Università degli Studi di Palermo Scuola Politecnica Dipartimento di Architettura Corso di Laurea in Ingegneria Edile-Architettura LABORATORIO DI LAUREA: L’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE IN SICILIA “L’ex fabbrica di conserve Benigno e Greco: analisi storico costruttiva e proposta di riqualificazione”
Candidato All. Giacomo Rondello
Relatore Ill.ma Prof.ssa Silvia Pennisi
Anno Accademico 2014-2015
“...nella vita come in architettura, se cerchiamo una cosa non cerchiamo solo quella� Aldo Rossi
INDICE Introduzione Archeologia industriale
6 10
Dismissione industriale Nascita archeologia industriale Industria a Palermo Tecniche costruttive Metodi di intervento
Industria Conserviera Benigno e Greco
34
Contesto urbano Vicende storiche Descrizione fabbrica Degradi
Progetto Casi studio Interventi Idea Progettuale Arte in scatola
78
Bibliografia
130
Fonti documentarie Sitografia principale
Ringraziamenti
133
INTRODUZIONE Il presente elaborato si propone di studiare di un’ area industriale dismessa a Palermo ed individuare e progettare una destinazione d’uso compatibile. Oggetto della tesi è l’ ex Fabbrica Conserviera Benigno e Greco, situata nel centro storico di Palermo entro il quartiere denominato Kalsa, con l’originaria funzione di stabilimento di produzione e inscatolamento di conserve di pomodoro. Per una maggiore comprensione del fenomeno e della specifica questione, è stata sviluppata una prima parte di tipo introduttivo, riguardante il tema della dismissione industriale, dalla quale ha avuto origine lo studio della disciplina denominata “archeologia industriale”. Si è quindi proceduto alla trattazione delle tecniche costruttive che caratterizzano e accomunano gli edifici industriali palermitani e all’analisi di alcuni casi specifici. Tali stabilimenti industriali sono l’unico segno lasciato da una classe sociale in trasformazione, quella operaia, che non avendo i mezzi per celebrarsi all’interno della città, lascia traccia di sé attraverso ciò che è stato costruito per lei, quindi attraverso le fabbriche , si comprende come abbandonare i resti industriali sarebbe come cancellare la storia di quelle vite umane. Sono state inoltre analizzate le modificazioni quali crolli, sostituzioni provvisorie e mancanze su coperture, murature, intonaci ed altri elementi rispetto all’originaria condizione e aspetto. Tali degradi sono da ricondurre all’abbandono e alle inappropriate trasformazioni messe in atto dopo la dismissione dell’area. Dallo studio urbanistico e architettonico quindi, si delinea la proposta di riqualificazione compatibile con i resti originali della fabbrica e con il contesto storico circostante. Il proposito è quello di restituire l’area alla collettività, innescando con essa dinamiche sostenibili di aggregazione culturale e sociale. I padiglioni quindi, un tempo adibiti a luoghi di produzione materiale ed economica, potranno diventare fabbriche di produzione culturale. Dopo un attento consolidamento, verifica e adeguamento delle prestazioni strutturali, sono stati riutilizzati gli “involucri” esistenti, eliminando tutte quelle dissonanze delle aggiunte effettuate negli anni della dismissione. L’aggregazione culturale è resa possibile attraverso un’accurata diversificazione delle funzioni all’interno dell’area, unita alla previsione di attività di autofinanziamento del complesso. Troviamo infatti laboratori creativi di pittura, scultura, fotografia e cinema per i giovani, ma allo stesso tempo luoghi per proiezioni, esposizioni e mostre. Ricordando quindi la funzione originaria della fabbrica, di cui edifici e ciminiera ne sono impo8
nenti testimoni, l’intervento di riqualificazione vuole conservare la memoria storica dei luoghi, attraverso l’esposizione permanente di alcuni macchinari utilizzati per la produzione, insieme ad oggetti e stampe che un tempo servivano a pubblicizzare e promuovere le conserve di pomodoro.
9
ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE La definizione “archeologia industriale” riunisce due termini apparentemente tra loro distanti: “archeologia”, tradizionalmente riferito allo studio di reperti legati all’antichità, e “industriale”, chiaramente attribuibile a epoche più recenti, quelle successive alla rivoluzione industriale. L’accostamento dei due termini si spiega con l’approccio metodologico alla materia che vede l’applicazione di alcuni criteri dell’archeologia classica a quella industriale, considerando lo studio di un’epoca a partire dai suoi resti materiali e facendone, pertanto, una specifica branca dell’archeologia più generale, che viene – attraverso l’uso del termine industriale − individuata da una specifica delimitazione temporale. Il legame tra queste due parole, “archeologia” e “industriale”, in apparente discordanza tra loro, può essere compreso ancora di più se ricordiamo le parole di R. Bianchi Bendinelli: “la storia non è solo storia dei grandi uomini e delle loro guerre, ma la storia dei popoli” e pertanto essa deve aprirsi a tutte le sfaccettature della vita dell’uomo quindi essere una storia economica, politica, artistica, sociale, ma anche tecnica e tecnologica. L’archeologia industriale è anche il campo d’indagine dei resti fisici del modo di produrre industriale, è lo studio dell’epoca della rivoluzione industriale, degli edifici, delle tecnologie, delle conseguenze economiche e sociali; non è la riproduzione di cose del passato, ma ci mostra piuttosto ciò che scompare perché la scienza e la tecnologia si rinnovano continuamente e questa innovazione non solo fa scomparire la macchine, gli stabilimenti, ma anche i villaggi e le città industriali. L’archeologia industriale ha poi delle peculiarità rispetto a quella classica in quanto i resti materiali si arricchiscono delle testimonianze, dei racconti orali, di materiali documentari, oggetti e reperti dell’industria, prodotti e strumenti di comunicazione (pubblicità, elementi grafici, packaging) che permettono lo studio complessivo di un’azienda e del suo contesto. La disponibilità di tali ulteriori elementi, non sempre rintracciabili e disponibili, non significa, tuttavia, che sia semplice ripercorrere le vicende di un manufatto edilizio industriale una volta individuato sul territorio: spesso si tratta di fabbricati fatiscenti dei quali si è persa ogni memoria; è soltanto incrociando documenti, elenchi, statistiche, censimenti e reperti che si riesce a risalire al nome di un’industria e a ricostruire le tessere della sua storia.
12
Dismissione Industriale Il fenomeno delle aree industriali dismesse, si è manifestato quasi simultaneamente in Europa e non solo, con il mutare delle forme organizzative della produzione. Notevoli furono infatti i cambiamenti derivanti dal passaggio del sistema di produzione fordista a quello post-fordista, che portò ad una progressiva dismissione di attività economiche legate a settori quali la siderurgia, la metallurgia e la cantieristica. Maggiormente colpiti dalla crisi furono le aree più industrializzate in Europa, le regioni atlantiche e centrali degli Stati Uniti e successivamente anche l’Europa meridionale e mediterranea1. In Italia il settore dell’archeologia industriale comincia a diffondersi quando l’interesse per l’industria e l’insediamento industriale si era ormai imposto in molti paesi europei come uno dei temi fondamentali per la comprensione della storia contemporanea, ma quelli erano anni in cui le fonti documentarie erano disperse o di difficile accessibilità. La sistematicità degli studi ha avvio dal primo Convegno di Archeologia Industriale di Milano, da cui si iniziarono a delineare le linee di intervento e si impose il tema del riuso delle aree dismesse. Ad oggi però in Italia, in mancanza di leggi e disposizioni in tal senso, vengono smantellati 150 metri cubi di vecchi edifici industriali e 300 mila tonnellate di vecchi macchinari ridotti in rottami, e distrutti archivi e disegni senza una cernita, senza cioè considerare che buona parte di essi è bene culturale da studiare. I monumenti industriali sono ridotti per buona parte allo stato di rovine per ragioni diverse: l’uso di materiali deperibili (metallo) soggetti alla corrosione e al riciclaggio, sono edifici concepiti per uso temporaneo e non per l’eternità (come usavano gli antichi), decadimento del polo industriale, fattori naturali o accidentali. Quello che più conta è portare in primo piano la “cultura dell’industrialesimo: cioè quel complesso di elementi, non solo oggetti ma anche modi di essere e ideologie, che hanno prodotto civiltà industriale ” (A. e M. Negri). La fabbrica è certamente il punto di partenza più importante per la ricerca, ma non bisogna dimenticare tutte le componenti sia interne (tecnologia, economia, architettura) che esterne (relazioni e tutto ciò che si è determinato attorno) e che essa è stata luogo di produzione non solo di oggetti ma anche idee, di forme di organizzazione sociale. La macchina, insieme alla fabbrica, è la protagonista della cultura dell’industrialesimo ma essendo l’oggetto che subisce tutti gli effetti del rinnovamento tecnologico, viene distrutta con maggiore facilità. 1 M. Arca Petrucci – E. Dansero, Aree dismesse, fra degrado e riqualificazione ambientale, 1995, pp. 69-78 13
Capannone Bramme, Area ex Falck, Sesto San Giovanni (MI) - Italia
Lo sviluppo industriale ha inoltre modificato l’ambiente e i paesaggi: all’inizio della rivoluzione industriale le fabbriche occupavano un posto d’onore all’interno della città (come dimostra il caso dell’Inghilterra) ma con i progressi tecnici che portarono all’invenzione di nuove macchine che sostituirono alla forza lavoro umana quella idraulica ed in seguito quella a combustione, le fabbriche dovettero abbandonare l’antica distribuzione sparsa per concentrarsi in grandi opifici esterni alla cinta muraria delle città. La fabbrica si insedia quindi in un paesaggio prettamente agricolo soprattutto per la disponibilità di energia idraulica e materia prima e richiama così manodopera per la quale vengono costruiti i villaggi operai e svariate infrastrutture (mercati operai, ponti, canali, stazioni e linee ferroviarie). Si può affermare quindi che la fabbrica siano uno dei principali fattori di trasformazione fisica del territorio. 14
Con il passare del tempo le città si sono ingrandite continuando a costruire il territorio circostante le fabbriche e, contestualmente, quest’ultime, a cominciare dalle più antiche, sono entrate in crisi, diventando spazi vuoti e inutilizzati all’interno del tessuto urbano, entrano all’interno del fenomeno dell’obsolescenze, ovvero la perdita di funzionalità dell’edificio legata allo sviluppo della tecnica che si evolve in maniera così veloce, da rendere obsoleti i contenitori di se stessa. Oggi questi edifici sono diventati dei deserti di vita ma un tempo “l’industria, obbligando più persone a un lavoro collettivo, avrebbe potuto esercitare un’influenza altrettanto forte sullo sviluppo di una nuova civiltà, come in passato determinante in questo senso era la volontà dinastica del sovrano”. Non è corretto da parte del mondo contemporaneo ignorare e abbandonare le testimonianze di quel mondo e quella cultura, fatta di lotte sociali e di sacrifici umani, che hanno avuto nella fabbrica il loro svolgimento. Se poi si pensa che questi opifici sono l’unico segno lasciato da una classe sociale in trasformazione, quella operaia, che non avendo i mezzi per celebrarsi all’interno della città, lascia traccia di sé attraverso ciò che è stato costruito per lei, quindi attraverso le fabbriche , si comprende come abbandonare i resti industriali sarebbe come cancellare la storia di quelle vite umane. Alla parola “dismissione” sono stati nel tempo attribuiti diversi significati, ma generalmente le aree dismesse possono essere inserite nel più ampio contesto dei “vuoti” urbani2 poiché prive delle funzioni per cui sono state create, ma allo stesso tempo essere considerati e rivalutati come “pieni” di manufatti, di storia della tecnologia e dell’industria, di memorie individuali e collettive di storia del lavoro. Sono a volte la testimonianza di una memoria che le rifiuta, “atopie del territorio urbano”3 in attesa di una nuova funzione, di nuove occasioni per trasformare e riconfigurare il tessuto urbano che da esse appare interrotto. “In questa direzione il tema del vuoto urbano, comprendente le aree industriali dismesse, è comunque un tema progettuale che non può essere facilmente ricondotto a soluzioni semplici: conservare, ristrutturare, svuotare, riusare, convertire, o qualsiasi altra azione venga attuata ha a che fare con la necessità di reperire funzioni adeguate e proporzionate, ma soprattutto con l’identificazione di un senso possibile di questi luoghi”4. I siti dismessi sono stati inoltre definiti come “quei posti schermati, marginali, non controllati, come una necessità in una società flessibile” evidenziando i lotti lasciati vuoti dall’abbandono 2 3 4
B. Secchi, in Casabella, n.503, 1984 N. Fusco – S. Montebelli C. Olmo, 2002 15
dei luoghi industriali, siano in realtà “luoghi liberati”5. Sono molti i fattori per cui risulta difficoltosa la definizione del fenomeno della dismissione industriale poiché innanzi tutto non vi è una storia del riuso abbastanza lunga né tantomeno temporalmente conclusa. Non è quindi possibile disporre di approfondite analisi, infatti molte delle aree dismesse continuano ad esserlo e quelle che invece sono state riutilizzate lo sono da troppo poco tempo.
