

ViNIcio RacContAmi riccaRdo Bucciero
CApoSsela in vivavoce









Una cosa che ho capito è che, se non si divide il buio, si tradisce sempre la luce; insomma, se non si condivide un po’ la propria parte oscura, si coltivano delle clandestinità interiori che impediscono di vivere al sole.
Sounds
Riccardo Bucciero
Raccontami Vinicio. Capossela in vivavoce
ISBN 979-12-221-0789-9
Prima edizione: aprile 2025 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2029 2028 2027 2026 2025 © 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma
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Riccardo Bucciero Raccontami Vinicio
Capossela in vivavoce
A Massimo, che ha reso possibile il viaggio.
A Vinicio, che ha guidato dall’inizio alla fine.
Introduzione
Come molti della mia generazione, mi sono imbattuto in Vinicio Capossela all’epoca del liceo, nei primi Anni Duemila. Merito di uno di quei compagni di scuola che poi finiscono inghiottiti dal tempo. “Suona qualcosa di vecchio, ma canta qualcosa di nuovo. Non so spiegartelo altrimenti, non so dire diversamente perché ti piacerà…” Più dell’analisi approssimativa, furono due particolari abbastanza originali della copertina del Cd che tenevo tra le mani a catturare la mia attenzione: l’abbondanza di rosa e il baffo da sparviero, quasi disegnato, che mi sembrò tradire da solo buona parte dell’audacia del personaggio. Quell’album non è mai ritornato al proprietario – forse per questo ho dovuto dimenticarne le generalità –, ma la sua recensione, in realtà buona per un’infinità di novità discografiche, era stata efficace. Gli echi del jazz, della musica sudamericana e mariachi si rivelarono facili, a differenza delle parole, del loro significato e del loro incedere, talvolta fulmineo e rocambolesco, talvolta strascicato; un impasto di racconti e visioni tanto evocativo da risultare diverso a ogni ascol-
to, come un carotaggio che approdava a vari strati emotivi. O come un volo intercontinentale dall’Irpinia a Cuba. Supposi che lì stesse il “qualcosa di nuovo”.
In un’ora scarsa si passava dal freddo avvilente all’ustione, dalla solitudine nottambula si virava al turbinio di una balera, sfilando per lo sposalizio indigesto di un contrabbassista ingrato, tra baci dati alla morte e a donne amate, neri riarsi e bianchi lattiginosi. Questo mi ha fatto Camera a sud: mi ha segnato e appiccicato al suo autore, in modo lento, ma inesorabile. Da allora, anche fantasticando sulla comune provenienza geografica emiliana, iniziai a recuperare i lavori precedenti e a studiare la produzione contemporanea, senza tralasciare l’attività dal vivo, a partire da quella al Fuori Orario di Taneto; ho provato a lungo a contare i concerti visti lì la notte di Natale o nei giorni appena successivi, ma non sono stato in grado di arrivare a un numero definitivo. Colpa delle età passate, dei biglietti smarriti, delle amnesie delle compagnie e soprattutto della natura stessa di quegli spettacoli. Giusto così.
Poco dopo mi è parso che l’ascesa di Capossela da promessa a punto di riferimento del cantautorato italiano sia stata inarrestabile, tra istantanee di smarrimenti suoi e di memorie condivise. Una quindicina d’anni per passare dalla prima Targa Tenco (ottenuta nel 1991 con All’una e trentacinque circa) al primo posto delle classifiche nazionali (ottenuto nel 2006 con Ovunque proteggi; impresa peraltro bissata nel 2016 con Canzoni della cupa, che entrò diretto alla numero uno). Un successo raggiunto e conquistato, per sua stessa ammissione, “non come un fiore,
ma come un rampicante”. Dallo spaventoso risultato della vetta commerciale, Vinicio ha continuato a vagare per territori più o meno inesplorati, portando indietro ogni volta “qualcosa di nuovo”, ma mantenendo sempre una precisa identità. Le divagazioni musicali e strumentali, dalla ballata trobadorica all’electro dub, e quelle letterarie, dalla mitologia omerica alle impietose considerazioni sulla condizione delle carceri, costituiscono forse la cifra più interessante della sua arte: la vastità.
