L’ITALIA IN N 26 L LETTERE ETTERE E 45 PARO PAROLE LE
ITALI |Z ITALIA GOFFREDO FOFI · ARMIN GREDER
ARMIN GREDER
ITALIA|Z L’ITALIA IN 26 LETTERE E 45 PAROLE
GOFFREDO FOFI
Due grandi viaggiatori: l’uno straniero, Armin Greder, svizzero di nascita, australiano per adozione e peruviano per scelta, e l’altro italiano, Goffredo Fofi, che l’Italia la abita e la perlustra in lungo e in largo da molti anni. Due sguardi – l’uno esterno, straniero per l’appunto, e l’altro interno e partecipe – e due linguaggi diversi – quello delle parole e quello delle figure – che si incrociano, si scontrano e si incontrano, per consegnarci un ritratto lucido del nostro paese, tutt’altro che consolante. Un abbecedario molto particolare che tuttavia può servirci per imparare a leggere l’Italia di questo tempo. E a leggerci, come siamo e come non vorremmo essere. Dalla A di Adriatico alla Z di Zombie, 26 lettere, ma le definizioni si sono moltiplicate e molte di più ne sarebbero servite di quante ne ha potuto contenere questo libro. Fra queste, non sono molte le parole e le figure positive. E allora? E allora provate voi a metterci una parola buona. Anzi, proviamoci tutti. Insieme. Buona lettura.
ADRIATICO L’Adriatico sarà anche meno bello del Tirreno ma certamente è più importante e rappresentativo. È di qui che la storia ha ricominciato a muoversi in anni recenti, anche per noi, con le prime massicce ondate migratorie. Ma dicendo Adriatico è a Rimini che per prima cosa si pensa, e alla costiera romagnola e non all’Adriatico pugliese, più bello e mosso. A Rimini il presidente della regione di cui questa cittadina è l’emblema, quando gli si rimproverava che il mare era sporco, disse che il mare è un optional; ciò nonostante è dagli anni del boom il luogo di vacanza di impiegati e operai del Nord e del Centro. Che bello, non doversi alzare all’alba, rifare i letti, lavare e stirare, che bello crogiolarsi sotto gli ombrelloni. E che bello anche il chiasso, le discoteche, la folla – tutt’altra cosa dal rumore e dall’assembramento della fabbrica… Le sardine amano la loro scatola, e se il mare è sporco che importa? C’è la piscina. Dal boom a oggi Rimini (l’Adriatico) è sempre lì, è una certezza sociale e culturale. Cambiano gli ospiti ma la musica è la stessa.
ALLUVIONE
È fenomeno ricorrente, stagionale. Alluvione è anche un sinonimo nuovo di rivolta della natura alla prepotenza degli esseri umani e tra questi, in prima fila, degli edificatori di civiltà, imprenditori e costruttori, politici e commendatori, servi e funzionari che sanno campare assai bene sulla truffa ecologica, sulle menzogne naturiste e new age, sulle illusioni expositive e su altre disastrose fantasie “eatalyane”… Che bella invenzione quella dei “buoni” che pensano e fanno per noi! Che bella invenzione la “protezione civile”! “Xe pèso el tacòn del buso”, dicevano i veneziani quando erano ancora veneti e non leghisti. Ne sanno qualcosa gli abruzzesi, sono loro che possono parlarne con miglior cognizione di causa. Gli altri si accontentano: il sereno (per ora) finisce sempre per tornare. Nessun’arca è in costruzione, nessun Noè ci salverà, ma può consolare sapere che – dicono gli scienziati – qualche specie sopravviverà, anche se non sarà certamente la specie umana (e sarà allora questa la fortuna del pianeta).
BARBARIE Ha un volto famigliare, comune. È non aver cura delle cose, e non solo delle persone, e sono le persone, peraltro, a non aver cura delle cose. I ricchi come i poveri, i grandi come i piccoli, i maschi come le femmine, i settentrionali come i meridionali. Dietro la parola Barbarie c’è la parola Complicità, c’è la parola Correità: non ci sono innocenti, tra gli italiani del Duemila.
