A cura di Emilio Ghiggini
Paolo Fresu in vino veritas
Testo di Mario Chiodetti
Š GHIGGINI EDIZIONI
Paolo Fresu, in vino veritas 28 novembre 2015-30 gennaio 2016
Tutte le opere riprodotte in catalogo sono tecniche miste e collage su carta e realizzate nel 2015 fotografia dell'artista a cura di Claudia Fresu
Š GHIGGINI 1822 | via Albuzzi 17 | Varese galleria@ghiggini.it | www.ghiggini.it
Mario Chiodetti - giornalista e fotografo, autore e interprete di spettacoli teatrali e musicali, ha scritto libri, testi per cataloghi d'artista e curato mostre d'arte. Ăˆ responsabile della pagina culturale de "La Provincia di Varese" e appassionato collezionista di libri, dischi e spartiti d'epoca. Ama i gatti.
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inocchio è un raffinato sommelier, e grazie al suo naso cattura ogni più sottile sfumatura aromatica dei vini centellinati. Brinda con la Fata Turchina che ha già le gote arrossate per la gradazione di un bel Chianti color rubino, delibato nei giusti bicchieri panciutelli. L’ironia di Paolo Fresu, il suo gusto per il grottesco simpatico, trabocca nelle splendide carte dedicate al “divino liquore”, in cui gli stessi vini si trasformano in personaggi fantastici, dalle vesti sontuose, in un’allegoria barocca e insieme travolgente. Il pittore è di Asti e, a meno di obiezioni di coscienza, non può non desiderare a tutto pasto un Grignolino di Refrancore o un Barbaresco della Morra, così Fresu si unisce al coro dei suoi be-
vitori, che sembrano usciti da poemi cavallereschi, nel cantare a piena gola «Viva il vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante, come il riso dell’amante mite infonde il giubilo!», ricordando compare Turiddu e i bianchi di Sicilia dal retrogusto di solfatara. «Mi piace il Refosco dal peduncolo rosso, ma anche il Barbaresco e il Grignolino, o la nostra Barbera superiore che dà punti al Barolo. Amo il vino, e nei trentatré disegni che espongo in Galleria Ghiggini ho spaziato un po’ in tutta Italia, perché non abbiamo niente da invidiare a nessuno. Ci sono Suor Bonarda e Re Nebbiolo, il Prode Trebbiano con Madame e Monsieur Chardonnay, la Contessina Vespolina e Donna Croatina, Madama Barbera e San Giovese. Mi diverto con pastelli, acrilici
e uso parecchio il collage, un po’ il mio segno distintivo». Così parlò il dipintore di sontuosi banchetti, tavolate pantagrueliche innaffiate da annate di riguardo, in cui Violetta Valery si trasforma nella Bella Gattinara ammaliatrice, circondata da soriani ammiccanti e inzigata da un elegante cavaliere con cui intonare il «Libiamo nei lieti calici» e sorridersi da dietro le maschere. «Se de l’uve il sangue amabile/ non rinfranca ognor le vene/ questa vita è troppo labile/ troppo breve e sempre in pene», scrisse, anno 1685, Francesco Redi nel suo Bacco in Toscana. «Su su dunque in questo sangue/ rinnoviam l’arterie e i musculi/ e per chi si invecchia e langue/ prepariam vetri maiuscoli./ Ed in festa baldanzosa/
tra gli scherzi e tra le risa/ lasciam pur, lasciam passare/ lui che in numeri e in misure/ si ravvolge e si consuma/ e quaggiù Tempo si chiama;/ E bevendo e ribevendo,/ i pensier mandiamo al bando». Il grande medico aretino si lancia poi in giudizi da intenditore: il Moscadelletto di Montalcino lo consiglia alle «Vergini severe che han di Vesta in cura il foco», alle Dame di Parigi e a quelle «sì belle che rallegrar fanno il Tamigi», e «frattanto qui sull’Arno/ io di Pescia il Buriano, il Trebbiano, il Colombano,/ mi tracanno a piena mano». Hai capito il dottore! Berrebbe almeno «due ciotole» di Barbarossa se non temesse il giudizio di Ippocrate e del vecchio Andromaco (archiatra di Creta), e quali giudizi
