L'età dell'inconscio

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L’età dell’inconscio La cultura mitteleuropea di inizio

‘900

Pietro Bonomi 5H | A.S. 2012/2013 | Liceo Scientifico Statale Paolo Frisi, Monza





Indice

Premessa pag. 2

1. Introduzione sul concetto di Mitteleuropa pag. 4

5. Klimt (cenni): il pittore della verità nascosta sotto la superficie

pag. 8

3. La medicina scientifica: l’imponente opera di Carl von Rokitansky pag. 20

4. Il salotto di Berta Zuckerkandl: un crogiuolo di saperi pag. 24

pag. 46

pag. 26

6. Sigmund Freud: la crisi dell’Io pag. 28

2. Il mito asburgico e Vienna

9. Saba (cenni): un poeta nudo a Trieste

7. Arthur Schnitzler: medico e letterato esploratore in profondità pag. 32

10. Italo Svevo: l’indagine di una condizione psicologica pag. 48

11. Svevo e Joyce: un’amicizia fondata sul rapporto padre e figlio (con introduzione in lingua al periodo triestino di Joyce) pag. 54

8. Il porto dell’impero, Trieste: un’identità di frontiera pag. 38

Bibliografia pag. 60


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Premessa

Il motivo che mi ha indotto a scegliere questo tema consiste soprattutto nell’attualità dell’argomento: esso conferma che la cultura, ieri come oggi, si nutre e si moltiplica attraverso pluralità di competenze e di interventi anche provenienti da ambiti non strettamente collegati tra di loro (in questo caso scienza e arte). Il mio interesse per la situazione sociale e culturale attuale, che nella maggior parte, si limita a considerare l’effimero e l’esteriorità, mi fa comprendere, anche alla luce di questi approfondi-

menti personali, l’importanza di scandagliare in profondità. Da questo ho sviluppato un particolare interesse per le discipline legate all’indagine dell’inconscio. Inoltre mi ha molto incuriosito il momento storico, piuttosto complesso legato alla vita così particolare dei territori di confine, come Trieste. Molto spesso essi sono trascurati dalla “madre patria” ma sono ricchi di cultura e tradizioni assolutamente prestigiose. Infine ha contribuito a condurmi alla scelta di questo argomento anche l’inten-

zione di un orientamento futuro per le discipline mediche, che proprio nel periodo storico da me affrontato ebbero fiorente sviluppo e arricchendosi di nuove prospettive.


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’obiettivo della tesina è quello di mostrare come il periodo storico culturale analizzato abbia per prioritĂ il tentativo di trovare una grammatica comune per diverse discipline, in particolare per due ambiti apparentemente opposti come scienza e arte.

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ella trattazione della tesina ho affrontato varie discipline quali: letteratura italiana, austriaca e inglese; storia e filosofia; storia dell’arte; storia della scienza.


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1 La Mitteleuropa

Nella pagina accanto: cartina che mostra l’estensione della Mitteleuropa

Quando si dice Mitteleuropa anziché usare l’espressione meramente geografica Europa centrale, si intende un mosaico plurilingue e pluriculturale attraversato da elementi comuni sottostanti alle diversità nazionali. A creare questa civiltà parzialmente comune è stato certo in parte l’Impero absburgico, ma sono stati soprattutto due elementi sovranazionali: la lingua tedesca, parlata anche in tutti i Paesi non tedeschi di quel mondo, e la civiltà ebraica, presente in ognuno di essi. La Mitteleuropa è stata es-

senzialmente la simbiosi ebraico-tedesca, finita con lo sterminio di una delle sue componenti da parte dell’altra, con quella Shoah che è stata non solo una inaudita barbarie ma anche un suicidio della Germania e del suo ruolo centrale in Europa. La parola «Mitteleuropa» ha potuto indicare molte cose, anche opposte: ha potuto essere un programma nazionalista tedesco o addirittura un’Europa centrale unificata dal nazismo. Ha significato soprattutto il contrario, ovvero una cultura sovranazionale contrappo-

sta ai nazionalismi scatenati negli anni fra le due guerre mondiali, ai vari fascismi e in primo luogo al nazismo; un ideale umanistico, il senso di un’appartenenza a una cultura più ampia di ogni identità nazionale. È stata una metafora di resistenza: dapprima contro fascismo e nazismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale contro il dominio sovietico e, più sfumatamente ma sempre, contro uno stile di vita capitalistico-americano. Questa civiltà, che ha tenacemente resistito a Hitler e a Stalin, rischia per la prima


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volta di scomparire, travolta da uno scombinato anarcocapitalismo che imperversa in tanti suoi Paesi, accompagnato da violente regressioni nazionaliste e razziste che sono la più cupa e pacchiana negazione della Mitteleuropa. E invece oggi c’è bisogno più che mai di quel-

la civiltà mitteleuropea così sensibile al disagio, così diffidente nei confronti di tutti i sistemi politici e filosofici totalizzanti che pretendono di interpretare e guidare trionfalmente la marcia della Storia stessa. Ci sarebbe più che mai bisogno di quella cultura e di

quella umanità così esperte dell’ombra della vita, dei frammenti in cui la nostra esistenza spesso si disgrega, di ciò che resta al margine del corso arrogante del progresso, di ciò che manca al cuore e della forte ironia di cui il cuore ha così bisogno.


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toricamente e geograficamente con Mitteleuropa si intende perlopiù l’ampio e composito insieme di regioni sottomesse all’impero austro-ungarico, su cui regnò la dinastia degli Asburgo dal XIII secolo al 1918, quando, in seguito alla sconfitta subita nella prima guerra mondiale, l’impero si dissolse e fu ridotto alla sola Austria. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, il dominio asburgico contava grosso modo sull’Austria odierna parte della Boemia, la Moravia, l’Ungheria e le zone danubiane, la Galizia, Trieste

con Istria e la Dalmazia. Nell’impero asburgico, cattolico, tollerante, cosmopolita, coesistevano perciò popoli diversi, con proprie lingue e culture (tedeschi, cechi, slovacchi, boemi, ebrei, sloveni, croati). In questo intreccio multietnico si sviluppò, in particolare tra i due secoli, una suggestiva unità culturale e letteraria. Ma, oltre alla nozione di una Mitteleuropa austro-ungarica e sovranazionale, ne esiste un’altra parallela e contrastante, connessa ai continui progetti di espansione della Germania nell’Europa (il cosiddetto

“pangermanismo”). La vocazione “pangermanista”, cementata dalla lingua tedesca e dalla religione protestante, diverge, quindi, fortemente dal modello asburgico.


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«Mitteleuropa è una parola che assomiglia a un chewing-gum malleabile a piacere, dai significati ambivalenti e talora contraddittori, che si affidano più alla vaga suggestione che a una precisa definizione.» Claudio Magris (Corriere della Sera, 9 Aprile 2013)


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2 Il mito asburgico e Vienna Il primo critico italiano che ci ha accompagnato dagli anni sessanta in avanti alla scoperta della cultura Mitteleuropea, è il triestino Claudio Magris, cui si deve la formula “mito asburgico” per indicare l’idealizzazione, compiuta da molti letterati dell’ambiente austro-ungarico, come universo felice, di ordine e benessere, con la correlata malinconia per il suo tramonto. Magris esamina la formazione del “mito” in età teresiana (Maria Teresa d’Austria regnò con spirito illuminato e riformistico dal 1740 al 1780, associan-

dosi al trono dal 1765 il figlio Giuseppe II), e poi in epoca “Biedermeier”, cioè dalle guerre napoleoniche alle rivoluzioni europee del 1848 (“Biedermeier”, in tedesco, è il medio borghese, bonario e conformista, “il buon signor Meier”, figura umoristica creata intorno a metà secolo, e diventata luogo comune fino a designare anche uno stile di arredamento borghese). Lo scrittore austriaco Hermann Broch così si esprime: «… Fu grazie a questa incapacità di prendere sul serio alcunché, una incapacità elevata a poten-

za, che la frivolezza viennese acquistò quella nota peculiare che doveva distinguerla così radicalmente dal carattere di qualsiasi altra metropoli… La nota di una onnipresente e amabile leggerezza di spirito… In tutto ciò vi era anche molta saggezza…la saggezza di un’anima che presagisce la caduta e la accetta. Era una saggezza da operetta, però, è sotto l’ombra della caduta incombente essa divenne a poco a poco sempre più spettrale portando appunto alla gaia apocalisse di Vienna.» Viene coniato con la


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“gaia apocalisse” uno degli ossimori più felici e indicativi del clima culturale viennese, per quella singolare simbiosi creativa di tradizionalismo austriaco di ascendenza barocca e controriformista, di effervescenza intellettuale laica e di mistiche nostalgie ebraiche. La stessa diffusa irresponsabilità e incoscienza che si percepisce nell’estrema politica asburgica è paradossalmente l’esito di quella scelta obbligata per prolungare, con la sopravvivenza della dinastia, l’unica pace ancora possibile come è stato confermato quando alla scomparsa dell’impero si è innescata una spirale di violenza che non accenna ancora ad esaurirsi, provocando continue crisi.

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noltre è da sottolineare come Vienna sia palcoscenico di inconciliabili contraddizioni. La città è la culla del sionismo di Theodor Herzl e dell’antisemitismo virulento di Adolf Hitler, dell’ariosofia di Guido von List e dell’austromarxismo revisionista di Victor Adler e del neo corporativismo cattolico di monsignor Ignaz Seipel, nonché dell’estetica decadente e dello sperimentalismo dodecafonico. Infatti a Vienna si può assistere, con saggia leggerezza, alle prove generali di quella tragedia dello spirito europeo, che ancor oggi non accenna a esaurirsi. Lo scenario dove le aporie culturali e le potenzialità formali si distinguono con maggiore nitidezza è l’attività lettera-

ria, intensa, convulsa, multiforme che travolge come un fiume in piena i luoghi consacrati alla cultura, dando vita a una tempesta spirituale di continua esaltazione e di costante emergenza.

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l “mito” si fissa soprattutto durante il regno 1848-1916 dell’Imperatore Francesco Giuseppe, quando domina un clima di tolleranza e quiete. L’assetto sociale era complessivamente statico: la borghesia faticava a imporsi, oppressa dall’aristocrazia e dall’apparato burocratico. Al suo interno premevano forze destabilizzanti: i separatismi nazionali, l’antisemitismo, il socialismo in ascesa. Vigeva un decoroso rispetto civile e un apparente equilibrio, sino allo scoppio della Guerra Mondiale (innescato dall’attentato di sarajevo,1914). Alla visione “unitaria” dell’impero si contrappongono altre interpretazioni storiche. Lo storico francese J. Le Rider scrive: ”troppe violenze latenti, troppe sfaldature irriducibili si nascondono dietro la maschera sorridente del mito asburgico”. Infatti la convivenza di molte etnie si fondava solo sull’unità dinastica e l’equilibrio, pur duraturo, era minacciato da basi fragili e da latenti conflitti, in contraddizione con la linea nazionalistica dell’ “Europa dei Popoli” che si era andata affermando dal 1848. Vienna vive in quegli anni a cavallo tra i due secoli l’immenso problema dell’i-

nurbamento, che trasforma nel giro di pochi decenni una cittadina ancora provinciale, e assai omogenea agli altri centri urbani austriaci prevalentemente tedeschi, in una metropoli cosmopolita con massicce presenze di immigrati da ogni parte dell’impero, nonché dall’Europa orientale. Verso la fine dell’ottocento cresce soprattutto l’immigrazione degli ebrei orientali, mal visti dagli stessi ebrei viennesi ormai assimilati e del tutto germanizzati. L’autobiografia di Hitler, La mia vita, ricostruisce il processo di formazione di un esemplare antisemita a spasso per le strade di Vienna. E sono passeggiate che gettano una luce fosca sugli sviluppi della massima tragedia della nostra epoca, che sorge proprio accanto a quegli eleganti caffè, a quegli scintillanti salotti culturali, a quei teatri prestigiosi. Ma il fascino di una città è anche nella sua ombra e quella lanciata da Vienna è immensa. Un travaglio che di lì a qualche anno si trasforma in persecuzione e violenza.