Una vastità che ha riecheggiato nei luoghi scelti per le registrazioni, che si trattasse della grotta carsica di Ispinigoli, del Castello Aragonese di Ischia o di uno studio delle Officine Meccaniche di Milano, e in quelli per la riproduzione della musica, così imprescindibili da imporre relazioni costantemente nuove e dense di significato, che si trattasse di un prato di Calitri all’alba o del Teatro Bellini di Napoli, privato delle sedute in velluto per consentire al pubblico di ballare con mani e piedi liberi (è accaduto nel 2012, durante il tour di Rebetiko Gymnastas). La moltitudine di forme e contenuti ha reso Vinicio difficile da classificare, nonostante certo giornalismo di settore abbia fin da subito scomodato paragoni e affinità elettive con Paolo Conte, Bob Dylan o Tom Waits, non a caso tutti soggetti restii a qualsiasi tipo di schedatura, musicale e non. D’altronde è proprio nel vuoto di definizioni e appartenenze che gli artisti di grande caratura hanno saputo esprimersi in modo libero e proficuo, senza curarsi troppo di debiti accademici che poco o nulla hanno a che fare con la funzione dell’arte. Se possibile, anzi, ho avuto spesso l’im-
pressione che Capossela abbia giocato in maniera sorniona con i recinti dei generi e delle ispirazioni, entrandovi e uscendovi ogni volta meno puro, ma più ricco e felice, ben sapendo che a fare lo sforzo maggiore erano certi osservatori, e che la complessità, nell’arte – parafrasando il suo adorato Charles Bukowski –, è come l’innamoramento nella vita, “un grande, bellissimo casino”. Soltanto su una cosa penso che sia rimasto irremovibile: l’onestà intellettuale, intesa come approccio rigoroso e al contempo curioso della sua ricerca.
Un’altra cifra, questa sì, comune ai mostri sacri appena evocati è il mistero che lo avviluppa. Un cantautore si confida con i suoi pezzi, eppure, dopo averli consegnati all’immaginario collettivo, accetta che ognuno sia libero di leggervi e vedervi ciò che vuole o che può. Meglio evitare disvelamenti eccessivi della propria realtà, così come fornire spiegazioni troppo dettagliate della propria opera; nel dubbio, o se messi alle strette, è preferibile dissimulare, restare nel campo del verosimile, offrire versioni lievemente discordanti. Il nostro incantatore è rimasto fedele alla linea. Ho tentato, ad esempio, a varie riprese di dare un volto e dei connotati a uno dei personaggi per me più enigmatici dell’universo caposseliano, l’Estèr da Ravarino di Che coss’è l’amor; oggi ho elementi per figurarmi lei e i suoi gusti in fatto di uomini. Allo stesso modo ho scoperto nome e cognome della regina-barista del Florida.
Questo libro, questa raccolta è nata anche per provare a scrutare da vicino quell’inafferrabilità, andando a stanare l’autore dietro parole sui cui già tanti e preparatissi-
mi interpreti avevano scritto. L’idea di partenza è stata di Massimo Cotto, una guida tanto immensa quanto discreta: “Raccontiamo Vinicio, raccontami Vinicio. Proprio lui, non parlo dell’artista, poi certo si dà il caso che sia anche un grande artista. Niente canzoni, libri, domande e risposte, solo frasi sue, smontate e rimontate come un’opera dadaista, secondo un filo logico deciso da te, ma che rispetti sempre il senso voluto da lui. Insomma, raccontalo come se non potesse obiettare. Dimenticavo una cosa importante, muoviti, vorrei leggere il tutto a breve”. Quando, tra l’estasiato e lo stupito, gli chiesi una mezz’ora per pensarci, scoppiò a ridere di gusto e in un paio di secondi si era già volatilizzato.
Da quel momento è iniziato prima un percorso a ritroso nella mia memoria e nella mia esperienza di fan, poi una vera e propria traversata nel mare magnum di materiale biblio, audio e videografico prodotto da e con Vinicio Capossela nel corso di una carriera trentacinquennale. Una sola regola fondamentale, dunque: niente parole cantate o altre scritte da lui. Nessun romanzo, diario, comunicato stampa, articolo di giornale, nota di copertina o testo che recasse in calce la firma V.C. Come ovvio il problema non si è posto per quanto registrato in audio (le ospitate radiofoniche o i podcast) e in video (le partecipazioni a rassegne e a eventi pubblici, le lectiones magistrales negli atenei, le ospitate televisive o le presentazioni di album, libri e documentari). L’intento di utilizzare frasi e battute che non fossero state messe nero su bianco da V.C. è stato quello di rimuovere il maggior numero di filtri e avvicinarsi il più
possibile alla spontaneità, esiti che l’improvvisazione e l’oralità solitamente concedono.
