ENRICO REGINATO 1954 il ritorno - 2014 la memoria, booklet DVD

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© Proprietà letteraria degli autori 2014: Giovanni Battista Reginato Italico Cauteruccio Enrico Reginato.

Frammenti video: © Archivio Istituto Luce - Cinecittà s.r.l. Fotografie: © Archivio Imelda Tosato Reginato. Il brano “Signore delle cime” di Giuseppe de Marzi è eseguito dal Coro Brigata Alpina Julia diretto da Cristiano Dell’Oste. Ringraziamenti: al presidente nazionale ANA Sebastiano Favero, al vice presidente nazionale ANA Nino Geronazzo, all’ex presidente nazionale ANA Corrado Perona, e a quanti si prodigano a tenere viva la memoria di Enrico.

concept, design, graphics, vfx & video: Gerardo De Pasquale

Strada di Ca’ Zenobio, 28/B - 31100 Treviso, Italia © Tutti i diritti riservati 2014 editoriale no profit, gratuito. Enrico Reginato 1954 il ritorno 2014 la memoria, 1.a ed.


« Voglia Iddio ascoltare la nostra preghiera: (…) Conceda che l’umanità comprenda che la più importante conquista dell’uomo, la sola grande conquista è quella di farsi degni di reciproco rispetto, di riconoscersi degni di reciproco amore. » Enrico Reginato, gennaio 1988



Questa piccola opera editoriale vuole essere un umile omaggio all’ incommensurabile amore di Imelda per il suo sposo Enrico



† Parte Prima † L’INSEGNAMENTO NECESSARIO Dott. Giovanni Battista Reginato pag. 9

† Parte Seconda † 60° ANNIVERSARIO DEL RIMPATRIO Gen. C. A. Italico Cauteruccio pag. 13

† Parte Terza † TROVANDO NEL CUORE LA FONTE DEI LORO DONI M.O.V.M. Enrico Reginato, 1988 pag. 21

† Parte Quarta † ONORIFICENZE pag. 39



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L’INSEGNAMENTO NECESSARIO Dott. Giovanni Battista Reginato

Il 13 febbraio 1954 faceva ritorno alla sua Treviso il tenente medico Enrico Reginato, dopo 12 terribili anni di prigionia in Unione Sovietica. Ad accoglierlo, una piazza gremita di cittadini, che vollero tributargli un immenso bagno di folla. Partito per il Fronte Russo nel gennaio del 1942, in forze al btg. Sciatori Monte Cervino, un’unità d’élite del Regio Esercito già più volte decimata e ricomposta per il fronte russo dopo un primo impiego in Albania, fu catturato il 28 aprile in Ucraina, nei fatti d’arme di Stalino (ora Donec’k); era in quei giorni reduce da un’impresa sportiva che lo vide, alpinista, condurre una prima ascensione invernale sulla Grivola, che gli valse un inizio di congelamento, celato operandosi da sé

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durante il viaggio per non abbandonare i camerati in partenza, e che negli spostamenti al fronte gli imponeva l’uso del cavallo o di un bastone. Le condizioni dei duri anni di prigionia non ne avevano piegato la dignità d’Uomo e d’Ufficiale, né affievolito la fede di Cristiano, o stemperato la devozione di medico alla cura dei malati e dei morenti per inedia, freddo, epidemie, maltrattamenti, di ogni nazionalità che la guerra e lo scellerato patto russo-tedesco avevano precipitato nella tragedia. Fu per ciò decorato di Medaglia d’oro al V. M. in patria, della Croce al Merito di 1° classe dalla Germania Federale e dal Governo Rumeno post-comunista dell’Ordine della Stella di Romania, con un provvedimento ad memoriam. Medico d’antica scuola, che nella mancanza d’ogni mezzo ricavava strumenti chirurgici da una lametta da barba o da un temperino, e bizzarre ma efficaci cure dalle memorie dei testi di storia, conforto per i malati e i morenti dalle parole ma soprattutto dal sacrificio di sé e dalla Carità che nell’orrore gli sono stati sentiero e lume, portava -lo ricordano i compagni- su di sé, nei momenti più cupi, l’odore della morte, che impregnava i suoi vestiti, se non anche la pelle, ma che significava per gli altri un annuncio di speranza, la certezza di un conforto, il dono di un frammento di pane o di un po’ di kaša sottratta dalla propria razione. Condannato come criminale di guerra nel 1950 a vent’anni di lavoro, con la complicità e il consenso servile anche dei favoreggiatori italiani del regime sovietico che mal vedevano il rimpatrio degli ultimi reduci testimoni


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dell’orrore, la Provvidenza e la storia vollero infine concedergli il ritorno alla sua amata Treviso, dove la madre e la sorella l’attendevano; e l’accoglienza della città rivive ancora nella memoria di chi in quel giorno era presente. Morì all’Ospedale Militare di Padova il 16 aprile 1990. L’aver vissuto l’inferno non gli aveva intaccato l’animo, ma lo aveva semmai reso ancor più radicalmente fedele al precetto cristiano: inflessibile e sanguigno sui princìpi quanto delicato sugli uomini e il loro patire, ci offre oggi un insegnamento più necessario che mai.