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e principali capitali imperial-regie tra i due secoli furono Vienna, Budapest (ungherese) e Praga (boema), ciascuna con un’intensa vita intellettuale. Vienna celebra la sua belle epoque nel secondo ottocento con un monumentale riassetto urbanistico, influenzato dalla ristrutturazione della Parigi del Secondo impero: viene


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Vienna prima e dopo la realizzazione della Ringstrasse (sopra) La Ringstrasse di Vienna (nella pagina accanto)

creato il grandioso viale di circonvallazione del Ring inaugurato nel 1865, che vede riuniti stili diversi, dal neoclassico al neorinascimentale al neogotico. Dagli anni 70 vengono edificati imponenti complessi pubblici come il Parlamento, il Rathaus, sede del municipio, il Burgtheater, il teatro dell’opera, i due Musei delle Arti e di Storia Naturale il Neue Hofburg (nuovo palazzo imperiale) nel 1873 si inaugura l’Esposizione Universale, cinque volte più grande di quella parigina del 1867: intorno a una Rotonda dalla

cupola gigantesca si estende un edificio di 70.000 m², con un salone lungo quasi un chilometro, 28 gallerie e padiglioni che raccoglievano i più degni prodotti del secolo in ogni settore. In questa Vienna rinnovata e splendente ha un ruolo di spicco la musica. Si sviluppa quella di Anton Bruckner (18601911) che già preannuncia la disgregazione, poi più intensa nel boemo Gustav Mahler (1860-1911). Con Arnold Schönberg (1874-1951) nasce la dodecafonia (primi anni venti), tecnica compositiva rivolu-

zionaria che supera il modello precedente della musica tonale e della consonanza degli accordi. Ma la Vienna musicale vuol dire anche un tripudio trascinante di valzer e operette: soprattutto per mano di Johann Strauss padre e figlio: il padre, “autentico genio della musicalità popolare viennese” (R. Wagner)è ritenuto il creatore del valzer nella prima metà del secolo (di lui ricordiamo almeno la celebre marcia di Radetzky); il figlio è autore e autore del non meno noto “Sul bel Danubio blu”. Mentre all’ungherese Franz


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Lehar si deve la fortunata operetta “La vedova allegra” (1905). Grande fama conquistò anche il compositore tedesco Richard Strauss, che all’inizio del Novecento derivò opere di spirito raffinatamente romantico da drammi di H. von Hoffmansthal, come “Il cavaliere

della rosa”. Vienna vede fiorire anche i suoi tipici caffè, dall’atmosfera riservata e insieme ospitale, dove consumando la Sachertorte e la panna montata, si legge il giornale, si fa conversazione, si scrive, si gioca a carte e gli intellettuali discutono d’arte e di letteratura.

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vendo favorito per prima la nascita del modernismo, la Vienna di inizio novecento assunse rapidamente il ruolo di capitale culturale d’Europa, sotto certi aspetti simile a quello assunto da Costantinopoli nel medioevo e da Firenze nel quindi-


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Il Rathaus di Vienna (sopra) Il Parlamento di Vienna (nella pagina accanto)

cesimo secolo. Vienna era stata al centro dei territori della dinastia degli Asburgo a partire dal 1450 e aveva acquisito ulteriore importanza un secolo dopo, quando divenne la capitale del sacro romano impero, la nazione di lingua tedesca. L’impero comprendeva non solo gli stati germanofoni, ma anche la Boemia e il regno di Ungheria-Croazia. Nei trecento anni successivi questi territori disparati rimasero un mosaico di nazioni che non avevano un nome o una cultura unificanti. Erano tenuti insieme solo dall’es-

sere costantemente governati dagli Asburgo, eredi del Sacro Romano Impero. Allo zenit del suo potere, nel diciottesimo secolo, l’impero asburgico era secondo solo all’impero russo per le dimensioni dei suoi territori europei e aveva inoltre una lunga storia di stabilità amministrativa. Ma una serie di sconfitte militari nell’ultima metà del diciannovesimo secolo e di insurrezioni popolari minarono il potere politico dell’impero e gli Asburgo dovettero a malincuore rinunciare alle loro ambizioni geopolitiche,

andando incontro alle aspirazioni politiche e culturali dei sudditi. Nel 1848 la borghesia liberale austriaca si rafforzò e costrinse la monarchia assoluta, quasi feudale, rappresentata dall’imperatore Francesco Giuseppe, ad accettare una trasformazione in senso democratico. Le riforme ottenute erano basate su una visione dell’Austria governata da una monarchia progressista, costituzionale, modellata su quelle presenti in Inghilterra e in Francia e caratterizzata da una collaborazione tra


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borghesia illuminata e aristocrazia. Nei negoziati con l’imperatore, la borghesia aveva ottenuto di trasformare Vienna in una delle più belle città del mondo. Come dono di Natale ai Viennesi, Francesco Giuseppe ordinò la demolizione delle vecchie mura e delle fortificazioni

che circondavano la città per fare spazio a un grande boulevard, la Ringstrasse. Lungo entrambi i lati di questo viale dovevano sorgere magnifici edifici pubblici insieme ai palazzi dell’aristocrazia e a edifici da suddividere in lussuosi appartamenti per la classe

media più agiata. Le idee progressiste della borghesia e dell’imperatore ebbero un effetto notevole anche sulla comunità ebraica. Nel 1848 i servizi religiosi degli ebrei vennero legalizzati e le speciali tasse imposte alla comunità ebraica furono abolite.


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Sopra: Il Museo delle scienze naturali di Vienna

Durante questo breve periodo della storia austriaca, l’antisemitismo divenne socialmente inaccettabile. Infine, le restrizioni governative sugli spostamenti all’interno dell’impero asburgico vennero attenuate nel 1848 e abolite nel 1870. Questo evento aumentò anche la mobilità sociale e culturale di studiosi e scienziati. Vienna trasse vantaggio dall’afflusso di personaggi di altissimo livello provenienti da differenti ambiti religiosi, sociali, culturali, etnici e scolastici. Insieme alla modernizzazione dell’educa-

zione, questo afflusso fece sì che l’Università di Vienna si trasformasse in una grande università di ricerca. La scienza e la tecnologia che essa produsse crearono una vivace atmosfera interattiva che contribuì in maniera notevole alla successiva fioritura del Modernismo Viennese.

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ntorno al 1900 Vienna contava circa due milioni di abitanti, molti dei quali erano stati attirati in città dall’eccellenza intellettuale e dai progressi culturali. Molti di loro costituivano

un’avanguardia in una vasta gamma di movimenti modernisti. In ambito filosofico, il Circolo di Vienna (Rudolf Carnap, Ludwig Wittgenstein) introdusse il tentativo di codificare tutta la conoscenza in un singolo linguaggio standard della scienza. Il grande compositore Gustav Mahler preparò la transizione da Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert e Brahms, la prima Scuola musicale di Vienna, a una nuova generazione di compositori, la seconda scuola musicale di Vienna. Gli architetti Otto Wagner,


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Joseph Maria Olbrich e Adolf Loos reagirono ai pomposi edifici pubblici sulla Ringstrasse creando il limpido e funzionale stile architettonico che aprì la strada al Bauhaus degli anni Venti. In letteratura Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal diedero vita al gruppo Jung Wien, la Giovane Vienna, una moderna scuola del romanzo, del dramma e della poesia. Di importanza ancora maggiore è il fatto che una serie di scienziati – da Carl von Rokitansky a Freud – sviluppò una nuova dinamica visione della psiche umana che rivoluzionò il modo di considerare la mente dell’uomo. L’attività creativa nelle svariate arti, la storia dell’arte e la letteratura andavano di pari passo con i progressi nella scienza e nella medicina, mentre l’ottimismo di cui erano portatrici la scienze fisiche, mediche e biologiche riempiva il vuoto creato da un declino della spiritualità. In effetti, al volgere del secolo la vita viennese offriva nei salotti e nelle caffetterie numerose opportunità di d’incontro per scienziati, artisti e scrittori in un’atmosfera che al tempo stesso era fonte d’ispirazione, infondeva ottimismo e coinvolgeva dal punto di vista politico.Infatti, al contrario di quanto avveniva a inizio Novecento in altre grandi città come Londra, Berlino, Parigi e New York, dove le élite intellettuali vivevano ciascuna all’interno della propria comunità, letterati con lettera-

ti, scienziati con scienziati, a Vienna c’era una feconda mescolanza, che iniziava già da tempi della scuola, tra arte, letteratura e scienza. A favorire l’incontro era anche un elemento urbanistico, dal momento che Vienna aveva una sola università principale, che oltretutto era molto vicina all’ospedale generale. E lì attorno c’erano caffè nei quali si svolgeva un’intensa vita intellettuale, come il Cafe Griensteidl o il Cafe Central. Situazione ideale tanto che, come scrive Kandel, «i filosofi del Circolo di Vienna parlavano della possibilità di unificare dapprima le scienze e poi le arti e le scienze attraverso una grammatica comune». Il ruolo di Berta Zuckerkandl e del suo straordinario salotto, di cui si parlerà oltre non si esaurivano però nel fornire l’occasione di incontro agli intellettuali viennesi. Lei stessa era fortemente incuriosita dalla biologia, e al contempo aveva importanti competenze artistiche e letterarie, che la spingevano a giocare un ruolo attivo, sostenendo gli artisti e gli scrittori nei quali credeva. Klimt cominciò a vendere quadri proprio con il suo aiuto e un cognato di Berta acquistò la Pallade Atena e altri importanti lavori di quello che allora non era ancora il grande pittore dei quadri dorati e decoratissimi, famoso e riconosciuto a livello internazionale. Anche la sorella di Berta, Sofie, era amica di importanti artisti, come lo scultore Rodin.

Fu Emil Zuckerkandl a introdurre Klimt ai concetti dell’evoluzione darwiniana, e proprio grazie a questa nuova concezione il pittore iniziò la serie di ritratti di nudi femminili che appartengono a una sorta di visione naturalistica post darwiniana. Klimt dipinge corpi nudi come se fossero corpi di una qualsiasi specie biologica, non diversa da quella di un qualunque altro organismo, e quindi rappresentabile nella sua pura e semplice nudità. A quel tempo i biologi erano convinti che lo sviluppo dell’embrione umano seguisse lo stesso percorso dell’evoluzione che aveva portato l’uomo a progredire dagli stati primordiali della vita fino alla complessità attuale del suo organismo: il biologo tedesco Ernst Haeckel era convinto che gli embrioni umani possedessero branchie e coda, reminiscenza delle forme di vita acquatiche. I progressi nei campi della biologia, della medicina, della fisica, della chimica e nei confinanti settori dell’economia e della logica portavano con sé la convinzione che la scienza non fosse più una piccola e circoscritta provincia degli scienziati, ma fosse diventata parte integrante della cultura cittadina. Questo atteggiamento alimentò interazioni che avvicinarono fra loro gli studi umanistici e le scienze e che tuttora sono diventate un paradigma di come sia possibile instaurare un dialogo aperto tra i due ambiti disciplinari.