Una nuova vastità mi si è presentata, stavolta dovuta da un lato allo spazio e al tempo attraversati, dall’altro alla quantità e alla qualità degli interlocutori incrociati in oltre tre decenni di giro. Ci sono i ricordi d’infanzia e le interviste sfacciate a giornali e radio locali di inizio carriera, stagione in cui farsi conoscere e lasciare un segno con una frase a effetto erano obiettivi capitali; i programmi televisivi in seconda serata con tanto di esibizioni dal vivo, quando i conduttori si concedevano il lusso di discettare di Alfred Jarry e dell’inutilità della patafisica; le lezioni universitarie con docenti quasi intimiditi davanti a masse di studenti adoranti che ascoltavano in religioso silenzio (tra le migliori domande rivoltegli ci sono senza ombra di dubbio le loro); i cinema e i teatri gremiti di pubblico di ogni età, rapito dai resoconti sulla dignità e sulle sorti del popolo greco durante il periodo della crisi economica; l’avversione per l’anglosassone Santa Claus, importato a discapito del nostrano san Nicola e per motivi assai meno nobili: l’epifania del vino a una festa a Scandiano da ragazzo e l’apologia di Lambrusco e Barbaresco da adulto; le chiacchiere sulla vita con Gianni Mura (degno di nota il suo apprezzamento per le cannazze al sugo di carne), Fernanda Pivano, Vincenzo Mollica, Paolo Rumiz o con alcuni giganti del giornalismo musicale come Mario Luzzatto Fegiz, Ernesto Assante, Federico Guglielmi, Paola Maugeri e ancora Massimo Cotto che, in una splendida intervista realizzata nel 1996, ai tempi de Il ballo di San Vito, riesce nell’impre-
sa più unica che rara di coniugare riflessioni sulla geografia dell’anima, diagnosi dell’irrequietezza patologica e moniti davvero sensazionali in fatto di scarpe, maschili e femminili (“Sempre diffidare dal tacco basso!”).
Un aspetto incredibilmente stimolante è stato la mole di incontri fatti lungo questo minuzioso percorso di decostruzione e ricostruzione. Libri, testi sacri, traduttori, antropologi, musiche tradizionali e nomi tuttora troppo poco noti al grande pubblico – come Matteo Salvatore o Enzo Del Re – registi, poeti, ristoranti, produttori di vino e angoli reconditi di città, in particolare di quella accoglitrice di emiliani che è Milano. In estrema sintesi, l’incontro con il mondo stesso di Vinicio Capossela. Per non parlare delle tante storie legate alla musica e degli aneddoti sulle singole canzoni, sulle sessioni di registrazione o sui momenti di giubilo vissuti sopra e sotto il palco con il fedelissimo pubblico, cresciuto negli anni insieme a lui. Quel pubblico che ha saputo seguire il bardo-esploratore votato all’avanscoperta perenne, persino su terreni impervi e sconnessi, perché certo di trovarvi qualcosa di proprio; un pubblico che si è visto e riconosciuto nelle sue lingue, nei suoi viaggi, nelle sue sbronze, nella sua essenza. Dai locali degli esordi chiusi a suon di Chimay, Bacardi e Jamaican Rum agli odierni All you can eat.
A proposito di attualità, nello sguardo di Capossela si distingue una profonda lucidità, dote comune alle menti veloci e capaci di intendere il loro presente. Talvolta le sue analisi sulle sfide che ci troviamo ad affrontare ogni giorno lasciano trasparire amarezza e perplessità, che però non
riescono mai a scardinare del tutto la fiducia nella compassione e nelle virtù dell’umano; in fondo l’algoritmo non può essere una condanna senza appello, poiché in noi “sarà sempre innato il desiderio di sentire una storia raccontata”. Alla luce di una consapevolezza che sa sconfinare nell’urgenza, credo che ancora oggi – dopo aver registrato dischi, scritto libri, organizzato manifestazioni, girato documentari e aver preso parte a un’infinità di altre battaglie – le scelte di questo raffinatissimo artista siano condotte e orientate sul binario della generosità. Ne ho avuto ulteriore conferma al concerto che ho visto il 1° luglio 2024 a Villa Arconati.