sul caffè, «amaro e reo, liquor sì ostico/ sì nero e torbido/ gli schiavi ingollino giù nel Tartaro», e sulla birra, la «squallida cervogia/ presto muore, o rado giugne/ a l’età vecchia e barbogia». E dopo averne delibato di ogni, dal Chianti «villanzone» alla «manna di Montepulciano, che d’ogni vino è il re», crolla insieme ai Satiri «che avean bevuto a isonne/ e si sdraiaron su l’erbetta/ tutti cotti come monne». In vino veritas, recita il titolo della mostra di Paolo Fresu, e in effetti, come si ascolta in una celebre canzone popolare lombarda, «è l’acqua sì che fa male/ il vino fa cantar», regalandoci una sorta di febbre, uno scatenamento endorfinico capace di farci fare immediata pace col mondo, gli avversari e gli invidiosi, renderci loquaci
e seduttivi, ma financo tristi e musoni, perché l’ebbrezza non sempre è allegra. Scrive Edmondo De Amicis nel suo Il vino, splendido trattato sul carattere di Bacco pubblicato nel 1890: «Volendo dare un’idea della varietà degli effetti del vino, bisogna restringersi a tratteggiare alcuni ritratti, scelti fra quelli di cui si incontrano più sovente gli originali. Il tipo più frequente è quello che ha dato origine al detto “in vino veritas”. Qualche segreto, nell’ebbrezza, se lo lasciano sfuggire quasi tutti. Ma è incredibile fino a che punto giungano alcuni, d’indole viva e aperta, sulla via delle confessioni. Costoro sono presi da un vero furore di sincerità, da un bisogno irresistibile di pubblicare tutte le loro colpe e tutte le loro debolezze. Dotti, si accu-
sano di ignoranze vergognose; uomini d’affari, confessano atti disonesti, colpe d’intenzione, pensieri vili che ebbero in date occasioni». Non tutti siamo uguali, anche nella ciocca, che un fine umorista come Carlo Dossi, “scapigliato dorato”, classificava in cirla, virla, patarlàca e pondet là. All’inizio si è allegretti, poi si barcolla, si è completamente andati, quindi si casca per terra, come alla fine del girotondo che si faceva da bambini. Un esperto dei diversi stadi era Giuseppe Rovani, morto di cirrosi, più volte trovato imbesuito davanti all’ingresso dei caffè nella Milano della “Compagnia brusca”, sempre in bolletta e capace, davanti a una bottiglia di Bordeaux (si trattava bene), di «tenere accademia di gambe».
L’amico Dossi, nella Rovaniana, cita aneddoti fulminanti: «Chiese il signor Spagliardi a Rovani perché bevesse sì tanto. E Rovani: “Cossa voeur, quand mi bevi, me par che i debit me diventen credit”». L’autore dei Cento anni peraltro amava ripetere: «El vin l’ha ben de vess fort. Se l’è minga fort ch’el vaga a faa on alter mestè. Ch’el vaga a fa l’acqua». Del resto, come ebbe modo di verseggiare un altro fiancheggiatore della Scapigliatura come Arrigo Boito: «Il mondo è un trillo per l’uomo brillo/ un trillo enorme di suoni e forme/ di flauti e cetere/ che scorre a vol/ dall’onda all’etere/ dai prati al sol». Lo sosteneva lo zingaro Iràm, protagonista dell’omonima commedia, uno che trovava slanci lirici per descrivere vitigni e pampini:
«Siamo ai dì della vendemmia/ cola il vino/ giù dai colli di Boemia/ porporino. Date ai re/ monti d’oro, incenso e mirra! Sempre a me/ date vino, e assenzio e birra!». Ritornando alle precise descrizioni deamicisiane, ecco «un’altra forma curiosa d’ebbrezza che si riscontra specialmente in certe nature sobrie e discrete, le quali serbano la giusta misura in tutte le cose, e son poco accessibili alle passioni turbolente. Costoro, arrivati a un certo grado d’ebbrezza, non si trovan più bene in compagnia, si separano dagli amici, rifuggono dal chiasso, hanno bisogno di portare a spasso la loro beatitudine in luoghi solitari, al lume della luna, e là meditano sui propri affari, o filosofeggiano serenamente sulla vita umana, fermandosi a contemplare bellezze di paesaggio non
