"Rex" - anteprima

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Storie che saltano di testa in testa, lasciando il prurito contagioso della lettura.

illustrazioni di Fabian Negrin

Rex

Piccoli capolavori ritrovati, grandi autori classici che ci consegnano schegge d’infanzie indimenticabili. Bambini che si misurano con un mondo severo, estraneo e, spesso, assurdo e incomprensibile: quello degli adulti. ro

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“Era lacerato tra due impulsi poderosi: l’impulso innato di cacciare e uccidere, e l’arcano, secondario, tardivo impulso di amare e obbedire. Se fosse stato affidato a mio padre e a mia madre, avrebbe fatto cose pazzesche e avrebbe finito per farsi sparare. Si dà il caso invece che amasse noi bambini di un amore gioioso e fiero. E noi amavamo lui.”

Rex

pulci nell’orecchio

Lawrence D. H.

D. H. Lawrence

Grande viaggiatore, D. H. Lawrence nacque nel 1885 a Eastwood, dove le miniere di carbone stavano trasformando rapidamente l’aspetto della verde Inghilterra. L’amore per la natura sarà uno dei due temi che attraverseranno la sua produzione letteraria. L’altro, l’amore, inteso come unica vera salvezza dell’umanità, gli procurerà fama ma anche aspre critiche, fino alla censura durata fino al 1960 de L’amante di Lady Chatterly. Morto nel 1930, Lawrence fu scrittore prolifico, inquieto e innovatore. Rex è ispirato a una sua esperienza personale.

Una casa inglese e un Fox Terrier da crescere. Arrivato con il calesse dello zio, il cane fa il suo ingresso in quella famiglia cui viene affidato per ricevere la giusta educazione. Il cane cresce, tra giochi e scapaccioni, ricambiando con affetto l’amore del piccolo protagonista e della sorella, e con selvaggia aggressività l’autorità degli adulti. Indipendente e indomito, Rex lo sarà fino alla fine.

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D. H. Lawrence

Rex illustrazioni

Fabian Negrin

traduzione di damiano abeni


pulci nell’orecchio Serie a cura di Fabian Negrin Titolo originale: Rex,1920 Traduzione di Damiano Abeni © 2017 orecchio acerbo s.r.l. viale Aurelio Saffi, 54 · 00152 Roma www.orecchioacerbo.com Stampa: Futura Grafica ‘70 · Roma Finito di stampare nel mese di marzo 2017 Grafica: orecchio acerbo


Dato che ogni famiglia ha la sua pecora nera, ne consegue – quasi inevitabilmente – che ogni uomo debba avere uno zio nero come la pece. Fortunato se non ne ha due. Ad ogni modo, qui è solo del fratello di mia madre che ci occuperemo. Lei l’aveva amato con tutto il cuore al tempo in cui era un bambinetto biondo. Quando col crescere i capelli diventarono più scuri, giurò e stragiurò che non gli avrebbe mai più rivolto la parola. Eppure, quando costui risbucava fuori dopo anni d’assenza, lo riceveva sempre in modo festoso, civettuolo addirittura. 7


Un giorno, quando io ero ancora piccolino, arrivò da noi su un calesse. Era grande e grosso, con la testa piccola e tonda, un’aria da sbruffone e, stavolta, vestito sportivo. A volte si atteggiava a letterato, altre a uomo d’affari. Ma quel giorno portava una giacca a quadrettoni, quindi era sportivo. Lo avvistammo già da lontano. Il succo della sua visita era: potevamo allevare un cucciolo per suo conto? Va detto che mia madre di animali per casa non voleva nemmeno sentirne parlare. Non sopportava che vita umana e animale si mischiassero. Eppure acconsentì ad allevare il cucciolo. Lo zio aveva acquistato un locale pubblico, grande e volgare, in una città grande e volgare. Si diede il caso che toccasse a me andare a prendere il cucciolo. Davvero strano che io, membro della Banda della Speranza, l’associazione che educa i bambini a evitare i pericoli dell’alcol, 8 D. H. Lawrence


dovessi andare a ficcarmi in quel pub grande, rumoroso, maleodorante, dalle ampie finestre e rivestito di mogano. Si chiamava “Il buon presagio”. Davvero strano trovarmi davanti a mio zio che, torreggiante nell’ingresso, urlava: «Ehilà, ragazzino, che ci fai tu qui?» Non mi aveva riconosciuto. Davvero strano pensare che fosse il fratello di mia madre, e che dava di matto quando leggeva Browning ad alta voce, con pathos e gran slancio. Mi venne offerto del tè in una stanza piccola e scomoda, metà salotto e metà cucina. Davvero curioso che un pub così imponente riservasse al gestore uno spazio tanto miserevole, ma così era. Insomma, ero lì, triste, e poi contento di andarmene con quel cucciolo morbido e cicciotto. Era inverno e io indossavo un cappotto dal bavero ampio con la mantellina. Nascosi il cucciolo, tutto tremante, dentro le larghe maniche della mantellina. Era 9 Rex


