MENZIONE D’ONORE XII PREMIO LETTERARIO “Gen. Loris TANZELLA”
PICCOLA STORIA DI FIUME 1847 - 1947
a cura di Rodolfo Decleva
In copertina: La Torre Civica di Fiume, acquarello di Luciano Wiederhofer
PICCOLA STORIA DI FIUME 1847 - 1947
8888 di Rodolfo Decleva
Dedicato a Mario Dassovich
PICCOLA STORIA DI FIUME 1847 - 1947
INDICE PREFAZIONE ....................................................................... 7 1848 - 1868
LA DOMINAZIONE CROATA............................................. 8
1914 - 1920
LA GRANDE GUERRA IN GALIZIA................................ 12 Legione Redenti in Siberia sezione fiumana................... 14
1919 - 1920
L’IMPRESA DANNUNZIANA........................................... 17 La Marina Italiana al fianco di D’Annunzio.................... 21
1921 - 1922
LO STATO LIBERO DI FIUME.......................................... 22
1924 - 1940
FINALMENTE ITALIANI!................................................. 26
1941 - 1945
VERSO LA FINE ................................................................ 32 La “ Porcata ” Italiana del 1941....................................... 34 Giovanni Palatucci........................................................... 37 Il Küsterland tedesco....................................................... 38
1945 - 1947
L’INIZIO DELLA FINE....................................................... 39
10 FEB 1947 LA FINE DI FIUME ............................................................ 46
CONCLUSIONI .................................................................. 52
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PICCOLA STORIA DI FIUME 1847 - 1947 II Edizione - impaginata da ilpigiamadelgatto
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PICCOLA STORIA DI FIUME 1847 - 1947
PREFAZIONE Spesso mi sono posto la domanda di come intitolare questa mia ricerca e testimonianza, che riguarda da vicino le vicende storiche della città in cui sono nato e dove ho vissuto con sufficiente lucidità di osservazione gli eventi dal 1936 al 1947. Ritengo con buona ragione che la definizione di “Piccola Storia” possa compensare le tante lacune del mio lavoro, giustificato in primo luogo dalle stesse lacune da me rilevate nelle letture storiche più complete o che almeno si presentano come tali. Il Regime Fascista ci aveva insegnato una storia molto addomesticata mentre svolgeva la sua opera di italianizzazione della regione giuliana con metodi che oggi definiamo generosamente come sbagliati. Anche il corso della campagna nei Balcani, e soprattutto l’avventura italiana nel Territorio del Fiumano e della Kupa, con l’annessione nel 1941 da parte nostra di 1350 km. quadrati di terre altrui, ci venne presentata con un’esposizione di parte come spesso accade tra storici di fazioni opposte. Per questo motivo ho cercato di rispettare l’obiettività della narrazione omettendo per carità cristiana - essendo passati ormai quasi 70 anni - i nomi di quelle persone che presero decisioni sbagliate. Ho citato invece alcuni nomi e cognomi dei 600 cittadini fiumani e italiani che pagarono con la vita o il carcere la loro italianità per dare la giusta credibilità della situazione di terrore che fu instaurata dalle Autorità titine e che si tradusse nell’Esodo spontaneo di almeno il 90 percento della popolazione.
Fiume, dal 1947 diventata Rijeka
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1848 - 1868 LA DOMINAZIONE CROATA La città di Fiume mai era stata croata benchè inserita geograficamente nella Croazia austriaca e mai i fiumani scelsero di appartenere alla Croazia, alla quale furono soggetti solamente dal 1848 al 1868. Appartenendo agli Asburgo, Fiume conobbe l’autonomia comunale già nella metà del 1400, concessa dall’Imperatore Federico III, e trovò la sua definitiva consacrazione nel 1779 quando divenne “Separatum Sacrae Regni Coronae Hungariae Corpus” cioè Corpo separato e autonomo annesso alla Corona ungherese attraverso un atto della Sovrana Illuminata Maria Teresa, regina regnante d’Austria e regina regnante d’Ungheria, Boemia, Croazia e Slavonia. Quasi 70 anni dopo, nel 1848 successero dei fatti che provocarono la rottura tra l’Austria e l’Ungheria e precipitarono la città di Fiume dall’amministrazione ungherese a quella croata, che la governò per 20 anni perdendo così la sua secolare autonomia. Era successo che in quell’anno si verificarono dei moti rivoluzionari anti-asburgici non solo a Milano e Venezia, ma anche nella stessa Austria e in Ungheria dove gli insorti, guidati dal patriota Lajos Kossuth, proclamarono l’indipendenza dall’Austria. Il nuovo Stato magiaro - che invano aveva sperato nell’aiuto francese e inglese - durò appena 17 mesi e venne sopraffatto dalle truppe austriache agli ordini del croato Conte Josip Jelacic’, e composte da ben 40.000 soldati croati, che sconfisse gli insorti ungheresi a Schwechat.
Il Conte Josip Jelacic’, Bano di Croazia e di Fiume. Era un poliglotta: parlava le lingue slave, tedesco, italiano e francese. Nel 1849 era contemporaneamente Governatore di Croazia e Slavonia, Fiume e Dalmazia, autonome dalla Dipendenza ungherese. Aveva combattuto molte battaglie per gli Asburgo e i croati lo hanno trattato da eroe e salvatore della Patria. I Fiumani avevano con lui un buon rapporto perché li preservava dalle ingerenze politiche del Consiglio Banale di Zagabria.
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Di conseguenza, per punire l’Ungheria da una parte, e dall’altra parte per premiare l’importante aiuto ricevuto dai croati, l’Austria cambiò il destino di Fiume per cui fu annullato il “Corpus Separatum” ungherese, spodestato il Podestà fiumano Giuseppe Agostino Tosoni, e la città, privata della sua autonomia, passò sotto l’amministrazione croata governata dal Conte Jelacic’, che venne nominato Bano, grado equivalente a Governatore. La presa della città avvenne a cura di un Reggimento comandato dal Capitano Josip Bunievac, che facilmente sopraffece la Guardia Nazionale di Fiume, comandata dal fiumano Pietro Scarpa, e destituì il Governatore Janos Erdoedy che fece mestamente ritorno in Ungheria. Il Proclama firmato dal Cap. Bunievac recitava tra l’altro: “Confratelli, la Vostra libertà municipale nel senso delle patrie leggi e tutte le istituzioni civili, verranno conservate e mantenute in pieno vigore e vi sarà conservato l’uso della Vostra lingua italiana e verranno ugualmente rispettate tutte le nazionalità presenti”.. Nel ventennio di governo croato, la cittadinanza protestò inutilmente contro tale situazione politico-amministrativa, ma solo nel 1867 - quando dall’Impero asburgico nacque la nuova Austria-Ungheria come unione di due Stati perché la precedente armonia tra i due popoli si era ricomposta - i fiumani poterono reclamare l’autonomia perduta ed essere ricongiunti sotto l’amministrazione ungherese, e ciò avvenne nel 1868. Da quel periodo il Governo di Budapest - essendo Podestà il fiumano Giovanni de Ciotta - attuò per Fiume uno strepitoso sviluppo economico nei settori stradale (la Strada Carolina e la Strada Giuseppina), ferroviario (il troncone per i traffici verso Trieste e l’Italia sino a San Pietro del Carso, e la linea ferrata in pendenza FiumeKarlovaz, che assicurava il collegamento con la rete magiara e con i mercati del Centro Europa orientale), industriale (stabilimenti industriali di alta tecnologia quali il Silurificio, il Cantiere Navale, la Raffineria Petroli), marittimo (capolinea di linee di navigazione) e commerciale (import-export e credito), l’ acquedotto e un nuovo Piano Regolatore con costruzione di importanti edifici storici e residenziali a cura dell’Arch. Giacomo Zamattio, triestino. Il Porto Franco - esistente dal 1719 con privilegi analoghi a quelli goduti dal rivale porto di Trieste che serviva l’Austria - venne ampliato con nuovi moli, rive, magazzeni (opere all’avanguardia che consentivano il contemporaneo lavoro nave- vagone-deposito anche in caso di pioggia), linee ferroviarie interne, attrezzature e la diga foranea (sino ad allora di 250 metri), mentre per l’importante traffico dei legnami fu realizzato l’adiacente Porto Baross. Pure altri piccoli porti furono costruiti per le necessità del silurificio, del cantiere navale e della raffineria petroli. La città conobbe anche una notevole crescita demografica, e conservò sempre gelosamente la sua impronta italiana nel quadro di una civile convivenza con e altre numerose etnie, soprattutto croati e magiari, che numerosi affluivano a Fiume, attratti dalla crescente offerta di lavoro. 9
Inizialmente l’Ungheria era molto tollerante verso questa identità italiana della cittadinanza e i rapporti fiumano-magiari erano ottimi con il Delegato di Fiume nella Dieta di Budapest, che poteva esprimersi nella lingua di Dante. La “ Gazzetta di Fiume” del 15 Aprile 1861 così scriveva: “È questa la lingua che i fiumani tutti fecero loro lingua natale, che ereditarono dai loro padri e conservarono come causa precipua del loro incivilimento e benessere commerciale e sociale. Togliere ai Fiumani la lingua italiana è impossibile”. Purtroppo, verso la fine del ’800 questi buoni rapporti fiumano-magiari si modificarono a causa di una nuova politica di Budapest verso Fiume, che introdusse nuove regole e “riforme” intese a magiarizzare la città, considerata debitrice verso l’Ungheria per il benessere ricevuto, e queste riforme stabilivano in primis l’obbligo della lingua ungherese nelle scuole superiori e successivamente una Polizia di Stato accanto a quella comunale. Con la fine dell’idillio ungaro-fiumano, l’autonomia fiumana si scoperse orfana dell’Italia in quanto appartenenza non solo culturale, e di conseguenza immediatamente si sviluppò un movimento irredentista filo italiano con lo scopo di sensibilizzare la Nazione “madre” sui problemi dell’italianità presente da secoli a Fiume, “sognando un giorno di poter vedere la città annessa al Regno d’Italia”. Nel 1893 - in contrapposizione con la Sala di Lettura croata (Narodna Citaonica) istituita durante il banato del Conte Jelacic’ - fu fondato il “Circolo Letterario Fiume” con lo scopo di organizzare biblioteche popolari e conferenze, alle quali venivano invitati i migliori letterati e poeti italiani al fine di conservare e affermare l’identità storica della città. Al risveglio politico in senso italiano della cittadinanza fiumana - che nella stragrande maggioranza era di lingua e cultura italiana - si accompagnò un analogo movimento nazionalista della minoranza croata ispirato al Hrvatski Narodni Preporod (Risorgimento Popolare Croato), molto attivo nel vicino sobborgo di Sussak. Un altro movimento in crescita croato - anch’esso molto sviluppato a Sussak - era quello dei Sokol, che erano circoli ginnici (precursori dello scoutismo inglese) che attraverso l’educazione fisica miravano a creare un’ideologia panslavista e quindi a prò della croatizzazione di Fiume. All’inizio del nuovo secolo le spinte nazionaliste dei sudditi dell’Impero austroungarico cominciarono a scalfire più apertamente l’ordinamento unitario, anche se spesso tollerante, dell’Impero e in questo quadro - come già detto - la pressione croata si distingueva tra le altre. In Dalmazia molte amministrazioni italiane erano già state sostituite da quelle croate per causa dell’efficace propaganda slava, ma a Fiume - dove i croati erano in netta minoranza, rappresentando meno del 20 percento della popolazione - essi preoccupavano soprattutto per l’appoggio e gli aiuti che ricevevano da fuori.
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Michele Maylender nacque a Fiume l’11.09.1863 e si laureò a Budapest in giurisprudenza. Nel 1893 fu tra i Fondatori del più importante Circolo letterario italiano a Fiume e nel 1896 fondò il Partito Autonomista. Nel 1897 fu eletto Sindaco succedendo a Giovanni De Ciotta e fu Sindaco pure nel 1901. Dopo pochi mesi si dimise per dedicarsi a studi storici e cominciare la sua ricerca monumentale sulla “Storia delle Accademie d’Italia”. Fece ritorno alla vita politica nel 1911 venendo eletto Deputato alla Dieta di Budapest dove morì colpito da infarto nello stesso anno 1911. Sua sorella Edvige era andata in sposa ad Antonio Grossich, scopritore della tintura di iodio nel 1908, e futuro Presidente del Consiglio Nazionale Italiano nel 1918.
In questa situazione politica, a Fiume dominava su tutti il Partito Autonomo - guidato da Michele Maylender - già Sindaco di Fiume (1897-1899) cui successe Riccardo Zanella - che con il suo motto “Fiume ai Fiumani” guardava principalmente alla conservazione dei privilegi del Corpus Separatum con l’Ungheria, pur restando severo vigile nella difesa dell’identità italiana della città.
Lo Stemma di Fiume con i Santi Patroni Vito e Modesto.
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1914 - 1920 LA GRANDE GUERRA IN GALIZIA Quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale nel 1914, le madri cantavano: “Una madre che ama i suoi figli anche quelli della giovine età ... Nò i gaveva compiudo i vent’ani i va’ in Galizia inocenti a morir” . Fiume era il Corpus Separatum della Corona Ungarica, ma non tutti i fiumani richiamati dai 20 ai 42 anni fecero parte dei Reggimenti di fanteria o cavalleria degli Honved ungheresi a Pecs, perché una parte venne inquadrata anche nel 97° Reggimento austriaco, che aveva stanza a Trieste. Il primo scaglione di 4300 soldati del 97° venne imbarcato sui carri bestiame per arrivare dopo 1000 chilometri a Leopoli, che quella volta si chiamava Lemberg, oggi in Ucraina, a fare una guerra cruenta senza sapere il perché né il percome. E cantavano: “E sù per la Galizia e sò per i Carpazi vestidi de pajazi ne tocara’ morir” . I nostri non erano nati per fare la guerra, non erano guerrieri come i prussiani o come i bosniaci, che mio padre descriveva sul fronte italiano tremendi nel difendere col pugnale le posizioni, indomiti e senza paura, al punto che gli attacchi regnicoli si indirizzavano sempre contro altri soldati dell’Impero perché dove c’erano i bosniaci non si passava. I nostri somigliavano ai furlani, quelli della Furlania, che spavaldamente sul Fronte italiano si dicevano per darsi coraggio fra di loro: “Se i vien, scampim; se no, batim dur” . I nostri usavano autodefinirsi “demoghela” e così cantavano: “Quà se magna, quà se beve, quà se lava la gamela. Zigaremo “demoghela” fin che l’ultimo sarà.” Anche se potevano darsela a gambe, era pur sempre una soluzione per riportare a casa la pelle e il canto proseguiva: “Marciar, marciar, mi batte il cuor s’accende la fiamma dell’amor quando vedo un militar scampar. E quando passa el Regimento le gambe mie tremar mi sento: la Gigia Valzer vorrei sposar.” Demoghela, scampar, un giro di valzer con la mitica “Gigia Valzer” - la futura Lillì Marlen dei tempi nostri - quelli erano i loro sogni e non la Galizia. E così il 97° Reggimento, conosciuto a Fiume come “el Sibunoinzig Reghiment Infanteri”, non si fece onore sul fronte, dove l’Alto Comando Austro-ungarico gli fece pesanti e oltraggiose accuse di insubordinazione e di diserzione. 12
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C’è da dire che l’Impero asburgico era formato da gente che parlava differenti lingue e in quelle sperdute pianure carpatiche i nostri vi avevano trovato polacchi, cechi, armeni e ebrei con i quali era molto difficile il rapporto umano e soprattutto i Comandanti del Reggimento triestino si susseguivano senza avere il tempo di dare un’impronta ferma e decisa alla truppa. E poi ci fu l’errore dell’Alto Comando nell’aver calcolato che la Russia non sarebbe entrata in guerra per difendere i serbi, e ciò aveva provocato un ritardo nell’organizzazione, decisivo e negativo nei primi scontri con i russi, che vedevano impegnati nella battaglia due milioni di combattenti dove i nostri erano i più impreparati. Il battesimo del fuoco per il 97° avvenne il 26 Agosto 1914 e fu un assoluto disastro: più del 70 percento del Reggimento fu perso per morti, feriti e diserzioni. Immediatamente l’Alto Comando indicò il 97° quale capro espiatorio della grave sconfitta e il Comandante d’Armata Conte Pflanzer-Baltin, convocò Ufficiali e soldati, e pubblicamente li insultò sputando per disprezzo e gridando vergogna. La reazione tra i nostri fu immediata e gli Ufficiali - rischiando la Corte marziale per insubordinazione e inosservanza delle procedure - decisero di presentare una petizione direttamente all’Imperatore affinchè l’insulto venisse ritirato e fosse ridato l’Onore al 97°. E così avvenne che lo stesso Conte Pflanzer-Baltin riunì in seguito Ufficiali e truppa dando soddisfazione ai nostri, ma ciò non toglie che le cose in Galizia andarono “storte”, come risulta anche dal Memoriale del Gen. Arthur Brosch, da cui sono state riprese queste note. Così non fu invece per i fiumani arruolati nella Honved ungherese, che si batterono col massimo coraggio ed onore, come è testimoniato a Pècs dove la Cittadinanza nel 1932 ha loro dedicato un bassorilievo in bronzo e marmo con la seguente dedica: “Il Regio Magiaro 19° Reggimento Fanteria Honved di Pècs Ad imperitura gloria dei Combattenti del IV Battaglione Fiumano Teatro di Guerra Russo 1914: Jammerstahl, Polanica, Cerkowna, Cicsarka, Klewa, Ruskiput, Pikut e Djlok”
Karl Freiherr von Pflanzer-Baltin (1/6/1855, Pécs, Hungary - 8/4/1925, Vienna) Il generale di Cavalleria (x) con i suoi ufficiali.