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60° ANNIVERSARIO DEL RIMPATRIO Gen. C. A. Italico Cauteruccio

Voglio iniziare evocando il motivo di questo scritto: il 60°anniversario del ritorno in patria del nostro Enrico Reginato, tenente medico degli alpini decorato di M.O.V.M. il cui comportamento eroico ha del sublime perché, da prigioniero di guerra in Russia -per 142 mesi, 12 interminabili anni- oltre a dimostrare di essere un patriota e un soldato di fede incrollabile, si è prodigato al limite dell’inverosimile verso i soldati con lui detenuti. Reginato era partito per la Russia nel gennaio del ‘42, col battaglione Alpini Sciatori “Monte Cervino”, reparto scelto costituito tutto da specialisti della montagna, già distintosi per lo straordinario valore e pressoché distrutto nella campagna di greco-albanese e ricostituito apposta per

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quella di Russia, dove subì la stessa sorte dopo aver confermato la sua fama in azioni ardite e disperate: per questo fu l’unico reparto del livello battaglione decorato di medaglia d’oro in Russia. In una di quelle imprese, Reginato venne catturato, in un agguato di notte, alla fine di aprile del 1942, negli aspri combattimenti del bacino del Donez: iniziò così la sua odissea di prigioniero in Russia. Per delineare la situazione in cui venne a trovarsi Reginato vale bene qualche riferimento a quanto egli ha lasciato scritto sui prigionieri: appena catturati venivano spogliati di indumenti ed oggetti di qualche valore, lasciati per giorni senza cibo, al freddo, con pernottamenti all’addiaccio; venivano abbattuti se si attardavano nelle lunghe marce sulla neve verso centri di raccolta improvvisati (vecchi monasteri, caserme abbandonate dal tempo della cavalleria zarista, capannoni in disuso, bunker scavati nella nuda terra). L’Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento umanitario dei prigionieri di guerra, per cui non si poneva questo problema: lo considerava solo per l’aspetto della sorveglianza, il resto era irrilevante giacché il numero dei catturati dall’esercito sovietico -in ritirata sino all’autunno del ‘42- era stato esiguo, quindi si era quasi risolto da sé, per estinzione naturale, in forza del trattamento inumano praticato loro. In seguito, il problema dei prigionieri divenne invece gravissimo, e la loro tragedia raggiunse il massimo dell’atrocità tra il dicembre ‘42 e il gennaio ‘43, dopo lo sfondamento del fronte meridionale da parte dell’Armata Rossa,


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quando vennero accerchiate le difese tedesche di Stalingrado e travolte quelle sul Don tenute da rumeni, italiani e ungheresi. Reginato disse di aver visto entrare nei campi di raccolta migliaia di soldati di varie nazionalità che, nel breve arco di trenta giorni, si ridussero a poche decine. In quei trenta giorni, egli vide il dolore toccare il vertice del disumano: i ricoveri fatiscenti ed esposti al rigore del clima invernale, erano gremiti sino all’inverosimile da uomini doloranti. L’odore acre della cancrena ristagnava ovunque, la fame, la sete, il freddo glaciale e la dissenteria, distruggevano quei corpi le cui lacere vesti erano infestate da parassiti. Reginato, e i medici che avevano la forza di imitarlo, si trascinavano tra quegli infelici sino a che il male colpiva e portava via molti di loro. Dovevano dosare gli scarsi medicinali con assoluta parsimonia valutando la gravità dei malati e farne una graduatoria che escludeva i più debilitati, nonostante le loro invocazioni. In quel contesto aberrante, il medico Reginato si prodigava senza riserve, operando con un temperino e amputando arti con una comune sega, usando come anestetico la neve e la stessa cancrena. Ogni mattina, a centinaia, i morti venivano trascinati all’aperto, accatastati sulla neve, perché non c’erano attrezzi per scavare fosse comuni ed anche perché il terreno ghiacciato, duro come roccia, lo avrebbe impedito. Per la fame ci furono persino casi di necrofagia. Ma i suoi meriti andavano anche oltre: si spendeva in un continuo, esemplare trasporto di umanità, anzi di Ca-

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rità, nel senso evangelico del termine, che vuole sia elargito amore verso il prossimo, amore non come sensazione, ma come atto di volontà che, a Reginato, faceva vedere -in quei derelitti soldati di ogni nazionalità, in quei corpi persino repellenti- dei fratelli, dei figli di Dio, così li definiva, così li sentiva. Li assisteva, li ascoltava, li consolava e per tutti aveva un sorriso che era luce in quelle tenebre. La moria dei prigionieri si attenuò solo dopo il maggio ‘43: in quei cinque mesi la maggior parte erano ormai deceduti. I sopravvissuti, ridotti a larve umane, vennero adibiti a lavori anche pesanti e dovettero inoltre sopportare una accanita, proterva propaganda politica intesa a convertirli all’ ideologia di quel regime. Così ha scritto Reginato: “Il nemico, con diabolica malizia, non pago di aver incatenato i loro corpi riducendoli alla più mortificante condizione umana, pretendeva il trofeo delle loro anime, per vincerli due volte, usando l’arma della propaganda e del ricatto”. A questa imposizione si ribellò Reginato che, con alcuni altri ufficiali, non accettò prevaricazioni e offese, rivendicando le sue convinzioni e la sua dignità di Soldato. La minaccia ricorrente era “Tu devi cambiare opinione, altrimenti, non rivedrai, né tua madre, né la sposa, né i figli”. Alle intimidazioni seguirono, punizioni, privazioni, sevizie e continui trasferimenti sino a sfociare, negli anni ‘50, in un processo basato su accuse false e infamanti, concluso con la condanna a venti anni di lavori forzati. Il tempo intanto passava, la guerra era finita e dagli