Gasometro dell’area Ostiense, Roma - Italia
5 16
K. Lynch, 1992
Alla dismissione sono inoltre connesse notevoli problematiche: da un lato vi è la cessazione dell’attività produttiva, quindi un problema di ordine economico sconnesso alla tematica del luogo e del suolo stesso; dall’altro vi è la questione del riuso del suolo che viene liberato in seguito alla cessazione di tali attività6. La tematica della dismissione industriale rientra quindi all’interno di una varietà di problematiche territoriali, economiche e sociali. La cultura industriale è la cultura del mondo di oggi e la fabbrica e i luoghi di produzione sono contenitori di scienza, tecnologia, di capacità imprenditoriale, di fatica, di dolore, di umanità, che trasformano la vita dell’uomo e la società; tuttavia spesso la fabbrica viene abbandonata non appena ha concluso il suo ciclo vitale e ovunque nei paesi industrializzati questi resti del patrimonio tecnologico e produttivo stanno scomparendo velocemente per cui si deve agire per salvare il possibile, restaurando impianti in situ, e ciò che non si può salvare si deve documentare con disegni, fotografie, testimonianze, e andandoli a studiare direttamente e i tempi brevissimi per poter “ riscoprire e rivalutare una stagione dello sviluppo tecnologico senza la quale il nostro mondo, con i suoi pregi e difetti, non esisterebbe, e per custodire le testimonianze, le reliquie, di una rivoluzione forse non ancora finita” (P. Portoghesi).
6
S. Crotti, in Rassegna, n.42, 1990 17
Nascita archeologia industriale L’archeologia industriale trova l’origine della sua definizione nel 1955 in Inghilterra quando il rinnovamento urbano, ma soprattutto tecnologico, che si compie nel secondo dopoguerra, causa l’obsolescenza delle strutture produttive risalenti alla rivoluzione industriale imponendo la necessità di dare risposte alla presenza di strutture imponenti non più idonee alla produzione. Il termine è attribuito a Donald Dudley, docente di latino all’Università di Birmingham, ma la sua diffusione si deve a un articolo pubblicato dal collega Michael Rix nel 1955, nel quale è sottolineato l’interesse per le fabbriche e gli opifici del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Tra i tentativi successivi di definizione della disciplina è significativo quello secondo cui “l’archeologia industriale si occupa della scoperta, della catalogazione e dello studio dei resti fisici e dei mezzi di comunicazione del passato”7, evidenziando in tale enunciato la parola “resti” quale testimonianza di un’epoca. Ma, ancora prima che nell’ambito accademico, in Inghilterra le radici della nuova disciplina, si devono all’attenzione per le strutture abbandonate risalenti alla prima epoca della civiltà industriale che ebbe una spinta dalla stessa popolazione che voleva salvare la recente storia del lavoro e le sue testimonianze. La prima battaglia per la salvaguardia di un bene di archeologia industriale si svolse nel 1961 e fu diretta a impedire l’abbattimento della Euston Station, e in particolare dello Euston Arch che ne costituiva il monumentale ingresso, con il suo portico di colonne doriche; pur se la demolizione in quel caso avvenne ugualmente, e fu dunque una battaglia che si concluse con una sconfitta, quella divenne comunque l’occasione per acquisire la consapevolezza del valore del patrimonio di archeologia industriale presente sul territorio, tanto che due anni dopo l’Iron Bridge sul fiume Severn venne dichiarato monumento nazionale e oggi l’Ironbridge Gorge World Heritage, che interessa un’area di circa sei chilometri quadrati, è incluso nel patrimonio dell’umanità tutelato dall’Unesco. A dare voce al movimento di opinione che animava la popolazione fu Kenneth Hudson, giornalista della BBC, considerato uno dei padri fondatori dell’archeologia industriale: nei suo scritti se ne delinea e definisce l’ambito teorico e disciplinare. In Italia la data di fondazione della nuova branca della materia ha una data precisa: quella del primo Convegno internazionale di archeologia industriale che si è tenuto a Milano nel giugno del 19778. L’iniziativa è stata promossa da un gruppo di studiosi che gravitava attorno allo storico 7 K. Hudson, Archeologia Industriale, a cura di R. Covino, Zanichelli, Bologna 1985 8 Archeologia industriale, Atti del convegno internazionale, Milano 24/26 giugno 1977, Clup, Milano 1978. 18
dell’arte Eugenio Battisti, che ha avviato un dibattito, tuttora attuale, sui rapporti tra archeologia industriale e beni culturali, sulle metodologie, sulla musealizzazione o rifunzionalizzazione dei monumenti. In Italia il dibattito risente, naturalmente, della forte presenza dell’archeologia classica, tuttavia l’assunto di partenza, ormai ampiamente consolidato, è che non esistono parti del territorio da conservare e parti da non sottoporre a tutela; è sempre più necessario dunque che la presenza dei beni di archeologia industriale sia registrata e la sua conservazione programmata nell’ambito della pianificazione territoriale e urbanistica.
Ironbridge, Telford - Regno Unito In Sicilia il tributo si deve agli studi di Anna Maria Fundarò, docente presso la Facoltà di Architettura di Palermo e fondatrice dell’Istituto di disegno industriale, che, attenta ai più aggiornati studi sul progetto per l’industria e la cultura materiale, ha dato un indispensabile contributo alla formazione di una cultura progettuale che, forte anche di una consapevolezza storica, era infarcita di localismi e respiri internazionali. I suoi studi9 hanno portato alla riscoperta di strutture industriali che già negli anni 80 la città sembrava aver dimenticato e di cui comunque veniva ignorato il valore che soltanto quel lavoro, a tutt’oggi valido, ha rivelato. Ricercare sul territorio le antiche strutture industriali dismesse assume importanza se si acquisisce la consapevolezza che si tratta di beni culturali. Le strutture produttive costituiscono, infatti, a pieno titolo, beni che vanno salvaguardati per il loro valore storico-antropologico, legato alla storia del lavoro e della tecnologia, anche se spesso non si tratta di edifici “esteticamente interessanti”, né caratterizzati da un particolare pregio architettonico o artistico. Vanno tutelati 9 A. Bertolino, A. Callari, M.L. Conti, A.M. Fundarò (a cura di), Per una storia del design in Sicilia. Reperti e testimonianze di archeologia industriale e cultura materiale a Palermo, Vittorietti editore, Palermo 1980. 19
anche perché sono parte di un tessuto urbano che nel tempo si è stratificato assumendo connotazioni complesse che vanno recuperate. È ormai consolidato l’ampliamento del concetto di bene culturale dal singolo monumento, dal singolo edificio, alla struttura urbana. Anche la legislazione ha tenuto conto di tale ampliamento passando dal concetto di monumento nazionale a quello di ambito urbano. Secondo la Carta internazionale per la conservazione e il restauro dei monumenti, denominata anche Carta di Venezia, redatta nel 1964, la nozione di monumento storico può riferirsi a quegli elementi architettonici o ambienti urbani che fungono da testimonianza di una particolare civiltà o di un avvenimento storico significativo. Per il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”, sono beni culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante. Tra questi: i siti minerari di interesse storico o etnoantropologico; le opere dell’architettura contemporanea di particolare valore artistico; i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquant’anni. I reperti del passato industriale rientrano pertanto di diritto nell’ambito dei beni culturali, in quanto testimonianze di un momento storico che merita di essere ricordato. Se non per il valore artistico o architettonico, per il valore storico ed etnoantropologico e per la configurazione che nell’insieme danno al paesaggio. Nell’archeologia industriale, così come in quella tradizionale, è ben esigua la quantità di elementi rinvenuti che abbiano una qualità artistica, rispetto alla mole dei ritrovamenti, ovvero l’esistenza di intere strutture progettate da autorevoli protagonisti dell’architettura. Andrea Carandini10 riferisce che «seguendo uno scavo è facile osservare quanto rara sia la scoperta di oggetti d’arte», e ancora: «negli strati archeologici non scoprivo opere d’arte, bensì una serie enorme di manufatti di uso comune di cui nulla o quasi si sapeva». In sostanza, quando visitiamo un museo e ammiriamo statue, oggetti preziosi, sculture, pregevoli dettagli architettonici, ci sembra che la storia antica abbia prodotto soltanto opere d’arte; bisogna in effetti ampliare la visione e avvicinare la storia dell’arte alla storia dei popoli, integrando gli studi di estetica con quelli di etnologia e antropologia. Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1973 afferma: «il mondo dell’arte non è più qualche cosa che vada tenuto separato dal mondo pratico, ma che va considerato immerso in esso in un reciproco scambio di impulsi». Rari, dunque, i manufatti di valore artistico – il pannello di Tommaso Bertolino alla Chimica Arenella, ma rilevante il valore complessivo dell’impianto industriale nella storia urbana e umana 10 20
A. Carandini, Archeologia e cultura materiale, Einaudi, Bari 1979.
della città . Tale inquadramento ci rimanda al rapporto tra arti minori e arti maggiori, e in particolare alla separazione tra momento ideativo e momento esecutivo che molta rilevanza ha proprio nella cultura industriale, nella quale si rende necessario il superamento di ogni gerarchizzazione che non investe soltanto il campo degli oggetti, ma anche quello dell’architettura e delle diverse tipologie edilizie, che ha posto invece su un livello superiore le chiese e gli edifici pubblici rappresentativi rispetto alle fabbriche.
