"Le ali di Berta" - anteprima

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Ispirata ai dipinti, alle lettere e ai diari di una delle più grandi artiste svedesi, Berta Hansson, una storia universale di coraggio e determinazione.

le ali di berta

Svezia, anni ’20, una famiglia contadina. Il destino di Berta, come quello di tutte le altre bambine di quegli anni, è già deciso: lavorare nei campi, accudire gli animali, fidanzarsi, diventare mamme e nonne, occuparsi della casa e della famiglia. Ma Berta è diversa. Berta ama disperatamente una sola cosa: disegnare. In quegli anni, segnati dalla povertà, dalle malattie e dalla guerra, un’artista donna sembra impossibile. Ma Berta vuole volare. In alto, libera.

Sara Lundberg

Vincitore del Sweden’s August Prize for Best Children’s Book of the Year

LE ALI DI BERTA 9 788832 070569

euro 16,50

Sara Lundberg




© 2021 orecchio acerbo srl Viale Aurelio Saffi 54, 00152 Roma

www.orecchioacerbo.com Titolo originale ”Fågeln i mig flyger vart den vill” Traduzione dallo svedese di Maria Valeria D’Avino © 2017 Sara Lundberg e Mirando Bok, Stoccolma Italian edition published in agreement with Koja Agency The cost of this translation was defrayed by a subsidy from the Swedish Arts Council, gratefully acknowledged. Stampa: Asia Pacific Offset (Cina) nel rispetto delle norme internazionali sul lavoro Finito di stampare nel mese di febbraio 2021


Sara Lundberg

LE ALI DI BERTA Traduzione di Maria Valeria D’Avino Postfazione di Alexandra Sundqvist



Un racconto ispirato alle opere, alle lettere e ai diari di Berta Hansson




10


Papà mi chiama di nuovo. Grida il mio nome, Berta, fa rima con scoperta. Io fingo di non sentire. Se mi rannicchio tutta sembro un uccello che dorme. Come quello che ho fatto con l’argilla blu per regalarlo a mamma.


Anzi. Se fossi un uccello potrei volare. Via da questo paese. Lontano. In un posto dove poter essere quella che sono. In cui nessuno mi chiama di continuo o pensa che sono ridicola.



«Non puoi svignartela sempre così!» dice Julia. Lei è la più grande e la più brava. Gunna, che ha un anno più di me, a volte è un po’ sciatta. Ma io sono un disastro. Almeno così dice papà. E poi c’è Nisse, il nostro fratellino. Lui è ancora piccolo. È quasi autunno e c’è tanto da fare. Noi tutte diamo una mano, ma a papà tocca il lavoro più duro.



Le mucche sono al pascolo. Quando papà mi manda a sorvegliarle sono molto contenta. Lassù, con loro, posso starmene in pace. Mi porto dietro il blocco per gli schizzi e i carboncini che mi ha regalato zio Johan. Disegnare è la cosa che mi piace di più al mondo. E le mucche sono carine e tranquille. Ombra, Gigliola, Chicca, Morosa.



Il maestro però vuole insegnarmi a disegnare. Dice: «Disegnate una carota» e ci dà i fogli con i contorni già stampati. Abbiamo un pastello arancione per ciascuno. «Cercate di stare dentro i trattini.» Io penso alle carote dell’orto dietro casa nostra. «Maestro!» Alzo la mano. «Le nostre carote non sono così. Posso disegnarne una di casa mia?» Il maestro mi guarda severo. «Non darti tante arie.»



Come sono le cose? Per davvero? Ci penso spesso.



Quando torno a casa, mamma è a letto come sempre. Metto un bicchiere d’acqua sul suo comodino. Poi prendo l’uccellino blu e glielo do. Lei lo guarda a lungo. Accarezza piano le piccole crepe dell’argilla secca e dice: «Com’è carino...» Mamma ha occhi bellissimi, scuri e gentili. Da che ho memoria, è sempre stata malata. Tossisce sempre e non dobbiamo starle vicino perché potremmo contagiarci. Così ha detto il dottore. Io vorrei che mamma mi abbracciasse. Lo vorrei così tanto che fa male.