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LEGIONE REDENTI IN SIBERIA SEZIONE FIUMANA
Foto: “La Fototecnica Bologna� Collezione: Rodolfo (Rudi) Decleva Stato Maggiore: Col. Marco Cosma Manera (centro); da sinistra: Cap. G.Longobardi; Cap.Di Giovanni; in seconda fila: Magg. U.Marchini; Ten. G.Fanciullacci; Ten. F.Colombis Sottufficiali: A.Avian; G.Baschiera; D.Benussi; E.Conti; F.Klinz; V.Lenaz; A.Mizzan; E.Ossoinack; U.Vranich; F.Tauser; B.Vezzil; V.Zangherle Legionari: I Fila: F.Albertini; V.Anci; G.Babich; G.Barcovich; L.Bellina; V.Benas; S.Benzan; F.Benzan; M.Blasich; A.Blazicevich; II Fila: L.Bruss; M.Buda; M.Busich; D.Carpenetti; R.Carposio; G.Castelli; A.Chinchella; A.Ciuffarini; A.Colizza; A.Colman; P.Cucich; III Fila: U.Dalbosco; M.Deotto; F. Decarli; R.Duiz; R.Dulmin; G.Franch; G.Fremont; F.Flezzani; A.Frizzoli; G.Gecele; A.Gecele; D.Ghersani; IV Fila: G.Grubessich; G.Gugnali; B.Hervatin; F:Hofmanrichter; G.Jurman; L.Lamberti; M.Laurencich; A.Laviani; E.Lenaz; G.Lorenzini; P.Lucich; E.Mattei; L.Menard; V Fila: M.Miani; P.Nacinovich; F.Paolin; D.Perenzi;G.Peritz; F.Piantanelli; A.Prinz; G.Prinz; G.Rossini; O.Rudmann; G.Rusich; M.Segnan; VI Fila: V.Segnan; A.Sirola; R.Situlin; A.Slappach; G.Smoquina; M.Spini; F.Stebellini; R.Stulz; R.Tibliaz; A.Toljan; F.Tommasini; VII Fila: G.Tomlianovich; S.Wertheimer; E.Vranich; G.Zanier; G.Zar; G.Zustovich
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E mentre i fiumani venivano mandati in Galizia “inocenti a morir” per l’Imperatore, l’Imperatore - subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 - internava nel Campo di Internamento di Tapiosuly (ora Sùlysàp), a 36 km. da Budapest, intere famiglie fiumane che erano ritenute compromesse con l’irredentismo per l’Italia. Furono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e ci furono pure due matrimoni. Nel 1996 una Delegazione della Società di Studi Fiumani - guidata da Amleto Ballarini con interprete il fiumano-ungherese-genovese Alessandro Imro - si è recata sul posto erigendo un cippo ricordo grazie anche ad un tangibile sostegno del Libero Comune di Fiume in Esilio. Questa la dicitura apposta: “Qui furono sepolti 149 italiani di Fiume. La Società di Studi Fiumani di Roma li affida alla pietà della nobile Nazione ungherese a perenne ricordo di una città che le appartenne e perché nulla più divida la fratellanza consacrata nel comune Risorgimento”. Benkò Istvàn, Sindaco di Sulysàp - non richiesto - disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno subito”. Fatte queste premesse con ombre e luci fiumane sul campo di battaglia, esaminiamo cosa successe per i “fortunati” che caddero prigionieri nelle mani dei russi. Si calcola che almeno 25.000 soldati trentini, triestini, istriani, fiumani e dalmati di lingua italiana e facenti parte dell’esercito austro-ungarico vennero fatti prigionieri dai russi. Per tale motivo, dopo l’entrata in guerra nel 1915, l’Italia decise di inviare una Commissione in Russia, ormai alleata, con lo scopo di convincere questi poveri soldati ad arruolarsi nella appena costituita “Missione Militare Italiana”, raggiungere il fronte italiano e combattere per liberare le terre italiane ancora sotto il giogo austriaco. La vita nei campi di prigionia russi era pura lotta per la sopravvivenza caratterizzata da fame, freddo, neve che copriva i tetti, pidocchi, malattie, nessun futuro e perciò non fu difficile trovare le adesioni di questi disperati che con l’opzione per la nazionalità italiana accettarono di cambiare la divisa austriaca col grigioverde italiano. Ciò malgrado circa 10.000 di loro non accettarono il ricatto di tornare a casa vuoi per fedeltà all’Imperatore o perché non volevano più sentir parlare di guerre dopo la tremenda esperienza vissuta in Galizia. I Redenti vennero concentrati a Kirsanoff e da qui fu organizzato il loro rientro in Italia via porto di Arcangelo passando per i porti della Francia e dell’Inghilterra, ma si poterono effettuare solo due viaggi per un totale di circa 4.000 persone e l’operazione si interruppe sia per il ghiaccio che bloccava la navigazione nei mesi invernali che perché nel frattempo era scoppiata la Rivoluzione russa del 1917. Sotto il comando del Col. dei Carabinieri Costa Manera, si formò così tra i rimasti la “Legione Redenta in Siberia” che - non potendo più rientrare in Italia - si spostò a Vladivostok e nella Siberia Orientale in appoggio all’esercito antirivoluzionario, presidiando la ferrovia Transiberiana. Da qui poi passò in Cina dove a Tientsin c’era la Concessione Italiana, protetta e 15
garantita dal Governo cinese dopo la rivolta dei Boxers del 1900. Si potè così procedere al rimpatrio dei Legionari via San Francisco mentre un piccolo contingente dei redenti rimase di stanza a Tientsin, quale presidio di quel lontano lembo di terra italiana: era l’anno 1920, che pose fine a sette anni di indicibili sofferenze. Come sempre succede, sui libri di storia che parlano della Prima Guerra Mondiale si legge solo delle grandi battaglie di Verdun, della Marna, di Caporetto e del Piave mentre poco si parla dell’asprezza delle battaglie sul fronte russo. Arrivata l’annessione di Fiume e della Venezia Giulia all’Italia, le vistose perdite giuliane e fiumane in Galizia, gli internati di Tapiosuly, la gloria del 19° Honved e la tragedia del 97° furono ignorati per lasciare il posto solo ai Caduti regnicoli che avevano combattuto contro l’Austria, al ricordo dei quali vennero eretti targhe, lapidi e monumenti celebrativi. Per le vedove e gli orfani fiumani non ci furono monumenti o lapidi ove piangere i loro cari dispersi e abbandonati per sempre in Galizia mentre per i nostri sopravissuti doveva bastare la gioia di aver riportato la pelle a casa dall’inferno russo e così cantare: “Cavai, cavai, cavai porta i soldai Soldai, soldai, soldai porta i cavai. Chi vive se la passa Chi more va in casson. La Banda la vien, la Banda la vien, La Banda Militar” E con essi svanirono nel dimenticatoio anche i fortunati superstiti della “Legione Redenta in Siberia”, ai quali tuttavia il Regime li autorizzò a fregiarsi di un Distintivo speciale denominato ironicamente “Distintivo per le Fatiche di Guerra” come da Regio Decreto 21.05.1916 n. 641.
Decleva Rodolfo, Soldato del 97° Regimento “Demoghela” a Trieste. Era appena tornato dall’America con una Medaglia d’Argento per Merito sul Lavoro, svolto sul fiume Mis- sissippi dal 1910 al 1913.
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1919 - 1920 L’ IMPRESA DANNUNZIANA Francesco Giuseppe governava l’Impero Austro-Ungarico dal 1848 e dopo la parentesi dei moti d’Ungheria, sedati nel 1867, aveva assicurato al suo popolo multietnico un assoluto periodo di pace e lavoro nel quale i suoi sudditi lo contraccambiavano con una sincera fedeltà e obbedienza. Fu nel 1914 che quel momento magico della Casa Asburgo e dell’ “Austria Felix” si interruppe quando a Sarajevo venne assassinato il Principe Ereditario Francesco Ferdinando, provocando così l’entrata in guerra dell’Austria contro la Serbia il 28 Luglio1914 e conseguentemente - per il gioco delle Alleanze - l’inizio della I Guerra Mondiale. L’Italia era legata all’Austria dal Trattato della Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia) firmato a Vienna il 20.05.1882 che però era difensivo, ragion per la quale l’Italia preferì rimanere neutrale e non intervenire. E infatti rimase neutrale per un anno. Nel 1915, siccome l’occasione era favorevole per una ulteriore acquisizione delle terre irredente ancora in mano all’Austria, l’Italia aderì il 26.04.1915 alla Triplice Intesa con Francia, Inghilterra e Russia firmando in segreto il Patto di Londra che - in caso di vittoria - avrebbe assegnato all’Italia Trento, Alto Adige, Trieste, Istria, parte della Dalmazia e Valona (in Albania) con esclusione di Fiume che non venne citata o dimenticata. Dopo quattro anni di duri scontri, quando l’andamento della guerra volgeva male per l’Austria-Ungheria, il nuovo Imperatore Carlo d’Asburgo istitui’ nuove regioni slave includendovi anche Fiume, privandola dello status di Corpus Separatum dell’Ungheria, e ciò provocò il famoso discorso di Andrea Ossoinack, Deputato fiumano alla Dieta di Budapest, che disse nel suo discorso in italiano: “Ritengo mio dovere di protestare qui alla Camera, in faccia al mondo, contro chiunque volesse assegnare Fiume ai Croati perché Fiume non soltanto non fu mai croata, ma anzi fu italiana nel passato e tale rimarrà nell’avvenire”. Era il 18 Ottobre 1918. Sconfitta l’Austria, Fiume venne occupata dagli eserciti italiano (in maggioranza), americano, inglese e “francese” cioè soldati di colore e dei possedimenti asiatici. Di colpo sorsero le ambizioni croate di far propria la città che costituirono un Consiglio Nazionale in contrapposizione al Consiglio Nazionale italiano presieduto dal Dr. Antonio Grossich - gloria fiumana in quanto inventore della tintura di jodio - che aveva proclamato il 30 Ottobre 1918 l’annessione di Fiume all’Italia basandosi sulla nuova dottrina di Wilson dell’autodeterminazione dei popoli. Il Consiglio Nazionale inviò pure in Italia cinque giovani per chiedere aiuto: Giovanni Matcovich, Giuseppe de Meichsner, Mario Petris, Attilio Prodam e Giovanni Stiglich, ricordati come gli “Argonauti del Carnaro”, e la loro missione 17
ebbe successo dato che l’Italia immediatamente inviò le tanto attese navi della regia marina italiana di guerra: i tre cacciatorpediniere “Stocco”, “Sirtori”, “Orsini” e l’incrociatore “Emanuele Filiberto”. Il Governatore ungherese Jekel-Falussy aveva nel frattempo abbandonato la città affidando i poteri al Podestà Antonio Vio, che nulla potè fare con la sua irrisoria Guardia Municipale di fronte alla occupazione del Palazzo del Governo da parte delle forze militari croate, che vi insediarono quale Bano supremo della città l’Avv. Riccardo Lenac. L’occupazione croata si risolse quando il Gen. Enrico di San Marzano, Comandante della III Armata, decise di interrompere l’abuso e innalzare nel Palazzo del Governo il tricolore nel nome di un’amministrazione interalleata della città. In città si opponeva alle ambizioni croate, che erano spalleggiate dalle truppe francesi, Riccardo Zanella, che era succeduto a Maylender alla guida del Partito Autonomo e impersonava la difesa dell’italianità della città nel quadro della sua autonomia. Gli scontri fra le opposte fazioni però non diminuivano e ci furono 9 soldati francesi morti, e a seguito di questo grave evento venne sciolto il Consiglio Nazionale italiano, quello che il 30 Ottobre aveva proclamato l’ annessione all’Italia, e soprattutto da Parigi-Roma giunse l’ordine di togliere da Fiume il Reggimento dei Granatieri di Sardegna, che era una garanzia politica per i fiumani, che fu spostato a Ronchi.
Antonio Grossich nacque a Pinguente d’Istria, il 7.06.1849, studiò a Graz e si laureò in medicina a Vienna. Nel 1886 divenne Primario all’Ospedale di Fiume dove nel 1908 ideò la tintura di jodio, sterilizzante delle ferite esterne, che venne esperimentata per la prima volta nella guerra Italo-Turca del 1911-1912. In quanto irredentista fiumano, conobbe il confino in Austria e al crollo della Monarchia asburgica fu Presidente del Consiglio Nazionale Italiano che deliberò il 30 Ottobre 1918 l’annessione all’Italia. Per i suoi meriti politici e scientifici, fu nominato Senatore del Regno il 19 Aprile 1923. Morì a Fiume il 1° Ottobre 1926. Gli fu dedicato un Viale e un busto in marmo nel Parco Regina Margherita, opera dello scultore Delzotto e fu intestato al suo nome il prestigioso Liceo Scientifico di Via Ciotta.