21
Industria a Palermo Con tali premesse si svolge lo studio sui siti di archeologia industriale che, in una città ricca di testimonianze storiche e monumentali come Palermo, rimangono marginali e dimenticati: fastidiosi e fatiscenti luoghi destinati più alla demolizione che al recupero. La maggior parte dei palermitani conosce un esiguo numero di antiche fabbriche rispetto a quelle esistenti sul territorio: le ex Officine Ducrot, oggi chiamate Cantieri Culturali alla Zisa; l’ex deposito locomotive di Sant’Erasmo, utilizzato per anni per il Kal’s Art e ora Ecomuseo del Mare; la stazione Lolli e, infine, la Chimica Arenella; tuttavia uno studio più attento rivela l’esistenza di almeno una sessantina di strutture produttive storiche dismesse che conservano gli antichi corpi di fabbrica e di una dozzina di ciminiere in mattoni che si ergono nel cielo della città.
Cantieri Ducrot alla Zisa, Palermo - Italia 22
Palermo sembra aver dimenticato la propria storia industriale, che non soltanto c’è stata, ma, come dimostrano dati, censimenti e studi degli storici dell’economia, ha avuto anche episodi di grande interesse e rilevanza, con un momento di punta tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. In città le attività produttive esistevano già da molto tempo e alcune avevano un’antica tradizione: le tonnare, le fabbriche per la costruzione di carri e carrozze, per la tessitura e la manifattura di stoffe, in particolare della seta. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento il panorama industriale palermitano era costituito da una miriade di piccole realtà produttive, spesso più vicine alla struttura artigianale che a quella industriale, e da alcune fabbriche di maggiore entità dalle quali è scaturita una cultura industriale spesso attenta al contesto europeo, ma al tempo stesso impregnata di peculiarità locali. Tra il 1860 e il 1950 è documentata la presenza di più di trecento fabbriche: tale dato si deduce dal numero dei marchi di fabbrica registrati in quegli anni. La conferma della Palermo industriale si ritrova anche nelle fotografie dell’epoca che svelano una città costellata di alte e fumose ciminiere. Se le attività artigianali avevano trovato posto all’interno della città, nel centro storico, utilizzando locali ubicati al piano terra di edifici destinati ad abitazioni, le attività in-
Ciminiera della Fabbrica Gulì, Palermo - Italia 23
dustriali si sviluppano fuori le mura in strutture proprie e appositamente concepite. Già prima dell’industrializzazione non erano mancati alcuni insediamenti al di fuori della cinta muraria: erano sorte le tonnare nelle borgate marinare di Vergine Maria, dell’Arenella, di Mondello; il barone Malvica aveva installato un proprio opificio alla Rocca per la produzione di panni di lana; il duca di Sperlinga aveva impiantato nella sua villa a Malaspina una fabbrica di ceramiche, e lungo lo stradone di Mezzomonreale era nato il Real Opificio delle Sete all’interno dell’Albergo dei Poveri. Le industrie cittadine costruite nel corso dell’Ottocento vengono concepite guardando ai più moderni sistemi produttivi diffusi in Europa: si acquistano macchinari dalle più rinomate ditte nazionali e internazionali e si organizza il lavoro secondo modelli produttivi avanzati. Anche l’ubicazione non è mai casuale: si cercano i siti più vicini alle vie di collegamento, dunque in prossimità degli assi ferroviari, di cui in quegli anni si va dotando la città, ovvero lungo la costa per sfruttare le vie di collegamento carrabili e marittime. Alcune attività produttive hanno la loro origine in ridotti locali del centro storico, ma quando diventa necessario dotare la ditta di macchinari più imponenti, assumere più personale e avere ambienti idonei alla struttura industriale che si è andata sviluppando dal nucleo iniziale, si cercano siti fuori le mura per la realizzazione di un grande stabilimento. Fondamentale per comprendere il passaggio dalla struttura artigianale della produzione a quella industriale in ambito locale è l’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92, che costituisce un momento importante per l’industria siciliana, infatti il primo numero della rivista edita a Milano da Edoardo Sonzogno, dedicato all’Esposizione stessa, esordisce con la frase “La terra del sole è diventata la terra del lavoro”. L’Esposizione è un momento chiave non soltanto per le industrie palermitane e siciliane già esistenti, che colgono l’occasione per mostrare i propri prodotti e affermarsi a fianco di altre ditte provenienti dal resto d’Italia, ma anche per tutti quegli imprenditori locali che vengono a conoscenza di macchinari che saranno poi acquistati e utilizzati nelle fabbriche. È in quegli anni che si sviluppa la maggior parte delle strutture con caratteristiche tipiche del fabbricato industriale, con capannoni, uffici, ciminiere e spesso anche alloggi per il proprietario o per i dipendenti. Nascono, dunque, impianti con un progetto imprenditoriale ben stabilito; è il caso di quelli con capitali stranieri come la Chimica Arenella o delle strutture dei Florio, tra cui lo stabilimento per la rinomata ceramica. Si tratta, in quanto fabbriche, di strutture di dimensioni notevoli e alcune occupano aree tra zone coperte e zone scoperte di pertinenza veramente rilevanti: oltre alla citata Chimica Arenella un esempio è dato dalla fabbrica Puleo/Di Fazio, sulla 24
via Messina Marine, che si estende su una superficie di circa 30.000 metri quadrati dei quali circa 12.000 coperti, o dalle ex officine Ducrot. Il recupero di aree e manufatti di tali dimensioni impone riflessioni che vanno recepite dagli strumenti di pianificazione territoriale che prevedano pratiche di intervento caso per caso. Se il risanamento della zona mineraria delle Rurh interessa marginalmente in tale disamina in quanto si riferisce a un grande bacino extraurbano, quello della Gare d’Orsay mostra le potenzialità di un riutilizzo di un manufatto di archeologia industriale all’interno del tessuto cittadino e le positive ricadute sulla riqualificazione di un più vasto contesto urbano. In Italia sono molti i noti casi di recupero: dal mulino Stucky di Venezia al Lingotto di Torino, al Mattatoio e alla centrale Montemartini di Roma, pregevole testimonianza di integrazione tra archeologia classica e archeologia industriale, e in Sicilia il complesso delle Ciminiere di Catania e la tonnara Florio di Favignana.
Gasometri di via Tiro a Segno, Palermo - Italia 25
Tecniche costruttive La città di Palermo vive, tra i primi dell’800 e la seconda metà del ‘900, una grande stagione industriale da ricondursi sia alla sua centralità nel Mediterraneo, sia al forte “impulso dato allo sviluppo industriale, dalla presenza di stranieri in Sicilia agli inizi dell’800”11. In quel periodo infatti inglesi e tedeschi, mentre nelle loro terre imperversa la rivoluzione industriale, eleggono Palermo e, più in generale, l’isola siciliana come località prediletta di soggiorno. E’ evidente come, a quei tempi, Palermo non sia paragonabile né alla Manchester dell’800 né alla Torino della seconda metà del ‘900, ed è a seguito di ciò che risulta estremamente semplicistica la teoria secondo cui il capoluogo siciliano non abbia realmente conosciuto il vero sviluppo industriale sol perché l’entità del fenomeno palermitano non sia stato in linea con quella delle altre capitali europee. Ecco che, al fine di evitare di cadere in conclusioni affrettate e riduttive, occorre pensare a Palermo come al capoluogo di un’isola il cui sviluppo industriale deve essere analizzato e discusso per quello che realmente è stato, ovvero considerando, tra i vari fattori, anche la scarsità di specifiche ricerche, ma soprattutto la dispersione degli archivi d’impresa, da interpretarsi come dei chiari ostacoli alla ricostruzione storica di opifici, stabilimenti etc. E’ dopo il tramonto del Regno delle Due Sicilie che Palermo, nonostante le difficili condizioni economiche in cui versava l’intera isola e, conseguentemente, tempi di esecuzione più lunghi del previsto, è interessata da un movimento atto a modernizzare le strutture. Il risultato di tale processo di ammodernamento è riscontrabile nei primi cinquant’anni successivi all’unità d’Italia, durante i quali Palermo cerca di farsi spazio tra le grandi metropoli italiane con l’obiettivo di assumere anch’essa un ruolo primario all’interno del mercato nazionale. Una testimonianza di tale processo è la seguente considerazione che Francesco Corrao fa nel 1911 con la quale, sostanzialmente, sintetizza i risultati delle trasformazioni urbanistiche avvenute negli anni precedenti: “per dare un’idea dello sviluppo che la città propriamente detta ha subito dal 1860 a oggi, basti ricordare che […] la superficie fabbricata, comprese strade, giardini pubblici ecc., era di mq 4.000.000, oggi con i nuovi rioni […] raggiunge all’incirca i mq 5.500.000”12. 11 D. Pirrone, Le fabbriche a Palermo, cit. 12 F. Corrao, La città di Palermo dal 1860 al 1910, in Palermo e la Conca d’oro, Atti del VII Congresso Geografico Italiano, Palermo 1911, p. 131. 26
E’ chiaro come questi dati siano una diretta conseguenza del fatto che si stia parlando di complessi industriali di ingenti dimensioni che, addirittura, col trascorrere del tempo e col fiorire delle rispettive attività produttive, si sono progressivamente ampliati fino al raggiungimento della quasi totale saturazione. Analizzando tali complessi non si può, dunque, non tenere in considerazione la loro scala urbana ed è proprio quest’ultima, insieme alla rilevanza architettonica della maggior parte dei fabbricati che contraddistinguono i vari aggregati urbani, il fattore che, più di tanti altri, spinge verso un ripensamento funzionale di queste aree ormai dismesse. Da qui nasce l’accezione di archeologia industriale, vale a dire quella disciplina atta al reperimento, catalogazione, conservazione e studio di reperti legati, per l’appunto, alla nascita dell’industria moderna della seconda metà del XIX sec. e che, con le sue analisi, è altresì chiamata a formulare ipotesi di recupero di siti, divenendo, in tal modo, un potente mezzo di riqualificazione delle città. Dalle suddette analisi emerge con chiarezza la ricerca strutturale che contraddistingue ciascun complesso, finalizzata alla necessità di ottenere ambienti con grandi luci, senza alcun elemento strutturale intermedio, allo scopo di agevolare e favorire i processi produttivi al loro interno. Ne consegue che spesso un complesso industriale costituisce un ottimo spunto per i progettisti, dato che la sua realizzazione comporta inevitabilmente la ricerca di soluzioni progettuali innovative, che vanno dall’impiego di nuovi materiali a moderne metodologie di posa in opera di materiali tradizionali, sino a nuove tecnologie strutturali, atte a consentire le grandi luci di cui si è detto pocanzi. La differenza tra architetture industriali ottocentesche e novecentesche risiede proprio nelle soluzioni scelte e, principalmente, nei materiali utilizzati, dato che è a cavallo tra questi due secoli che si afferma l’uso del cemento armato per le chiusure orizzontali di ambienti con luci significative. In questa distinzione temporale vi fu una maggiore sperimentazione (specialmente legata alle coperture, da cui scaturisce la spazialità degli ambienti interni) nei complessi industriali realizzati a partire dagli anni 30 del ‘900. Gli anni precedenti risultano, infatti, meno interessanti e soprattutto meno creativi in ottica strutturale, nonostante vada sottolineato come proprio all’800 si debbano alcune delle più importanti ciminiere in laterizio realizzate a Palermo (su tutte le ciminiere della fabbrica di conserve Benigno e Greco), e come risalgano sempre alla fine del medesimo secolo le capriate, impiegate a sostegno delle coperture spesso interamente realizzate in legno, anche se a volte, 27