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altri stati belligeranti che avevano catturato soldati italiani, i prigionieri erano rientrati in patria nella percentuali del 95%, mentre di quelli della Russia non si sapeva nulla, sino a che, anche grazie alle pressioni internazionali, i superstiti cominciarono a tornare a piccoli gruppi, a scaglioni, in tempi diversi, anche a distanza di anni. Dei soldati italiani, su 70 mila catturati durante la ritirata, ne tornarono diecimila, molti fiaccati nel fisico, tutti nell’ anima. Restavano gli irriducibili, un gruppo di 28, e tra questi Reginato, che furono rimpatriati 11 anni dopo l’armistizio del ‘43, 9 anni dopo la fine della guerra e, per Reginato, 12 anni dalla cattura. Era il 13 febbraio del ‘54. Giusto 60 anni fa. Ed ora permettetemi che vi dica come io vissi il suo rimpatrio e l’effetto che ebbe su di me. Quel giorno del ritorno di Reginato a Treviso, io ero un ragazzo e fu l’unico giorno della mia vita che marinai la scuola: andai assieme ad una folla immensa al suo arrivo in Piazza dei Signori, mai vista così gremita. Molti avevano dei congiunti dispersi in Russia, dei quali, dopo dieci anni, non sapevano nulla, né purtroppo avrebbero saputo di più in seguito. Tutti erano mossi da sentimenti di ammirazione per quanto sofferto, soprattutto dagli alpini, di cui Reginato era divenuto un simbolo. Appena giunto, nella sua uniforme grigioverde, fu portato a spalla in trionfo e, così eretto, tentò di ringraziare la folla per quell’accoglienza. Con poche parole, rotte dalla commozione, non disse nulla dei suoi patimenti, dell’ango-

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scia rinnovata -ogni volta e per anni- nel vedersi escluso dai rimpatri perché condannato ai lavori forzati, solo per aver rivendicato il suo onore di soldato ribellandosi all’imposizione dell’ideologia marxista. Non accennò a tutto questo, ma -chiedendo scusa per essere tornato vivo e per non aver potuto fare di più come medico- parlò dei soldati che aveva visto soffrire, agonizzare e morire -perché privati di cibo e di ogni assistenza da chi li deteneva- ai quali aveva rivolto disperatamente le sue cure con mezzi di fortuna e raccogliendo da migliaia di moribondi le ultime invocazioni e l’estremo anelito. Quelle parole, dette con tanta schiva umiltà e tanta tensione morale, mi rivelarono che quell’Uomo, divenuto leggenda, possedeva, in modo eccelso, al di là dell’etica e dell’arte medica, il requisito che mi sembrava indispensabile per chi avesse responsabilità di uomini in armi: l’amore per i propri soldati, che vuol dire rispettarli, capirli, aiutarli e proteggerli. E questo tanto più le circostanze siano critiche e disperate. Con questo prezioso viatico, lo stesso anno, sono entrato all’Accademia di Modena. Dopo qualche tempo, da capitano, incontrai l’allora colonnello Reginato e cercai di ringraziarlo per la carica spirituale che mi aveva dato quel giorno. Rimase ad ascoltarmi con un’espressione meravigliata, sempre più stupita, che alla fine si apri in sorriso e mi disse “Grazie”. Lui che ringraziava me! Più avanti, notando il suo attaccamento e la sua frequentazione con i pochi, valorosi reduci del “Monte Cervino”, pensai -per fargli piacere e rendere loro omaggio- di chiedere l’attribuzione del nome di quel glorioso battaglio-


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ne ad una unità speciale -ultima nata nelle Forze Armate e in particolare nelle truppe alpine- gli Alpini Paracadutisti, dei quali ero comandante di corpo e che non avevano ancora una denominazione. L’ottenni, quel nome, e i reduci furono entusiasti che fossimo gli eredi delle loro tradizioni. In quel periodo, era il 1990, tornai a Treviso per salutare ancora una volta il generale Reginato tra la folla, non più plaudente come al suo ritorno, ma muta e attonita, perché il generale era in partenza, ci lasciava per sempre: lo attendeva la moltitudine di soldati che aveva cercato di aiutare in terra di Russia. Ed io non ero più il ragazzo solo e incantato di un tempo, ma anche grazie a lui, un comandante di alpini in armi che portava con sé tutta la mestizia del loro cordoglio e del loro rimpianto. Esiste un luogo comune che dice “Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi”: non so degli altri popoli, penso, però che in Italia, di Uomini come Reginato, c’era e ci sarebbe ancora tanto bisogno. C’è anche un detto anglosassone che mi pare reciti così: “I bravi soldati non muoiono mai, perché vivono nel cuore dei loro compagni”. Ecco perché l’esempio di Reginato aleggia ancora tra gli Alpini.

