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LE SAVANTURIER1
Questo saggio si basa su due conferenze tenute al Circolo dei Lettori di Torino e al Teatro Sociale di Bellinzona. La loro versione integrale, dal titolo Veduta dall’alto: i quartieri quadrati, è stata ridotta per la pubblicazione. Il nome del relatore è a oggi sconosciuto.
Torino, 1° novembre 2012
[…] Per la verità, da parte materna la famiglia era sempre stata più a suo agio sotto terra che in aria. Non so bene per quale motivo lei avesse deciso di cimentarsi con l’aerostato, suo padre l’aveva avvisata di andare in giù e non in su, come già avevano fatto tutte le generazioni prima di lei. Chi per mare, chi per terra, si erano tutti diretti verso il basso, a nessuno era mai venuto in mente di guardare all’insù, e questo, per quanto si possa sapere, era proseguito fino alla nascita di mia madre. Prima di lei, tutti i nuovi nati erano venuti al mondo a testa in giù e culo in aria.
1 Crasi: Savanturier, Savant-Aventurier nome maschile. Figura tipica della letteratura di genere del XIX secolo che unisce l’immagine dell’accademico alle doti dell’avventurierio in viaggio per luoghi sconosciuti e misteriosi.
Il pallone aerostatico di mia madre riposava floscio nella rimessa degli attrezzi da più di quindici anni: lo aveva abbandonato dopo l’incidente di Namur con la sonda meteorologica. Era stato suo padre a recuperare la vela: l’aveva piegata per bene, cosparsa di naftalina, e riposta tra gli attrezzi da giardino. L’abitacolo, però, si era irreparabilmente danneggiato dopo lo schianto al suolo. Della cabina era rimasto solo un metronomo, che usava per i suoi esercizi fisici, e un piccolo cannocchiale astronomico. Non intendo comunque parlare oltre di questioni familiari, perché poco hanno a che vedere con quanto mi è stato chiesto. Penso quindi sia giusto proseguire nel descrivere ciò che accadde durante il viaggio che io stesso intrapresi con l’aerostato. L’intento era quello di scoprire il punto esatto in cui i venti occidentali, scendendo di latitudine, si trasformano in alisei. E questo obiettivo poteva essere raggiunto solo portandosi a un luogo abbastanza elevato, dove poter studiare dall’alto i movimenti dell’aria. Tutto ciò che volevo fare all’epoca era arrivare alla stratosfera, ancorare il mio veicolo e osservare. L’ancoraggio aereo sa- rebbe dovuto avvenire attraverso una complicata struttura composta di vele oblique, mentre il lato destro dell’abitacolo era stato prolungato con un apposito rostro retrattile, sulla cui estremità avevo posizionato un comodo sellino in gommapiuma, a fungere da osservatorio. Con me avevo il metronomo di mia madre, più per scaramanzia che altro, sette matite a mina dura e un quaderno nero dai bordi rossi.
Fu probabilmente la giovane età a tradirmi, almeno questo è ciò che penso ora che mi impegno a ricordare. Quando mi è stato chiesto di raccontare ad altri ciò che avevo visto, sono andato a sedermi sul ballatoio di casa: di solito è sui balconi che riesco a pensare meglio. Non so dire bene quale sia il motivo, ma credo che la mente necessiti del vuoto per potersi concentrare, che abbia bisogno di sporgersi per riuscire a passare oltre il quotidiano. Il procedimento non è dei più semplici, ci sono diversi ostacoli da vincere prima di poter iniziare a riflettere. Innanzitutto, bisogna trovare un posto adeguatamente comodo, impresa tutt’altro che banale su una lastra di pietra profonda non più di due metri. Una volta sistemati per bene, arriva il momento del balzo. E anche in questo caso la faccenda è molto più complicata di quello che sembra: prima bisogna oltrepassare i vasi facendo attenzione a non rovesciarli, quindi si devono spostare con delicatezza le piante. Arrivati finalmente alla balaustra, c’è da saltare. Il lancio è la parte più delicata del processo: quando si salta non bisogna avere tentennamenti, ma è necessaria anche molta cautela. Lo slancio deve essere potente, in caso contrario si rischia di cadere. D’altra parte, la forza del salto non può essere eccessiva, per evitare di rimanere impigliati nelle tende della signora Rosa che calano dal balcone di sopra.
Una volta superati tutti gli ostacoli della partenza, quelli in cui è più facile perdersi, i vasi da cambiare, le piante da bagnare, le tende di Rosa che scendono troppo, non è ancora finita. Adesso bisogna uscire dal cortile: andare in su. Una volta puntata la direzione, fissato lo sguardo verso l’alto, la vista laterale si offusca. Nel preciso istante in cui le finestre e i panni stesi che sporgono dai ballatoi si annebbiano, in quel momento inizia il viaggio verticale verso la stratosfera.
E ora eccomi sull’aerostato, dall’alto si intravedono ancora i vasi, le piante, i balconi. Tutti belli in ordine, fianco a fianco, tra i palazzi, si aprono nuovi cortili. Perfettamente squadrati, quasi identici, separati da muri dai quali sporgono altri balconi, vasi, piante, balaustre e tende. I quadrati dei cortili si fanno sempre più piccoli, intanto crescono i quadrati degli isolati, tanti, tutti uguali. E le piazze diventano cortili e gli isolati diventano quartieri, con i loro quadrati, uno dentro l’altro, dai quali sporgono nuovi balconi, vasi, piante, tende. Adesso potrei cavarmela andando avanti con qualche osservazione scientifica sulle correnti troposferiche, o qualche altra in più sull’applicazione del principio di Archimede al volo aerostatico. Pensandoci bene però, capisco che non è di queste faccende che mi è stato chiesto di parlare, e che la questione è molto più controversa di quanto possa sembrare. In effetti, ciò di cui dovrei rendere conto è qualcosa di cui mi ritengo tutt’ora privo – che, badate bene, non è certo l’ingegno tecnico, ma qualcosa di più profondo. Sto parlando di quello che accade quando il pensiero, scontrandosi con la materia, la trasforma. Negli anni ho tentato senza successo di definire tale composto: una lega fatta di due elementi di segno opposto, in grado per questo di fluttuare nell’aria. Qualcosa che sta sopra la realtà e non la nega affatto, ma la sorvola, guardandola dall’alto.
Mi rendo conto che la mia ricerca non si è affatto conclusa, e so quanto complesso sia l’argomento che la anima: per questo ho bene in mente che non arriverò mai a una conclusione. D’altronde, quanto più gli enunciati sono controversi, tanto più è difficile sperare di arrivare a una verità. In questi casi, si può solo mostrare il processo che ha portato a un certo risultato, per poi lasciare agli altri il compito di trarre le loro conclusioni.
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Francesco La Rocca è nato a Torino nel 1983. Ha studiato Diritti Umani e lavora nel sociale. Per Gallucci ha già pubblicato Interno corte . Prima di diventare un libro, Le Perifantaferìe si sono fatte conoscere e amare sotto altre forme, inclusi un tour metropolitano e un podcast su Spreaker.
In copertina: illustrazione di Claudio Malpede