prima vedute, errando a caso, espandendo l’anima in una muta riconoscenza davanti all’immensità della natura. Costoro si potrebbero chiamare gli “Arcadi dell’ebbrezza”». Assai più sanguigni e goderecci sono i personaggi di Fresu, agghindati sì, ma con le facce da gaudenti incalliti, espressioni furbette e occhi saettanti. La sua Arca di Noè non accoglie soltanto «il cane, il gatto, io e te» come quella cantata da Sergio Endrigo, ma «politici, re, regine e altissimi prelati», che hanno prenotato tutti i posti e se la bevono alla grande (e alla faccia nostra) in occasione del varo ufficiale, mentre la Pantera Rosa e Pulcinella sono già a bordo per “épater le bourgeois”. Ma, terminato il diluvio, saranno ancora aperte come un
tempo le osterie di fuori porta? «Qualcuno è andato per formarsi/ chi per seguire la ragione/ chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi/ ed è una morte un po’ peggiore» cantava Guccini, però la gente che ci andava a bere non è affatto «tutta morta». Oggi le osterie si chiamano enoteche, e tra tanti degustatori in completo Armani trovi ancora qualche buontempone che beve per passione, il gusto della conoscenza e l’accrescimento della sua cultura enologica, un lettore di Luigi Veronelli e Gianni Brera, cultore del Barbaresco leggendario di Oddero e del Barolo Cordero di Montezemolo, del Dolcetto del presidente Einaudi, monumenti del bere piemontese che Mario Soldati venerava assieme alla sue due “G”, Grignolino e Gattinara, e raccontò da par suo
in Vino al vino, il più piacevole viaggio mai compiuto nelle terre italiane. «Cos’è il Barolo di Montezemolo, se non un aroma degli anni perduti e ritrovati, una quintessenza del Tempo? In ogni caso, è qualcosa più di un vino», scrisse l’autore dei Racconti del maresciallo, in giro per la provincia di Asti negli anni ’70 in cerca dell’Arneis, quando già declinava il mito delle grandi cantine e la pigiatura con i piedi era quasi un ricordo. «Ho già detto più volte che l’etichetta ha una funzione esclusivamente negativa. Il vino non è mai buono grazie all’etichetta, bensì malgrado l’etichetta», sosteneva Soldati, e i disegni di Fresu manifestano il piacere autentico del bere, senza “etichette” di sorta, ma soltanto con «il sangue amabile che rin-
franca ognor le vene», per ritornare ai versi di Francesco Redi. Beviamo dunque sorridiamo, anzi impariamo a memoria il sonetto di un poeta all’apparenza serio, traduttore di Goethe e Schiller nonché discepolo del Monti, amico e librettista di Giuseppe Verdi, con qualche licenza nella trasgressione: Andrea Maffei. Il consorte di Clarina, titolare del salotto più eversivo del nostro Ottocento, frequentato da patrioti e scapigliati, tra le sue Melodie ci ha lasciato un “Brindisi” che condividiamo con Paolo e le sue creature bifronti, il bicchiere in mano e il cuore tumultuante di emozioni. «Mescetemi il vino! Tu solo, o bicchiero/ fra’ gaudi terreni non sei menzognero/ tu vita de’ sensi, dolcezza del cor./ Amai; m’infiammaro due
sguardi fatali,/ credei l’amicizia fanciulla senz’ali./ Follia de’ prim’anni, fantasma illusor./ L’amico, l’amente col tempo sen fugge,/ ma tu non paventi chi tutto distrugge/ l’età non t’offende, t’accresce virtù./ Sfiorito l’aprile, cadute le rose,/ tu sei che n’allegri le cure nojose,/ sei tu che ne rendi la gioja che fu./ Chi meglio risana del cor le ferite?/ Se te non ci desse la provida vite/ sarebbe immortale l’umano dolor./ Mescetemi il vino! Tu solo, o bicchiero/ fra’ gaudi terreni non sei menzognero;/ Tu vita de’ sensi, dolcezza del cor!». Prosit! Mario Chiodetti Varese, 29 ottobre 2015