come nel caso delle incavallature Polonceau, quest’ultimo poteva essere affiancato all’acciaio. Sulla stessa scia altre testimonianze sono le incavallature che caratterizzano le coperture di alcuni padiglioni della Ducrot, soprattutto la struttura di sostegno della copertura a padiglione dell’ex deposito locomotive di Sant’Erasmo, in cui il legno viene totalmente sostituito da esili tondini in ferro, per realizzare travature reticolari atte a sostenere circa 30 metri di luce libera, mentre nel sistema di pilastri e capitelli che circondano lo spazio viene addirittura impiegata la ghisa. Come si è già accennato sono però le coperture dei primi edifici in cemento armato a suscitare maggiore interesse, per via della loro innovazione data proprio dall’uso del cemento (a volte, anche accostato al laterizio o al vetro/mattone), con cui vengono realizzate travature reticolari, strutture a guscio e altre soluzioni progettuali, il cui principale obiettivo consiste nel garantire la massima illuminazione naturale possibile, necessaria allo svolgimento dei vari cicli produttivi. Un primo esempio atto a testimoniare la voglia da parte dei progettisti dell’epoca di dar luogo a nuove ardite progettazioni è la copertura del salone della filatura del Cotonificio di Pietro Ajroldi. Quest’ultima, realizzata con volte ribassate laterocementizie, finestrate nelle asole con infissi apribili a vasistas, assolve una triplice funzione: impedire l’accumulo di polveri, illuminare gli ambienti e definire spazialmente gli ambienti interni di quello che, per i fattori appena elencati, può essere considerato uno dei migliori esempi di architettura industriale italiana.13 La struttura sorgeva nella collina di Partanna Mondello e, per via dell’altezza variabile degli ambienti interni, sembrava inserirsi perfettamente all’interno della collina stessa, quasi assecondandone il naturale declivio. Altrettanto significativo è l’edificio industriale per la produzione di ceramiche siciliane che Marco Zanuso progetta nello stesso periodo e nella medesima zona per conto della CEDIS: esso risulta caratterizzato da lunghe travi in cemento armato aventi la forma di “Y”, di modo che possano, altresì, essere utili allo smaltimento delle acqua meteoriche; travi che, fiancheggiate da infissi in ferro-finestra e sormontate da solai del tipo SAP (senza armatura provvisoria), si innestano su pilastri aventi un interasse di ben 12 metri e scanalati al fine di “ospitare” gli impianti. Infine l’imponente vetrata che contraddistingue la facciata dell’edificio detta l’ingresso prevalente della luce lungo una sola direzione. E’ altresì innovativo l’uso che Pietro Scibilia14 fa del cemento armato nella struttura di sostegno 13 14 28
Metron, 1952 F. Scibilia, N. Scibilia, Pietro Scibilia Ingegnere Architetto (1889-1971), Palermo 2013.
delle coperture del nuovo stabilimento tessile della Gulì, che viene assimilata dallo stesso Gulì a quella del Lingotto di Torino15: qui le travature reticolari in cemento armato, sagomate a shed, sostengono il solaio di copertura realizzato con falde in laterocemento. In particolare, una singola travatura sorregge due shed, ottenendo come risultato un raddoppio dell’interasse tra i pilastri e soddisfacendo, in tal modo, l’esigenza di grandi spazi interni senza alcun sostegno intermedio.
Interno della fabbrica Gulì, Palermo - Italia
15 R. Cedrini, Tessitura Gulì: un “pezzo” della storia di Palermo, in «Rivista Mineraria Siciliana», n. 5, settembre-ottobre 1994. 29
Si nota, pertanto, come il cemento armato sia l’assoluto protagonista di questo periodo, se non altro per le sue potenzialità espressive e per le innegabili prestazioni meccaniche. Risultati che possono essere resi ancor più utili ai cicli produttivi se nei tamponamenti vengono utilizzati materiali innovativi come il laterizio, pieno o forato, fondamentale per l’areazione di ambienti di stoccaggio. In quest’ottica sono estremamente suggestivi i laterizi, apparentemente posizionati in modo casuale, ma nella realtà studiati attentamente dalla fabbrica Vernengo, e la loro messa in opera nei sili dell’Agrumaria San Lorenzo. Quelli appena elencati sono soltanto alcuni degli edifici industriali nati in quel periodo e che, soltanto per il fatto che siano ancora lì a testimoniare l’abilità di una classe di artigiani in grado di realizzarli, meriterebbero di essere salvati. Il grande dispendio economico richiesto dal recupero di tali complessi, che scaturisce, tra i vari aspetti, anche dalla scarsa conoscenza degli studiosi relativa ai materiali e alle tecniche utilizzate all’epoca, rallenta, però, notevolmente il processo. L’obiettivo da perseguire deve essere, pertanto, quello di colmare queste lacune, accelerando, per quanto possibile, le fasi di studio e catalogazione dei reperti industriali, al fine di iniziare un percorso il cui fine non risiede tanto nel rifunzionalizzare un complesso, quanto nel far rivivere al meglio interi brani di città.
30
Metodi di intervento Una fase preliminare, volta ad un’adeguata riqualificazione strutturale del patrimonio esistente, riguarda la valutazione di quelle che sono le caratteristiche prestazionali “residue” dei singoli componenti tecnici dei manufatti edilizi. Tale fase si concretizza nelle indagini di tipo diagnostico relative allo stato di un edificio, prima e dopo l’adeguamento strutturale, condotte sulla base delle recenti normative, il cui principale obiettivo è quello di assicurare la qualità e il buon esito degli interventi. La normative che, in Italia, regolano e disciplinano le metodologie di intervento diagnostico sono quelle più recenti, riguardanti le opere di nuova realizzazione, atte a lasciare sempre meno spazio all’interpretazione arbitraria su come eseguire le suddette indagini, essendo quest’ultime indispensabili all’interno di un processo di recupero dato che, da queste e dai relativi esiti, dipendono le successive fasi di intervento. E’ proprio questa concatenazione di interventi, definita “processualità progettuale”, il vero obiettivo delle norme, assodato che soltanto attraverso una progressiva analisi, che parte dall’individuazione delle esigenze da soddisfare e termina con la definizione dei requisiti prestazionali richiesti, è possibile ottenere la soluzione progettuale ottimale. Una procedura indicata per la conduzione delle indagini in situ consiste nello scomporre il “sistema edificio” in due diverse tipologie di classi: classe di unità tecnologiche e classe di elementi tecnici. Tale suddivisione nasce dalla considerazione secondo cui sia possibile racchiudere all’interno di una singola classe svariati elementi, apparentemente diversi tra loro, ma caratterizzati da condizioni di esercizio e fattori espositivi talmente simili da indurre a considerare situazioni patologiche equivalenti che, unite alla componente tecnologica, consentono la standardizzazione delle indagini appositamente suddivise per gruppi omogenei. L’ambito tecnologico, ad esempio, si basa su un sistema di fattibilità che fa riferimento a più aspetti: realizzabilità, legata alla semplicità esecutiva; utilizzo di attrezzature speciali, connesso ad una manodopera altamente specializzata; sicurezza, in termini di stabilità e praticabilità; durabilità, legata, tra gli altri, alla resistenza agli agenti atmosferici; manutenibilità. Dal contesto tecnologico, poi, mantenendo intatta la procedura sopra descritta, si passa agli altri ambiti tra qui quello funzionale, estetico, sociologico ed economico, facendo attenzione a non trascurare nessuno di questi, al fine di evitare di compromettere l’esito degli interventi aumentando, per contro, le situazioni di criticità. Analizzati i singoli ambiti, la fase successiva riguarda l’individuazione dei criteri con cui con31
durre gli interventi di riqualificazione, cominciando dalla scelta dei materiali da utilizzare per il risanamento degli elementi strutturali. Negli ultimi anni si è largamente diffuso l’impiego dei materiali fibro-rinforzati (tessuti strutturali, reti polimeriche) e dei compositi avanzati, i quali, oltre a garantire elevate prestazioni meccaniche, sono talmente resistenti nei confronti di azioni di natura sia sismica che chimica (in ambienti fortemente inquinati), da comportare un prolungamento della vita utile di una struttura di circa il 20% rispetto ai valori iniziali. Ulteriori benefici si riscontrano anche in fase di messa in opera, in cui un loro utilizzo, per via della leggerezza e maneggevolezza, induce ad una notevole diminuzione sia dei tempi di installazione che, conseguentemente, dei costi relativi alla manodopera e sono, altresì, ritenuti ideali nel caso sia necessario apportare varianti in corso d’opera a seguito di inconvenienti scaturiti in sede di progettazione esecutiva. Oggi, nel settore edile, i materiali compositi avanzati sono principalmente utilizzati in quegli edifici che ricadono in zone ad elevato rischio sismico, per i quali si rende indispensabile l’attuazione di tecniche di risanamento volte ad ottimizzare la struttura, rendendola, pertanto, conforme ai livelli di sicurezza previsti. Una delle tecniche più utilizzate, in particolar modo per le strutture cementizie, è quella che prevede la realizzazione di placcaggi effettuati con laminati in fibre di carbonio e filamenti monodirezionali che, per intenderci, vanno a sostituire i tradizionali placcaggi in acciaio.