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Sette Ufficiali del Reggimento - visti i tentativi inutili di emissari fiumani recatisi a Roma per perorare l’annessione - scrissero alla Medaglia d’Oro Gabriele D’Annunzio, eroe, mutilato di guerra, interventista, poeta, scrittore e drammaturgo - di assumere un’iniziativa per non abbandonare l’italianissima città di Fiume, vittima di una “Vittoria mutilata”. Prese così il via la “Marcia di Ronchi” che portò D’Annunzio a Fiume il 12 Settembre 1919 tra l’acclamazione della folla e l’adesione di parte dell’esercito regolare, che apertamente disobbedì agli ordini di sparare. Quello stesso giorno D’Annunzio confermò il Proclama di annessione all’Italia fatto dal Consiglio Nazionale il 30 Ottobre 1918 a dispetto del Governo di Roma, presieduto da Francesco Saverio Nitti che - disapprovando l’avventura dannunziana - invocava il rispetto del Patto di Londra (Fiume alla Jugoslavia) e minacciava i Legionari di procedere con il loro deferimento ai Tribunali Militari, ma erano azioni destinate a rimanere inascoltate. Anzi altri tre battaglioni di bersaglieri, che assediavano la città, passarono con viveri e salmerie agli ordini di D’Annunzio. La cittadinanza - che aveva scampato alla tragedia di venire croatizzata - era tutta per D’Annunzio anche se stretta nella morsa di una situazione economica e alimentare stagnante e molto difficile causata da blocchi navali e terrestri. Tra altalenanti trattative, il nuovo Governo italiano di Francesco Saverio Nitti inviò una nuova proposta a D’Annunzio nella quale - ribadendo che l’annessione di Fiume non era al momento realizzabile - si impegnava di impedire il passaggio di Fiume ai croati e che ne avrebbe decretato l’annessione in un momento successivo più favorevole. Il 15 Dicembre 1919 il Consiglio Nazionale approvò con 48 voti favorevoli e 6 contrari la nuova proposta italiana, che nei fatti avrebbe portato alla fine dell’esperienza dannunziana, e il referendum che la segui’ - nettamente favorevole al suo accoglimento da parte dei fiumani - fu annullato per intervento dei Legionari con la motivazione di provate irregolarità.
Gabriele D’Annunzio fu un eroe di guerra e – oltre che per l’Impresa di Fiume - è ricordato per il ”Volo su Vienna”, dove lanciò manifestini anziché bombe, e la “Beffa di Buccari” dove sfidò la flotta nemica. Inizialmente governò Fiume con la totalità dei consensi dei fiumani per aver evitato il loro passaggio alla Croazia, ma poi le due anime cittadine affiorarono con aspri contrasti per Fiume Libera e Italiana. La sua “Carta del Carnaro” fu una innovazione che anticipava principi di uguaglianza che ancora oggi vengono studiati per la loro lungimiranza. Nacque a Pescara e riposa a Gardone Riviera al Vittoriale degli Italiani sul Lago di Garda dove gli venne edificato un vero mausoleo, mèta continua di estimatori.
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D'Annunzio (al centro con il bastone) con alcuni legionari a Fiume nel 1919
Il 15 maggio 1920 cadde in Italia il Governo Nitti cui successe Giovanni Giolitti, anche lui esigente al massimo del rispetto del Patto di Londra. D’Annunzio - visto il continuo diniego romano di accogliere nel suo grembo l’italianissima Fiume - il 12 Agosto 1920 proclamava a Fiume la “Reggenza Italiana del Carnaro”, una entità indipendente dove D’Annunzio dichiarava di governare per conto del Re d’Italia anche col suo rifiuto, e la Reggenza era estesa anche alle isole di Veglia e Arbe, che vennero occupate dai Legionari. Contemporaneamente D’Annunzio promulgava una Costituzione chiamata “La Carta del Carnaro” - avveniristica per quei tempi - che prevedeva l’esaltazione del lavoro, parità di sessi, diritto di voto a uomini e donne, diritto allo studio, previdenza sociale, l’ ”Habeas corpus”. Il Comandante o Poeta-Soldato - come era chiamato D’Annunzio a Fiume - aveva passato il segno e Italia e Jugoslavia, accordatesi per superare l’impasse, firmarono il Trattato di Rapallo del 12 Novembre 1920 col quale decidevano di rinunciare a Fiume e costituire uno Stato Libero e Indipendente sotto la loro garanzia, che si estendeva dall’Eneo a levante fino a Volosca a ponente. Poiché D’Annunzio rifiutò di riconoscere il Trattato e di abbandonare Fiume, Veglia e Arbe, Giolitti ordinò l’atto finale per far cessare l’occupazione della città, dando ordine al Gen. Enrico Caviglia di usare anche la forza.
Il sanguinoso Natale di Sangue fiumano, che costrinse il Comandante a terminare il suo sogno di una Fiume italiana e migliore. Il suo motto era stato: “Quis contra nos?”. E contro di lui fu la corazzata “Andrea Doria” su ordine di Giovanni Giolitti.
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L’attacco iniziò il 24 Dicembre 1920 con il cannoneggiamento del Palazzo del Governo dove risiedeva il Comandante da parte della corazzata “Andrea Doria” e gli scontri si protrassero sino al 31 Dicembre con 54 morti tra i regolari e i Legionari, e ci furono anche alcuni civili tra i morti. Gabriele D’Annunzio ordinò la sospensione delle ostilità, raccolse pietosamente tutti i morti nelle loro bare, coperte da un’ unica bandiera tricolore, e fece davanti a Loro e a una moltitudine fiumana in lacrime il suo toccante discorso di cordoglio. Quell’evento fu conosciuto e ricordato come il Natale di Sangue dove fratelli contro fratelli si batterono per la città Olocausta. Egli lasciò per sempre Fiume il 18 Gennaio 1921 ritornando su quella stessa storica “Via di Santa Entrata” dalla quale era arrivato con i suoi Legionari partendo da Ronchi, quando tutti i fiumani lo acclamarono festosi e i bersaglieri in armi del Gen. Vittorio Emanuele Pittaluga si rifiutarono di sparargli e i Marinai d’Italia si unirono a lui trasgredendo agli ordini. Sulla mesta strada del ritorno, trovò a Cantrida - distese sulla strada per impedire a lui e ai Legionari di lasciare la città Olocausta - le Donne fiumane con fiori e in lacrime, ultima espressione della febbre fiumana per l’Italia e per il Comandante. La Marina Italiana al fianco di D’Annunzio Il C.T. “Espero” salpò le ancore da Trieste accorrendo in appoggio di D’Annunzio l’8 Dicembre 1920 seguendo l’esempio delle Torpediniere “66 PN” e “68 PN”, dei Cacciatorpediniere “Nullo” e “Bronzetti”e del Sommergibile “F16”. L’ “Espero” fu cannoneggiato dalla Corazzata “Andrea Doria” il 26 Dicembre 1920 che causò la morte del Marinaio Desiderato Rolfini. L’ “Espero” fu poi radiato con disonore e cambiò nome in “Turbine”.
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1921 - 1922 LO STATO LIBERO DI FIUME Chi propose per primo la creazione di uno “Stato Libero di Fiume” fu il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, che al termine della Grande Guerra era stato chiamato con funzioni di arbitro a risolvere i contrasti tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (la futura Jugoslavia nel 1929), che entrambi volevano Fiume, ma che nel Patto segreto di Londra del 26 Aprile 1915 l’Italia aveva ignorato. Infatti nel 1915 Francia, Russia e G.Bretagna avevano garantito all’Italia in caso di vittoria sull’Impero Austro-ungarico - oltre a vantaggi in Dalmazia e isole, il possesso definitivo del Dodecanneso e Libia, e un bacino carbonifero in Turchia - anche Trento, Trieste e tutta l’Istria fino al Quarnero, ma con una nota avevano stabilito nello stesso Documento che “l’intera costa dalla Baia di Volosca ai confini dell’Istria fino alla frontiera settentrionale della Dalmazia, compresa la costa che è attualmente ungherese e l’intera costa della Croazia con il Porto di Fiume” andava assegnata alla Croazia. Il Presidente Wilson era sensibile alla questione fiumana sia perché Fiume era un caso a sé per il suo secolare regime di autonomia nel Regno di Ungheria, e anche perché nell’opinione pubblica americana era diffusa la constatazione che i fiumani mai vollero diventare croati come appariva da un studio compiuto da Henry I. Hazelton nel 1919, che aveva messo in evidenza l’identità italiana della città, composta per il 65% da cittadini di lingua italiana, e solo 22% croati e 13% magiari. Quando ormai l’Impresa dannunziana cominciata il 12 Settembre 1919 volgeva al termine, i Ministri degli Esteri Carlo Sforza per l’Italia e Ante Trumbic’ per il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni firmarono nella Villa Spinola di San Michele di Pagana il Trattato di Rapallo in data 12 Novembre 1920 con il quale entrambi decidevano di rinunciare a Fiume per costituire lo Stato Libero e Indipendente di Fiume sotto la loro garanzia, e stabilendo per il porto di Fiume una funzione utile per tutta l’area balcanica.
Henry Hazelton scriveva nel 1919. Non è l’Italia che reclama il diritto di disporre di Fiume, ma è Fiume che si rivolta al pensiero di diventare parte della Jugoslavia. È Fiume che chiede il prezioso diritto alla autodeterminazione. Siccome gli italiani di Fiume rappresentano, secondo le statistiche austriache e accettate dagli slavi, il 65 percento e nel Plebiscito di Novembre i voti per l’Annessione all’Italia furono l’80 percento, ciò significa che anche gli stranieri di Fiume la vogliano. Il nome di Rijeka, con il quale è chiamata la città dai Croati, non è apparsa mai sulle mappe. Il fatto che Fiume – pur non appartenendo all’Italia - sia rimasta totalmente italiana per oltre 1000 anni, è la più eloquente prova che trattasi di una città italiana. Nella vita politica e commerciale di Fiume, i Croati sono sempre stati considerati come stranieri.
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In quel tempo in città la situazione economica era sempre molto grave non solo per i blocchi navali e terrestri dei regolari italiani contro i dannunziani, ma anche per gli scontri quotidiani tra fiumani, che non volevano accettare lo Stato Libero ma solo l’annessione all’Italia appoggiati dai Legionari e Arditi da una parte, e i fiumani autonomisti dall’altra parte, che avevano coniato il motto “Fiume ai Fiumani” in nome della sua secolare autonomia. Inoltre le cronache internazionali sulla contesa di Fiume e soprattutto le nuove proposte sociali e libertarie di D’Annunzio - racchiuse nella Carta del Carnaro in materia di lavoro, sesso, diritti civili, politici, sociali, etc. - avevano portato in città anarchici, comunisti, fascisti, intellettuali, esaltati di ogni genere oltre che giovani affascinati dal cambiamento che originava dall’esperimento fiumano. Insomma un mondo foresto, disordinato e violento che niente aveva da spartire con i fiumani. A capo degli autonomisti c’era Riccardo Zanella, nato a Fiume il 27.06.1885 da madre slovena e padre vicentino, che era succeduto a Michele Maylender, leader del Partito Autonomista costituito nel 1896 e che nel contempo era espressione anche della identità italiana dei fiumani. Infatti all’inizio dell’arrivo di D’Annunzio, Zanella non era stato contrario alla Proclamazione del 30 Ottobre da parte del Consiglio Nazionale Italiano per l’annessione all’Italia perché si era evitato il male peggiore cioè la cessione alla Croazia, ma poi alla luce di quanto stabilito a Rapallo per lo Stato Libero fiumano - egli ritornò al suo progetto di autonomia. I fiumani furono chiamati al referendum sullo Stato Libero il 24 Aprile 1921 e vi parteciparono il “Blocco Nazionale”, che era ostile allo Stato Libero e voleva l’annessione all’Italia, e gli Autonomisti, che invece erano a favore. Quando in città si sparse la notizia che stavano vincendo gli autonomisti, i nazionalisti, guidati da Riccardo Gigante, Giovanni Host Venturi e dal triestino Francesco Giunta, invasero i seggi e bruciarono le urne, ma il gesto fu inutile perché i Verbali delle votazioni erano già in mano notarile. La carta d’identità di Riccardo Zanella dove si attesta la sua condizione di Presidente dello Stato Indipendente di Fiume. Dopo l’entusiasmo apportato da Gabriele D’Annunzio, che aveva impedito l’assegnazione della città ai Croati, la popolazione fiumana era stressata dai continui scontri quotidiani tra opposte fazioni e soprattutto preoccupata dall’esaltazione di gente foresta che era arrivata da ogni dove, attratta dall’esperimento politico e sociale che era ormai diventato estraneo agli interessi della città. Il 24 Aprile 1921 6114 fiumani votarono a favore degli Autonomisti di Riccardo Zanella e 3440 per D’Annunzio. Riccardo Zanella fu Presidente dello Stato Libero di Fiume dal 5 Ottobre 1921 al 3 Marzo 1922, spodestato da un colpo di stato favorito dalla complicità delle forze militari italiane malgrado che avessero il compito di assicurare l’ordine pubblico.
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Riccardo Zanella vinse in città con 4482 voti contro 3318 e nel territorio fiumano i voti furono 1632 voti contro 122: in totale, 6114 fiumani a favore dello Stato Libero contro 3440 per l’annessione all’Italia. Fu una vittoria schiacciante grazie anche ai croati fiumani che votarono per lo Stato Libero per non diventare italiani. Si procedette alla formazione di un Governo Provvisorio e alla nomina di una Assemblea Costituente ed il Presidente eletto Riccardo Zanella trovò da subito il suo compito molto difficile non solo per il boicottaggio degli annessionisti in seno alla Costituente, ma anche per la difficoltà di reprimere i disordini che quotidianamente scoppiavano in città. L’incidente più grave avvenne il 27 Giugno 1921 quando si venne a sapere che il porto Baross e il Delta erano stati assegnati alla Jugoslavia in cambio della sua rinuncia su Fiume e ci furono 5 morti tra i civili tra cui Glauco Nascimbeni, al quale poi venne intitolata una strada. I lavori dell’Assemblea Costituente proseguivano con lentezza e difficoltà quotidiane mentre gli scontri e le violenze giornalmente aumentavano alimentate da voci che addebitavano a Zanella trattative con l’estero per la concessione di strutture portuali e ferroviarie allo scopo di fare cassa. Il Presidente Zanella inviava continuamente telegrammi al Regio Governo italiano in quanto garante dell’ordine pubblico segnalando scontri tra dimostranti, intimidazioni, esplosioni, interruzioni di servizi tramviari e postali, chiusura di negozi, scuole, fabbriche, etc., ma senza risultato. Tra la fine di Gennaio e i primi di Febbraio la situazione precipitò: il 28 Febbraio la Guardia fiumana di Zanella uccise in uno scontro il Legionario Alfredo Fontana, il primo Marzo fu sequestrato dai fascisti un giovane fiumano e il 2 Marzo venne ucciso da ignoti un giovane fascista pisano, e ciò in aggiunta a tante altre violenze. Il Comitato di Difesa Nazionale decise un’azione armata contro Zanella cui parteciparono 200 fiumani sotto il comando del Ten. Ernesto Cabruna, asso pluridecorato dell’aviazione nella Guerra ‘15-‘18 e già fedelissimo di D’Annunzio. Dopo 6 ore di disperata resistenza, quando le cannonate stavano arrivando sul Palazzo del Governo, Riccardo Zanella si arrese e dopo aver firmato due lettere di dimissioni riparò a Portorè con 3.000 fiumani fedeli. Si concluse così il 3 Marzo 1922 la breve vita dello Stato Libero fiumano costituito il 12 Novembre 1920, vittima di un Colpo di Stato orchestrato dagli annessionisti e supportato dai neo costituiti Fasci fiumano e triestino. La “Voce del Popolo”, nel suo Supplemento Storia e Ricerca del 4 Marzo 2006, pubblicò alcuni stralci del volumetto “Libro Rosso” col quale Zanella descriveva cronologicamente l’accadimento dei disordini orchestrati dagli autori del colpo di stato tra l’indifferenza dei Carabinieri e delle altre Forze dell’ordine. Questa severa frase di denuncia esprime a sufficienza come andarono le cose: “ … si è lasciata indisturbata la situazione anarchica dal 1921 al Marzo dell’anno corrente, e facile e libero lo svolgimento della cosiddetta rivoluzione 24
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del 3 Marzo 1922 che in realtà fu soltanto un’azione di brigantaggio politico in grande stile, preparata in collaborazione di tre Deputati del Parlamento italiano (On. Giurati, De Stefani e Giunta) ed eseguito da cittadini del Regno d’Italia, con la partecipazione di non più di 200 cittadini fiumani e con la cooperazione materiale e diretta di elementi dei Regi Carabinieri, della Regia Finanza, della Regia Marina, e sotto la protezione della delittuosa passività degli altri Reparti dei Carabinieri e delle Regie Truppe di terra e di mare che si trovavano a Fiume, in Abbazia e Mattuglie”. Il Presidente Riccardo Zanella non rientrò mai più a Fiume; visse a Belgrado e Parigi, e al termine del secondo conflitto mondiale si trasferì a Roma dove morì il 30 Marzo 1959.
