GHIGGINI EDIZIONI
A cura di Emilio Ghiggini
Paolo Fresu Non c’era una volta
Testi di Mario Chiodetti Enrico Colombo Silvana Cova Andreani Romano Oldrini Chiara Palumbo Luigi Piatti Riccardo Prina
GHIGGINI EDIZIONI
Paolo Fresu, Emilio Ghiggini, Angelo Branduardi e Giorgio Faletti all'inaugurazione della mostra del 2004 alla Ghiggini
C
onobbi Paolo Fresu diversi anni fa. Me lo presentò Rodolfo Budicin, storico rappresentante di importanti produttori di cornici, amante dell'arte, da sempre frequentatore della bottega Ghiggini: uno oramai di famiglia. Venne in galleria con alcuni lavori dell'artista astigiano e da lì iniziò una proficua collaborazione sfociata nella mostra del 2004, Presenze e sogni, un simpatico momento di incontro con il pubblico della galleria, Paolo Fresu e i suoi inseparabili amici Giorgio Faletti e Angelo Branduardi. Eccoci ora a un nuovo appuntamento che si caratterizza per l'impostazione della mostra. In un primo momento pensavo di presentare Fresu illustratore dando un canovaccio di favola su cui lui potesse operare. Ma il bello dell'essere artista è la libertà di creare e di esprimersi. Paolo ha realizzato 22 opere nella quali ha messo un input tematico. Ho contattato 7 amici che hanno in comune la passione per l'arte, la frequentazione della galleria e per i quali nutro una profonda stima coinvolgendoli nella stesura dei testi del volume che accompagna la mostra. Ad ognuno di loro ho affidato alcune tavole con il compito di interpretarle con la massima libertà espressiva. Il risultato del lavoro qui raccolto è un omaggio alla bravura di Paolo Fresu nel trasmettere emozioni e alla capacità interpretativa dei 7 recensori cui va il mio più sincero grazie. Emilio Ghiggini Varese, ottobre 2007
Galleria d’arte
Organizzazione: Daniela Daverio Eileen Ghiggini Chiara Palumbo Catalogo stampato da Artestampa, Galliate Lombardo GHIGGINI 1822 via Albuzzi 17, 21100 Varese 16 novembre - 7 dicembre 2007 orario: 10 - 12,30; 16 - 19,15 tel. 0332284025 - fax 03321690728 www.ghiggini.it - galleria@ghiggini.it Š GHIGGINI 1822 - VARESE - 2007
Mario Chiodetti
Mario Chiodetti, giornalista e fotografo, autore e interprete di spettacoli teatrali e musicali, ha curato mostre d'arte e scritto testi per cataloghi d'artista. Collabora alle pagine culturali de "La Provincia di Varese" ed è appassionato collezionista di libri, dischi e spartiti d'epoca. Ha 48 anni e due gatte.
Tat tanananina nina nina Una volta per giocare e parlare si scendeva in strada, si usciva dal cancelletto di ferro dietro la siepe e il Pippo era già lì, piccolo e scuro, con la sua faccia da furetto e le figurine in tasca. Una volta non c’erano i numeri e tutte quelle cose da digitare, la memoria non era contenuta in schede e noi sapevamo tutto l’album dei calciatori e quello degli animali a mente, ci passavano davanti agli occhi Domenghini e il facocero, indistintamente. Ogni sera dopo cena, la mamma ci dava le chiavi e l’estate profumava ancora di fiori quando salivamo i gradini della casa del Dodo, dalla misteriosa e tetra cantina, piena di gatti, luogo di punizione per chi faceva la spia e doveva entrarci fino in fondo, e farsi vedere affacciato alla finestrella che dava sul cortile. Pippo era lì e voleva giocare a nascondersi, ma non era veloce ad arrivare alla “toppoli”, messa ad arte dietro i quattro gradini dell’ingresso, e raggiunta dopo uno zig zag intorno a un’aiuoletta. Ci trovava presto, aveva un padre carabiniere e qualcosa dello sbirro gli era rimasto attaccato, ma Dodo lo batteva quasi sempre in corsa e anch’io me la cavavo se scattavo per tempo appena toppolato, venendo giù a rotta di collo dalla discesina e superandolo alla svolta dei gradini, dove al quarto si fermava, lasciandomi campo libero. La discesina era strategica, c’erano sempre macchine parcheggiate in fila, ci si acquattava tra la fiancata e il muro e si aspettava quello che era “sotto” in quel momento. Lo si vedeva arrivare guardingo e la mamma dal balcone ci faceva segnali muti per segnalare l’intruso a ore tre. Vivevamo per quegli scatti in discesa, per quei