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aolo Fresu nasce ad Asti nel 1950. Frequenta il liceo artistico di Torino e l’Accademia Albertina. Non termina gli studi per dedicarsi alla scenografia teatrale e televisiva. Dopo un periodo di sperimentazione (anni Sessanta-Settanta) dove coltiva un’autonoma concezione espressiva, sensibile alle tendenze espressioniste europee, mediante insolite sperimentazioni materico-cromatiche, inizia a raffigurare ironicamente la rappresentazione della borghesia e del potere della nostra società. E' lo scenografo nel 1981 dello spettacolo teatrale Come e perché crollò il colosseo di Luigi De Filippo, nel 1982 invece del film Grunt con Andy Luotto e Giorgio Faletti e nel 1990 collabora alle scenografie di Fantastico 90 su Rai Uno. Nel 1992 realizza il manifesto e la scultura per il Premio Astiteatro 14 e nel 1997 è Maestro del Palio dipingendo i due stendardi per il Palio di Asti di quella edizione; accanto alle numerose personali, si annoverano allestimenti antologici in Asti: Foyer del Teatro Alfieri (1992), Antico Battistero di San Pietro (1997) e in Alessandria presso il Complesso Conventuale di San Francesco (2000). Paolo
Fresu, utilizzando i materiali più disparati come legni, metalli, stoffe, inserti di giornali e minuterie, uniti a una eccellente tecnica pittorica, ritrae i vari personaggi scavando a fondo nel carattere, nel loro stato e nelle loro funzioni. Fresu è una figura poliedrica: favolista, scultore, scenografo e ceramista; i suoi disegni sono animati da personaggi delle fiabe più popolari, protagonisti di un mondo a metà tra il reale e l’immaginario, simboli dei vizi e delle debolezze dell’uomo moderno che per evitare il confronto con la realtà si nasconde dietro la maschera della mediocrità. L’ironica figurazione dell’immaginaria allegoria umana di re, regine, generali, prelati, arlecchini e popolani assume così nei cicli pittorici più recenti una profonda simbologia, esaltata da un serrato contrasto chiaroscurale e timbrico. Nel 2004 Paolo Fresu espone i propri lavori presso GHIGGINI nella personale Presenze e sogni e nel 2007 torna in galleria con la mostra Non c'era una volta. L'artista recentemente ha realizzato i disegni che illustrano la raccolta La piuma (ed. Baldini & Castoldi, 2015), opera inedita dell'amico Giorgio Faletti: “Una favola morale, che accompagna il lettore attraverso le piccole, meschine, ignoranti bassezze degli uomini, sino a comprendere, attraverso il più
innocente e semplice degli sguardi, il senso profondo delle cose. Del loro ruolo. E della fine”. Così nella presentazione alla mostra da GHIGGINI del 2004 Giorgio Faletti descrive il lavoro di Paolo Fresu: “Da qualche parte, in qualche posto, c'erano o ci saranno queste figure, forse in quel punto magico che segna l'esatto crocevia fra il peccato, l'ironia e l'immaginazione. Hanno coperto il loro tragitto o forse ancora devono imbrattare il suolo con le loro impronte ma nonostante questo sono lì, fissati sulla tela, immobili eppure compresi come rapidi e colorati fotogrammi in una storia senza fine. Sono così veloci nella loro corsa che è proprio lo spettatore a sentirsi immoto davanti alla giostra di re senza regno, vescovi senza fede, donne senza pudore, guerrieri senza vittorie, ballerine senza applausi. Ed è questa sconfitta che ce li fa amare e che ce li fa invidiare perché le cicatrici del loro tempo disegnato li regalano ad un'eternità intoccabile, silenziosa come ogni luogo del loro bizzarro mondo, che da qualche parte sicuramente ci sarà o c'è stato. Dove, non è dato sapere”.
in vino veritas, 2015
fotolitografia di Paolo Fresu realizzata in occasione della mostra presso GHIGGINI 1822 in cento esemplari numerati da 1 a 75 e da I a XXV abbinata alle prime 100 copie del catalogo
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