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TROVANDO NEL CUORE LA FONTE DEI LORO DONI M.O.V.M Enrico Reginato, gennaio 1988

Nei giorni che intercorsero fra il 20 ed il 26 gennaio 1943 sul fronte orientale si compì il destino dell’ARMIR. Nikolajewka, Valuikj: nomi di località che segnarono per gli alpini destini opposti. Agli uni si aprì la via della salvezza verso la Patria infintamente lontana; agli altri un’inenarrabile odissea di sofferenze. Quando i generali di due divisioni alpine, rendendosi conto della disperata situazione nella quale erano serrati i loro reparti, vennero all’amara decisione di far cessare i combattimenti, non sapevano né potevano presumere, che la resa, atto di fiducia verso quella civiltà della quale erano

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parte, avrebbe segnato il preludio dell’ultimo atto di un’immane tragedia: il calvario degli alpini. Le loro menti di soldati leali nella lotta e generosi col vinto, non potevano accettare il pensiero che quel sentimento del dovere che impone ad ogni cittadino di combattere per il proprio paese avrebbe potuto trasformarsi in colpa e scatenare un odio che non si sarebbe arrestato alla cessione delle armi, bensì si sarebbe fatto ancor più feroce sull’avversario inerme. Su quel fronte lontano infatti si erano scontrate non solo armate, ma concezioni e mondi completamente opposti, tanto che migliaia di uomini, in oltraggio ad ogni principio umano o cristiano, stavano per essere condannati a soffrire e a morire di privazioni e di stenti in uno stato di servitù moderna che avrebbe fatto rievocare e rivivere e fors’anche superare le tremende durezze delle antiche servitù pagane. Per i soldati caduti in mano nemica, le diverse tappe della prigionia non furono che stazioni di un lungo calvario di disfacimento e di morte. Morte per esaurimento durante interminabili marce, flagellate da venti gelidi, morte per colpi inesorabili esplosi dagli uomini di scorta, per epidemie incontrollabili, per debolezza estrema, per inedia e fame. Ripercorriamo assieme questa lunga via del dolore affinché il ricordo sia anche un atto di pietà per gli scomparsi e per i loro parenti che portano tuttora nel cuore lo straziante dolore.


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Ma sia anche un ammonimento, in questo inizio dell’anno 1988, a tutti coloro che hanno chiuso gli occhi e le orecchie alle innumerevoli ed altrui testimonianze, agli accorati e disperati appelli che ci pervengono dall’impero del lavoro forzato; a chi ha definito cassandre coloro che portarono e portano tuttora in occidente le voci ed i moniti dei reclusi e dei morti. Sia di ammonimento agli increduli, agli indifferenti, ai rassegnati, a coloro che intendono sollevare la bandiera bianca della rinuncia ad ogni difesa per consentire che popoli interi cadano senza difendersi nell’infima delle condizioni nella quale l’uomo non è che una vittima, un numero, un niente. Marce del Davai! - parola russa d’incitamento che significa: «avanti»! Marce di annientamento in un mare di gelo! La colonna dei prigionieri, sospinti da urla e bestemmie, si assottigliava di giorno in giorno; chi si arrestava o si accasciava veniva ucciso o abbandonato. Non cibo, non bevande calde, solo urla, percosse sospingevano verso mete lontane: Krinovaja, Tambov, Miciurinsk; nomi la cui pronuncia fa risvegliare nei superstiti, ancor oggi, l’orrore. Le piste da percorrere erano disseminate di cadaveri, senza nome e senza indumenti, abbandonati dalle colonne che avevano preceduto, cadaveri che corvi ed indigeni avevano profanato, i primi per sfamarsi, i secondi per dividersi le vesti.

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Ad ogni luogo di sosta notturna, nuove pene; scarpe, indumenti, oggetti d’ogni genere venivano strappati ad uomini troppo deboli per difenderli. Soldati, che sotto il morso della fame tentavano di eludere la sorveglianza, venivano abbattuti come cani. All’alba, quando le colonne dovevano riprendere la marcia, gli ammalati, i congelati, tutti coloro che per l’estrema stanchezza non riuscivano a sollevarsi, venivano finiti a colpi d’arma da fuoco. Attraversando villaggi che avevano prima conosciuto la generosità degli italiani, qualche donna pietosa accorreva a porgere un pezzo di pane, qualche patata, un po’ d’acqua; ma le scorte spietate sparavano anche verso coloro che provavano pietà. Neve impastata di fango era l’unico sollievo alla sete ed alla fame. Dopo oltre venti giorni di marce forzate, le decimate colonne dei prigionieri giunsero nei campi di raccolta: nel grande recinto delle ex scuderie imperiali di Krinovaja, vi erano già ammassati migliaia di prigionieri dei diversi eserciti combattenti sul fronte orientale, folla multilingue di affamati, di abbrutiti. Oltre trentamila uomini entrarono nel campo di Krinovaja: ne uscirono vivi meno di tremila. Ventisettemila prigionieri sono morti a Krinovaja nel breve periodo di quaranta giorni. Nell’interno di questo campo fu toccato il limite estremo di ogni umana sofferenza.


