POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Archite�ura - Scuola di Archite�ura e Società Master in Sustainable Architecture and Landscape Design
VITA E MORTE DEI SUPERBLOCCHI RESIDENZIALI Pra�che di intervento dopo il crollo dell’utopia
Relatrice: Prof.ssa Gaia Piccarolo
Tesi di Laurea di: Renato Avitabile Giada Panze�
Anno Accademico 2018/2019
ABSTRACT The recent demoli�on of the Robin Hood Gardens in London is just the latest in a series of interven�ons that began with the demoli�on of the St. Louis Prui�-Igoe less than fi�y years ago. The collapse of the London neighborhood, which took place despite the opposi�on of prominent figures in the architectural panorama, was the pretext for the dra�ing of this thesis, whose aim is to inves�gate the different types of interven�on adopted for the revitaliza�on of many of those projects, built in the last half century, which have face a striking failure, like the most famous Italian cases, the Corviale of Rome, the “Vele” of Naples and the ZEN of Palermo. Par�cular a�en�on has been paid to those modernist neighborhoods that s�ll survive and are characterized by a high symbolic value which, too o�en, is contrasted with poor social success. The thesis aims to catalog and analyze the different methods of interven�on implemented in recent years, in order to classify them according to the type of solu�on applied. The iden�fica�on of four main and well recognizable methods of interven�on was the basis for cataloging the different models. The demoli�on and replacement opera�ons applied in London, in Southgate Estate in Runcorn and in the Vele of Scampia are followed by the transforma�on and densifica�on strategies carried out at the Bijlmermeer, the Tour Bois-le-Prêtre and the Stadtvillen in Leinefelde. These invasive solu�ons are accompanied by lighter interven�ons, o�en with a symbolic nature, which, ac�ng on the landscape, try to reconstruct a community fabric, as happened in the experiments on the Palermo’s ZEN and on the Corviale of Rome. As a fourth category, an unplanned transforma�ve approach was iden�fied in a deliberately provoca�ve way, based on self-construc�on and, in par�cular, on the organiza�onal capacity of informal se�lements, as shown in the Caraqueños cases of Torre David and 23 de Enero. The goal is to seek, if it exists, a correla�on between care and disease, in order to produce a synop�c framework that can be used as a strategic reference in the design process. In this regard, the last part of the thesis is devoted to the schema�za�on of the different types of applica�ons on a single case study, the one of de Gasperi district in Pon�celli, near Naples, whose cultural matrix is similar to that of the superblocks previously analyzed. This opera�on, far from being a real project proposal for the area, aims to summarize the benefits and consequences of the different types of interven�on.
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Il recente abba�mento del complesso dei Robin Hood Gardens a Londra è solo l’ul�mo di una serie di interven� comincia� con la demolizione del Prui�-Igoe di St. Louis poco meno di cinquanta anni fa. Proprio il crollo del quar�ere londinese, realizzatosi nonostante l’opposizione di figure di spicco del panorama archite�onico e non solo, è stato il pretesto per la stesura di questa tesi, la quale si propone di indagare le diverse �pologie di intervento ado�ate per la rivitalizzazione di mol� di quei proge�, realizza� nell’ul�mo mezzo secolo, che sono anda� incontro ad un eclatante fallimento, bas� pensare ai più famosi casi italiani ovvero il Corviale di Roma, le Vele di Napoli e lo ZEN di Palermo. L’a�enzione è stata posta su quei quar�eri di stampo modernista che ancora oggi sopravvivono e che sono cara�erizza� da un elevato valore simbolico a cui, troppo frequentemente, si contrappone uno scarso successo sociale. La tesi si propone di catalogare ed analizzare le diverse modalità di intervento a�uatesi negli ul�mi anni, allo scopo di classificarle a seconda della �pologia di soluzione applicata. L’individuazione di qua�ro principali e ben riconoscibili metodi di intervento è stata la base per la catalogazione dei diversi modelli. Agli interven� di demolizione e di sos�tuzione applica� a Londra, al Southgate Estate di Runcorn e alle Vele di Scampia, seguono le operazioni di trasformazione e densificazione realizzate al Bijlmermeer, alla Tour Bois-le-Prêtre e allo Stadtvillen di Leinefelde. A queste soluzioni invasive si affiancano interven� più leggeri, spesso di natura simbolica, i quali, agendo sul paesaggio, cercano di ricostruire un tessuto comunitario, come è avvenuto nelle sperimentazioni sullo ZEN di Palermo e sul Corviale di Roma. Come quarta categoria è stata individuata in modo volutamente provocatorio un approccio trasforma�vo non pianificato, il quale si fonda sull’autocostruzione e, in par�colare, sulla capacità organizza�va degli insediamen� informali, come mostrato nei casi caraqueñi della Torre David e del 23 de Enero. L’obie�vo è ricercare, se esiste, una correlazione tra cura e mala�a, allo scopo di produrre un quadro sino�co u�lizzabile quale riferimento strategico nell’iter proge�uale. A tal proposito l’ul�ma parte della tesi è dedicata alla schema�zzazione delle diverse �pologie applica�ve su di un unico caso studio, quello del rione de Gasperi a Pon�celli, vicino Napoli, la cui matrice culturale è assimilabile a quella dei superblocchi precedentemente analizza�. Questa operazione, lungi dall’essere una vera e propria proposta proge�uale per l’area, mira a sinte�zzare benefici e conseguenze delle diverse �pologie di intervento.
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INDICE
1. Introduzione
5
2. Pra�che di intervento
13
2.1
Demolizione e sos�tuzione del tessuto 2.1.1 Robin Hood Gardens 2.1.2 Vele di Scampia 2.1.3 Southgate Estate
15 18 40 62
2.2
Densificazione e trasformazione 2.2.1 Tour Bois-le-Pretre 2.2.2 Stadtvillen 2.2.3 Bijlmermeer
81 84 100 114
2.3
Comunità e proge�o paesaggis�co 2.3.1 Corviale 2.3.2 ZEN
133 136 160
2.4
Occupazione e autocostruzione 2.4.1 23 de Enero 2.4.2 Torre David
181 184 206
3. Il caso del Rione de Gasperi a Pon�celli, Napoli
227
3.1
Analisi 3.1.1 3.1.2 3.1.3 3.1.4
3.2
Strategia 3.2.1 Densificazione del tessuto urbano 3.2.2 Permeabilizzazione del piano terra 3.2.3 Trasformazione dell’involucro 3.2.4 Creazione di un tessuto comunitario
4. Bibliografia
Evoluzione storica Analisi del verde Analisi dei servizi Analisi delle strade e dei limi�
233
253
271
INTRODUZIONE
5
“Modern architecture died in St Louis, Missouri on July 15, 1972, at 3.32pm.” Così Charles Jencks annuncia la fine del modernismo e il passaggio al postmodernismo, riferendosi all’esa�o momento in cui il Complesso Prui�-Igoe di St. Louis (una versione o�mamente riuscita della “macchina per abitare” di Le Corbusier) proge�ato dall’archite�o Minoru Yamasaki fu demolito.1 Partendo da questa sentenza la tesi tenterà di mostrare l’a�uale condizione di alcuni dei “supers��” di quel “modello per l’abitare” modernista, analizzandone l’eventuale stato di degrado e, principalmente, le differen� �pologie di intervento volte alla preservazione, trasformazione o alla sos�tuzione di tale modello. “Se alcuni proge� edilizi furono effe�vamente dei tris� insuccessi, altri non lo furono, sopra�u�o in considerazione delle condizioni degradate da cui provenivano molte persone”. Questa premessa, estrapolata da un ben più ampio discorso di David Harvey nel suo The condition of postmodernity del 1989, ci fornisce la base intelle�uale da cui par�re nel tenta�vo di me�ere in discussione la diffusa diffidenza nei confron� dei cosidde� “gigan� del modernismo”. Da archite� è più facile rendersi conto che le cause determinan� l’insuccesso, e talvolta il completo fallimento, di un proge�o archite�onico di edilizia sociale, non sono quasi mai da ricercarsi nella forma archite�onica di per sé (o perlomeno non è l’unico fa�ore), tu�avia i “non adde� ai lavori”, tendono, anche in virtù di una coscienza colle�va pessimis�ca maturata sin dalla fine degli anni ’70, ad accusare opera e creatore di essere gli unici artefici del disagio sociale presente in ques� complessi. Proprio sul Prui�-Igoe Harvey scriveva: “Risulta che le condizioni sociali del Prui�-Igoe – il grade simbolo del fallimento modernista – fossero al centro del problema ben più della forma archite�onica. A�ribuire alla forma fisica, concreta, la responsabilità dei mali sociali significa far uso del più volgare �po di determinismo ambientale che pochi sarebbero dispos� ad acce�are in altre circostanze (anche se noto con disagio che un altro membro del gruppo di consiglieri del principe Carlo è la geografa Alice Coleman che regolarmente scambia per rapporto di causalità la correlazione fra ca�vo proge�o e comportamento an�sociale). È interessante notare, perciò, come i residen� dell’”habitat per vivere” di Le Corbusier a Firminy-le-Vert si siano organizza� in movimento per impedire la sua distruzione.” 2 “Il complesso di St. Louis venne demolito in quanto ambiente inabitabile per le persone di basso reddito che vi risiedevano”.2 Da questa semplificazione del problema risulta immediato capire le ragioni che hanno portato i cri�ci di tu�o il mondo a ritenere l’archite�ura di Yamasaki e con essa buona parte dei principi del movimento moderno – il quale consideravano l’uomo, standardizzato, omologato, misurato con un “modulor” universale, rido�o insomma ad en�tà meccanica – l’unica responsabile del fallimento del Prui�-Igoe. La locuzione “ambiente inabitabile” rende impossibile non associare la condizione di inadeguatezza sociale e funzionale del complesso con la sua composizione spaziale, la quale al contrario, puntava alla creazione di un modello aggrega�vo ideale.
La fine del modernismo
Le condizioni sociali al Prui�-Igoe
1 Pierluigi Nicolin, Notizie sullo stato dell’architettura in Italia, Bolla� Boringhieri, Torino, 1994. 2 David Harvey, The condition of postmodernity, Londra 1990; trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 2010. 6
Tu�avia ad una analisi più a�enta del quar�ere ci si rende conto che le cause del formarsi di questo “ambiente inabitabile” sono da ricercarsi in tu�a una serie di fa�ori la cui analisi risulta fondamentale al fine di dimostrare che l’archite�ura, e l’ideologia che l’ha plasmata, hanno avuto una responsabilità limitata nell’invece, inopinabile, “fallimento del mito”. La prima mo�vazione trova un fondamento nelle parole di Giancarlo De Carlo, il quale, nel 1970, cri�cò il discorso sull’urbanis�ca del CIAM e lo definì “Nulla più che un alibi culturale per la speculazione economica più feroce della storia”. 3 Infa� a St. Louis fu il governo che, in un “a�o di generosità”, finanziò la realizzazione del proge�o di Yamasaki e con esso tu�e le imprese coinvolte nella costruzione. Tu�avia, terminata l’opera, tale “bontà d’animo” venne meno in quanto divenne responsabilità dei residen� pagare le spese di manutenzione ordinaria (non assogge�abile a speculazione), e ques�, essendo nullatenen� o poco più non riuscivano a coprirne i cos�. Lo Stato allora aumentò gli affi� – soluzione quantomeno paradossale – nel tenta�vo di recuperare le perdite. Questo portò inevitabilmente al crollo finanziario anche di quei pochi inquilini che ancora riuscivano a sostenere le spese. Il tu�o inoltre, essendo sempre scoper� gli oneri di manutenzione, portò ad un esponenziale declino fisico dei blocchi. Si creò quindi una paradossale situazione per cui “They were paying more for less” (Loro – gli abitanti del Pruitt-Igoe – pagavano di più per [avere] meno).4 La seconda causa trova le sue origini nel contesto socio-spaziale in cui il proge�o era inserito; fin dall’inizio infa� il complesso fu proge�ato per essere un ambiente segregazionista, come ci suggerisce lo stesso nome del quar�ere (il capitano W. O. Prui� per i neri e l’ex membro del congresso W. L. Igoe per i bianchi), cara�erizzato quindi da una separazione fisica tra persone di “razze” diverse. Tu�avia il rapido affollamento iniziale delle persone di colore, entusiaste all’idea di abitare quella che definivano “the poor man’s penthouse” (l’a�co dei poveri), si scontrò con un più misurato interesse da parte del resto della popolazione, la quale, “in�midita” dal numero ne�amente superiore di “neri” lasciarono il complesso o non vi si trasferirono nemmeno. 4 Il terzo mo�vo, anche questo imputabile più alla ges�one del complesso che alla sua morfologia, è da ricercarsi nel “tra�amento” che il governo locale riservò agli inquilini. Ques� infa� dovevano so�ostare a tu�a una serie di regolamen�, pena lo sfra�o e l’allontanamento dal quar�ere, che spaziavano dal non poter possedere un televisore al più distru�vo divieto, per tu� i maschi adul�, di risiedere nel complesso senza avere un lavoro. Questa condizione, rapportata ad un contesto territoriale proibi�vo, in quanto molte delle aziende che occupavano precedentemente l’area si trasferirono in altre zone periferiche della ci�à (preoccupate dal decremento della popolazione di ci�à e quar�ere), costrinse gli uomini del Prui�-Igoe a cercare lavoro altrove, spesso fuori dal contesto locale. Questa condizione comportò non solo uno sgretolamento delle famiglie (i padri infa� erano dispos� a lasciare le famiglie per assicurare loro un buon posto in cui vivere) ma anche una progressiva perdita di sicurezza nel quar�ere, il quale si vedeva privato degli uomini in grado di proteggerlo. 3 Eric Paul Mumford, The CIAM discourse on urbanism, 1925-1960, MIT Press, 2000. 4 The Pruitt-Igoe myth, film di Chad Frieidrichs, 2011 7
La prima causa del fallimento
La seconda causa del fallimento
La terza causa del fallimento
A livello proge�uale uno dei limi� del complesso era l’aver dotato ogni edificio di ascensori “skip-stop” (un’innovazione tecnologica importante dell’epoca), i quali si fermavano solo al primo, al quarto, al se�mo e al decimo piano, costringendo così gli inquilini all’uso delle scale, l’ambiente perfe�o per a� di violenza. La combinazione di queste cause scatenò più volte la reazione del quar�ere: i residen� infa�, a pochi anni dal completamento del complesso, cominciarono ad accusare il governo per la scarsa qualità del proge�o, e per tu� i problemi ad essa lega�. Ma “accusare il proge�o” non significa puntare il dito contro l’archite�o né tantomeno contro gli ideali che lo hanno guidato nella proge�azione, bensì significa incolpare tu� quei fa�ori sociali, poli�ci ed economici la cui combinazione ha creato quello che veniva considerato un vero e proprio ghe�o. E ad acuire questa fama non va dimen�cato che, a fronte di un generale inurbamento delle ci�à di tu�o il mondo (conseguenza dell’industrializzazione), St. Louis andò incontro ad una imprevista diminuzione della sua popolazione passando da 802.000 abitan� nel 1930 a 450.000 nel 1980; questo comportò un lento disinteressamento, da parte dell’autorità abita�va di St. Louis, nella ges�one e nel mantenimento del più grande intervento di residenza abita�va sociale dell’epoca, ovvero il Prui�-Igoe. Questo disinteressamento obbligò il governo federale a intervenire e, alla fine degli anni ’60, cambiò i requisi� per l’ammissione alle stru�ure di housing sociale, consentendo così a molte delle famiglie precedentemente escluse di entrare al Prui�-Igoe. “Il complesso divenne così una “discarica” per tu�e le persone che nessuno voleva”.4 Alle diverse cause che portarono alla demolizione del complesso si aggiungono la “teoria dello spazio difendibile”, pubblicata da Oscar Newman nel 1972 nel libro “Defensible space: Crime Prevention through Urban Design”, e la teoria criminologica dei “vetri ro�” sviluppata dai sociologi James Q. Wilson e George L. Kelling nel 1982. La prima sos�ene che l’organizzazione spaziale di un luogo, ci�à o edificio che sia, dovrebbe perme�ere a chi vi vive di avere un controllo sul territorio, questo include gli spazi esterni agli edifici così come quelli interni. La teoria dello “Spazio Difendibile” si basa sulla considerazione che le persone siano in grado di aiutare se stessi e aiutarsi reciprocamente, senza dove richiedere con�nuamente l’aiuto delle autorità.5 La meno nota “teoria dei vetri ro�” o “delle finestre ro�e”, espressione coniata dal professore dell’università di Stanford Philip Zimbardo nel 1969 nell’ambito di un esperimento sociale, e poi divulgata da un ar�colo di James Q. Wilson e George L. Kelling nel 1982 dal �tolo “Broken Windows, the police and neighborhood safety”, asserisce che gli episodi di disordine urbano e di vandalismo in generale possano essere l’avver�mento, e la causa, del verificarsi di a� di criminalità e di comportamen� an�-sociali. La teoria afferma che mantenere e controllare ambien� urbani reprimendo i piccoli rea�, gli a� vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l'evasione nel pagamento di parcheggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.6
Le accuse contro il complesso Prui�-Igoe
La teoria dello spazio difendibile
La teoria dei vetri ro�
5 Oscar Newman, Creating Defensible Space, Ins�tute of Community Design Analysis, 1996. 6 George R. Kelling e James Q. Wilson, Broken Windows, the police and neighborhood safety, 1982. 8
Il “River of trees” (fiume di alberi), espressione u�lizzata da Minoru Yamasaki per descrivere lo spazio libero tra un edificio e l’altro, divenne così un fiume di vetri ro� e spazzatura. I corridoi, gli ingressi, gli ascensori e le scale divennero luoghi costantemente pericolosi e ben presto si ricoprirono di graffi�. “Nessuno si interessa di loro” dirà una delle inquiline riferendosi agli spazi precedentemente descri�. E così l’entusiasmo iniziale dei residen� i quali sostenevano che: “It was like an oasis in a desert, all this newness; I never thought I would live in that kind of surrounding…” (Era come un’oasi nel deserto. Tutta questa novità, non avrei mai pensato di vivere in questo tipo di contesto), si trasformò in breve tempo in rabbia e insoddisfazione che, altre�anto velocemente, sfociò in episodi sempre più frequen� di violenza. Scrive David Harvey riferendosi alla demolizione del Prui�-Igoe: “Da allora, le idee dei CIAM, di Le Corbusier e degli altri apostoli dell’”alto modernismo” lasciarono uno spazio sempre maggiore a tu�a una serie di possibilità tra le quali, significa�ve ma non uniche quelle proposte da Venturi, Sco�-Brown e Izenour nell’importante “Imparando da Las Vegas” (pubblicato anche questo nel 1972). Nell’opera in ques�one si diceva, come il �tolo stesso fa capire, che gli archite� avevano più da imparare dallo studio di paesaggi popolari e locali (periferie e zone commerciali) che dal perseguimento di ideali astra�, teorici e do�rinali. Era giunto il momento, dicevano gli autori, di costruire per la gente e non per l’Uomo.” 2 Aveva così inizio quello che lo stesso autore definì “postmodernismo”. La tra�azione di questo punto richiederebbe un lungo approfondimento che esula dalle nostre a�uali intenzioni anche in considerazione del fa�o che il diba�to su modernismo e postmodernismo, con tu�o ciò che ne consegue, è in corso tu�’ora, nonché tocca territori sconfina�. La tesi quindi, coprirà come arco temporale di riferimento quel periodo che va dalla data di abba�mento del complesso di St. Louis fino ad oggi, focalizzando l’a�enzione, come an�cipato in precedenza, su quei complessi abita�vi realizza� in questo periodo che presentano, o presentavano, cara�eris�che simili a quelle del Prui�-Igoe. Tu�avia è importante so�olineare che l’effe�o dei principi del CIAM sulla produzione progettuale del dopoguerra è ancora da tracciarsi, indubbiamente gli è stata a�ribuita la proge�azione di tu� i massicci insediamen� abita�vi standardizza� che rifiutavano il vecchio modello insedia�vo delle “rue corridor”, i quali sono sta� cri�ca� in modo convincente da Jane Jacobs nel suo Death and Life of the great american cities (1961).3 Il pensiero jacobsiano, così come quello di altri autori del suo periodo, da John Turner a Shadrach Woods, ebbe una grande influenza nell’ambito della proge�azione urbana. La sua cri�ca riveste ancora oggi un ruolo centrale nella “lo�a” all’assolu�smo dei proge� urbanis�ci. Esaminando la scena urbana così com’era stata ricostruita a par�re dal 1945, la Jacobs vedeva “complessi di case popolari che diventano centri di criminalità, di vandalismo e di degradazione sociale senza rimedio, peggiori degli slums che avrebbero dovuto sos�tuire; complessi residenziali di livello medio che sono veri modelli di monotonia e di irregimentazione, erme�camente chiusi ad ogni slancio di vitalità urbana; complessi residenziali di lusso che nello sforzo di mascherare la loro inconsistenza cadono in un’insulsa volgarità. Si sono cos�tui� centri culturali che non riescono a mantenere in vita una buona libreria, centri civici popola� solo dai quei vagabondi che hanno minori possibilità di scegliersi un luogo dove perder 9
Nascita del degrado e dell’insoddisfazione
La demolizione del Prui�-Igoe
La cri�ca ai principi del CIAM sulla produzione del dopoguerra
tempo: centri di negozi che sono squallide imitazioni dei grandi magazzini standardizza� suburbani; percorsi che collegano luoghi assolutamente anonimi, e nelle quali nessuno passeggia; strade di scorrimento veloci che sventrano la ci�à. Questo non significa ristru�urare le ci�à: significa me�erle a sacco”.7 “È strano”, si lamentava Jane Jacobs, “che l’urbanis�ca non rispe� la spontanea autodiversificazione delle popolazioni urbane e tanto meno si sforzi di sollecitarla, così come è strano che gli archite� urbani non sembrino riconoscere questa forza di autodiversificazione, né sembrino a�ra� dai problemi este�ci ineren� alla sua espressione”.2 A riguardo, Giancarlo De Carlo sosteneva che “L’archite�ura deve ada�arsi agli uomini e non il contrario”. De Carlo, tra i fondatori del Team X, prima vera ro�ura con il movimento moderno, nel Villaggio Ma�eo� di Terni proge�ò, per esempio, e non senza il dire�o contributo dei futuri abitan� tramite mostre e riunioni, un quar�ere variegato in �pologia e qualità spaziale.3 I membri del Team X con�nuavano a dichiarare che l’urbanis�ca era la “scienza e l’arte di costruire per relazioni sociali.” Così come Shadrach Woods afferma nella sua pubblicazione The Man in the Street in 1975. Tu�avia nonostante l’integrazione di ques� nuovi principi, che potremmo definire “sociali”, i risulta� o�enu� dal gruppo di giovani archite�, riuni� so�o il nome di Team X, non riuscirono a recuperare un’immagine, ormai smi�zzata, dei “falansteri” del secondo dopoguerra. A riguardo un ar�colo del New York Times riportava: “Who will stand up to the giants of Modernism? That was the ques�on facing a group of young European architects in the early 1950’s. Chafing within the confines of a func�onalist orthodoxy that tended to reduce human individuals to numbers on a chart, they banded together under the name Team X to propose architecture grounded in a sense of community iden�ty. But some cri�cs felt that the results never matched the rethoric, that the group’s design o�en seemed more like a �mid appeal for the old man’s approval than an insolent rejec�on of the past” (Chi si opporrà ai gigan� del Modernismo? Questa era la domanda che si presentava a un gruppo di giovani archite� europei nei primi anni '50. Scaldandosi entro i confini di un'ortodossia funzionalista che tendeva a ridurre gli individui a numeri su un grafico, essi si unirono so�o il nome di Team X per proporre un'archite�ura fondata su un senso di iden�tà comunitaria. Ma alcuni cri�ci ritengono che i risulta� raggiun� dal gruppo non corrispondessero alla retorica, che il loro design spesso sembrasse più un �mido appello all'approvazione del vecchio (riferimento ai membri dei CIAM) che un insolente rifiuto del passato).8 A conferma di queste affermazioni ci�amo un ar�colo scri�o da Pierluigi Nicolin sui “grands ensembles” i quali possono essere intesi come la versione tardomoderna della “macchina per abitare” di Le Corbusier. Nicolin asserisce: “Insieme ai grands ensembles francesi anche i quar�eri di altri paesi, conosciu� per via di una certa hýbris archite�onico-urbanis�ca che li ha resi famosi, sono man mano giun� a esaurimento, e non solo in conseguenza di demolizio-
Il Team X e l’introduzione dei principi sociali
7 Jane Jacobs, Death and Life of the great american cities, 1961. 8 New Ideals for Building in the Face of Modernism, ar�colo del New York Times, 27 se�embre 2006. 10
ni o alterazioni che li hanno modifica�, ma sopra�u�o poiché da qualche decennio è cambiato il modo di pensare l’archite�ura e nessuno vuole più fare e neppure abitare quel �po di quar�ere d’abitazione dormitorio”.9 Ed è proprio in virtù di questa “immagine”, che ad oggi sembra irrimediabilmente nega�va, dei complessi moderni e tardomoderni, che anche i tenta�vi del Team X sono anda� incontro al fallimento. Un’”immagine” che ha trovato la sua massima espressione il 15 luglio del 1972 con l’abba�mento del primo “gigante del modernismo”. La prima grande commissione per Yamasaki è des�nata a rimanere nella storia per la sua nascita, con l’ambizione di trapiantare negli Sta� uni� le ul�me utopie provenien� dall’Europa, e per la sua morte prematura, con la più eclatante demolizione dal secondo dopoguerra ad oggi. L’analisi del complesso statunitense, la cui costruzione è stata un evento epocale nel panorama archite�onico mondiale in quanto ha rappresentato la prima grande opera di edilizia abita�va di quelle dimensioni realizzata secondo i de�ami dei CIAM, ci è u�le ancora oggi, non tanto come proto�po dei “simboli di alienazione e disumanizzazione”, come Kenneth Frampton e dopo di lui Andreas Huyssen definirono ques� complessi, bensì come modello u�le a constatare che i diversi fa�ori che ne provocarono lo sgretolamento siano riscontrabili ancora oggi nei “residui” di quell’archite�ura ormai smi�zzata. Aspe� fisici, economici, poli�ci, burocra�ci, spaziali e, non ul�mo, sociali, sono ancora oggi i principali mo�vi del “fallimento” dei proge� di housing sociale; quello che cercheremo di mostrare e dimostrare è come, nell’arco di quasi cinquant’anni, le tecniche u�lizzate per il recupero dei “gigan� del modernismo” siano andate ben oltre la demolizione. Gli interven� di integrazione, alterazione �pologica, sos�tuzione, densificazione e rarefazione, unitamente ai più recen� interven� immateriali che tentano di lavorare sul conce�o di comunità, servendosi spesso di strumen� poco invasivi e temporanei, che in alcuni casi sono vol� al ritorno ai valori preceden� alla pianificazione con la rivalutazione dell’autocostruzione, compongono lo spe�ro degli interven� a�ualmente ado�a�.