Come dicevo, ho assistito in diverse occasioni ai live di Vinicio. Escludendo quelli al Fuori Orario nei giorni delle feste natalizie, mi ricordo bene di date al Teatro Smeraldo di Milano, in piazza Castello a Mantova e in piazza San Giovanni a Roma, durante un Primo Maggio. Una delle ultime volte risaliva al 13 luglio 2006, a una stratosferica edizione del Pistoia Blues Festival, in piazza del Duomo. Da quel concerto decisi di mettere un freno alla mia “fissazione giovanile” e di dedicarmi pure ad altri artisti, data la finitezza delle risorse economiche. Insomma, mi sarei fatto bastare gli album. Invece, complice il libro che stavo confezionando, ho riascoltato la sua musica dal vivo, a quasi 18 anni di distanza e guarda caso per il trentennale di Camera a sud, eseguito dall’inizio alla fine.
Quel compleanno importante è stato forse il pretesto per una maggior loquacità tra un brano e l’altro e per lasciarsi andare a una sana nostalgia, sentimento che abita
di per sé la musica di Capossela. A parte questa sorpresa, la componente che ho ritrovato maggiormente è stata appunto la generosità; nei confronti della sua arte, di una splendida band, di un pubblico da tutto esaurito, di chi non c’era ma c’era comunque (dal sassofonista e arrangiatore Antonio Marangolo al vicino di casa Salvatore), di chi era tornato apposta (Teo Ciavarella all’organo Hammond, accolto sul palco come un parente arrivato dall’America, con una felicità che si toccava dalla platea), di un luogo magico e suggestivo che gli aveva addirittura regalato l’incontro con Jimmy Scott. Visto l’evento eccezionale, nonostante l’estate e il cielo terso, non si sono viste neanche le zanzare, che di solito lì in zona volano in stormi e raggiungono la dimensione degli elicotteri. Ho notato tante cose quella sera: i sorrisi, il sudore, il desiderio di suonare con musicisti che come lui giocano e godono, la voglia di fare tardi perché l’ultimo bicchiere dei bis riarrangiati potrebbe di colpo trasformarsi nel penultimo, la gratitudine per esserci ed esserci così. Non si può ricordare con dovizia di particolari il modo in cui si torna a casa da concerti di un’epoca fa, perché certe sensazioni svaniscono nel giro di ore o tutt’al più di giorni, ma lo si può fare quando ci sono ancora avvinghiate addosso. Sulla strada del ritorno, mi sono fermato a rimuginare e a cercare di capire: era come se lo spettacolo a cui avevo assistito e i brani che avevo riascoltato qualche ora prima fossero cresciuti, non in meglio o in peggio, ma nella loro densità, come se vi fosse stata aggiunta materia; e che l’avessi messa io, lui o il tempo era del tutto irrilevante.
Tutto ciò e molto altro è stato alla base di questa specie di antologia. Nella montagna enorme di frasi e parole ho selezionato quelle che mi sono sembrate più idonee a raccontare un uomo e un cantautore che ha attraversato un numero imprecisabile di vite artistiche, cambiando altrettante pelli e che sospetto non rimanga lo stesso nemmeno nelle quattro fototessere per i documenti. Ho estrapolato una sorta di frasario essenziale, conscio di poter delineare di volta in volta solo piccoli frattali di una figura intera, ma tanto è bastato a me per avere un’altra chiave di lettura delle sue invenzioni, scoprire, approfondire, riflettere e divertirmi; sì, in fondo, mi sono molto divertito. Mi auguro che vecchi e nuovi fan possano fare lo stesso.

riccaRdo Bucciero
è nato a Reggio Emilia nel 1986 ed è laureato in Giurisprudenza. Ha lavorato per quattro anni come autore e redattore al programma La Zanzara su Radio 24 e da otto anni è autore del programma Rock & Talk su Virgin Radio.
Immagine di copertina: © Henry Ruggeri
Foto dell'autore: © Dario Bologna
Art Director: Stefano Rossetti
Graphic Designer: Davide Canesi / PEPE nymi
Vinicio Capossela è uno e centomila. Un rabdomante, giocoliere, cantautore, artista ra nato dalle tante facce. Si potrebbe descrivere in molti modi diversi, e sarebbero tutti veritieri. Questo ritratto, tra gli infiniti possibili, lo racconta attraverso le sue stesse parole tratte da interviste, ospitate, presentazioni, rassegne ed eventi durante 35 anni di carriera. L’uomo Capossela raccontato da se stesso, in vivavoce.
CON UNA RICCA INTERVISTA INEDITA A VINICIO CAPOSSELA

“SONO COme uN vIANDANtE
Che SI mette IN StRADA
PeR veDeRe DOve LO CONDuCONO
I PRODIGI DEGLI INSONNI”