32
33
34
35
INDUSTRIA CONSERVIERA BENIGNO E GRECO Contesto urbano La fabbrica è situata all’interno dell’antico quartiere della Kalsa in un’area un tempo a vocazione rurale, delimitata da una cortina di edifici a due elevazioni in via dello Spasimo e dall’Oratorio dei Bianchi. La collocazione è abbastanza atipica dal momento che si trova all’interno del centro storico a differenza delle altre fabbriche sia di Palermo che delle altre città che venivano costruite nelle periferie o in prossimità delle località o comuni confinanti. La Kalsa è uno dei quartieri più antichi della città di Palermo, ed è parte del mandamento denominato Tribunali che nel corso dei secoli ha visto forti trasformazioni sia a causa delle dominazioni succedutesi in Sicilia, sia a causa dei bombardamenti del 1943 che hanno fortemente danneggiato e, in alcuni casi, totalmente distrutto interi edifici. Negli ultimi vent’anni sono stati avviati diversi interventi di recupero in tutto il centro storico e in particolare nel mandamento in questione e oggi l’intero scenario urbano si presenta in una situazione molto eterogenea: da una parte interventi di riqualificazione già realizzati e completati, dall’altra diverse aree in condizioni particolarmente degradate. Le vie che fanno da cornice all’area oggetto del nostro studio sono le vie Lincoln, Carlo Rao, Castrofilippo, Alloro e Foro Italico Umberto I. Appare evidente come la fabbrica si trovi in un punto strategico, in un nodo centrale costituito da due ipotetici assi ortogonali: uno va da Piazza Magione fino a Piazza Kalsa e Foro Italico, l’altro dall’Orto Botanico e Villa Giulia fino a Piazza Marina. La via Alloro è sempre stata una delle vie più importanti e ricche del mandamento Tribunali, nei secoli residenza di alcune delle famiglie più importanti della città. Gli eventi storici hanno però fatto si che oggi la via sia costituita da alcuni edifici in stato di rudere come Palazzo Cefalà e Palazzo Bonagia ( danneggiato durante la seconda guerra mondiale, nel 2004 si sono avviati interventi di consolidamento e di restauro dell’esistente da destinare a spazi espositivi), alcuni in fase di restauro e altri restaurati e ristrutturati come Palazzo Abatellis (sede della Galleria Regionale), Palazzo Palagonia (sede di uffici comunali), Palazzo Sambuca (sede dell’omonimo ristorante a piano terra e residenze ai piani superiori), Palazzo S. Gabriele e Palazzo Castrofilippo (destinati a residenze private). Questa via è ancora oggi un asse viario molto importante sia culturalmente, per la presenza di numerosi edifici civili e religiosi di carattere monumentale, che commercialmente, per la presenza delle attività commerciali e di ristoro. 36
La via Torremuzza si sviluppa all’interno del tratto dell’antica cinta muraria che difendeva la città dagli attacchi via mare, parallelamente al Foro Italico e, insieme alla via Butera e via Nicolò Cervello, collega la parte finale del Cassaro, l’odierno Corso Vittorio Emanuele, con la Porta Reale che fu aperta nel 1784. Lungo la via si incontra l’attuale Piazza Kalsa, recentemente riqualificata, sulla quale si apre verso il mare l’antica Porta dei Greci, divenuta parte integrante del Palazzo Forcella De Seta che oggi ospita alcuni servizi di direzionalità privata. Così come in via Alloro, anche nella via Torremuzza troviamo edifici monumentali sia civili (Palazzo Angiò, sede del Teatro Ditirammu, e Palazzo Torremuzza, sede di un B&B, residenze attività commerciali e di ristoro al pianto terra), che religiosi (Chiesa di Santa Maria della Pietà della Kalsa, Chiesa di San Mattia, L’ex Noviziato dei Crociferi, Chiesa di Santa Teresa alla Kalsa) in buone condizioni e recentemente restaurati. Da Piazza Kalsa, proseguendo verso la Porta Reale lungo la via Nicolò Cervello, si trovano principalmente edifici residenziali con quattro e cinque elevazioni fuori terra i cui piani bassi sono destinati ad attività commerciali . Attraversando la Porta Reale si esce dal tessuto del Centro Storico e si giunge su Via Lincoln che fu realizzata all’esterno delle antiche mura e collega il mare con la Piazza Giulio Cesare dove fu costruita la Stazione Centrale. È una delle vie più importanti del
Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, Palermo - Italia 37
mandamento Tribunali ed ha un assetto completamente diverso rispetto alle strade interne al Centro Storico: si presenta rettilinea e molto larga. Vi venne realizzata una delle ville più belle di Palermo, Villa Giulia, l’Orto Botanico e il Palazzo Jung costruito nella prima metà dell’Ottocento dall’omonima famiglia che vi stabilì la residenza e impiantò un’impresa di esportazione di frutta secca, essenze, agrumi fino al 1958; oggi è diventata una Galleria espositiva. Con l’arrivo degli immigrati, via Lincoln si è arricchita di attività. Partendo da queste vie si può raggiungere l’ex fabbrica Dagnino (successivamente fabbrica di conserve Benigno e Greco): da via Alloro si arriva alla fabbrica passando o per la via Vetriera e via dello Spasimo dove è situato l’ingresso carrabile, o per il vicolo della Salvezza giungendo direttamente nella Piazzetta dei Bianchi dove troviamo l’ingresso pedonale. La via Vetriera, insieme a via Alloro e piazza Magione, è uno dei simboli della rinascita del quartiere: vi si trovano edifici in fase di restauro o già restaurati, come il Palazzo Sambuca, la vecchia casa della Famiglia Borsellino (diventata la sede di corsi privati di formazione) e palazzi che prospettano anche su piazza Magione nei quali si trovano diverse attività di ristoro, quali bar e pub, ed edifici che invece richiederebbero interventi di consolidamento. Nella Piazzetta dei Bianchi sono presenti due piccole aree verdi in buone condizioni ma anche diverse aree molto degradate con edifici fatiscenti. Inoltre, di fronte la piazzetta, a conclusione della via Sopra le Mura di Santa Teresa, fu costruita una cortina di case che non sono mai state completate e che sono diventate l’alloggio di alcuni senza tetto del quartiere. Dietro questi edifici, in corrispondenza della piazzetta del Pallone, raggiungibile dalla via Lincoln e da via Nicolò Cervello percorrendo rispettivamente vicolo del Pallone e via del Pallone, sono appena visibili i resti delle antiche mura ben camuffati del degrado della piazzetta del Pallone e delle omonime strade. Altre parti delle mura potrebbero essere riportate alla vista di tutti con la demolizione dei “catoi” dei vicoli del Giuco e del Fosso. Anche la via dello Spasimo ha subito alcuni interventi di restauro: nuova pavimentazione, pedonalizzazione della strada, restauro del complesso dello Spasimo, oggi sede del “Brass Group”, e restauro di alcuni edifici con l’apertura di alcune attività commerciali e per la ristorazione ma ad oggi lungo la via troviamo altre aree degradate che dovrebbero essere recuperate: un esempio sono la cortina di case basse che delimita l’area della fabbrica e la parte antistante gli edifici popolari realizzati nel dopoguerra. La via Carlo Rao è la strada che collega via Lincoln con Piazza Magione ed è costituita da diversi edifici tutti pressoché della stessa altezza utilizzati per attività lavorative ai piani terra e residenze private ai piani superiori. A conclusione della via è situato un parcheggio destinato 38
Oratorio dei Bianchi, Palermo - Italia 39
principalmente ai residenti. Tra gli edifici che si affacciano su Piazza Magione ve ne sono alcuni fatiscenti accanto al complesso dello Spasimo che, tramite interventi di riqualificazione, potrebbero diventare ulteriori punti di forza dell’intera area. Dallo studio condotto attraverso carte tematiche emerge che, oltre a residenze, attività commerciali, ristorazione e luoghi di culto, nell’area troviamo una scuola elementare che si affaccia su Piazza Magione, un importante hotel sul Foro Italico, alcuni B&B, aree espositive ( palazzo Abatellis, l’Oratorio dei Bianchi e Palazzo Jung) e due teatri: il già citato Teatro Ditirammu (nel Palazzo Angiò in via Torremuzza) e il Teatro Garibaldi su via Castrofilippo, restaurato di recente ed in cui si realizzano laboratori per attori professionisti e semiprofessionisti, incontri aperti al pubblico, formazione sui nuovi linguaggi e sui mestieri della scena. Risulta quindi evidente la vocazione culturale del quartiere, vista come occasione di rinascita sociale, in grado di innescare cambiamenti positivi, rigenerazione urbana, per una nuova coscienza di luoghi che spesso rischiano di cadere nel degrado e nell’abbandono.
40
Cenni storici La fabbrica risale agli ultimi anni dell’Ottocento, anni in cui il Signor Nicolò Dagnino acquisisce l’area e fa costruire i primi fabbricati1, donati in seguito al figlio Giacomo Luigi. Nello specifico la donazione comprendeva, insieme ad altri beni, il “Fabbricato sito in Palermo piazza dello Spasimi allora ai n° 49-51-53-55. Ad oggi col solo n° 27, composto di corpi di prima elevazione, con tutte le sopraelevazioni, accessori, pertinenze, aria soprastante e laterale, terreno adiacente, in parte fabbricato e d in parte fabbricabile, quale terreno ha anche l’ingresso dalla Piazza dei Bianchi, senza indicazione di numero, tutto incluso e niente escluso. Confinante tutto il lotto immobile con la via dello Spasimo, con la proprietà della Chiesa dei Bianchi, con l’Archivio di Stato, con i Signori Di Chiara e Cappello” 2. Dopo problemi economici e chiusura per cessata attività, Giacomo Luigi Dagnino vende al Signor Lorenzo Messina l’intera area e gli “edifici un tempo adibiti ad uso di fabbrica di conserve alimentari, da tempo chiusi per cessata attività”, il forno e la ciminiera, insieme ai macchinari presenti nella fabbrica3.
