INTRO In un paese come l’Italia, con una storia tra le più antiche e prestigiose, il bisogno di tutelare le bellezze artistiche del paese è stato sentito vivamente già dalla tarda età repubblicana.. ESORDI Riservate a schiavi e stranieri, le “arti sedentarie e illiberali” erano considerate lesive dell’integrità morale e fisica di chi le svolgeva. Le opere d’arte entravano a Roma come bottino di guerra, in quanto preziosi, mai consapevolmente considerate opere d’arte. Fu solo nel 212 a.C., tempo della presa di Siracusa per mano del giovane generale Claudio Marcello, che per la prima volta abbiamo nozione di un bottino di guerra inclusivo di opere requisite esclusivamente per il loro valore artistico e non materiale1. Il generale fu aspramente criticato per aver condotto in Roma “bottino effimero ed inutile”2,causando probabilmente l’ira dei loro dei con il furto di immagini sacre3. L’arrivo a Roma di statue greche a seguito della presa di Siracusa segna l’inizio dell’ammirazione romana verso l’arte greca4. La coscienza romana in materia di beni artistici e culturali andò sviluppandosi nel corso dei secoli, il suo sviluppo è segnato da avvenimenti storici o testimoniato negli scritti della letteratura latina superstite: -
Nell’anno 146 a.C. il generale Mummio ritirò dall’incanto delle ricchezze di Corinto un dipinto del fondatore della scuola tebano-attica Aristide (IV sec.) a seguito dell’ricca offerta di 600.000 denari avanzata da re Attalo II di Pergamo5, sospettando che l’opera nascondesse “una qualche virtù nascosta”6
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GIULIO VOLPE, Manuale di Diritto dei Beni Culturali, Cedam, 2007, p. 1 PLUTARCO, Vite parallele, Marcello, XXI: “[Marcello] portò via da Siracusa la massima parte, e le più belle, fra le opere d’arte per lo spettacolo del suo trionfo e per ornamento della città. Roma infatti non possedeva né conosceva prima di allora nessuno di quegli oggetti di lusso e di raffinatezza, né si compiaceva di capolavori di grazia e di eleganza... Perciò divenne più stimato presso il popolo, avendo arricchito la città di uno spettacolo di piacere, di grazia ellenica e di aspetti svariati di arte; ma più lo fu presso i vecchi Fabio Massimo. Niente di simile, infatti, egli portò via né rimosse, dopo la presa di Taranto; ma prese tutte le ricchezze e il denaro, lasciando al loro posto le statue, dicendo secondo la tradizione, ‘lasciamo ai Tarantini questi dèi adirati’ ”. 3 R. BIANCHI BANDINELLI, Roma-L’arte romana al centro del potere, Milano, BUR, 1976, p. 36. In G. VOLPE, Manuale… p. 2 4 “Initium mirandi Graecorum artium opera ”, Tito Livio, XXV. 40. 5 AURELIO VITTORE, nel De viris illustribus (LXI), asserisce che Mummio “riempi l’Italia di statue e di quadri conquistati nel saccheggio di Corinto, senza portarsene uno solo a casa propria”. 6 “Aliquid in ea virtutis, quod ipse nesciret ” PLINIO, Naturalis Historia, XXXV, 24. 2
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I Monumenta Victoriae o statue erette dai nobili ad imperitura memoria di se stessi. Queste statue, nonostante rimanessero di proprietà privata (statuas in civitate posita cuium non esse) erano, stando ad Ulpiano, comunque soggette a vincolo data la loro destinazione a luogo pubblico (Legatum ad Patriam)7, a differenza delle altre statue poste in luogo pubblico che erano giuridicamente res populi romani.8 A causa di questa loro particolare posizione giuridica in caso di furto al proprietario o comunque alla persona in onore del quale è stata eretta la statua spetta un’azione interdittoria in quanto soggetto interessato alla conservazione del monumento mentre la Pactio furti, normalmente di competenza del proprietario, ricade sul municipio in quanto trattasi d’opera in qualche misura pubblica9.
