una novella di
Guy de Maupassant illustrata da Giovanni Emilio Cingolani
una novella di Guy de Maupassant illustrata da Giovanni Emilio Cingolani
Dalla sua entrata in Francia con le truppe d’occupazione, Walter Schnaffs si reputava
il più infelice dei mortali.
Era grande e grosso, gli costava fatica marciare, sbuffava molto e soffriva orrendamente ai piedi molto piatti e gonfi. Inoltre era un uomo pacifico e benpensante, per nulla capace di slanci né sanguinario, padre di quattro figli che adorava, e sposato con una giovane donna bionda, della quale ogni sera rimpiangeva disperatamente le tenerezze, le piccole premure e i baci.
A lui piaceva alzarsi tardi e andare a letto presto, mangiare lentamente qualcosa di buono e bere boccali nelle birrerie. Pensava inoltre che tutto quanto è dolce nell’esistenza sarebbe scomparso con la vita stessa, e provava un odio spaventoso, istintivo e ragionato allo stesso tempo, contro i cannoni, i fucili, le pistole e le sciabole, ma soprattutto contro le baionette, essendo pienamente convinto della propria incapacità a manovrare tale arma rapida abbastanza in fretta per difendere il suo grosso ventre.
E, quando si coricava sulla terra, essendo sopraggiunta la notte, arrotolato nel suo mantello, a fianco dei compagni d’arme che già ronfavano, pensava a lungo ai suoi, abbandonati laggiù, e ai pericoli seminati sul suo cammino. Se fosse rimasto ucciso, che ne sarebbe stato dei piccoli? Chi li avrebbe nutriti e allevati? Adesso già non nuotavano proprio nell’oro nonostante tutti i debiti che lui aveva contratto prima di partire pur di lasciare loro qualcosa.
A volte a Walter Schnaffs veniva da piangere. All’inizio delle battaglie si sentiva nelle gambe una tal debolezza che si sarebbe lasciato cadere a terra, se non l’avesse sorretto l’idea che tutto l’esercito sarebbe passato sul suo corpo. Il sibilare dei proiettili gli faceva rizzare tutti i peli sulla pelle. Da mesi e mesi viveva quindi nel terrore e nell’angoscia. Il suo corpo d’armata avanzava verso la Normandia; un giorno egli fu inviato in ricognizione con un debole distaccamento che doveva soltanto esplorare una parte del paese e successivamente ritirarsi.
Tutto sembrava calmo nelle campagne: nessun indizio dava a divedere che fosse stata preparata una qualche resistenza.
Ora i prussiani stavano tranquillamente scendendo in una valletta, tutta tagliata da profondi fossi, quando un violento fuoco di fucileria li arrestò bruscamente, stroncandone una ventina; e una banda di irregolari, sbucando improvvisamente fuori dal boschetto, che pareva non più vasto di una mano, si lanciò all’assalto, baionetta in canna. Walter Schnaffs rimase dapprima immobile, tanto sorpreso e smarrito che non pensava nemmeno alla fuga. Poi una pazza voglia di sgombrare il campo lo assalì; ma gli venne subito in mente che lui correva come una tartaruga in confronto ai magri francesi, che arrivavano saltando come un branco di capre.
Allora, notando poco più avanti un largo fossato pieno di rovi e di foglie secche, vi si buttò dentro a piedi pari, senza stare neppure a calcolarne la profondità, come da un ponte ci si butta giù in un fiume. Passò, come una freccia, attraverso uno spesso strato di liane e di spine puntute che gli lacerarono faccia e mani, e cadde pesantemente a sedere su uno strato di pietre.
Alzando subito gli occhi, intravide il cielo attraverso il buco che aveva prodotto nella vegetazione.
Quell’apertura rivelatrice poteva denunciare la sua presenza, e lui si trascinò a quattro zampe, in fondo a quel solco, sotto quel tetto di rami intrecciati, con la maggiore rapidità possibile, sempre più lontano dal luogo del combattimento. Poi si fermò e si sedette nuovamente, rannicchiato come una lepre in mezzo alle alte erbe secche. Udì per qualche tempo ancora detonazioni, grida e lamenti. Poi i clamori della lotta si affievolirono, cessarono. Tutto ridivenne silenzioso e tranquillo.
Improvvisamente qualcosa gli si mosse vicino, addosso.
Egli ebbe un sussulto di terrore. Ma si trattava soltanto di un uccellino che, essendosi posato su un ramo, faceva muovere qualche foglia morta. Per circa un’ora il cuore di Walter Schnaffs continuò a battere a gran colpi angosciosi.
Arrivava la notte riempiendo d’ombra il fossato.