9 Pierluigi Nicolin, Dopo i Grands Ensembles, Lotus interna�onal 163. 11
La permanenza dei fa�ori fallimentari
I nuovi �pi di intervento
PRATICHE
di
INTERVENTO
DEMOLIZIONE
&
DENSIFICAZIONE
COMUNITA’
OCCUPAZIONE
SOSTITUZIONE
& TRASFORMAZIONE &
PAESAGGIO
& AUTOCOSTRUZIONE
DEMOLIZIONE
&
SOSTITUZIONE “È più importante fallire magnificamente che raggiungere la mediocrità”
Alison e Peter Smithson
Questo è quanto Alison e Peter Smithson scrissero nel 1954 nel libro Some notes on architecture. Ripensando al des�no toccato ad una delle opere più rappresenta�ve del ‘900 – quale è il Robin Hood Gardens –, non possiamo fare altro che chiederci se, in un’era in cui le cosidde�e “archistar” concentrano i loro sforzi nel compiacimento di pochi grandi imprenditori, trascurando le anonime masse, la demolizione fosse davvero l’unica strada percorribile. L’affermazione profe�ca dei coniugi Smithson so�olinea il divario ideologico tra l’archite�ura del XX secolo, impegnata nella ricerca e nella sperimentazione di nuove soluzioni avanguardis�che a�e alla risoluzione dei problemi sociali, e quella contemporanea, abilissima nel cri�care le opere del passato senza tu�avia essere in grado di proporre soluzioni alterna�ve. Abba�ere opere come i Robin Hood Gardens, il Southgate Estate e le Vele di Scampia – e se ne potrebbero citare tante altre – significa non solo cercare di risolvere brutalmente – eliminandole – una serie di problema�che legate all’edificio, ma anche rinnegare e condannare l’ideologia che quelle stesse opere hanno concre�zzato. Cancellare la memoria di quelli che erano veri e propri simboli del modernismo significa infa�, in qualche modo, rinnegare un’intera generazione di archite�. L’operazione di distruzione acquisisce un significato solo nel momento in cui ad essa segue un’opera di sos�tuzione. "Come si poteva creare un mondo nuovo, dopotu�o, senza distruggere molte delle cose del passato? Semplicemente non si può fare una fri�ata senza rompere le uova, come hanno osservato vari pensatori modernis�, da Goethe a Mao.” Così scriveva David Harvey nel suo libro del 1989 in�tolato La crisi della modernità riferendosi proprio al periodo modernista. Questa considerazione me�e in discussione tu� i saggi che seguono, poiché ad ogni opera di distruzione che verrà analizzata è seguita null’altro che una �mida e anonima operazione di copiatura del tessuto circostante, di certo non quella che Harvey definirebbe la “creazione di un mondo nuovo”. De�o questo va comunque osservato che nessuna delle opere che seguono godeva, al momento del loro abba�mento, di par�colare favore da parte degli stessi abitan�, i quali al contrario, erano ben felici di essere disloca� altrove. Quali sono le condizioni limite che rendono un complesso archite�onico insanabile? Quale en�tà di degrado fisico e sociale deve sussistere affinché l’unica soluzione razionale sia la distruzione? I saggi illustra� che seguono tenteranno di ripercorrere le diverse storie che hanno portato ad un epilogo comune alcune delle più famose opere tardomoderniste e cercheranno di illustrare affinità e difformità tra le stesse. Degrado sociale, degrado fisico e degrado culturale sono solo alcune delle cri�cità che accomunano queste opere, tu�avia pari livelli di instabilità sono riscontrabili in cen�naia di altri edifici a cui, invece, è stata concessa una seconda possibilità.
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Robin Hood Gardens
Robin Hood Gardens In quanto culla della Rivoluzione Industriale, l’Inghilterra è sempre stato uno fra i Paesi an�cipatori delle innovazioni e modello delle più grandi potenze europee. Fin dal Medioevo infa�, fu un fer�le terreno per la fondazione di importan� ci�à commerciali, che vide il suo boom appunto durante il XIX secolo, con l’industrializzazione. Se da un lato ciò portò ad un innalzamento del tenore di vita generale degli inglesi e diede vita ad un importante ritorno economico, dall’altro comportò però uno shock per quanto riguardava le condizioni abita�ve nelle ci�à. Il governo dove�e ben presto elaborare soluzioni rivoluzionarie per dare risposta alla crescita illimitata del numero di persone provenien� dalle campagne, elaborando piani basa� su principi utopici alterna�vi alla conges�one dei quar�eri dove erano insediate le fabbriche, cara�erizzate da condizioni urbane insalubri e al limite della vivibilità. La ci�à che prima fra tu�e dove�e scontrarsi con questa necessità fu ovviamente Londra. La capitale è sempre stata infa� una ci�à in con�nua evoluzione, sempre in equilibrio tra passato e futuro. Questo è ancora più evidente se dal centro si percorre il quar�ere dei Docklands, una delle più sugges�ve e meno turis�che zone della metropoli. L’area, situata nell’East End di Londra, è infa� un con�nuo laboratorio di innovazioni e proget�. Quelli che una volta erano considera� come quar�eri degrada� sono oggi luoghi capaci di a�rarre costantemente turis� e nuovi residen�. Ex zona portuale, l’ampio quar�ere dei Docks è sempre più al centro di un vasto proge�o di ammodernamento. Gra�acieli di nuovissima generazione si alternano a barche di legno adibite ad abitazioni e vecchi canali ormai in disuso, creando un’atmosfera surreale, il 19
tu�o a poche cen�naia di metri dal centro della City. I Docks erano an�camente parte del porto di Londra, un tempo il più grande del mondo, dove si vedevano i velieri della East India Company ed altre navi mercan�li sbarcare le preziose spezie provenien� dall'Oriente. La costruzione dei docks cominciata nel 1640, è proseguita per tu�o il XIX secolo e per metà del XX fino a fronteggiare il declino negli anni ‘60 e ’70. Tale decadenza può essere imputata all’economia della zona, che era basata sulla crescita e la prosperità delle a�vità portuali tradizionali, le quali persero ogni supremazia con l’introduzione dei container nell’organizzazione del trasporto merci negli anni ’70. Essi infa� comportarono l‘u�lizzo di banchine sempre più grandi che necessitavano di un’organizzazione diversa dello spazio e che decretò, quindi, la fine dei Docklands come area portuale.Oggi quest’area, rasa al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale, è stata riqualificata ed è divenuta una delle zone residenziali più costose e ricercate di Londra dove si trovano i proge� archite�onici ed urbanis�ci più innova�vi ed audaci della ci�à. Nel caso emblema�co dei Docks, il successivo processo di rigenerazione urbana si è basato sulla s�molazione dell’imprenditorialità privata. Per realizzare la trasformazione, la società di sviluppo urbano (la London Docklands Development Corporation) ha messo a punto delle strategie di sviluppo, basate essenzialmente sulla capacità di polarizzare l’interesse dei promotori immobiliari priva�. Fra le diverse strategie ado�ate, quella più a�raente dal punto di vista finanziario fu quella di inves�re in infrastru�ure proge�ate secondo criteri di qualità, realizzando una nuova “city” di grandi dimensioni – Canary Wharf, un complesso finanziario di
Quar�ere dei Docklands dove gra�acieli di nuovissima generazione si alternano a barche li legno adibite ad abitazioni.
Fotografia aerea dei Robin Hood Gardens del 2017.
Residen� che rientrano nei propri alloggi a�raverso i corridoi delle streets in the sky. Immagini d’archivio dei Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson. Vista del giardino centrale, pensato dai proge�s� come luogo di gioco sicuro per i figli dei residen�.
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Planimetria del quar�ere dei Docklands, cara�erizzante l’East End di Londra. 1899.
gra�acieli a ridosso del fiume, dove sono state trasferite le sedi dei principali quo�diani, banche e società londinesi. L’evoluzione di Canary Wharf ha inciso fortemente sul nuovo asse�o della ci�à di Londra: dopo circa qua�ro secoli in cui la ci�à si era sviluppata prevalentemente verso ovest, essa inizia a volgersi anche verso quell'East End che è sempre stata una zona di quar�eri poveri e ad alto tasso di criminalità, contraddis�n� da un'urbanis�ca disordinata che la faceva assomigliare ad un'immensa periferia. Oggigiorno gli equilibri del mercato immobiliare sono cambia� ed il valore dei suoli circostan� l’area dei Docks è significa�vamente aumentato. Canary Wharf, dunque, ha innescato irreversibilmente il meccanismo di riqualificazione degli East Ends. Situata immediatamente a nord dell’Isle of Dogs, in cui è situato appunto il nuovo polo finanziario, si trova Poplar, un quar�ere
residenziale di case popolari fin dagli albori abitato da chi lavorava al porto di Londra. Prevalentemente occupato da famiglie di ceto basso e comunità di minoranze etniche, con la chiusura del porto, la disoccupazione in questa zona è salita ver�ginosamente inasprendo l’emergenza sociale per quanto riguarda la disparità d’accesso al mercato immobiliare. E allora viene da chiedersi, in un quadro così cri�co che ha come sfondo un mercato immobiliare sempre più compe��vo dove da una parte gli affi� alle stelle e dall’altra norme come la bedroom tax1 o il right-to buy2 espongono una parte crescente di popolazione alla prospe�va di perdere il diri�o alla casa e alla ci�à e in cui la domanda di edilizia residenziale pubblica supera ogni capacità di risposta, perché optare per la demolizione di uno dei simboli di edilizia sociale del modernismo più ammirato a livello internazionale piu�osto che ristru�urarlo e risanarlo? Perché, in altre parole,
1 Tassa introdo�a dal governo nell’aprile 2013 che fa perdere
2 Politica adottata nel Regno Unito fin dal 1980 e revisionato nel 2005, che obbliga le persone a lasciare il loro alloggio di proprietà pubblica se non sono in grado di acquistarlo
a molte famiglie il diri�o a rimanere in un alloggio a canone sociale.
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Facciata esterna dell’edificio est dei Robin Hood Gardens segnato dalle iconiche streets in the sky che scandiscono il prospe�o tagliandolo orizzontalmente.
sos�tuire quello che era un alloggio economico per mol� con appartamen� di lusso per pochi? Il riferimento è chiaramente al complesso residenziale dei Robin Hood Gardens, uno dei pochi esempi sopravvissu� di new brutalism, realizzato degli Smithson, che a meno di cinquant’anni dal completamento, avvenuto nel 1972, con�nuano a rappresentare un riferimento nel diba�to contemporaneo sulla residenza colle�va e sociale. La discussione si è animata negli ul�mi anni – da quando, nel 2008, fu proposta la sua demolizione – ed è sfociata in una serie di pe�zioni cavalcate da esper� del panorama architettonico odierno tra i quali spiccano i nomi di Richard Rogers, Zaha Hadid e Robert Venturi, unitamente all'ex cri�co d'archite�ura del Guardian Jonathan Glancey, che si sono uni� a una campagna della rivista “Building Design” per difenderne la causa richiedendo la concessione del vincolo storico-monumentale in modo da salvare il complesso.
Alison e Peter Smithson, figure di spicco all’interno del Team X, furono tra i pochi che riuscirono a dare compimento a ciò che spesso rimase teorizzato su carta, cercando di dare risposta alla domanda abita�va del dopoguerra, realizzando in Inghilterra quar�eri residenziali in linea con la filosofia del gruppo. Proge� che spesso non vennero recepi� dal contesto conservatore inglese, dando origine ad una specie di malaugurata Brexit archite�onica ante li�eram. Il filo condu�ore del Team X infa�, era cos�tuito dalla ricerca di un nuovo funzionalismo che prendesse maggiormente in considerazione le esigenze sociali e quelle dell’individuo, superando una concezione meccanicis�ca della società. Un punto decisivo era anche la ricerca di una nuova contestualità del proge�o, e quindi anche di un nuovo rapporto con la storia che superasse l’idea, prevalente tra le due guerre, del ricorso ad una tabula rasa per far largo all’invenzione proge�uale.3 3 Social Housing Failures, “Lotus interna�onal” n. 163 22
Prospe�o esterno dell’edificio ovest prospiciente Co�on Street, separato dalla strada da una serie di pilastri in cemento per proteggere il complesso dal rumore del traffico.
A sinistra le cara�eris�che streets in the sky rivolte verso l’esterno. A destra l’esemplare stress- free zone in cui i bambini giocano indisturba� sulla colline�a verde. Immagini d’archivio dei Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson.
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“Alison e Peter Smithson furono gli inventori del Nuovo Brutalismo negli anni '50 e come tali erano i "bellimbusti dei giovani" come li chiamava Reyner Banham. In molti modi [Robin Hood Gardens] incarna le idee degli Smithson sull'edilizia abitativa e sulla città. Due lastre scultoree di alloggi a prezzi accessibili creano il luogo tranquillo e privo di stress tra la modernizzazione in corso del paesaggio urbano di Londra. Le facciate di elementi prefabbricati in calcestruzzo fungono da schermi che negoziano tra la sfera privata dei singoli appartamenti e lo spazio collettivo del giardino interno e oltre. La composizione ritmica delle lastre verticali e le "streets in the sky" orizzontali articolano la proposta unica di un linguaggio architettonico che unisce i valori sociali alla tecnologia moderna e all'espressione materiale. Nonostante l'attuale stato di abbandono e abuso, Robin Hood Gardens comprende un gesto raro e maestoso, radicale e generoso nella sua aspirazione ad un'architettura di associazione umana. Come tale, rappresenta ancora un esempio Dirk van den Heuvel, professore per gli architetti di tutto il mondo”. all’Università di Del�, Olanda
“Ho iniziato con grande entusiasmo nei confronti del lavoro visionario di Le Corbusier e dei suoi seguaci. Nel 1963, come giovane architetto, ho alloggiato nel blocco dell’Unité d 'Habitation a Marseille di Le Corbusier e sono stato ispirato da una lunga visita alla tenuta Park Hill a Sheffield quando ancora era stato parzialmente completato e le prime strade erano ancora in corso di costruzione. L'idea di "strade nel cielo", grandi spazi aperti sul terreno e meravigliose viste da ogni stanza di ciascuna unità, sembrava la migliore via da seguire per le città. E poi nel corso degli ultimi cinquant'anni, ho vissuto in prima persona i gravi problemi e risultati disastrosi di sforzi che hanno concepito la città come un'unica opera di architettura, soprattutto sotto forma di progetti su larga scala progettati per una popolazione di basso reddito”.
Ray Gindroz, Archite�o onorario dell’ Urban Design Associates in Robin Hood Gardens Blackwall Reach -The search for a sense of place
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La visione dei due archite� era ambiziosa: riportare nella mega stru�ura del mass housing la dimensione umana del quo�diano, con un allusivo richiamo a quella vita di quar�ere, fa�a di pos�ni e porta la�e che bussano alla porta, �pica delle aree a bassa densità con villini e palazzine che ritrovavano nel quar�ere vi�oriano di Chelsea, dove i due abitavano. Per citare le parole dei proge�s� “Belonging is a basic emotional need. Its associations are of the simplest order. From ‘belonging’ (identity) comes the enriching sense of neighbourliness. The short narrow street of the slum succeeds where spacious redevelopment frequently fails” (L'appartenenza è un'esigenza emotiva di base. Le sue associazioni sono dell'ordine più semplice. Dall'appartenenza (identità) deriva il senso arricchente del vicinato. La breve strada stretta dei bassifondi riesce laddove la spaziosa riqualificazione spesso fallisce).4 La lezione di Alison e Peter Smithson sta nel privilegiare la sperimentazione come occasione per me�ere a punto gli strumen� a disposizione dell’archite�ura per il disegno delle relazioni umane con gli edifici che abitano, in ci�à sempre più dense. La proge�azione dei Robin Hood Gardens, non a caso, parte dall’analisi del contesto dell’area industriale dei docks: fin da subito i proge�s� individuarono l’inquinamento acus�co e dell’aria, il traffico e il vandalismo fra le problema�che da comba�ere per raggiungere una qualità della residenza che potesse arrivare non solo ai primi occupan� del compllesso, ma anche alle generazioni successive. La necessità primaria era quella di proteggere il complesso residenziale dalla presenza delle infrastru�ure circostan�. Lo sforzo di comprensione di questo contesto difficile si consolida nell’impianto planimetrico. Due edifici, che si a�estano ai confini del 4 Tra�o dal discorso fa�o al CIAM di Aix-en-Provence, 1953 25
lo�o con orientamento nord-sud – parallelamente alle strade trafficate che lo lambiscono – che racchiudono uno spazio centrale: lo stress-free zone. Questo spazio comune è quindi liberato dal traffico veicolare e dominato da una colline�a ar�ficiale realizzata con la terra proveniente dagli scavi delle fondazioni. Il disegno della sezione chiarisce ulteriormente questo rapporto: ai garage pos� al piano seminterrato si accede dall’esterno, e alla stress-free zone solo a piedi, tramite passaggi puntuali. Gli interni delle diverse �pologie di appartamen� si organizzano secondo gli stessi criteri, ovvero collocando le zone ‘rumorose’ dei soggiorni verso il fronte strada, mentre le camere da le�o e le cucine si rivolgevano verso l‘interno; da queste ul�me, gli Smithson immaginarono che i genitori potessero osservare i loro bambini giocare nello spazio verde che separa i due edifici, rispe�vamente di se�e e dieci piani fuori terra. Queste cara�eris�che incarnano perfe�amente l’intento dei proge�s� che definirono infa� il tema di questo proge�o “la protezione”. Volevano cioè o�enere un centro di quiete dalle pressioni frene�che del mondo esterno. Le facciate sul fronte stradale sono segnate dalla presenza di pilastri in cemento per ammor�zzare il rumore del traffico, e dalle streets in the sky, cioè le ‘strade’ sopraelevate, larghe circa due metri, che si allargavano in corrispondenza degli ingressi delle singole unità. Elemento di derivazione urbana, le streets in the sky – quelle connessioni orizzontali che, secondo gli Smithson, mancavano nell’Unitè d’Habita�on di Le Corbusier – erano pensate come tenta�vo di favorire anche nella nuova ci�à ver�cale, quella comunicazione tra gli abitan� e quella socialità �pica della strada, cara�erizzante i quar�eri tradizionali.
Modello del complesso cara�erizzato dai due corpi di fabbrica dispos� lungo i la� del lo�o a seguirne l’andamento e il grande spazio prote�o centrale, cos�tuito da un giardino verde.
Schizzi e fotomontaggi di Peter Smithson sulle streets in the sky, 1953
Viste dalle streets in the sky. Sopra risalen� ai primi anni ‘70, epoca di costruzione; So�o nel 2017, poco prima della demolizione.
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Immagini della mostra presso il Padiglione delle Ar� Applicate curata da Christopher Turner e Olivia Horsfall Turner alla 16 Biennale di Venezia.
Proprio un frammento di una di queste street in the sky è stato esposto al Padiglione delle Ar� Applicate, alla Biennale di Venezia del 2018 a rappresentare quell’avvicinamento dell’archite�ura ai “fa� umani”, centrale nella ricerca sulla residenza colle�va degli Smithson e della loro generazione. Il proge�o del Robin Hood Gardens, che infranse la maggior parte delle regole per un buon alloggio urbano promosso nell’ormai nota Teoria dello spazio difendibile di Oscar Newman, fu sin da subito lungamente contestato e, nel tempo, vandalizzato, come riporta Banham in un suo ar�colo del 1973. Christopher Turner e Olivia Horsfall Turner, curatori della mostra “Robin Hood Gardens: A Ruin in Reverse” alla Biennale, raccontano di come “gli archite� furono incolpa� per l’alto tasso di criminalità presente nel complesso”, e che gli stessi Smithson “furono sciocca� dalla velocità con cui ciò avvenne” e che – parafrasando Peter Smithson – “talvolta gli abitanti trattano diversamente le loro dirette proprietà dagli spazi comuni.” Questo comportamento an�sociale che fece 27
del Robin Hood Gardens un facile bersaglio della cri�ca, non si manifestò mai nella tenuta di Park Hill a Sheffield, altra icona del brutalismo inglese dell’epoca. Cosa causò allora una così differente reazione in due complessi così evidentemente simili? La risposta risiede probabilmente nel fa�o che i due complessi sono sta� costrui� in tempi diversi e, di conseguenza, nella differente natura culturale degli inquilini. L'a�tudine verso l'housing sociale era infa� cambiata: gli abitan� di Park Hill vi si trasferirono molto prima che esso venisse visto come una cospirazione delle classi medie per sbarazzarsi del problema delle classi operaie. E il complesso di Sheffield rispondeva bene proprio alle richieste ed esigenze di questa classe che abitava in gran parte quest'area, facendola sen�re più coinvolta nel proge�o e o�enendone di conseguenza l'approvazione e il consenso. Per quanto riguarda i Robin Hood Gardens, invece, gli affi�uari sembravano essere sta� porta� lì da ques�oni di convenienza economica ed amministra�va e ciò rendeva l'innesto delle dinamiche di
Mostra “Robin Hood Gardens: a Ruin in Reverse” del Victoria & Albert Museum alla Biennale di Venezia 2018.
Frammento della facciata dei Robin Hood Gardens, riassemblato presso il Padiglione delle Ar� Applicate, La Biennale di Venezia, 2018. Foto: Mohamed Somji © Victoria and Albert Museum, Londra.
comunità molto difficile, mancando un piano di interessi ed esperienze condivise. Un tempo dimora di oltre seicento abitan�, i Robin Hood Gardens guadagnarono una ca�va reputazione a causa del crimine e della povertà che vi regnavan e gradualmente caddero in uno stato di decadenza, agevolato dal fa�o di non essere mai sta� ogge�o di manutenzione. Sede di un’entusiasta comunità di condomini, nei suoi primi anni di vita, il Robin Hood Gardens era divenuto malvoluto non solo dalle autorità ma anche dai suoi stessi inquilini. Una consultazione del 2008 ha rilevato infa� che oltre il 75% degli allora residen� non vedeva l’ora di liberarsene, sostenendo la sua demolizione. Quando i blocchi furono completa� all’inizio degli anni '70 – per la precisione nello stesso anno in cui si compì l’evento più significa�vo che ha simbolicamente sancito la fine del modernismo: la demolizione del Prui�-Igoe– il new brutalism era diventato un'espressione archite�onica chiave dello stato sociale e oggi i Robin Hood Gardens racchiudono quegli ideali socialis� di progresso.
La demolizione iniziata alla fine del 2017 non si limita quindi a spazzare via solo un intero complesso residenziale sociale, ma minaccia di schiacciare tu�o l’insieme di quei sogni colle�vi discussi all’interno dei CIAM e del Team X in par�colare. Fin dall’annuncio ufficiale della demolizione, nel 2014, il Victoria and Albert Museum ha espresso il desiderio di acquistare un frammento dell’edificio da custodire nella sua collezione permanente. Un pezzo d’arte “che vale la pena preservare per le generazioni future", ha de�o Turner. L’idea di mostrare un frammento di un fabbricato, i cui abitan� sono a�ualmente costre� ad abbandonare, come un’opera d’arte alla Biennale di Venezia, ha suscitato non poche polemiche, sfociate addiri�ura in manifestazioni. “Perché il Victoria and Albert Museum e l’opinione pubblica britannica reputano il complesso Robin Hood Gardens degno di essere esposto in un museo ma non abbastanza da impegnarsi in prima linea per la sua conservazione?”, chiedevano provocatoriamente gli a�vis�. 28
Fotografia del complesso Robin Hood Gardens nella sua forma originaria.
Viste del playground nella zona verde centrale racchiusa dai due edifici. Image by Sandra Lousada, 1972 © The Smithson Family Collec�on
Personalizzazione delle zone an�stan� gli ingressi degli alloggi sulle streets in the sky. Immagini d’archivio dei Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson.
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Il proge�o del Blackwall Reach Regenera�on Project che sos�tuirà i Robin Hood Gardens.
Viste delle varie fasi di sviluppo del proge�o di Blackwall Reach che sos�tuirà i 214 appartamen� di Robin Hood Gardens con 1.575 nuovi alloggi, oltre a creare nuovi spazi pubblici e di aggregazione.
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E non furono solamente i manifestan� ad accusare il museo, ma anche mol� cri�ci, primo fra tu� Stephen Pritchard, reda�ore dell’”Observer” e presidente dell’Organiza�on of News Ombudsmen, che in un ar�colo pubblicato da “Bella Caledonia” il 1 giugno 2018, non si fa problemi ad apostrofare l’azione del V&A Museum come “furto”. La Twen�eth Century Society insieme alla rivista “Building Design” ha fa�o pressioni affinché il complesso diventasse un edificio quotato, cosa che ne avrebbe impedito la demolizione. Tu�avia, l’unico risultato raggiunto è stato quello di o�enere, nel 2009 dall’English Heritage, la concessione di immunità da demolizione per cinque anni. Trascorso parte di tale periodo di indecisione durante il quale Rogers e il partner Simon Smithson, figlio dei proge�s�, persuasero i professionis� ad inondare il ministro del patrimonio Tracey Crouch con le�ere ed e-mail a sostegno della quotazione, nel 2012 il des�no di Robin Hood Gardens venne sigillato quando il Comitato per lo Sviluppo Strategico del Consiglio di Tower Hamlets ne approvò ufficialmente la demolizione. In una dichiarazione congiunta, il consiglio di Tower Hamlets, la Greater London Authority e il partner di sviluppo Swan Housing Associa�on hanno dichiarato: "Una valutazione approfondita dell'impatto sul patrimonio è stata effettuata nell'ambito dell'applicazione di pianificazione e del processo di valutazione dell'impatto ambientale... Non crediamo che elencare gli edifici in questione nell’albo degli edifici sottoposti a vincolo sarebbe nel migliore interesse dei residenti o della più ampia comunità locale, o in armonia con la natura mutevole del luogo." Un portavoce del Consiglio ha aggiunto: "Come Consiglio, abbiamo il dovere di fornire alloggi che siano di standard accettabile per i residenti locali. I nostri piani per l'area della Blackwall Reach soddisferanno questo dovere e porteranno anche i benefici tanto necessari.” 31
Il sito diventerà quindi parte di un più ampio piano di sviluppo con l'obie�vo di creare un modello esemplare di comunità sostenibile rivitalizzata a�raverso la dotazione di nuove case, nuovi negozi e stru�ure ricrea�ve, nuovi usi per la comunità, nuovi locali commerciali e nuovi spazi aper�. A�raverso il Blackwall Reach Regenera�on Project, l’area vedrà la sos�tuzione dei 214 alloggi preceden� di Robin Hood Gardens con i nuovi 1.575 appartamen� e la creazione di numerosi spazi pubblici. L’operazione di rigenerazione, già in corso d’opera, che manterrà solo il tumulo erboso centrale, come elemento originale dei Robin Hood Gardens, si svilupperà su tre fasi successive: 30 se� 2015 – lancio formale della fase 1A: l’intervento ha riguardato la parte più a nord del lo�o e ha portato alla costruzione di 98 nuovi alloggi - in parte assegna� agli ex-residen� dei Robin Hood Gardens - ai quali si aggiungono la realizzazione di una scuola primaria e di una moschea. 14 o� 2016 – fase 1B e apertura del Reach Community Hub: Interessando la parte più a sud del lo�o, è stato migliorato l’accesso alla stazione DLR di Blackwall e, a fianco della costruzione di tre torri residenziali con spazio per nuovi negozi e caffè al piano terra, è stata realizzata anche una nuova piazza pubblica. 1 nov 2016 – approvazione della fase 2 (lato ovest): proge�ata da Metropolitan Workshop e Haworth Tompkins, consegnerà 268 nuove case in qua�ro nuovi edifici. 28 giu 2017 – fase 3 (lato est): proge�ato da CF Møller, quest’ul�ma fase prevede la realizzazione di 353 nuovi alloggi distribui� su due edifici a corte aperta rivol� verso il centro del complesso. Approccio denominato "inside out" poichè, stando alle parole dei proge�s�, dovrebbe me�ere al primo posto i futuri inquilini.