sabato, il treno era molto affollato, e lo sentivo rabbrividire sotto il cappotto. Me ne stavo seduto, con il terrore che mi buttassero giù dal treno perché viaggiavo senza il biglietto per il cane. Ad ogni modo, arrivammo sani e salvi, e i miei tormenti si rivelarono immotivati. A casa erano tutti fuori di sé per via del cucciolo. Era piccolo, bianco e grassoccio, con la testa nerobruna: un Fox Terrier. Mio padre disse che aveva la testa color limone – o qualcosa del genere, secondo la sua misteriosa fraseologia tecnica. Non era per niente limone, piuttosto ricordava il colore di un calabrone. E poi aveva una macchia nera all’attaccatura della coda. Era sabato sera, la sera in cui facevamo il bagno. Lui si era messo sul tappeto vicino al focolare come fosse una tazza da tè bianca e rotonda, e leccava le dita dei piedi nudi appena lavati.

***


«Dovremmo chiamarlo Macchia» disse qualcuno. Ma si trattava di una scelta banale. Che nome dargli… era una questione di capitale importanza. «Chiamatelo Rex, il Sovrano» intervenne mia madre, squadrando dall’alto in basso quella tazzina da tè vivace e morbida che mordicchiava il mignolino del piede di mia sorella, facendola schiamazzare per il solletico. Prendemmo in considerazione il nome con la massima serietà. «Rex – il Sovrano!» Concordammo che gli andava a pennello. Mi ci sono voluti 11 Rex


anni e anni per capire il sarcasmo di mia madre. La nostra incurabile ingenuità deve averle fatto sprecare vent’anni abbondanti di ironia. Il nome, a dire il vero, non funzionò a meraviglia. Perché mio padre, come anche tutta la gente che incontravamo per strada, non era assolutamente capace di pronunciare quel monosillabo, Rex. Dicevano tutti “Rax”. E io ne soffrivo, perché mi ricordava alghe, naufragi, distruzione e rovina. Povero Rex! Lo amavamo con tutto il cuore. La prima notte ci svegliammo sentendolo piangere e guaire in perfetta solitudine ai piedi della scala. A un certo punto non potei più sopportarlo, così scesi quatto quatto a prenderlo e lo feci dormire sotto le lenzuola. «Non vi permetto di far salire sul letto quella bestiola. I letti non sono fatti per i cani» dichiarò mia madre senza alcuna pietà. 12 D. H. Lawrence


«Ma lui vale tanto quanto noi!» implorammo, feriti. «Può darsi, ma non m’importa. Sul letto non ci può stare.» Adesso penso che nostra madre ci disdegnasse per il nostro scarso amor proprio. Non avevamo troppa dignità, da piccoli. La seconda notte, però, Rex pianse tanto quanto e venne consolato nello stesso modo. La terza notte sentimmo nostro padre scendere pesantemente le scale e poi diversi ceffoni affibbiati al cucciolo che guaiva incredulo, e dopo ancora, sussurrargli con la sua voce amabile, ma per noi spietata: «Zitto! Chiudi il becco, capito? Ficcati nella tua cesta, a cuccia!» «Non è giusto!» ci ribbellamo, gridando sottovoce, da sotto le lenzuola. «Ve lo do io il giusto, se non la piantate di 13 Rex


far chiasso e non vi mettete a dormire» ci ammonì ad alta voce nostra madre da camera sua. Al che spargemmo lacrime di rabbia e ci mettemmo a dormire. Ma la tensione si tagliava con il coltello. «Una tale masnada di deficienti mi farebbe detestare quella bestiola anche se fosse meglio di quello che è» concluse mia madre. Ma di fatto non detestava per niente il nostro Rexino. Doveva solo far finta, per controbilanciare la nostra infatuazione. E in realtà non le interessava proprio avere un contatto stretto con gli animali. Era troppo schizzinosa. Mio padre invece, quando si rivolgeva al cucciolo, faceva una voce da cane vera e propria: un buffo falsetto cantilenante e stridulo che sembrava gli uscisse da in cima alla testa. «Che cuccioletto carino! Proprio un cagnetto carino!… eh!… già!… carino, già!… fai andare la coda, dai! Fai andare la coda, Raxietto!… Ah-ah! Ennò, non 14 D. H. Lawrence


devi mica…» Quest’ultima frase interrotta quando il cucciolo, sovraeccitato fino al parossismo dall’inconsulta voce in falsetto, aveva cominciato a leccare le narici di mio padre per poi mordergli il naso con quei suoi dentini aguzzi. «Mi ha fatto uscire il sangue» constatò mio padre. «Ben ti sta, così impari a fare lo stupido con lui» diceva mia madre. Era strano guardarla mentre osservava quell’uomo, suo marito, che si accucciava a parlare con il cagnolino e che era scoppiato a ridere in modo inconsulto quando la piccola creatura gli aveva morso il naso e aveva cominciato a strofinarglisi sulla barba. Cosa pensa una donna del proprio marito in momenti del genere? Mia madre si divertiva a sentire tutti i modi in cui lo chiamavamo. «È un angelo… è una farfallina… Rexino mio dolce!» 15 Rex


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