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Sopra e nella pagina accanto: Il Cafè Central di Vienna

e teorie di Freud, gli scritti di Schnitzler e i dipinti di Klimt, Schiele e Kokoschka avevano in comune la capacità di penetrare nella natura della vita istintuale dell’uomo. Nel periodo compreso tra il 1890 e il 1918 le intuizioni di questi cinque uomini a proposito dell’irrazionalità della vita quotidiana contribuirono a fare di Vienna il centro del pensiero e della cultura modernista. Una cultura in cui tuttora viviamo. Il Modernismo comparve nella metà del XX secolo come risposta non solo alle restrizio-

ni e alle ipocrisie della vita quotidiana, ma anche come reazione all’enfasi che l’Illuminismo aveva attribuito alla razionalità del comportamento umano. L’Illuminismo, o età della Ragione, era caratterizzato dall’idea che tutto va bene nel mondo perché le azioni dell’uomo sono governate dalla ragione. È attraverso la ragione che raggiungiamo l’illuminazione perché la nostra mente può esercitare il controllo sulle emozioni e sui sentimenti. La reazione modernista all’Illuminismo avvenne anche come conseguenza

della rivoluzione industriale, i cui frustranti effetti dimostrarono che la vita moderna non era diventata né matematicamente perfetta né certa, razionale o illuminata come i progressi del Settecento avevano fatto sperare. La verità non era sempre bella, e non sempre la si riconosceva facilmente; spesso era ancora nascosta alla vista. Inoltre, la mente umana non era governata solo dalla ragione, ma anche dalle emozioni irrazionali. Così come l’astronomia e la fisica avevano ispirato l’Illuminismo, la biologia ispirò il


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Modernismo. Nel 1859 il libro di Darwin L’origine delle specie introdusse l’idea che gli esseri umani non sono stati creati da un Dio onnipotente, ma sono creature biologiche evolutesi da antenati umani più semplici. Nei suoi ultimi lavori Darwin elaborò questi temi ed evi-

denziò che la funzione biologica primaria di ogni organismo è quella di riprodurre se stesso. Dal momento che ci siamo evoluti da animali più semplici, dobbiamo avere lo stesso comportamento dell’uomo. Questo nuovo punto di vista portò, nell’ar-

te, a un riesame della natura biologica dell’esistenza umana, come è evidente nel dipinto di Edouard Manet Colazione sull’erba del 1863, forse il primo quadro veramente modernista dal punto di vista sia tematico sia stilistico. Il dipinto di Manet, al tempo stesso bello e


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scioccante nella sua esecuzione, rivela un tema centrale dell’agenda modernista: la complessa relazione tra i due sessi e tra la fantasia e la realtà.

I Il Palazzo Epstein di Vienna (sopra) Il Burgtheater di Vienna (nella pagina accanto)

l Modernismo viennese ebbe tre principali caratteristiche. La prima era una visione della mente umana come ampiamente irrazionale per sua stessa natura. Rompendo con il passato, i modernisti contestarono l’idea che la società fosse basata su azioni razionali di esseri umani razionali. Essi sostenevano invece

che nelle azioni quotidiane di ciascuno fossero presenti conflitti inconsci. Portando tali conflitti in superficie, i modernisti sfidavano gli atteggiamenti e i valori convenzionali con nuovi modi di pensare di sentire e si chiedevano di cosa fosse costituita la realtà, cosa si nascondesse sotto le apparenze delle persone, degli oggetti e degli eventi. Di conseguenza, in un periodo in cui tutti desideravano ottenere un controllo sempre maggiore sul mondo esterno, sui mezzi di produzione e sulla diffusione delle

conoscenze, i modernisti si concentravano sull’interiorità e cercavano di capire l’irrazionalità della natura umana e come il comportamento irrazionale influisca sulle relazioni interpersonali. Scoprirono che sotto l’elegante vernice di civiltà, gli individui non solo ospitano sentimenti erotici inconsci, ma anche impulsi aggressivi altrettanto inconsci diretti sia contro se stessi sia contro gli altri. Più tardi Freud chiamerà pulsione di morte questi impulsi oscuri. La seconda caratteristica del Modernismo viennese fu


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l’autoanalisi. Nella loro ricerca delle leggi che governano la natura dell’individualità umana Freud, Schnitzler, Klimt, Kokoschka e Schiele furono determinati non solo nell’indagare gli altri, ma ancora di più se stessi, senza fermarsi alle apparenze esteriori ma esplorando la propria interiorità, le idiosincrasie dei loro pensieri e sentimenti più intimi. Come Freud studiava i suoi stessi sogni e insegnava agli psicoanalisti a considerare il controtransfert (i sentimenti e le risposte evocate nel terapeuta dal paziente), così Schnitzler e i pittori,

in particolare Kokoschka e Schiele, esplorarono coraggiosamente i loro stessi impulsi istintuali. Indagarono in profondità la propria psiche usando l’autoanalisi come mezzo per comprendere e descrivere sia le pulsioni istintuali degli atri, sia i sentimenti che provavano in risposta a esse. Questa pratica dell’autoanalisi è emblematica della Vienna di primi del Novecento. La terza caratteristica del Modernismo viennese fu il tentativo di integrare e unificare la conoscenza, uno sforzo indotto dalla scienza e ispirato dalla convinzione di Darwin

che gli esseri umani vadano compresi dal punto di vista biologico analogamente agli altri animali. La Vienna del periodo dischiuse nuove prospettive nella medicina, nell’arte, nell’architettura, nella critica artistica, nella progettazione, nella filosofia, nell’economa e nella musica. Aprì un dialogo tra le scienze biologiche e la psicologia, la letteratura, la musica e l’arte, e iniziò così un’integrazione della conoscenza che continua ancora ai nostri giorni.


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3 La medicina scientifica

Nella pagina accanto: il moderno edificio del dipartimento di medicina dell’Università di Vienna

La scuola di medicina di Vienna svolse un ruolo chiave nello sforzo di unificare le conoscenze che caratterizzavano la Vienna d’inizio Novecento; qui si formarono Freud e Schnitzler e fu questa Scuola a influenzare il pensiero di Klimt su arte e scienza. Inoltre si stabilirono criteri di medicina scientifica che sono tuttora attuali nella pratica medica. Ad esempio, nel collocare uno stetoscopio sulla superficie del corpo per indagarne l’interno, il medico dei nostri giorni segue un protocollo scientifico perfezionato un secolo

fa alla Scuola di medicina di Vienna. Il fondamento di questo moderno approccio alla medicina è guardare al di là dei sintomi superficiali per scoprire i processi della malattia che agiscono sotto il rivestimento cutaneo: da dove proviene questo moderno approccio? Innanzi tutto dalla Francia di fine Settecento. La Scuola di medicina di Parigi stabilì lo standard per la scienza medica di base e la pratica medica e rappresentò il modello a cui si ispirò la medicina europea tra il 1800 e il 1850. Stranamente, dati i brillati

inizi e la presenza di personaggi di spicco nella ricerca biologica, come Claude Bernard e Louis Pasteur, la clinica medica francese cominciò a declinare a partire dal 1840, forse a causa del conservatorismo politico della monarchia, sotto Luigi Filippo, e del Secondo Impero, sotto Napoleone III. Il sistema scolastico centralizzato divenne rigido, portando a un abbassamento della creatività e della qualità della scienza. L’esaurimento dello spirito pionieristico nella pratica medica e nell’insegnamento


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francesi ebbe presto come conseguenza il trasferimento di numerosi studenti stranieri da Parigi a Vienna e ad altre città di lingua tedesca, nelle quali si era creato un deciso movimento teso alla formazione di nuovi tipi di università orientate alla ricerca e di istituti di ricerca, oltre che

allo sviluppo di una medicina basata sul laboratorio. A Vienna, il praticantato clinico era considerato parte essenziale della preparazione accademica e doveva essere all’altezza degli standard di eccellenza universitari. Intorno al 1850 l’Università di Vienna era divenuta la più

nota e importante tra le università di lingua tedesca, e la sua Scuola di medicina era probabilmente la più illustre d’Europa, con cui rivaleggiava solo quella di Berlino. A Vienna i primi passi verso una medicina fondata su principi scientifici vennero compiuti un secolo prima,


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Sopra: un ritratto di Carl von Rokitansky e il collegio docenti dell’Università di medicina di Vienna, con al centro il suddetto

quando l’imperatrice Maria Teresa riorganizzò l’università. Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II stabilirono come obiettivo una medicina di elevato livello, in quanto ritenevano che lo studio della medicina e l’assistenza sanitaria fossero essenziali per il benessere dello stato. L’imperatrice cercò in tutta Europa un medico prestigioso in grado di attuare questo progetto e nel 1745 affidò al grande medico olandese Gerard van Swieten il compito di formare quella che ora è conosciuta come la Prima Scuola di medicina viennese

dall’esercizio di terapie approssimative basate sulla filosofia umanistica e sugli insegnamenti d’Ippocrate e di Galeno in una pratica basata sulla scienza naturalistica. Nel 1783 l’imperatore Giuseppe II commissionò il progetto di un complesso medico onnicompresivo e nel 1784 il successore di van Swieten, Andreas Joseph von Stifft, aprì il Wiener Allgemeines Krankenhaus, il grande Ospedale generale di Vienna. Gli ospedali di minori dimensioni sorti intorno alla città vennero chiusi e tutte le strutture mediche furono

centralizzate in questo vasto complesso costituito dall’edificio dell’ospedale principale, da un’ala per la maternità, da un ospedale pediatrico, da un’infermeria e da un ospedale per le malattie mentali. L’Ospedale generale di Vienna era la più vasta istituzione medica d’Europa e aspirava a essere il centro della moderna medicina scientifica. La Scuola di medicina divenne quella che il berlinese Rudolf Virchow, padre della patologia cellulare, chiamò la “Mecca della medicina”. Nel 1884 Carl von Rokitansky succedette a Stifft quale di-


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rettore della Scuola di medicina, introducendo il Modernismo in biologia e medicina. Ispirandosi alla convinzione di Darwin secondo la quale gli esseri umani devono essere compresi dal punto di vista biologico alla stessa stregua degli altri animali, nei trent’anni che seguirono egli inserì la pratica medica nella Scuola, che riorganizzò su una nuova base scientifica trasformandola nella Seconda Scuola di medicina di Vienna e facendole acquistare rinomanza internazionale.

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orrelando sistematicamente le osservazioni cliniche con i riscontri patologici Rokitansky diede alla medicina un fondamento scientifico. A Parigi ogni clinico era il patologo di se stesso. Di conseguenza, i medici eseguivano un numero troppo limitato di indagini patologiche per poter sviluppare un’adeguata esperienza diagnostica. Rokitansky suddivise la medicina clinica e la patologia in due distinti dipartimenti. Ogni paziente veniva visitato da un medico e in caso di morte da un patologo e i due specialisti mettevano a confronto le loro scoperte. Nel corso di una carriera trentennale Rokitansky e i suoi assistenti eseguirono circ sessantamila autopsie dalle quali acquisirono un immenso bagaglio di conoscenze. Inoltre all’Ospedale generale di Vienna lavorava un grande medico diagnosta, Joseph Skoda, allievo e collega di Rokitansky. I due collaboravano regolar-

mente creando una connessione tra le due specialità. In questo modo, la Scuola di medicina riuscì a correlare le intuizioni sulla malattia formulate al capezzale del paziente con quelle elaborate nel corso dell’autopsia e a utilizzare queste informazioni per sviluppare un metodo razionale e obiettivo per comprendere la malattia e arrivare così a una diagnosi accurata. Il processo diede origine a una nuova comprensione della correlazione tra clinica e patologia che da allora ha caratterizzato la medicina moderna. I progressi ottenuti alla Scuola di medicina attirarono un gran numero di studenti stranieri. In particolare, a Vienna si riversarono gli studenti americani, sia per la crescente reputazione di eccellenza, sia per la disponibilità di corpi su cui eseguire le autopsie, dato che negli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, il livello della preparazione didattica e pratica era alquanto modesto. Rokitansky pose l’anatomia patologica al centro della medicina non solo a Vienna ma in tutto il mondo occidentale. L’idea che la comprensione della biologia della malattia dovesse precedere il trattamento dei pazienti era destinata a diventare il perno della moderna medicina scientifica. Rokitansky, avendo sviluppato sistematicamente la correlazione tra clinica e patologia , era andato applicando alla medicina la seguente intuizione del filosofo greco Anassagora

(V secolo a.C.): “I fenomeni sono l’espressione visibile di ciò che è nascosto”. Rokitansky riteneva che, per scoprire la verità, si dovesse guardare al di sotto della superficie delle cose. Questa idea si estese ala neurologia, alla psichiatria, alla psicoanalisi e alla letteratura, influenzando anche Sigmund Freud e Arthur Schnitzler. Di particolare interesse nel contesto dello sviluppo del modernismo viennese è il fatto che l’influenza di Rokitansky si esercitò, attraverso il collega anatomista Emil Zuckerkandl, anche su Klimt e sugli espressionisti viennesi.


