questo era quel che dicevano tutti, ormai da più di vent’anni. Come se lui fosse in grado di compiere qualsiasi miracolo!

«Svelto, Angol, mettiamolo sulla slitta!»

«Se fossi da solo non credo che ripartirei. Il vento ora tace, ma tra poco tutti gli dèi soffieranno la loro furia su questa terra»

«Che ululino pure quanto vogliono!» rispose Einar, salendo sulla slitta insieme ad Angol.

Le renne partirono al trotto.

Einar rimase a guardare le donne, ferme immobili davanti alle loro capanne, finché la slitta non scese ai piedi della prima collina e loro sparirono alla vista.

Eskil si era assopito sotto un mucchio di pellicce.

«Più veloce, Angol!»

«Ae! Ae!»

La slitta fece un balzo in avanti, sulla neve resa dura e scivolosa dal gelo. Un flebile scintillio di luce rivelava che il sole era ancora alto nel cielo.

Einar guardò gli zoccoli delle renne, si muovevano così veloci che gli vennero le vertigini. Per due volte Angol dovette fermarsi per togliere frammenti di ghiaccio dalle zampe degli animali.

All’improvviso lunghe ombre coprirono tutta la superficie innevata e anche la volta celeste.

Le spaccature del ghiaccio non scintillavano più e dal cielo fattosi plumbeo ora penetrava pochissima luce.

«Ae! Ae!» Angol incitava le renne.

Poi scoppiò a ridere, perché per tre volte aveva provato a sputare, e per tre volte lo sputo congelato gli era caduto sulla pelliccia.

«Neanche il tempo di arrivare a terra!»

«Già, fa davvero freddo… Eskil!»

«Ae! Ae!» gridò Angol. «Attenzione!»

Ma era troppo tardi. La slitta si ribaltò ed Einar finì sopra al compagno più anziano. Insieme si rialzarono e la raddrizzarono.

«Succederà spesso di ribaltarci» borbottò Angol. «Il ghiaccio è accidentato e irregolare».

Le renne ripresero la marcia. Angol si spostò in testa per condurle, mentre Einar rimase

dietro e avanzando tra i frammenti di ghiaccio spaccati tentò di mantenere l’equilibrio in quel continuo su-e-giù, su-e-giù, che era il loro viaggio.

«No, non possiamo andare più veloci di così» rispose Angol alla domanda del medico. «Ma tra poco la pista migliorerà, e allora potremo accelerare»

«Ae! Bene» disse Einar. Aveva i nervi a fior di pelle per quell’avanzata così lenta, ma trovava comunque il modo di gioire, pensando che ogni passo in avanti era un altro passo verso la salvezza di Eskil.

«Nel frattempo il tuo branco è cresciuto?»

chiese al malato.

«Ae. Sono quasi mille renne adesso, e sono tutte bellissime»

«Allora hai di che essere contento. Quando torneremo avranno partorito i loro cuccioli e te ne ritroverai il doppio»

«Però c’è un demonio che incombe su di loro, o almeno così sembra» mormorò Eskil.

«Ho già portato i miei proiettili in chiesa per due domeniche, ma…»

Einar sorrise. Appena conclusi gli studi aveva fatto domanda per essere assegnato in quella regione, per la quale non c’era mai nessun candidato (del resto cosa c’era di più folle che far domanda per una regione di ventiseimila chilometri quadrati, il cui capoluogo, Arjeplog, distava centottanta chilometri dalla stazione del treno più vicina?) e da quando era lì, circa trent’anni ormai, aveva sentito ripetere a ogni singolo abitante della Lapponia questa superstizione: “Per abbattere un lupo non basta sparargli normalmente, bisogna farlo con dei proiettili che siano stati portati per due domeniche consecutive in chiesa”.

«E lo hai preso?» chiese.

«Chi? Il demonio? Non sono nemmeno riuscito a vederlo. Solo una volta ho visto passare la sua ombra. Ma sparare alle ombre non serve a niente»

«Eh sì!»

«Ho tentato di raggiungerlo per colpirlo sulla punta del naso con il bastone…»

Anche questo era un modo ben strano di vedersela con i lupi: inseguirlo sugli sci e colpirlo

sul naso. A quel punto, così si diceva, il lupo cadeva a terra morto.

«…ma quel figlio del diavolo me l’ha fatta vedere lui! Mi avrebbe seminato anche se avessi avuto venti renne a trainarmi!»

«Eppure tu e Angol siete degli abili cacciatori»

«Sì, ma contro un demonio non ne bastano due, né duecento. Al momento buono quello sa sempre il fatto suo e… Ahi!»

All’improvviso la slitta aveva ricevuto un violento colpo.