Schema�zzazione planimetrica del proge�o di rigenerazione urbana con evidenzia� in colore diverso le diverse fasi in cui si sviluppa l’intervento: in viola la fase 1A, in rosso la 1B, in arancione la fese 2 e in blu la fase 3.
A Fall of Ordinariness and Light. GraďŹ te su carta. Traďż˝o dal libro Regeneration! Conversations, Drawings, Archives & Photographs from Robin Hood Gardens di Jessie Brennan, 2014.
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“Una dimostrazione di un modo di vivere più piacevole ... un modello, un esempio, di una nuova modalità di organizzazione The Smithson on Housing, 1970 urbana”. “Sono molto soddisfatto della decisione del consiglio di demolire il complesso. Attendo con ansia le consultazioni in modo che i piani possano andare avanti. Sarà positivo per l'area locale in quanto potrebbe portare posti di lavoro, nuovi appartamenti, nuove case e spazi verdi migliori”. Mohammed Abu Yousuf, presidente dell'Associazione inquilini e residenti di Robin Hood Gardens, East London Lines, 2008
“Sarebbe una tragedia [che i Robin Hood Gardens venissero demoliti]” (...) “I Robin Hood Gardens sono una delle poche grandi proprietà residenziali a basso costo. Era un edificio che ha scosso il mondo, ma è stato curato in modo spaventoso. Qualunque cosa chiunque dica, non conosco architetti moderni migliori degli Smithson: erano certamente eccezionali”. Richard Rogers, durante la campagna contro la demolizione dei Robin Hood Gardens, 2008
“Nonostante l'attuale stato di abbandono e abuso, i giardini di Robin Hood comprendono un gesto raro e maestoso, radicale e generoso nella sua aspirazione a un'archiDirk van den Heuvel, professore di tettura di associazione umana”. archite�ura presso l’università di Del�, 2008
“Gli Smithson erano chiaramente grandi architetti: l'Economist Building, completato nel 1964 e classificato nel I grado nel 1988, è senza dubbio il miglior edificio moderno nel centro storico di Londra. I Robin Hood Gardens, che hanno aperto la strada alle "streets in the sky" per preservare la vita pubblica dei terrazzi dell'East End che ha sostituito, sono stati il successivo lavoro su larga scala che gli Smithson hanno intrapreso. Era architettonicamente e intellettualmente innovativo. Secondo me, è il più importante contributo dell'edilizia sociale del dopoguerra in Gran Bretagna”. 33
“Nessun altro architetto britannico dell'era post-bellica ha la stessa reputazione internazionale degli Smithson”. Twen�eth Century Society (C20), che mira a salvaguardare il patrimonio archite�onico della Gran Bretagna, 2008
Richard Rogers, estratto della mail di petizione per la salvaguardia dei Robin Hood Gardens, 2008
“Il programma di edilizia abitativa del dopoguerra è stato probabilmente il più grande programma di costruzione che il paese abbia mai visto e Londra era l'epicentro di questa "campagna". I Robin Hood Gardens sono particolarmente importanti perché, a differenza di Park Hill o Roehampton - entrambi importanti edifici e degni di nota- è una risposta unica in ambito inglese al problema degli alloggi urbani del tempo. "I Robin Hood Gardens dovrebbero essere visti come l'esempio, per eccellenza, di uno stato che pensava di poter fare meglio attraverso i suoi cittadini. Il fatto che sia stato finalmente completato proprio nel momento in cui questo sogno è stato gettato nel dubbio lo rende storicamente e architettonicamente tanto più significativo" (...) ”Nel 2014 sono stati pubblicati su Dezeen una serie di articoli di opinione e studi di costruzione dedicati al brutalismo, che riflettono il crescente interesse per il periodo. A quel tempo, il dibattito per preservare i Robin Hood Gardens era in pieno svolgimento. Ma solo tre anni più tardi, mentre altri paesi stavano iniziando ad apprezzare e proteggere la loro eredità brutalista, il Regno Unito stava distruggendo la propria”. Simon Smithson, archite�o e figlio dei proge�s� della tenuta, 2016
“È anche un oggetto che stimolerà il dibattito intorno all'architettura e all'urbanistica oggi. Solleva domande importanti sulla storia e sul futuro degli alloggi in Gran Bretagna e su ciò che vogliamo dalle nostre città”. Chistopher Turner su The
guardian, 9 novembre 2017
“I V & A fanno parte del governo e, come il governo, non solo non si preoccupano delle persone e delle comunità della classe lavoratrice, ma cercano attivamente di usare ogni mezzo possibile per ingannarli, sopprimerli e opprimerli. Se avessero avuto strada libera, avrebbero felicemente sradicato la sofferenza della classe operaia non fornendo una società giusta ed equa che si prendesse cura di tutti e fornisse alloggi adatti a lungo termine a chi ne avesse bisogno, ma distruggendola sistematicamente. L'idea che tutti dovrebbero avere una casa, indipendentemente dal loro status economico, è stata spazzata via dall'avidità capitalista. La complicità del V & A (e quindi dello stato) nella pulizia sociale (e di fatto nella pulizia etnica) di East London è a dir poco una disgrazia nazionale”.
Stephen Pritchard, redattore dell’Observer e presidente dell’Organization of News Ombudsmen, in Bella Caledonia, 1 giugno 2018
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Fotografia aerea dello stato a�uale dei Robin Hood Gardens, Google Earth, 2018.
Demolizione dell’edificio ovest della tenuta. Dietro le macerie, i gra�acieli di Canary Wharf, simbolo della vi�oria della speculazione economica sulla gius�zia sociale, 2017
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Sullo sfondo di tale intervento in realtà, si delinea una situazione poli�ca e sociale le cui cri�cità vanno ben oltre la semplice tutela dei beni archite�onici o di una differente percezione dei valori este�ci dell’archite�ura. L’Inghilterra è oggi nel pieno di una delle più grandi emergenze abita�ve di sempre, mentre il sistema del social housing, accidentalmente consolidatosi proprio negli anni del Brutalismo, ha mostrato le sue crepe. Nel contesto a�uale di incremento dei senzate�o, degli sfra�, dei prezzi delle case insostenibili, ci ritroviamo a guardare indietro alla storia degli alloggi sociali come simbolo di speranza, uguaglianza e gius�zia sociale con un po’ di nostalgia ed invidia: per un tempo in cui un alloggio accessibile e dignitoso era visto come un bene pubblico e
le ci�à erano per tu�. Oggi invece gli interessi economici e poli�ci sembrano prevalere su quelli sociali, causando un sempre crescente distacco tra le classi. E i Robin Hood Gardens fanno parte proprio di questo ciclo di gentrificazione guidato dallo stato - di disinves�men� pianifica�, dispersione di gente della classe operaia, demolizione e reinves�mento elitario. La decisione di demolire l'edificio ha provocato una rabbia diffusa, e la più grande mobilitazione mai vista prima per un ogge�o d’arte, con mol� che sostenevano che la sua distruzione fosse mo�vata esclusivamente dal profi�o privato e che, se non fosse stato edificato su un terreno così appe�bile e vicino al centro finanziario di Canary Wharf, quasi certamente sarebbe stato salvato.
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Bibliografia AA.VV. (2018), After Red London. The fall of Robin Hood Gardens in “Lotus Interna�onal” 167 Mumford, E. (2000), The CIAM discourse on urbanism, 1928-1960, MIT Press, Cambridge Nicolin, P. (2017), Dopo i Grands Ensembles in “Lotus Interna�onal” 163 Smithson, A. e P. (1970), The Smithsons on Housing, interview Sitografia www.architectsjournal.co.uk www.blackwallreachcommunity.co.uk www.democracy.towerhamlets.gov.uk www.dezeen.com www.domusweb.it www.metalocus.es www.polinice.org 37
Vele di Scampia
Vele di Scampia
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Ne “Il diritto alla città”, Henri Lefebvre racconta della crisi urbana come un dramma in tre a� il cui epilogo si manifesta con la fine della seconda guerra mondiale. Emerge la crisi degli alloggi e il processo d’industrializzazione riprende fiato con una rinnovata forza dovuta alle necessità della ricostruzione post-bellica. In questa fase, l’urgenza delle tensioni urbane spinge lo stato ad assumersi l’onere della costruzione di alloggi. E’ l’epoca dei grandi complessi, delle nuove ci�à. Il diri�o alla casa affiora nella coscienza sociale. Secondo Lefebvre non è un pensiero urbanis�co quello che genera le inizia�ve pubbliche, ma l’urgente necessità di costruire il maggior numero di alloggi al minor costo possibile. Il conce�o di habitat, con la creazione dei complessi residenziali, diviene tanto funzionale quanto astra�o, portato alla sua forma più pura dalla burocrazia di Stato. Il paesaggio che circonda le ci�à diventa un disordinato patchwork di urbanità disurbanizzata, il paradosso è un’urbanistica che opera contro la ci�à. Ed è proprio in questa dinamica che si inserisce anche il proge�o delle Vele di Scampia: simbolo per antonomasia del degrado della periferia italiana. A Napoli, l’idea delle grandi periferie si manifestò nel 1939, con il nuovo Piano Regolatore di Luigi Piccinato. Il piano prevedeva qua�ro grandi zone di espansione edilizia intorno alla ci�à per diminuire la densità del centro storico. Quest’idea si concre�zzò però, solo a par�re dagli anni ’60, quando il governo nazionale approvò la legge che darà forma alle grandi periferie italiane: la legge 167/62. Nel 1964 il Comune di Napoli ado�ò il decreto: fu così che nacque il nuovo grande quar�ere popolare a nord di Napoli, Scampia,
proge�ato per ospitare 60.000 persone ma poi abitato da più di 90.000. La legge 167, però, mostrò molto presto diverse debolezze: un cocktail distru�vo determinato dai meccanismi finanziari ado�a� per sostenere le opere, e dal fa�o che la costruzione delle a�rezzature pubbliche era prevista solo dopo la consegna degli alloggi. Una scelta infelice, che ha consegnato ai nuovi abitan� periferie prive di servizi, realizza� a singhiozzo e con ritardi decennali. A Scampia, per esempio, il primo commissariato di Polizia aprì solo nel 1987 e la metropolitana raggiunse il quar�ere solamente nel 1995. Inoltre come quasi tu�e le periferie costruite in quegli anni, i grandi lo� delle Vele sono cara�erizza� da un uso esasperato della zonizzazione, che produce enormi insediamen� isola� e distan� dalle a�rezzature. La mancata integrazione tra nuove residenze e servizi essenziali come scuole ed uffici pubblici, diventerà il principale motore di degrado urbano periferico, che a Scampia assume una dimensione epica. Il caso delle Vele è infa� un caso-limite, ma non isolato, di un problema più ampio che inerisce la periferia urbana e, sopra�u�o, Scampia nel suo complesso; le Vele, quelle residue, rappresentano oggi i fondali di una scena di degrado diffusa in cui le situazioni migliori si rivelano, in larga parte, solo laddove vi è una dire�a responsabilità da parte del privato sul bene immobile, piu�osto che laddove il riferimento è un ente pubblico distante. Il caso delle Vele è caso-limite ma non isolato, ancora, di archite�ura consacrata dalla storiografia "ufficiale" ma appartenente ad un passato troppo prossimo e, anche per tale mo�vo, difficile da acce�are1. Eppure, la storia dei "tempi" delle Vele è tanto unica
1 M. Boriani, Obsoleto prima ancora che storico. Conservare il “moderno”?, in Id. (a cura di), La sfida del Moderno.
L’architettura del XX secolo tra conservazione e innovazione, Edizione Unicopli, Milano 2003.
Fotografia di una delle Vele di Scampia dall’interno della Vela adiacente con in primo piano i segni di spari di pistola.
Fotografia aerea del quar�ere di Secondigliano appena dopo il suo completamento, 1975
Modello del proge�o originario, 1962
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quanto paradossale: più di dieci anni per realizzarle – dal 1962 al 1975 – e nel 1995, a vent’anni dalla conclusione del can�ere, il Piano di Riqualificazione Urbana di Scampia ne decreta la demolizione. Infine, l’abba�mento di tre di esse, tra il 1997 e il 2004, con un diba�to pubblicis�co sviluppatosi: prima, durante e dopo la costruzione2, prima, durante e dopo la demolizione, fino ad oggi3. Prima degli anni Se�anta Scampia era, come dice il suo nome, un non-campo, una spianata verde di erbacce oltre le colline di Napoli. Sul suo terreno sorgeva solo il 20% degli edifici di oggi. Tu� gli altri, comprese le Vele, sarebbero venu� dopo, tecnicamente per risolvere un problema: quello della casa. A Napoli l’abitare è sempre stato un elemento posto sul labile confine tra necessità e urgenza e la costruzione delle Vele cercò di dare respiro a questa inarrestabile emergenza. All’interno di un più ampio programma di intervento volto all’espansione della zona di Napoli est, venne scelto il quar�ere di Secondigliano per la realizzazione di un nuovo complesso residenziale. La Cassa del Mezzogiorno affidò la proge�azione del nuovo aggregato all’archite�o Francesco Di Salvo, palermitano di nascita e napoletano d’adozione, che con tu�e le buone intenzioni cercò di applicare nei suoi disegni il conce�o di macchina abitativa lecorbusiana e al contempo creare un perfe�o falansterio in cui ogni famiglia non rappresentasse una realtà a sé ma fosse parte di una vera e propria comunità. Parlando un linguaggio chiaramente megastru�urale, il proge�o di Di Salvo si ar�cola a�raverso se�e enormi blocchi indica�
inizialmente con le le�ere A, B, C, D, F, G e H, a cui venne aggiunta una nuova denominazione croma�ca nel 2003, per le qua�ro stru�ure rimaste in piedi: rispe�vamente Vela Verde, Vela Celeste, Vela Gialla e Vela Rossa. In un’alternanza di soluzioni a torre e a tenda, ogni edificio, di forma triangolare e cara�erizzato da un profilo parabolico che ricorda appunto quella di una vela la�na – da cui il nome Vela – è cos�tuito da due corpi di fabbrica paralleli, molto lunghi (100 m) e orienta� sull’asse nord-sud per massimizzare il soleggiamento, con un’altezza massima di 45 m, corrisponden� a 14 piani, servi� da ballatoi centrali di distribuzione posiziona� ad una quota intermedia rispe�o a quella dell’ingresso degli alloggi. Nelle idee dell’archite�o, tu�o il proge�o avrebbe dovuto trasme�ere una forte iden�tà della cultura partenopea: dai ballatoi di connessione che richiamano lo spazio di relazione del vicolo con i suoi giochi di luce ed ombre, dalle gradonate che evocano la situazione topografica del terreno su cui sorge Napoli, fino alla diversità �pologica degli alloggi che richiama la stra�ficazione della ci�à an�ca, il tu�o trasposto in una dinamica ver�cale ad alta densità. A questo, il proge�o integrava una ricca dotazione di servizi e a�rezzature per la colle�vità, da sviluppare su grandi piastre basamentali e negli spazi verdi dei lo� collega� da lunghe pensiline. Un quar�ere insomma che porta i principi della Carta di Atene alle estreme conseguenze, tentando di creare una difficile sintesi tra nuovi modelli abita�vi defini� dalle tecnologie della prefabbricazione edilizia dell’epoca, e modelli di habitat d’ispirazione locale.4
2 F. Alber�, Ancora a Secondigliano, in “Casabella” 337 (giugno 1969); F. di Salvo, Prèmiere étape d’industrialisation par la mise au point d’un procédè mixte de préfabrication. Application de procédè à des macrostructures urbaines, in “L’Architecture d’aujourd’hui” 148 (febbr-marzo 1970)
1962-1974, Edizione Marsilio, Venezia 2009; Convenzione tecnico-scientifica per il Piano urbanistico esecutivo del lotto M nell’ambito del Programma di riqualificazione urbana di Scampia, Edizione Giannini, Napoli 2010; “ANANKE” 62 (gennaio 2011), Dossier: difendere le Vele di Scampia.
3 F. Paone, Controcanti, Architettura e città in Italia,
4 Casabella 337 (giugno 1969)
A
B
C
D
Sopra: planimetria generale delle Vele di Scampia; So�o: corrispondenza tra la denominazione croma�ca e alfabe�ca delle qua�ro Vele rimaste.
Vista di uno dei vicoli che cara�erizzano i Quar�eri Spagnoli in centro a Napoli.
“Il portico, l’atrio, la scala, sono divenuti luoghi di pericolo, nuove carceri piranesiane, dove, nella penombra di ogni angolo, la microcriminalità può agire indisturbata. […] Così molta gente prova rimpianto per i tempi passati nei quartieri del centro antico dove la vita, pure svolta in un basso o in un buio monolocale, certamente però avveniva in un tessuto sociale più omogeneo e compatto, ove le relazioni interpersonali si svolgevano in uno spazio prossemico noto e controllato. Questa diffusa condizione di malessere e di ripulsa per il proprio ambiente di vita, generata da uno spazio che ha la capacità di modificare e determinare i comportamenti degli individui che ospita, genera a sua volta delinquenza. Il fallimento dell’Unità di abitazione di Marsiglia di Le Corbusier, rimasta prototipo, così come il fallimento delle vele di Scampia rappresentano la disgregazione dell’ideologia e della politica dello zoning, della città considerata come insieme di funzioni separate anche se poste in luoghi vicini. La città antica, invece, garantiva l’integrazione sociale ed economica, aggregando negli stessi luoghi realtà di estrazioni diverse, anche culturali, oltre che sociali ed economiche”. Enrico Sicignano, “Costruire in Laterizio” n°65, 1998
“Entrando in una Vela si ripercorre idealmente il vicolo napoletano: sui larghi corridoi che collegano le unità abitative si sentono le "voci" di chi ci abita, gli odori del cibo e nelle belle giornate, su quei ballatoi la gente si trattiene a chiacchierare”.
Isabella Guarini, Le case a vela di Scampia-Napoli, Terpress, 11 o�obre 2011
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I due corpi di fabbrica paralleli con il vuoto interno occupato dal sistema distribu�vo composto da ballatoi centrali sospesi da cui si diramano le passerelle d’accesso agli alloggi.
Sebbene gli intenti del progettista fossero nobili, qualcosa andò storto durante la fase esecutiva, trasformando le Vele da simbolo di modernità e rivincita in un posto infernale, roccaforte della malavita. Il progetto infatti, in fase di realizzazione, fu completamente stravolto dall’impresa costruttrice per diverse ragioni prima fra tutte la necessità di adeguamento sismico, che implicava l’adozione di una struttura portante in cemento armato a “tunnel”, con un basso grado di adattabilità spaziale e dalle prestazioni tecnologiche scadenti. Per quanto riguarda i prospetti non venne realizzata la forma parabolica che avrebbe dovuto identificare il profilo a vela ma venne realizzata una ziggurat composta da facciate chiuse che hanno condizionato non poco la luminosità degli ambienti interni. Inoltre, per la realizzazione dei ballatoi sospesi, invece della struttura prefabbricata a cavalletto progettata da uno dei più grandi strutturisti italiani – Riccardo Morandi – ispirata alle opere di Kenzo Tange, fu realizzata una strut45
tura trilitica prefabbricata, volta alla riduzione dei costi di realizzazione. Tale modifica comportò la diminuzione della distanza tra i blocchi abitativi da 10,80 metri agli 8,20 metri attuali, peggiorandone visibilmente l’illuminazione, l’areazione e la vivibilità. I pianerottoli di collegamento, come se non bastasse, non vennero realizzati in materiale leggero e trasparente, ma in cemento, impedendo ulteriormente alla luce e all’aria di raggiungere le abitazioni. A rincarare la dose interviene il forte terremoto dell’Irpinia, il 23 novembre del 1980. Napoli, come altre città, fu molto colpita: “Nella capitale dei senzatetto, nella città dove un esercito di persone non ha casa e la reclama ogni giorno e non si sa dove ospitarle,” scriveva Il Mattino, “i mille e mille appartamenti nei quali il terremoto ha aperto crepe e fenditure fanno nascere una situazione tragica di emergenza.” Più passavano i giorni, più aumentava la tensione e gli abitanti dei quartieri storici popolari danneggiati occuparono abusivamente le Vele non ancora completa-
Vista assonometrica del modello di proge�o originario, 1962
Sistema a cavalle�o ispirato alle opere di Kenzo Tange per la stru�ura dei ballatoi.
Terremoto dell’Irpinia del 1980.
Immagine della Vela C, che, invece di essere cara�erizzata dal profilo parabolico, assume l’aspe�o di una ziggurat, andando ad influire anche sull’apertura delle facciate.
te, prive di infissi, ascensori, acqua, elettricità e gas, causando il sovraffollamento delle residenze e la trasformazione dei piani porticati previsti nel progetto in abitazioni di fortuna. Abitanti di diverse aree difficili della città si trovarono insieme in questo enorme contenitore, spaesati e sradicati dai propri riferimenti sociali e collettivi. Fu così che quella scala, quel vicolo, quell'atrio, quel portico, simboli di una Napoli tradizionale, si trasformarono in una grande trappola che ha permesso alla criminalità di agire indisturbata. I residenti infatti, non sentendosi protetti dalle autorità, trovarono conforto nell’unica realtà presente dotata di potere: la camorra. Tutti ne trassero vantaggio, affiliandosi direttamente con i clan, o ricevendo soldi e protezione per il solo fatto di rimanere in silenzio. Il quartiere in breve tempo fu subordinato a quelle regole non scritte che però chiunque viva nelle vicinanze conosce e rispetta. Alla scarsa identificazione degli abitanti che
non riscontravano nelle Vele una dimensione umana, hanno fatto seguito cattive politiche amministrative e assenza dei servizi previsti in loco e di connessioni, in termini di trasporto, con i centri metropolitani. È così che le Vele sono diventate delle grandi navi di cemento traboccanti di rifiuti; delle baraccopoli verticali occupate abusivamente in cui lo stato di degrado degli spazi è qualcosa che non si può immaginare nei confini dell’Europa contemporanea. Sul percorso per risalire i 14 piani si incontra un’alternanza di appartamenti ancora abitati o demoliti, quindi riempiti di detriti e rifiuti, che si fa largo fino agli ultimi piani irraggiungibili usati come discariche, e ancora, grandi cavedi degli impianti divelti, fiumi d’acqua nei ballatoi del piano terra, miriadi di cavi liberi che attraversano spazi già saturi di cemento, ascensori fermi da sempre e poca luce. Gli edifici sono immensi, e nonostante il disfacimento, la vita che ospitano rivela una grande resilienza. Una resilienza che è raccontata anche in un documentario “La Chimera – 46
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Appunti per un film sulle Vele di Scampia”.5 Un documentario che racconta delle vite normali di quanti ancora vivono nelle Vele. Abbandonate a se stesse sin da subito, le Vele di Scampia divennero presto territorio della malavita locale, luogo di spaccio e consumo di sostanze stupefacenti, prostituzione e persino discarica a cielo aperto, visto che i normali servizi, come ad esempio la pulizia, il recupero dei rifiuti e la manutenzione dell'immobile, sono stati quasi sempre inesistenti. Dimenticati dalle istituzioni, i residenti accolsero l’illegalità quale provvisoria forma di stabilità, facendo del complesso la piazza di spaccio più grande d’Europa. Eroina, cocaina, crack, droghe sintetiche sono solo alcuni degli stupefacenti che le autorità cercano di bandire dal quartiere. Tuttavia sembra essere talmente importante la presenza criminale all’interno del rioneche le stesse forze di polizia hanno spesso il timore di intervenire. L’utopia di Di Salvo si è quindi trasformata in una distopia in cui l’architettura viene soggiogata dal caos generato dall’abbandono da parte dello stato e dalla presenza della camorra. Il nuovo quartiere è diventato presto insomma una periferia nella periferia, dove il senso di alienazione è più forte che mai, anche a causa della presenza di una rete stradale a scorrimento veloce che non permette ai residenti né di aggregarsi, né di identificarsi. Non si vive quindi a Scampia, si abita, e male. Basti pensare che nel contesto, in cui mancano tuttora i lampioni lungo le strade, gli spazi pubblici, i negozi, le opere di urbanizzazione e regolari allacci impiantistici, prima di una nuova scuola, di un liceo o di un parco per i nuovi abitanti, a essere stato attivato e messo in funzione è stato il Sert, uno dei pochi centri di somministrazione del meta-
done che ha richiamato frotte di tossicodipendenti da tutta la città, dalla provincia e dalla regione, in un ambiente sociale privo di riferimenti dove si registra anche uno dei tassi di disoccupazione più alti d’Italia. Il male di Scampia non è certo imputabile ad una struttura fin troppo avveniristica per l’epoca in cui è stata concepita – e ultimata a metà degli anni ’70 – non è imputabile a quegli iconici palazzi che volevano rievocare con le loro forme il mare e i vicoli di Napoli, che volevano essere navi in pietra della speranza su di un quartiere desolato. È ridicolo al giorno d’oggi credere che l’origine di tutto sia stato il sogno di un architetto, che possa essere un semplice palazzo la causa di tutto questo orrore. Altrimenti, se così fosse, quelle stesse strutture avrebbero dovuto generare lo stesso male a Montreal, e in Francia – dove edifici simili sono diventati quartieri di lusso capaci di migliorare l’immagine dell’intera città. La colpa, se di colpe vogliamo parlare, è di chi in quel sogno architettonico non ci ha mai creduto, abbandonando al suo interno gli abitanti di Scampia in balia di loro stessi. La colpa è di chi ha permesso alla vita e allo spirito di sopravvivenza dei suoi abitanti di sopraffare questi edifici, di avere la meglio e trasformarli in relitti di pietra abitati da abusivi. Nonostante quello sul fallimento delle Vele di Scampia sia un discorso chiaramente più complesso e stratificato, dove ogni attore compie un gesto che durante il processo contribuirà a degradare il risultato finale, fino ad una dimensione di totale irrecuperabilità, una buona fetta delle responsabilità può essere attribuita alle istituzioni; a quelle istituzioni che non hanno saputo gestire la situazione, che non sono riuscite a coordinare la nascita di servizi al fianco delle residenze e che non si sono impegnate a seguire i
5 realizzato dai registi napoletani Walter De Majo, Giovanni Dota, Elio Di Pace e Matteo Pedicini, presentato alla 74esima
Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, fuori concorso nell’ambito delle "Giornate degli Autori"
Locandina del documentario “La Chimera”, 2017.