Sto in camera di mamma più che posso. E quando papà comincia a urlare, a volte lei risponde: «Daniel, lascia che finisca il disegno!» A quel punto lui non discute. Io penso che tutte queste cose, i disegni e gli uccellini di argilla blu, tutto quello che faccio con le mie mani la tiene in vita. La fa star meglio.



Nessuno sa come mamma si è ammalata. È successo a poco a poco. Aveva la febbre ed era sempre stanca. Poi è venuta la tosse e il dottore ha detto che era tisi. Macchie orribili e nere nei polmoni, come se qualcuno fosse andato a sporcarli con un carboncino.



Quando ero piccola, mamma è stata per un po’ in un sanatorio, dove la gente che ha i polmoni malati può riposare e respirare aria fresca. Papà non poteva occuparsi di me, così sono andata a vivere con zio Johan e con la sua famiglia. Ricordo che mamma mi mancava e piangevo. Ricordo che zio mi guardava preoccupato, poi mi prendeva per mano e andavamo in una stanza che aveva un odore rassicurante e familiare. Lì dentro quasi non pensavo più a mamma. Ogni tanto potevo dipingere, ma soprattutto guardavo. Per tutti gli altri zio Johan era un solo un contadino, ma per me era un mago che sapeva far apparire dal nulla immagini meravigliose.



Ogni tanto dobbiamo farci visitare, per non prendere la malattia. Il dottore dice che ci sono miliardi di batteri in un solo colpo di tosse. Lui mi fa un po’ paura. Mi chiedo se davvero sa vedere chi vivrà e chi deve morire. In paese tutti parlano di lui, dicono che è un tipo strano. Che la sua casa è piena di quadri bellissimi, dipinti da veri artisti. Lo stetoscopio è ghiacciato. Le mani del dottore sono fresche e asciutte. Non come quelle di papà. Le mie sono sudate. Mi fa sputare in una tazza, poi guarda lo sputo con il suo microscopio. Dopo un po’ dice: «Signorina Berta, sei sana come un pesce».



Se chiudo gli occhi e mi concentro, sento un formicolio nelle mani. Come elettricità. Forse è per questo che mi piace tanto il disegno che mi ha dato zio Johan. Mi ha anche raccontato di Michelangelo, l’artista che l’ha dipinto sul soffitto di una chiesa in Italia, tanto tanto tempo fa. All’inizio ero imbarazzata perché Adamo è tutto nudo, ma ora è il mio preferito. La cosa più bella sono le mani. Il modo in cui quasi si toccano.



A scuola provo a copiare il disegno. Ma non viene per niente bene. A un tratto mi sembra che Dio mi stia puntando il dito addosso. Allora disegno me stessa su un pezzo di carta, lo ritaglio e lo poso sulla cartolina. Ora sembra che Dio abbia creato me invece di Adamo. Olof, un mio compagno, passa e mi chiede che cosa sto facendo. Cerco di spiegarglielo ma le parole escono male. Allora lui afferra il disegno, lo tiene in alto e lo fa vedere a tutta la classe. Grida: «Berta, bertuccia, chi ti credi di essere?» Il maestro riporta l’ordine in classe, poi mi dice di mettere via il disegno e non tirarlo fuori mai più.



«Che t’importa di Olof» dice Gunna. «Scommetto che è innamorato di te...» «Me ne vado a casa» dico io.



Da grande diventerò un’artista. Come Michelangelo. Ma non lo dico a nessuno. Perché fare l’artista non è un vero lavoro. Non è una cosa che si può diventare. Specialmente se sei una ragazza. So che papà la pensa così.



Nel fosso dietro casa c’è l’argilla blu. È fresca e bella da tenere in mano. Ci si può fare quello che si vuole. Io ci faccio gli uccellini.



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