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I capannoni, i box, erano gremiti fino all’inverosimile di uomini doloranti; l’acre odore della cancrena dei congelati ristagnava ovunque; la fame distruggeva i corpi; la dissenteria completava l’opera di disfacimento di esseri umani martoriati da fame, da sete, da parassiti che brulicavano nelle barbe incolte e sotto le vesti sudice e lacere. Un buio tragico ed ossessionante scendeva fin dalle prime ore della sera interrotto ogni tanto da torce agitate dagli uomini di guardia che prelevavano, con urla e bastonate, prigionieri per il lavoro; poi di nuovo scendeva un silenzio di morte interrotto da grida di dolore, da gemiti e lamenti, da preghiere recitate ad alta voce da qualche cappellano; talvolta perfino da uno straziante canto: «Alpini della Julia, in alto i cuori...». Quando iniziarono le prime distribuzioni di cibo, come scossi da improvvisa follia, fantasmi umani si levarono e si gettarono sulle marmitte rovesciando il contenuto a terra, buttandosi al suolo per succhiare il cibo mescolato al fango! Il capitano Magnani raccolse allora i soldati più validi per fare scorta al pane e alle marmitte e difenderle da bande di affamati delle più varie nazionalità in agguato per gettarsi sulle provvigioni quando si profilò un’aberrazione ancora più mostruosa, la necrofagia; furono ancora gli alpini di Magnani che si mossero per sottrarre a quei macabri banchetti i loro morti e talvolta anche i morenti. Ma non si chieda come sia stato possibile tutto questo; come possa l’uomo cadere tanto in basso.

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«Il “Sistema” governa e doma i vinti con la fame; fame e terrore sono metodi collaudati che riescono a cancellare talvolta ogni traccia di dignità umana e perfino il ricordo di chi si è e di chi si è stati» sono le parole del professor Ioli, mio compagno di prigionia. L’affamato diventa un nulla che si piega a tutto, per un tozzo di pane; si sottomette ad ogni fatica per un tozzo di pane; sopporta e subisce tutto per fame e talvolta, in casi estremi come questi, diventa lupo e iena per fame. Finalmente giunsero vagoni ferroviari per caricare e trasportare altrove queste vestigia umane cariche di dolore e parassiti. Finalmente, finalmente fuori da quell’inferno. Finalmente altrove, dove si possa vivere!... Ma no, non ancora. Doveva essere assai più lunga la via del Calvario. Con il trascorrere dei giorni, nell’interno dei vagoni sprangati, spettrali figure di morti irrigiditi dal gelo cominciarono, anche là, a tenere compagnia ai vivi. La sete, esacerbata dal pane secco e dal pesce salato, torturava più della fame mentre i vagoni correvano sopra un mare di neve. Qualcuno, cui la fame spezzò la ragione, annunziava, nel delirio, l’arrivo di un sontuoso banchetto; altri, folli di sete, porgevano la bocca ad immaginari zampilli d’acqua. I convogli scaricarono questa umanità ferita e dolorante in altri campi che l’accolsero per rigettarla nelle fosse co-


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muni: l’attendevano in essi non l’agognata salvezza ma il tifo, la tubercolosi, la difterite, la pellagra ed infiniti altri mali. I lazzaretti, così venivano chiamati i luoghi dove si moriva, offrivano uno spettacolo straziante e sconvolgente: corpi distesi su pagliericci fradici di escrementi e di purulenze cancrenose, su pancacci sudici o sulla nuda terra, che si disfacevano per morbi sconosciuti. La morte, spettro senza riposo, passava e ripassava: ogni giorno volti nuovi, nuove sofferenze, cervelli sconvolti dal delirio della febbre, corpi distrutti dalle dissenterie, arti deformati dagli edemi, ferite corrose dalla cancrena. I medici, i cappellani, gli infermieri, tutti volontari, si trascinavano in mezzo a questi infelici fintanto che la morte non portasse via anche loro. Quattro secoli prima della nascita di Cristo, Tucidide, descrivendo l’epidemia di peste d’Atene, ebbe per l’oscuro sacrificarsi dei medici le seguenti parole: «I medici non erano in grado di combattere la peste dato che si trovavano a curarla per la prima volta: anzi essi stessi più che ogni altro ne morivano in quanto più che ogni altro ai malati si accostavano». Le stesse parole possono essere usate, quasi duemila anni dopo Cristo, per i medici che lottavano nei lager contro le dilaganti epidemie di tifo esantematico e di dissenteria. Quali medici? Quelli che non erano ancora morti di stenti e di fame. Quelli che non erano caduti ai margini

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delle strade, finiti dalle sentinelle. Quelli che non erano stati abbattuti assieme agli infermi nel disperato tentativo di salvarli. I superstiti di una crudeltà che non era soltanto nel clima, nella natura, nella disorganizzazione, ma nel cuore e nella volontà degli uomini e nell’atrocità del «sistema». I medici ed i cappellani restarono fra i loro compagni di sventura, pazienti fra pazienti. La debolezza e la fame avrebbero suggerito di pensare a loro stessi, a risparmiare le proprie forze, ma vollero essere medici ed essere preti malgrado tutto, senza riuscire ad impedire che la morte compisse i suoi flagelli. Come uomini, erano travolti dallo stesso torrente di morte; come medici, come preti, si trascinavano a mani vuote di farmaci, ma trovando nel cuore la fonte dei loro doni. I medici esercitavano la professione nell’assurdo, fra pazienti che sapevano diagnosticare la loro infermità da soli, nell’abbandono e nella fame. Essi possono dire perché tanti sono morti; ma, in questo caso, hanno poco da dire: semplicemente, che furono uccisi; non importa come, ma uccisi; creare condizioni impossibili alla sopravvivenza è uccidere. Medici che in una notte hanno visto morire oltre 400 uomini, che possono dire se non della nullità del loro sforzi?