Sopra: Olympic Village di Montreal, 1976; So�o: André Minangoy, complesso di Marina Baie des Anges, Costa Azzurra, 1960
Fotografie degli abitan� del quar�ere. A sinistra la malavita fra gli adul�; A destra l’influenza che questa ha sui bambini che ci abitano. Fotografie di Salvatore Esposito.
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Lo skyline del quar�ere di Scampia dominato dal profilo parabolico delle Vele, in un contesto di abbandono e degrado.
Fotografie del degrado fisico degli edifici, u�lizza� come discariche.
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Circondate dal verde incolto e selvaggio, le Vele sembrano elevarsi ancor più come “rovine” nella loro monumentalità.
Fotografie del profilo di una delle Vele e il suo intricato sistema distribu�vo che, in una rappresentazione roman�ca, rispecchiano gli inten� idilliaci del proge�sta.
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Nuova palazzina dall’aspe�o più umano e dalle dimensioni più rido�e costruita per il trasferimento degli abitan� delle Vele in risposta alla demolizione prevista.
nuovi residenti in un processo di identificazione e creazione di relazioni di comunità. Le Vele rappresentano un insuccesso al quale, nel 1997, il sindaco Antonio Bassolino decise di porre rimedio abbattendone tre delle sette originariamente costruite. L’intenzione di estirpare alla radice ciò che era ritenuto l’incarnazione del male però si rivelò subito fallimentare; i comparti residenziali costruiti in sostituzione risultano privi di qualsiasi logica programmatica volta a trasformare il tessuto sociale preesistente. Ancora oggi i residenti vivono in un disagio nel quale il malaffare continua a soffocare la rinascita. “La demolizione è il modo per nascondere lo sporco sotto il tappeto senza trarre insegnamento dal passato”, ha affermato l’architetto Ada Tolla in un articolo per il New York Times. La questione Vele era ancora aperta quando, nell’estate del 2016, una delibera comunale ha previsto l’abbattimento di tre delle quattro Vele ancora in piedi e la riqualificazione della quarta. Il Comune ha inviato il progetto al Governo per ottenerne l’approvazione e lo 51
stanziamento di 18 milioni di euro, e il tutto è stato ufficializzato nella primavera 2017 dal sindaco Luigi de Magistris che ha ribadito la volontà di demolire altre tre Vele e bandire, per la quarta, un concorso internazionale inteso a fare dell’ultimo gigante razionalista un nuovo incubatore di servizi. Quella che non sarà abbattuta, stando ai piani, è la Vela Celeste che, prima di essere trasformata in sede degli uffici della Città metropolitana, è destinata a diventare una sorta di grande centro di accoglienza della periferia Nord per chi non ha una casa, e per quegli occupanti abusivi che risiedono nelle strutture da demolire. Ma per chi vive il quartiere tutto questo appare perlopiù un prestito di speranza e fantasia: "Ci sono ancora almeno 350 famiglie – accusa Salvatore, uno degli abitanti storici della Vela Celeste – ho paura che non avverrà niente. Resterà tutto così, e noi saremo condannati a vivere nel degrado, in case dove non batte mai il sole". Lo teme anche Antonio Fabbrocino, residente in uno degli edifici da distruggere: "Sono vent'anni che sentiamo dire che abbatteranno le Vele,
Sequenza di fotogrammi raffiguran� la demolizione della Vela H, 1997.
Striscione apparso sulla Vela verde che recitava una scri�a molto significa�va: “Quando il vento dei soprusi sarà finito, le Vele saranno spiegate verso la felicità” realizzato da Rosaria Iazze�a in occasione di "Parole dal Cemento", giugno 2018.
ma sono ancora in piedi. La verità è che questi mostri sono un business, fanno comodo a molti”. "Sono sicuro che questa volta ci siamo – insiste invece Omero Benfenati, rappresentante del Comitato Vele, che da anni lotta per gli abitanti dei mostri di cemento – le Vele verranno distrutte e cancelleremo un simbolo negativo. E pensare che ci sono illustri intellettuali e burocrati che sostengono che dovrebbero essere salvate, come fossero un monumento. Inviterei queste persone a viverci con le loro famiglie per qualche giorno. La verità è che pensano di trattare gli abitanti delle Vele come scimmie in gabbia. Ma Scampia non è uno zoo".6 Come si può facilmente intuire, sul futuro di Scampia e delle Vele i punti di vista sono molteplici: gli abitanti e il Comitato Vele ne vogliono la demolizione per far posto a delle residenze più umane, gruppi di architetti invece promuovono petizioni per salvarle,
altri chiamano in causa questioni ecologiche relative all’opportunità del riuso, e altri ancora fanno appello all’importanza estetico/architettonica degli ecomostri.7 L’area oggi, grazie alla presenza di una stazione della metropolitana, è collegata con la zona ospedaliera, con il centro, con la stazione, ed è vicinissima anche all’aeroporto di Capodichino e a diversi centri commerciali, risultando così, almeno apparentemente, un po’ meno isolata dal resto della città. Per quanto riguarda i servizi, nel progetto di riqualificazione di Scampia c’è la realizzazione di ScampiSan, nuova sede della Facoltà di Medicina nell’area della ex Vela H, oggi giunta al 90% dei lavori. Tuttavia, ragionare in maniera puntuale ignorando la condizione delle aree circostanti porterebbe alla riproposizione di errori già visti. Bisogna, quindi, spostare il focus dell’analisi su propositi di rigenerazione che
6 La Repubblica, 2 dicembre 2017 7 Cfr: Boeri, A., Longo, D . (2012), “High dencity suburbs
redevelopment and social hou¬sing retrofi�ng for ci�es regenera�on” in Sustainable city VII,Urban regenera�on and Sustainability, WIT press
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coinvolgano l’intero quartiere. Risulta necessario prevedere, all’interno di un nuovo sistema di vicinato, l’insediamento di attività terziarie e di servizi. Innestare all’interno di un sistema chiuso e consolidato iniziative atte al coinvolgimento della comunità potrebbe rilevarsi un’alternativa efficace e sicuramente più economica rispetto a quella adottata fino ad ora. Benché ridotte a relitti di pietra abbandonate in un oceano di degrado, le Vele, al pari di un rinomato monumento, sono ormai simbolo di Scampia e del tentativo di Di Salvo di dare nuova vita al quartiere con costruzioni che fossero belle da vedere, come vele spiegate all’orizzonte. Invece che cercare di negarne l’esistenza cancellandolo dalla mente di tutti, non sarebbe molto più opportuno, e meno dispendioso per le casse del Comune, restituire una nuova dignità a ciò che resta del progetto di Di Salvo, facendo di questi palazzi-simbolo le Fenici di cemento che risorgono dal proprio degrado? “Un errore gravissimo” ha detto il critico d’arte Vittorio Sgarbi in merito alla decisione di abbattere le Vele, dai microfoni della trasmissione InOnda di La7: “Un errore di una città di barbari. Perché le Vele sono il simbolo di una decadenza materiale e morale, ma proprio per questo dovrebbero esserne il monumento. È ridicolo spendere 18 milioni di euro per buttarle giù. Vanno conservate. Possono essere abbandonate, possono diventare un rudere. Dovrebbero rimanere in piedi. Non so chi abbia avuto questa idea del cazzo di buttare giù le Vele perché sono il luogo della droga, del male… si possono sfollare. Qui potrebbe stabilirsi la sede di un museo della mafia. Ma anche la presenza materiale dell’edificio potrebbe essere un monito” e infine aggiunge “Un simbolo nega-
tivo rimane comunque un simbolo”. Napoli dunque avrebbe bisogno di imparare di più dalla propria storia e dai propri errori, ricordare i luoghi per ciò che sono stati e guardarli per quello che potrebbero diventare, senza vergognarsi del proprio passato, riscrivendone con fierezza il destino, dimostrando al mondo che quest’ultimo non può essere influenzato da una struttura architettonica, ma che da essa può rinascere e rendere giustizia non soltanto a questi storici palazzi della periferia, ma anche all’architetto che con speranza li ha disegnati. Resta tuttavia da considerare che le condizioni fisiche e in particolari sociali hanno raggiunto livelli da terzo mondo, e che, se una soluzione diversa esiste, non può sintetizzarsi in slogan propagandistici e nel mero tentativo di coinvolgimento della comunità esistente. Mantenere le Vele come documento-monumento di un'utopia naufragata, o raderle al suolo per sconfiggere radicalmente la malattia ad esse connaturata, è questione che inerisce una valutazione che gli economisti definirebbero "multicriteriale”. Si potrebbe provare ad analizzare valori e disvalori delle architetture di Di Salvo, partendo proprio da questi ultimi: in prima istanza, quello della scala, fuori misura rispetto alla presenza umana. Ancora, è stato più volte richiamato lo scarto tra progetto ed esecuzione quale causa del fallimento delle Vele.8 Anche in tal caso, ciò non ne giustifica come conseguenza, la distruzione. L'inabitabilità costituisce, in ultimo, il più macroscopico tra i disvalori delle Vele. Immediato è il riconoscimento di un valore empatico-emozionale che annulla l'uomo di fronte alla grande dimensione ma che fa avvertire, al contempo, la forza dell'idea generatrice. 8 Cfr. G. Lavaggi, Le variazioni tra progetto e realizzazione, in Convenzione tecnico-scientifica già citata.
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Rappresentazione iconica del degrado fisico delle Vele di Scampia.
Le Vele rappresentano frammenti di un piano, rivelatosi utopico e a-contestuale, di rifondazione della città contemporanea; sogni infranti di un'architettura-quartiere che, nata dalle ambizioni di una pianificazione iper-razionale, si è scontrata, nella realtà, con difficoltà di realizzazione e di coordinamento delle iniziative da parte dell'ente pubblico. Conferire al luogo e alle architetture residue una nuova "urbanità" e centralità attraverso scelte multifunzionali, può rappresentare un’alternativa percorribile. Come suggerisce Renzo Piano nel memorandum per gli architetti: “Bisogna sempre ricordare che fare architettura significa costruire edifici per la gente. Università, musei, scuole, sale per concerti sono tutti luoghi che diventano avamposti contro l'imbarbarimento, sono luoghi per stare insieme, luoghi di cultura, di arte e l'arte ha sempre acceso una piccola luce negli occhi di chi la frequenta”.9 Requisito indispensabile è una riqualificazione delle Vele che parta dal basso: un processo fortemente "partecipato" e democratico nella scelta delle funzioni, come insegnano recenti esperienze europee, dall'Olanda alla Francia. Le Vele necessitano di concorsi di
idee in cui, accanto agli urbanisti e agli architetti, siano richiesti sociologi e abitanti di Scampia nel gruppo di progettazione.10 Riprendendo, ancora, le parole di Piano: “Per fare bene bisogna capire e ascoltare. E' un’arte complessa quella dell'ascolto – ricorda – è difficile perché spesso le voci di quelli che hanno più cose da dire sono discrete e sottili. Ascoltare non è obbedire, non è trovare i compromessi: ascoltare è cercare di capire e quindi fare progetti migliori”.11 Parole che ben si adattano al problema Vele: il programma di recupero di tali monumenti dell'utopia può tramutarsi, esso stesso, in progetto, sociale e civico prima che architettonico, di "demolizione" di una condizione oggi insostenibile. Citando le parole di Valentina Russo, docente di restauro della Facoltà di Architettura della Federico II, “Preservare le Vele, implica farne laboratori di una progettualità "sostenibile" in senso energetico e, di conseguenza, economico, da portare avanti gradualmente, quale simbolo di un'inversione di rotta, di un riscatto. La loro conservazione e rifunzionalizzazione può caricarsi di quella valenza catartica di cui Scampia – e non solo le Vele – ha tanto bisogno”.
9 “ANANKE” 62, gennaio 2011 10 L’invito ad un concorso di proge�azione è anche in B.
Gravagnuolo, Vele, periferia da salvare, in “Corriere del Mezzogiorno”, 25 marzo 2011
11 “ANANKE” 62, gennaio 2011 54
“L’unica Vela che deve restare in piedi è quella tatuata sul mio braccio”. Lorenzo Liparulo, leader del Comitato Vele e abitante delle Vele dalla fine degli anni ’90.
“Il cortile interno e la forma della Vela si combina con il momento più umile e vivace della vita di Napoli, il vicolo, con l’opulenta iconografia della città delle acque. Per me è importante che si riconosca che “le Vele” non sono un fallimento dell’architettura, ma piuttosto un fallimento nell’esecuzione e nella manutenzione. La demolizione è soltanto un modo per nascondere lo sporco sotto al tappeto, ma non è il modo giusto per imparare dal passato”. Ada Tolla, New York Times, giugno 2015
“Il progetto di mio padre è stato stravolto. Sappia il sindaco che quello che hanno realizzato a Scampia è un aborto. Mio padre aveva previsto spazi più ampi, cinema, infrastrutture e giardini”. Mizzi, figlia dell’archite�o all’allora sindaco Rosa Russo Iervolino
“Centinaia di famiglie ammassate come polli in batteria[…]La privacy non esiste. Metti un camorrista in queste gabbie e tutto il quartiere viene controllato dal mafioso”. Il Ma�no, 1981
“Le devono abbattere, non le vogliamo più vedere. Rappresentano il male, quando invece, qui a Scampia c'è tanta brava gente”. Rosaria e Maria, pensionate, in L’urlo di Scampia: Quelle Vele sono il male, distruggetele, La Repubblica, 2 dicembre 2017
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“Sono venuti attirati dal miraggio di una casa e per conquistarsela hanno sfidato la forza pubblica; sarebbero stati disposti a fare le barricate. Poi si sono accorti che in queste case puoi soltanto illuderti di poter condurre una vita normale […] È stato fatto solo l’allacciamento elettrico. Poche le abitazioni con i servizi igienici. Tutto il complesso della 167 è stato recintato da uno steccato di lamiera; per accedere agli ingressi devi giostrarti tra fossi e sentieri di melma[…] Su diverse scale non ci sono i parapetti e la settimana scorsa un bambino di due anni e mezzo è stato preso al volo dalla madre mentre tentava di scendere. Gli occupanti hanno dovuto provvedere improvvisando una ringhiera con assi di legno. In molti appartamenti mancano le finestre, in alcuni perfino le porte”.
Il Ma�no, 1981
“Ogni giorno vado a caccia di topi. Abbiamo le case infestate. Ho trovato persino due lunghi serpenti. Sono vent'anni che sentiamo dire che abbatteranno le Vele, ma sono ancora in piedi”. Antonio Fabbrocino, residente delle Vele in L’urlo di Scampia: Quelle Vele sono il male, distruggetele, La Repubblica, 2 dicembre 2017
“La mancanza di case obbliga tanti di voi a vivere in alloggi di estrema precarietà, in condizioni che non favoriscono certamente il dovuto rispetto della dignità dell’uomo. Sempre più acuta diventa la crisi dell’occupazione con le negative conseguenze legate al lavoro nero e a quello minorile. Troppi ragazzi, poi, abbandonano precariamente la scuola senz’altra prospettiva che la strada, spesso solo palestra di delinquenza e di devianza sociale. A ciò si assommano il diffondersi del vizio, il dilagare della tossicodipendenza e dell’alcol, l’acuirsi del fenomeno della criminalità e della violenza anche di stampo camorristico”.
Papa Giovanni Paolo II durante la visita al quartiere di Scampia, novembre 1990
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Fotografia aerea dello stato del quar�ere nel 2016. In basso a sinistra la nuova stru�ura ancora in costruzione dello ScampiSan, il distaccamento dell’Univarsità Federico II di Napoli.
Immagini delle nuove palazzine costruite al posto delle Vele demolite nei primi anni 2000.
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Il presente saggio non intende condannare in toto la demolizione, ma semplicemente sottolinearne l’inefficacia se adottata con leggerezza e senza una logica programmatica che tenga conto di innumerevoli fattori, in primis quello sociale. L’azione di demolizione avvenuta nei primi anni 2000, infatti, è risultata fallimentare in quanto aveva la presunzione di poter cambiare il volto del quartiere e lo stile di vita dei suoi residenti semplicemente cambiando la tipologia degli edifici. Senza prendere provvedimenti circa l’inserimento di servizi pubblici e attrezzature a supporto della vita quotidiana, l’attenzione è stata posta solamente sul singolo edificio, che come prevedibile non ha potuto dare risposta alla necessità di cambiamento. Se non inserito all’interno di un più ampio e strutturato piano di riqualificazione o rigene-
razione urbana, infatti, è impossibile pretendere che alla situazione attuale possa essere posto rimedio. Il non puntare su un’azione volta a trasformare il tessuto sociale preesistente, provoca un processo di costruzione e ricostruzione che può essere ripetuto mille volte, con forme sempre diverse, senza però mai affrontare il nocciolo duro del problema. Se, al fianco della demolizione, non avviene anche un agire contemporaneamente sulle persone, si rischia di cadere in una spirale senza fine in cui il problema non fa altro che venire frammentato e spostato da un edificio all’altro, rimanendo per sempre comunque un problema. Puntare dapprima sulla risoluzione della questione sociale può portare al risparmio di questi giganti del modernismo o, al contrario, può causarne l’abbattimento.
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Bibliografia AA.VV. (2011), Dossier: difendere le Vele di Scampia in “Ananke” 62 Alber�, F. (1969), Ancora a Secondigliano in “Casabella” 337 Boeri, A., Longo, D. (2012), High density suburbs redevelopment and social housing retrofitting for citiesregeneration, WIT press, Southampton Boriani, M. (2003), La sfida del Moderno. L’architettura del XX secolo tra conservazione e innovazione, Edizione Unicopli, Milano Di Salvo, F. (1970), Prèmiere étape d’industrialisation par la mise au point d’un procédè mixte de préfabrication. Application de procédè à des macrostructures urbaines in “L’Architecture d’aujourd’hui” 148 Fusco, G. (a cura di) (2003), Francesco Di Salvo: opere e progetti, Clean, Napoli Guarini, I. (2011), Le case a vela di Scampia-Napoli in “Terpress” Lavaggi, G. (2010), Convenzione tecnico-scientifica per il Piano urbanistico esecutivo del lotto M nell’ambito del Programma di riqualificazione urbana di Scampia, Edizione Giannini, Napoli Paone, F. (2009), Controcanti, Architettura e città in Italia, 1962-1974, Edizione Marsilio, Venezia Sicignano, E. (1998), Le Vele di Scampia a Napoli ovvero il fallimento dell’utopia in “Costruire in Laterizio” 65 Sitografia www.ilgiornaledellarchite�ura.com www.interne�uale.wordpress.com www.thevision.com 59
Southagate Estate
Southgate Estate “New Town”. Questo è il termine che in Gran Bretagna, a par�re dagli anni Quaranta, definì il programma di ricostruzione postbellica, comprendendo inizia�ve di ridistribuzione e riequilibrio della popolazione e delle a�vità, che prevedeva la pianificazione di molte “ci�à nuove” dislocate sul territorio nazionale e sopra�u�o intorno alla Grande Londra. Tale idea, che cos�tuiva una vera innovazione nell'urbanis�ca contemporanea, era dovuta al rifiuto del fenomeno della grande ci�à prodo�a del capitalismo industriale, rifiuto basato sulla più an�ca tradizione anglosassone di un habitat a bassa densità, legato alla natura e alla casa monofamiliare: una ci�à che doveva coniugare i vantaggi dell’effe�o urbano e i benefici di quello rurale, insomma. Ne sono un esempio le proposte di “garden ci�es” (ci�à giardino) elaborate da Ebenezer Howard a par�re dalla fine del XIX secolo, a loro volta legate al filone dell'utopia urbanis�ca del socialismo roman�co. Così le new towns sono sorte applicando il modello della garden city ai problemi del decentramento delle grandi ci�à, della redistribuzione industriale, del degrado della residenza operaia periferica e dell'abbandono della campagna. L’applicazione del principio della garden city quale modello spaziale autosufficiente si è poi concre�zzato nel conce�o di “ci�à satellite”, prevalentemente residenziale, non più concepita come en�tà indipendente ma relazionata ad altre dislocazioni complementari. Il processo che portò alla realizzazione delle new towns ebbe inizio nel 1937 quando una commissione presieduta da Sir Montague Barlow fu incaricata di studiare la distribuzione della popolazione industriale inglese e di proporre soluzioni per l’eccessiva concentra63
zione urbana ed economica. La Seconda Guerra Mondiale impedì, sul momento, l’applicazione delle linee guida tracciate dalla commissione Barlow; il piano Abercrombie volto a deconges�onare l’agglomerato londinese ne riprese però i contenu� e le linee guida. Con il New town act del 1947 fu avviata la costruzione di 13 ci�à inizialmente previste per una popolazione compresa tra i 20.000 e i 60.000 abitan� ciascuna, e con insediamen� a bassa densità, ubicate presso le vie di comunicazione principali e dotate di zone industriali esterne. L’inizia�va ebbe alterne fortune nel corso degli anni ‘50 e ‘60. Obie�vo di fondo era il riequilibrio delle grandi concentrazioni urbane generate dallo sviluppo capitalis�co e, sopra�u�o, il deconges�onamento dell’area londinese, intorno alla quale gli insediamen� venivano per la maggior parte localizza�. Tale decentramento, essenzialmente residenziale anziché essere esteso anche alle a�vità produ�ve, ha prodo�o risulta� discu�bili, conferendo un cara�ere monofunzonale (residenza-dormitorio) al nuovo nucleo insedia�vo. In questo contesto Runcorn, una ci�adina a sud-est di Liverpool distante 26 km dal centro e situata sulla riva sud del fiume Mersey, fu designata New Town nel 1964, e si espanse notevolmente negli anni ‘60 e ’70, portando grandi cambiamen� e più che raddoppiando la sua popolazione. Gran parte dell’archite�ura della nuova ci�à era innova�va, in par�colare lo sviluppo di Southgate Estate, proge�ato da James S�rling. L’insediamento in ques�one, però, fu affli�o fin da subito da enormi problemi, tanto che fu demolito all’inizio degli anni ’90, dopo solo una decina d’anni dalla sua realizzazione.
Fotografia aerea di Southgate Estate nella new town di Runcorn nel 1975.
Gli edifici ad appartamento della prima fase di costruzione con le cara�eris�che finestre ad oblò del 1975 Le originali ville�e a schiera della seconda fase di costruzione rives�te in vetroresina variopinta del 1977.
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Runcorn offrì una soluzione ad alta densità, con palazzi di cinque piani, al problema degli alloggi nazionali in un momento in cui gli "slum" vi�oriani nella vicina Liverpool venivano demoli� in serie. Il piano generale per l'intero sviluppo di Runcorn New Town, di cui il complesso di Southgate era solo una parte, fu reda�o dall'archite�o capo Arthur Ling nel 1966. Southgate era la se�ma di nove comunità residenziali da costruire a�orno al centro della new town, solo una delle quali, Beechwood, era privata. Ciascuna di queste singole aree residenziali ricevette la propria iden�tà a�raverso l’impiego di diversi s�li di costruzione, fornendo "un senso di iden�tà separata che poteva essere riconosciuto dagli abitan�".1 L’espansione fu proge�ata con l’obie�vo di deconges�onare le aree urbane a forte concentrazione industriale della vicina Liverpool, offrendo allo stesso tempo opportunità per migliori condizioni di vita e prospe�ve di lavoro. Per Ling, questa visione utopica era “un'opportunità per far avanzare l'arte e la scienza dell'urbanis�ca allo scopo di creare un nuovo ambiente e una nuova comunità”. Ambientato in un vasto terreno agricolo senza specificità, la morfologia del complesso di edilizia pubblica modernista proge�ato da James S�rling e dal suo partner responsabile del proge�o, Michael Wilford, aveva un rido�o contesto storico da cui a�ngere. Fu chiesto loro, infa�, di considerare i sistemi di costruzione industrializza� come �pologia di stru�ura per la proprietà per ragioni di velocità e costo, e fu anche richiesto di mostrare un certo grado di rispe�o per quelle par� della proprietà già costruite, cos�tuite dalla tenuta The Brow.2 Con il suo
aspe�o apparentemente casuale e pi�oresco composto da piccole case in ma�oni con te�o a falde, disposte lungo strade tortuose a cul-de-sac, The Brow era un'interpretazione moderna di una ci�à an�ca.3 Il proge�o di S�rling dispensò tu�e queste cara�eris�che e impose al complesso una diversa iden�tà: le lunghe file di abitazioni prefabbricate di calcestruzzo, disposte lungo le dire�rici di una griglia formale, respingevano tu�o ciò che era tradizionale nei metodi di costruzione, nei materiali e persino negli s�li di vita; questa era essenzialmente una proprietà moderna per una ci�à moderna. Terminato nel 1977, il famigerato complesso era forse uno degli sviluppi urbani più bizzarri mai costrui� in Gran Bretagna – e forse per questo visto con diffidenza dalla cri�ca britannica dell’epoca – e fu e�che�ata (alla sua prima costruzione) come una sorta di enclave bohémien in cui la gente si vantava di vivere: una zona modulare, innova�va e moderna. Nonostante gli inten� fossero lodevoli però, ben presto il complesso si rivelò non solo non all’altezza delle aspe�a�ve, ma addirittura un incubo per chi ci abitava, come riferisce un ex residente: “Il futuro, a quanto pareva, era tu�o un bru�o sogno.” Benchè fosse stato generalmente ben accolto dalla cri�ca internazionale, non appena costruito, – Giovanni Koenig si entusiasmò sulla rivista italiana Casabella nel 1975 e un anno dopo, in Progressive Architecture, Sharon Lee Ryder elogiò "Un po’ di gen�lezza rinfrescante in un �po di situazione che �picamente tende verso la pianificazione di una periferia dispersa" – già alla metà degli anni '80 veniva descri�o come "un disastro".