CATECHISMO La burocrazia ecclesiastica regge da secoli e conta molto anche oggi perché: a) non ha mai potuto tradire del tutto le sue fondamenta e non praticare, pena la sua scomparsa, una qualche forma di attenzione per i poveri (per esempio, anche sotto Wojtila e Ratzinger, per gli immigrati); b) solo di recente – per resistere alla pressione di un mercato che mira a soppiantare ogni altra religione e ideologia – ha trovato, con Francesco, la forza di mettersi in discussione, come aveva tentato un’altra volta – ma presto rinunciando – con Giovanni XXIII. Lo si voglia o no, non c’è Italia senza Vaticano. Anche se i tempi sono cambiati perché le minacce dell’inferno non impressionano più nessuno: tutto si gioca qui, sulla Terra, e le grazie che si chiedono riguardano i vivi e non i morti, l’ossessivo presente e non l’improbabile futuro, l’al di qua e non l’al di là. Resistono però nel nostro inconscio, fanno parte del poco che resta del nostro super-io, le confessioni assoluzioni benedizioni mai gratuite, che non chiedevano troppo e che chiedono oggi troppo poco.
CIAO È un modo di salutare che, non bisogna dimenticarlo, è una derivazione veneta della parola “schiavo” (servo suo signor mio! baciamo le mani! benedica! riverisco!) forse intrecciata con la parola “slavo”. Piacque molto agli stranieri, che lo hanno spesso fatto proprio – forse perché facile e infantile. Fu l’aspetto più semplice e immediato dell’esotismo italiano coltivato all’estero negli anni cinquanta – al tempo della “Hollywood sul Tevere” – proprio per il contrario del suo significato originario, per quel sapore di democrazia che si portava dietro, e forse anche per quella invitante patina di simpatia che aveva ieri qualcosa di lezioso, mentre oggi è un intercalare scolorito.
DIO
Quando la solitudine e il dolore si fanno insopportabili, ma questo non è solo italiano è di tutti, rinasce nell’uomo l’invocazione a qualcosa che ci sovrasta e che possa liberarcene o che, lo pensano solo i più sinceri, possa – alla solitudine e al dolore – dare o ridare un senso. Si sa o si dice che Dio è onnipotente, resta però da vedere se c’è (un’ipotesi scientificamente non dimostrata, diceva la simpaticissima Margherita Hack) e, nel caso in cui ci sia, se davvero ama le sue creature o invece le detesta, avendo dato loro in uso un giardino meraviglioso – di cui l’Italia era una delle aiuole più belle – che, invece di averne cura, esse maltrattano e rovinano.
DISOCCUPAZIONE
I dati parlano chiaro e la crisi ne registra le minime variazioni. Lo fa, prima di tutte, l’Istat, che resta una delle più benemerite tra le nostre squallide istituzioni e burocrazie. Parlano di disoccupati, di sottoccupati, di pre-pensionati, di cassintegrati, di precari, di “giovani” che vivono in famiglia ben oltre i trent’anni, di giovani che emigrano massicciamente verso le Europe e le Americhe e in ogni dove a caccia di una sicurezza economica e di un apprezzamento delle loro capacità di dare un contributo alla società. Chi resta, chi invecchia e gli è stato tolto il suo “posto”, guarda nel vuoto. Non sa che fare, non ha niente da fare, è inutile anche a se stesso, e tutto cospira affinché egli accetti la sua nuova condizione come una condanna della sorte e non di enti e persone che hanno nome, cognome e indirizzo. La parola di cui si sente più forte l’assenza nell’abbecedario del presente italiano è la parola Conflitto, è la parola Rivolta.