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Oratoria Ciceroniana contro Verre (70 a.C.)10 ed in difesa di Archia. Cicerone ostenta sprezzo e indifferenza verso le cose d’arte11, nonostante in privato abbia già iniziato a collezionarle. Cicerone si sente in dovere di giustificare le sue conoscenze, atteggiamento interpretato da Bianchi Bandinelli sulla linea del nescio quis utilizzato da Sant’Agostino come premessa ai nomi di poeti pagani. Si tratta, secondo lo storico dell’arte, di un senso di tradimento verso avi, tradizioni e cultura e di un malcelato e bruciante senso d’inferiorità
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Pandectae, Lib. XLI, Tit. I, De acquirendo rerum dominio. Racconta Plinio: “avendo Agrippa fatto porre davanti alle Terme che portavano il suo nome un capolavoro di Lisippo, ed essendosi Tiberio creduto nel diritto di disporne col farlo portare nel suo palazzo, il popolo lo reclamò e l’imperatore dovette rimettere il prezioso monumento al posto di prima”. PLINIO, Naturalis Historia, XXXIV, 19. Sull’episodio vd. anche AZZURRI, Il vero proprietario dei monumenti antichi, Roma, 1865, p. 162; si veda altresì L. PARPAGLIOLO, Codice delle antichità e degli oggetti d'arte, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1932, p. 7: l’autore fa ivi riferimento al concetto di demanio, peraltro in accezione certamente distante da quella propria degli artt. 822 ss. del Codice Civile vigente, che vide la luce nel 1942. Come sottolineato in seguito (M. GRJSOLIA, La tutela delle cose d'arte, Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma, 1952, p. 48), il demanio “secondo l’attuale nostro codice civile, da un lato, non presuppone necessariamente l’uso diretto della cosa da parte del pubblico, dall’altro, non comprende le cose mobili, se non nel caso di raccolte artistiche, bibliografiche od archivistiche (art. 822, capov.)”. Di estremo interesse ed importanza il tema della demanialità originaria di molti beni archeologici, soprattutto in considerazione del fatto che la proprietà statale delle cose rinvenute nel sottosuolo è principio che si afferma nel diritto positivo italiano solo con la legge n. 364 del 20 giugno 1909 (c.d. “Legge Rosadi”). La Venere di Cirene, estratta dal sottosuolo durante la campagna di Libia del 1911, potè dunque considerarsi italiana poiché colonia italiana era allora da ritenersi quel territorio (cfr. F. LEMME, Tra arte e diritto, Allemandi, Torino, 1996, p. 52 ss.). 9 “Quia res eorum sit quasi publicata”. Pandectae, Lib. XLIII, Tit. XXIV, Quod vi aut clam. Ai temi della dicatio ad patriam e della deputatio ad cultum si è di recente riferito R. TAMIOZZO, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 80-81, ove l’autore non dimentica la casistica giudiziaria già offerta in materia da A. MANSI, La tutela dei beni culturali, Ce- dam, Padova, 1993, p. 9 ss.. 10 Di grande significato politico per il rigore morale della aperta denuncia contro Timpunito malgoverno della oligarchia senatoria dopo le riforme di Siila, l’orazione contro Verre è documento straordinario per i principi e lo stile ivi espressi, e tale da proiettare l’arpinate in una folgorante carriera politica. Egli, homo novus, fu infatti eletto edile nel 69, pretore nel 66, e console nel 63. 11 “I Greci si dilettano in modo meraviglioso di queste cose, delle quali noi non facciamo alcun conto”. Marco Tullio CICERONE, Actionis in C. Verrem Secundae, Li ber quartus, LX; traduzione Soc. Ed. Dante Alighieri, Roma, 1984, p. 211. 8