cinquanta metri di libertà assoluta percorsi in apnea, prima dei gradini del Dodo, dove il fiato si rompeva e rischiavi di inciampare al traguardo della serpentina finale e del “libero per tutti”. Alle volte ci spingevamo nel boschetto arrampicandoci come caprioli tra le piante di robinia e se il nascondiglio era buono non c’era storia, e Pippo si aggirava sperduto tentando il bluff con un debole “vi vedo, so che siete lì”, senza avere il coraggio di salire per snidarci. Allora, seduto tra i sambuchi, parlavo col Dodo della sua bicicletta, dipinta di arancione vivo, senza freni e senza parafanghi, con il manubrio in grado di compiere il giro completo, come accadeva ai clown. Lui era l’Omino, ci separava un anno di età, ma la sapeva più lunga,
tirava di rigolo assieme al Lanzini, vecchio partigiano dai baffi a tricheco, nel campo di bocce vicino casa, ed era veloce, di gamba e di cervello. Verso le cinque di pomeriggio, immancabilmente risuonava per la discesa il suo “tat taninanina nina nina”, alternativa vocale al campanello, naturalmente mancante sulla vecchia Willier trasformata in un arnese da circo. Se era in vena, l’Omino impennava appena prima della curva e, se il cambio di figurine era andato bene, all’impennata aggiungeva un paio di giri del manubrio in volo e un’occhiata alla finestra della mia cameretta, prima di scomparire mentre ancora risuonava l’eco del “tanina nina” come di un grido dei lancieri. Quel suo vivere a morsi faceva di lui il nostro arlecchino, e le ammaccature, i graffi e i ginocchi perennemente “sgarbellati” erano i colori del suo star bene col mondo, del gettarsi a capofitto in ogni intrapresa, con la bici arancione dai copertoni lisi lanciata a tutta manetta anche se il secondo era lontano, umiliato e sbuffante. Un poco di quelle tinte, accese e quasi sonore, di un’ormai trascorsa fanciullezza, si posava su di me come il pulviscolo di un’ala di farfalla e
la sera, prima di addormentarmi, pensavo alla prossima discesa dell’Omino, a come imitarne l’impavida cavalcata e magari frenare proprio all’ultimo, appena oltre la curva. La mia Ganna rosso metallizzato era troppo educata per comportarsi da cattiva ragazza, ma un giorno di quelli ci avrei provato, magari nel tempo vuoto del tardo pomeriggio, appena prima di mangiare, quando per la strada non passava nessuno. Avrei volato come lui per una volta, lasciando per un attimo il manubrio, a ruota libera giù fino in fondo, e per frenare avrei risalito per forza d’inerzia un pezzo della strada del cimitero, come faceva il Dodo a fine corsa. Ma anche gli arlecchini, come i fringuelli, possono mutare le piume, perdere i colori smaglianti dell’età dell’oro e aggirarsi di colpo giallognoli, con una diversa fisionomia e anche il “tanana nina” cambiato di tonalità e simile a un gracidare di cornacchia. Era passata qualcuna di quelle estati infinite, in cui la vita respirava veloce e le ortensie gonfiavano i giardini, colme di umori, noi non giocavamo più a nasconderci tra il muro e le macchine, ma passavamo nella zona d’ombra dell’adolescenza, senza sapere che da lì sarebbero incominciate le salite. L’Omino si vedeva poco, si era come stirato, diventato nodoso e fumava di sfroso. Portava i pantaloni lunghi e aveva dimenticato la bici in un angolo, con una gomma sgonfia, diceva che non si poteva più riparare. Pippo e io ci sedevamo sul muretto davanti al piccolo cancello dietro la siepe, lo aspettavamo per qualche mezz’ora, assieme all’Antonio e al Marino, due che a nascondino, ai tempi, li superavi già ai dieci metri, senza nemmeno vederli. Adesso erano grossi e avevano le guance già scure, parlavano del Benelli che il Ciao era da femmine, e se il discorso cadeva sul Dodo si facevano omertosi, tirando fuori mezze parole e ammiccamenti. Finché, una sera, lo vedemmo uscir di casa, con la k-way rossa e i capelli tutti da una parte, e prendere per il centro, quasi di corsa, senza salutare nessuno. Fu la voce vetrosa dell’Antonio a svelarci che l’amico era perduto e una nuova stagione della vita incominciata: “Ragazzi, l’Omino c’ha la donna!”.