«Ti fa male?» chiese Einar, ma solo per dire qualcosa, perché sapeva già cosa avrebbe risposto l’altro. «Presto avremo del ghiaccio più liscio sotto i pattini e scivoleremo veloci come la corrente»

«Ae, dottore… è profonda la ferita?»

Eskil parlava solo per opporsi alla sonnolenza provocata dalla febbre e dal dolore.

L’oscurità nel frattempo avanzava, il vento soffiava più forte, e dalla superficie ghiacciata si levò una fitta nebbia.

«Abbastanza» rispose Einar. Gli facevano male le braccia per tutto quel sollevare, soste-

nere, raddrizzare e frenare la slitta, che continuava a sobbalzare sul ghiaccio gibboso.

Angol, davanti, tirava una corda per aiutare le renne. Anche lui doveva essere stanchissimo, ma non lo diceva.

«Ae!» gridò dopo circa mezzora. «Ce l’abbiamo fatta!»

Piccoli ghiaccioli gli pendevano dai baffi.

«Adesso possiamo riprendere la corsa, la pista qui è buona».

Einar sospirò. Solo in quel momento si rese conto che non avrebbe potuto resistere un minuto di più.

«Bene» disse «saliamo anche noi a bordo allora!» E mentre prendeva posto aggiunse: «Il cielo ha un aspetto che non mi piace». Fiocchi di neve turbinavano nell’aria, foschia e nebbia avvolgevano ogni cosa.

«Tra poco non riusciremo a vedere più nulla»

«Eh già!»

Le renne percepivano l’arrivo del maltempo e fecero un paio di tentativi di filarsela. Angol dovette ricorrere alla frusta.

«Uh! Uh!» gridava, ma la tempesta era così

violenta che nemmeno Einar, seduto accanto a lui, riusciva a sentirlo.

«Che giornata terribile» gli gridò Angol all’orecchio. «L’avevo detto!»

Einar annuì. Aveva ragione, ma dovevano continuare lo stesso, perciò gli fece cenno con la mano di proseguire.

«Ah, bene» esclamò ancora Angol. «Un mezz’uomo, sì, ma duro come una roccia».

Il medico rise. Quando era arrivato nella regione, molti lapponi lo avevano preso in giro chiamandolo “mezz’uomo”, perché era alto appena un metro e cinquanta ed era esile come una fanciulla.

In quei trent’anni però aveva dimostrato loro di che pasta era fatto, ogni volta che era andato a visitarli coprendo faticosamente ampie distanze sugli sci oppure a piedi. Avevano dunque preso a chiamarlo anche “il nostro folletto” – un soprannome ispirato dai lineamenti del suo viso – ma per loro era un folletto buono, un folletto che dispensava vita, e tutti erano felici di frequentarlo.

«Presto arriveremo alla foresta di Skjankhi» gridò Angol.

Bene. Lì almeno il vento sarebbe stato meno feroce e finalmente avrebbe potuto riaprire gli occhi. Adesso doveva tenerli chiusi per via dell’aria gelida e pungente, e ciò non attenuava affatto il dolore, anzi lo tramutava in un vero e proprio tormento.

Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di settembre 2024 con un processo di stampa e rilegatura certificato 100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI

Silenzio…

Tutto intorno regnava un silenzio assoluto. Si udiva solo lo scricchiolio della neve sotto i passi di Einar.

Tutto a un tratto riecheggiò un frastuono infernale e prese a farsi sempre più vicino. Erano i lupi, che ululavano al cielo la loro fame. All’improvviso ammutolirono. Dovevano essere arrivati nei pressi della slitta. Einar si voltò.

A circa duecento metri di distanza un intero branco trotterellava silenzioso. Circa un’ora dopo si voltò di nuovo: il branco era ancora sulle sue tracce.

Einar Wallquist è l’unico medico presente nel Nord della gelida Lapponia. Ha scelto lui di vivere lì, per aiutare i coraggiosi lapponi nella lotta contro il clima rigido e la natura selvaggia. Ogni giorno porta con sé una nuova missione: questa volta bisogna salvare la vita al vecchio Eskil e farlo arrivare il prima possibile all’ospedale di Stoccolma. Einar si arma quindi di audacia e determinazione, carica il paziente su una slitta e comincia il suo viaggio, pronto ad affrontare i tanti pericoli che lo attendono lungo la strada. La storia di un eroe silenzioso realmente esistito, rocambolescamente ritrovata e pubblicata per la prima volta in Italia.

“La natura infuriava incontrastata, senza che nessuno le opponesse resistenza. I lapponi restavano in piedi solo grazie al loro coraggio; ma cosa può fare il coraggio, se non è sorretto dalla speranza? E la speranza di tutti loro era Einar”.

Il romanzo “perduto” del maestro Manzi

Consigliato dagli 8 ai 99 anni

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