EROISMO
Non è certo quello dei marò in trasferta in India o dei poliziotti in azione a Genova. È l’eroismo quotidiano di quei “buoni” che sono tali senza vincere coppe e oscar, senza accusare i propri uguali e rivali per distinguersene e vincerli. È l’eroismo quotidiano di chi cerca di fare bene il proprio lavoro (anche certi poliziotti, mai i cacciatori di denaro e di potere), di assolvere degnamente ai compiti anche molto sgradevoli che si è trovato in sorte. È, per esempio, l’eroismo delle e dei badanti, venuti da lontano. Pulire il culo ai vecchi e ai malati non è piacevole, ma fa ancora parte dell’umano – e sta agli umani occuparsene, ma agli italiani (pur molto esigenti quando si tratta di farsi pulire il loro, di culo) fa schifo. A questo servono le nuove “serve” e i nuovi “servi”, a fare quello che noi abbiamo piacevolmente disimparato a fare. Il presidente della Repubblica dovrebbe scegliere tra i e le badanti i futuri cavalieri del lavoro e i futuri commendatori, e cominciare dando a tutti la nazionalità italiana, così svilita tra chi in Italia è nato.
FAMIGLIA
I proverbi sono sempre bifronti: vedono il bene e il male dello stesso fenomeno, alternatamente. Considero un proverbio moderno (o post) il titolo di uno dei geniali saggi di Christopher Lasch, “La famiglia, unico rifugio in una società senza cuore”. Dice tutto il bene che si può dire oggi della famiglia: la sua indispensabilità se si vuol sopravvivere in una società che ha messo una carta di credito al posto del cuore. A questo proverbio-constatazione viene però immediatamente da aggiungere un “sì, ma…”, trovandone l’altra faccia nel nostrano “parenti serpenti”. Fu un grande toscano, Mario Monicelli, a farne il titolo di un suo film esemplare. Ricordando forse una secca battuta, anch’essa proverbiale, di un dimenticato manifesto della liberazione giovanile scritto da André Gide, I nutrimenti terrestri: “Famiglie, vi odio”. L’Italia del nostro tempo vive in pieno in questa contraddizione. La famiglia è un’ancora obbligata ma, proprio perché tale, è spesso un inferno. Viva la famiglia! Abbasso la famiglia!
FANATISMO
Ci sono i fans di questo e di quello – forma recente di idiozia collettiva che, dal tempo dell’invenzione dei “divi” e delle “star” della cultura di massa, sostituisce il bisogno di sacro. È un fenomeno oggi più effimero di una volta, da quando si è scoperto che anche noi possiamo diventare dei divi, che i divi sono tali e quali a noi e – anche se in qualcosa più bravi – stupidi quanto noi e spesso più di noi. Oggi contano molto di più, e hanno molto più successo, i fans “religiosi” presenti in ogni religione ma in qualcuna molto più che in altre: sette musulmane, ma anche sette protestanti e cioè cristiane, e affini. È questo un fanatismo che nasce dalla frustrazione – provocata nella maggior parte dei casi dall’invadenza efferata dei modelli e del mercato dell’american way of life. Quel che esso ha di più terribile non è che si uccida (e ci si uccida) nel nome di Dio, ché lo si fa da sempre e in questo senso un Dio vale l’altro, è che la parola “umano” abbia finito col non contare più niente.
FELLINI
Il più italiano dei registi italiani. Sì, non solo un immenso regista – capace come pochi di meravigliare, di far pensare il colto e l’inclito così come il più sprovveduto degli spettatori – ma anche il più grande antropologo che l’Italia abbia avuto. Ha mostrato l’homo italicus nei suoi limiti e vizi, dalla parte dei perdenti e dei qualunque (Amarcord, La strada, Il bidone, Roma), nella sfrontatezza e nella vitalità della sua modernizzazione (La dolce vita), nel fondo cupo del suo maschilismo (Casanova) e infine nella durezza di una mutazione (La voce della luna) che non concede molto spazio a quel che in lui resta di umano. La celebre immagine della nave di Amarcord sintetizza i sogni della piccola borghesia di ieri, ma continua a valere per quanto dice delle insoddisfazioni di oggi, dei sogni di evasione e di grandezza di chi vuole di più, di chi venera chi lo ha, condannandosi a mai averlo, e a isolarsi da chi ha meno di lui, e anche – in una guerra di cavallette – da chi ha quanto lui e crede alle stesse menzogne, coltiva le stesse illusioni.