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verso una cultura artistica greca sottomessa ma di schiacciante superiorità12. Cicerone attacca Verre per i furti di opere sacre operati in Sicilia e che, come in occasione della presa di Siracusa, lasciavano trapelare il timore per l’ira degli dei. A differenza delle razzie operate da Caio Marcello, Verre destinò tutte queste ricchezze alla sua casa, ed è questo a scatenare la rabbia, e forse anche l’invidia di Cicerone13. Si è anche letto nell’atteggiamento di Cicerone una manipolazione dell’odio popolare per la privata lux uria, facendosi quindi tramite d’ignoranza e preconcetti popolani14. Di un altro tenore la sua arringa in occasione della difesa del poeta Archia (62 a.C.) contro l’accusa d’illegale usurpazione del titolo di cittadino romano, Cicerone si trova ancora una volta ad affrontare il tema della cultura e l’arringa si tramuta in un elogio appassionato della poesia nel quale il giurista si troverà ancora una volta a dover giustificarle sue conoscenze come già era successo a proposito delle arti figurative15, forse per un permanere in Cicerone di un modello elitario e piramidale d’arte ove all’apice si trova la letteratura ed alla base le arti plastiche, viste come troppo manuali. -
(63-12 a.C.) Giulio Cesare permette il libero accesso alle effigi pittoriche di Aiace e Medea presso e Marco Agrippa (63-12 a.C.) di Aiace e Medea presso il tempio di Venere Genitrice
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Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Roma - L ’arte romana...op. cit., p. 44. “Poi questi oggetti artistici, queste opere d’arte, le statue, le pitture, dilettano straordinariamente i Greci. Pertanto dai lamenti loro possiamo comprendere come queste cose, che a noi forse sembrano essere lievi e di nessun conto, a quelli invece appaiono acerbissime.” Mentre, a seguito di n elenco delle opere rubate dice: “Tutte queste statue, che ho nominato, o giudici, Verre le portò via dalla cappella privata di Eio (Heius); nessuna, dico, di esse lasciò, neppure alcun’altra, fuorché una di legno antichissima, che è la Buona Fortuna, come suppongo; costui non volle averla in casa sua” ed ancora “Tanti pretori, tanti consoli sono stati in Sicilia sì in pace, come ancora in tempo di guerra, tanti uomini d’ogni fatta (...) tanti ingordi, tanti malvagi, tanti audaci, dei quali nessuno sì appassionato, sì potente, sì nobile si riputò, che osasse alcuna cosa chiedere da quella cappella privata o togliere o solo toccare; Verre porterà via quello che dovunque vi sarà di più bello? Nessuno potrà, eccetto lui, possedere più niente? La sola casa di costui comprenderà tante case ricchissime?”. Marco Tullio CICERONE, Actionis in C. Verrem Secundae, Liber quartus, III; traduzione Soc. Ed. Dante Alighieri, Roma, 1984, p. 14. 14 Ibidem, Liber Secundus, LIV; traduzione G. BELLARDI (a cura di), Le orazioni dì M. Tullio Cicerone, Utet, Torino, 1978, voi. I, Introduzione, p. 46 15 “Io non esito a confessare che mi occupo di questi studi; e se alcuni si debbono di ciò vergognare, saran quelli che si tuffarono cosi esclusivamente nelle lettere, che in nulla hanno potuto farle servire al bene della società (...). Ma io, o giudici, perché me ne dovrei vergognare, io, che da tanti anni (...) non ho mai abbandonato o trascurato la difesa né l’interesse di nessuno?”15; e ancor più apertamente: “E perché niuno si meravigli che io parli in questa forma d’un uomo dedito ad un’arte molto diversa da questa mia dell’eloquenza, sappiate che neppure io mi sono sempre dedicato esclusivamente a così fatto studio. Poiché tutte le discipline, che contribuiscono alla cultura umana, hanno dei punti di contatto, e sono tra di loro unite quasi da un legame di parentela” e poi ancora “Molti grandissimi personaggi si curarono di lasciarci di sé statue e ritratti, che non l’animo, ma il corpo riproducono: e noi non dovremmo mostrarci molto più solleciti di lasciare una immagine del nostro senno e delle nostre virtù, squisitamente lavorata dai più felici ingegni?”. Marco Tullio CICERONE, Pro A. Licinio Archia Poeta, VI, 12; traduzione Soc. Ed. Dante Alighieri, Roma, 1984, p 10-12 13
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e Marco Agrippa, protettore di poeti e artisti, esorta i privati a rendere accessibili le loro raccolte.16 -
Asinio Apollone nel 39 a.C. fondò la prima biblioteca pubblica in occasione dell’edificazione dell’Atrium Libertatis.17in luogo delle precedenti esposizioni che avevano tenuto luogo nel Foro di quadri rappresentanti eventi gloriosi che avevano segnato la storia di Roma, ove anche Caio Verre, secondo Cicerone e Plinio aveva esposto le proprie opere.