Enrico Colombo
Enrico Colombo è attore, pittore e burattinaio da trent'anni, ha portato i suoi spettacoli in tutta Italia ed Europa, pedagogista e formatore, dirige il Piccolo Teatro di Cazzago Brabbia in compagnia di Arteatro, Associazione Culturale fondata nel 1999. Allevatore di cavalli Haflinger, guida equestre ambientale, ama sognare tra i 3000 e i 4000 metri naturalmente a cavallo!
Principessa Luisona che il gigante abbandona per un principe turchino forse ancora troppo bambino, lei è un'artista questo si sa, e il gigante pianger fa, troppo spesso s'allontana per alzar la sua sottana, di giganti lei ne ha tre uno ,due e il terzo è un re, si fatica in baracca ogni tanto lei si stacca. La baracca e i burattini sono roba da bambini questo lei ben sa e per questo se ne va.
Il gigante Belisario arriva sempre sul primo binario, con baracca e burattini, l'aspettan con gioia le autorità e tanti bambini. Il gigante Belisario è un grande artista, con Pulcinella e Arlecchino rider fa ogni bambino guida svelto la sua bici con in mano l'ombrellino. Il gigante Belisario è rosso e bello e lui lo sa, con tre piume sul cappello tutte le donne impazzire fa.
Il gigante Baracca di lavorare non si stracca tre marionette agita insieme racconta storie dolci e blasfeme. Guarda tutti con sogghigno leggero, prima di mandare la regina al cimitero. Al gigante Baracca gli scappa la cacca, dice piano a sua maestĂ di andare avanti, che lui non ce la fa. La marionetta rovina per terra e la sua corona svelto afferra. Il gigante Baracca dalla panza non si stacca, veglia la scena, molto attento, un prelato assai sgomento di vedere il cavaliere che si perde in un bicchiere. Il gigante Baracca ora si sbianca nel veder la principessa intenerita e cotta lessa, del prelato innamorata e da lui troppo guardata. Il gigante Baracca chiude la panza, finito il suo teatro, la principessa piange, il principe arrabbiato, ma dove mai sarĂ il prelato?
Silvana Cova Andreani
Laureata in Lingue e Letterature straniere all’Università Bocconi, docente di Inglese e Francese nella scuola secondaria. Ha seguito percorsi di approfondimento all’approccio della produzione artistica sia in Italia sia all’estero, soprattutto in Francia. L’andar per arte è una consuetudine del suo vivere.
Non c’era una volta ... Titolo di un percorso artistico di per sé intrigante. Rimanda infatti alle favole, al mondo innocente e nel contempo crudele dell’infanzia. Proprio da questa dicotomia si diparte il viaggiare tra personaggiburattini, immagini che, a primo acchito, emanano una sorta di impatto ludico anche se pervaso da un’ aura triste. Essi riportano alla struttura della fiaba a rovescio: lo sbagliare in modo premeditato la figura di un personaggio, rovesciando così il tema fiabesco, ne consegue un prodotto, che risulta inedito, differente, quasi una parodia per cui il soggetto di ogni opera è libero di svilupparsi autonomamente. Il re, simbolo di equilibrio e potere, acquisisce i tratti di un fool Shakespeariano, diventando matto, burattino, mosso da invisibili fili che gli impediscono di agire; un imperatore che non attua piani strategici, ma si rimette alla ricetta del dottore sino ad essere definito un po’ sciocco!. L’aspetto fisiognomico delle figure di Fresu avvalora questa lettura: osservando gli occhi, essi ci rimandano sguardi talora miti, altri fugaci da non personaggi; essi, più che mai sembrano voler trasmettere un messaggio benevolmente triste, quasi ironico.