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4 Il salotto di Berta Zuckerkandl

Nella pagina accanto: un ritratto di Berta Zuckerkandl

Come è accaduto che l’approccio scientifico di Rokitansky uscisse dalla Scuola di medicina e influenzasse gli artisti modernisti viennesi? I viennesi si incontravano anche in salotti dinamici e aperti; in questi luoghi, potevano confrontare idee e opinioni e potevano mescolarsi con le elite professionali e degli affari. I salotti erano riunioni che si tenevano regolarmente in case private e molti di essi erano organizzati da donne ebree, le quali avevano trasformato le loro abitazioni

in istituzioni culturali nonché sociali e religiose. Un salotto viennese particolarmente importante per la sua capacità di riunire scrittori artisti e scienziati era quello di Berta Zuckerkandl, scrittrice di talento e influente critica d’arte per la Wiener Allgemeine Zeitung, nonché co-fondatrice del festival musicale di Salisburgo. Studiosa di biologia e dell’evoluzione darwiniana, Berta aveva sposato l’anatomista Emil Zuckerkandl, un collega di Rokitansky. Berta conosceva chiunque contasse a Vienna: “Sul mio

divano l’Austria si anima”, scriveva. Freud faceva parte della sua cerchia. Il re del valzer Johann Strauss figlio la definiva “la donna più meravigliosa e spiritosa di Vienna”. Arthur Schnitzler era suo amico e ne frequentava spesso il salotto. Klimt era un ospite frequente, così come lo erano diversi medici biologi e chirurghi. Nel 1901 il padre di Berta, Moritz Szeps, che era un amante della scienza fondò la prima rivista di divulgazione scientifica, Das Wissen für Alle (il sapere per tutti). Si diceva che Berta avesse


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ereditato dal padre non solo la curiosità intellettuale e la padronanza sociale, ma anche tutti quei contatti che ben poche persone avrebbero potuto mettere insieme in giovane età. Il suo salotto rimase aperto dall’anno del suo matrimonio, nel 1886, fino alla fuga da Vienna,

per trasferirsi in Francia, nel 1938. Ella difese tenacemente l’arte di Klimt nella sua rubrica “Arte e cultura” e fu nel suo salotto che un gruppo di artisti guidati da Klimt dibatté per la prima volta l’idea della Secessione viennese, una rottura radicale, modernista con il più tradizionale Kün-

stlerhaus (casa degli artisti), che in quel momento andava per la maggiore. Berta e la sua famiglia promossero attivamente la vendita dei dipinti di Klimt. Inoltre, sostenendo singoli artisti, Berta contribuì a finanziare la costruzione dell’edificio della Secessione viennese.


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5 Klimt Gustav Klimt (Vienna, 14 luglio 1862 – Neubau, 6 febbraio 1918)

«… Grazie a una goccia di sangue, a un minuscolo pezzo di materia cerebrale sarete trasportati in un mondo favoloso…» Emil Zuckerkandl

Emil Zuckerkandl invitò Klimt ad assistere alle sue dissezioni di cadaveri e fu grazie a queste osservazioni che il pittore ottenne quella conoscenza del corpo umano che avrebbe ripetutamente rappresentato nel suo lavoro. Ispirato da quanto gli aveva trasmesso il valente scienziato, Klimt fece in modo che il professore impartisse una serie di lezioni di biologia e anatomia a un gruppo di artisti, scrittori e musicisti. Pertanto Zuckerkandl introdusse Klimt all’embriologia e all’evoluzione darwiniana e in effetti, temi provenienti da

entrambi i campi della biologia appaiono ripetutamente nell’ornamento che fa da sfondo ai suoi dipinti. In una delle opere più controverse di Klimt, Speranza I, egli ha dipinto il corpo nudo di una donna nello stadio finale della gravidanza, mettendo in evidenza i suoi peli pubici di un rosso brillante. Proprio come Freud, darwinista convinto ci chiede di tener conto del fatto che le pulsioni sessuali, immensamente potenti e primitive, si sono conservate nel corso dell’evoluzione, così Klimt chiede all’osservatore del di-

pinto Speranza I di guardare il processo della riproduzione e dello sviluppo umano sotto una luce naturalistica, rivoluzionaria. Allo stesso modo il pittore introduce simboli biologici nel dipinto Danae. Nel quadro l’artista trasforma la pioggia di gocce dorate, che simboleggia lo sperma di Zeus in minuscoli embrioni iniziali che simboleggiano il concepimento. A proposito, la storica della medicina Tatjana Buklijas scrive: «Berta riteneva che lo schema cromatico di Klimt avesse attinto al ricco repertorio della natura.


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In realtà uno sguardo più attento al lavoro di Klimt negli anni immediatamente successivi al 1903 rivela un’abbondanza di forme che ricordano le cellule epiteliali con i “nuclei” scuri immersi in un “citoplasma” biancastro». Ed è precisamente questo aspetto dell’arte di Klimt a

Sotto: Speranza I, olio su tela, 189.2 × 67 cm (1903) A lato: Danae, olio su tela, 77 × 83 cm (1907-1908)

rivelare quale profonda influenza abbia avuto la biologia su di lui. L’uso di simboli biologici da parte dell’artista per far risaltare la verità nascosta sotto la superficie, è paragonabile a quanto si ritrova nelle opere di Freud, Schnitzler, Kokoschka e Schiele.


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6 Freud Sigismund Schlomo Freud detto Sigmund (P�íbor, 6 maggio 1856 – Londra, 23 settembre 1939

«Egli, curvo sul suo microscopio, scopre i bacilli dell’anima. E scopre l’anima. Ma è uno scienziato del diciannovesimo secolo e crede che l’enigma dell’anima si risolva vedendone i soli bacilli. È uno scienziato, rifiuta di essere considerato un filosofo ma dalla sua opera nata in quel clima, deriva implicita una filosofia, una visione di vita, un programma, un ideale umano: dell’Uomo dall’Anima pasteurizzata, il quale, in un mondo senza più simboli, e in virtù della sua sessualità normalizzata, ha libera la libido necessaria per fare finalmente carriera» Bobi Bazlen (triestino, grande rabdomante di talenti letterari; amico di Svevo e Montale)

Le complesse relazioni di parentela dovettero porre non pochi problemi al piccolo Sigmund e la sollecitazione che la sua curiosità infantile ne ricevette non dovette essere senza effetto sul futuro scopritore del complesso di Edipo. Il padre, Jakob Freud, era molto attaccato alla tradizione ebraica per il rispetto verso gli studi e per il desiderio che il proprio figlio raggiungesse un livello di formazione culturale più elevato del suo. Tutta una serie di ricordi infantili rivela l’importanza della figura del padre ammirata

e temuta. La sua morte, avvenuta quando Freud aveva ormai quarant’anni, provocò in lui un grave sconvolgimento e impresse una svolta fondamentale alla sua ricerca. Nell’ambito della cultura occidentale, Freud ha scoperto una nuova dimensione dell’uomo e tutte le riserve che si possono fare sulla sua opera, non intaccano la sostanzialità definitiva di questa sua grande scoperta. Freud è uno scienziato del diciannovesimo secolo, egli scava in profondità, esamina in profondità, scopre in profondità.


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Freud stesso si lamentava della propria città: «La città di Vienna ha fatto di tutto per rinnegare il proprio contributo alla nascita della psicoanalisi». (Sigmund Freud “Psicoanalisi”, Torino 1963) La sordità dell’ambiente medico, l’antisemitismo particolarmente virulento in Austria,

Sotto, da sinistra verso destra: Psicopatologia della vita quotidiana (1901) L’interpretazione dei sogni (1898)

erano elementi di questa resistenza. Ma, se Freud poteva confessare di aver spesso preso il suo bene nella letteratura e se la sua qualità di scrittore consapevole veniva riconosciuta da giudici obiettivi come Einstein, la letteratura viennese era a sua volta interessata alle

sue ricerche scientifiche. Fin dal 1905-6, Freud stesso dirà che scrittori, artisti, intellettuali viennesi sono stati attratti dalla nuova teoria e che frequentano il primo cenacolo intoro a lui. Pare che il primo a riconoscere la grandezza di Freud sia stato il direttore del Tea-


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A fianco: Un celebre disegno che raffigura l’ossessione di Freud per la sessualità

tro Imperiale di Vienna, Alfred Von Berger. Tra il 1904 e il 1906 si può pensare che qualche personalità, certamente ebraica, formatasi in quel clima post – nietzschieano che oscillava ormai tra un naturalismo già affermato e il gusto impressionistico dominante a Vienna, si sia avvicinata alla psicoanalisi e ne abbia dato echi nelle sue opere. Nel 1907 Jung e Bleuler si uniscono a Freud e Zurigo diventa uno dei centri più attivi della psicoanalisi e dati il cosmopolitismo e il liberismo culturale della città svizzera,

Vienna viene quasi offuscata nell’opera di diffusione. Nel 1910 il musicista Mahler è curato da Freud con successo, per una crisi di impotenza; Herman Hesse si fa curare per una grave depressione ed egli esprimerà questa crisi in Demian (1919), un’opera nettamente influenzata dalla psicoanalisi, prima del suo incontro con l’Oriente. Dopo un primo freudismo viennese, più intimistico, nasce una seconda ondata che si può forse far entrare nella più vasta corrente rivoluzionaria dell’espressionismo, che va

dagli anni immediatamente precedenti alla guerra fino al nazismo. La sconfitta, il pessimismo dell’epoca di Weimar, i sogni di evasione trovano così elementi anche nelle teorie psicoanalitiche. La teoria freudiana differiva dalla visione di Schnitzler e degli artisti – come anche da quella di Nietzsche– in quanto trattava la mente come un dominio della scienza empirica e non come una piattaforma per speculazioni filosofiche. La teoria della mente di Freud si distingue quale primo tentativo di sviluppare


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quella che più tardi sarebbe stata chiamata psicologia cognitiva, un tentativo di descrivere la complessità del pensiero e dei sentimenti umani in termini di una sistematica rappresentazione, interna alla mente, del mondo esterno. Alla fine, basandola in parte sulla sua teoria co-

gnitiva della mente, Freud mise a punto una terapia che aveva lo scopo di alleviare la sofferenza della persona. Egli sottolineò che la maggior parte della vita mentale è inconscia. Diventa conscia solo sotto forma di parole e immagini. Ed è proprio quello che fecero Schnitzler, Klimt,

Kokoschka e Schiele con i loro scritti e i loro quadri. In conclusione, Freud portò con la sua opera anche nel lavoro degli artisti a lui contemporanei, quella curiosità scientifica nei confronti della mente e delle emozioni che era caratteristica della Vienna agli inizi del Novecento.