Fattura della ditta Nicolò Dagnino (1912)
Illustrazione pubblicitaria della Pasticceria del Massimo, di proprietà di Nicolò Dagnino
1 Cfr. atto del 10 Giugno 1888, atto del 15 Giugno 1890, atto del 7 Ottobre 1906, Notaio Domenico Gioacchino Cavarretta Procida 2 Cfr. atto di donazione del 16 Marzo 1908, Notaio Domenico Gioacchino Cavarretta Procida, rep. n. 15399 3 Cfr. atto di compravendita del 14 marzo 1929, Notaio Ernesto Lima, rep. 18209 41
Allegato all’atto notarile del 1929 42
Nel sopracitato atto di compravendita è inoltre allegato uno stralcio del Piano di Risanamento della Città di Palermo, in cui è possibile distinguere quelle che erano le sagome dei fabbricati originari. La produzione riprende e continua fino all’acquisizione da parte delle famiglie Benigno e Greco, che espansero la fabbrica costruendo altri due padiglioni. È possibile datare a quel periodo le prime aggiunte edilizie. In particolare una stecca edilizia a doppia altezza, ortogonale al confine con l’Archivio di stato, la cui con una copertura retta da travi reticolari in ferro, ulteriore testimonianza della realizzazione postuma. L’area della fabbrica comincia a quel punto una fase di quasi totale saturazione del cortile e degli spazi adiacenti agli edifici. Con la guerra, il danneggiamento di alcuni fabbricati e la chiusura della fabbrica di conserve, l’area fu data in affitto separatamente e a diverse attività che per necessità produttive cominciarono il processo di progressiva addizione dei fabbricati e di saturazione dell’ampio giardino. Tali aggiunzioni erano spesso improvvisate e precarie, ad esclusione di una struttura con con volta in cemento armato di cui oggi non rimane alcuna traccia. Recentemente, l’intera area è stata acquistata ed è oggetto di un progetto di recupero e rifunzionalizzazione da parte dello Studio PL5 Architettura.
Descrizione fabbrica L’intero isolato è costituito da uno stratificato insieme di fabbricati aggiunti nel tempo a quelli che una volta costituivano l’originario assetto dello stabilimento per la produzione di conserve di pomodoro. La più evidente testimonianza della passata attività produttiva svolta in quest’area è sicuramente la ciminiera, che ricorda una colonna classica non solo per forma e rastrematura bensì per la cura del basamento e del coronamento. Troviamo infatti mattoni disposti di taglio e aggettanti insieme a pezzi speciali messi in opera per dare forma ad abachi ed echini nel basamento, archetti acuti e ulteriori aggetti nella parte sommitale che trova il suo coronamento a 30 metri di altezza. Ad essa è connesso un volume costituito di due elevazioni con struttura in muratura e intonaco in finto laterizio, che sorregge il sistema di fornace e caldaia necessario per la produzione di vapore. Oggi come allora sono facilmente riconoscibili due fabbricati principali: la Sala Pomidoro e la Sala Stagnini. La prima costituiva il cuore pulsante della produzione, caratterizzata da un ampio spazio unico coperto da capriate lignee su cui si poggia un manto di copertura in tegole del tipo marsigliese, illuminata da un ampio lucernario e sulle due opposte pareti da due aperture circolari decorate con “rosoni” in ferro. La struttura portante è costituita da setti in muratura di calcarenite. Con analoghe caratteristiche e adiacente alla Sala Pomidoro troviamo la Sala Stagnini, di dimensioni più ridotte, che prendeva il nome proprio dagli “stagnini”4 usati per il confezionamento delle conserve di pomodoro che lì aveva luogo. A sud delle sale appena descritte troviamo un edificio su tre elevazioni parallelo alla via dello Spasimo, ma da questa separato da una stecca di abitazioni su due elevazioni non di pertinenza della fabbrica. Qui troviamo l’accesso principale all’area dell’ex fabbrica, caratterizzato da una copertura con volta a botte che rappresentava l’ingresso carrabile. Adiacente a questo troviamo l’ingresso all’edificio che si apre su un corpo scala che collega i tre livelli: il piano terra è costituito da ambienti voltati in muratura di calcarenite un tempo adibiti a magazzini; salendo al primo piano troviamo dei vani allineati con corridoio di disimpegno, servizi e cucina comuni che insieme costituivano gli alloggi degli operai della fabbrica; in ultima elevazione vi è infine una terrazza. 4 Appellativo delle “latte” utilizzate per contenere le conserve di pomodoro. Deriva dall’operazione di “stagnatura”, ovvero il trattamento sulla lamiera dei contenitori che veniva ricoperta di stagno, in modo da evitarne la corrosione e il passaggio del sapore ferroso ai cibi. 43
A Nord si trova l’ingresso secondario dell’intera area e, di fronte, ci si ritrova un altro corpo che si compone in più parti. Non sono ben note le funzioni che venivano svolte lì in passato, ma era già presente nell’assetto originario della fabbrica. Nella parte prossima all’Oratorio dei Bianchi la struttura è sempre in muratura di calcarenite ma l’organizzazione degli spazi è qui più articolata: la copertura a doppia falda sostenuta da capriate lignee infatti si interrompe e da lì inizia lo sviluppo di un’ulteriore elevazione anch’essa con manto a doppia falda di tegole. In adiacenza, i restanti locali presentano invece una copertura piana sorretta dalla medesima struttura portante su unico livello. L’ultimo volume rimanente si trova a Ovest dell’area di studio. Anche in questo edificio la struttura è in muratura e sono presenti capriate in acciaio con copertura a doppia falda di tegole marsigliesi. L’ambiente è unico e non possiede ulteriori elevazioni. Di successiva datazione, segno di aggiunte improprie, sono dei paramenti murari che si sviluppano in diverse direzioni e che collegano questo corpo con le mura perimetrali dell’intera area e con la sala Pomidoro. La rimanente area, all’aperto, versa in uno stato di totale abbandono ed è caratterizzato da macerie di tutti quei fabbricati di successiva e impropria costruzione, crollati o abbattuti nel corso degli anni.
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
Degradi Successivamente al rilievo dell’edificio, si è proseguito all’analisi dei fenomeni di degrado, sono state infatti osservate modificazioni quali crolli, sostituzioni provvisorie e mancanze su coperture, murature, intonaci ed altri elementi rispetto all’originaria condizione e aspetto. Tali degradi sono da ricondurre all’abbandono e alle inappropriate trasformazioni messe in atto dopo la dismissione dell’area. La muratura portante presenta diversi casi di fessurazione dovuti a dissesti dell’apparato murario, a problematiche di tipo meccanico, oppure ancora degrado di interfaccia tra laterizi e malte, come è possibile notare sul volume della fornace e della caldaia, la quale, pesando gravemente sull’apparecchio murario, ne ha provocato diverse soluzioni di continuità (Figura 1.1, 1.2). Sono visibili inoltre mancanze: la motivazione è evidente in quanto questo degrado è spesso presente in corrispondenza di innesti metallici un tempo presenti e adesso rimossi che ne hanno provocato la caduta o la perdita di materiale (Figura 2). Si può osservare inoltre in corrispondenza delle coperture (Figura 3.1) e nella parte basamentale dei paramenti murari (Figura 3.2) presenza di vegetazione: le cause sono molteplici e riconducibili solitamente ad accumuli di umidità che favoriscono quindi la proliferazione di varie specie vegetali tra i quali arbusti, muschi e piante. La presenza di vegetazione oltre a costituire essa stessa un degrado, ne diventa anche causa in quanto provoca buona parte delle disgregazioni osservabili in molti punti dei paramenti murari, provocate anche da risalita capillare e possibili reazioni tra materiali edilizi e atmosfera (Figura 4.1, 4.2). Simile alla disgregazione, per aspetto e per cause, è il distacco, definibile come soluzione di continuità tra strati superficiali del materiale, sia tra loro che rispetto al substrato e riferibile solitamente nello specifico ad intonaci: se ne distinguono diversi casi in cui è possibile osservare la conseguente caduta di strati che ne mette a nudo la muratura in calcarenite (Figura 5.1, 5.2). Nei punti in cui ricadono i canali per lo smaltimento delle acque, e non solo, l’intonaco presenta fenomeni di degrado in quanto la presenza di umidità in loro prossimità genera patina biologica (Figura 6). Le trasformazioni, le aggiunte e le eliminazioni di parti avvenute nel corso degli anni sono la causa delle diverse incrostazioni osservabili in molti paramenti murari: si tratta quindi di depositi generalmente compatti e ben aderenti allo strato sottostante, composti da sostanze inorganiche (Figura 7). Casi di efflorescenza sono visibili alla base della ciminiera e sono probabilmente dovuti ad umi72
dità di risalita capillare (Figura 8); inoltre i laterizi di cui questa è costituita presentano dei fenomeni di esfoliazione. Infine si osservano macchie in diverse parti di muratura, date dalla presenza di biodeteriogeni o a volte dall’ossidazione di elementi metallici in corrispondenza di quei punti; tali elementi metallici, insieme ad aperture ed aggiunzioni di elementi impropri costituiscono un generale degrado di natura antropica (Figura 9).
1.1 - fessurazioni
1.2 - fessurazioni 73
2 - mancanza
3.1 - presenza di vegetazione
3.2 - presenza di vegetazione 74
4.1 - disgregazione
4.2 - disgregazione
5.1 - distacco 75
5.2 - distacco 76
6 - patina biologica
7 - incrostazione
8 - efflorescenza
9 - degrado antropico 77
78
79
PROGETTO Casi Studio Sulle rive del Tamigi londinese vi era una centrale elettrica che smise di produrre energia nel 1981. Solo 20 anni più tardi ne è stata effettuata la riqualificazione, che ha fatto sì che questa diventasse uno dei centri culturali più belli e importanti del Regno Unito. Infatti proprio dove sorgeva una volta quella centrale elettrica c’è l’attuale Tate Modern, epicentro culturale di Londra che ha risollevato le sorti di un intero quartiere: il Southwark. Il museo, che ospita ogni anno migliaia di visitatori, è solo un esempio delle ex strutture industriali trasformate in veri e propri poli culturali. A Milano l’ex sede della Breda è diventato un luogo dedicato all’arte e alla cultura contemporanea. Nel 2012, infatti, hanno avuto luogo degli interventi di restauro miranti al mantenimento delle caratteristiche del vecchio edificio. Caratterizzato da mattoni a vista rossi, l’Hangar Bicocca presenta molte similitudini con il Tate Modern: così da luogo di produzione di carrozze ferroviarie, locomotive, macchine agricole e anche aerei e proiettili durante la prima guerra mondiale, è diventata la sede di uno spazio espositivo che ospita in via permanente l’immensa installazione di Anselm Kiefer “I sette palazzi celesti”, nonché mostre temporanee gratuite, un bar ristorante di qualità. 80
Tate Modern, Londra - Regno Unito
Hangar Bicocca, Milano - Italia
Un altro esempio milanese si ha negli spazi dell’ex Ansaldo, in cui è nato il Museo delle culture (Mudec): il progetto viene avviato nel 1990 quando il Comune di Milano acquista l’ ex zona industriale dell’Ansaldo per destinarla ad attività culturali. Le fabbriche dismesse, veri e propri monumenti di archeologia industriale, hanno lasciato il posto a laboratori, studi e nuovi spazi creativi. In questo scenario il Comune di Milano ha progettato un polo multidisciplinare dedicato alle diverse testimonianze e culture del mondo, sede espositiva delle civiche Raccolte etnografiche. Oggi gli spazi industriali ospitano spazi espositivi in cui si trovano oltre 7000 opere d’arte, oggetti d’uso, tessuti e strumenti musicali provenienti da tutti i continenti, dando l’opportunità di partecipare ad una serie di eventi e iniziative a cura delle comunità internazionali presenti sul territorio. Museo delle Culture MUDEC, Milano - Italia
La nuova sede della Fondazione Prada, inaugurata lo scorso 9 maggio, è stata progettata dallo studio di architettura OMA, guidato da Rem Koolhaas ed è il risultato della trasformazione di una distilleria risalente agli anni Dieci del Novecento. Caratterizzata da un’articolata configurazione architettonica che combina edifici preesistenti e tre nuove costruzioni, il complesso si sviluppa su una superficie totale di 19.000 metri quadri, di cui 11.000 metri quadri utilizzati per attività espositive.