1 Arthur Ling, Runcorn New Town Master Plan, (Runcorn Development Corporation, 1967).
abitazioni tradizionali in questo momento e per questo vale la pena di essere citata. "The Brow è in totale contrasto con questo [Southgate]. Le sue case sono a due piani in mattoni marroni scelti per fondersi con la pietra di sabbia del castello di Halton Rock. Il tutto è di basso profilo, schivo, ma molto bello visivamente. Forme, colori e angoli sono morbidi. Rilassato, e così è il layout del luogo.”
2 Runcorn Housing Archive, file n. NTW 64/18 3 Tony Adams, ‘Runcorn Report’, Architectural Design, Vol.42,
(Giugno 1972), la descrizione che accompagna la sezione su "The Brow" è indica�va della crescente tendenza per le
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The Brow Estate, Runcorn.
Schizzo e res�tuzione dal vero della vista degli edifici a 5 piani con i loro cara�eris�ci fron� ritma� dai vani scala in calcestruzzo.
“Quando stavamo guardando queste proprietà in costruzione nei primi anni '70 sembrava che stessimo vivendo il tipo di futuro promesso da Neil Armstrong e Anthony Burgess.” “Di notte l’aspetto del complesso era davvero terrificante e le nostre mamme ci avvertivano di non perderci a Legoland, poiché il complesso presto degenerò da un luogo in cui gli insegnanti si vantavano di vivere a una Tes�monianza di uno degli discarica per vari devianti sociali”. ex abitan� di Southgate
“L’architettura deve adattarsi agli uomini e non il contrario”. Giancarlo de Carlo
“[Southgate] si trovava nel posto sbagliato, una nuova città non necessaria e (...) non è stato amato perché non offriva abbastanza bellezza per sostenere la sua densità”. Brian Hatton nella rivista Blueprint 66
Rappresentazioni di Southgate di Rodrigo Pere de Arce: A sinistra: edifici esisten�; A destra: riurbanizzazione.
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Così Rodrigo Perez de Arce ha descri�o e commentato l’opera dell’archite�o inglese: “Il complesso residenziale di James S�rling è situato immediatamente a sud dell’edificio per acquis�, fiancheggiato sul lato ovest dell’autostrada che taglia la ci�à in direzione nord-sud. Le banchine dell’autostrada rafforzano un bacino naturale entro il quale si sviluppano gli edifici residenziali, con la collina di Halton ben visibile a nord. Lo schema è del tu�o a�pico per le isole residenziali della ci�à. Si ricollega alle case a terrazza e ai cor�li georgiani, ha un forte cara�ere monoli�co e non fa concessione alcuna a immagini pi�oresche o all’uso di elemen� vernacolari. Il tessuto è imponente, la pianta abbastanza meccanicista e la scala monumentale. Lo schema di S�rling corrisponde senza dubbio al desiderio di creare entro Runcorn un Se�ore urbano che si ponga come alterna�va alla dispersione degli insediamen� a�gui. È organizzato secondo una griglia rigida, che crea una sequenza di cor� quadrate e re�angolari. Viene proposto un asse centrale, poi inspiegabilmente soppresso dall’ingombrante presenza di un blocco più grande che racchiude la corte maggiore. Parallelamente
ad esso corre un ampio viale che raccoglie il traffico proveniente dalle varie strade, le quali si basano sul conce�o delle strade senza uscita, di solo accesso, col risultato che i percorsi si fanno confusi e va perso il senso della direzione. Nella pubblicazione di S�rling vengono presentate come fonte di riferimento le piazze georgiane, ma le cor� di Runcorn hanno sempre fron� su strada su due la� e facciate sugli altri due.4 Quindi, esse non creano un se�ore pubblico, né possono trasformarsi in giardini interni ad uso dei soli abitan�. Questa contraddizione si fa apparente ove si consideri il fa�o che gli alberi sono sta� pianta� a filari, così da creare due piani virtuali che suggeriscono il completamento della chiusura della corte e la con�nuità della strada. Alcune delle prime proposte per Southgate si basavano sull’idea di strade e di piazze che formavano blocchi di dimensione assai grandi. È possibile che queste proposte siano state scartate su inizia�va delle autorità responsabili della ci�à. Le terrazze residenziali sono simili a molte terrazze georgiane, per il fa�o che non vi è in esse individuazione degli angoli né sviluppo di una �pologia d’angolo”.5
4 Léon Krier, James Stirling: Buildings and Projects 1950-1974, 1975.
5 Rodrigo Perez de Arce, Runcorn trasformata, una verifica sulla lunga durata, Lotus international 36, 1982.
Il �po edilizio di Runcorn. Rodrigo Perez de Arce.
Vista da nord di Runcorn “riurbanizzata”verso la zona di Southgate.
A sinistra: Vista da nord di Runcorn “riurbanizzata” verso la zona di southgate. A destra: Runcorn riconsiderata, la pianta di Nolli secondo S�rling. Rappresentazioni di Rodrigo Perez de Arce.
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Il complesso proge�ato da S�rling dominato dalle highwalks in stru�ura pesante che donano un senso di imponenza ai collegamen�.
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La proprietà terriera di Southgate Estate, cos�tuita da 1.500 unità abita�ve des�nate a ospitare 6.000 persone, si trovava immediatamente adiacente al centro dei servizi della nuova ci�à, la Runcorn Shopping City e ne era fisicamente collegata a�raverso degli highwalks. Proge�ata seguendo le regole del proporzionamento classico, S�rling trasse ispirazione dall‘eleganza della Gran Bretagna georgiana con il complesso stru�urato a�orno a una sequenza di piazze ed elemen� di decoro ricorren� sulle facciate u�lizza� ritmicamente, come nelle ci�à di Bath o Edimburgo coniugandovi inoltre principi archite�onici alla Team X come ad esempio l’inserimento dei corridoi pedonali aerei che si rivelarono poi una delle cause principali dello scontento di mol� dei residen�.6 Come quar�ere residenziale interno, Southgate aveva lo scopo di dare un contributo all'idea che la nuova Runcorn potesse essere
una ci�à nel senso più pieno e più nobile della parola, e non solo un mosaico di frammen� suburbani indis�n�. In questo quadro ideologico, S�rling escogitò uno schema che in realtà sovver� ques� preceden� storici e alcune norme archite�oniche contemporanee: dietro alle facciate regolari della prima fase di costruzione c'erano una combinazione di ville�e e appartamen� che si intrecciavano l'un l'altro sopra e so�o su cinque piani, il �po di sistemazione visto in numerosi sviluppi del “blocco residenziale” del dopoguerra. Si tra�ava di alloggi di massa che evitavano la tanto cri�cata risposta ad alta densità degli alloggi a basso costo prevalen� durante questo periodo.7 Stru�uralmente l'enfasi era posta sulla ripe�zione sa grande scala di righe iden�che di blocchi, differenziate l’una dall’altra solo da diverse combinazioni di colore in facciata. Un sistema di accesso dai pon� aper� è stato
6 Social Housing Failures, Lotus international n. 163 7 La vita nei grattacieli era aumentata in Gran Bretagna dalla
costruzione del primo blocco puntuale, un edificio di dieci piani progettato da Gibberd per Harlow New Town, iniziato nel 1949. Glendinning e Muthesius, Tower Block - Modern Public Housing in England, Scotland, Wales and Northern Ireland
La Runcorn Shopping City collegata alla tenuta di Southgate per mezzo di passerelle aeree pedonali.
Veduta aerea della Royal Crescent di Bath, cara�erizzata da facciate decorate e ritmate.
Le piazze comuni di Southgate che si aprono sui fron� terrazza� degli edifici.
creato in modo da formare una rete di highwalks a livello delle proprietà che fungessero da collegamento tra un blocco e l’altro: il modello di circolazione stabilito al Park Hill di Sheffield alla fine degli anni '50, che vantava ancora di una certa fama nelle nuove ci�à di seconda generazione come Runcorn e che S�rling interpretò in modo grandioso, fornendo pali in calcestruzzo generosamente distanzia� che conferivano alle passerelle una grande imponenza e, al contempo, legi�mità civica. I blocchi di appartamen� erano quindi collega� l'un l'altro da una rete di passerelle sopraelevate seguendo il principio delle "streets in the air", separando l'accesso pedonale dal sistema di strade carrabili situate nella parte anteriore dei blocchi a livello del suolo. Gli accessi degli appartamen� erano colloca� su ques� pon� pedonali, aper� su piazze e giardini dove si svolgeva la vita della comunità mentre lo spazio urbano si sviluppava su diversi livelli, generando spazi complessi: pubblico/privato,
aperto/chiuso, coperto/scoperto. I blocchi sono sta� dispos� intorno a piazze verdi, alcune delle quali includevano parchi per bambini, dotate di numerose rampe e passaggi che consen�vano ai pedoni di spostarsi per il complesso, mentre i fron� includevano parcheggi e una serie di torri contenen� le trombe delle scale che fornivano l'accesso ai piani superiori. La parte posteriore dei blocchi, che in genere racchiudeva le piazze, aveva giardini priva� al piano terra e balconi nei duplex e negli a�ci sovrastan�. Il retro dei blocchi inoltre includeva anche grandi finestre rotonde, proge�ate dallo stesso S�rling per rifle�ere le radici mari�me degli abitan� previs� nella tenuta, provenien� principalmente dal Merseyside. Il complesso vedeva la coesistenza di due �pologie di abitazione: gli appartamen�, costrui� tra il 1969 e il 1975, e le case a schiera, realizzate tra il 1975 e il 1977. A differenza della prima fase di costruzione, che vedeva ciascun blocco situato a�orno al perimetro di una grande piazza comune, le case della
Le passerelle semi aperte di accesso agli appartamen�, sopraelevate rispe�o al livello del terreno.
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seconda fase erano collocate in stre�a vicinanza e parallele l'una all'altra, formando lunghe file di abitazioni a terrazze rives�te di plas�ca, con poco spazio aperto a dividerle. Originariamente pianificate come con�nuazione della prima fase di sviluppo, le circostanze de�arono che questa parte del complesso fosse dovuta essere abbastanza diversa. Un calendario e un budget rido�, che richiedevano una risposta più rapida alla richiesta di ulteriori alloggi, combinata con un breve aggiornamento che richiedeva case e non appartamen�, furono tu� fa�ori che offrirono a S�rling e alla sua squadra l'opportunità di ripensare le intenzioni originali. Le case a schiera, con le loro finestre ad oblò, divennero note come le “lavatrici” mentre il rives�mento in plas�ca vivacemente colorato, valse al complesso il nomignolo di “Legoland”. I blocchi di appartamen� erano forma� da tre �pologie di alloggio: un terzo di appartamen� per 2-3 persone, un terzo per 4 persone e un terzo per 5-6 persone. Ques� ul�mi prevedevano al piano terra soggiorni e un giardino privato, mentre le camere da le�o si trovavano tu�e al piano superiore. Al secondo piano vi erano gli appartamen� per 4 persone che avevano uno schema molto simile a quello precedente: soggiorni al livello inferiore, una terrazza esterna e le camere al piano superiore. All’ul�mo piano dell’edificio si trovavano invece gli alloggi per 2-3 persone, che erano cos�tui� da un solo livello. Una delle cara�eris�che di ques� edifici, grazie al calcolato e sapiente uso della luce, era che tu� gli ambien� abita� si trovavano a sud-est o a sud-ovest garantendo così una buona illuminazione durante tu�o il giorno. La prima fase dello sviluppo ha visto l'impiego di un approccio alla costruzione del complesso come richiesto dalla società di sviluppo al fine di minimizzare i cos�. I casseri delle
stru�ure in cemento ge�a� in-situ sono sta� riempi� con pannelli prefabbrica� in calcestruzzo mentre il rives�mento in plas�ca rinforzata con vetro colorato (GRP) è stato ampiamente u�lizzato per ravvivare i prospe� e introdurre una nota hi-tech nello schema. La seconda fase invece ha agito in primo luogo per correggere le mancanze progettuali percepite dalla prima, con un �po di unità singola – case più grandi – costruite in terrazze, ciascuna con accesso al piano terra e giardini priva�. Queste nuove unità sono state costruite abbandonando il cemento a favore di stru�ure in legno rives�te in vetroresina. Southgate è stato, quindi, un proge�o che ha conciliato approcci diversi, an�cipando s�lis�camente il postmodernismo incorporando elemen� di alta tecnologia e combinando in modo costru�vo tecniche pesan� e leggere. Dalle fotografie conservatesi si può notare che la differenza più evidente tra le due fasi è legata alle diverse stru�ure portan� u�lizzate, se la massiccia presenza di calcestruzzo conferiva alle stru�ure della prima fase un senso di inamovibilità e monumentalità; al contrario le leggere case a schiera in legno, fru�o della seconda ondata di costruzione, appaiono elegan�, ma apparentemente temporanee. L'inadeguatezza dei materiali e degli schemi croma�ci u�lizza� in questa parte della proprietà è chiaramente illustrata in quelle fotografie che includono persone. I bambini, in par�colare, sembrano piccoli e isola�, e sembrano vulnerabili tra le file apparentemente infinite di terrazze cubiche che sve�ano su di loro. Nelle immagini usate dallo stesso S�rling per illustrare la prima fase del complesso di Southgate, gli abitan�, benché domina� dall'archite�ura, venivano mostra� a chiacchierare o andare da qualche parte, e raramente da soli.8
8 James Stirling, Buildings and Projects: 1950-1974, (Londra
1975). Le immagini che Stirling ha scelto per illustrare la prima fase di Southgate in questo volume sono state distribuite alla stampa architettonica e sono apparse in varie pubblicazioni.
Sezione trasversale dei condomini in cui si denota la stru�ura a terrazza, le passerelle di accesso coperte e la presenza dei duplex ai piani inferiori.
Le immagini scelte da S�rling per illustrare il proge�o. Sopra: la prima fase di intervento, con le persone integrate nel complesso; So�o: la seconda fase di costruzione, con i residen� isola� ed aliena� dalla ripe��vità delle abitazioni.
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Fotografia dalla strada del fronte più urbano degli edifici, cara�erizzato dalla suddivisione ritmica data dalle trombe delle scale.
James S�rling, Southgate Housing Estate, Prima Fase, Planimetria generale, 1967-72.
Edificio �po risalente alla prima fase in cui il materiale dominante è il calcestruzzo.
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Veduta delle strade infinite alienan� cara�erizzate da edifici tu� uguali in cui l’archite�ura prevale sulle persone.
James S�rling, Southgate Housing Estate, Fase due, 1972-77, planimetria del complesso situato so�o a quello della prima fase.
Fotografia dell’impianto a più bassa densità della seconda fase, cara�erizzata da ville�e semi-indipenden� di due o tre piani, ciascuna con il proprio giardino.
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Nelle immagini della seconda fase, invece, l'enfasi sembra essere stata posta sulla ripe�zione infinita di unità iden�che, piu�osto che su persone che si integrano con il loro ambiente. Ulteriori prove della mancanza di considerazione di S�rling per gli occupan� della tenuta si rivelano quando si considera l'ispirazione per la proge�azione di queste case. La prima fase del complesso ricordava le piazze borghesi della Londra e Bath del dicio�esimo secolo, ma la seconda fase era più simile alle infinite terrazze del nord industriale vi�oriano. Il lungo interesse di S�rling per l'architettura vi�oriana lo aveva spinto, un decennio prima, a commentare come la natura ripe��va delle facciate delle terrazze nascondesse la presenza dell'individuo.9 Nelle sue moderne terrazze di plas�ca, quindi, usava la regolarità delle strisce ripetute per nascondere ogni individualità. La decisione finale di S�rling a Southgate sembra aver favorito immagini in cui predominava la regolarità e la ripe�zione delle elegan� scatole dai colori vivaci, creando una ne�a mancanza di opportunità per l'individuo di affermarsi sul proprio ambiente o interagire con esso. Così audaci sono le strisce colorate, così inesorabile la loro affermazione del metodo costrut�vo, che gran parte della familiarità con la funzione di queste terrazze si perde in favore di una formalità dis�ntamente is�tuzionale. Il fallimento è troppo spesso il fulcro dell’analisi degli alloggi pubblici del dopoguerra, ma nel caso di Southgate Estate la rapidità del suo declino è un argomento inevitabile. C'era un certo numero di dife� nel proge�o originale, non ul�me le impopolari fasce centrali dei duplex schiacciate nel sandwich, prive dei propri cor�li e in qualche modo offuscate dagli appartamen� sporgen� sopra, ma in gran parte il complesso era vi�ma di un budget originario che era
troppo basso per creare qualità sufficiente per un sistema così ad alta densità e, più significa�vamente, un'allocazione sbagliata e una poli�ca di ges�one inadeguata che traducono rapidamente problemi di manutenzione limita� in un decadimento sociale ver�ginoso. I condomìni erano par�colarmente problema�ci. La proge�azione dell'accesso dal ponte e l'uso ripe��vo delle torri delle scale dove c'era un'assenza di sorveglianza naturale, incoraggiavano l'a�vità criminale e ne rendevano difficile il controllo. Gli occupan� si lamentavano del comportamento an�sociale, degli al� cos� di affi�o e riscaldamento, del rumore che penetrava nelle loro case a seguito dell'uso dei pon� pedonali, dell'incapacità di personalizzare l'esterno delle loro case, dell’assenza di spazi di giardini priva� per i duplex delle famiglie di nucleo medio, della lontananza dalle stru�ure dello shopping locale e dai traspor� pubblici, e dell'inquinamento della centrale ele�rica a petrolio. Inoltre, l'aspe�o radicale e rigido dello sviluppo non soddisfava i gus� di mol� residen� che preferivano le abitazioni più tradizionali costruite altrove nella New Town. The Architectural Review (AR) – nota rivista internazionale – ha definito il proge�o "so�o gli standard". Ha citato un operatore della comunità di Southgate che, sebbene in gran parte o�mista nella sua valutazione, ha emesso quello che si è rivelato un avver�mento premonitore. "Sarà necessario mostrare grande abilità e comprensione dei giovani se deve essere soddisfa�o il loro aumento di numero nel complesso. Annoia� e non occupa�, potrebbero causare enormi problemi in una proprietà proge�ata nel modo in cui è Southgate". Gli enormi problemi premoni� dopo poco tempo, debitamente, arrivarono. Come in alcune par� delle ci�à americane, i grandi
9 James Stirling, ‘The Functional Tradition and Expression’,
“Perspecta” N.6, 1960
Viste dell’ambiente cupo e poco illuminato dalle passerelle semi chiuse di ingresso agli alloggi.
proge� di edilizia sociale in Gran Bretagna – in par�colare quelli di costruzione industrializzata di passerelle – diventarono sinonimo di ca�va ges�one. La tenuta di Southgate divenne rapidamente socialmente instabile, le famiglie si trasferirono, le case rimasero vuote, il suo sistema di riscaldamento centralizzato a petrolio si rivelò troppo costoso per perme�ere agli inquilini di pagarlo dopo la crisi petrolifera dei primi anni '70, e così il proge�o divenne una discarica per gli indesiderabili della società. L'uso di droghe e la criminalità associata aumentarono ver�ginosamente. Dai primi anni ’80, quasi il 30% delle abitazioni rimase vuoto. Verso la metà del decennio, il luogo era un disastro: i tassi di criminalità, di vandalismo e di emarginazione sociale erano allarman� e per mol� residen� l’esperienza della vita a Southgate diventò un incubo. Southgate e la sua birreria, The Merry Monk divennero famosi come luoghi per lo spaccio, tanto che nel 1989 il consiglio decise di
demolire il complesso, soluzione ritenuta più economica rispe�o alla ristru�urazione. All'epoca in cui il suo des�no venne pronunciato, a soli 15 anni dal suo completamento, il British's Architects' Journal lo dichiarò "Britain's Prui�-Igoe", in riferimento al proge�o degli alloggi di Minoru Yamasaki degli anni '50 a St. Louis, dinamitato negli anni '70. La demolizione della proprietà iniziò nel 1990, ed era completamente svanita nel 1992, per essere sos�tuita da abitazioni suburbane a bassa densità proge�ate in base a conce� di pianificazione e archite�ura più tradizionali. Le case sono principalmente a due piani, semi-indipenden�, costruite in ma�oni e situate all'interno di paesaggis�ci cul de sac. Il nuovo isolato – Hallwood Park – che è stato costruito da Merseyside Improved Houses, è ora qualche anno più vecchio rispe�o al suo predecessore al momento della demolizione e, secondo i sondaggi, è considerato un successo tra i suoi residen�. 76
Fotografia aerea dell’a�uale quar�ere Hallwood Park, 2018.
Le case più piccole e tradizionali ricostruite nel 1992, dopo la demolizione, nello stesso luogo .
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Ciò che quindi ha portato al completo fallimento di questo complesso modernista è stata innanzitu�o l’incapacità delle residenze di ada�arsi ai bisogni degli inquilini, privandoli della possibilità di personalizzare l’ambiente e, in questo modo, creando un senso di alienazione, unito inoltre all’adozione di elemen� e materiali costru�vi non idonei alla situazione e al target di popolazione previsto. Le strade pedonali sopraelevate non illuminate, insieme alla presenza di spazi parzialmente chiusi e cupi come le passerelle di accesso agli appartamen�, cos�tuirono l’habitat ideale per le bande di delinquen� che sempre più spesso abitavano il complesso. Nonostante il tenta�vo di ravvivare l’aggregato a�raverso l’u�lizzo di colori vivaci e sgargian�, gli edifici di Southgate Estate apparivano comunque troppo ripe��vi e monotoni,quasi disorientan�, celebrando la produzione di massa e la prefabbricazione privando però le stru�ure da ogni sen�mento umano. S�rling stesso ha so�olineato che gli aspe�
più problema�ci del proge�o erano quelli de�a� dal cliente, tra cui il mix sociale, la densità, gli standard di isolamento e l'uso di un sistema prefabbricato in calcestruzzo pesante per la passerella. Ci si potrebbe chiedere allora perché non avesse rifiutato la commissione, ma è indispensabile ricordare che essa ha cos�tuito un’invitante sfida. Alla fine degli anni '60 i problemi diffusi che venivano associa� a tali proprietà erano tu� proie�a� al futuro. Era un nuovo mondo, un esperimento a cui uno tra i più importan� ed influen� archite� britannici della seconda metà del XX secolo non voleva di certo rinunciare. Inoltre, la scelta di rimpiazzare Legoland con un dozzinale quar�ere tradizionalista cos�tuito da case bifamiliari in ma�oni a due piani,10 sembra essere stata il frutto di una volontà dettata dal mercato e dal malcontento generale; una decisione che ha preferito rifugiarsi nell’abitudine locale piuttosto che puntare sull’innovazione, analogamente a quanto avvenuto al Bijlmermeer.