L’ Aquila fiumana, Stemma della Città dal 1659, che era posata sulla Torre Civica. Nel 1906 venne forgiata nella Fonderia Skull da Giovanni Legan su disegno dello scultore veneziano Vittorio de Marco. L’apertura alare era di 3 metri, pesava 2 tonn. ed era alta 2,20 metri.
Il 4 Novembre 1919 due Arditi di D’Annunzio segarono una delle teste. Si narra che D’annunzio disse: ”Quando mai si è vista un’aquila con 2 teste?”. I Fiumani risposero: “E quando mai se gà visto un leon con le ali?”.
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1924 - 1940 FINALMENTE ITALIANI ! Decaduto de facto lo Stato Libero a seguito del colpo di Stato del 3 Marzo 1922, e continuando i disordini, l’Italia inviò a Fiume il Gen. Gaetano Giardino in qualità di Governatore con il compito di garantire l’ordine pubblico. Nel frattempo Benito Mussolini, che era diventato il Capo del Governo di Roma, iniziò il dialogo con il Regno dei Serbi Croati e Sloveni per risolvere l’appartenenza della città contesa e la spuntò con il Trattato di Roma del 27 Gennaio 1924, sottoscritto tra i due Stati, che congiunse Fiume all’Italia mentre il Porto Baross e il Delta furono ceduti a Sussak. Riccardo Zanella e i suoi, scappati oltre il “Ponte”, erano già dimenticati e l’annessione di Fiume rappresentò per l’Italia anche il compimento dell’Unità d’Italia. Ma l’economia fiumana stentava a riprendersi dopo sei anni di letargo, debiti, disordini e stasi. Il porto era penalizzato dalla concorrenza di Trieste e Sussak, mentre le nuove regole regnicole e la burocrazia regnicola che cominciava ad affluire copiosamente a Fiume confondevano le abitudini dei fiumani abituati alla normativa austro- ungarica quando”ognuno sapeva cosa poteva e non poteva fare; e tutto aveva una regola”. Il primo cambiamento fu il colore delle cassette postali che dal giallo divenne rosso poi vennero le “stevore”, sconosciute o lievi sotto Franz Joseph, che si dovevano pagare in Palazzo Modello dove c’era l’ Esattoria delle Imposte. Anche l’Aquila dannunziana - quella con una testa mozzata dai Legionari - cambiò la testa perchè arrivò l’Aquila romana ed il Fascio, cui i Fiumani aderirono spontaneamente. Anche il Calendario cambiò perchè vide aggiungersi l’Era Fascista in lettere romane, che era iniziata nel 1922, e in seguito verrà abolito anche il nostro rispettoso Lei. Sua Maestà il Re d’Italia arrivò il 25 Marzo 1924 e fu accolto dal nostro patriota e scienzato Antonio Grossich, inventore della tintura di jodio. Fu allestito un pomposo Arco di Trionfo e davanti al popolo festante Grossich, che il 30 Ottobre 1918 aveva presieduto il Consiglio Nazionale Italiano proclamando Fiume unita alla Madrepatria, consegnò a Vittorio Emanuele III - che nel 1923 lo aveva nominato Senatore del Regno - le Chiavi della Città. E da Venezia arrivò in dono il Leone di San Marco, monumento marmoreo, che venne posato in testata del Molo Adamich (Andrea Lodovico Adamich, Patrizio e imprenditore fiumano), che dava il nome anche alla collegata grande piazza. Da quel momento il Molo si chiamò Molo San Marco, la Piazza Adamich fu battezzata Piazza Dante e Molo Adamich fu chiamato il nuovo Molo - costruito davanti al Palazzo Adria e alla Stazione Corriere “Grattoni” - che i fiumani poi chiameranno Molo “Scovazza” per le immondizie che vi venivano scaricate durante l’imbonimento. I cambiamenti in meglio non furono immediati perché l’economia cittadina era stremata e soffocata dai debiti. 26
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Nel 1925 Italia e Regno dei Serbi siglarono a Nettuno un nuovo accordo per definire meglio lo sviluppo della città, ma le conclusioni non furono molto gradite a Belgrado che ratificò il Documento soltanto nel 1929. Di conseguenza per 5 anni il bacino “Thaon de Revel” (magazzini di Molo Napoli levante, magazzini di Riva Thaon De Revel e magazzini di Molo Genova Ponente, con le rispettive attrezzature) messo a disposizione dei traffici balcanici non venne sfruttato, e per giunta l’Italia si vide costretta a costruire un nuovo Bacino Legnami per gli operatori fiumani. Dall’Italia arrivarono investimenti per le industrie più importanti e strategiche quali il Cantiere navale, il Silurificio, la Raffineria e la Manifattura Tabacchi, ma il porto rimase al palo anche perché aveva perso il suo hinterland naturale mentre le navi fiumane dell’Adria Società di Navigazione dovettero passare ai Compartimenti di Trieste e Napoli restando a Fiume solo la sede della Società Fiumana di Navigazione per la navigazione costiera e quella nel Medio e Alto Adriatico. All’inizio degli anni ’30 si cominciò a sentire un deciso risveglio portuale che indusse le Autorità romane a progettare la costruzione del nuovo Molo Palermo specializzato per il traffico bananiero e contemporaneamente - per la sua protezione dallo scirocco - la diga foranea (Mololongo) venne allungata di altri 250 metri. Per affrontare la grave crisi mondiale il Governo di Roma istitui’ nel 1932 l’IRI - Istituto per la Ricostruzione Industriale di cui ne beneficiarono ampiamente le industrie fiumane e si può dire che da quell’anno iniziò per Fiume un periodo di marcato sviluppo e un buon grado di benessere.
Finalmente dopo sei anni dalla fine della guerra l’incertezza, i disordini e il caos erano terminati e con essi la paura di diventare croati. La popolazione accolse con grande spontanea gioia S.M. il Re Vittorio Emanuele III. Era il 16 Marzo 1924 e un Arco di Trionfo fu allestito nel Molo San Marco (ex Adamich). La Marcia di Ronchi e l’Impresa di D’Annunzio non erano state vane. Su proposta del Duce, il Re premiò Gabriele D’Annunzio con il titolo di “Principe di Monte Nevoso”. Il Re fu ricevuto dal Governatore della città Gen. Gaetano Giardino e dal nostro Senatore Antonio Grossich che gli fece dono delle Chiavi della città.
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Fu allora, che Fiume divenne più importante anche politicamente riuscendo a far eleggere alla prestigiosa carica di Senatore del Regno due fiumani: Icilio Bacci e Riccardo Gigante, mentre Giovanni Host Venturi fu Ministro delle Comunicazioni dal 1939 al 1943. Nel frattempo, sin dal 1925 il Governo Mussolini aveva soppresso le libertà democratiche e istituito il Partito unico per cui chi non era iscritto al PNF (Partito Nazionale Fascista) non poteva lavorare negli uffici pubblici. La censura delle notizie, la polizia politica, la propaganda fascista e i Tribunali Speciali facevano si’ che l’ordine pubblico venisse salvaguardato mentre le grandi opere del Regime e le nuove Leggi sociali, che procuravano al popolo lavoro e una vita decorosa, conquistavano sempre più l’adesione delle masse al nuovo corso. Come in qualsiasi altra dittatura, la cura della gioventù veniva al primo posto assicurando a tutti i giovani l’istruzione elementare e l’inserimento nelle strutture associative predisposte a seconda dell’età: Figli della Lupa, Balilla, Avanguardisti, Giovani Fascisti, etc. con rispettive divise, e analogamente per le femmine, per cui era divenuta una cosa normale la socializzazione dei giovani nelle adunate e nelle manifestazioni celebrative per rafforzare la fede nelle opere del Duce e del Regime fascista. Gli adulti fino ai 50 anni d’età diventavano Camicie Nere iscrivendosi come volontari alla MVSN Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed erano parificati alle Forze Armate con la differenza che la loro divisa si contraddistingueva per la camicia nera, per il fez e per il saluto romano. Accanto a quest’opera di propaganda, lavaggio del cervello e militarizzazione, il Regime promosse la costruzione di nuove scuole per debellare l’analfabetismo e i sanatori antitubercolari per la lotta alla tbc; nacque la Previdenza Sociale e la Protezione Maternità Infanzia; e furono istituite per i giovani visite mediche, colonie marine e montane mentre la lettura del libro “Cuore” di Edmondo de Amicis commuoveva per l’amor di Patria e formava l’educazione civica della nuova gioventù che il Regime stava coltivando.
Quanta fatica per le mamme far indossare ai bambini questa complicata divisa. Dai 4 ai 6 anni si era Figli della Lupa; da 8 a 12 Balilla Escursionisti; dai 12 ai 14 Balilla Moschettieri; dai 14 ai 17 si era Avanguardisti e poi Giovani Fascisti. C’era la versione Marinaretti e per le femmine analoghe organizzazioni distinte per età. Le associazioni non fasciste, tra cui gli scout, vennero soppresse; rimase solo l’Azione Cattolica Italiana.
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I genitori - soprattutto quei 3.000 che si rifugiarono con Zanella a Portorè, Buccari e Kostrena e che erano rientrati a Fiume alla chetichella - dimenticarono lo Stato Libero e la loro avversione per l’annessione, constatando che c’era per i loro figli un futuro migliore di quello che avevano avuto loro con Franz Joseph mentre quelli che erano rimasti contrari e che rimpiangevano la libertà perduta, si guardavano bene dall’esprimersi per paura di essere traditi sia da parte di amici esaltati che dalla stessa famiglia. Il controllo della polizia segreta di Stato, l’OVRA, era molto esteso attraverso i suoi informatori che ascoltavano e segnalavano, e i “nemici interni” venivano prontamente colpiti. In cambio, c’era l’ordine, poca delinquenza in giro mentre i treni arrivavano in orario. La minoranza magiara rientrò in silenzio in Patria e il loro esodo non fu notato dai fiumani distratti e mai se ne parlò, nemmeno dell’Ungheria, che aveva rimodellato la città e portato benessere con la costruzione del porto, delle industrie e delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie. I Latini la chiamavano “Damnatio memoriae” e noi a Fiume la applicammo alla lettera. La minoranza croata a Fiume fu tollerata, ma non perseguita pur che rispettosa del nuovo ordine costituito, però l’antica convivenza - che aveva regnato durante l’ amministrazione austro-ungarica secondo cui l’Imperatore era al di sopra di tutti e le varie nazionalità convivevano pacificamente tra loro conservando ciascuna i propri diritti tra i quali la lingua e le tradizioni - era ormai un ricordo molto lontano. I cognomi in ich venivano italianizzati soprattutto per quelli che lavoravano negli Uffici pubblici, i matrimoni misti continuavano come prima mentre le “mlecarize” conservavano titolo a parlare croato e grazie a loro molta gioventù iniziò a balbettare qualche frase di croato. Tuttavia, famiglie croate continuavano arrivare dalla Bodolia insediandosi in Cittavecchia, ma subito italianizzavano il proprio cognome e si fiumanizzavano. In Provincia - dove la lingua d’uso era soprattutto croata o slovena - le cose andarono molto diversamente perché furono chiuse le scuole croate e slovene, e imposto l’italiano anche nelle conversazioni comuni. I sacerdoti che dicevano Messa in slavo venivano perseguiti o sostituiti, e spesso c’erano teste calde premurose di far rispettare con le cattive queste violenze di regime provocando un secondo esodo silenzioso anche se di modeste proporzioni. Nel 1933 venne coniato lo slogan “Libro e Moschetto - Fascista Perfetto”. Il “Sabato Fascista” era un’occasione per vestirsi in divisa e frequentare i Covi, che in Centro era in un pianterreno dell’edificio della Scuola “Emma Brentari” e altrettanto avveniva per le varie Celebrazioni del Regime. La gioventù cresceva con il motto “pancia in dentro e petto in fuori” sviluppando nelle ore scolastiche l’educazione fisica - unitamente alla cura dell’olio di fegato di merluzzo per combattere il rachitismo - per realizzare il 24 Maggio nel Campo 29
Sportivo della Casa Balilla il Saggio Ginnico, che per tante ore classi per classi, e separatamente maschi e femmine, si provava secondo un copione adottato in tutto il Regno. Un Gerarca dava i tempi attraverso l’altoparlante e gli applausi del pubblico esaltavano il perfetto sincronismo di quelle centinaia di giovani scolari. Poi nel 1935 il nuovo slogan “Credere, Obbedire, Combattere” ubbriacò i giovani fiumani nella guerra d’Etiopia promossa per vendicare le sconfitte del 1886 e per creare il “Posto al Sole” onde impedire l’emigrazione verso le Americhe. Noi scolari avevamo in aula, e molti l’avevano anche a casa, la carta geografica dell’Etiopia dove inserivamo una piccola bandierina tricolore sulle città etiopiche che man mano venivano conquistate dalle nostre “eroiche truppe”, delle quali le nostre Maestre celebravano il coraggio e l’ardimento. Alle Sanzioni economiche, che insieme alla condanna per l’aggressione al Negus d’Etiopia ci furono applicate dalla Società delle Nazioni di Ginevra, il Regime rispose con l’iniziativa “Oro alla Patria” e la “Giornata della Fede” nella quale anche i fiumani si distinsero patriotticamente nelle donazioni. Nel 1938 in seguito alle Leggi Razziali 350 ebrei lasciarono Fiume e questo fu il terzo esodo di famiglie fiumane - che sparirono senza farsi notare mentre nelle scuole restarono i posti vuoti degli alunni senza alcun commento da parte delle Maestre. Dei restanti 750 ebrei fiumani, una settantina furono internati e gli altri emarginati. Nel Marzo dello stesso anno la Germania occupò l’Austria e successivamente per evitare la guerra - la Cecoslovacchia dovette cedere i Sudeti alla Germania perché erano abitati da tedeschi. Per non essere da meno, il 6 Aprile 1939 l’Italia invase l’Albania annettendola, ed il 22 Maggio era stato firmato il “Patto d’Acciaio” con la Germania.