GIORDANO BRUNO
L’eretico per eccellenza. Dicevano i nostri maggiori che la cultura italiana è nata nelle corti e nelle curie, ed è quindi stata, nella sua quasi totalità, cortigiana e curiale (oggi, aggiungo, più che mai, come nei peggiori anni del Seicento). Dicevano che noi non avevamo avuto né la Riforma (in compenso ci regalarono la Controriforma) né una Rivoluzione borghese. E la Resistenza, lo verifichiamo ogni giorno, ha contato davvero nella nostra storia istituzionale per pochi decenni. Dicevano anche che è stata questa la ragione per cui l’Italia ha avuto così tanti eretici. Dal Sud al Nord, da Campanella e Bruno a tanti intellettuali della generazione che ha sofferto il fascismo o che è vi è cresciuta, da Buonaiuti e Capitini a Silone e Chiaromonte, da Sciascia e Pasolini a Panzieri e Langer, da Fortini a Bene. Qui se ne è scelto uno per tutti, quel Giordano Bruno di cui, nelle piazze che tante città grandi e piccole osarono dedicargli, le targhe lo dicono ancora “martire del libero pensiero”.
GIORNALISTA
Che tristezza mette l’agonia in cui versa questa figura, da sempre ambigua, fatta di divulgatori degli interessi di chi li paga, ma anche di coraggiosi analisti delle storture della società, e insieme delle potenzialità espresse dalle sue parti migliori. I giornalisti si sono ridotti a fare da passacarte (le “veline” del fascismo partivano da una sola fonte, quelle di oggi sembrano, ma non sono, molteplici), a fare “inchieste” da internet e con qualche telefonata. Si direbbe che credano in un’ombra di autonomia solo quando rimestano nel letame delle classi dirigenti (il potere ha una sola faccia, però ha centinaia di diramazioni e di conflitti interni) e dei ricchi e famosi, o quando – “opinionisti” che raramente hanno un’opinione propria anche perché ignoranti come i loro lettori sulle questioni di fondo – si scatenano contro chi sta cadendo in disgrazia. Qualche grande c’è ancora (da Bernardo Valli in giù) ma si tratta di mosche bianche o di pecore nere in un quadro che, al meglio, offre solo scure sfumature di grigio.
GRATTA E VINCI
Un fenomeno di sempre (in Italia, il gioco del lotto – con le conseguenti bizzarrie dei “libri dei sogni” – e il totocalcio o totip) ma che ha preso sviluppi insoliti negli ultimi due o tre decenni, ed è esploso con la crisi. Dalle lotterie di capodanno ai bingo ai gratta e vinci che sono diventati la droga più redditizia delle tabaccherie dopo le sigarette, ecco massaie e pensionati, disoccupati e disperati che tentano quotidianamente o quasi la sorte, e per una volta che gli va bene, magari per pochi euro, mille volte gli vanno storte, ma tant’è, i pochi soldi che bastano per tentar la fortuna si finisce sempre per trovarli, magari accattonando all’angolo della strada. Il bello è che, come accadeva con i bordelli fino alla legge Merlin, lo Stato ne ricava un guadagno di tutto rispetto, ieri magnaccia oggi strozzino.
HI-FI
Il rumore (o sound, come lo chiamano i discotecari) trionfa da tempo nei bar, nei ristoranti e negli uffici. Il silenzio mette angoscia, e già da bambini si è oggi conquistati dal rumore e dalle sue “virtù”. Che sono poi una: l’ausilio a non pensare. Trattasi perlopiù di un rumore derivato: non quello di chi parla a voce troppo alta o canta tra sé e sé e non solo quello dei tubi di scappamento, ma quello provocato da ogni tipo di macchina. La conseguenza di quest’invasione del rumore è troppo vistosa perché la si veda e troppo rumorosa perché la si senta: si è finito per aver tutti paura del silenzio. Dobbiamo essere distratti in ogni momento dal pensare a noi stessi – chi pensa, si sa, può diventare pericoloso. I più condizionati (rovinati) sono i giovani cresciuti nel rumore, e più ancora lo sono i bambini. Sono le prede privilegiate del mercato presente e futuro, e sono forse sulla strada della robotizzazione. Per il momento, assistiti da educatori impotenti e da genitori ansiosi e prepotenti, sono semplicemente isterici.