L’immaginario fiabesco viene soprattutto sottolineato dall’approccio cromatico, in cui la tensione del colore permea le opere di una magica malia. La forza espressiva dei colori sottolinea le caratteristiche dei visi e delle vesti, accentuando così nuove configurazioni cromatiche: le tonalità svelano sfumature, mentre contrasti azzardati sono risolti in misurate armonie, così da divenire una sorta di strategia comunicativa dell’espressione. Sotto il segno del rosso-arancio si accendono tonalità materiche come i bordeaux, gli ocra, i marroni; si ravviva la gamma dei gialli sino all’armonico gioco dei chiaroscuri. Il risultato è uno sfoggio cromatico sontuoso che brilla di inserti preziosi, di pizzi lievi, che la tecnica mista evidenzia in modo sfarzoso e che ci aiuta a vedere queste figure, inserite in un mondo simbolicoallegorico dove tutto è vanitas: fragilità umana, l’essere illusorio delle cose e, per conseguenza, la delusione che esse riservano all’uomo.
Romano Oldrini
Già giocatore di calcio, già sindaco, già medico, già innamorato della pittura astratta, già sfegatato per la musica rock, tutt'ora impelagato nella scrittura, da anni sta tentando (invano!) di governare le impudicizie del mondo, da anni sta tentando (invano!) di tornare bambino.
Prima fila di palchetto quasi le mani a toccare i sogni gli occhi che frugano e i volants e le passamanerie tra gli anfratti ahimè violati. Eppure quell’occhio a calare e la mano incerta sul dolore, un collo forse di cigno che non sa non vuol sapere di un velo bianco di cipria a marezzare il nero del buio.
Qualcuno l’ha detto in tempi non sospetti. Cadere fino al fondo per poi risalire e che sull’ultima coda sta il veleno migliore. L’orco gentile, il maglio che carezza, l’ossimoro in aiuto alla penna che reclina.
Chi sta vincendo al tavolo del mondo. Se il desco è già pronto l’occhio già rapace. La malizia di corpi solo intravisti oltre le guepières le promesse mancate. Forse già sanno. La lunga vita del desiderio la sua secolare vittoria.
Chiara Palumbo
28 anni. Acquario. Tendenzialmente “rissosa”. Laureata in Scienze dei Beni Archeologici e Storico Artistici. Collabora con la Galleria Ghiggini dal 2003. Attualmente lavora presso la Provincia di Varese e si occupa da due anni della conservazione e della valorizzazione del paese dipinto di Arcumeggia. Prosegue indipendentemente l’approfondimento della storia dell’arte a cavallo tra ‘800 e ‘900. Venera l’artista austriaco Egon Schiele. Si immedesima nelle modelle del preraffaellita Dante Gabriele Rossetti. Il suo pensiero ricorrente: Lodovico Pogliaghi e la sua casa-museo a Santa Maria del Monte a Varese.
C’era una volta e forse non c’è più un re di nome Narciso con pizzetto e baffi all’insù. Una dorata corona gli cingeva la testa, scettro in mano e gorgiera a ogni festa; però sempre solo si presentava poverino, al suo fianco mai nessuna dama in ermellino! Finché un giorno, stanco di essere da tutti deriso, decise di escogitare un piano ben preciso. Fu così che diede un gran ballo e per l’occasione si fece costruire una regina di cartone. Tutti gli invitati la ammirarono per la bellezza vera, fino a quando non si accorsero che era una chimera; uno fra tutti si dimostrò il più cattivo, un cardinale dall’aspetto inizialmente schivo che si presentò innanzi al re tutto baldanzoso canzonandolo e beffeggiandolo con fare odioso: “Solo di te stesso sei innamorato Re Narciso, nessuna donna mai ti bacerà il viso!” Il prelato però non si accorse che nella foga del camminare aveva perso una scarpina che si affrettò subito a cercare. Re Narciso non si lasciò sfuggire l’occasione “Cardinal Cenerentolo” urlò nel mezzo del salone e la folla incominciò a ridere così apertamente tanto da dimenticar la regina inesistente! La morale di questa buffa storia di cui ancora oggi si deve aver memoria sta proprio nell’insegnare che mai del male si deve fare. “Chi semina vento raccoglie tempesta” Questo è un detto che bisogna sempre aver in testa!