La prima pagina del Corriere della Sera del 22 Maggio 1939 che annuncia la firma del “Patto d’Acciaio”.
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In questo clima, il 26 Giugno 1939 arrivò improvvisamente a Fiume il Duce ammarando con l’idrovolante per verificare l’efficienza delle strutture industriali tra cui il Silurificio dato che si sentiva odore di guerra. Nel suo discorso dalla Casa del Fascio, al popolo fiumano impazzito per lui, il Duce parlò principalmente della difesa della razza esaltando i fasti di Roma Imperiale, ma passarono solo due mesi e il 1 Settembre Hitler invase la Polonia dando inizio alla seconda Guerra Mondiale. Così iniziò la nostra tragedia, che portò alla amara conclusione della storia millenaria fiumana. Al 30 Giugno 1940, secondo la Regia Prefettura, c’erano nella Provincia del Carnaro (esclusa Fiume) 60.892 abitanti, di cui slavi 5482, ungheresi 643, austriaci 241, cecoslovacchi 250, altri 317. Ebrei 1.105. Rispetto al Censimento del 1921, nel ventennio gli italiani erano aumentati di 33.296 unità mentre gli slavi (croati e sloveni) erano diminuiti di 38.902.
Per la Festa cittadina del 15 Giugno, dedicata ai Santi Patroni della città Vito, Modesto e Crescenzia, la Cittavecchia si riempiva di festoni di lauro, luminarie e soprattutto di bandiere tricolori. Questa foto è stata ripresa nel 1936 davanti alla mia casa di Calle Barbacane 19 e al negozio di Commestibili del signor Vittorio Viezzoli. Inoltre la Municipalità indiva dei concorsi a premi per composizioni artistiche negli angoli caratteristici, il tanto combattuto Palo della Cuccagna che veniva piantato dai pompieri nella Piazzetta San Micel, e gare nelle varie discipline sportive.
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1940 - 1943 VERSO LA FINE Scoppiata la guerra tra Inghilterra e Francia contro la Germania che aveva invaso la Polonia il 1° Settembre 1939, l’Italia si dichiarò “non belligerante” malgrado che il Patto d’Acciaio italo-tedesco del 22 Maggio 1939 ne avesse previsto l’intervento sia in caso di difesa che di offesa. E mentre l’Italia neutrale prendeva tempo per prepararsi alla guerra, la Germania con la sua “blitzkrieg” - la guerra lampo invece della guerra di trincea - conquistava dapprima la Danimarca e la Norvegia, e poi - aggirando le fortificazioni della cosiddetta invincibile Linea Maginot francese - aggrediva il Belgio e l’Olanda e marciava su Parigi, per cui la guerra almeno sul continente sembrava concludersi. Il nostro Duce - temendo di restare escluso dalle trattative di pace e quindi di non poter reclamare Nizza e la Savoia, Corsica, Malta, il Mare Nostrum, etc. - dichiarò il 10 Giugno 1940 guerra all’Inghilterra e alla Francia, quest’ultima ormai in ginocchio, con un gesto che fu definito la “pugnalata alle spalle”. Quattro giorni dopo i tedeschi occupavano Parigi e 11 giorni dopo la Francia firmava l’armistizio. Purtroppo Mussolini aveva fatto male i suoi conti perché la guerra continuava, e le speranze tedesche di far capitolare l’Inghilterra con il blocco navale e con massicci bombardamenti, rivolti anche a obiettivi civili per demoralizzare la popolazione, non avevano prodotto gli effetti desiderati. Così la gigantesca operazione di sbarco navale sulle coste inglesi definita in codice “Leone marino”, venne rinviata a tempo indeterminato anche perché le mire di Hitler guardavano a Est, cioè all’abbattimento del gigante russo secondo l’ “Operazione Barbarossa”, che doveva scattare nella seconda quindicina di Maggio 1941. Tra i due regimi che mal si sopportavano era stato sottoscritto un ipocrita Patto di non Aggressione Molotov-Ribbentrop firmato il 23 Agosto 1939, che fissava le rispettive zone di influenza e dava tacitamente ai russi impreparati il tempo per armarsi in funzione anti-tedesca e alla Germania la tranquillità strategica a Est nel programmato attacco a Francia e Inghilterra. Alla luce dell’insuccesso dell’attacco agli inglesi, Hitler cambiò strategia e pensò che per prima cosa avrebbe dovuto sistemare l’Unione Sovietica e che la vittoria a Est - pianificata incautamente dal “Piano Barbarossa” in 10 settimane - gli avrebbe facilitato poi la caduta degli inglesi. Nel frattempo il 27 Settembre 1940 Italia e Germania allargarono il “Patto d’Acciaio” al Giappone con lo scopo di spartirsi tre zone di influenza: l’Europa alla Germania, il bacino del Mediterraneo all’Italia e il Continente asiatico al Giappone. Vi aderirono Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Jugoslavia. Senonchè all’insaputa di Hitler, Mussolini, per acquisire prestigio nazionale, dall’Albania annessa nel 1939 sferrò l’attacco alla Grecia il 28 Ottobre 1940 con 32
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un ultimatum di sole 3 ore. Doveva essere una semplice passeggiata secondo lo slogan “romperemo le reni alla Grecia” e invece si tramutò in sconfitta per le nostre forze, bloccate con gravissime perdite sui monti della Grecia. Mussolini chiese aiuto all’Alleato tedesco, che invece era restìo ad intervenire perchè impegnato nella preparazione del prossimo attacco alla Russia. Successe invece che la Jugoslavia - a seguito di un colpo di Stato che aveva defenestrato sia il Governo che il Reggente del Regno, che sostituiva Re Pietro minorenne - rinnegò l’adesione al Patto Tripartito Germania-Italia-Giappone provocando l’ira di Hitler e impedendo anche che truppe tedesche attraversassero il Paese per combattere la Grecia dove operavano forze britanniche. Iniziò così la funesta avventura italiana in Jugoslavia, che diventerà fatale per il destino di Fiume. Il 6 Aprile 1941 la Jugoslavia di Re Pietro - amico dell’Inghilterra e proclamato ex lege maggiorenne a 17 anni - fu attaccata da quattro direzioni dai tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari. Anche da Fiume partì l’attacco e preventivamente la popolazione fiumana venne evacuata dalla città. Quando la popolazione fece ritorno alla città che era rimasta indenne nei tragici eventi, apprese che il suo Vescovo Mons. Ugo Camozzo aveva fatto il voto al Crocifisso miracoloso di San Vito di costruire una chiesa qualora la città fosse stata risparmiata dalla furia della guerra. Venne organizzata pertanto una grande Giornata di ringraziamento con una immensa processione di popolo e subitò partì la raccolta dei fondi per la costruzione della chiesa che si sarebbe chiamata “Tempio del Redentore” con ubicazione nel Giardino Pubblico. Il Regno di Jugoslavia dovette arrendersi e venne smembrato da Germania, Ungheria e Italia restando di esso solo Serbia e Croazia. L’Italia proclamò Lubiana e parte della Slovenia 101.esima Provincia italiana; inoltre terre dalmate vennero annesse a Zara, che decuplicò la sua popolazione allargandosi fino a Sebenico, mentre anche Spalato e Cattaro divennero nuove Provincie del Regno d’Italia.
Mons. Ugo Camozzo, nato a Milano il 28.11.1892 e successo a Mons. Antonio Santin nel 1938, fu l’ultimo Vescovo di Fiume. Seguirà i fiumani nell’esodo nel 1948 venendo assegnato Vescovo alla Diocesi di Pisa. Nell’ultima sua Pastorale scriverà:“Fiumani, siate dignitosi nella vostra sventura. La vostra umiliazione è gloriosa, potete portarla a testa alta e con nobile fierezza”.
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La “ Porcata ” Italiana del 1941
La mappa rappresenta non solo l’acquisizione dell’Italia di parte della Slovenia, ma anche l’estensione acquisita dalla Provincia del Carnaro a seguito dell’annessione di terre e popolazioni croate e slovene quando i confini della nostra Provincia arrivarono sino a Buccari includendo pure le isole di Veglia e Arbe.
Pure Fiume partecipò alla festa: alla Provincia del Carnaro furono annessi circa 1350 chilometri quadrati di territorio croato con 24 nuovi Comuni tra cui Sussak, Buccari e le isole di Veglia e Arbe per una popolazione di 93.000 abitanti di cui ben 87.000 croati. A Sussak vennero dati nomi nuovi alle strade: Via delle Medaglie d’Oro (Prestolonasljednika Petra); Via Vittorio Veneto (Biskupa Strossmayera ul.); Piazza XXVIII Ottobre (Bana Jelaçica trg); Via Sicilia (Gjure Ruzica ul.); Passeggiata Spiridione Stojan (Setaliste Kaçica Miosica); Via Bruno Caleari (Franje Raçkoga ul.); Via Conte Biancamano (Kralja Zvonimira ul.) e Via Eugenio di Savoia (Zrinjska ul.). E anche alla città fu cambiato il nome in Sussa. Il tutto era avvenuto a seguito del Trattato di Roma firmato il 18 Giugno 1941 con il nuovo Stato Indipendente di Croazia presieduto dal Poglavnik Ante Pavelic’, 34
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che prevedeva pure quale Sovrano del nuovo Stato il Principe Aimone di Savoia con il nome di Tomislav II. Iniziò così l’opera di italianizzazione fascista di terre e popolazioni croate, che mai erano state italiane e dove era del tutto assente qualsiasi significativa minoranza italiana. Fu imposta inoltre l’amministrazione controllata di Gerarchi romani e di Fiduciari fiumani e fu reso obbligatorio lo studio della lingua italiana. Pescherecci stipati di prigionieri jugoslavi dell’esercito sconfitto partivano per la detenzione in direzione della Bodolia cantando “Zovi, samo zovi: svi ce Sokolovi …” che significava tristemente “Patria, chiamaci e tutti accorreremo”, mentre nel Bagno Grazko in Delta gli atleti della società di nuoto “Victoria” sfidavano il nuovo Regime sussurrando in coro “Lepa nassa Domovina” e cioè “Bella nostra Patria”, ormai soggetta alla dominazione di Roma. La spartizione della Jugoslavia provocò da subito la formazione di nuclei partigiani di Tito, che col passare dei giorni diventavano sempre più numerosi e consistenti negli attentati contro le Forze militari italiane occupanti malgrado venissero impiegate contro di loro anche forze croate e serbe come gli ustascia e i cetnici. Poiché nel 1942 questi attacchi tenevano impegnata una grossa parte dell’Esercito italiano, la repressione italiana cominciò a colpire la popolazione civile come arma di pressione contro i partigiani. L’Alto Comando della seconda Armata Italiana creò nell’isola di Arbe un campo di concentramento per civili che ospitò complessivamente tra 10.000 e 15.000 persone (anziani, donne e bambini) espulse dai loro paesi e villaggi, dati alle fiamme per essere stati teatro di attacco partigiano. Per raggiungere tale località i deportati erano costretti a lunghe marce e venivano falcidiati dalla fatica, dalle intemperie, dalla fame e dalle malattie; fame e malattie che non li risparmiavano nemmeno quando si trovavano in stato di detenzione nel Campo, dove mancavano anche i servizi igienici e si viveva in tenda. In questo campo furono anche rinchiusi 3.500 ebrei con il lodevole intento - si suppone - di sottrarli alla deportazione in Germania. Un altro Campo tristemente famoso fu istituito a Gonars (Udine) inizialmente per gli sloveni ma poi - a seguito delle nostre rappresaglie in continuo aumento - anche per i civili del Gorski Kotar e dei nuovi territori annessi. Le Camicie Nere fiumane non mancavano di dare il loro appoggio a queste rappresaglie che venivano chiamate “spedizioni punitive” ed erano dirette nelle località vicine a Fiume. L’episodio più grave fu commesso dall’Esercito italiano a Podhum, località annessa alla Provincia del Carnaro nei pressi di Grobnico, dove i partigiani avevano “fatto sparire” i due insegnanti giunti dall’Italia: Giovanni e Francesca Renzi, marito e moglie, perché maltrattavano gli scolari, che malvolentieri si impegnavano nell’apprendimento della lingua italiana. Era il 12 Luglio 1942 e vennero fucilate per rappresaglia 91 persone tra i 16 e i 60 anni in base alla criminale Circolare 3/C del 1 Marzo 1942 emessa dall’Alto 35
Comando dell’Esercito, che fissava la rappresaglia nella proporzione di “una testa per un dente” con lo scopo di colpire più duramente i civili che davano supporto logistico ai partigiani. Il villaggio fu bruciato e il resto della popolazione deportato a Arbe. Solo 10 km. separavano Fiume da Podhum, ma la notizia non si diffuse nella nostra città e rimase top secret per i soli addetti ai lavori, come pure quella sul campo di concentramento di Arbe. Arrivavano e giravano invece fotografie altrettanto crudeli dei nostri fantaccini oltraggiati dai partigiani di Il Monumento di Podhum Tito che mostravano i cadaveri di soldati italiani con le rappresenta un fiore con 91 petali, formati da lastre stellette conficcate negli occhi, con i sassi depositati sul di ottone. ventre sventrato o con i genitali in bocca. Belve umane dell’una e dell’altra parte che erano il prodotto orrendo della guerra e dell’odio. Nel frattempo l’Italia aveva perso l’Etiopia e la Somalia mentre sul fronte libico grazie all’aiuto tedesco - era penetrata in Egitto pregustando di impossessarsi dei giacimenti petroliferi del Medio Oriente senza però mai raggiungerli. L’handicap italo-tedesco era rappresentato dalle difficoltà dei rifornimenti che dovevano giungere dai porti del meridione d’Italia per mezzo di convogli di navi scortate dalla nostra Marina di Guerra, ma sempre più attaccate e affondate dal nemico con ingenti perdite sia di militari che di marittimi, bruciati dal petrolio in fiamme sulla superficie del mare. Anche in Russia, dove il Duce aveva mandato il CSIR Corpo Spedizione Italiano Russia a combattere per compensare l’intervento tedesco dell’Africa Korps in Libia, l’andamento delle battaglie era stato negativo e si concluse con la disastrosa ritirata del Don. Quel mese di ritardo nell’iniziare l’ “Operazione Barbarossa” per la liquidazione della Jugoslavia era stato complice nel produrre quella situazione. L’inizio del 1943 a Fiume si presentava pertanto molto negativo per il porto vuoto - essendo tutte le navi spostate nel Sud per i rifornimenti alla Libia - ad eccezione dei collegamenti quotidiani con Zara e la Dalmazia. Le fabbriche di guerra lavoravano a pieno ritmo mentre la popolazione soffriva i disagi delle tessere annonarie che alimentavano il mercato nero e il baratto. Intanto gli Alleati anglo-americani avevano chiuso la partita anche in Africa Settentrionale e il 9 Luglio ci fu l’atteso sbarco in Sicilia dove il Duce aveva inutilmente promesso di fermare il nemico sul bagnasciuga. Di fronte al precipitare della situazione - e dopo che il Gran Consiglio del Fascismo aveva messo in minoranza Mussolini - il 25 Luglio 1943 il Re ordinò l’arresto del Duce e la sua prigionia in una località segreta, gesto che rappresentò la fine del Fascismo. Non risulta che a Fiume fossero state eseguite gravi vendette contro Gerarchi o esponenti del vecchio Regime. La guerra purtroppo continuava mentre l’Italia, all’insaputa dell’alleato tedesco, preparava la resa incondizionata al nemico e si giunse così allo storico 8 Settembre quando il discorso sibillino del 36
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nuovo Capo del Governo Pietro Badoglio creò il caos militare e la sensazione che la guerra fosse finita. Quella sera si formarono in Piazza Dante e in Piazza Scarpa a Fiume due cortei di antifascisti che si diressero alle carceri di Via Roma per tentare la liberazione dei prigionieri politici. Alcuni reparti detti “metropolitani” giunti dalla Questura spararono alcuni colpi di fucile in aria e tra il fuggi fuggi generale la piccola folla si disciolse o si nascose nel rifugio antiaereo che era in costruzione nella stessa Via Roma. Fiume fu invasa da masse di soldati sbandati che avevano buttato le armi e cercavano di riparare nella penisola per fuggire dall’inferno jugoslavo e fu invece una grossa e dolorosa sorpresa vedere una misera umanità di vecchi e donne, con indosso laceri indumenti tipici dei bodoli della Bodolia, in cerca di un tozzo di pane. Nella Cittavecchia si distinse la signora Maria Mansutti, detta “Maria Kirizza” poi profuga e dipendente delle Poste Italiane di Genova - che organizzò un “centro di ristoro” fra le donne del rione. Si venne così a sapere che questa gente arrivava dalla prigionia di Arbe e che era diretta in Jugoslavia in cerca di ciò che restava dei loro villaggi. I fiumani si riversarono festosi in Piazza Dante, sui moli dove attraccavano le navi della “Società Fiumana di Navigazione” e in Mololongo sperando di vedere l’arrivo di navi alleate, ma accadde invece il contrario e cioè che una decina di giorni dopo giunsero i tedeschi che incorporarono la città nell’“Adriatisches Küstenland”, governato da un Gauleiter che risiedeva a Trieste. In aggiunta, il 12 Settembre 1943 Otto Skorzeny - eroe negativo dell’incredibile liberazione di Mussolini dalla prigionia segreta di Campo Imperatore del Gran Sasso d’Italia - riaprì una nuova fase della guerra che sarà determinante del triste destino che si stava preparando per Fiume e i Fiumani. Giovanni Palatucci In questo contesto storico si colloca la benemerita attività di Giovanni Palatucci, che Israele venera come “Giusto tra le Nazioni” per aver aiutato e salvato ebrei perseguitati dai tedeschi durante le sue funzioni di Questore Reggente di Fiume. L’Italia gli ha conferito la Medaglia d’Oro al Merito Civile mentre il Vaticano lo ha proclamato “Servo di Dio”. Fu arrestato dai tedeschi il 13 Settembre 1944 non per gli aiuti agli ebrei, che ignoravano, ma per avergli trovato in casa un documento molto compromettente di intelligenza con un Movimento Autonomista Liburnico, facente capo all’Ing. Giovanni Rubini, che auspicava per Fiume la creazione di uno Stato Federato comprendente il territorio del Fiumano Kupa, le isole di Veglia, Arbe e Pago, oltre ad altri territori. Palatucci venne internato a Dachau dove morì il 10 Febbraio 1945. Rubini, il cui cognome originale era stato Rubinich, era nato a Laurana ed era stato l’ideatore del Proclama di Annessione all’Italia del 30 Ottobre 1918. Venne ucciso dagli slavi il 21 Aprile 1945 in quanto autonomista.