HI-SPEED Anche negli Intercity e nei treni regionali che vengono detti “veloci”, i controllori si sono digitalizzati, i viaggiatori si sono digitalizzati. Sono scomparse le precedenti divisioni in classi, prima tre e poi, grande conquista degli anni del boom, addirittura solo due, e quasi tutti gli italiani si dicono contenti che di classi ne sia rimasta, almeno culturalmente, una sola, una piccola borghesia più o meno scolarizzata che comprende dalla famiglia Agnelli giù fino all’ultimo dei camorristi. Ma solo sugli Alta Velocità le classi (chiamate con fascinose paroline Usa) sono diventate cinque o sei o più, da business a smart a standard. Ce n’è, per i viaggiatori veloci, per tutte le tasche. E i treni, è vero, vanno veloci, anche se è dura ascoltare le discussioni telefoniche di un’umanità invero standardizzata. Sui treni veloci tutti sembrano eguali anche quando vorrebbero sembrare diversi, ed è questo il colore dell’Italia di oggi, e in parte dell’Europa. E tutti comunicano allo stesso modo: un poco o un niente riempiti di luoghi comuni che, tra di loro, comunicano perfettamente.
INSETTO
Che grande conquista furono le vespe e le lambrette! È difficile ricordare l’emozione delle prime uscite dal borgo natìo su mezzi propri agili e spediti che non erano più a trazione animale, il carretto o la carrozza, o, se meccanici, il camion la corriera il trattore. Fu un vero salto di civiltà che era, come si dice, dotato di senso. Oggi di questi insetti ce ne sono ancora, che fanno proprio il motto, diventato arcaico anche questo, che “piccolo è bello”, ma nelle città queste ronzanti vespe o api (l’ape a tre zampe che nel Sud diventava lapa) sono state sostituite da motociclette dalle cilindrate maxi, non più 100, 150, ma dai 250 cavalli in su. Servono ad andare veloci nel traffico cittadino, dove vige la legge di Ivan Illich per cui oggi si fa prima ad attraversare una città a piedi che non in automobile. E le conducono, spregiudicatamente e talora spietatamente, non solo giovinotti e giovinotte, anche maturi dirigenti di ministero (a Roma) o di banca, e le signore dei Parioli o di via Libertà, i professionisti di grido, prima o poi qualche vescovo…
JUVENTUS
Una brutta poesia di un bravo poeta lucano dei primi anni cinquanta era un inno all’ex capitale sabauda: “Torino larga di cuore, / sei una fanciulla, / mi prendi la mano. […] / Qui, gente che ti sogna come me / nel vento delle Fiat”. La Fiat, certamente, ma Torino per gli italiani di allora – e, incredibilmente, anche per quelli di adesso, quando il mito nefasto della Fiat è infine tramontato – era anche l’aura (non il vento) della Juve. La squadra del padrone è sempre più bella, e quanti operai ho conosciuto, bravi e combattivi, che detestavano gli Agnelli ma veneravano la Fiat! Gli Agnelli sapevano la regola dei circenses, che sollecitano da sempre negli schiavi l’affezione alle loro catene? Oggi, i figli di quelli amano l’idea di una lunga durata e sono fedeli ai loro padri solo quando si tratta di tifo calcistico. Esiste fenomeno meno razionale del tifo calcistico? E, al suo interno, del culto della Juve? Certamente è la sola “vecchia signora”, insieme a “la Repubblica”, che non viene presa a calci dai nostri connazionali vecchi e nuovi.