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Secondo Plutarco: “bene fu degna di commendazione e di lode la spesa che fece in provveder libri in quantità e bene scritti: ma l’uso d’essi ancora fu più lodevole. Perché teneva sempre aperte a tutti le librerie, lasciando entrar Greci, senza chiuder porta ad alcuno, dentro alle logge e luoghi orcinati per disputare, che v’erano intorno; ove gli uomini studiosi, da altri affari spediti, si ritiravan volentieri, come entrassero nel ricetto delle Muse, per trattenersi e discorrere insieme di lettere”.18
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Vitruvio raccomanda spazi per biblioteche e gallerie nella costruzione di dimore patrizie19, questo a testimonianza dell’interesse crescente per l’arte e per la letteratura.
Bisogna quindi aspettare Giulio Cesare per vedere in Roma una ferma presa di coscienza dell’importanza dell’arte, anche se strumentale alla manipolazione dell’opinione pubblica, nel monumentalismo pubblico che vedrà il suo apogeo in epoca Augustea “apogeo della magnificenza degli edifici pubblici e privati per ricchezza di marmi e abbondanza di statue e di ori (...) ed anche la pittura, prima non creduta degna della grandezza romana fu pregiata così che i più bei dipinti, di cui si adornavano le città soggette, furono trasportati a Roma”20, lo stesso Augusto afferma: “ho trovato una Roma di mattoni e la lascio di marmo”a testimonianza del suo impegno all’impreziosimento della Città.
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“Exstat certe eius oratio magnifica, et ntaximo civi,m digna de tabulis omnibus si- gnisque publicandis, quod fieri satius fiuisset quam in villanm exilia pelir. PLINIO, Naturate Historia, XXXV, 2. 17 “Primus bibliothecam dicando ingenia hominum rei publicam fecit, PLINIO, Naturate Historia, XXXV, 2. 18 PLUTARCO, Vite parallele, Lucullo, XLII. 19 “Facendo sunt vestibula regalia, alta atria et peristylia amplissima; praeterea biblyotecae, pinacothecae” (Vitruvio Pollione, De Architectura). 20 L. PARPAGLIOLO, Codice delle antichità...op. cit., p. 8. PLINIO attesta che fino ad allora la pittura “risii et contumelia erat * (Nat. Hist., XXXV, 9); SVETONIO rimarca invece il mutato atteggiamento rispetto all’arte pittorica nella Vita di Giulio Cesare; VALERIO MASSIMO, scrivendo de cupiditate gloriae, ritiene disdicevole la condotta di Fabius Pictor, che avrebbe inteso incrementare la propria fama non solo o non tanto decorando il tempio della dea Salus (nel 304 a.C.), bensì apponendovi la inscriptio nominis. Rispetto all’episodio Cicerone aveva aggiunto che Fabius non avrebbe compreso che se la pittura non poteva glorificare il committente, tanto meno poteva dare lustro all’autore (Marco Tullio CICERONE, Tusculanae disputationes, 1.2.4).