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Il Küstenland Tedesco La Germania - per punire l’Alleato Italia, che aveva accettato la resa incondizionata offerta dagli Anglo-americani - si era ripresa tutti i territori acquistati dall’Italia con la vittoria sull’Impero Austro-ungarico nella Guerra 1915-1918. Similmente la Germania fece nei territori italiani del Trentino-Alto Adige, già posseduti dall’Austria, istituendo l’Alpenvorland.
Con la sconfitta dell’Italia e l’armistizio dell’8 Settembre 1943, i tedeschi prendevano il controllo della Venezia Giulia ed istituivano la “Zona d’Operazioni Litorale Adriatico” che comprendeva Friuli, Venezia Giulia, i Territori annessi del Fiumano-Kupa e la Provincia di Lubiana. Questi territori venivano posti sotto amministrazione tedesca e sottratti alla sovranità della Repubblica Sociale Italiana.
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1944 - 1947 L’ INIZIO DELLA FINE Dopo il “Ribalton” dell’ 8 Settembre 1943, con il 1944 era iniziato il quarto anno di guerra e Fiume non aveva ancora subìto un bombardamento aereo anche se le sirene di allarme e pre-allarme suonavano molto spesso e senza conseguenze. I rifugi antiaerei erano stati ultimati, i capi-fabbricato e l’UNPA Unione Nazionale Protezione Antiaerea facevano osservare rigorosamente l’oscuramento, i vetri delle finestre erano tutti prudenzialmente incollati per contenere le rotture a seguito dello spostamento d’aria e le cantine erano tutte dotate di sacchetti di sabbia antiincendio. In Piazza delle Erbe era sempre fiorente la Borsa Nera delle sigarette e sempre più gente prendeva il treno per andare a Trieste dove in Ponterosso c’era il mercato dei furlani che vendevano liberamente soprattutto farina bianca e gialla, rischiando di saltare in aria per causa di attentati dei partigiani ai binari della ferrovia, come successe il 13 Marzo 1944 con 8 morti e 80 feriti, o di essere mitragliati dal solito “Pippo”, il ricognitore aereo che controllava la nostra regione. La Germania si era ripresa la sovranità dei territori ceduti dall’Austria nel 1918 creando la nuova regione dell’Adriatisches Küstenland (Litorale Germanico) e cioè la Venezia Giulia, allargata da Udine a Lubiana fino a Fiume, gestita da Prefetti e Uffici italiani per mantenere l’ordine pubblico, ma rigorosamente sotto il controllo tedesco. Al di là del ponte sull’Eneo c’era la Croazia di Ante Pavelic’. Da subito i fiumani capirono che la guerra continuava e che essi avevano tre possibilità di comportamento: 1. schierarsi con i tedeschi; 2. schierarsi con i fascisti italiani; 3. fuggire in bosco per unirsi ai partigiani di Tito che erano anti-italiani. Molti, anche per evitare di finire in Germania, aderirono alla neo costituita Repubblica Sociale di Mussolini e si arruolarono nella Milizia, che era divisa in Portuale, Forestale, Ferroviaria e Postale mentre altri scelsero la Polizei tedesca. Si videro così le donne al lavoro in fabbrica e soprattutto a guidare i tram o recapitare la posta con grossi borsoni a tracolla. Pochi scelsero il bosco. Per paura dei bombardamenti i tedeschi spostarono parte della produzione del Silurificio a Fiumeveneto e a Livorno e proposero convenienti ingaggi di lavoro a operai specializzati in Germania. A quelli che volontariamente, almeno all’inizio, andavano in Germania li rassicuravamo che là non avrebbero sofferto la fame perché c’erano almeno kartofeln (patate) da mettere sotto i denti. Vittorio Broznick La Morgia fu uno di questi e quando tornò a guerra finita, giunse malato dal Campo di Concentramento di Dachau dove era finito per “indisciplina”. La Germania stava subendo massicci bombardamenti giorno e notte, e gravi sconfitte sul fronte russo dove aveva perduto gran parte dei territori conquistati per cui era convinzione di tutti che le sorti della guerra erano ormai segnate a favore degli Alleati, che stavano approntando il colpo finale con l’Operazione Overlord per l’apertura di un nuovo fronte nel Continente o in Dalmazia. Solo i tedeschi 39
avevano fiducia nella vittoria finale di Hitler, che prometteva armi distruttive nuove, che sarebbero state capaci di ribaltare la situazione e perciò difendevano strenuamente ogni metro di territorio italiano allo scopo di guadagnare tempo per i loro scienziati. Nel contempo, con le loro temute SS inasprivano in città e nelle fabbriche la repressione delle cellule antifasciste unitamente a improvvise retate e rastrellamenti dei boschi del circondario. I primi bombardamenti anglo-americani avvennero nei giorni della Befana 1944 e continuarono periodicamente provocando vittime e danni agli impianti portuali e industriali, nonché agli edifici civili. Gli effetti della guerra stavano purtroppo segnando inesorabilmente anche la nostra città che nel 1941 si era illusa di averla fatta franca. A Fiume la gente parteggiava sempre più contro i tedeschi e i fascisti, e seguiva con molta attenzione l’avanzata dell’esercito di Tito, ma non risulta che molti fiumani siano scappati in bosco. Il 30 Aprile 1944 i partigiani attaccano un presidio fascista a Rupa, bivio importante sulla strada Trieste-Fiume-Lubiana e il Capo-posto chiede aiuto ad una colonna tedesca ferma al bivio. Mentre questa sta decidendo il da farsi, cade una granata che provoca dei morti fra i tedeschi. Immediatamente il Comandante tedesco si collega con il suo Comando di Castelnuovo d’Istria (Podgrad), che invia il Battaglione SS “Triest”, che inquadra numerosi ucraini e procede alla eliminazione dei partigiani. Per rappresaglia i tedeschi sfogano poi il loro odio sul vicino paese di Lipa, entrano nelle case, uccidono e concentrano gli abitanti sopravissuti in un edificio diroccato all’inizio del paese. La gente pensa di finire al confino e invece latte di benzina vengono versate su di loro e colpi di mitra per chi tenta di uscire da quell’inferno. Dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone rimasero vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei dintorni o i giovani che erano in bosco coi partigiani o quelle poche persone che - pur essendo domenica - erano ugualmente a Fiume per lavoro.
ll Memorial di Lipa a ricordo della strage compiuta dai tedeschi: 269 vittime uccise e poi bruciate col fuoco per nascondere l’eccidio. Crudele rappresaglia a fronte di un attentato partigiano. Alcune Camice Nere del Comando di Rupa parteciparono con funzioni di copertura e una di queste salvò la vita a Maria Africh facendola fuggire mentre Ivan Ivancich, si salvò fingendosi morto potendo testimoniare la verità sugli autori tedeschi.
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Lipa distava da Fiume 23 km. e faceva parte della Provincia del Carnaro. Non fu crimine italiano, ma esclusivamente tedesco al comando del Ten. Arthur Walter. Man mano che i partigiani di Tito si avvicinavano a Fiume, attentati e fucilazioni si susseguivano in città e l’attentato al Ristorante “Ornitorinco” fu quello che fece molta impressione per il risultato di aver eliminato o ferito presunti aguzzini nazisti e delatori fascisti. Il 30 Gennaio 1944 venne incendiato il Tempio Israelitico di Via Pomerio 31 mediante una esplosione preparata dalla Polizia tedesca e quando arrivarono i pompieri fu impedito loro di procedere allo spegnimento per cui andò distrutto l’interno con tutto il suo arredamento, le Sacre Scritture, l’archivio e la biblioteca. 403 ebrei fiumani, tollerati dal Fascio dopo le Leggi razziali del 1938, riuscirono a sfuggire alla caccia dei tedeschi mentre 208 - dopo esser stati depredati dei loro averi - furono deportati prima alla Risiera di San Sabba di Trieste e poi al Campo di Auschwitz. Nel Giugno 1944 - quando gli Alleati sbarcarono in Normandia - a Fiume entrò in azione l’Organizzazione TODT per costruire bunker e postazioni di difesa attorno alla città e in Istria, e tutti coloro che non erano idonei per combattere, furono obbligatoriamente ingaggiati al lavoro. L’anno scolastico delle scuole superiori fu soppresso e anche gli studenti diventarono provetti manovali dovendosi presentare ogni mattina al Lager di Mattuglie o a Santa Caterina o Drenova. Nel Dicembre 1944 si videro arrivare a Fiume i marò della X Mas, ausiliari dei tedeschi ma autonomi dai Comandi di Mussolini, che furono distolti dal fronte italiano della Linea Gotica per la difesa del confine italiano in appoggio ad uno sbarco concordato in segreto con gli Alleati in Istria, che però non ebbe luogo per mancanza di tempo. La situazione infatti precipitava di giorno in giorno e la gente ormai esausta dormiva nei rifugi antiaerei mentre tedeschi e italiani difendevano il territorio dai partigiani sempre più vicini e vincenti. Si giunse così alla notte del 3 Maggio quando i tedeschi - dopo aver fatto brillare nei giorni precedenti le mine che ridussero il nostro porto ad un ammasso di macerie - abbandonarono la città. Il Col. Lothar Zimmermann che dette l’ordine di fare quello scempio, fu arrestato a Villa del Nevoso e passato poi per le armi dopo un regolare processo. Nelle alture di Drenova il 3° Reggimento Artiglieria di Montagna “Julia” oppose agli invasori le sue bocche di fuoco posizionate sul Monte Lesco fino al totale esaurimento delle munizioni. Sparato l’ultimo colpo e nell’impossibilità di continuare oltre l’impari lotta, il Comandante Franco Geja ordinò la distruzione delle armi perché non cadessero in mani al nemico. Fu al mattino del 3 Maggio 1945 che i partigiani di Tito entrarono a Fiume scendendo da Drenova, e verso le 10,30 anche da Sussak. Salivano per la Via Roma in fila per due ed erano vestiti molto male con divise le più diverse e taluni di essi erano anche scalzi. La gente, uscita dal rifugio, li guardava con curiosità e 41
simpatia perché testimoniavano che la guerra era finita, ma senza un applauso e in un silenzio irreale. Proprio davanti al rifugio, i tedeschi nella notte avevano posato due mine anticarro e c’erano di guardia a loro 4 nostri finanzieri con l’elmetto, due per ciascuna, che erano armati di fucile agli ordini di un Ufficiale. L’Ufficiale salutò militarmente i partigiani portando la mano alla fronte; seguì un breve conciliabolo e poi l’Ufficiale consegnò la pistola all’interlocutore partigiano e tutti e cinque finirono portati nella Caserma dei Carabinieri. Si calcola che stessa sorte sia toccata a 50 finanzieri, 78 questurini e una quarantina di coscritti di varie armi tra cui 10 carabinieri e vigili urbani. Il giorno dopo si propagò la notizia che i tre esponenti autonomisti Dr. Mario Blasich, Nevio Skull e Giuseppe Sincich erano stati assassinati dalla Polizia segreta OZNA mentre in radice del Molo Scovazza - dove c’era la voragine provocata dalla mina tedesca - giaceva abbandonato il corpo di un uomo che si diceva fosse quello di Radoslav Baucer, croato e anch’egli autonomista dei tempi di Riccardo Zanella. Un fiumano tranquillizzava la gente che guardava sgomenta il morto con le parole “È un nemico del Popolo” e quelli furono i primi biglietti da visita della nuova Libertà che era arrivata a Fiume. Di notte, squadre speciali della Polizia Segreta sequestravano cittadini che ai familiari il giorno seguente non riusciva più di rintracciare né in Piazza Scarpa né nelle carceri di Via Roma. Si andava a cercarli anche a Kostrena e Cirquenizze, ma il risultato era sempre lo stesso: indirizzati da un ufficio all’altro perché nessuno ne conosceva la sorte, e i commenti che si riceveva erano: “non è qui”, “non sappiamo niente” per concludere “ma signora, se lo hanno prelevato, qualcosa pur avrà fatto”. Tragica la fine dei Senatori del Regno Icilio Bacci e Riccardo Gigante, i quali non vollero abbandonare la città perché si sentivano a posto con la propria coscienza. Icilio Bacci venne arrestato quando andò a chiedere un lasciapassare per Trieste e fucilato a Karlovac dopo un processo sommario. Riccardo Gigante fu infoibato a Castua dove si trova ancor oggi in attesa di recuperarne i resti. E nella stessa grotta con lui vi giacciono tuttora altre dieci vittime. E analogamente furono arrestati e fatti scomparire: l’ex podestà Carlo Colussi e sua moglie Nerina Copetti, il preside Gino Sirola, l’insegnante Margherita Sennis, Ernesta e Zulema Adam. Tra i spariti, Gregorio Bettin, Presidente della Croce Rossa Italiana di Fiume, Giuseppe Tosi, Direttore Didattico di Abbazia, Eugenio Venutti, Maggiore dei vigili del fuoco, Antonio, Maria e Margherita Pagan, Santo Taucer, Rodolfo Moncilli. Nei quartieri della Cittavecchia furono istituiti Capi Fabbricato e a turno, una volta alla settimana, gruppi di famiglie dovevano recarsi nella Scuola “Manin” per imparare il nuovo corso mentre gli assenti venivano qualificati come “Reazionari” o “Nemici del Popolo” comprendendo tra questi anche coloro che non facevano il lavoro volontario nei giorni di sabato e domenica. 42