«Spirito sommamente indipendente, uomo e cavaliere, triste e severo in volto come Nietzsche diceva di Schopenhauer, pensatore ed esploratore che seppe star solo anche se poi trasse molti a sé e con sé, Freud è andato per il proprio cammino penetrando verità, che intanto parevano pericolose in quanto rivelavano cose che erano state tenute ansiosamente celate e gettavano luce in plaghe oscure. Per ogni dove egli ha messo a nudo problemi nuovi ed ha mutato gli antichi criteri: con le sue indagini e le sue scoperte ha enormemente ampliato l’ambito della ricerca psichica, costringendo i suoi stessi avversari a essergli debitore dello stimolo creativo che da lui avevano tratto» Cesare Musatti (fondatore della psicoanalisi italiana)

«La sorte storica della psicoanalisi nel nostro secolo è forse racchiusa in due battute memorabili. La prima è del fondatore stesso della psicoanalisi, nell’atto di mettere piede sul suolo degli Stati Uniti d’ America, nel 1909. Rivolgendosi ai suoi accompagnatori, Ferenczi e Jung, pare che Freud esclamasse: «Non sanno che stiamo portando loro la peste». La seconda battuta di un decennio posteriore e certo più velenosa è contenuta in una raccolta di aforismi di quel singolarissimo scrittore, contemporaneo e concittadino di Freud, che fu Karl Kraus. Eccola: «La psicoanalisi è quella malattia mentale di cui intende essere la terapia». […] La psicoanalisi è effettivamente risultata la peste della cultura occidentale: non vi è forse zona di essa che non ne sia stata in varia misura contagiata. Prima di tutto l’ambito mal certo delle cosiddette nevrosi e psicosi […] Ma essa ha ampiamente debordato tale ambito, invadendo a fondo terreni come quelli della filosofia, dell’arte e della letteratura. […]» Elvio Fachinelli (psichiatra e psicoanalista, divulgatore dell’opera di Freud in Italia)


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7 Schnitzler Arthur Schnitzler (Vienna, 15 maggio 1862 – Vienna, 21 ottobre 1931)

Un pessimismo radicale, pervade l’opera di un grande protagonista della letteratura austriaca fin de siècle, Arthur Schnitzler (1862-1931). Per Schnitzler l’orizzonte si allarga a visioni intensamente originali. Schnitzler nei momenti di maggiore intensità artistica sa cogliere il limite stesso del linguaggio, avverte, con autentica sincerità, la crisi di sgomento semantica della modernità. Nel tardo racconto Doppio sogno del 1926, che è una delle sue prose più fantasmagoriche e inquietanti, dove affiora la sensazione

perturbante, che avvolge tanta letteratura tedesca da Hoffmansthal a Bernhard, la città si dipana a metafora angosciante e, insieme, salvifica dell’anima. Nella folle peripezia in una Vienna onirica eppure reale, sinistra e allo stesso tempo rasserenante, il protagonista del racconto, allo stremo delle sue difese, s’interroga smarrito e finalmente consapevole di un’altra realtà esperenziale. Gli squilibri della coscienza sono il motivo di questa estrema produzione schnitzleriana, diretta verso le oscure regioni della

follia e della schizofrenia. Il Dottor Schnitzler, laureato in medicina, è un seguace del positivismo scientifico: secondo lui, infatti, si deve sempre partire dalla concezione scientifica del mondo e dal suo quartier generale del neorinascimentale ateneo sulla Ringstrasse. La stessa oscillazione di Schnitzler tra ricerca, mentalità scientifica e creazione artistica segna quell’atmosfera feconda di intersezioni, contaminazioni e trasgressioni in un clima generale di raffinata cultura umanistica che fa sì che Freud sia uno


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dei più eleganti maestri di stile saggistico. L’iniziazione a questo peculiare contagio intellettuale avviene nei luoghi nuovi della quotidianità, nei celebri caffè, sempre affettuosamente rievocati. Schnitzler raggiunge relativamente tardi la sua maturità

Sotto, da sinistra verso destra: Doppio sogno (1926) Eyes Wide Shut, trasposizione cinematografica moderna dell’opera; regia di Stanley Kubrick (1999)

artistica negli anni novanta, con il successo di Anatol, pubblicato nel 1892. Nel 1895 viene rappresentato l’altro suo capolavoro, Amoretto. Entrambi questi drammi sono incentrati sulla metafora libertina, sul malinconico e disperato “carpe diem” erotico quale elemen-

to raffigurativo del nichilismo decadentistico. Un accorato sentimento di pessimistica critica sociale insieme con un’ acuta introspezione psichica costituiscono le componenti narrative del Sottotenente Gustl, del 1900. In questo racconto l’autore utilizza, quasi per


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«C’è inoltre un romanzo di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, che vorrei fare ma su cui non ho ancora cominciato a lavorare [...] Esplora l’ambivalenza sessuale di un matrimonio felice e cerca di equiparare l’importanza dei sogni e degli ipotetici rapporti sessuali con la realtà» Stanley Kubrick (New York, 26 luglio 1928 – Harpenden, 7 marzo 1999) è considerato tra i maggiori cineasti della storia del cinema

primo, la tecnica del monologo interiore. Con eccezionale abilità lo scrittore viennese raffigura tutta la vacuità psichica e l’inconsistenza morale di un tenetino dell’esercito imperialregio. Attraverso l’impietosa ricostruzione del suo flusso di coscienza Schnitzler, presentandoci un uomo rozzo, ottuso e borioso, si scontra con uno dei tabù più rispettati della società austriaca: quello della figura dell’ufficiale asburgico circonfusa di prestigio. L’autore vuol raffigurare lo sfacelo interiore, rappresentato in un convin-

cente caso esemplare colto dalla realtà della Vienna del suo tempo. Ma proprio ciò scatena lo scandalo con l’accusa di voler infangare l’onore dell’esercito asburgico. Girotondo è, invece, il lavoro di teatro che più ha provocato le indignate reazioni dei moralisti e dei conformisti, accusandolo di oscenità e di attentato alla decenza dei costumi, diffamandolo in quanto intellettuale ebreo, corruttore delle coscienze. Si vede ancora una volta l’idea della fondamentale pericolosità degli israeli-

ti, considerati profanatori, degenerati e lascivi, delle virtù cristiano-germaniche di un’età remota e gloriosa e avversari irriducibili dello Stato asburgico, ultimo baluardo della cattolicità. L’eros per Schnitzler è la lontana manifestazione di un senso della vita, ormai disarticolato e svincolato dall’affettuosità come pure dalla solidarietà sociale e religiosa. Nella messa in scena di Girotondo viene alla luce non tanto una catena di episodi pornografici, bensì la nausea, sotterranea, angosciosa, per il sesso come consumo che rimanda


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a una condanna della società dell’epoca. Nello stesso tempo il dramma propone l’analisi spietata della natura nichilista della società contemporanea ben al di là di ogni ottusa denuncia moralistica. In quanto scienziato e scrutatore dei procedimenti inconsci della psiche, lo scrittore si distanzia da un ipocrita atteggiamento di superficiale moralismo per addentrarsi nelle falde meno illuminate delle motivazioni dell’agire umano. Come scienziato Schnitzler prende le distanze dal conformismo accademico, mentre da protagonista dell’attività artistica viennese, egli condivide le contraddizioni del suo tempo: nella tristezza e perfino nello squallore delle atmosfere realisticamente evocate dai rapidi incontri, dalle povere e dolci ragazze di periferia, le süsse Mädel, sartine, modiste e crestaie, sedotte e abbandonate dai vacui ufficialetti, che si aggirano nei drammi e nei racconti schnitzleriani. Nel sottofondo si percepisce un forte temperamento morale, mescolato con un disperato sentimento sulla nullità dell’esistenza in un’epoca di crisi. Lo scrittore non teorizza una nuova morale, in ultima istanza ciò in cui ancora crede è la scrittura, la capacità dell’arte di raffigurare situazioni e combinazioni, di dare forma a realtà di immagini e di pulsioni che gli viene suggerito dal grande mondo della capitale. L’universo poetico dell’artista si configura

in questa coinvolgente indeterminatezza che, restando vaga, lascia aperta la possibilità a nuove intuizioni, a una struggente tensione epica che colora di malinconia la rappresentazione. Il racconto sorge con la leggerezza di un’aurora dal paesaggio interiore dell’anima, per Schnitzler sempre minacciato da un’incombente catastrofe che si presagisce già prima che definisca i suoi contorni. Pur attento alle contraddizioni sociali e alla dissoluzione dei valori civili e morali, Schnitzler non è uno scrittore di temi sociali quanto piuttosto uno straordinario scrittore di anime. Anche lui è medico formatosi con i maestri di Freud, con il quale non ha tuttavia che sporadici contatti personali. Nella lettera di auguri del 14 maggio 1922 per i sessant’anni dell’autore, Freud analizza i motivi di quella loro singolare distanza, provocata per lo scopritore della psicoanalisi “da una specie di timore del sosia”. Schnitzler invece indirizza a Freud questo pensiero: “Credo, anzi, che nel fondo del Suo essere Lei sia un ricercatore della psicologia del profondo, così onestamente impavido e imparziale come non ve ne sono stati mai”. La straordinaria capacità di Schnitzler di esplorare i recessi della psiche, pur conservando un vivo senso della letteratura nel solco della tradizione ironica occidentale gli fu confermata dallo stesso Freud. Nelle sue opere una tensione e un’aspettativa catturano l’attenzione

del lettore e dello spettatore in un crescendo continuo che preannuncia uno svolgimento tragico: è il caso emblematico del suicidio della Signorina Else. Il rigoroso uso del monologo interiore conferisce al racconto uno specifico rilievo all’interno del rinnovamento della narrativa tedesca. All’interno della cultura viennese Schnitzler resta un fedele, distaccato e insieme appassionato, testimone del mondo di ieri, descritto nel suo crollo, studiato e raffigurato con un’intelligenza e una partecipazione morbosa che conferisce un pathos toccante alle sue storie. Per Schnitzler come per gli altri artisti e intellettuali austriaci, il presagio della fine della civiltà austrica si intreccia con una struggente cultura musicale e con una visionaria intuizione del crollo interiore dell’occidente. Questa atmosfera crepuscolare si mostra oltremodo propizia alla creazione artistica. L’egemonia dell’arte è in realtà un esito del pensiero moderno. La stessa volontà sperimentale, che si consuma nella rottura con la tradizione, ribadisce il legame profondo con la modernità. Eppure il richiamo della tradizione è il salto mortale di questa cultura che attraversa il moderno, lo conosce, ne intuisce e presagisce la crisi e approda a un paradosso: quello dell’utopia regressiva. I sentimenti di malinconia e di desolazione che trapelano dal vuoto morale di tanti ufficialetti, aristocratici e giovin


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signori, incapaci di assumere le semplici regole dell’esistenza, segnalano per Schnitzler l’indigenza spirituale di un’epoca, che sfugge la responsabilità, che non ama più la responsabilità, che non sa più essere fiera del fardello che la vita impone all’uomo e allo Stato. L’impero ha perso se stesso, così come i suoi sudditi hanno smarrito il senso del decoro. La perdita dell’etica corrisponde al tramonto di un mondo, dunque, reso struggente dalla memoria artistica

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«Schnitzler è il tipico scrittore che fonde compassione e nichilismo in una visione desolata, in una cartella clinica della condizione umana in cui anche la storia e la politica appaiono maschere illusorie degli istinti e del destino. [...] Sebbene capace di questa visione unitaria dell’uomo, Schnitzler s’ispira a un desolato pessimismo. La vita gli appare un gioco di forze irrazionali e una giostra d’inganni senza senso; vivere significa tradire. L’insistito tema dell’adulterio, della delusione o della crudele umiliazione amorosa è il simbolo del suo “scettico determinismo”, come diceva Freud, che lo spinge a vedere nella forza vitale un cieco desiderio di sopraffazione.» Nella pagina accanto: disegno ritraente l’autore viennese