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Quanto più Roma andava arricchendosi e monumentalizzandosi tanto più cresceva il bisogno di tutelare queste ricchezze. All’epoca Augustana si data l’istituzione dei Comites nitentium rerum, che, basandosi sulle più importanti leggi urbanistiche od edilizie del tempo -
Lex Iulia Municipalis
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Lex Genetivae Iuliae
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Lex Malacitana
Avevano l’incarico di tutelare il decoro cittadino, ne adspectus urbis deformetur, sia nei suoi edifici pubblici sia in quelli privati. Augusto fu solo il primo, non l’unico imperatore ad occuparsi di quella causa, fu solo con l’introduzione del cristianesimo che la conservazione veniva interpretata secondo significati religiosi, compromettendone profondamente la sua struttura fondante: così Tertulliano (160-220) determinò l’esplosione furiosa dell’iconoclastia e la conseguente distruzione di innumerevoli immagini sacre, affermando che il demonio si nascondesse in esse. L’esercizio delle arti liberali21 era riservato agli uomini ben nati mentre arte e artigianato si trovavano escluse in quanto il lavoro d’artista si basava su un contratto di locatio-conductio, ove la libertà intellettuale dell’artista non era neppure concepibile.22 Nonostante ciò i patrizi arricchivano le loro dimore di statue e dipinti, spesso copie da opere greche,gli schiavi in grado di dipingere o scolpire erano considerati di maggior valore ed in generale, sotto Giustiniano, si assiste ad un incremento d’attenzione alla tutela a favore dell’utile pubblico espresso in numerosi divieti a compressione della libertà d’esercizio della proprietà privata, esplicativo in tal senso è il divieto al privato di consentire o produrre lo sfacelo del proprio edificio23. 21
Retorica, grammatica, filosofia, diritto, geometria. Le “arti liberali”, attività intellettuali d’alto grado, di regola esercitate senza retribuzione e senza alcun significativo impegno fisico, sono trattate da CICERONE nel De Oratore e nel De Officiis. 22 Questo si evince dalla lettura di un passo di Paolo nel Digesto (Digestae o Pandectae) giustinianeo (533), parte pricipale Corpus Juris Civilis. 23 Nel Codex di Giustiniano, al titolo VIII. 10, De aediflciis privatis, si stabiliva: “Si quis post hanc legem rivi tate spoliata ornatimi (hoc est, marmora, vel columnas) adrura transtulerit:privetur eapossessione, quam ipse ornaverit” ed ancora l’obbligo di ripristinarlo se fatiscente come pure “fu vietato di staccare dagli edifizi pubblici come privati, di Roma come in ogni altra città, marmi e colonne per venderli; disporne disgiuntamente dagli edifici cui afferivano; di vendere e di legare biblioteche, statue, dipinti, pur anco non aderenti alle pareti, sempre quando vi fossero destinati dal padre di famiglia ad uso perpetuo” ”23, fatte due sole eccezioni per la disposizione ad uso dello Stato o per cessione o legato al Comune, al di fuori delle quali nemini columnas vel statua cujuscumque materiae ex alia eademque provincia vel auferre liceat vel movere. L. PARPAGLIOLO, Codice delle antichità.. .op. cit., p. 11. Peraltro, già in un editto di Vespasiano (69-79) ratificato per senatoconsulto dei consoli Aviola e Pansa, nell’anno V dell’impero di Adriano (forse il 121), si proibiva al privato di demolire la propria dimora al deprecabile fine di alienarne gli ornamenti, con la previsione di annullamento della vendita e di multa pari al doppio del valore della cosa. Si ammetteva solo, a duplice eccezione, tanto il caso di un trasporto di marmi da una casa all’altra dello stesso
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Il Codice Teodosiano (438) opera nella medesima direzione e con pene severissime nel tentativo di arginare le distruzioni sistematiche di monumenti pagani ad opera dei cristiani in nome della Fede. Norme raggirate attraverso la corruzione dei giudici incaricati di rilasciare “licenza di sottrarre materiale agli edifici pubblici fatiscenti con lo scopo dichiarato di costruirne di nuovi e quello occulto di erigere case private”24. Venti anni dopo un editto di Leone e Maiorano (458) blocca il raggiro della legge sancendo una pesante multa per i giudici corrotti ed il taglio della mano al beneficiario. Le norme a tutela dei beni culturali sono ancora caratterizzate da frammentarietà strutturale, che continua, nonostante i tentativi vigorosi di Teodorico (454-526), re degli Ostrogoti, che rinvigorì e promosse la conservazione, soprattutto scongiurando il furto25, dell’edilizia di Roma e Ravenna26, anche attraverso l’aiuto del ministro Cassiodoro (490-583)27. Teodorico inoltre si