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L’unica libertà che veniva loro concessa era di misurare i palpiti di tanti cuori che si spegnevano e di raccogliere dalle labbra che si chiudevano per sempre, il saluto, l’estremo messaggio d’amore per i cari lontani: «di’ ai miei figli che crescano degni del loro padre; di’ a mia madre che sono morto da cristiano; di’ alla mia sposa che l’ho amata tanto»! Più che curare, i medici ed i cappellani vedevano, ed hanno visto perché, malgrado tutto, hanno voluto assistere; ma chi? Pazienti nei quali essi vedevano l’immagine di se stessi! Pazienti essi stessi, dunque, che trovavano motivo di vita nell’aiuto che davano a chi insieme soffriva, perché capivano che il balsamo che allevia tutti i mali è sempre e solo quello insegnato da Cristo: l’amore. Solo così potevano continuare a fare i medici, a fare i preti e a farsi coraggio. Perciò, contro le regole dell’igiene, operavano sulla nuda terra usando mezzi rudimentali: forbici, lamette da barba, seghe da fabbro, ed attenuavano il dolore con il gelo della neve; perciò curavano i brividi della febbre con la coperta tolta al compagno accanto, già morto; ripulivano i diarroici dalle loro feci e da quelle del vicino e le mani se le lavavano se, della poca acqua bollita distribuita agli infermi come dissetante, ne fosse rimasta qualche goccia; raccoglievano acqua dalle grondaie quando pioveva, o cercavano neve pulita sui tetti per dar da bere agli assetati; andavano a rubare legna e carbone per riscaldare gli infermi; cercavano nella memoria ricordi di cure primordiali facendo bollire scorze di alberi e carbonizzando ossa di animali per fermare la

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diarrea; facevano infusi di aculei verdi di conifere e raccoglievano i primi germogli della primavera per fermare lo scorbuto, e conducevano la lotta più severa contro i parassiti per arrestare le mortali epidemie di tifo esantematico. Medici e cappellani cercavano di fissare nella propria memoria i nomi dei morti ripetendo mentalmente, talvolta per anni, tutti i giorni, il lungo elenco, per non dimenticarli e poter un giorno compiere il loro doloroso dovere, Dio volendo, di riferirli alle famiglie in angosciosa incertezza. Questo perché scrivere i nomi era proibito: gli elenchi dei morti venivano sottratti ed i compilatori di essi puniti severamente sotto accusa di spionaggio. Il delitto non era lasciar morire tanti innocenti, ma darne testimonianza. Gli uomini del «sistema», se pur uomini si possono chiamare, non si commuovevano per tanti decessi. Ciò che per noi fu esperienza tragica e sconvolgente, per loro non fu altro che la monotona ripetizione di un fenomeno che lassù il sistema deve rigenerare, di tempo in tempo, per durare e diffondersi. Essi hanno solo temuto, più tardi, che le cifre spaventose dei morti fossero conosciute in occidente o che nessuno riuscisse a sopravvivere, perché, in fondo, eravamo occidentali e qualcuno avrebbe potuto reclamarci, un giorno! A quel punto pervenne ai medici un ordine: «Nessuno deve più morire»; e guai a quei medici che non si fossero attenuti a quell’ordine.


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Soldati fra soldati, vicini come ombre fedeli ai medici per curare le anime e portare la parola di cristiana rassegnazione e di speranza al di là della morte, i cappellani militari affiancarono la loro opera a quella del medico. Noi ricordiamo con venerazione ed amore questi sacerdoti che si facevano infermieri esponendosi ai più pericolosi contagi pur di avvicinarsi ai giacigli dei morenti e levare la loro mano benedicente sopra la sofferenza. Essi si curvavano sopra tutti i dolori, sui morenti, sui morti, per deporre, nel mistero del dolore, il seme fecondo della carità. Quanti medici, quanti cappellani, quanti infermieri morirono nell’esplicare la loro missione? Furono molti, più di trenta nel solo campo di Oranki, in pochi mesi. Non ebbero gli onori che spettano a chi muore sul campo di battaglia, ma morirono sul loro campo di battaglia e la loro tomba fu la fossa comune, senza croce e senza nome accanto ai fratelli per la cui salvezza si offrirono. Creature umane debilitate e impotenti di fronte alla tragedia dettero ciò di cui disponevano: le loro ultime energie, la loro vita. Emergono dal fondo della memoria e si avvicinano nel rievocarli volti scomparsi, ombre di martiri ben degne di ricordo! Padre Leone Casagrande, cappellano del btg. Monte Cervino partito dal sereno convento dei Cappuccini di

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Trento per accorrere tra gli alpini. In un capannone gremito di feriti, congelati e morenti, il buon cappellano con i piedi e le mani in sfacelo per il congelamento, si trascinava sui gomiti e sulle ginocchia per portarsi là dove udiva un gemito, un’invocazione, un lamento. Esausto di forze, inesausto di carità, levava le sue dita nere di cancrena per benedire i morenti, e morì egli stesso fra i suoi alpini per guidarli oltre, lungo le vie del cielo. Il colonnello Cimolino, comandante dell’8°, nell’ora della morte volle il conforto della fede: «Dì a mia moglie ed ai miei figli che ho fatto il mio dovere e che sono morto da cristiano!» furono le sue ultime parole. Accanto al Cimolino ecco i volti agonizzanti dei colonnelli Scrimin e Bellani del 2° alpini, dei colonnelli Navone, Vertone e Actis, dei tenenti Staffè e Giglioli, Renzo Giglioli, di Firenze e del tenente Foresi, dell’alpino Gori pure fiorentino, dei tenenti Menada e Supplizi, infermieri volontari. Si spensero il cappellano del «Mondovì» don Amedeo Frascati e il tenente De Strobel, del Comando divisione «Julia», tenendosi per mano e stringendo fra le dita la corona del rosario per l’ultima preghiera alla Madre celeste; morì stremato dalle fatiche don Roberto, salesiano, cappellano del «Dronero». Immolarono la loro vita fra gli alpini contagiati dal tifo il s. ten. Mendoza, medico della III compagnia del «Ceva»,