Claudio Magris (1939 – vivente) scrittore e germanista italiano


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8 Trieste

«Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore…» da “Trieste” di Umberto Saba

Nella pagina accanto: veduta del porto di Trieste

Trieste è la città più nuova e imprevista nel panorama delle piccole capitali intellettuali italiane del primo novecento. È una città di frontiera caratterizzata da una classe dirigente e ceto intellettuale scisso tra due lingue, culture e nazionalità profondamente diverse tra di loro. Dal 700 in poi al ceppo originario si aggiunge una massiccia migrazione mercantile e burocratica dall’area germanica, slovena e ungherese dell’impero asburgico. Tale caratteristica costituisce la ricchezza di questa città ma anche una sorgente

di insicurezza e di infelicità: produce, infatti, quasi un sentimento di non appartenenza, di dissociazione. Già da fine 800 gli intellettuali triestini, senza radici sulla terra, senza memoria né storia nelle campagne – infatti tutto è urbanizzato e votato ai traffici - denunciano il disagio della civiltà da esorcizzare in varie forme (ironia, mitografia lirica). Per reagire a questa scontrosità la città offre esempi soltanto ipotetici: infatti, non è possibile alcun ritorno perché le radici di tutti gli intellettuali affondano in luoghi

lontani. Per i triestini (a differenza dei veristi) non c’è luogo in cui cercare autentiche storie “naturali” da opporre all’artificio urbano. Trieste è in realtà una micro metropoli europea, una piccola città artificiale, con tutto il fascino e il dolore che questa condizione comporta, dovunque si viva senza radici nell’ambiente e nella storia: gli intellettuali Triestini mostrano, non appena nascono come gruppo, tutti i turbamenti della non appartenenza. Trieste pertanto diventa e rimane l’elettiva “città della psicoanalisi” in


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cui si ricerca un’unità simbolica tra vita soggettiva e vita naturale. Nel 1909 Scipio Slataper, tedesco di formazione, scrive sulla “Voce di Firenze”: «Trieste non ha tradizioni di cultura». Infatti, in quegli anni a Trieste esiste una cul-

tura epigonale, fatta di tradizionj erudite, intrecciate a passioni nazionali. Si tratta di una cultura di storia patria delle memorie locali e degli archivi municipali propri delle cittadine giuliane e istriane. È una erudizione particolaristica, contraria a quella universalizzante di

Slataper; la cultura triestina costituisce dunque una frangia periferica del sapere tradizionale europeo che andava irrigidendosi e morendo in Europa. È costruita sulle orme di Nietzsche, sulla rivolta della vita contro la cultura. La triestinità esiste solo nella letteratura, la sua unica


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Nella pagina accanto: il Castello di Miramare

vera patria; Trieste, forse più di altre città, è letteratura: Svevo, Saba, Slataper sono scrittori che hanno generato la letteratura e Trieste stessa e che le danno un volto. La città giuliana è crogiuolo e crocevia di culture: è stata amalgama di gruppi etnici e culturali diversi (italiani, tedeschi, sloveni, slavi, greci, armeni ed ebrei) e un arcipelago in cui questi gruppi restavano isolati e chiusi gli uni agli altri. Il tessuto fondamentale era italiano unito alla comunità ebraica: i due bacini dove si fondevano le due culture,

mai due gruppi vivevano anche in reciproca e diffidente ignoranza. Ciascuno guardava alla patria lontana: gli italiani come gli irredentisti, guardavano all’Italia; tedeschi e austriaci, all’impero austro-ungarico; gli sloveni, al risveglio della loro terra. La città nuova di Trieste si sviluppa con la nascita dell’Austria moderna che ha per protagonista l’imperatrice Maria Teresa, in quanto il vecchio patriziato cittadino non ha avuto né i capitali, né l’intraprendenza per im-

primere una svolta alla vita della cittadina. La città diventa sbocco sul mare per eccellenza dell’impero e porto commerciale; l’istituzione del porto franco (1719) pone le premesse per il passaggio da un’economia pigra e sonnolenta ad una condizione di dinamismo economico e sociale. Questa trasformazione è merito soprattutto dei vertici statali austriaci, Trieste è negli ultimi due secoli nodo centrale dei traffici commerciali, grazie al ruolo essenziale dell’Austria. Nascono così, con l’arrivo di


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stranieri richiamati dal lavoro, la realtà e insieme il mito della città cosmopolita. L’aspetto burocratico ha un ruolo primario centralistico, com’è proprio della posizione asburgica della Vienna imperiale, anche se non riuscirà mai ad alterare, in senso tedesco, la fisiono-

mia della città. La genesi della coscienza nazionale è però lenta e contraddittoria. La nascita della Trieste moderna rappresenta il fattore storico he dà una dimensione dinamica ed espansiva alla precedente e chiusa italianità triestina. Sino alla metà dell’Ottocento non si

può parlare di una vera assimilazione dei vari gruppi, perché non è ancora sorta una coscienza nazionale ed è troppo fragile la stessa coscienza culturale; ma le due possono essere base del processo di assimilazione nel tessuto italiano. Un ruolo importante lo svol-


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I due caffè storici di Trieste: il caffè Tommaseo (sopra, l’insegna) e il caffè San Marco (nella pagina accanto)

ge la lingua italiana e in particolare il dialetto triestino, ma l’integrazione è resa faticosa anche dal fatto che non vi siano un’unica lingua e un’unica religione. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, la città si dà una fisionomia nazionale precisa con una maggioranza italiana e una minoranza slovena e con una borghesia moderna alla cui formazione contribuiscono soprattutto gli immigrati ebrei. Diventa centro mercantile di grade importanza: basti citare la nascita delle Assicurazioni Generali e

della Riunione Adriatica di Sicurtà, con la partecipazione di capitale del privato cittadino insieme a quello statale austro-tedesco. Se il 1848 per questa città non è stato molto rivelante, ha però fatto riflettere su problemi presenti ma ancora latenti: la possibilità di tenuta della classe mercantile cosmopolita, la natura del rapporto con il suo retroterra e il destino di Trieste in rapporto alla nazioni slave. Ha inoltre permesso una svolta centralista e unitaria dell’impero asburgico che preme per una più diretta

saldatura tra Trieste e Vienna: significativa la costruzione della ferrovia meridionale che collega le due città. La doppia anima di Trieste è costituita da sloveni e italiani: inizialmente il rapporto è di separazione, per cui lo sloveno entra nella vita cittadina solo attraverso l’assimilazione. La multinazionalità della città va ricondotta soprattutto all’incontro tra culture diverse; all’inizio del Novecento diventa la porta attraverso cui penetra in Italia la cultura mitteleuropea. Il suggestivo impasto tedesco, ebraico, slavo è sorto in


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quel mondo di confine che è l mondo danubiano; questa cultura triestina-mitteleuropea, fondata su un patrimonio linguistico multiforme, è la somma dell’incontro tra il sapere austro-tedesco e la varietà di tradizioni legate

alla diversa ubicazione storico-geografica. Da qui deriva l’apertura triestina alla letteratura e alla filosofia dell’Europa centrale, ma anche la dimensione europea della cultura medico-scientifica stretta-

mente legata alla prestigiosa tradizione dell’università di Vienna. Tuttavia Trieste negli anni sessanta dell’Ottocento, con l’annessione del Veneto, soffre un senso di isolamento, anche se ancora non si può parlare di ir-


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Piazza dell’Unità e Caffè degli Specchi (sopra) Fontana di piazza Ponte Rosso e veduta del ponte Rosso (nella pagina accanto)

redentismo, che si avrà solo con la prima guerra mondiale. La coscienza nazionale si sviluppa di più per contrasto con il gruppo degli sloveni che costituiscono nella città un gruppo che non ha intenzione di rinnegare se stesso: per gli sloveni Trieste è la maggior città slovena. Invece per molti triestini non viene meno il sentimento nazionale italiano, rappresentato dai vociani che guardano a Firenze come “nazione culturale”. La sfida della letteratura è il suo sorgere dal nulla, da una società mercantile che non

si è mai interessata di argomenti umanistici. Sotto la grigia correttezza del costume borghese nasce, intanto, la vocazione all’analisi. Joyce trarrà ispirazione in gran parte da Trieste e da Svevo, l’impulso ad immergersi nella minuta psicologia privata per indagare un fangoso fondo collettivo. Archeologo della vita privata, Svevo si calerà, attraverso le cicatrici che la psicopatologia della vita quotidiana incide come crepe sul volto dell’uomo, fino alle radici della vita. Lo scrittore è un clandestino, un commerciante dedito

a un vizio solitario e disprezzato, come accadrà a Svevo, ma questa clandestinità gli conferisce la verità dello scrittore moderno, che non può far parte di alcuna istituzione o società letteraria ma è costretto, se vuole essere un poeta autentico, ad essere un randagio, un naufrago che scrive scarabocchi. Svevo e Saba – che hanno fatto di Trieste una capitale della letteratura mondiale – si aprono a culture nuove, introducendole in Italia e dando vita a una poesia italiana di respiro sovranazionale. Non il cenacolo letterario è


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il luogo della letteratura, ma l’ufficio, la scrivania sveviana alla banca Union, il retro bottega della libreria di Saba, il caffè, l’osteria, come per Joyce. Trieste diviene una capitale della poesia grazie alla sua povertà di tradizioni culturali ottocentesche, periferica rispetto ai grandi filoni della civiltà di quel secolo.


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9 Saba Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957)

«Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo.» da Mediterranee

La città mercantile e impoetica, della quale i viaggiatori ottocenteschi denunciavano l’assenza di spiritualità, diviene la fonte della poesia: per Saba Trieste è città “aspra e maliosa” (Il Canzoniere), “la più strana città” (Il Canzoniere) che “tiene d’una maschia adolescenza” (Il Canzoniere) e ha una “scontrosa grazia” (Il Canzoniere). Questa scontrosa grazia è la poesia di Saba, che aveva per sempre sposato la città all’Italia con il suo canto, conferendole così l’italianità spirituale. La lirica di Saba è poesia

dell’analisi e dell’introversione che si afferma già nel primo decennio del secolo, ma raggiunge i suoi vertici negli anni tra le due guerre e nel secondo dopo guerra: diventa chiara e leggera, avverte il male originale della vita senza calcare la mano, afferma incessantemente il principio di piacere, pur nella consapevolezza dell’inevitabile vittoria, anche storicamente e politicamente dell’istinto di morte. La poesia di Saba lascia apparire integralmente lo scuro fondo della vita e delle pulsioni nella limpida super-

ficie delle cose, così come sono. Essa è intesa come lo sguardo che si rivolge al mondo e al sottosuolo psichico, senza porre dinnanzi ad essi alcun diaframma,« tutt’al più un velo lieve e impalpabile come l’aria o come un’acqua cristallina, sul cui specchio si disegna e si affaccia nitidamente la tortuosa geometria delle cavità sottomarine». (Claudio Magris) Il Canzoniere è continuamente caratterizzato da questa tensione tra la profondità torbida e la chiarezza dell’apparenza.


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L’opera lirica diventa il risultato globale del fluire della vita, della vita intera, in poesia: il senso dell’esistenza consiste per Saba in una grande e indifferente unità che tutto stringe, al di là del bene e del male. Saba vive, scandaglia la vita, concentra il suo sguar-

Sotto: la statua di Umberto Saba dedicatagli dalla città di Trieste e la targa commemorativa

do sul disagio della civiltà, restando quasi sempre rintanato nella sua libreria antiquaria; la quale diventa angolo di nevrosi ma anche rifugio di amicizia. Egli canta il “doloroso amore” (Il Canzoniere) che è il desiderio di una felicità inseguita al di là del dolore: essa

si risolve con la semplicità superficiale del candore della vita così com’è; la poesia diventa un catalogo di cose e di atti chiamati “innocentemente per nome”.