operò nel finanziamento di restauri, sia direttamente, sia affidandoli ai ricchi in cambio di privilegi e cariche, purtroppo questi raramente mantenevano le promesse fatte al sovrano che si trovò costretto a sollecitare al Senato romano il castigo degli inadempienti28. Dopo di lui la Prammatica Sanzione di Giustiniano rievoca l’ordinamento romano ad utilitatem omnium qui per occidentes partes abitare noscuntur, questo però resta un episodio isolato anche se incisivo, della legislazione bizantina in merito alla tutela dei beni culturali, seguono anni di buio giuridico e solo con l’arrivo del secolo XV vedono luce i primi tentativi di salvaguardare ciò che resta di un glorioso passato29. Durante questi secoli la tutela si proprietario e sempreché non si compromettesse la pubblica vista (ne publicus deformetur adspectus), quanto il caso dell’uso pubblico di quei marmi. 24 G. VOLPE, Manuale di Diritto dei Beni Culturali, op. cit., p. 13 25 Riferisce Cassiodoro che essendo stata rubata a Como un’antica statua di bronzo, il sovrano “ordinò a Tancilla senatore che con ogni mezzo scoprisse il rubatore, promettendo cento monete d’oro, l’impunità al reo ove si manifestasse: quando venisse da altrui rilevato gliene fa caso di morte. Tanto era prezioso, tanto gli stava a cuore quell’antico lavoro”. CASSIODORO, Variae, II, XXXV. 26 L’attenzione di Teodorico verso l’arte e l’architettura è dovuta alla gioventù trascorsa presso la corte di Costantinopoli come ostaggio in garanzia della pace tra i due popoli, greci ed ostrogoti. La vicinanza ad un ambiente così raffinato permise al giovane di avvicinarsi all’arte ed alla cultura classica, caratteristica pregnante del suo illuminato governo fu la tutela e la propulsione di quella cultura all’interno del suo regno. 27 Flavius Magnus Aurelius Cassiodoms Senator (c. 490-583). Figlio e consigliere di un prefetto del pretorio di origine siriana, come alto funzionario di Teodorico fu tra i massimi artefici della fusione tra le civiltà romana e barbarica. Nel 507 fu questore, nel 514 console, nel 523 magister officiorum (segretario) del Re Teodorico, e dalla sua morte ministro della figlia di questo Amalasunta, la quale a sua volta era reggente per il fratello Atalarico. Favorì altresì trascrizione e conservazione dei testi antichi. Autore delle Variae (537), raccolta epistolare relativa allo svolgimento degli affari politici di quel governo e fonte storica di altissimo rilievo; si veda anche la Historia gotica, elogio della politica di Teodorico. Ritiratosi dalla scena politica nel 540, fonda il monastero di Vivano presso Squillace (ove era nato) in Calabria e vi si ritira, dedito a studio e scrittura fino alla fine dei suoi giorni. 28 Mediante lo schema Formula Comitivae Romanae, dettato da CASSIODORO (Variae, VII, XIII). 29 Con l’invasione longobarda, popolo che meno tra tutti quelli di origine barbarica aveva avuto contatti con i romani, le tradizioni e la cultura romana cadono nell’oblio, l’Italia rimane preda di molteplici razzie ed invasioni per
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era ridotta a mera manutenzione degli edifici, di oggetti o suppellettili di culto e ad oggetti di proprietà privata aventi, per lo più accidentalmente, pregio artistico. Il fenomeno dell’“incastellamento delle fabbriche” fu quello che maggiormente determinò il cambiamento di destinazione di diversi edifici, dai palazzi alle chiese in disuso e fu solo con il Concilio generale lateranense (1123) che si pose fine a questo fenomeno, per lo meno per quanto riguarda gli edifici di culto30. Gli anni più funesti per il patrimonio artistico furono però quelli della “cattività avignonese”.
mano di chiunque fosse abbastanza forte per capovolgere le sorti del potere. La penisola resta lacerata e quel che resta del glorioso impero romano d’occidente viene spartito tra Longobardi, Franchi e Papi. Nel buio politico e legislativo che ne seguì i monumenti furono strumentalizzati nelle lotte intestine tra città e famiglie, trasformati o distrutti in nome della Fede per costruire da ciò che era pagano monumenti del nuovo credo religioso, o per servire da fortilizi o da rifugio per i banditi. Sorte peggiore toccò ai Fori: adibiti a depositi di detriti cittadini. Non il tempo ma l’incoscienza degli uomini servì queste vestigia alla distruzione. Avv. N. A. FALCONE, Il codice delle belle arti ed antichità, Casa Ed. Dott. L. Baldoni, Firenze, 1913, pp. 25-26. Altri è più recenti orientamenti sono meno drastici, quantomeno riguardo all’età longobarda. 30 “Ecclesias a laicis incastellari aut in servitutem redigi, auctoritate apostolica pròhibemus”.
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