Questa è una breve filastrocca che a molti potrà sembrar di certo sciocca. Narra della storia assai bislacca di Rebecca, la baldracca! Nata dalla fantasia di un artista astigiano che disegna con assai abile mano. Essa racconta l’abitudine curiosa di una donna assai formosa che in un grande castello rinchiusa viveva dove principi, cardinal e cavalieri riceveva. Tutti ai suoi piedi con doni e rose rosse mentre le altre dame spiavano un po’ scosse; dalle finestre stavano a curiosare ciò che Rebecca era solita fare: Accogliere i suoi ospiti festosamente e alzar la gonna prontamente. Baci, carezze e tanta attenzione a chi si lasciava travolgere dalla sua passione. Visse così tutta la sua vita e non si sentì per questo mai pentita. Non approfittò mai dei suoi spasimanti grazie ai quali si ricoprì di diamanti ma ai quali offriva in cambio il suo amore fosse solo per una notte lunga delle ore che non potevi per nulla dimenticare e che ben presto da lei ti avrebbe fatto tornare!
Luigi Piatti Io sottoscritto Luigi Piatti dichiaro di essere invidioso di Aldo Alberti, pittore novantacinquenne, nato a Busto il 21 novembre 1912, sempre vispo come un gabbiano in volo. Nato sedici anni e un giorno dopo di lui, non riesco a stargli dietro quando cammina; mi sono pertanto ripromesso di andare in giro con lui soltanto in automobile. Che guido io. Aggiungo che la mia carta d'identità può apparire a molti un documento "falso". Due i motivi si legge Luigi e nato a Comerio. Allora, perché tutti mi chiamano Ginetto? Un abuso collettivo? Il fatto poi di Comerio è che io sono nato a Barasso in via Roma n°2 che oggi, per via dell'inflazione, è diventato 12. Me lo dichiarò mia madre appena divenni capace d'intendere. Però più di me e di mia madre comandava il Duce che aveva deciso Comerio e, anche se proprio tanto tanto tanto non mi va, così fu. Da grande feci il dirigente industriale perché incontrai il Gran Giovanni Borghi. Per Lui misi la mia voglia d'arte in un bel freezer della Ignis che me la conservò intatta e sana sino alla pensione. E spero di costare ancora tanto all'INPS per poter continuare a scrivere bene degli artisti che stimo e sempre tacere, senza fatica, di tutti gli altri. Ciao!
Emilio Ghiggini, avendo deciso di allestire una mostra di Paolo Fresu, mi rifilò tre opere di questo favolista, pittore, scultore, scenografo e ceramista astigiano da commentare. La prima ha per titolo: ... Era talmente intelligente che parlava sempre e forbitamente ... e non diceva niente. E' un'opera che mi piace molto perché nella veste di una donna dal naso lungo e dalla treccia pure lunga mi ricorda alcuni politici: quelli che parlano parlano parlano, raccontano il niente con frasi astratte (tipo la quadratura del cerchio, la circolatura del quadrato, eccetera) che la gente comune anche con due lauree non capisce; quelli, insomma, che praticamente nulla dicono, proprio nulla; cioè, per la verità vera, soltano parole parole parole. Sono i politici più onesti, più rispettosi del popolo perché nulla, assolutamente nulla promettono. Gli "altri", non proprio tutti ma, potrebbero anche prometterci l'autostrada Barasso, Oltrona, Cazzago, con il "sorvolo" del lago di Varese, e mai realizzarla. Giacché tutto va bene per agguantare un voto. E allora, meglio i primi. O no?