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il s. ten. medico Carlo Sisto, della 73a batteria, i sottotenenti medici Vidali del «Tolmezzo», Danielli del «Dronero», Citterio del «Morbegno». Questi mostrò di amare tanto gli alpini che la Patria, che perfino nell’ora dell’agonia rivelò quest’amore con una frase di toccante bellezza che i vicini raccolsero commossi: «L’Italia è bella; la mamma è bella, gli alpini sono belli: Viva l’Italia, Viva la mamma, Viva gli alpini». Riascolto l’estremo saluto alla Patria mormorato dal tenente Gambarella della «Julia» nel momento del suo trapasso dalla vita terrena: «Addio bella Italia». Quanti volti si avvicinano dalla nebbia del passato; quante voci chiedono un pensiero e un ricordo! Fermiamo assieme un attimo la nostra mente in una preghiera che li abbracci tutti. Pure, qualche sopravvissuto uscì dai lazzaretti. Uomini che qualche mese avanti erano comandanti prestigiosi e alpini carichi di vitalità e di forza, apparivano ora come scheletri avvolti in pelle ruvida e squamosa. I loro passi erano incerti e vacillanti, le fisionomie irriconoscibili, i capelli aridi ed incanutiti; gli occhi infossati in orbite profonde; il sorriso, una smorfia che lentamente si ricomponeva; i denti vacillanti su gengive brune e sanguinanti, le unghie delle mani e dei piedi segnate da un solco trasversale. Continuò la prigionia, somma di lunghissimi giorni senza luce, sensazione uniforme di dolorosa immobilità.

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L’animo era stretto da mortale angoscia per la perdita di ogni libertà, per la mortificante condizione di vita, per la perdita di contatti con il mondo dei propri affetti, Patria e famiglia, per l’incertezza della durata dello stato di coercizione, per le notizie sconvolgenti di azioni belliche sul proprio paese in guerra; per la fame che non era possibile attenuare o estinguere con l’assunzione di cibo ma permaneva, anche a stomaco pieno, quasi fossero tutte le cellule dell’organismo a gridare la loro fame per gli elementi che mancavano nel cibo insufficiente ed incompleto. Angosciati da tante tribolazioni del corpo e dello spirito, i sopravvissuti furono costretti per anni a piegare la schiena ai più duri lavori, implorando Iddio che concedesse loro il privilegio di rendere l’ultimo respiro dopo aver toccato l’agognato suolo natìo. Con tale animo ufficiali e soldati sopportarono le lunghe pene, mentre il nemico, con diabolica malizia, non pago di aver incatenato i loro corpi riducendoli alla più mortificante condizione umana, pretendeva il trofeo delle loro anime per vincerli due volte usando l’arma della propaganda e del ricatto: «Tu devi cambiare opinione, altrimenti non rivedrai né tua madre né la sposa né i figli». In questa diabolica azione trovò collaborazione in un pugno di rinnegati servili e vili, non prigionieri, perciò più miserevoli ancora, perché collaboratori volontari al martirio dei nostri prigionieri. Non meno grande della tragedia che li travolse fu la salvezza morale dei nostri soldati: vinti materialmente, essi


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dimostrarono, tra mortali sofferenze, che si può restare imbattuti, anzi vittoriosi nel campo dell’onore. Vi fu qualcuno, si dirà, che non resse alla prova. Vi furono, è vero, delatori e traditori; ma non si chieda perché, dal momento che la fame e il terrore possono distruggere ogni dignità e perfino il ricordo di se stessi e dei proprio passato, lasciando in vita solo la bestia affamata di sopravvivenza. Il rimpatrio dalla prigionia permise ad alcuni null’altro che vivere l’ora dell’agonia sull’amato suolo della Patria: ad altri, soprattutto ai più giovani, infuse, in maniera insperata, nuovi meravigliosi momenti di vita. Nell’ora del rimpatrio, il reduce è circondato da padri, madri, spose con l’ansia dipinta nel volto; labbra tremanti mormorano un nome, le mani tendono fotografie di ragazzi vigorosi che non sono più tornati. Il dramma continua nei viventi, in un dolore che non lascerà più requie. A fronte di queste testimonianze di dolore e di morte, di virtù e di colpe, di grandezze e di miserie, sulla nostra tormentata terra, che ha sete e fame di verità e di giustizia, di pace e d’amore, non si è spento l’odio. Su di essa si sussegue ininterrotta la catena delle guerre, delle devastazioni, delle stragi, delle minacce, del terrore. I tempi crudeli della nostra guerra sono trascorsi da tempo, eppure sentiamo di vivere in un clima di pace senza pace, una pace anch’essa crudele insidiata da un nemico che è ovunque, nell’aria che respiriamo, nella dissacrazione