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Venne introdotta una nuova moneta al cambio di 30 Dinari ogni 100 Lire, ma ogni famiglia non poteva ricevere in contanti più di 5.000 dinari e per l’eccedenza veniva consegnata una ricevuta provvisoria. Per recarsi a Trieste venne istituita una nuova carta di identità e la gente per ottenerla si metteva in fila nel Comitato Cittadino di Piazza Regina Elena sin dalle 4 ore del mattino, ma il documento veniva rifiutato ai tanti reazionari schedati in Piazza Scarpa, sede dell’OZNA. In Piazza Regina Elena i “liberatori” eressero un arco di trionfo in legno che veniva snobbato dai fiumani, i quali - evitando intenzionalmente di passarvi sotto - esprimevano con tale gesto la loro avversione al nuovo regime. Era in voga il detto “maledeto quel fiuman, che passa soto l’arco partigian”. Mentre l’ateismo comunista diventava legge, la proprietà privata era soppressa e i negozianti erano diventati commessi anzichè padroni, e alla fine della settimana dovevano presentare i conti e gli incassi ai nuovi amministratori cittadini. Le fabbriche erano diventate cooperative, gli operai sindacalizzati, la meritocrazia abolita e le paghe livellate, cioè quelle degli ingegneri erano parificate a quelle degli operai e quelle dei Maestri a quelle dei bidelli. I Tribunali Militari e i Giudici Popolari - non essendo riusciti a mettere le mani su coloro che consideravano criminali di guerra come ad esempio gli alti gradi dei Comandi italiani, il Prefetto di Fiume, il Comandante tedesco SS - giudicavano e condannavano i reazionari, che non volevano adeguarsi ai nuovi doveri del popolo lavoratore, ad ammende o reclusioni fino ai lavori forzati e alla confisca dei beni. Nelle fabbriche era molto in uso anche l’epurazione giustificata dal logoro status di reazionario o nemico del popolo. E anche antifascisti pagavano la loro opposizione ai nuovi arrivati come Giovanni Stercich, ex Segretario di Riccardo Zanella, che fu esule durante il ventennio fascista e promotore di iniziative autonomiste dopo il 1943, e Angelo Adam, antifascista repubblicano deportato dai tedeschi a Dachau. Le condanne non si contano: Mario Rivosecchi aveva issato la bandiera fiumana sulla cupola della Torre; Giuseppe Librio - poi dopo alcuni giorni trovato cadavere sul Molo Stocco - insieme con Hervatin e Barbadoro aveva ammainato una bandiera jugoslava in Piazza Dante; Carlo Maltauro, Nino Bencovich, Romolo Rainò, Giuseppe Superina e G.Battista Marra per danneggiamenti; Matteo Blasich, fermato e morto suicida secondo la versione fornita dalle Autorità; Don Girolamo Demartin, per propaganda antipopolare; il Prof. Battagliarini per azioni disfattiste ai danni del potere popolare, Ing Duilio Duimich per collegamenti con esuli di Trieste, Dr. Onorato Lenaz per aver mandato in Italia relazioni tendenti a provocare un intervento straniero; Dr Arsenio Russi idem, mentre nelle carceri di Fiume - secondo la versione della polizia - era morto Gianni Marussi arrestato per attività politica clandestina. Da esuli irresponsabili, Membri di un CLN giuliano e finanziato dal Ministero Assistenza Postbellica che si trovavano al sicuro a Trieste, arrivavano falsi incoraggiamenti che la liberazione sarebbe stata possibile alla condizione di 43
provocare degli incidenti: in tal caso gli Alleati - che si erano ripresi Trieste dopo 45 giorni di occupazione titina - sarebbero giunti a Fiume nel giro di un’ora e l’avrebbero presa sotto la loro protezione. Per tale motivo alcuni adulti di Cosala d’intesa con il Clero affidarono a Mario Dassovich, studente del 4° Liceo Scientifico, di organizzare l’incendio dell’Arco di Piazza Regina Elena che sarebbe dovuto avvenire con il lancio di due fiaschi benzina in occasione della preannunciata visita di una Commissione dei Quattro Grandi. L’evento fu preceduto dalla stampa di manifestini inneggianti all’italianità di Fiume e allo Stato Libero di Fiume, che vennero sparsi per i portoni, le strade e provocatoriamente anche nei locali del Ginnasio Croato, ubicato presso il Liceo di Via Ciotta. Ma chi erano i protagonisti di questa avventura? Ce ne accorgemmo quando una trentina di ragazzi - il più giovane aveva solo 13 anni e il più grande 17 - vennero convocati nella sede dell’OZNA accompagnati dai genitori. La “pericolosa” Banda di spacciatori di innocui manifestini era stata individuata nel giro di poche ore e i genitori furono redarguiti a vigilare perché in futuro non ci sarebbe stata clemenza. I Capi dell’organizzazione vennero puniti duramente: Padre Nestore della Chiesa dei Cappuccini fu condannato a 15 anni di lavori forzati per aver fornito il ciclostile per la stampa dei manifestini, idem 15 anni Mario Dassovich, studente; Oscar Purkinje 7 anni mentre Don Cesare, Parroco di Cosala, ebbe 3 anni per aver permesso la giacenza nella chiesa di una cassa di bombe a mano, residuo bellico dell’ 8 Settembre, e il Maestro Giovanni Marvin un anno per aver concesso la cantina di Via Giorgio Vasari dove i giovani congiurati avevano stampato i manifestini. Venne anche scoperta un’altra organizzazione clandestina accusata di stampa e diffusione di manifestini di propaganda contraria all’attività dei poteri popolari e il principale imputato Carlo Visinko condannato a 10 anni di lavori forzati mentre pene minori ricevettero Marino Callochira, Alfredo Polonio-Balbi, Ferruccio Fantini e Alfredo Lenski. Vari mesi furono poi inflitti a Ugo e Walter Pick, Romeo Cociancich e Massimo Fabris perché esempio di “giovani avvelenati dell’ex regime fascista. Quando arrivò la festa fiumana di San Nicolò, tutti gli studenti delle scuole superiori fecero “oculize” per festeggiare il 6 Dicembre allora che la guerra era finita, e quel gesto di libertà venne interpretato come sciopero reazionario contro l’interesse del Popolo Lavoratore. Conseguentemente gli operai del Cantiere intervennero con spranghe di ferro per cacciare gli studenti a fare il loro dovere. Fortunatamente le spranghe di ferro non furono usate, e dal “Vinas” e nel Campetto dei Tre Pini sopra Santa Caterina - dove una moltitudine di ragazze e di ragazzi festeggiavano San Nicolò al suono della fisarmonica - la festa ebbe termine pacificamente. Per altri malcapitati studenti, che si erano recati a giocare le boccine al Caffè Panciera in Viale Camice Nere o nel Bar sopra la Gelateria Fontanella in Piazza Regina Elena, le cose andarono peggio. Nel clima che si era creato la gente era impaurita e rassegnata al peggio. 44
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Non aveva più fiducia nel ritorno dell’Italia né alla Fiume Stato Libero sotto protezione americana come una pagina del giornale “Il Piccolo” di Trieste aveva pubblicato. Faceva anche paura il regime comunista e il cambio di nazionalità. Fu così che dapprima in sordina e poi in massa il 95 percento dei fiumani - terrorizzati da almeno seicento morti o scomparsi per mano dei nuovi liberatori - scelse di abbandonare tutto per raggiungere l’Italia in macerie dove lì aspettava una vita da profughi liberi. E quando non venivano rilasciate le autorizzazioni di espatrio a causa dei controlli dell’OZNA, nostri Funzionari del Comune intervenivano con i Fogli di Via emessi in giornata, inspiegabilmente avallati dal Comitato Popolare Cittadino, mentre la Curia Vescovile talvolta forniva addirittura documenti di identità falsi!
Fiumani e Fiumane nel Campo Profughi di Barletta nel 1952
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10 FEBBRAIO 1947 LA FINE DI FIUME Negli ultimi giorni di guerra l’esercito di Tito aveva bruciato le tappe per raggiungere Trieste prima dei Neozelandesi, fermi a Monfalcone, per cui Trieste ebbe inizialmente una ammistrazione titina che la governò per 43 giorni effettuando infoibamenti, vendette ed epurazioni al punto che gli Alleati intervennero e divisero militarmente la Venezia Giulia secondo la Linea Morgan, che prese il nome dall’Ufficiale inglese William Morgan. L’Accordo, che stabiliva il ritiro delle truppe, fu firmato a Belgrado il 9 Giugno 1945 con la contrarietà di Tito e fissava la divisione amministrativa temporanea della Venezia Giulia in Zona A: Trieste più Pola agli anglo-americani, e in Zona B: tutto il resto alla Jugoslavia. Fu così che Trieste e Pola riacquistarono la libertà sia pure sotto amministrazione alleata. Nel frattempo una Commissione dei Quattro Grandi faceva il giro della regione per accertarne la distribuzione etnica, le tombe dei cimiteri e le volontà delle popolazioni. La Commissione però omise di visitare Fiume, Zara, Cherso e Lussino e ciò fu un chiaro segno che il destino di queste località era già stato segnato. I Ministri delle quattro Grandi Potenze a loro volta si riunivano ed elaboravano i piani di spartizione basati sui rapporti della Commissione, che prevedevano oltre alla Linea Morgan, la Linea francese che privava l’Italia della costa occidentale istriana compresa Pola, la Linea russa che voleva portare il confine jugoslavo fino all’Isonzo, e la Linea americana di Wilson che era a noi più favorevole perché salvava una buona parte dell’Istria tra cui le miniere dell’Arsia. Un criterio nato a Londra nel 1945 si basava nel lasciare il minimo di gente delle due nazionalità sotto dominazione dell’altro Paese - soluzione che favoriva l’Italia - mentre per Trieste si era orientati di assegnare la città all’Italia e il suo entroterra agli slavi. Nelle sue audizioni davanti alla Commissione Edvard Kardelj, Ministro degli Esteri jugoslavo, poco diplomaticamente protestava su tutto: per l’invio della Commissione d’inchiesta perché la regione era parte integrale della Jugoslavia, contestava il criterio etnico perché i nuclei italiani erano piccole isole nel mare slavo, e soprattutto lamentava che si volessero fare concessioni all’Italia fascista che era stato Paese aggressore al contrario della Jugoslavia che era stata alleata. E poi anche Cecoslovacchia e Polonia - in quanto utenti interessati al porto di Trieste - si erano pronunciati per l’assegnazione della città alla Jugoslavia. Il Ministro russo Molotov sosteneva addirittura che anche Trieste, malgrado fosse a maggioranza italiana, doveva essere riunita al suo entroterra slavo. Purtroppo con il sorgere dei contrasti tra gli Alleati e l’URSS, che porteranno alla guerra fredda, si venne a manifestare nel Consiglio dei Ministri degli Esteri una maggiore benevolenza verso le richieste jugoslave per cui fu evidente che le promesse alleate di riconoscere l’italianità dell’Istria occidentale e di Trieste stavano svanendo e con loro la speranza di vedere adottata la Linea Wilson, a noi più favorevole. 46
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E infatti la Commissione concluse i suoi lavori nel Luglio 1946 con l’approvazione della Linea francese che assegnava tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia istituendo nel contempo il Territorio Libero di Trieste (Stato Indipendente) con la Zona A da Duino a Muggia, amministrata dagli Alleati, e la Zona B fino al fiume Quieto, comprendente Pola, Capodistria, Isola, Parenzo, Umago, Cittanova e Buie, amministrata dagli Jugoslavi. E per Roma fu una sorpresa molto amara. Il 10 Febbraio 1947 toccò il turno all’Italia di recarsi a Parigi per accettare il Trattato di Pace, conosciuto come Diktat, che i 20 Paesi Alleati vincitori le volevano imporre e che consisteva principalmente in mutilazioni di territorio nazionale, rinunzia alle Colonie e riparazioni di guerra e più specificatamente per quanto ci riguarda: la perdita della Venezia Giulia e Zara, e il debito di 125 milioni di dollari oro per i danni di gerra provocati alla Jugoslavia. Il Presidente Alcide De Gasperi aprì il suo discorso con la frase diplomaticamente celebre: “In questo Consesso tutto mi è contro salvo la vostra personale cortesia”, e per prima cosa lamentò che le frontiere che restavano all’Italia erano spalancate con gravi limiti alla nostra sicurezza collettiva, non essendo stato tenuto in conto il nostro status di “Paese cobelligerante”. Toccando l’aspetto delle mutilazioni territoriali lamentò la soluzione triestina, la mancata approvazione della Linea Wilson e del principio etnico promesso essendo rimasti in territorio slavo 180.000 italiani a fronte di appena 59.000 italiani in quello slavo. Da ultimo, lamentò che il Trattato impediva all’Italia di chiedere i danni di guerra alla Germania avendola “combattuta” per 19 mesi. Per Fiume, testualmente aggiunse queste poche parole: “Era naturalmente inteso che Fiume riavesse lo status riconosciuto a Rapallo”. Il Trattato di Pace fu accettato dall’Italia malgrado fosse una totale debacle diplomatica per De Gasperi, che era riuscito a salvare solo il suo Trentino con l’Accordo del 5 Settembre 1946 concluso separatamente con l’Austria. A perorare la causa di Fiume si trovò Riccardo Zanella, poco sostenuto da Roma. Zanella era rientrato da Parigi in Italia e si era stabilito a Roma, dove lottava con i suoi scarsi mezzi per sensibilizzare i Governanti romani ad appoggiare la tesi di “Fiume prima vittima del Fascismo”, che avrebbe potuto portare al ripristino dell’Accordo di Rapallo del 12 Novembre 1920 siglato tra Italia e Jugoslavia. Fu il 3 Marzo 1922 che avvenne il golpe ad opera di fascisti fiumani e triestini quando lui, Presidente democraticamente eletto dello Stato Libero di Fiume dovette fuggire a Portorè con il suo Governo e 3.000 fiumani fedeli. Scrisse allora Riccardo Zanella al Capo del Riccardo Zanella