E il soldato si mise a pensare. Che avrebbe fatto? Cosa gli sarebbe capitato? Raggiungere l’esercito prussiano?... Ma in qual modo? Ma passando di dove? Per poi dover ricominciare l’orribile vita d’angoscia, fatica e sofferenza che conduceva dall’inizio della guerra! No! Non se ne sentiva più il coraggio! Non avrebbe più avuto l’energia necessaria per sopportare le marce e affrontare quei continui pericoli. Ma che fare? Non poteva rimanersene in quel solco e nascondervisi sino alla fine delle ostilità. No di sicuro. Se non avesse dovuto mangiare, una simile prospettiva non l’avrebbe atterrito molto; ma occorreva mangiare, e mangiare tutti i giorni. E lui si trovava solo, in armi, in divisa, in territorio nemico, lontano da coloro che avrebbero potuto difenderlo. La sua pelle fu corsa da brividi. A un tratto pensò: “Se soltanto fossi prigioniero!”
E il suo cuore fremette di desiderio, di un desiderio violento, smodato, d’essere prigioniero dei francesi. Prigioniero! Sarebbe stato salvato, nutrito, alloggiato al riparo dei proiettili e delle sciabole, fuori d’ogni preoccupazione, in una buona prigione ben sorvegliata. Prigioniero! Che sogno! Prese immediatamente la sua decisione: “Vado a darmi prigioniero”. Si alzò risoluto a eseguire tale progetto senza il minimo ritardo. Ma rimase immobile, afferrato da riflessioni dolorose e da nuovi terrori. Dove si sarebbe costituito prigioniero? Come? Da quale parte? E immagini orrende, immagini di morte s’impadronirono del suo animo. Avrebbe corso tremendi pericoli, avventurandosi solo con il suo elmo chiodato nella campagna.
Se avesse incontrato qualche contadino? Quei contadini, vedendo un prussiano sperduto, un prussiano indifeso, lo avrebbero ammazzato come un cane randagio! Lo avrebbero massacrato con i loro forconi, i picconi, le falci, le vanghe! Avrebbero fatto di lui una poltiglia, un pasticcio con il loro accanimento di vinti esasperati.
E se si fosse imbattuto in irregolari? Quegli irregolari, ribelli senza legge né disciplina, lo avrebbero fucilato per semplice divertimento, per trascorrere un’ora, per ridere un poco a sue spese. E si credeva già con le spalle al muro davanti a dodici canne di fucile, che con i loro piccoli fori tondi e neri parevano guardarlo.
Se si fosse imbattuto nello stesso esercito francese? Gli uomini d’avanguardia lo avrebbero scambiato per un esploratore, per qualche audace e malintenzionato soldato partito da solo in ricognizione, e gli avrebbero sparato. Sentiva già gli spari irregolari dei soldati accovacciati tra i rovi, mentre lui, in piedi nel mezzo d’un campo s’accasciava, bucato come una schiumarola dalle pallottole che gli penetravano nella carne.
Si rimise a sedere, disperato. La sua situazione gli sembrava senza uscita. La notte era ormai arrivata, la notte silenziosa e buia. Lui non si muoveva più, ma trasaliva ad ogni rumore misterioso e leggero che si produceva nelle tenebre. Un coniglio, toccando con il posteriore l’estremità di una tana, per poco non metteva in fuga Walter Schnaffs. Le strida delle civette gli straziavano l’anima, pervadendolo di paure improvvise, dolorose come ferite. Spalancava i grossi occhioni per cercare di vedere nell’ombra;
e ad ogni momento si immaginava di udire passi lì, vicino a lui.
Dopo ore interminabili, dopo sofferenze da dannato, vide attraverso il suo soffitto di rami il cielo schiarirsi. Allora provò un immenso sollievo, le sue membra si distesero, immediatamente placate; il suo cuore si calmò; i suoi occhi si chiusero.
Si addormentò. Al suo risveglio, il sole gli parve arrivato presso a poco in mezzo al cielo; doveva essere mezzogiorno. Nessun rumore turbava la pace triste dei campi; Walter Schnaffs si accorse d’essere terribilmente affamato.
Ansava, con l’acquolina in bocca al pensiero delle salsicce, delle buone salsicce che costituivano il rancio; lo stomaco gli faceva male. Si alzò, fece qualche passo, si sentì le gambe deboli, e si risedette a riflettere. Per due o tre ore ancora, stette a vagliare il pro e il contro, cambiando ogni momento decisione, combattuto, reso infelice, disputato dalle ragioni più contrastanti. Un’idea gli sembrò infine logica e pratica; aspettare il passaggio d’un contadino solo, senz’armi e senza neppure arnesi di lavoro, corrergli incontro e consegnarglisi, facendo ben comprendere che quella era una resa a discrezione.
Allora si tolse l’elmo, il chiodo del quale avrebbe potuto tradirlo, e con precauzioni infinite mise fuori la testa dall’orlo del suo buco. Nessun individuo isolato era visibile all’orizzonte. Laggiù, un piccolo villaggio levava al cielo il fumo dei suoi camini, il fumo delle sue cucine! Laggiù a sinistra s’intravedeva, in fondo agli alberi d’un viale, un grande castello fiancheggiato da piccole torri. Walter Schnaffs attese sino a sera, soffrendo orrendamente, non vedendo altro che voli di corvi, udendo solo i gemiti sordi delle sue interiora. E di nuovo scese su di lui la notte. Si stese in fondo al suo rifugio e si addormentò d’un sonno febbrile, visitato dagli incubi, un sonno d’uomo affamato.