Incastrato dall'Emilio devo continuare con la seconda opera: La bella Virginia, solo una volta al mese, concedeva le sue grazie al conte di Varese. Ecco, come si permette questo astigiano Fresu di interferire con i vizi e le virtù del conte della mia città? Cosa ne sa? Una volta al mese perché innamorato pazzo della Virginia ed escludeva, di conseguenza, le altre donne o una volta al mese perché aveva impegnato tutti gli altri giorni con altre donne? Fresu non sa che c'è la Privacy che proibisce di entrare nell'altrui intimità? O è una storia di altri tempi senza le leggi di oggi? Cosa fa Fresu, il cronista o lo storico? P.S. Fosse cronista rideremmo di più.
La terza opera è decisamente Storia, proprio con la S maiuscola: C'era una volta il re del mondo che regalò metà del regno al suo generale per poterselo poi riconquistare. Evidentemente era, questo re, proprio un re con le palle, tante palle, certamente di cannone. Un guerrafondaio che, consapevole della propria forza, regalava per riavere. Ovviamente uccidendo. Ritengo che Fresu qui ci dia la sua morale: non si facciano più guerre giacché la storia racconta che i generali le perdono. Anche quelli ai quali qualche volta capita di vincere. Napoleone docet. E allora? Nasce una proposta: nelle Accademie militari si arrivi al grado di sergente. E ci si fermi lì, per favore! O no?
Riccardo Prina
Attualmente responsabile del sito Artevarese.com. Alle spalle, in gioventù, una tesi su Picasso, di fianco, la notte, un Rothko (riprodotto) che mi guarda da destra. E Francesca, Leonardo ed Arianna. P. S. La Chiara citata nel testo è Chiara Dattola. Le matite e i pennelli sono fin dai tempi dell'asilo i suoi migliori amici e non ha mai smesso né di disegnare né di sognare.
La prima cosa è la conferma di esistere. Poi, lo spazio del dialogo. Guardo i lavori meno recenti di Fresu, il veliero rampante, il teatrino dei Teatrini, il barcone di Mangiafuoco, il cavallino rotante. E vedo volti sdoppiati. Vedo occhi che guardano dietro di sé, a sinistra, a destra di sé. Non mi comunicano. Non mi parlano direttamente. Ma comunicano ansia e domande . Si guardano, ma si guardano da cosa? Che tipo di certezze chiedono, sbirciandosi di sbieco gli uni con gli altri? ”Sono scenografie di un paese interiore – mi dice la mia amica Chiara – quelle di Fresu, che popola sogni e incubi allo stesso tempo. Li popola di facce grottesche e ricercate, di giochi meschini ed iracondi”. Brava, lei, lei stessa che vive di sogni e, volendo, di incubi, e li fa vivere usando gli stessi trucchi da povero diavolo che povero non è. Ma per me, da questa parte, è più difficile. Guardo le ultime e il gioco è cambiato, mi sembra. Abbandona il teatro, la storia si addensa, le figure si ergono. E loro mi guardano. Anzi mi sbaglio. Non guardano proprio, non guardano ancora, ma sento che sono, che sono più forti di prima, che non son di cartone e tra loro si intendono. Il cavaliere con l’alto prelato, il re piedi piatti tutto pizzi e parrucca con il cardinale. Se la raccontano. Umani, buffi come un mistero, ma certi di esistere. Chiara mi puntualizza: “Non da ora. Non vedi le labbra rosse e carnose delle sue donne. Perfino la fata turchina accarezza Pinocchio con fare equivoco”. Ecco la sfumatura. L’equivoco del teatro, l’equivoco di me che guardo senza vedere. Io la prendevo alla larga. Già pensavo a Rabelais, chissà perché ma ci pensavo, e devo confessare anche un po’ a Cervantes; o alla nave dei folli, tra le prime cose; e la Franza e la Spagna purché si magna...si lo ammetto, ho rimuginato anche su questo. Ma anche Fellini, se questo può rimediare alla caduta di stile. “Di re-stanchi e recessi, di Geppetti di prelati e farmacisti. Quasi illustrazioni di Decameron”, mi incalza Chiara.