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Governo italiano Luigi Facta: “La cosiddetta rivoluzione del 3 Marzo 1922 in realtà fu soltanto un’azione di brigantaggio politico in grande stile, preparata in collaborazione di tre Deputati del Parlamento italiano (On. Giurati, De Stefani e Giunta) ed eseguito da cittadini del Regno d’Italia, con la partecipazione di non più di 200 cittadini fiumani e con la cooperazione materiale e diretta di elementi dei Regi Carabinieri, della Regia Finanza, della Regia Marina, e sotto la protezione della delittuosa passività degli altri Reparti dei Carabinieri e delle Regie Truppe di terra e di mare che si trovavano a Fiume, in Abbazia e Mattuglie.” Siccome anche l’Etiopia nel 1935 e l’Albania nel 1939 furono similmente a Fiume aggredite ed annesse all’Italia, Riccardo Zanella proponeva a De Gasperi di sposare questa causa per tentare di ribaltare in extremis il destino che incombeva sulla città. In precedenza Zanella aveva pure inviato due Memoriali ai 5 Ministri degli Esteri che dovevano decidere dei nostri destini sottolineando le seguenti ragioni: 1. L’ indipendenza e la sicurezza dello Stato Libero di Fiume era stata garantita secondo il Trattato di Rapallo del 1920 da entrambi i Paesi Italia e Jugoslavia. 2. Lo Stato Libero di Fiume è stato soppresso da un atto di aggressione fascista (3 Marzo 1922) e dal Trattato di Roma del 1924, contrario ai principi fondamentali della Legislazione internazionale, che Mussolini impose alla Jugoslavia con minacce e rappresaglie. Tale Trattato non è mai stato riconosciuto dallo Stato Libero di Fiume perciò in forza del principio di continuità giuridica esso deve essere riconosciuto come tuttora esistente essendo la prima vittima dei metodi fascisti in politica estera. Lo Stato Libero di Fiume reclama il suo ristabilimento de facto in conformità con i principi della Carta Atlantica. 3. Avendo lo Stato Libero di Fiume subito una soppressione violenta ed illegale, il suo territorio non può essere considerato come parte del Regno d’Italia similmente ad Albania ed Etiopia e come tali Stati ha diritto al ristabilimento della sua libertà e indipendenza. 4. Lo Stato Libero di Fiume - che era stato accettato e riconosciuto dagli Stati del suo hinterland (Jugoslavia, Ungheria, Slovacchia, Sud Polonia, Transilvania) come porta aperta per gli scambi attraverso il suo porto - eliminerà ogni ostacolo e ogni difficoltà che in passato hanno creato seri attriti e rivalità nei paesi interessati. Purtroppo Riccardo Zanella rimase inascoltato. Quando mi trovai a Roma il 10 Febbraio 1947 seppi che il Presidente aveva aperto in Via Giustiniani 5 un “Ufficio di Fiume” e gli feci visita senza preavviso dove lui mi accolse con molta cordialità. Così descrissi nel 2001 su “El Fiuman”, giornale bimensile che si pubblica in Australia, quell’incontro: “Era un bel uffizio, con una scrivania de legno probabilmente de noce, piena de carte, e alle spalle del Presidente, atacada sula parete per tutta la sua larghezza, ghe era una granda bandiera fiumana con i nostri colori: violeto, giallo e amaranto, e la Aquila con due teste, tutte dò che 48
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le guardava a sinistra. E sotto delle zate, i artigli che i guantava la anfora de dove che vegniva fora la acqua con la scrita “Indeficienter”, come che sarìa dir: un ben (la aqua) che non la finisse mai e che la se spande fin al infinito. Me son presentà come fio de mio padre, che el era stado dela sua parte, fedele, e che quando che i Dannunziani i lo gaveva costreto a scampar oltre a Lui - Presidente della Assemblea Costituente del Stato Libero de Fiume - anca mio Padre lo gaveva seguido andando prima a Kostrena e poi a Portorè e là el gaveva tirado avanti pescando dato che el era anca un bon pescador. El Presidente Zanella el se domandava: “Rudi Decleva . . . Decleva Rodolfo . . . ”, ma non el se lo ricordava. Poi el me domandava de mi e de cossa fazevo a Roma. El Omo el gaveva un bel portamento - propio de Presidente - e el gaveva anca un grande carisma ma non el me meteva in sogezion. Lui el gaveva in amente la sola soluzion giusta per la nostra Fiume, ma el era solo e i nostri Benpensanti - quei che nel 1924 i gaveva vinto Fiume con la Anession - i credeva che i la gaverìa fata franca una altra volta, e ‘sta volta contro del Tito e dei Patti de Yalta. E xe stado un vero peca’ de Dio, perché alle Nazioni Unite el progeto de Zanella el gaveva bone possibilità de riussir - ciaro come el ojo - e che era el seguente: “El Stato Libero de Fiume - essendo stado la prima vitima del Fascismo - el gaverìa dovudo vegnir ricostituido sula base dela autodeterminazion dela nostra gente”. De sicuro che sarìa stado molto difizile far ingutir al Tito questa soluzion che legalmente la era la più giusta, tanto xe vero che lui gà fato mazar subito la prima notte della occupazion i Dirigenti del Stato Libero: Mario Blasich, Giuseppe Sincich e Nevio Skull. Purtroppo le cosse le xe andade mal come che tutti savemo, ma Zanella - come mai el xe stado ignorado per tanti anni anca dala nostra intelighenzia fiumana in esilio? - Lui gaveva el piano per salvar la nostra città, che non gà potudo averarse per el boicotagio che ghe gà fato non solo quei del Governo de Roma.
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Riccardo Zanella, nato a Fiume el 22 de Giugno 1875, soto Fiume italiana el xe stado esule in Francia e el xe morto a Roma el 30 Marzo 1959, povero e dimenticado da tuti. De Lui, me resta le belle parole che me contava el mio Papà, el ricordo del mio incontro con Lui e la sua firma, che el me gà fato in quel lontan giorno 25 Febbraio 1947 sul mio Tesserin de iscrizion al Ufficio de Fiume, che el gaveva a Roma. Quando che la storia del nostro Esodo dimenticado la vegnirà finalmente riscrita nela sua verità, essa la deverà comprender anca el sbaglio che tanti dei Nostri i gà fatto nel gaver emarginado el vero Presidente dei Fiumani ”. E per concludere, l’indimenticato Padre Flaminio Rocchi così scrisse di lui sulla “Voce di Fiume” nel 1996. “Ho quasi pianto quando visitai per la prima volta l’On. Riccardo Zanella in una stanza fredda, senza finestre, nel Campo Profughi della Caserma “Lamarmora” in Trastevere, a duecento metri dal mio Convento: un letto nascosto da un telo, molti libri stivati per terra alla rinfusa, alcuni grandi manifesti rossi e gialli delle sue lotte politiche a Fiume; tanta povertà squallida e una dignità rigida. Lo avevano sfrattato dall’appartamento di Via Sicilia che De Gasperi gli aveva assegnato come ex Presidente dello Stato di Fiume. La sua povertà arrivò all’umiliazione di vendere al Convento per trentamila Lire i 35 grossi volumi della prima edizione francese del grande Dizionario Larousse, e noi lo conserviamo come un pezzo di antiquariato, senza fotografie, ricco di disegni e di citazioni storiche e letterarie. Zanella spesso veniva a trovarmi e con lunghe conversazioni cercava di acquistarmi alla sua idea autonomistica; io lo ascoltavo e lo ammiravo come un grosso personaggio, che però si sentiva sconfitto senza eredi. Non era religioso, ma l’ho visto spesso ascoltare le mie prediche. Era un amico, ma un povero amico. Sul tavolo del Campo Profughi gli lasciavo pacchi viveri della Pontificia Opera di Assistenza, arricchiti con qualche furto nella dispensa del Convento. Mi vergognavo più io nel dare, che lui nel ricevere. Il Dr. Amleto Ballarini ha fatto bene nel documentare in un volume la sua opera”.
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Fiume: Via Roma e a destra il Palazzo del Governo - Prefettura
Molo San Marco: il monumento del Leone Marciano, dono veneziano Fiume non era mai appartenuta alla Repubblica Serenissima di Venezia, dalla quale nel sedicesimo secolo dovette subìre due disastrosi incendi della città. Ciò fu causato dal fatto che i pirati uscocchi, che avevano le loro basi a est di Fiume nel Canale della Morlacca, depredavano le galere veneziane in Adriatico e commerciavano la refurtiva nell’emporio fiumano, da dove poi questa si dirigeva anche a Venezia. La rappresaglia veneziana venne attuata perché Fiume fu ritenuta molto compiacente con gli uscocchi ai quali talora offriva ospitalità. Quando nel 1924 Fiume venne annessa all’Italia, Venezia fece dono alla città di un Leone Marciano e il monumento venne posato nel Molo Adamich che da allora prese il nome di Molo San Marco. Su di esso era inciso “Fiume ricorda i nomi dei suoi figli caduti per la Patria nella guerra di redenzione. Annibale Noferi, Mario Angheben, Vittorio de Marco e Ipparco Baccich”. E indirizzato a Venezia: “Al fatidico dono della Serenissima esulta il cuore di Fiume, ripalpita d’antichi ricordi il Carnaro di Dante, plaude da tutti i seni , sposo fedele, l’Adriatico”. Il monumento venne distrutto dai tedeschi quando fecero esplodere il porto prima di abbandonare la città nella primavera del ’45.
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CONCLUSIONI In chiusura di questa ricerca e di questi ricordi sono doverose alcune risposte. Fu la “Pulizia Etnica” a provocare l’Esodo? La risposta è affermativa perché il terrore nel periodo 1945-1947, caratterizzato da ammazzamenti e sparizioni da parte della Polizia segreta OZNA poi diventata UDBA, e le reclusioni, spionaggi e vessazioni di ogni genere miravano a spaventare la popolazione fiumana che per la stragrande maggioranza si sentiva italiana e non voleva diventare croata. Ciò è comprovato da Milovan Gilas, braccio destro del Maresciallo Tito, che scrisse testualmente: « Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Si trattava di dimostrare alle autorità Alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero. O meglio lo era solo in parte, perché in realtà gli italiani erano la maggioranza nei centri abitati, anche se non nei villaggi. Ma bisognava indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto » . Tito ottenne la città, ma non il popolo fiumano che - abbandonando tutte le sue sostanze e anche i morti - scelse di conservare la sua identità italiana. Dopo l’illusoria annessione, durata appena due anni, di Sussak, Veglia, Arbe e Buccari, Fiume dovette conoscere lo stesso destino all’incontrario, che porrà fine alla sua esistenza secolare di italianità. Il nome della città e delle strade sarà cambiato e per quella città inizierà una nuova Storia che parte dalla tremenda notte del 3 Maggio 1945, quando furono soppressi i Dirigenti autonomisti che avrebbero potuto forse cambiarne la sorte. Inconsapevolmente, i Fiumani - scegliendo l’esodo nei Campi Profughi allestiti in Italia - pagarono con i loro Beni Abbandonati gran parte dei Danni di Guerra, che l’Italia fu condannata di pagare alla Jugoslavia e stabilito in 125 Milioni di Dollari oro. Malgrado che il Trattato espressamente vietasse la compensazione (Art.79, punto 6, lettera f), Italia e Jugoslavia si accordarono ugualmente di scontare il valore dei Beni Abbandonati dai Profughi. La Commissione Finanze e Tesoro del Senato della Repubblica Italiana accertò in data 30 Giugno 1999 che il residuo credito dei profughi ammontava ancora a ben 5.000 Miliardi di Lire equivalenti oggi a Euro 2.582.284.000 Essendo avvenuto nel 2001 l’ultimo parziale rimborso di 440 Miliardi di Lire, il residuo debito dello Stato italiano verso i profughi giuliano-dalmati ammonta a Lire 4.560 Miliardi di Lire equivalenti oggi a Euro 2.355.043.000 La scandalosa appropriazione indebita operata dallo Stato italiano a danno dei nostri Padri - purtroppo ignorata dall’opinione pubblica - è un immeritato insulto all’amor di Patria che aveva ispirato Loro nell’intrapprendere l’amara via dell’esilio. 52
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E a questa ingiustizia si accompagna l’indifferenza della Repubblica di Croazia che ancor oggi non sa apprezzare nella giusta misura la civiltà con cui i Fiumani, gli Istriani e i Dalmati hanno accettato il loro triste destino. Nel 1947 quattro popoli si trovarono a fronteggiarsi per il possesso della loro terra: - in Medio Oriente, i Palestinesi - sconfitti dagli Israeliani - che scelsero l’esodo e la lotta con il risultato che ancor oggi dopo quasi 70 anni, entrambi non conoscono la pace e vivono nell’odio reciproco. Allora i Palestinesi erano 700.000 ed oggi sono diventati 4 Milioni di sventurati alloggiati nei Campi Profughi, ubicati ai confini di coloro che essi giudicano usurpatori delle loro terre. - a Fiume, città crogiuolo di razze e culture diverse, e nell’Istria, i giuliani - metà per numero dei Palestinesi - scelsero invece l’esodo verso l’Italia in macerie con civile rassegnazione ed oggi sono in via di estinzione, sparsi sui 5 Continenti. Non una bomba fu lanciata né mai fu commesso un attentato contro i Cittadini o le strutture dell’allora Repubblica Federativa di Jugoslavia. Questo è un fatto storico molto importante che dovrebbe far riflettere le Autorità croate dalle quali un giorno - prima o poi - dovranno arrivare i dovuti riconoscimenti di comprensione e di gratitudine per il nostro comportamento.
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Sussisa di Sori (GE) Gennaio 2014
Rodolfo (Rudi) Decleva
il
Pigiamadelgatto
Rodolfo Decleva è nato a Fiume l’8 Gennaio 1929. Esule da Fiume nel Febbraio 1947, completò il corso di studi al Collegio “N. Tommaseo” di Brindisi e nel 1954 si laureò in Economia e Commercio presso l’Università di Bari. Assunto alla Camera di Commercio di Genova nel 1955, si specializzò nella Promotion dell’Export costituendo vari Consorzi per l’Esportazione e il Centro Regionale Ligure per il Commercio Estero, divenendone Direttore nel 1980. Autore di varie pubblicazioni di settore, promosse sul piano nazionale la formazione di operatori per il commercio con l’estero attraverso Conferenze e Corsi di aggiornamento. Nel 1976 fu audito dal Senato della Repubblica in qualità di Esperto nella delicata materia degli illeciti valutari. Dal 1988 al 1992 fu Esperto di Mondimpresa - Roma. Nello sport della Vela, è stato Atleta, Dirigente di Circolo, collaboratore FIV e per 23 anni Giudice Internazionale: per i suoi meriti sportivi gli venne conferita nel 1995 dal CONI la Stella d’Oro. Insignito inoltre dall’Unione Sportiva Marinara Italiana quale “Maestro del Mare” e dalla città di Keokuk, Iova, USA, con un attestato “For being caught doing good”. Dal 1960 al 1993 giornalista pubblicista. Altri libri pubblicati: “Priaruggia Ricorda” nel 50.mo di fondazione dell’U.S. Quarto; “Sussisa Terra Antica” nel 75.mo di fondazione della SOMS Sussisa; “I Fiumani Nascimbeni per Fiume Italiana”; “Storie de pesca nel Quarnero”. Attività di Volontariato attuale: Segretario della SOMS Sussisa di Sori; Membro del Gruppo Agitatori Culturali Irrequieti “Gian dei Brughi” - Sussisa. Collaboratore del quotidiano ”La Voce del Popolo” di Fiume (Croazia) e del bimensile “El Fiuman” di Newport, Australia. Vive a Sussisa di Sori e nel tempo libero si dedica alla campagna e alla olivicoltura.