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di tutte le cose e le persone più care, nelle menzogne diffuse e propagandate con ogni mezzo tutti i giorni, tutte le ore del giorno; nell’odio, nella violenza che offende ed aggredisce con parole, scritti. Immagini dovunque offerte in nome di una male intesa libertà che è solo licenza, sopraffazione; prevaricazione, profanazione; violenza palese e sanguinaria che aggredisce ed uccide; violenza subdola ed occulta della quale sono prime vittime gli sprovveduti, gli indifesi, gli ignoranti. II «sistema» lavora insidioso, instancabile, avvalendosi di disgeli, di distensioni, di menzogne e perfidie, di ipocrisie, di seduzioni, di minacce, di maschere; si avvale di ambiziosi e di invasati, di criminali, di stolti, di ingenui e di legioni di utili idioti sprovveduti ed ignoranti: lavora con diabolica scaltrezza per togliere credito all’autorità della Chiesa e dello Stato, per diffondere l’incertezza nella fede e nel diritto, la sfiducia nelle leggi, la corruzione nella gioventù e portare, infine, con lo sgomento, con la paura, con la rassegnazione, anche il nostro nobilissimo popolo, padre di civiltà, nell’infima delle condizioni umane. Voglia Iddio ascoltare la nostra preghiera: per il calvario dei nostri soldati, per tanto sacrificio e tanto dolore conceda la concordia fra i popoli liberi e con la concordia la volontà e la forza di fermare la clava che Caino tiene sollevata pronto ad abbatterla con una violenza, finora sconosciuta, su fratelli indifesi. Conceda che l’umanità comprenda che la più importante conquista dell’uomo, la sola grande conquista è quella


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di farsi degni di reciproco rispetto, di riconoscersi degni di reciproco amore.

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Enrico Reginato, Treviso 5 febbraio 1913 - Padova 16 aprile 1990 bassorilievo commemorativo del centenario Franco Murer, bronzo, cm 27 x 35, anno 2013


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ONORIFICENZE

Medaglia d’oro al valor militare

«Ufficiale medico di battaglione alpino già distintosi per attaccamento al dovere e noncuranza del pericolo sul campo di battaglia, per oltre undici anni di prigionia fu, quale medico, apostolo della sua umanitaria missione e, quale ufficiale, fulgido esempio di fiero carattere, dirittura morale, dedizione alla Patria lontana ed al dovere di soldato. Indifferente al sacrificio della propria vita, si prodigò instancabilmente nella cura dei colpiti da pericolose forme epidemiche fino a rimanere egli stesso gravemente contagiato. Con mezzi di fortuna che non gli offrivano le più elementari misure precauzionali, non esitò ad affrontare il pericolo delle più gravi infezioni, pur di operare ed alleviare le sofferenze dei malati e dei feriti affidati alle sue cure. Sottoposto, per la sua fede patriottica e per l’attaccamento al dovere, prima alle più allettanti lusinghe e, subito dopo, a sevizie, minacce e dure punizioni, non venne mai meno alla dignità ed alla nobiltà dei suoi sentimenti di sconfinato altruismo, altissimo amor di Patria, incorruttibile rettitudine, senso del dovere. Russia, 1942-1954.» — 25 maggio 1954

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Croce di guerra al valor militare

— 10 agosto 1954 Det. V Comiliter n° 21775

Commendatore Ordine al merito della R epubblica italiana

— 2 giugno 1955 N° 4318 Serie 1a

Croce al Merito di I Classe

«Il Dott. Reginato ha curato, quale medico, i prigionieri di guerra nell’Ospedale Centrale dei campi di concentramento di Kiev. Specialista in dermatologia, benché impedito da malattia a un occhio e da congelamento ai piedi e nonostante il grave pericolo di contagio per mancanza di mezzi di disinfezione, si prodigava con eccezionale zelo anche per i camerati tedeschi. Superando molte difficoltà, ha provveduto a far giungere dalla Patria medicinali per


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gli ammalati, altri medicinali necessari seppe pretenderli e procurarli dai russi nonostante resistenze e minacce. Di propria iniziativa fece costruire da tecnici esperti, compagni di prigionia, apparecchi sanitari di grande utilità. In molti casi riuscì a impedire o a differire le dimissioni dall’ospedale, ordinate dai russi, di ammalati ancora bisognosi di cure, benché ciò lo esponesse a rappresaglie. Con la sua arte di medico e con personale abnegazione salvò la vita a molti prigionieri tedeschi. Per il suo contegno cristiano e anticomunista fu, più volte, punito. I doni che riceveva li condivideva anche con i camerati tedeschi. La sua forza d’animo, la sua serenità, le sue parole di conforto diedero a molti la forza di guarire e di resistere.» — 3 gennaio 1957

Cavaliere Ordine della Stella di Romania

«Per gli atti di devozione e umanitarismo compiuti durante la II Guerra Mondiale, salvando la vita e alleviando le sofferenze dei militari romeni caduti prigionieri nell’Unione Sovietica.» — 12 dicembre 2001 - Post mortem. Decr. n° 1061, Brevetto SR/nr.Cav.244

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© PROPRIETÀ EDITORIALE RISERVATA 2014 Finito di stampare in Treviso, aprile 2014



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