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10 Svevo Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928)

« La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi. » da La coscienza di Zeno

Nella poetica di Svevo il concetto di inettitudine non esprime solo una condizione spirituale, ma anche una conquista intellettuale. È l’unica condizione che permette al singolo di sfuggire all’ingranaggio dell’assimilazione dovuta alle regole formali ed alienanti della società borghese. Il punto di rottura con l’attivismo borghese si trova nell’“assenza dalla vita” e nell’isolamento fondato sulla filosofia di Schopenhauer. Nei suoi due primi romanzi Svevo esemplifica questa latitanza della vita nei due motivi della vecchiaia

e dell’inettitudine, assunti a simbolo della condizione dell’individuo nella tarda civiltà borghese. Senilità, il secondo romanzo pubblicato nel 1898 e così caro a Joyce, sottolinea già nel titolo la stanchezza vitale ed esistenziale, che investe la cultura europea e l’intelligenza borghese. Con l’ausilio della filosofia il singolo riesce a trasferire la propria condizione in ambito universale e assoluto. Questa è la sua forza che gli garantisce il distacco dal mondo attivo e competitivo. Con il rifiuto dell’azione si

vuole evitare lo stato di sofferenza di disagio del singolo, inserito nell’ingranaggio sociale moderno. Rifacendosi al cristianesimo ebraico, l’autore ritiene che è proprio dell’uomo il destino della sofferenza (il patire). Condivide pertanto l’itinerario dei maggiori scrittori della crisi mitteleuropea intesa come crisi dell’uomo e del suo destino. Dirà infatti lo stesso Svevo n un passo tipicamente schopenhaueriano della Coscienza: “la legge naturale non dà il diritto alla felicità ma, anzi, prescrive la miseria e il dolore”.


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L’inettitudine si manifesta come riflesso dell’inazione; è la rinuncia alla lotta che determina l’inettitudine e mai viceversa. Nell’opera di Svevo con il collegamento alla grande tematica mitteleuropea dell’assimilazione sociale e del disagio storico entra in questa

Sotto: la statua di Italo Svevo dedicatagli dalla città di Trieste e la targa commemorativa

visione il suicidio come approdo ultimo dell’inettitudine. Si nota che l’influenza di Schopenhauer nella cultura di Svevo è un fatto costante, che va al di là del primo romanzo, Una vita, laddove l’inettitudine alla vita predispone l’attitudine alla morte. Tale concetto riporta al già

citato tema della vecchiaia che, nella poetica di Svevo, ha un’origine fondamentalmente mitteleuropea, dove l’idea di senescenza è collegata anche a quello di autorità. È il caso dell’imperatore Francesco Giuseppe, autorità politica e anche morale: la sua vecchiezza è emblema


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«Sul finire dell’inverno del ’26, in un mattino già quasi primaverile, un signore piuttosto anziano, non alto, alquanto corpulento ma elegante, si era fermato dinanzi all’ingresso del teatro della Scala, a Milano (…). Il signore anziano somigliava stranamente a un ritratto dell’industriale triestino Ettore Schmitz, da me visto poco prima sulle Nouvelles Litteraires. In compagnia di un amico seguii per qualche tratto di via Manzoni la coppia, poi mi feci coraggio e arrischiai la domanda: “Il signor Schmitz?”. Non avevo sbagliato. Avevo davanti a me il romanziere Italo Svevo, l’uomo che mi aveva scritto due mesi prima, da Londra, per ringraziarmi di un articolo con cui avevo precorso (modesta staffetta) lo scoppio della sua improvvisa celebrità (…).» Eugenio Montale dal “Corriere d’informazione”, 21 febbraio 1946

di dignità e saggezza in un mondo che già porta in sé i segni dello sfacelo imminente. L’imperatore è garante di continuità che, spezzata segnerà la fine di questo mito compromettendo l’unità, non solo politica, ma anche spirituale, dell’eterogenea monarchia danubiana. Anche i mutati rapporti generazionali, sono il segno evidente di un generale mutamento storico e morale. Infatti, mentre nella nuova borghesia si affaccia l’etica dell’efficienza, il concetto di vecchiaia entra in crisi perché al suo posto nel mondo

asburgico, come presunta saggezza, si impone il suo contrario. Lo stesso Svevo prova una sorta di nostalgia del mondo passato anche se il concetto di saggezza porta ad indagare più accuratamente nella condizione umana. Con ciò si modifica il rapporto padre-figlio e in questa problematica si inserisce autorevolmente Freud, che riconosce nel complesso edipico un fondamentale elemento psicopatologico. Svevo tenta di far affiorare dall’“imo del proprio essere”, alcuni momenti della sua

identità originaria; il merito di Schopenhauer è che gli ha fatto scoprire la necessità di questa analisi interiore prima che si alteri dall’esterno il confine della sfera privata. I personaggi di Svevo sono concepiti come contemplativi e incapaci di agire con borghese senso pratico: essi tentano di correggere la realtà con il sogno. L’importanza attribuita al sogno instaura o auspica quella continuità di realtà-sogno, tipica della contemporanea cultura centroeuropea. In Svevo la realtà onirica non interessa come evasione o


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come curiosità psicologica o psicoanalitica, ma come difesa della propria intimità. Il sogno è strumento di verità morale che Svevo distingue dalla realtà storica: la verità del singolo è di gran lunga più autentica di quella della storia. I personaggi sveviani sono borghesi irregolari che preferiscono la contemplazione al mondo della borghesia affaristica, ma non per questo ritengono di dover essere giudicati in uno stato di latente patologia. Questo comporta anche una notevole differenza dalla posizione psicoanalitica freudiana: Freud perseguirà la “rimozione” dei dati psichici mentre Svevo li conserverà tenacemente e gelosamente, considerandoli parte della propria identità personale. La grande intuizione di Svevo è che nell’intimo della nostra coscienza, si annidano sempre stati psicopatici e che, pertanto, i confini tra psicologia e patologia non sono né accertabili, né definibili. Egli accetterà il metodo di indagine della psicoanalisi, ma escluderà che i vari reperti siano da considerarsi patologici o patogeni: dove per Freud comincia la terapia, per lo scrittore comincia la scoperta della sua verità e della sua natura più segreta (Zeno). Quando il nostro autore sembra scostarsi da Freud è perché egli sente più urgente l’eco di Schopenhauer e della sua filosofia. Anche in riferimento a Joyce, conosciuto a Zurigo,

Svevo osserva, nei suoi colloqui con l’autore irlandese che egli è contrario alla psicoanalisi. Arriva persino a rifiutare, come primo intruso, il medico psicoanalista, che scruta inopportuno la nostra intimità; infatti, Svevo definisce, nelle “Pagine di diario e sparse”, “macabra” la prospettiva di guardarsi “tutti fino in fondo”. Anche Kafka, in modo radicale, lo definisce un oppressore. Proprio contro la scienza medica ed il concetto borghese di salute si impone l’ironia di alcuni protagonisti dei romanzi sveviani. A questo proposito, si crea la fattura tra i borghesi, fiduciosi nella scienza medica come istituzione incrollabile e gli scrittori, che ritengono soltanto l’individuo giudice legittimo della propria malattia. È implicita la convinzione di Svevo che tutta la vita sia una continua patologia: “… la vita è la malattia più micidiale…”. Anche in Svevo c’è del patologico, ma egli lo collega ad una visione irrazionale dello sviluppo del mondo, secondo cui l’universo offre solo sbocchi che portano alla distruzione dell’uomo stesso: più l’uomo perfeziona i suoi ordigni e più le malattie della civiltà (fascismo) si fanno gravissime. Infatti nel finale della “coscienza di Zeno” c’è una doppia apocalisse: una è quella pronosticata da Zeno, l’altra è quella prodotta da Svevo. Negli anni venti per Svevo non c’è stata attenzione del-

la critica italiana. Nel profilo autobiografico” Svevo compone una leggenda: “Un giovane scrittore di grande talento, nato ai confini di un impero, dove si parlava un dialetto…, si scriveva la lingua di un regno vicini no abbandonò la penna, deluso da due continui fallimenti letterari. Illeggibile nell’impero, non letto nel regno, il futuro principe dei romanzieri si dedicò per vent’anni tenacemente e esclusivamente alla mercatura, consolandosi talvolta la sera con i suoni del proprio violino. Finché una notte tempestosa, mentre era in riposo, non incontrò di nuovo l’angelo o il vecchio fantasma della letteratura”. La letteratura tornava a trionfare suoi registri di cassa, il romanzo ritrovava la sua strada. Il suo nome si affaccia nei manuali di storia letteraria oltre gli anni 50. Quando nel 1927 si desta l’attenzione della critica per Senilità questo lo si deve agli articoli di Montale sulla narrativa sveviana, pubblicati tra il 1925-1926. Svevo inoltre nel 1926 ospita Montale a Trieste, facendogli incontrare tra gli altri, Umberto Saba e il poeta dialettale Virgilio Gotti. Nella Vienna dell’‘800 è presente una forte componente ebraica, ben integrata nel tessuto sociale e con ruoli ben precisi nel mondo della finanza, dell’economia e della cultura in generale. Svevo appartiene al gruppo di quegli ebrei assimilati che, grazie anche all’editto di tol-


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« Grande uomo quel nostro Freud ma più per i romanzieri che gli ammalati. Un mio congiunto uscì dalla cura durata per varii anni addirittura distrutto. Fu per lui ch’io una quindicina d’anni or sono conobbi l’opera del Freud [...] » Italo Svevo in una lettera del 1927 al giovane letterato Valerio Jahier

leranza del 1781 (patente di tolleranza, editto emesso da Giuseppe II d’Austria), costituivano, nell’impero austroungarico, un forte ceto di imprenditori e di banchieri. L’assimilazione era avvenuta anche grazie alla tendenza ebraica a mitigare la rigidità dei propri antichi costumi religiosi. È questo un atteggiamento tipico di quegli ebrei che gradualmente dall’oriente europeo si sono sposati verso l’occidente. Tuttavia, in ogni ebreo -è il caso di Italo Svevo- c’è la consapevolezza di un’e-

marginazione che in alcuni periodi sembra attenuata, in altri è manifesta e violenta. Un altro complesso che segna ogni ebreo viene dalla contrapposizione fra ebraismo orientale e occidentale e in Svevo –scrittore di formazione ebraica- si nota chiaramente il rifiuto di questo processo assimilativo che egli considera svilito per vari motivi: per primo l’affarismo e il denaro; poi il contrasto padri e figli, evidente in tutta la letteratura mitteleuropea (Kafka); infine la consapevolezza della superiorità intellettuale dei per-

sonaggi inetti (su insegnamento di Schopenhauer), contro la mentalità borghese e affaristica. Nella contrapposizione fra ebrei orientali e occidentali si instaura il mito del villaggio come terra natia, patria irraggiungibile. C’è in Svevo una certa nostalgia orientale e solare, da contrapporre all’inferno urbano, dove la famiglia borghese assimilata, vive una condizione alienante. La sensibilità ebraica fa ricorso all’ironia proprio come difesa della sfera privata, nei confronti del processo assimilativo.