Ecco no, il Decameron, no, non lo avevo pensato. E forse era solo una questione di pelle e di vibrazioni: l’inclinazione dello sguardo, la carezza dello sguardo, la feroce, carezzevole ironia dello sguardo, la fuggente, carezzevole ironia dello sguardo. Anche sensuale, a volte. Certo. E io, l’ho letto, davanti all’affermazione del critico “il cubismo di Fresu”, mi sono fatto prendere all’amo. Cubista, cubista, cubista. Mi sa che non è quella la strada per mettersi a guardare lo spettacolo. Allora dov’è l’entrata? “Guarda il segno veloce, mai approssimato” mi dice il mio Virgilio, “Mentre il prelato ritorna alla mente e si confonde col Bacon dei tempi che furono. Il re crociato corre senza sosta con il suo segno stampigliato di rosso sull'uniforme e Paolo Fresu continua a giocare”. Tutto bello, comincio a vedere e a girare, mi sembra una giostra. Ma ci manca una rima. Eccola, mi fa Chiara “Gioca fra i pizzi e i merletti, gioca fra i nastri ed i rossetti”. Finisce qui? No! “Racconta in un gesto sapiente la storia del mondo e le sue codardie”. Niente rima, ma va bene così.
Angelo Branduardi e Paolo Fresu all'inaugurazione della mostra del 2004 alla Ghiggini
N
ato ad Asti il 13 novembre 1950 Paolo Fresu frequenta prima il liceo artistico di Torino poi l’Accademia Albertina. Interrompe gli studi per dedicarsi alla scenografia teatrale, cinematografica e televisiva lavorando con artisti del calibro di Luigi De Filippo, Giorgio Faletti, Andy Luotto e infine per RAI UNO al programma Fantastico 90. Con il Gruppo Teatro Asti idea scene e costumi per Il malato immaginario di Molière e Il mercante di Venezia. A partire dagli anni ’60 fino agli ‘80 sviluppa la sua espressività artistica mediante sperimentazioni matericocromatiche, passa dalla china al pastello, dal disegno alla scultura, fino alla creazione di ulteriori impreziosimenti con il collage e gli assemblaggi polimaterici d’influenza surreale. Nel 1992 realizza il manifesto e la scultura-premio della rassegna teatrale Astiteatro 14. Tre anni dopo dà vita ad un grande pannello in esposizione permanente presso l’atrio della stazione ferroviaria della sua città natale. Dipinge i due drappi del Palio di Asti (1997). Numerose sono le personali tenute sia in Italia che all’estero e recenti gli allestimenti antologici che hanno avuto luogo nella sua città natale: Foyer del Teatro Alfieri (1992), Antico Battistero di San Pietro (1997). Altre due personali si sono tenute in Alessandria presso il complesso conventuale di san Francesco (2000) e al Teatro di Moncalvo nel 2001. Segue una mostra presso il Palazzo Robellini dal titolo Lo specchio di Tersicore ed una ad Albissola marina presso la galleria Il Bostrico(2003). Inizia nel 2004 la collaborazione con la GHIGGINI 1822 con l’esposizione personale intitolata Presenze e sogni. Nel dicembre le sue opere sono state presentate nella Sala Esposizioni del Teatro Ariston di Sanremo. Nel 2007 realizza il manifesto per la VII edizione di Incontri del cinema d'Essai ad Asti e nell'autunno 2007 espone a Macerata alla Quadreria Blarasin e a Roma con la mostra Steatrando al Museo Burcardo. Fresu è un’artista poliedrico: favolista, scultore, scenografo e ceramista. Animano i suoi disegni e le sue sculture generali, reali, prelati e personaggi delle fiabe più popolari: personaggi di un mondo a metà tra il reale e l’immaginario, simboli dei vizi e delle debolezze dell’uomo moderno che per evitare il confronto con la realtà si nasconde dietro la maschera della mediocrità. Con la sua opera propone allegoricamente temi e situazioni dal carattere esistenziale il tutto però sdrammatizzato dalla chiave ironica e leggera con cui Fresu legge e rielabora le sue idee e fantasie. Attualmente vive ad Asti dove ha sede il suo atelier.
Non c'era una volta, 2007 incisione cera molle di Paolo Fresu incisa su lastra di zinco di mm. 210x150 tirata su torchio a mano realizzata in occasione della mostra alla GHIGGINI 1822 in cento esemplari numerati da 1 a 75 e da I a XXV abbinata alle prime copie del catalogo.
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