Fondazione Prada, Milano - Italia
81
Lingotto, Torino - Italia
Punta della Dogana, Venezia - Italia
82
La città italiana che più di tutte ha deciso di puntare sulla riconversione industriale è Torino. Dopo anni di depressione economica, chiusure e difficoltà, il capoluogo piemontese è diventato un laboratorio dove l’arte ha acquisito sempre più un ruolo predominante. Il Lingotto, la Fabbrica italiana per eccellenza che ospitava le catene di montaggio della Fiat, oggi è un centro polifunzionale per le fiere, per lo shopping, per l’intrattenimento e per la cultura. Sul tetto, infatti, si trova la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli che espone opere della collezione dell’omonima famiglia, nonché mostre temporanee.
A Venezia, tra le rive del Canal Grande e del Canale della Giudecca, si trova la Punta della Dogana, un complesso di ex magazzini affiancati e disposti lungo la laguna. La Punta della dogana nella zona di Dorsoduro a Venezia nasce nel XV secolo e si chiamava allora Punta del sale; dopo decenni di inutilizzo a seguito della sua dismissione, nel 2006 Palazzo Grassi si aggiudica l’incarico e ne affida il progetto di restauro all’archistar giapponese Tadao Ando. L’edificio, così particolare e caratterizzante, cambia così funzione per la prima volta nella sua storia, diventando luogo di esposizioni artistiche contemporanee.
MACRO Testaccio, Roma - Italia
Cantieri Culturali della ZIsa, Palermo - Italia
In un ex macello al Testaccio di Roma è stato creato un museo: si tratta del Macro, un grande esempio di architettura industriale monumentale. I padiglioni originari furono costruiti tra il 1888 e il 1891 da Gioacchino Ersoch. Oggi il Macro Testaccio, seconda sede del museo d’arte contemporanea di Roma, è sede di mostre innovative e sperimentali. I suoi spazi fanno parte di un complesso che è oggi al centro di un piano di riqualificazione volto a conferirgli una forte ed incisiva vocazione artistica e culturale – già da qualche anno connotato dalla presenza della Facoltà di Architettura e dell’Accademia di Belle Arti.
Nelle officine Ducrot di Palermo si realizzavano idrovolanti e aerei da guerra, ma quando la produzione è stata interrotta gli spazi non sono più stati riutilizzati per anni. Lo spazio Zac, Zisa Zona Arti contemporanee, ha lentamente riattirato l’attenzione dell’amministrazione comunale organizzando qui mostre di artisti emergenti o internazionali.La bellezza degli ex capannoni non merita e non deve essere lasciata nel degrado. Le ex Officine Ducrot si trovano alle spalle del Castello della Zisa e contengono 23 capannoni, con una naturale vocazione a diventare una straordinaria cittadella della cultura, sull’esempio del passato, qui infatti furono realizzati pregevoli mobili liberty disegnati da Ernesto Basile. 83
Interventi L’analisi dei degradi che, a seguito di una grave mancanza di manutenzione, caratterizzano gran parte dell’edilizia italiana, rappresenta la fase propedeutica al tipo di intervento da effettuare, di modo che quest’ultimo risulti efficace, duraturo e restituisca all’edificio in questione le caratteristiche statiche e funzionali di un tempo. Nella quasi totalità dei casi, come in quello oggetto di studio della presente tesi, risulta necessario considerare in primo luogo la presenza di elementi aggiunti in un secondo momento alla fronte e che, pertanto, non fanno parte del progetto iniziale: cavi elettrici, elementi metallici, incrostazioni applicate sono soltanto alcuni degli elementi “estranei” alla fronte che, non ricoprendo alcuna funzione statica rilevante, ed essendo, in molti casi, nocivi alla conservazione dell’opera, devono essere rimossi al fine di restituire a quest’ultima l’aspetto originario. Si prevedono operazioni di picchettatura e raschiatura per eliminare le incrostazioni e i rappezzi di malta rinvenendo così l’intera muratura. Un’ulteriore rimozione riguarda gli elementi verticali in muratura che, oltre a non far parte del complesso edilizio originario, non sembrano possedere caratteri storici tali da prevedere degli interventi di restauro. Altri interventi sono quelli finalizzati al trattamento dei degradi di natura biologica, come la presenza di vegetazione, per i quali si prevede l’applicazione di biocida e diserbo chimico, con la conseguente rimozione delle sostanze biologiche tramite appositi metodi meccanici. Per ciò che concerne il rivestimento esterno, si opta per il rifacimento di un intonaco tradizionale a tre strati: rinzaffo, sestiato e finitura. Da un punto di vista strutturale l’intervento si esplica nella rimozione e nel conseguente ripristino di solai e coperture: per i primi si prevede un tradizionale rifacimento con travetti e impalcati in legno e con un massetto di malta sopra cui collocare una nuova pavimentazione; per le coperture si ipotizza, invece, un sistema di capriate, funzionali da un punto di vista estetico e opportunamente analizzate e dimensionate per garantire un’adeguata resistenza meccanica. Il complesso risulta già caratterizzato da capriate lignee tradizionali ad eccezione del corpo Nord, costituito, invece, da capriate in ferro intelaiate, atte a sostenere il sistema di copertura con travetti in legno, i quali, a loro volta, hanno il compito di reggere un impalcato ligneo su cui si prevede l’applicazione di una guaina impermeabilizzante per il successivo inserimento di tegole tradizionali siciliane (coppi). Ulteriori interventi riguardano la sostituzione degli infissi presenti, con altri più moderni costituiti da un telaio in alluminio e un tamponamento in vetrocamera, il ripristino delle aperture, 84
laddove queste erano originariamente collocate, aggiungendone altre, al fine di ottenere una migliore fruizione dei nuovi spazi creati, ed infine il rifacimento degli impianti per ripristinare il livello funzionale del complesso. E’ estremamente importante, infine, non tralasciare quei resti di archeologia industriale che, data l’inestimabile rilevanza, saranno parte integrante del progetto, ovvero la ciminiera e la struttura contenente la caldaia. Si prevedono, pertanto, appositi interventi di cerchiatura (fin dove sono ancora visibili i crepacci) sulle fessurazioni verticali della ciminiera, dovute a sforzi di trazione sulla muratura, in maniera tale da impedire il progredire di deformazioni che, alla lunga, andranno inevitabilmente ad incidere sulla stabilità della struttura.