10 Social Housing Failures, Lotus international n. 163
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Bibliografia AA.VV. (2017), The Failure of Southgate Estate, Runcorn in “Lotus Interna�onal” 163 Adams, T. (1972), Runcorn Report in “Architectural Design” 42 Arnell, P., Bickford, T. (1984), James Stirling: buildings and projects, The Architectural Press, Londra Perez de Arce, R. (1982), Runcorn trasformata in “Lotus Interna�onal” 36 S�rling, J. (1960), The Functional Tradition and Expression in “Perspecta” 6 Sitografia www.architectmagazine.com www.cca.qc.ca www.magne�cnortherners.wordpress.com www.the-modernist.org 79
DENSIFICAZIONE
& TRASFORMAZIONE “Sorry the lifestyle you ordered is currently out of stock” Banksy
Così recitava un’opera dello street ar�st Banksy situata nel distre�o finanziario di Canary Wharf a Londra. La provocazione dell’ar�sta, che assume un significato quasi profe�co considerando il des�no a cui è andato incontro il distre�o londinese, lascia spazio a milioni di interpretazioni. La scri�a, apparsa nel dicembre del 2011, so�olinea come, in ambito spaziale e sociale, l’archite�ura di massa prodo�a nel XX secolo sia cara�erizzata da spazi di vita sta�ci e immuta�: spazi che non cambiano e non si ada�ano realmente al variare delle esigenze di chi li abita, luoghi che risultano immediatamente obsole� e non più proponibili, dunque “out of stock”. I saggi che seguono tenteranno di mostrare e illustrare come, nell’arco di ques� ul�mi anni, si sia cercato di intervenire su ques� edifici tardomoderni nel tenta�vo di renderli più ada� alle esigenze dei nuovi e mutevoli nuclei familiari. Inoltre verranno indagate approfonditamente le ragioni per cui, ques� superblocchi, siano sta� risparmia� da quella che Harvey definiva una “distruzione crea�va” – anche se a onor del vero le demolizioni susseguitesi nell’ul�mo mezzo secolo hanno ben poco a che vedere con le operazioni a cui faceva riferimento l’autore britannico, come il lavoro di Haussman nella Parigi del Secondo Impero e Robert Moses al lavoro a New York dopo la seconda guerra mondiale. Le operazioni di trasformazione e, più specificatamente, di densificazione hanno coinvolto tu� quei paesi in cui l’adozione di un modello abita�vo di stecche e torri, è sfociata in un rapido rige�o del quar�ere dormitorio. Lo sviluppo in Europa di sperimentazioni per il recupero dell’abitazione urbana trova in Francia, paese inves�to dall’eredità dei grands ensembles, un perfe�o palcoscenico di osservazione. “Densificare e riqualificare rapidamente le ci�à per risparmiare spazio, o sfru�are nuove tecniche più sicure per edificare in aree difficili. Perché l’idea della densificazione possa riuscire occorre effe�vamente ripensare le forme archite�oniche. La torre Bois-le-Prêtre a Parigi (nel diciasse�esimo arrondissement), riqualificata da Lacaton e Vassal, dimostra che si tra�a di un obie�vo raggiungibile”. Così Pierluigi Nicolin nel suo saggio “Dopo i Grands Ensembles”, pubblicato sulla rivista Lotus Interna�onal nel 2017, elogiava l’intervento realizzato dallo studio francese che, nel tenta�vo di dare un’alterna�va al programma di demolizioni avviatosi in tu�o il paese, ha realizzato un intervento estremamente efficace nella semplicità, mirato a creare, con l’aggiunta di volumi in facciata, sia nuovi spazi per l’abitare internamente che nuove relazioni con il contesto circostante. Questo intervento ha permesso la creazione di nuove �pologie abita�ve, rompendo la standardizzazione che “marchiava” questa torre. Un’operazione simile è quella avvenuta al Bijlmermeer in Olanda in cui, con l’obie�vo di modernizzare l’edificio e renderlo più ada�o all’insediamento di diversi e variega� nuclei abita�vi, l’edifico è stato “svuotato” internamente e reso così ada�abile e personalizzabile dai futuri residen�. Nei due interven� cita� l’edifico ospite si presenta come un contenitore di una nuova archite�ura; le superfici della preesistenza interessate, da luoghi senza personalità o so�o u�lizza�, acquisiscono una nuova fruibilità oltre ad una forte iden�tà morfologica. Di diversa natura è invece il caso tedesco di Stadtvillen a Leinefelde, il cui obie�vo principale era modificare proprio l’immagine dell’edificio. La peculiarità dell’intervento sta proprio nell’aver trasformato la stru�ura mastodon�ca e standardizzata, a�raverso azioni di addizione e so�razione, al fine di renderla più tradizionale e a misura d’uomo. I saggi che seguono tenteranno di dimostrare come, con tecniche e fini diversi, sia oggi possibile, anche grazie alle nuove tecnologie, intervenire sul tessuto urbano esistente modificandolo e ada�ando alle nuove necessità �pologiche. 82
Tour Bois-le-Prêtre
Tour Bois-le-Prêtre La Francia è da sempre uno dei paesi più a�vi inmateria di edilizia residenziale pubblica e rappresenta il primo stato europeo che ha a�vato poli�che di riqualificazione del patrimonio su larga scala. A par�re dagli anni ‘70, infa�, venne introdo�o un organismo pubblico, l’Agence Na�onal pour l’Ameliora�on de l’Habitat (ANAH) che ges�sce le azioni di riqualificazione integrandole ad azioni di sostegno sociale per favorire l’occupazione e l’istruzione. L’obie�vo è quello di perfezionare un metodo che assicuri efficacia opera�va, rispe�o dei tempi e garanzia di finanziamento, in modo da poter programmare azioni trasforma�ve su larga scala. Gli interven� sono condo� all’interno di programmi di recupero urbano, gli OPAH (Opéra�ons Programmé d’Améliora�on de l’Habitat) e sono precedu� da un lungo lavoro di programmazione con l’esecuzione di studi di fa�bilità ed il ricorso a sistemi di supporto decisionale e metodi per l’o�mizzazione degli interven�. La proge�azione è affidata a gruppi interdisciplinari di cui fanno parte anche sociologi ed esper� in comunicazione e prevede la partecipazione a�va degli abitan� e degli stakeholders locali.1 Obie�vi simili sono quelli che cara�erizzano l’operazione Habitat et Vie Sociale (HVS)2, che si concentra in par�colare sulla condizione di degrado e marginalizzazione dei
Grands Ensambles.3 Proprio in questo ambito, recentemente, l’Agence d’Environnement et de la Maitrise de l’Energie (ADEME) ha promosso una serie di campagne di finanziamento des�nate a operatori locali per lo sviluppo di tecnologie sostenibili e di soluzioni per il risparmio energe�co.4 Oltre ad opere di manutenzione straordinaria, in ques� casi si procede a�raverso azioni di demolizioni sele�ve e di parziali ricostruzioni e addizioni volumetriche che siano in grado di rimodulare le dimensioni dei fabbrica�, ridefinire il taglio degli alloggi in relazione alle esigenze dell’utenza, ridisegnando così radicalmente anche l’immagine degli edifici. Contrariamente alla tradizione francese degli sventramen� iniziata dal prefe�o della Senna G.E. Haussmann nella seconda metà del XIX secolo, all’interno di una poli�ca di riorganizzazione urbanis�ca di una ci�à troppo densa ed incontrollabile, a par�re dagli anni ‘70 del secolo scorso si fa spazio una nuova a�tudine nell’ambito dell’intervento sull’esistente, improntata, invece, al recupero, contro la demolizione e ricostruzione del manufa�o archite�onico. Oggi più che mai lo slogan alla base delle azioni del governo francese in materia di intervento sul costruito è quello di promuovere interven� di conservazione che si propongano come volano per una vera e
1 Tra�o da: Melis, P. (2010) La valutazione della qualità globale
3 L’espressione “grand ensemble” appare per la prima volta nel
degli edifici residenziali nella programmazione degli interventi di riqualificazione alla scala del patrimonio edilizio, Università degli studi di Cagliari, Do�orato di ricerca in Ingegneria edile, ciclo XXIII
2 Procedura amministrativa e finanziaria applicata dallo Stato
ad interventi di recupero dei grands ensembles colpiti da forme di degrado fisiche e sociali. (tratto da: Mattogno C., “Uso e riuso della città in Francia” in edilizia popolare pagg. 257-258)
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titolo di un articolo dell’urbanista Maurice Rotival nella rivista l’Architecture d’aujourd’hui, del Giugno del 1935, intitolato appunto “Les grands ensembles”. Indica sia una forma degli isolati (le stecche e le torri), sia il taglio degli insediamenti da più di 500 fino 1000 alloggi, il finanziamento per la costruzione di alloggi sociali, la localizzazione in banlieue, o nel territorio della municipalità centrale, ma in rottura con il tessuto antico.
4 Cfr. J. Gaspari, Trasformare l’involucro: la strategia dell’addizione nel progetto di recupero, EdicomEdizioni, 2012
propria innovazione. Lo scopo è prima di tu�o quello di raggiungere l’obie�vo fissato dalla Comunità europea che ha stabilito, entro il 2020, il risparmio del 20% dell’energia e la riduzione del 20% delle emissioni di CO2. Per perseguire questo scopo l’indirizzo è quello di promuovere interven� che consentano di raggiungere al� livelli di performance energe�ci a�raverso operazioni sull’involucro dell’edificio, che migliorino anche l’immagine della preesistenza, che aumen�no la superficie delle abitazioni a�raverso aggiunte volumetriche in facciata o sopraelevazioni, che aumen�no le prestazioni a�raverso l’aggiunta di disposi�vi di captazione solare come logge e serre bioclima�che.
In questo quadro si inserisce la ricerca francese Plus+, commissionata nel 2004 dalla Direc�on de l’Architecture et du Patrimoine del Ministero della Cultura e della Comunicazione agli archite� Anne Lacaton, Jean Philippe Vassal e Frédéric Druot. Il fine dello studio, applicato a cinque casi esemplari5, era quello di considerare delle soluzioni di riqualificazione alterna�ve alla demolizione e sos�tuzione. La sintesi di questa metodologia opera�va è rappresentata dal famoso intervento di riqualificazione della torre Bois la Pretre, a Parigi, intervento per il quale gli archite� Druot, Lacaton e Vassal hanno ricevuto, nel 2011, il premio Equerre d’argent.
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dei grands ensambles degradati. L’esperienza francese, in Il progetto sostenibile 288, Edicomedizioni, Monfalcone
Aulnay -sous-bois, le Havre, Nantes, Rouen, Trignac (fonte: Delera, A., Rota, R. Riqualificazione e ergetica e Architettonica
Il proge�o della torre Bois-le-Prêtre rappresenta la messa in opera del principio “Plus”. E’ diventato il proge�o faro dello studio Lacaton&Vassal e ha dato loro il riconoscimento internazionale.
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La periferia di Parigi è piena di esempi di case popolari costruite in breve tempo e a basso costo per fronteggiare il rapido inurbamento delle grandi ci�à iniziata intorno agli anni ‘50, e nel 2005 l’ufficio pubblico di ges�one e costruzione decise di indire un concorso per riqualificare uno di essi, la Tour Bois–le–Prêtre. Tale gara rientrava in un più ampio programma di rigenerazione urbana, il GPRU "Grand projet de renouvellement urbain"6, avviata nel marzo 2002, quando la ci�à di Parigi firmò un emendamento per agire su 11 si� prioritari, per un totale di 530 e�ari, corrisponden� al 5% dell’area di Parigi e riguardan� 110.000 abitan� distribui� su se�e circoscrizioni. Il proge�o vincitore del concorso è risultato essere, come an�cipato, quello proposto dagli archite� Frédéric Druot, Anne Lacaton e Jean–Philippe Vassal (Lacaton&Vassal) il cui proge�o, realizzato in due anni e conclusosi defini�vamente a novembre del 2011, ha previsto un deciso intervento di addizione, che ha cambiato completamente l’aspe�o delle facciate e degli interni, ma che contemporaneamente ha avuto un cara�ere poco invasivo. “Più spazio, più luce e più libertà” è il mo�o ado�ato dai tre archite�. Con il loro vasto spazio, la loro a�enzione al contesto e la loro fiducia nella capacità di appropriazione degli spazi da parte degli abitan�, e la loro convinzione che ogni operazione è unica e merita di essere tra�ata come tale, hanno contribuito a un profondo rinnovamento nella visione di alloggi colle�vi in Francia. Proge�ata nel 1959 e ul�mata nel 1961 dall’archite�o Raymond Lopez sulla scia dei 6
Il GPRU è un’operazione di riqualificazione dei quartieri periferici per il miglioramento delle condizioni di vita dei residenti, l'integrazione e lo sviluppo economico, l’incremento della cooperazione con i comuni limitrofi, l'accesso ai diritti delle persone più in difficoltà.
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Già nell’ultimo decennio degli anni ‘80, la “missione” di
suoi esperimen� di Berlino del 1957, la torre in ques�one, alta 50 metri e composta da 16 livelli, constava di un sistema costru�vo industriale composto da elemen� prefabbrica� assembla� su di una trama standardizzata. Nonostante gli sforzi di rinnovamento degli anni '90 vol� al miglioramento energe�co, da raggiungersi rivestendo con pannelli isolan� tu�o l’involucro – eliminando così le logge che cara�erizzavano e movimentavano la facciata originaria e creando così un’immagine pia�a e anonima della torre –, essa diventò un simbolo del decadimento delle opere moderniste del tempo. Nel 2005 Paris Habitat lanciò un proge�o sulle basi di un tema caro a Druot, Lacaton e Vassal, in linea con i principi enuncia� nella ricerca Plus+ il cui impera�vo categorico era “conservare l’immobile e tu� i suoi abitan�”.7 La sfida era quindi quella di riparare l'infrastru�ura fa�scente della torre, aggiornare i suoi spazi comuni e il suo esterno, e, questa era la parte più radicale, aggiungere più luce agli appartamen� bui e angus�, senza cambiare però l'impronta dell'edificio; il tu�o spendendo meno denaro rispe�o al costo necessario per demolire l'edificio e poi ricostruirlo. Da queste intenzioni sono scaturi� i principi fondan� del proge�o, il più emblema�co dei quali era quello di me�ere in relazione l’interno dei singoli appartamen� con l’ambiente naturale circostante. Tale principio ha portato all’apertura delle vetrate della facciata originaria e all’estensione dei solai di 3 metri lungo tu�o il perimetro della torre, creando un giardino d’inverno profondo 2 metri, a cui si giustappone un balcone. Banlieue 89 aveva sancito un momento importante per l’apertura di un vero dibattito disciplinare sullo stato e sul destino dei grands ensembles. Roland Castro e Michel Cantal Dupart, ferrei oppositori della politica della demolizione, fondano Banlieue 89 in forma di associazione, dopo quasi dieci anni di azioni orientate a mobilitare il dibattito nazionale e internazionale sulle possibili trasformazioni e riqualificazioni (Mission Banlieues 89, 1990).
Raymond Lopez ed Eugene Beaudouin “Berlin Hansaviertel”
Evoluzione della Tour Bois-le-Pretre dall’epoca di costruzione (1959), alla prima riqualificazione dell’involucro esterno (1990), finendo poi con l’aspe�o a�uale dato dall’ul�mo intervento di Lacaton&Vassal (2008)
“Il rinnovamento urbano da solo non può risolvere i problemi di disoccupazione e droghe. Ma almeno dà l'opportunità di vivere con più dignità”.
Stéphane Gatignon, sindaco di Sevran. Intervista di Michael Kimmelman, “At Edge of Paris, a Housing Project Becomes a Beacon”, New York Times, 27 marzo 2012.
“Vengono identificate tre ragioni principali per evitare la demolizione: la prima riguarda l’oggettiva scarsità di appartamenti; la seconda riguarda la perdita di valore dovuto all’inoperatività; e la terza è una riflessione sul concetto stesso di adattamento, inteso come risorsa culturale in termini di concezione e sviluppo di nuove forme di abitare e come oggettiva possibilità di spingere la ricerca architettonica ad andare oltre gli schemi abitativi tradizionali”.
P. Tringali, “After use, strategie di riuso e adattamento nell’epoca della crisi globale”, Facoltà di Architettura di Siracusa XXIV ciclo ,2011.
"Dipende da come poni la domanda", ha risposto l’architetto Lacaton quando le è stato chiesto se l'edificio fosse finito come sperava. “Gli architetti non hanno potuto aggiustare il quartiere o fornire guardie di sicurezza 24 ore al giorno” ha detto “Ma potevano fare qualcosa di piacevole il cui aspetto derivava dalla ristretta gamma di opzioni materiali disponibili, entro un budget limitato”. Anne Lacaton. Intervista di Michael Kimmelman, “At Edge of Paris, a Housing Project Becomes a Beacon”, New York Times, 27 marzo 2012.
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Existant
Project
Nella ricerca Plus i proge�s� dimostrano e illustrano un metodo “residuale” con cui manipolare l’archite�ura, res�tuendo dignità a edifici popolari esisten� e abita�. L’obie�vo è migliorare la qualità dell’abitare e dell’edificio, grazie a ges� radicali e contemporaneamente a�en� alle dinamiche abita�ve. Nelle immagini si vede l’applicazione di tali principi al proge�o specifico.
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Prima e dopo: sezione trasversale con evidenziato in rosso il livellamento della quota di ingresso e in blu l’aggiunta della nuova facciata trasparente
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Dopo lo smantellamento dell’amianto e la rimozione delle facciate, i moduli prefabbrica� dei giardini d’inverno e dei balconi, – costrui� con una stru�ura indipendente e sfru�ando moduli prefabbrica� di alluminio corrugato – furono aggancia� alla torre, in modo da creare un nuovo involucro che avvolgesse completamente l’edificio e sos�tuisse le facciate esisten�. Questa estensione ha permesso di aumentare la metratura di ciascuno dei 96 appartamen� e inoltre, con la riorganizzazione di alcune delle pare� di tamponamento interne, si è potuto raddoppiare il numero di �pologie di alloggio, migliorando il comfort abita�vo, l’illuminazione naturale e le viste, ma sopra�u�o ha permesso di ridurre i consumi energe�ci. Tra il giardino d’inverno ed il balcone, porte scorrevoli in vetro o policarbonato perme�ono di allargare le aperture e creare mul�ple configurazioni spaziali. Un tendaggio termico filtra il sole e, in combinazione con delle semplici tende spesse, garan�sce un comfort termico ed acus�co d’insieme. 91
In sintesi il lavoro si è concentrato sull’energia, sul guadagno di luminosità e sulla fluidità degli spazi. Un’operazione del genere, però, ha necessitato di una preparazione ed un’organizzazione di can�ere par�colare: a Bois le Prêtre sono sta� necessari sei mesi per la preparazione del can�ere, due volte in più del tempo necessario per un can�ere classico. Questa realizzazione ha posto un accento forte sulla necessità di un approccio partecipa�vo, quindi sul confronto con gli abitan�, perchè potessero realmente appropriarsi del proge�o. Il cliente ha voluto il coinvolgimento degli abitan� anche nelle fasi di concorso, inserendo addiri�ura alcuni dei loro rappresentan� nella giuria. Durante il can�ere venivano convocate riunioni se�manali tra gli inquilini e l’equipe di lavoratori. Un aspe�o cruciale ha riguardato il rapporto con gli inquilini: essi sono infa� potu� rimanere nelle proprie case per quasi tu�a la durata dei lavori, dovendosi spostare solo per un numero limitato di giorni. Ed è stato proprio questo a�eggiamento ad
Sezione trasversale del sistema delle nuove serre. Le facciate esistenti con finestre piccole sono state rimosse e sostituite da grandi aperture trasparenti, in modo che gli abitanti potessero beneficiare della vista eccezionale su Parigi tutta intorno.
essere fondamentale, perchè le persone rimosse dalle proprie case per lunghi periodi tendono a non volerci ritornare. Per rendere più facile il lavoro, fu proge�ato un alloggio proto�po con l’estensione del giardino d’inverno, in modo che i residen� potessero vedere con i propri occhi il risultato finale e fugare così ogni sce�cismo. Per quel che riguarda i cos� secondo Druot, il bilancio finanziario di questa riqualificazione è più interessante di quello di un’operazione di demolizione/ricostruzione, così com’era stato inizialmente previsto, perme�endo di risparmiare circa il 40% rispe�o alla cifra necessaria per lo smantellamento, diminuendo oltretu�o di circa la metà i cos� energe�ci grazie al nuovo involucro.8 “Avremmo potuto limitarci a fare solo qualche modifica, intervenire qua e là con qualche terrazzo, rendendo semplicemente più accat-
tivante l’insieme. Ma la nostra priorità era migliorare le condizioni di vita di tutti gli inquilini” sos�ene Anne Lacaton. E l’obie�vo sembra essere stato centrato in pieno. Le facciate della Tour Bois–le–Prêtre oggi res�tuiscono all’osservatore un effe�o visivo più leggero ed arioso, che cambia ad ogni ora a seconda di come la luce si rifle�e sull’alluminio, gli interni sono più spaziosi e le aree comuni più agevoli: è un buon esempio che resta a dimostrare come sia possibile agire, con ges� radicali sull’esistente, res�tuendo dignità agli edifici popolari, gravando il meno possibile sull’ambiente e sull’economia. Tale intervento, che fin da subito ha visto il conta�o con gli abitan�, ha riscosso un enorme consenso ed entusiasmo da parte dei ci�adini, i quali hanno potuto vivere in appartamen� più grandi, senza subire un aumento dell’affi�o.
8 Cfr: AA.VV.(2012) “Enjeux, apports et perspective de la requalification, programme REHA”, atti del dibattito del 15
marzo 2012, tenuto all’ Ecole Nationale Supérieure d’Architecture, di Paris-Belleville.
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Immagini degli appartamen� prima della riqualificazione. Da sinistra a destra: Vista interna della camera da le�o; Vista esterna dal soggiorno; Vista del soggiorno.
Immagini degli appartamen� dopo la riqualificazione. Da sinistra a destra: Vista della serra bioclima�ca; Vista dell’esterno dal soggiorno.
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“All'inizio tutti erano scettici. Le persone anziane erano ansiose di riporre i loro ricordi nelle scatole e di liberarsi delle cose. Ma io ero pronto per questo. Questo progetto ha rappresentato un nuovo inizio. All'inizio nessuno credeva che avrebbe funzionato. Abbiamo pensato che fosse impossibile fare questo genere di cose. Gli architetti hanno convertito un appartamento in modo che i residenti potessero avere una migliore idea di cosa stava per accadere. Da quel momento in poi, siamo stati davvero in grado di immaginarlo e salire a bordo. Una volta rimossi i muri e rimossa la facciata esistente, ho potuto vedere che sarebbe stato magnifico! La trasformazione ha davvero cambiato il nostro stile di vita e il modo in cui viviamo, anche se molto poco è stato cambiato del nostro appartamento esistente. L'unico vero cambiamento è la stanza in più. Ora abbiamo spazio, che è la cosa più importante, e molta luce. Ti senti meno chiuso e apprezzo molto avere questa libertà. Ma non so come sarà questa stanza in inverno poiché non è riscaldata. Il giardino d'inverno è diventato la mia stanza principale. Faccio colazione qui, coltivo le mie piante e leggo. E scrivo qui questa è la mia passione. Questo posto è molto rilassante: è il mio piccolo angolo Zen. E non vado mai nel mio vecchio salotto adesso! Anche quando arrivano gli ospiti, mangiamo automaticamente nel giardino d'inverno. E godo di un ottimo tramonto la sera”. Ms. Jean Charles, 44 anni, inquilina della torre dal 2000. Intervista di Karine Dana in “The risky business of metamorphosis”, Daylight and Architecture magazine n.16, 2011
“Ho trovato difficile visualizzare il progetto. Non pensavo che sarebbe stato possibile estendere gli appartamenti. Ma ero rassicurata dal fatto che c'erano dei balconi. Nonostante un periodo di disagi dovuti al fatto che ho voluto rimanere ad abitare nel mio appartamento anche durante i lavori, ho appena iniziato a godermi il mio appartamento e vederne gli aspetti positivi. Il soggiorno non è cambiato, ma confinando con il giardino d'inverno, si ottiene una sensazione di profondità totalmente diversa. Dà l'impressione che questa stanza sia più grande, e soprattutto che non sei più confinato dalle pareti. Questo è molto importante, anche se ora ci sono molte superfici di vetro da pulire”. Mrs Dorsemaine, 79 anni, che abita la torre da
più di 30 anni. Intervista di Karine Dana in “The risky business of metamorphosis”, Daylight and Architecture magazine n.16, 2011
Marie-Jean Benjamin ricordava l'edificio quando era appena stato inaugurato come un posto buio e angusto in un terribile quartiere che faceva fronte alla tangenziale. Allora, l'impianto idraulico interno era un lusso per una famiglia povera in cerca di una casa decente. Oggi guardando i suoi nuovi bagni, la cucina e i giardini d'inverno su cui aveva spostato il suo bar, alcune piante di pomodoro e una cyclette dice: “Sono orgogliosa dell'edificio”.
Ricordo di Marie-Jean Benjamin, inquilina della torre da 47 anni. Daylight and Architecture magazine n.16, 2011
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Prima e dopo: sopra vista interna della hall; so�o vista accesso al fabbricato.
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In defini�va in un quadro abita�vo dove circa l’80% dei fabbrica� risale agli ul�mi 60 anni il riu�lizzo sembra essere – o perlomeno dovrebbe essere – l’inevitabile ondata del futuro. Nonostante la pra�ca non sia ancora così comune, sopra�u�o quando si tra�a di grandi proge� di edilizia pubblica, alcuni tenta�vi riusci� ci sono sta�, e questo ne è l’esempio più recente. Il "principio posi�vo" ado�ato infa� può essere u�lizzato per tu� gli edifici con facciate con�nue non portan�, fornendo un’alterna�va intelligente alla soluzione dispendiosa della demolizione. Se lo smantellamento dei grands ensembles, come ormai comunemente condiviso, è impra�cabile, è altre�anto ridu�vo pensare che possano elaborarsi “rice�e” iden�camente valide per tu� i casi. Per essi, secondo la nota ed efficace espressione coniata da Thierry Paquot, bisogna parlare in realtà di un “singolare plurale”.10 Essi non formano un ensemble omogeneo: «Si quelques règles hygiènistes et fonc�onnalistes communes peuvent les caractèriser, les diffèrentes sont
grandes.(...) Ces par�cularitès se traduisent par des formes diffèrentes, habitèes par des habitants diffèrents qui connaissent des difficultès diffèrentes» (Sebbene alcune comuni regole igieniche e funzionaliste possano cara�erizzarli, le diversità sono grandi. (...) Queste par�colarità si traducono in diverse forme, abitate da diversi uten� che incontrano differen� difficoltà). Differentemente dal paradigma della ripe�zione e della uniformità che ha cara�erizzato il meccanicismo della loro costruzione, è esa�amente quello della differenza e della pluralità che appare necessario per intervenire nella trasformazione del loro stato a�uale. Lo sforzo diventa dunque quello di radicare gli interven� di trasformazione a�raverso le�ure e interpretazioni contestuali. Si tra�a di ricollocare la ques�one della trasformazione dei grands ensembles, da un piano generico e astra�o, al caso per caso da ricollocare nella Storia e nella Geografia dei luoghi cui appar�ene: «les travaille sur le lieu est un travaille sur le lien» (Il lavoro sul luogo è un lavoro sul collegamento).11
9 Ensembles, Lotus International n. 163
10 Cfr: Thierry Paquot in “Banlieues: une antologie” 2008 11 Cfr: Roland Castro, 2005 96
Bibliografia AA.VV. (2017), La riconversion de la Tour Bois-le-Prêtre in “Lotus Interna�onal” 163 Castro, R. (2005), (Re) Modeler Métamorphoser, Le Moniteur Edi�ons, Antony Dana, K. (2011), The risky business of metamorphosis in “Daylight and Architecture magazine” 16 Druot, F., Lacaton, A., Vassal, J.P. (2007), PLUS:Large-scale Housing Development, Editorial Gustavo Gili, Barcellona Gaspari, J. (2012), Trasformare l’involucro: la strategia dell’addizione nel progetto di recupero, EdicomEdizioni, Monfalcone Malighe�, L. (2012), Refurbishment Bois-le-Prêtre Tower in Paris, France in “Arke�po” 67 Melis, P. (2010) La valutazione della qualità globale degli edifici residenziali nella programmazione degli interventi di riqualificazione alla scala del patrimonio edilizio, Università degli studi di Cagliari, Dottorato di ricerca in Ingegneria edile, XXIII ciclo Nicolin, P. (2017), Dopo i Grands Ensembles in “Lotus Interna�onal” 163 Paquot, T. (2008), Banlieues: une antologie, Presses polytechniques et universitaires romandes, Losanna Parlato, S. (2014), Riabitare la città. La strategia dell’addizione come opportunità per la densificazione. Strumenti di supporto alla progettazione, Università degli Studi Roma Tre, Do�orato di Ricerca in Proge�o Urbano Sostenibile, XXVI ciclo Sitografia www.archite�uraecosostenibile.it www.druot.net www.lacatonvassal.com www.ny�mes.com www.pavillon-arsenal.com 97
Stadtvillen
Stadtvillen Agli inizi degli anni ’60, in concomitanza con l’erezione del muro di Berlino, nell’allora Germania Est molti paesi fino a quel tempo dediti esclusivamente all’agricoltura e all’allevamento vennero convertiti, in virtù di una ricerca di indipendenza economica, in villaggi industriali.1 Tra questi vi era anche la città di Leinefelde che, nelle intenzioni della DDR, sarebbe dovuta diventare un modello di insediamento socialista. Fu così che il paese venne trasformato in un polo industriale, comportando una crescita della popolazione da circa 2.200 abitanti fino a 16.500 nell’arco di poco più di vent’anni. Questo incremento demografico fu diligentemente affrontato dall’amministrazione cittadina che, tramite la realizzazione del quartiere “Siedlung Leinefelder Südstadt”, costruì in pochi anni 4.850 nuove abitazioni soprattutto grazie all’utilizzo di sistemi di prefabbricazione pesante, conosciuti come “Plattenbau”, secondo la pratica dell’urbanistica socialista. Questa standardizzazione degli appartamenti, unitamente all’utilizzo del sistema costruttivo conosciuto come WBS70,2 consentì alla DDR l’edificazione in tutta la Germania Est di edifici a basso costo e a grande impatto mediatico atti ad alloggiare la nascente classe operaia del paese. Alla base della costruzione di insediamenti di questo tipo vi era infatti il principio costitu-
zionale che considerava l’abitazione come un bene sociale da assicurare alla classe operaia, compito di cui lo stato si faceva carico.3 In questa logica la standardizzazione tipologica e costruttiva governava normativamente la progettazione architettonica e urbanistica.4 A Leinefelde già agli inizi degli anni ‘70 il 90% del patrimonio abitativo era costituito da appartamenti standardizzati realizzati secondo i più avanguardistici dettami del movimento moderno, ospitando oltre l’80% della popolazione. A questo incremento vertiginoso della popolazione residente, che in trent’anni aumentò del 800%, fece seguito agli inizi degli anni ’90 un decremento parimenti improvviso che ridusse nuovamente la cittadinanza del 70%. Quest’inflessione trova le sue ragioni nell’introduzione del libero mercato, avvenuta nel 1989 a seguito della caduta del muro di Berlino, e nella conseguente dismissione delle industrie di Leinefelde, non sufficientemente strutturate per competere in un contesto liberale. Ciò ha comportato un progressivo esodo degli abitanti verso la Germania Ovest e il relativo abbandono di circa un terzo delle abitazioni della Siedlung. In breve tempo il “Siedlung Leinefelder Südstadt” venne abbandonato sia dai residenti che dalle istituzioni: i pochi inquilini rimasti dovettero assumersi la responsabilità del mantenimento dell’intero quartiere convivendo così con una diminuzione dei servizi a
1 Piano per lo sviluppo economico e culturale delle province
3 Il diritto alla casa era previsto nell’art. 37 della costituzione. Sui concetti di bene sociale (Sozialgut) e di bene economico (Wirtschaftsgut). Nell’VIII congresso del partito nel 1976 fu deliberato che «la soluzione della domanda di abitazioni come problema sociale» era da risolvere entro il 1990.