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Fra le principali linee della poetica ebraica di Svevo è doveroso ricordare il rapporto dell’autore con la prima guerra mondiale: rifiuta la turpitudine del conflitto, gli sciovinismi e soprattutto il nazionalismo, con i suoi egoismi, che ha avvelenato la cultura europea. Svevo parla di nazione come stato sovranazionale presente nella tradizione della monarchia austroungarica, da non confondere con il concetto di nazionalità e nazionalismo. La responsabilità della guerra è dovuta anche alla lacerazione di fondamentali valori quali il sentimento di tolleranza che, pur nella varietà di ceti e razze, aveva caratterizzato la vita delle maggiori capitali centro europee, di Trieste non meno che di Vienna. Le conseguenze di questa terribile guerra si riverseranno anche su molti scrittori testimoni del crollo austroungarico; essi si sentiranno ingiustamente vivi, cioè dei sopravvissuti. Inoltre avvertivano che qualcosa di più grave era stato compromesso, cioè l’illusione viva e operante prima della guerra di aver raggiunto un punto culminante della civiltà e della tolleranza umana, di aver reso credibile il mito della scienza e della cultura; di aver restituito per sempre alla libertà dell’individuo il massimo del suo diritto. Infatti la monarchia di Francesco Giuseppe era parsa una garanzia per una vita

civile ordinata e tranquilla. Invece già entro questa realtà monarchica si insinuano i germi della dissoluzione; forse perché l’ordine civile e l’armonia esistenziale erano solo apparenti e pertanto avrebbero portato a un regresso della civiltà. Freud chiama questo momento il “disgusto della civiltà” e dopo aver ricordato la distruzione delle opere della natura, dell’arte, della cultura, conclude che la guerra ha offuscato l’imparzialità della scienza, ha liberato tutti gli istinti umani e gli spiriti del male che si pensava di aver domato per sempre.

S

vevo ha conosciuto a modo suo le teorie di Freud in un epoca “preistorica” (forse già nel 1908) e si sa che ne ha tentato una descrizione in atto nel suo Zeno, ricavandone la conclusione che è pericoloso per l’uomo conoscere se stesso. Ma non sembra che Svevo abbia capito tutta l’importanza di Freud poiché si è come vergognato di esserne stato influenzato. Pietro Citati ci ha dato un ritratto sottile di Svevo attraverso i suoi personaggi, anche se un po’ troppo crudele (Il Giorno 19-12-1961): «l’incapacità di vivere, l’infantile rivalsa in sogni da megalomane e in astratti desideri di azione, l’inclinazione ad abbandonarsi ad una prolifera rete di illusioni, il desiderio e la voluttà delle lagrime, l’isterico bisogno di soddisfazioni sentimentali, il compli-

cato sistema di trasposizioni psicologiche, un meccanismo di irresponsabilità, per evitare qualsiasi rapporto con il mondo, la ricerca della malattia come protezione e alibi, tutto rivela una forma incantevole di candido narcisismo che invecchiando arriverà a fargli citare la sua parte di vecchio esibizionista chiacchierone e vanesio, con una gioia ansiosa, febbrile, nevrotica». (dossier su Svevo e la psicoanalisi) In definitiva, la scrittura per Svevo, che nonostante tutto attinge dall’influenza freudiana, è come un deposito sommerso, una riserva di energie torbide, oscure, da distillare: uno strato fertile ma disorganico dell’esperienza, dove la letteratura dovrebbe compiere i propri scavi, le proprie estrazioni. In quanto strato sepolto esso emette già qualche guizzo premonitore e ha forti analogie con quella che sta per essere nominata come la zona dell’inconscio.


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11 Joyce a Trieste James Augustine Aloysius Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941)

« ...la mia anima è a Trieste... » James Joyce nella lettera a Nora del 1909

Joyce and Nora went into self-imposed exile, moving first to Zurich in Switzerland, where he had supposedly acquired a post to teach English at the Berlitz Language School through an agent in England. It turned out that the English agent had been swindled, but the director of the school sent him on to Trieste, which was part of Austria-Hungary until World War I (today part of Italy). Once again, he found there was no position for him, but with the help of Almidano Artifoni, director of the Trieste Berlitz school,

he finally secured a teaching position in Pola, then also part of Austria-Hungary (today part of Croatia). He stayed there, teaching English mainly to Austro-Hungarian naval officers stationed at the Pola base, from October 1904 until March 1905, when the Austrians—having discovered an espionage ring in the city—expelled all aliens. With Artifoni’s help, he moved back to Trieste and began teaching English there. He would remain in Trieste for most of the next ten years Later that year Nora gave birth to their first

child, George. Joyce then managed to talk his brother, Stanislaus, into joining him in Trieste, and secured him a position teaching at the school. Joyce’s ostensible reasons were desire for Stanislaus’s company and the hope of offering him a more interesting life than that of his simple clerking job in Dublin. In truth, though, Joyce hoped to augment his family’s meagre income with his brother’s earnings.Stanislaus and Joyce had strained relations throughout the time they lived together in Trieste, with most arguments cen-


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tring on Joyce’s drinking habits and frivolity with money. With the chronic wanderlust of Joyce’s early years, he became frustrated with life in Trieste and moved to Rome in late 1906, having secured employment in a bank. He intensely disliked Rome, and moved back to Trieste in

Sotto: la statua di James Joyce dedicatagli dalla città di Trieste e la targa commemorativa

early 1907. His daughter Lucia was born in the summer of the same year. Joyce returned to Dublin in mid-1909 with George, in order to visit his father and work on getting Dubliners published. He visited Nora’s family in Galway, meeting them for the first time (a successful visit, to his

relief). While preparing to return to Trieste he decided to take one of his sisters, Eva, back with him to help Nora run the home. He spent only a month in Trieste before returning to Dublin, this time as a representative of some cinema owners and businessmen from Trieste. With their


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Una cartolina inviata dalla figlia Lucia al padre (sopra) Il logo del museo Joyce a Trieste (nella pagina accanto)

backing he launched Ireland’s first cinema, the Volta Cinematograph, which was well-received, but fell apart after Joyce left. He returned to to Trieste in January 1910 with another sister, Eileen, in tow. Eva became very homesick for Dublin and returned there a few years later, but Eileen spent the rest of her life on the continent, eventually marrying Czech bank cashier Frantisek Schaurek. Joyce returned to Dublin again briefly in mid-1912 during his years-long fight with his Dublin publisher, George Roberts, over the publication

of Dubliners. His trip was once again fruitless, and on his return he wrote the poem “Gas from a Burner” as an invective against Roberts. After this trip, he never again came closer to Dublin than London, despite many pleas from his father and invitations from fellow Irish writer William Butler Yeats. One of his students in Trieste was Ettore Schmitz, better known by the pseudonym Italo Svevo. They met in 1907 and became lasting friends and mutual critics. Schmitz was a Catholic of Jewish origin and became a primary model

for Leopold Bloom; most of the details about the Jewish faith in Ulysses came from Schmitz’s responses to queries from Joyce. While living in Trieste, Joyce was first beset with eye problems that ultimately required over a dozen surgical operations. Joyce concocted a number of money-making schemes during this period, including an attempt to become a cinema magnate in Dublin. He also frequently discussed but ultimately abandoned a plan to import Irish tweeds to Trieste. Correspondence relating to that venture with


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the Irish Woollen Mills are displayed in the windows of their premises on Aston’s Quay in Dublin. His skill at borrowing money saved him from indigence. What income he had came partially from his position at the Berlitz school and partially from teaching private students.

In 1915, after most of his students were conscripted in Trieste for World War I, he moved to Zurich.

F

u una serie di combinazioni a condurre verso Pola e poi verso Trieste, ventiduenne, uno scrittore e poeta irlandese,

ancora quasi del tutto inedito: James Joyce. Un’altra serie di circostanze, lo portò qualche tempo dopo a imbattersi nel quasi cinquantenne signor Ettore Schmitz, ammalato anni addietro di letteratura, ma ora bisognoso soltanto di qualche lezione di inglese


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commerciale, per certi suoi traffici di vernici fra Trieste, Venezia e Londra. Svevo deve molto a Joyce; ma con un diverso metabolismo anche Joyce deve qualcosa a Svevo. Una chiave della combinazione fu sicuramente la comunità di Trieste, il suo difficile tentativo di affondare radici certe tra la roccia carsica e il mare, quella sua confusa infelicità di città incapace di farsi restituire un’immagine intera e riconoscibile dai suoi molti specchi, quel suo fertile mondo intellettuale di allora che era in parte la sua

ricchezza anche se inconsapevole. Infatti, più ricchi di tutti sono stati quei paesi che hanno dovuto o saputo accogliere tanti semi transfughi e poi dargli un terreno e poi dargli una storia. Anche per Svevo e Joyce, l’incontro tra i due semi si è compiuto in una città di frontiera. Fu proprio quello tra l’elaborazione dell’Ulisse e la maturazione della Coscienza il tempo in cui i due scrittori si adottarono e si affiliarono di più, adoperandosi a distanza. Si scambiarono in abbondanza “dosi” di Senilità (è nota l’ammirazione di Joyce, fin dagli

anni prebellici, per il romanzo di Svevo) e dall’altra parte “dosi” di A portait of the artist as a young man. Fantasie figurali e fibre di tecnica entrarono a far parte dei nuovi repertori di Joyce e Svevo: Anna Livia Plurabelle (Finnegan’s wake) sembra ispirata dai fulvi capelli di Livia Veneziani (moglie di Svevo); così come qualche tratto di Ettore Schmitz è servito a creare Leopold Bloom. Del resto Joyce in una lettera del 1925 diceva che l’Anna Liffey (il rigagnolino di Dublino) sarebbe stato il fiume più lungo del mondo, se non


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A lato: Una caricatura dell’autore irlandese

ci fosse il Canal Grande di Trieste: nell’Ulisse probabilmente si erano fuse a tratti, ombre dublinesi e ombre triestine. La prima testimonianza scritta del rapporto Svevo – Joyce è un esercizio di composizione che il maturo e devoto alunno Ettore Schmitz presentò al suo giovane professore d’inglese intorno al 1908. L’atmosfera che si respira in questa pagina è già intensa: sta tra la grande ammirazione e una trepidazione quasi paterna per il giovanotto orgoglioso che, secondo Svevo, maschera sotto la grande sicurezza, una possibile fragilità. Si “seguirono” anche a distanza: Svevo con atteggiamento protettivo e Joyce cibandosi della vecchia letteratura e della vecchia ombra del suo anziano amico, come succede tra un padre e un figlio. Lo scrittore triestino fece molte letture delle opere di Joyce che furono, per molti versi, decisive nella formazione del “nuovo” Svevo, dello scrittore che riprese la penna “in pubblico” nel 1919, dopo vent’anni di esercizi privati di scrittura. Ma il riferimento maggiormente solido per Svevo rimaneva, più che i Dubliners, Il ritratto dell’artista da giovane ovvero, in Italia, Dedalus. Così come Stephen Dedalus esce dall’incubo dalla morte spirituale e corporale, e dalla negazione di sé e dei propri sensi, prodotta dalle terapie rituali della fede, anche Zeno esce dal lavoro analitico ed autoanalitico tutto intento a liberarsi della psicoanalisi,

come Stephen si era liberata della religione. Gli anni dopo la pubblicazione dell’Ulisse (1922) e della Coscienza di Zeno (1923), fino al 1925, circa, passano, nel rapporto tra i due, punteggiati da rare occasioni. Solo nel 1924 Svevo trova l’occasione e il tempo per affrontare, col solito meticoloso impegno la lettura dell’Ulisse, di cui conosceva, da prima della pubblicazione, l’impianto e qualche frammento. Poco dopo, mentre in Italia Eugenio Montale comincia la sua geniale e solitaria scoperta, in Francia ha inizio, su istigazione di Joyce, l’operazione Svevo. A Joyce Svevo dedicò con fatica senile l’ultima sua opera compiuta e progettata ex novo. Un’opera critica che rientra nel genere della “conferenza”, dove è possibile ritrovare una lunga preparazione e il coinvolgimento crescente di chi ha trovato la chiave di lettura per i labirinti joyciani. In quest’opera l’assenza e poi l’ostilità a Freud vengono ribaltate in una esplicita richiesta di analisi freudiana dell’opera di Joyce (e della figura di Stephen). Con tempestività Svevo individua nella tecnica del “monologo interiore”, un possibile tracciato parallelo alle indagini freudiane, l’associazione libera del senso nella scrittura.


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