85
Idea progettuale Viviamo in un’epoca di profondo cambiamento dei sistemi di organizzazione della vita sociale nelle città all’insegna di una maggiore complessità. La sfera pubblica, ossia l’insieme delle iniziative finalizzate a trattare istanze collettive, chiede di essere rinnovata nei contenuti e nei meccanismi organizzativi. Principale scopo dell’intervento è quindi il rinnovamento dell’area che, restituita alla collettività, possa essere fautrice di nuove dinamiche di aggregazione. Gli edifici, una volta sede di produzione materiale e spesso di disagio sociale, potranno divenire fabbriche di crescita culturale, riscatto e aggregazione sociale. Dall’accurata analisi storico costruttiva dello stato di fatto è stato possibile riconoscere le preesistenze e gli edifici originari, comprendere il ciclo produttivo degli ambienti adibiti alla produzione e al confezionamento, le funzioni della ciminiera, della caldaia e del forno. Ognuno di questi elementi è di fatto un pezzo unico, ma il grande valore sta nell’insieme che quindi deve essere indubbiamente preservato. Autentica archeologia industriale, monumento del lavoro, si è teso a mantenere in sito l’intero apparato del forno-caldaia collegato all’imponente ciminiera; l’obiettivo è la conservazione della facies del vecchio complesso, un atteggiamento che non comporta alcuna limitazione all’uso degli spazi. Al contrario, è stato possibile eseguire un interessante esercizio progettuale al fine di utilizzare gli esistenti volumi come involucri edilizi. Le soluzioni progettuali “interpretano” il complesso e i suoi spazi interni, cercando di mantenere quanto più possibile i caratteri e di esaltarne i tratti distintivi, conferendo al complesso una nuova spazialità architettonica, organizzando efficientemente gli spazi edificati e non, i pieni e i vuoti come teatro di nuove attività e flussi. A questo approccio che recupera e riconverte l’esistente senza stravolgimenti né forzature si affianca la ricerca del maggior comfort funzionale, strutturale e di sicurezza. L’intero assetto funzionale persegue l’obiettivo della massima flessibilità, intesa non come modificabilità, provvisorietà o indifferenza all’uso, bensì come la possibilità di diversa utilizzazione in rapporto alle varie esigenze o a condizioni operative mutevoli. È quindi di notevole importanza il rapporto profondo con la preesistenza su cui si innescano le ragioni forti della funzionalità, del comfort, della sostenibilità e della sicurezza; non ultima l’attenzione alla fattibilità tecnica ed al richiesto contenimento dei costi. La riconversione delle aree industriali dismesse costituisce spesso una vera e propria azione di tipo imprenditoriale con la valutazione dei costi da investire e i ricavi da recuperare. Tale 86
operazione deve confrontarsi non solo con problematiche di natura economico-finanziaria ma anche con le procedure tecnico-amministrative della pianificazione urbanistica, quindi vincoli politici e sociali: la riclassificazione della destinazione d’uso dei piani urbanistici, le demolizioni e bonifiche, la gestione dei servizi, la manutenzione. È spesso necessario attrarre l’interesse di investitori privati, ma allo stesso tempo saper opportunamente utilizzare i finanziamenti pubblici concernenti ad esempio l’acquisizione delle aree e le opere di bonifica. Le più frequenti destinazioni d’uso sono quelle residenziali e terziarie affiancate dal commerciale, centri di aggregazione, servizi rivolti alla comunità, impianti sportivi e spazi di verde urbano. Molto rare risultano invece le iniziative di reindustrializzazione, specie se come in questo caso l’area ricade entro un tessuto urbano storico o comunque consolidato. A tal proposito, la creazione di spazi dedicati ad attività di autofinanziamento rende possibile la gestione dell’intero centro culturale. All’interno dell’esteso volume con copertura sostenuta da capriate in acciaio sono stati infatti progettati spazi dedicati al coworking, luoghi di condivisione dell’ambiente di lavoro in cui si avrà quindi la possibilità di lavorare in modo individuale o in gruppo, usufruendo di servizi di ambito professionale quali rete Wi-Fi, macchine fotocopiatrici, piani di lavoro, plotter, computer, stampanti, proiettori, lavagne luminose. Il coworking costituirà allo stesso tempo un’ entrata economica, ma anche una produzione continua di idee e un’occasione di interscambio e luogo di incontro di persone che pur lavorando in modo indipendente siano interessate alla sinergia che può scaturire lavorando a contatto con persone e professionalità diverse. Ai servizi per uso prettamente lavorativo se ne affiancheranno altri ricreativi e di ristoro. In particolare nel volume fabbricato adiacente quello adibito a coworking si prevede un bistrot-caffetteria a servizio di tutti gli utenti e visitatori del centro. Questo si svilupperà in due livelli, il primo a quota strada provvisto di cucine, bancone, tavoli e servizi igienici, e una terrazza al livello superiore dove sarà possibile sostare e consumare all’aperto. Alla zona di ristorazione si accede dalla corte interna, caratterizzata da spazi organizzati a verde, sedute e specchi d’acqua; tali spazi sono circoscritti dai sopradescritti coworking e bistrot, dalla ciminiera e dalla Sala Pomidoro. Quest’ultima, insieme alla Sala Stagnini, costituirà uno spazio adibito a proiezioni, esposizioni ed eventi: all’interno della Sala Stagnini avrà luogo l’esposizione permanente di alcuni macchinari e strumenti utilizzati per la produzione, insieme ad oggetti e stampe inerenti alle conserve di pomodoro al fine di preservare la memoria storica dei luoghi; nella Sala Pomidoro troveranno spazio invece, esposizioni temporanee di lavori e proiezioni prodotte nei laboratori d’arte 87
localizzati al piano terra del volume parallelo alla via dello Spasimo. Tali ambienti sono costituiti da un laboratorio di pittura e scultura, e un laboratorio di fotografia e cinematografia. Si accede al piano superiore tramite il corpo scala preesistente e qui sono stati realizzati degli alloggi provvisti di spazi comuni e cucina per ospitare temporaneamente gli artisti. Sempre tramite lo stesso corpo scala si trova al secondo livello una terrazza fruibile dagli artisti che alloggiano al piano inferiore. L’ultimo edificio che circoscrive la corte interna è il corpo della ciminiera, mantenuta volutamente previo opportuno consolidamento ed eliminazione delle aggiunte presenti a livello della caldaia. Nella rimanente parte dell’edificio in cui si trova il bistrot, trovano collocazione gli uffici amministrativi dell’intero centro di aggregazione. L’edificio del coworking, data la sua collocazione e funzione nell’area di progetto, costituisce una cerniera tra la corte circoscritta dal resto degli edifici della fabbrica e un altro spazio esterno, delimitato invece dalle altre proprietà limitrofe, in cui verranno allestite esposizioni temporanee all’aperto e collocati dei piccoli volumi indipendenti che costituiranno gli atelier degli artisti.
88
89
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
100
101
102
103
104
105
106
107
108
109
110
111
112
113
114
115
116
117
Arte in “scatola” Dalla precisa volontà di preservare intatti i padiglioni della fabbrica è nata l’idea di progettare dei piccoli involucri indipendenti che possano racchiudere la funzione cardine di riqualificazione. L’aggregazione culturale, infatti, avverrà tramite l’interazione tra i principali soggetti e utilizzatori della fabbrica: gli artisti e i professionisti. Il progetto prevede due diverse tipologie di involucro, dimensionalmente identiche ma diverse nella struttura e nei materiali. Uno, essendo collocato all’interno dello spazio chiuso caratterizzato da copertura a falde su capriate in ferro intelaiate, sarà in vetro con struttura leggera in acciaio, in modo che la trasparenza del materiale dia a chi è dentro l’involucro la possibilità di non sentirsi chiuso e isolato al suo interno e a chi è fuori di poter apprezzare e non percepire come ingombro la presenza del volume che vuole valorizzare ancora di più l’ambiente in cui è inserito. La funzione di questi involucri sarà quella di ospitare i luoghi riservati al coworking e quindi saranno adeguatamente arredati e forniti delle attrezzature necessarie alle attività da svolgere. All’esterno invece si troverà la seconda tipologia di involucro ideata che sarà costituita da un volume costituito da struttura in legno massello ed esternamente rivestito di pannelli in “betonwood” (cemento alleggerito da truciolato di legno); costituirà l’atelier dell’artista, che dall’interno potrà mostrare la sua attività e all’esterno esporrà il prodotto del suo lavoro, in modo che tutto il processo artistico delle sue opere possa essere oggetto di esposizione. L’idea di tali spazi trae ispirazione dalle conserve di pomodoro che un tempo erano prodotte nello stabilimento e confezionate nelle “scatole” di latta: adesso i volumi progettati ex novo rappresentano per similitudine le “scatole” che racchiudono il nuovo prodotto dell’area, che diventa quindi una fabbrica di arte e di idee. Arte in “scatola” è quindi metafora di espressione culturale, mezzo chiaro e incisivo del fine progettuale di riqualificazione.
118
Andy Warhol, Minestra in scatola Campbell I, 1968
119
120
121
122
123
124
125
126
127
128
129
130
131
132
133
BIBLIOGRAFIA Ajroldi C., “ Le Officine Ducrot tra storia e progetto, in Cantieri Culturali alla Zisa”, Palermo 1996 Arca Petrucci M., Dansero E., “Aree dismesse, fra degrado e riqualificazione ambientale”, 1995 Bertolino A., Callari A., Conti M.L., Fundarò A.M. (a cura di), “Per una storia del design in Sicilia. Reperti e testimonianze di archeologia industriale e cultura materiale a Palermo”, Vittorietti Editore, Palermo 1980 Brancato F., “ Storia dell’industria a Palermo. Dal primo Ottocento ai nostri giorni”, Giada Editore, Palermo 1991. Carandini A., “Archeologia e cultura materiale”, Einaudi Editore, Bari 1979 Cedrini R., “Tessitura Gulì: un “pezzo” della storia di Palermo”, in «Rivista Mineraria Siciliana», n. 5, settembre-ottobre 1994 Corrao F., “La città di Palermo dal 1860 al 1910, in Palermo e la Conca d’oro”, Atti del VII Congresso Geografico Italiano, Palermo 1911 Di Miceli V., “Cantieri culturali alla Zisa : esempi di Archeologia industriale a confronto”, Abadir Publisicula Editori, Palermo 2003 Faustini L., Guidi E., Misiti M., “Archeologia industriale: metodologie di recupero e fruizione del bene industriale”, Edifir Editore, Firenze, 2001 Hudson K., Covino R. (edizione italiana a cura di), “Archeologia Industriale”, Zanichelli Editore, Bologna 1981 Papuli G., “Archeologia del patrimonio industriale. Il metodo e la disciplina”, Giada Editore, Perugia 2004 134
Pirrone D., Spadaro M.A., “Archeologia Industriale Palermo”, Kalos Edizioni d’Arte, Palermo 2015 Prescia S., “Palermo, la città disegnata: viaggio nel tempo e nello spazio dal 1860 al 2000”, Editecnica, Palermo 2005 Racheli A.M., “Recupero edilizio e archeologia industriale: la fabbrica della birra Peroni a Roma (1901-1992)”, Marsilio Editore, Venezia 1993 Renato R., “Il pomodoro: coltivazione, industria e fabbricazione delle scatolette di latta”, U. Hoepli Editore, Milano 1914 Scibilia F., Scibilia N., “Pietro Scibilia Ingegnere Architetto (1889-1971)”, Palermo 2013 Urbani L., “Palermo: ieri, oggi, domani, dopodomani” STASS, Palermo 1975
Fonti documentarie Archivio Notarile di Palermo Archivio Storico Comunale di Palermo Biblioteca del Dicam - Università degli Studi di Palermo Biblioteca d’Arch - Università degli Studi di Palermo
Sitografia principale www.divisare.com www.archilovers.com 135
136
Ringraziamenti Un ringraziamento va al relatore Prof.ssa Silvia Pennisi, per avermi guidato, istruito e consigliato durante tutta la mia esperienza di tesi. Desidero inoltre estendere i miei ringraziamenti all’Ing. Simona Bertorotta e all’Arch. Anna Patti per aver indirizzato le mie ricerche e avermi reso possibile l’accesso all’area in oggetto. Ringrazio Nicola per avermi accompagnato in questo percorso di tesi, condividendo impegno, studio e ricerche volte alla realizzazione di parte del presente elaborato. Proseguo ringraziando il personale dell’Archivio Notarile di Palermo, dell’Archivio Storico Comunale di Palermo, della Biblioteca del Dipartimento di Architettura e del DICAM. Un ringraziamento speciale va ai miei colleghi e amici, che mai mi hanno fatto mancare il loro sostegno durante quest’ultimo periodo e nel corso del mio intero percorso universitario. Ringrazio i fotografi Andrea Ardizzone e Turiana Ferrara per la gentile concessione di alcune foto riguardanti fabbriche dismesse dell’area palermitana. Grazie ai miei genitori, a mia sorella, senza ai quali non sarei mai arrivato fin qui. Grazie a Gabriella, per tutto.
137
138
In copertina Autore _ Anna Giulia Delle Chiaie Titolo _ CittĂ industriale su fondo oro. Dimensioni _ 70x50x2 cm Tecnica _ mista su tela (smalti e colori acrilici con applicazione di foglia oro). Anno di esecuzione _ 2013 Luogo _ Milano 139