Worbis e Heiligenstadt, 1959. L’obie�vo del piano del Sed (Par�to socialista tedesco) era l’ancoramento di questa regione, stru�uralmente debole e tradizionalmente ca�olica, al conce�o di società della DDR: Costruzione, Sviluppo e Dispiegamento del socialismo su territorio tedesco.
2 WBS sta per Wohnungsbauserie(serie costruttiva di
appartamenti) e 70 per l`anno di introduzione. Le caratteristiche di questo tipo erano «l’alto grado di finitura [e] una forte standardizzazione delle soluzioni formali e funzionali».
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4 “Dalla stecca alle Ville, effetti del cambio ideologico nella ex DDR”, Gaetano Licata, Lotus International 132
FotograďŹ a aerea del Siedlung Leinefelder SĂźdstadt e parziale demolizione dello Stadtvillen
A sinistra: Planimetria del Siedlung Leinefelder SĂźdstadt; A destra: Parziale demolizione dello Stadtvillen
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Fotografia del prospe�o ovest del complesso Stadtvillen. Jean Luc Valen�n.
fronte di un aumento degli affitti. Inoltre in breve tempo il complesso andò incontro ad un degrado fisico e sociale che ne compromise la stabilità e ne ridusse l’attrattività. Leinefelde fu solo una delle tante città dell’ex Germania Est che subirono un importante calo demografico in conseguenza dell’unificazione del paese, tuttavia, a differenza di molti altri contesti dell’ex DDR,5 la città tedesca affrontò questo problema in maniera radicale, tramite programmi integrati di demolizioni e trasformazioni, regolati da un masterplan che si distinse per l’approccio sperimentale e innovativo, volto al superamento delle dominanti logiche urbanistiche quantitative. L’obiettivo del piano era infatti mirato alla riduzione dello stock abitativo della città dal
30 al 50% in modo da poter riutilizzare il suolo liberato modificando l’urbanistica del paese. Tutto questo al fine di scardinare la preesistente caratterizzazione di città dormitorio a favore di un più libero e vivibile contesto sociale. Tra i diversi interventi effettuati merita particolare attenzione quello realizzato dallo studio di Stefan Forster con sede a Francoforte, al quale venne assegnata la trasformazione di uno degli edifici della Siedlung. Si trattava di un edificio in linea di 5 piani realizzato con elementi modulari prefabbricati i quali formavano una maglia strutturale il cui interasse era 12 metri: questa misura era ripetuta quindici volte sul lato lungo e creava appartamenti di tre e quattro vani. Il fabbricato realizzato dall’architetto
5 Situazioni analoghe di abbandono sono diffuse in tu�o il territorio dell’ex Germania orientale, dove si trovano circa due milioni di abitazioni costruite con prefabbricazione pesante. Ciò è stato favorito anche da una poli�ca fiscale dire�a a risollevare l’economia negli anni subito dopo la
caduta del Muro, che prevedeva sgravi per tu� coloro che avessero inves�to nella costruzione di nuove abitazioni o nel risanamento di edifici storici nei centri urbani. Gli effe� di questa poli�ca sono sta� di breve durata e hanno generato un eccesso di offerta di abitazioni.
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Fotografia del prospe�o ovest del complesso Stadtvillen prima dei lavori di trasformazione. Jean Luc Valen�n.
Fotografia del prospe�o est del complesso Stadtvillen. Jean Luc Valen�n.
Joachim Stahr nel 1964 era composto da 150 appartamenti omologhi realizzati per soddisfare le esigenze di una famiglia di tre persone: padre, madre e figlio, obbligando così ogni diverso nucleo familiare ad adattarsi all’interno dello spazio prestabilito. L’intervento di riqualificazione, avviatosi nel 2001 e completato nel 2004, venne così descritto dall’architetto responsabile: “Il blocco lineare abitativo, realizzato con una struttura prefabbricata pesante, di 180 metri di lunghezza, attraverso la demolizione dell’ultimo piano e di sette moduli intermedi, è stato trasformato in otto Ville Urbane di quattro piani ciascuna”.6 L’intervento di demolizione selettiva è avvenuto alternativamente secondo la maglia strutturale dell’edificio, creando un’alterna-
nza regolare di spazi aperti e chiusi, ognuno di 12 metri di larghezza. Da 150 gli appartamenti sono divenuti 63, con una riduzione di più del 50% del volume preesistente. Da un punto di vista urbano l’edificio mantiene verso est la sua posizione di bordo lungo la strada di accesso, questo grazie al piano seminterrato continuo che collega tutte le “ville”, e allo stesso tempo acquisisce, a seguito delle sottrazioni, un rinnovato ruolo urbano di ingresso all’insediamento; mentre a ovest, verso la città, il complesso si presenta in perfetta continuità con lo spazio antistante per mezzo del riempimento, con i materiali ricavati dalle demolizioni, del dislivello tra le cantine e la quota del giardino antistante.
Fotografia del complesso dello Stadvillen all’inizio dei lavori di trasformazione, 2002.
6 Relazione descri�va di proge�o, Studio Forster Architekten.
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L’architetto Stefan Forster ha fin da subito coinvolto la popolazione residente e i futuri inquilini nella realizzazione del progetto delle singole “ville urbane”. Lo studio ha proposto varie soluzioni abitative per i diversi appartamenti ed è spettato ai futuri abitanti scegliere quella più adatta alle proprie esigenze. Questa individualizzazione dell’abitare era uno degli aspetti fondamentali dell’opera di Forster, il quale era intenzionato a stravolgere il principio della standardizzazione che caratterizzava precedentemente il fabbricato. Per rendere questo principio ancora più evidente sono stati realizzati tutta una serie di accorgimenti architettonici atti a personalizzare le diverse unità abitative: tra questi interventi vi erano l’allargamento delle finestre o la loro chiusura, l’installazione di balconi sfalsati a seconda delle esigenze interne e l’apertura di nuovi affacci sul territorio. Inoltre nelle nuove unità ogni stanza gode di illuminazione e aereazione naturali, aspetto irrealizzabile nella struttura lineare precedente. Per ciò che riguarda l’aspetto formale è volutamente negato ogni diretto legame con l’immagine originaria dell’edificio. Il concetto progettuale e la sua espressione figurativa mettono al centro le nuove singole ville pensate come grandi sculture giacenti su di un unico piano, le quali si differenziano tra loro attraverso variazioni di volume e colore, ma che proprio attraverso queste regole di variazione comuni danno vita ad una unitarietà riconoscibile. L’architetto è riuscito abilmente a coniugare il desiderio di individualità degli abitanti e le esigenze economiche del committente, proponendo la “Punkthaus”, un tipo urbano molto diffuso e attuale nella Germania dell’Ovest che offrisse un compromesso tra l’unicità della casa singola – intesa come il 7 “Dalla stecca alle Ville, effetti del cambio ideologico nella ex DDR”. Gaetano Licata, Lotus Interna�onal 132.
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massimo dell’identificazione – e l’idea di abitazione collettiva, sebbene con un numero molto limitato di unità abitative.7 La forza di questa trasformazione sta nella semplicità con cui è possibile descrivere il cambiamento di significato avvenuto: da Siedlung prefabbricata a ville urbane. Il procedimento messo in atto da Forster non è tuttavia semplice quanto appare; si tratta infatti di un approccio integrato che rifiuta il risultato come somma di risposte singole alle diverse condizioni che sono cambiate: desideri dei residenti, strategie di mercato, struttura sociale, qualità residenziale e standard tecnici. Ogni singola decisione progettuale agisce parallelamente e contemporaneamente su più piani: i nuovi balconi, che rispondono alle esigenze di mercato, sono un elemento compositivo e contribuiscono all’individualizzazione di ogni singola villa o abitazione; la coibentazione termica, una necessità dal punto di vista energetico, copre tutte le irregolarità preesistenti e gli interventi di consolidamento e dà vita a una superficie omogenea che determina l’aspetto finale; il piano seminterrato continuo forma un basamento unitario e nell’economia dello spazio esterno dà vita ai plateaux di ingresso per ogni singola villa. Nel rapporto con il preesistente è l’elemento più resistente che svela la doppia operazione di lavorare nello stesso tempo a un intero edificio e a singole parti nuove. Al di là degli aspetti squisitamente architettonici, la cui interpretazione è indubbiamente soggettiva, è innegabile affermare che l’intervento di riqualificazione abbia risolto una situazione complicata offrendo una soluzione ampiamente accettata dalla popolazione e capace al contempo di ridurre al minimo i costi per la trasformazione – intesa come combinazione di demolizioni e riqualificazioni.
Fotomontaggio dello Stadtvillen di Leinefelde prima e dopo i lavori di trasformazione.
Fotografia del prospe�o est fronteggiante la strada di accesso al quar�ere. Jean Luc Valen�n.
Fotografie dei prospe� est e ovest di una delle nuove “ville” realizzate dall’archite�o Stefan Forster. Jean Luc Valen�n
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Planimetria generale dello Stadtvillen, fuori scala.
Rappresentazione schema�ca dell’intervento di so�razione e addizione effe�uato a Leinefelde.
Fotografia delle 7 nuove “Ville urbane”. Jean Luc Valen�n.
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L’operazione di so�razione realizzata allo Stadtvillen dimostra come sia oggi più che mai possibile, grazie agli sviluppi tecnologici recen�, agire sul tessuto urbano costruito, senza dover ricorrere necessariamente a costose operazioni di demolizione e ricostruzione. Il telaio prefabbricato, nonostante i limi� morfologici che lo contraddis�nguono, perme�e, più che altri sistemi di costruzione, la modificazione a posteriori. Questo sistema composi�vo cara�erizza mol�, se non tu�, i superblocchi del ventesimo secolo, i quali necessitavano di essere realizza� in tempi brevi e a cos� limita�. Questo �po di approccio al proge�o di trasformazione, sebbene rela�vo a una �pologia molto specifica, al di là della sua risposta stre�amente archite�onica, concre�zza la trasformabilità come disposizione propria dell’archite�ura moderna corrente e apre nuovi ambi� applica�vi e di riflessione nel proge�o di archite�ura. Il cambio di paradigma concre�zzatosi a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 è perfe�amente assecondato dall’archite�o che, con un uso efficace delle nuove tecnologie, è stato in grado di “demolire il casermone” e rimpiaz-
zarlo con una serie di ville�e singole e personalizzate, riducendo al massimo tempi e cos� di realizzazione. La rivoluzione non sta tanto nella nuova morfologia o nell’aspe�o “moderno” dato all’edificio – risulta� che si sarebbero potu� o�enere anche con una meno invasiva ristru�urazione – bensì nel radicale e incontestabile cambio di paradigma sull’abitare, da standardizzazione a personalizzazione. L’intervento illustrato si candida per divenire, anche in virtù dei vari riconoscimen� nazionali e internazionali ricevu�, un approccio modello per quanto riguarda il recupero sociale e funzionale dei “palazzoni” modernis� e tardomodernis�. La sua peculiarità deriva dall’essere capace di inserirsi nel mezzo; non è defini�vo come la demolizione e nemmeno delicato come l’intervento paesaggis�co, tu�avia sembra essere capace di snaturare i “superblocchi” abita�vi, spogliandoli di quella s�gma�zzazione degradante sviluppatasi negli anni ’60, ed al contempo preservare il ricordo di un’ideologia che forse troppo rapidamente è stata rimpiazzata.
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Bibliografia Bankstahl, W. (2016), Leinefelde - Stadtvillen, Master in archite�ura residenziale, popolazione e sviluppo, Università di scienze applicate di Mainz Licata, G. (2007), Da Plattenbau a Ville Urbane in “Lotus Interna�onal” 132 San�faller, E. (2004), Stadtvillen Leinefelde-Worbis in “Baukulturführer” 12 Sitografia www.inside-systeme.de www.mul�layerladen.de www.staedtebaufoerderung.info www.wvleinefelde.de 111
Bijlmermeer
Bijlmermeer L’Olanda ha una lunghissima tradizione nella costruzione, ges�one e rinnovo dell’edilizia abita�va sociale, giocando, in questo ambito, un ruolo dominate a livello europeo. Negli ul�mi vent’anni numerosi sono sta� gli interven� di riqualificazione di complessi residenziali pubblici e priva� realizza� fra il 1945 e il 1960, cos�tui� prevalentemente da case unifamiliari ed edifici ad appartamen�, e da grandi insediamen� realizza� fra gli anni ’60 e ’70 nelle periferie delle maggiori ci�à. L’idea che guida gli interven�, ormai, è quella secondo cui non è il mero miglioramento tecnico di un alloggio a migliorare la qualità di vita dei residen�, ma un approccio di �po integrato che unisca aspe� tecnici, sociali ed economici.1 Oltre ad interven� mira� alla riqualificazione dei grandi insediamen� residenziali pubblici, molto diffusa, in Olanda, è la pra�ca che vede l’introduzione di nuova edilizia all’inte-
rno di un tessuto urbano già stru�urato, con l’intento di provvedere ad un alto grado di integrazione alla scala di quar�ere. Ciò perme�e di operare socialmente a scala di municipalità promuovendo interven� �pologici puntuali sul territorio. Le strategie di riqualificazione e recupero ebbero inizio verso la fine degli anni ‘80, producendo interessan� risulta� e tecniche innova�ve di recupero dell’edilizia degradata, dando vita a virtuosi piani di rigenerazione urbana ed edilizia. Alcuni degli insediamen� residenziali sociali ogge�o di intervento, erano sta� proge�a� in risposta alla richiesta abita�va del secondo dopoguerra e proponevano un’edilizia abita�va intensiva, creando così quar�eri periferici spesso del tu�o disconnessi dalle ci�à. Uno degli esempi più emblema�ci all’interno di questo quadro è il quar�ere di Bijlmermeer, situato nella zona sud-est di Amsterdam.
1 Le sperimentazioni olandesi contano sempre di integrare
• la proge�azione del rapporto ci�à – quar�ere – edificio – servizi; • il conce�o di accessibilità, fruibilità e funzionalità riportato alle diverse scale proge�uali; • i metodi costru�vi e le scelte tecnologiche che si basano sul miglioramento delle prestazioni tecniche dell’edificio e sullo sviluppo di nuove proposte di standard dimensionali rela�ve ai tagli dell’alloggio e alla creazione di servizi per l’utenza; • i nuovi materiali che si u�lizzano per la realizzazione degli edifici o per il recupero delle facciate, che conferiscono, oltre a rinnovate prestazione tecniche, una nuova iden�tà all’edilizia residenziale pubblica.”
fon� rinnovabili con l’archite�ura dell’edificio, così da trasformare edilizia energivora in edilizia produ�rice di energia. “La qualità archite�onica per l’edilizia sociale in Olanda è riuscita a�raverso il mix di diversi fa�ori: • le Housing Associa�ons, che grazie al loro costante impegno ed alla loro posizione sociale, contribuiscono ad un costante finanziamento del se�ore, consentendo sostenibilità economica per un edilizia sociale rinnovata; • il tema della gentrifica�on come valore per il tessuto sociale. Il mix sociale che si tenta di proporre -30% - cerca di rivitalizzare e calibrare la configurazione degli insediamen� periferici; • i piani urbanis�ci vol� alla riqualificazione e alla rigenerazione degli insediamen� degrada�, e la rela�va semplificazione della legislazione norma�va, urbanis�ca ed edilizia per favorire gli interven�;
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Tra�o da Mencagli P., L’Europa che cambia: l’housing sociale come strumento per riqualificare il territorio, L’esperienza Olandese: un esempio per riqualificare le nostre periferie, Ingenio n° 28
La ci�à del futuro. Fotografia aerea di Bijlmer est nel 1975 Stadsarchief Amsterdam archive
Posa del primo pilastro da parte del sindaco van Hall il 13 dicembre 1966
(www.beeldbank.amsterdam.nl)
La regina olandese Juliana su un balcone del Bijlmer il 21 gennaio 1971. (www.99percen�nvisible.org)
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Il quar�ere Bijlmermeer, nato fra il 1966 ed il 1975, fu realizzato secondo i de�ami del CIAM: un perfe�o incapsulamento dei principi modernis�. Proge�ato per ospitare 100.000 abitan�, esso era inteso come un'alterna�va verde, leggera e spaziosa al nucleo della ci�à di quel tempo, che si andava disintegrando. Ispirato alla Park Hill di Sheffield e alle tenute di Le Mirail di Tolosa, il complesso, seguendo gli ideali utopici, è stato concepito come un singolo proge�o organizzato con un’impostazione radicalmente funzionalista: blocchi esagonali di nove piani su di un basamento di due piani di scan�na�, circonda� dal verde, con sen�eri pedonali e piste ciclabili, a�rezzature pubbliche e laghe�. Un tenta�vo, in altre parole, di creare una ci�à giardino ver�cale. Le diverse funzioni (residenziali, commerciali, colle�ve) erano fortemente separate. Il traffico, sia di automobili che di autobus, era veicolato su strade sopraelevate a scorrimento veloce, mantenendosi quindi completamente distaccato da quello ciclo-pedonale situato a livello del terreno. Siegfried Nassuth, l’archite�o a capo del team di proge�azione, era un idealista che sen�va fallire la ci�à del passato, la quale, a sua de�a, aveva bisogno di essere ricostruita da zero usando i principi modernis� sviluppa� nell’ambito dei CIAM. Se non c'è mai stato alcun dubbio sul fa�o che il Bijlmermeer fosse cos�tuito da alte torri residenziali in calcestruzzo, l’innovazione sta nella scelta di averle sistemate nella forma unica a nido d'ape. La griglia esagonale consen�va infa� ad ogni appartamento di godere del giusto apporto di luce ogni giorno, così che nessun appartamento fosse "migliore" rispe�o all’altro; in questo modo ogni uomo sarebbe stato uguale al suo vicino. Nonostante appena dopo il completamento dei primi edifici alla fine degli anni ‘60 le pubblicità raffigurassero un paradiso con 117
moderne torri di appartamen�, circondate da giardini e alberi lussureggian�, il Bijlmer, nome colloquialmente usato per indicare Bijlmermeer, non ha avuto il successo sperato. L’utenza per la quale era stato pensato, la classe media che abitava i quar�eri del XIX secolo vicini al centro, non volle trasferirsi né in questo né in altri quar�eri dormitorio della ci�à, sia perchè il collegamento ferroviario con il centro storico non era ancora stato ul�mato, sia perchè preferiva la �pologia della casa unifamiliare sia, non ul�ma, per la mancanza di una zona commerciale dove poter acquistare generi alimentari negli immedia� dintorni. Ben presto così la disillusione cominciò ad aumentare e le liste d'a�esa scomparvero. Agli inizi degli anni '70, mentre il Bijlmer era ancora in costruzione, la maggior parte del mondo si stava già rivoltando contro i falansteri moderni in cemento su cui i modernis� avevano spinto negli anni '30 e '40. L'urbanista americano Oscar Newman aveva teorizzato che fosse la presenza di una grande quan�tà di spazi comuni trascura� e diventa� nascondigli per i criminali ad aver portato alla caduta di Prui� Igoe, e temeva che il Bijlmer potesse subìre lo stesso des�no. Persino i membri del CIAM stavano iniziando a me�ere in discussione e denunciare questo approccio alla costruzione; il famoso archite�o olandese Aldo Van Eyck andò sulla televisione nazionale e, le�eralmente, pianse su ciò che riteneva essere un'orribile mostruosità. Nonostante ciò gli edifici con�nuarono ad aumentare raggiungendo alla fine la quota di 31 enormi blocchi con 13.000 appartamen�, cen�naia di ascensori e scale e spazi comuni e 110 chilometri di corridoi interni. Ciò che sicuramente non mancava era dunque la quan�tà esagerata di spazi colle�vi e comuni a disposizione degli abitan�, quello di cui il quar�ere aveva bisogno era proprio la materia prima, persone che abitassero
“Il Bijlmer così com'è stato costruito nel 1966 in un polder vicino ad Amsterdam era rigido, completo e colossale. Il piano di sviluppo urbano della Divisione Urbanistica del Dipartimento dei Lavori Pubblici di Amsterdam prevedeva 40.000 abitazioni, di cui il 90% doveva essere realizzato in grattacieli prodotti "in modo industriale". [...] Dal primo memorandum comunale sui problemi del Bijlmer del 1970 alla demolizione del primo appartamento nel 1995, si può in ogni caso trovare una costante in questa bizzarra favola moderna: la critica e la richiesta di cambiamento”.
Luijten in Van Hoogstraten 2002
“Qualsiasi sociologia comparata della nuova povertà urbana nelle società avanzate deve iniziare con il forte stigma legato alla residenza negli spazi limitati e segregati, i quartieri dell'esilio a cui le popolazioni emarginate o condannate al licenziamento dalla riorganizzazione postfordista dell'economia e lo stato sono sempre più relegati”.
Wacquant 1993
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Donna nei Paesi Bassi che indossa la bandiera del Suriname per celebrare l’indipendenza il 25 novembre 1975 (www.99percen�nvisible.org)
ques� serpentoni, che vivessero ques� enormi parchi e che si prendessero cura e sorvegliassero ques� spazi di servizio. Presto fu evidente che la manutenzione degli appartamen� richiedeva una spesa molto superiore a quella prevista. Inoltre la maggior parte degli alloggi del Bijlmer terminarono nel momento in cui il Suriname diventava indipendente. Gran parte degli abitan� di questo paese diventò olandese e oltre 100.000 persone migrarono nei Paesi Bassi e nella capitale in par�colare causando uno shock per il governo olandese che ora doveva affrontare una grave crisi immobiliare. Con pochi pos� in cui vivere ad Amsterdam, le stru�ure di appartamen� del Bijlmermeer, con i loro numerosi pos� vacan�, diventarono un'alterna�va interessante. Col passare del tempo sempre più caraibici si trasferirono al Bijlmer ma questo cambiamento non fu del tu�o gradito agli olandesi bianchi che già vivevano lì: fu così che il quar�ere divenne un vero e proprio centro di accoglienza, pur non essendo 119
capace di fornire i servizi necessari. Pi de Bruijn, che ci abitava con la moglie dagli anni ‘70 lo definì "un'invasione" e "un ghe�o". Sempre più spesso, il Bijlmer a�rava le persone che non potevano perme�ersi l'alloggio altrove, o erano discrimina� dalle altre par�. Nel corso del tempo, migliaia di gay e immigra� provenien� da pos� come la Turchia, il Marocco e il Ghana, che erano venu� in Olanda per lavoro, si trasferirono lì. Fu così che nel quar�ere si cominciarono ad avver�re problemi sociali e le prime avvisaglie di ghe�zzazione: i pochi olandesi rimas� se ne andarono lasciando posto ai surinamesi e an�lliani. Il 25% degli alloggi rimase sfi�o, la percentuale di residen� disoccupa� raggiunse il 40% ed era alta la percentuale di morosità. Per tale ragione l'Housing Associa�on che si occupava del Bijlmer era spesso senza i fondi necessari per le opere di manutenzione ordinaria come riparare gli ascensori costantemente ro�. Fu così che cominciarono ad emergere problemi di sicurezza lega� alla forte presenza di gruppi sociali
Le strade pedonali deserte del Bijlmer sono il luogo ideale per i criminali e l'intera area è diventata una tela per il loro lavoro.
emargina� e delinquenza. La separazione dei traffici veicolari e pedonali, che divenne causa e fonte di pericolo, specialmente nelle ore serali, insieme alla dislocazione decentrata dei servizi, alla monotonia dell’insieme, all’assenza di misure di controllo degli spazi pubblici, hanno portato ad un progressivo degrado sociale ed a frequen� episodi di criminalità, facendo guadagnare al Bijlmermeer il nome di "The Drain of the Dutch Society" (la fogna della società olandese). Fu così che negli anni ’80 si cominciò a pensare ad un importante programma di recupero e venne is�tuito il “Gruppo di studio per il futuro del Bijlmer”. Il pensiero alla base era che si dovesse intervenire globalmente su diversi aspe�, senza ado�are unicamente misure che riguardassero l’edilizia: solo migliorando le condizioni degli abitan� sarebbe stato possibile recuperare il quar�ere. Vennero prese diverse misure di �po sociale per comba�ere disoccupazione e povertà, come l’is�tuzione di centri sociali, gruppi di
solidarietà, e l’avviamento di corsi linguis�ci e di aggiornamento. Nel 1980 arrivò finalmente il treno della metropolitana che collegava il Bijlmer al resto di Amsterdam, e un vicino centro commerciale fu aperto. La percentuale degli alloggi sfi� scese al 4,2%, ma iniziò a profilarsi l’idea della demolizione. Il Bijlmermeer si ritrovò all’improvviso al centro di un grande diba�to, grazie al quale molte delle problema�che furono finalmente messe a fuoco. Innanzitu�o si cominciò a considerarlo come una vera e propria ci�à (bas� pensare che il centro medioevale di Amsterdam è contenuto in un singolo se�ore), eppure i servizi che offriva non equivalevano neppure a quelli di una ci�adina di campagna. Si iniziarono a delineare varie possibilità per la riqualificazione: l’incremento delle a�vità commerciali; la creazione di spazi aper� ad uso colle�vo, strade e piazze, a misura dell’abitante; la frammentazione di alcuni alloggi per andare incontro alle esigenze di nuclei familiari più piccoli.
I luoghi di stoccaggio al piano terra in alcuni degli enormi edifici sono delimita� da una rete facile da tagliare e l’isolamento dei box è un facile bersaglio per i vandali (SWB, 1980)
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Tra le varie proposte emerse quella di OMA che puntava sul suolo e sullo spazio libero tra gli edifici, sui servizi colle�vi e sulla riorganizzazione delle infrastru�ure. Il Bijlmer possedeva e possiede tu�ora una sua monumentalità che, a dispe�o della sua monotonia e del suo grigiore, cos�tuisce uno spe�acolo archite�onico, manifestando il vero fascino del Moderno. “Il progetto OMA è volto quindi a contrastare la monofunzionalità, a densificare l’edificato, alla costituzione di spazi aperti speciali. Lungo l’asse nord-sud sono localizzati nuovi edifici che ospitano attività terziarie e produttive; lungo l’asse est-ovest sono previsti servizi culturali e commerciali; vicino alla linea metropolitana ci sono gli impianti sportivi. Sono inoltre proposte nuove tipologie (ville urbane, case a schiera, ecc.) allo scopo di connettere il quartiere con altri tessuti edilizi verso il centro della città. La grande area verde si impone come sistema indipendente. Sul momento la proposta riesce a “salvare” il Bijlmer. Nonostante il progetto di OMA non sarà mai attuato, avrà tuttavia il merito di modificare l’atteggiamento generale e di costituire un riferimento imprescindibile per i piani successivi.”2 A par�re dal 1987 la ci�à di Amsterdam e la Cassa Centrale per l’Edilizia Pubblica stanziarono fondi per il programma di riqualificazione del Bijlmer. Sempre nello stesso anno venne ul�mato il centro commerciale e direzionale Amsterdaamse Poort, portando così gli abitan� ad acquisire indipendenza dal centro di Amsterdam. Ciò automa�camente rese il distre�o più a�raente per nuove fasce sociali, generando, così, un fenomeno di diversificazione sociale che rese necessario adeguare il Bijlmer alle esigenze di queste nuove utenze. Le opere di demolizione erano previste a par�re dai primi anni ’90. L’intervento,
voluto e realizzato dalla collaborazione tra il governo locale, il distre�o “South East” e l’Housing Corpora�on, consisteva in operazioni di demolizione sele�va – garantendo così un maggiore dialogo con il tessuto esistente – la vendita di un quarto del complesso, ed il recupero del resto. La strategia ado�ata prevedeva una forte densificazione del tessuto residenziale, o�enuta grazie ad una nuova configurazione spaziale e ad interven� di addizione di nuova cubatura. Nel 1990 si cominciarono a demolire gli autosilos – sos�tuendoli con edifici commerciali e di servizio – e parte degli esagoni, che vennero rimpiazza� con abitazioni a bassa densità e in proprietà. Vennero incrementate le aree per le a�vità commerciali e migliora� i servizi; i parcheggi vennero in parte demoli� e vennero sos�tuite le strade sopraelevate con altre a livello del suolo. Già a metà degli anni O�anta il Bijlmer cominciò a diventare un luogo più ospitale, con un’utenza più diversificata. Grazie all’alternanza tra esagoni e quar�eri a bassa e media densità, alla presenza del centro commerciale, di un mercato e di diverse stazioni della metropolitana, il Bijlmer è diventato, nel tempo, un punto di riferimento nella regione: la gente dei quar�eri vicini arriva per fare acquis� o per pra�care sport. Nel 1996 venne completata la grande Amsterdam Arena, spazio per even� spor�vi e culturali. In sostanza l’intervento nel distre�o si è sviluppato a�raverso due dire�rici principali di azione: spaziale e sociale. La parte spaziale ha riguardato: la demolizione del viado�o precedentemente des�nato al traffico veicolare, che venne trasformato in un viale alberato; la demolizione di alcuni blocchi residenziali; la sistemazione degli spazi pubblici; la costruzione di nuove stru�ure commerciali e abita�ve ed il tra�amento degli spazi verdi condivisi.
2 Tra�o da: Laner P., Menego�o A. (1998) “L’utopia
annunciata” in Progettare la demolizione Costruire in laterizio n°6
addomes�cata, ovvero cronaca di una demolizione
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Prima ancora che i lavori di demolizione potessero iniziare accadde una tragedia: il 4 o�obre 1992 un aereo cargo andò a schiantarsi contro uno dei condomini a causa di un’avaria al motore. L’incidente fece sì che l'intero paese si concentrasse improvvisamente sul Bijlmer e sulle sue lo�e.
Il Bijlmer Monument: l’edificio memoriale ere�o nel preciso luogo dove il Boeing 747 si schiantò.
Principi proge�uali segui� da OMA:
Densificazione del tessuto esistente
Indipendenza degli spazi di relazione
Nuova centralità con funzioni pubbliche
Analisi e modello per la riproge�azione del Bijlmer di OMA con evidenziato l’asse est-ovest. (www.oma.eu)
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Rinnovamento del Bijlmer negli anni ‘90. Metà dei 13.000 alloggi furono demoli� Fotografia di Pieter Boersma. (Willemijn van de Klundert Bijlmermeer Regenerated, 2014)
Il Bijlmermeer nasce so�o il Movimento moderno e vuole essere un modello di espansione. (Wassenberg F. (2006) The integrated renewal of Amsterdam’s Bijlmermeer high-rise in Informa�onen zur Raumentwicklung)
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Planimetria di Bijlmermeer prima e dopo il rinnovamento. In rosso gli edifici demoli�, in blu quanto costruito tra il 1992 e il 2010. (Projectbureau Vernieuwing Bijlmermeer, (2008) The Bijlmermeer renova�on, Facts and Figures)
I nuovi alloggi unifamiliari con giardino hanno permesso la densificazione del tessuto e allo stesso tempo hanno dato risposta alla richiesta abita�va della classe media (Wassenberg F. (2006) The integrated renewal of Amsterdam’s Bijlmermeer high-rise in Informa�onen zur Raumentwicklung)
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Gli alloggi demoli� sono sta� 3000, mentre i restan� 10000 sono sta� rinnova� inserendo delle nuove abitazioni nei primi due piani, inizialmente des�na� a magazzini. Sono poi sta� realizza� 5000 nuovi alloggi unifamiliari con giardino, così da o�enere una maggiore ar�colazione sociale; ques� alloggi, sono sta� des�na� per un terzo all’edilizia sociale sovvenzionata, per un terzo ad affi�o non sovvenzionato e per il restante terzo alla vendita. La parte sociale ha riguardato: la sos�tuzione dei negozi posiziona� al di so�o del viado�o con un centro commerciale; la realizzazione di stru�ure per lo sviluppo di piccole imprese e di campi gioco per bambini; la creazione di spazi a�rezza� per l’espressione culturale e religiosa dei vari gruppi etnici presen� nel distre�o; l’a�vazione di un programma a�o a realizzare spazi per la celebrazione dei ri�. L'obie�vo insomma era quello di mescolare le funzioni invece di separarle. Nel 2002, quindi, fu reda�o un piano per il rinnovo del distre�o. Se quello ado�ato per la prima proge�azione del quar�ere era un approccio top-down e paternalis�co all'urbanis�ca, la riproge�azione del Bijlmermeer voleva debitamente evitarlo. Nel nuovo piano, ben poco dell’impianto cara�eris�co del Bijlmermeer è rimasto in piedi: la stru�ura ad alveare è quasi completamente scomparsa e più della metà dei blocchi originari è stata sos�tuita da edifici più piccoli. Cinque sono le condizioni che si possono individuare, alla base del successo del rinnovamento del Bijlmermeer. La prima condizione è il miglioramento dell’area che circonda l’Amsterdam Arena che viene u�lizzata come un catalizzatore per migliorare la vicina area problema�ca ad alta densità. La seconda condizione è l’approccio integrato, in cui tre diverse strategie sono impostate in combinazione tra loro: il rinnovo fisico che 125
ha portato alla realizzazione di �pologie abita�ve ed ambien� più popolari; il rinnovo sociale, consis�to nel miglioramento della situazione delle persone svantaggiate e nel miglioramento della vivibilità, che ha portato alla creazione di un luogo più sicuro. La terza condizione è la ricerca di soluzioni radicali. Anche con il miglioramento, il rinnovamento, la manutenzione e il coinvolgimento dei residen�, il Bijlmermeer non cos�tuiva un polo di a�razione nel mercato degli alloggi di Amsterdam. Problemi di vivibilità, come l’inquinamento e la sicurezza, hanno causato gravi problemi nel corso degli anni. Inoltre, il Bijlmermeer non è mai riuscito a liberarsi della sua immagine molto nega�va. La soluzione defini�va è stata la sos�tuzione dei blocchi con edifici più bassi e a più bassa densità. La quarta condizione è quella finanziaria. Un ruolo centrale è quello del Fondo Centrale per l’Housing, che paga la metà di tu� i cos�, ma che non è denaro del governo. La quinta e ul�ma condizione è stata l’aver coinvolto gli abitan�. Offrire prospe�ve ai residen� è infa� uno degli elemen� fondamentali per il successo ed è in quest’o�ca che il rendere finanziariamente possibile per le persone diventare proprietarie di una casa è stata una priorità del re-design a�uato dallo studio NL architects di Amsterdam, autore del proge�o DeFlat Kleiburg, vincitore dell’EU Mies van der Rohe Prize 2017. Kleiburg è l'ul�mo edificio nella zona ancora nel suo stato originale; in un certo senso è l '"ul�mo uomo in piedi nella guerra al modernismo". Nonostante L’Housing Corpora�on Rochdale avesse piani per demolirlo, a seguito delle pressioni del governo locale che sperava di evitare la demolizione, la società lanciò una campagna per salvare l'edificio: Kleiburg fu offerto per UN EURO nel tenta�vo di catalizzare piani alterna�vi ed economicamente fa�bili.
Schema�zzazione dei principali interven� a�ua� per rigenerare il Kleiburg.
Più di 50 studi hanno risposto con una serie di proposte e qua�ro squadre sono state selezionate per sviluppare ulteriormente le proprie visioni. Tra ques� il vincitore è risultato essere lo studio NL Architects in quanto la loro proposta era volta a minimizzare gli inves�men� iniziali e al contempo consen�re ai futuri residen� di acquistare ad un prezzo esiguo il proprio appartamento. L'idea base del proge�o di trasformare Kleiburg in Klusflat ('Klussen' traduce come farlo da soli), era quella di rinnovare la struttura principale – ascensori, gallerie, installazioni – ma di lasciare gli appartamen� incompiu� e non arreda�: niente cucina, niente doccia, niente riscaldamento, niente camere. “Ciò consentirà ai futuri residenti di acquistare il guscio per poi rinnovarlo a seconda dei propri desideri.” (Kamiel Klaasse, NL Architects) L’intervento prevedeva innanzitu�o che le aggiunte dei tre vani ascensore esterni
risalen� agli anni ’80 venissero rimosse, dal momento che i nuovi ascensori potevano effe�vamente essere colloca� all'interno dei nuclei esisten�, perme�endo così il ripris�no delle balaustre orizzontali. In secondo luogo gli spazi di stoccaggio, che originariamente erano situa� al piano terra dei fabbrica� creando aree impenetrabili, "zone morte" ai piedi dell'edificio, vennero trasferi� ai livelli superiori vicino agli ascensori. Il livello del terreno in questo modo poteva essere liberato per lasciar posto a forme di abitazione più intera�ve: appartamen�, spazi di lavoro, asili nido. In questo modo il basamento è stato trasformato in una base sociale inserita nel parco. Infine si è intervenu� sulle strade interne, che inizialmente fungevano da conne�ori tra i parcheggi e le anime degli ascensori e che si trovavano al primo piano a più di tre metri di altezza costringendo così i so�opassaggi a 126
diventare bassi e cupi. Ma poiché abbassare le strade sopraelevate era una delle idee centrali del rinnovamento dell'area, la strada interna divenne obsoleta. In questo modo si è potuto quindi creare aperture più grandi che collegavano entrambi i la� dell'edificio in modo più panoramico e generoso. Tornando ad una visione più generale dell’intero quar�ere, nel nuovo Bijlmer viene creato con cura un "ambiente personale orientato al consumatore", come spiega Dave Wendt di ARCAM. Dopo aver fa�o ricerche approfondite su ciò che vuole l'abitante, l'immagine del Bijlmermeer è completamente ri-orientata verso i 127
bisogni dei futuri inquilini, influenzando così posi�vamente l'immagine a�uale del residente. Il Bijlmer si concentra sulla vita della comunità più piccola, che è la qualità fondamentale del distre�o. Con le sue 130 nazionalità, il sud-est della ci�à sta diventando un distre�o urbano a�raente. Nei prossimi dieci anni il Bijlmer diventerà probabilmente la nuova zona alla moda di Amsterdam, dove gli yuppies compreranno appartamen� per merito della "cara�eris�ca atmosfera mul�culturale". Per ora l’obie�vo raggiunto è stato quello di essersi liberato dell’an�co fantasma del suo passato.
Prima e dopo: il basamento degli edifici da magazzini ciechi ad abitazioni/uffici trasparen� e permeabili; il passaggio alla base degli edifici: basso, lugubre e buio prima, alto, luminoso e arieggiato dopo; l’aggregazione di più appartamen� in modo da creare più mix �pologico e dare risposta alla nuova domanda abita�va
“Il Bijlmer è ora un posto fantastico in cui vivere. Le case sono belle e sicure. Il rinnovo del Bijlmer ha funzionato alla perfezione: il livello di criminalità è diminuito e mi sento al sicuro girovagare. La ristrutturazione degli appartamenti ha funzionato, perché quelli che sono stati abbattuti sono stati sostituiti da case unifamiliari basse con maggiore privacy. Anche se ho dovuto trasferirmi, tutto è andato liscio. Ho potuto scegliere il posto in cui volevo vivere e ho persino ricevuto una quota di trasferimento dalla società di edilizia popolare. È diventato un quartiere di successo!”. Gitty Amprimposh, una donna ghanese che vive nel Bijlmer dal 1989, vede il progetto come un successo
“La ristrutturazione del Bijlmer attraverso la demolizione di grattacieli ha posto molti problemi dal 1995 al 1997. C'è stata una dura battaglia tra i residenti che non volevano lasciare i loro appartamenti e le società di edilizia popolare che volevano abbattere gli appartamenti in cui essi vivevano. Alcune di queste persone hanno avuto l'avviso che dovevano partire un mese prima; altri furono costretti a partire per ordine del tribunale dopo veementi battaglie giudiziarie". “Le associazioni di edilizia sociale hanno agito in modo estremamente rude e non cristiano", aggiunge. ”Gli abitanti degli appartamenti in programma per la demolizione sono stati buttati fuori dai loro appartamenti perché, come ha affermato il direttore di una delle società di edilizia sociale secondo Heijboer, "erano troppo poveri, troppo neri e troppo criminali”.
Pierre Heijboer, un noto giornalista del quotidiano olandese De Volkskrant, che vive nel Bijlmer dal 1966, dipinge invece un quadro diverso
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Fotografia aerea dell’a�uale quar�ere Bijlmermeer 2018.
Un piano di sviluppo urbano crea�vo ha completamente cambiato il quar�ere. Il complesso è ora la sede della Heesterveld Crea�ve Community (HCC). C'è spazio per la ristorazione, un negozio per la comunità e uno spazio colle�vo dedicato a diba��, spe�acoli e mostre. E’ così che Bijlmermeer si è trasformato nel quar�ere più crea�vo di Amsterdam.
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In sintesi, la soddisfazione generale dei residen� per la trasformazione di questa parte di ci�à è da a�ribuire alla �pologia di intervento ado�ata, stre�amente legata a fa�ori socio-economici ma anche alla localizzazione del quar�ere all’interno dell’hinterland di Amsterdam. L’area del Bijlmer infa�, al contrario di quella dei Robin Hood Gardens a Londra, si trova nella periferia della ci�à, con poco spazio a�orno dedicato allo sviluppo poichè, nonostante abbia l'Ajax Johan Cruijff Arena, lo Ziggo Dome – la più importante sala da concerto della capitale olandese – e mol� collegamen� stradali e ferroviari, non è vicina a nessuna delle principali aree finanziarie come invece è Canary Wharf per il caso inglese. Proprio questa topografia ha permesso di evitare, o perlomeno limitare, le speculazioni avviate da inves�tori che, spesso, hanno sos�tuito alloggi economici per mol� con appartamen� di lusso per pochi. Questo ha permesso di dar vita ad un quar�ere mul�culturale. Oggi gli edifici sono dipin� con colori vivaci e sono ora le case e i luoghi di lavoro di imprenditori crea�vi, ar�s�, studen� e residen� originali di Bijlmer. Se il programma di rinnovamento e rigenerazione cos�tuito dal proge�o del DeFlat Kleiburg, affiancato dalla densificazione a�uata a�raverso la costruzione delle case unifamiliari, ha riscontrato un enorme successo fra i residen�, smembrando e umanizzando la scala del complesso originario e
creando addiri�ura un nuovo modello di business per l'edilizia in tu� i Paesi Bassi, innumerevoli sono i dubbi che rimangono circa l’effe�vo risultato o�enuto da un punto di vista archite�onico-cultutale. Come è vero infa� che la frammentazione o�enuta grazie alla costruzione di edifici bassi e a bassa densità ha permesso la creazione di spazi esterni pubblici, semipubblici e priva� più sicuri, a�vi e mul�funzionali rispe�o alle grandi distese preceden�, c’è comunque da interrogarsi se sia meglio conservare un quar�ere, che seppure bru�o e mastodon�co, è fondato su un’idea, che sebbene utopis�ca, si basava su principi riconoscibili, o se invece non sia meglio optare per un quar�ere tradizionale, periferico, che rinuncia ad ogni aspirazione progressista per rifugiarsi nel sicuro tepore dato dall’u�lizzo di un abusato tessuto urbano. Se non c’è alcun dubbio riguardo la riuscita della creazione di una nuova zona culturale, cara�erizzata da una mixitè internazionale che è riuscita a dar vita a uno dei quar�eri più mul�etnici e fervidi di tu�a l’Olanda, grandi interroga�vi rimangono sul senso di alienazione che sembra “infestare” ancora oggi il complesso nella sua parte residenziale. Negli anni ‘80 l’aria disumanizzante era data dalla monotona sequenza di enormi blocchi grigi e mu�; oggi invece è data dal noioso susseguirsi di ma�oni rossi che privano di ogni cara�ere e peculiarità il nuovo tessuto densificato.
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Bibliografia Laner, P., Menego�o, A. (1998) L’utopia addomesticata, ovvero cronaca di una demolizione annunciata in “Costruire in Laterizio” 6 Mencagli, P. (2018), L’Europa che cambia: l’housing sociale come strumento per riqualificare il territorio, L’esperienza Olandese: un esempio per riqualificare le nostre periferie in “Ingenio” 28 Parlato, S. (2014), Riabitare la città. La strategia dell’addizione come opportunità per la densificazione. Strumenti di supporto alla progettazione, Università degli Studi Roma Tre, Do�orato di Ricerca in Proge�o Urbano Sostenibile, XXVI ciclo Postema, T. (2012), Citizen participation in an urban renewal project: a case study of the Amsterdam Bijlmermeer, Universiteit van Amsterdam van de Klundert, W. (2014), Bijlmermeer Regenerated, Westminster University London Wassenberg, F. (2006), The integrated renewal of Amsterdam’s Bijlmermeer high-rise, TU Del�
Sitografia www.archdaily.com www.aerophotostock.com www.failedarchitecture.com www.99percen�nvisible.org 131
COMUNITA’
&
PAESAGGIO “La vita vince sempre”
Ian Malcom, dal film Jurassik Park
La ba�uta del matema�co ed esperto di teorie del caos Ian Malcom nel film Jurassic Park, fru�o della constatazione – da parte del protagonista – della capacità della natura di sopravvivere anche in condizioni estremamente avverse e contro la volontà dei suoi creatori, trova incredibilmente riscontro in quei ruderi urbani, spesso abbandona� dalle amministrazioni locali, nei quali caparbiamente persistono tracce di vita e di vitalità. Complessi come lo ZEN di Palermo e il Corviale di Roma, qui riporta� per l’importanza dei proge�s� e la clamorosità del fallimento, dimostrano come, nonostante le problema�che sociali e funzionali scaturite da errori proge�uali, inadeguatezza realizza�va e incompetenza ges�onale, ques� luoghi siano ancora pulsan�, anima� dalla volontà dei residen� di non arrendersi e di non essere dimen�ca�. “Si è di Corviale” così come “si è dello ZEN”, frasi de�e con orgoglio dagli abitan� dei quar�eri periferici nostrani, dalle quali traspare la forza del sen�mento iden�tario che lega luogo e persone. Nonostante le difficoltà inziali, spesso fru�o di una rappresentazione media�ca distru�va, incentrata sull’esagerazione degli aspe� cri�ci e sullo svilimento delle potenzialità, queste “ci�à nella ci�à” sono, all’alba del XXI secolo, veri e propri simboli di resilienza e manifesto della capacità rigenera�va degli “interven� immateriali”. L’inefficacia dei proge� archite�onici risiede nel fa�o che non è stato possibile – viene da dire per fortuna – imporre codici di comportamento rigidi e, di fa�o, estendere il proge�o alla pianificazione di un modello di abitante. L’appropriazione degli spazi colle�vi, l’individualizzazione degli spazi personali e la creazione spontanea di associazioni culturali, è la manifestazione concreta del bisogno di radicarsi che ogni individuo ha e sancisce l’importanza di iden�tà e orientamento, cara�eris�che psicologiche e cogni�ve necessarie per la sopravvivenza di una comunità. L’esistenza di un tessuto comunitario e iden�tario forte è stata forse la salvezza di ques� luoghi, i quali, a differenza di altri casi parimen� problema�ci, sono sta� prote� e lentamente rigenera� dalla volontà di chi vi abita. Nei saggi illustra� che seguono verrà mostrata come proprio la caparbietà dei residen� sia stata protagonista nel lento processo di riqualificazione che sta portando ques� complessi abita�vi ad una nuova vivificazione. Il primo grande obie�vo raggiunto da ques� interven� è stato quello di avere a�rato l’a�enzione di en� nazionali e internazionali che, al fine di recuperare un pezzo di ci�à, si sono impegna� – e si impegnano tu�ora – nel tenta�vo di liberare il quar�ere da quell’immagine stereo�pata che li ha contraddis�n� fin dalla loro creazione. L’operazione di riqualificazione di ques� complessi viene quindi realizzata a�raverso un lavoro di rigenerazione sociale, basato su interven� comunitari e culturali, i quali mirano alla creazione di un nuovo e sano contesto abita�vo. Il giardino sociale di Gilles Clément, così come gli interven� del colle�vo Stalker, hanno pertanto lo scopo, agendo sul paesaggio, di trovare nuovi s�moli e opportunità al fine di creare – o potenziare – un rinnovato legame iden�tario tra luogo e abitante. Questo �po di intervento perme�e, più che una ristru�urazione fisica degli edifici, la creazione di una nuova e rinnovata immagine degli stessi. Non ne cambia la forma ma la rappresentazione.
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Corviale
Corviale Il fermento culturale prodo�o dal movimento megastru�urale, che dall’Inghilterra si diffuse in tu�a Europa a par�re dagli anni ’50 e che spesso si è esaurito in proge� provocatori e fantasiosi, in Italia trovò una visione meno evasiva, pur se non priva di contraddizioni, che faceva dell’a�enzione al recupero della complessità urbana il centro delle nuove proposte proge�uali, anche in virtù di un quadro poli�co che si avviava a ges�re la riorganizzazione urbanis�ca e l’espansione metropolitana,1 legandosi a doppio filo al tema della “casa” e di una nuova, a�va, fase dell’edilizia residenziale pubblica.2 È proprio in questo contesto culturale che si inserisce l’opera dell’architetto Mario Fiorentino il quale disegna quest’energico segno, elementare e fuori misura rispetto al tessuto urbano circostante, rintracciando i riferimenti da una parte nella stessa città di Roma in cui, osserva, “la scala della città barocca e ottocentesca dove dal S. Michele alla manica lunga del Quirinale, e più recentemente al fianco di Termini, avevano [gli architetti del rinascimento] riferimenti ad una struttura urbana ridotta dimensionalmente ma ricchissima di immagini fuori scala”; dall’altra ad altri esempi d’oltralpe “primo fra tutti il Karl-Marx-Hof a Vienna, gli studi di Le Corbusier per Algeri, fino ad alcune realizzazioni di Bruno Taut”3. Questi progetti infatti, già nella prima metà del ‘900, avevano sperimentato l’utopica integrazione tra residenza e servizi, di ispirazione fourieriana.
Ed è per questo tentativo di “integrazione” – tra residenza e servizi – che è opportuno precisare che “richiamarsi per Corviale all’unità d’abitazione di Le Corbusier viene spontaneo più per la grandezza e il volume della costruzione, che per l’ideologia che esprime, in quanto Corviale non è soltanto una macchina per abitare, ma per abitare in un certo modo, non un incasellamento razionalizzato all’estremo come l’unità di Marsiglia, che non era destinata peraltro neanche allo stesso ceto sociale, e non mirava certo all’aggregazione tra gli abitanti, laddove invece il nostro sistema di collegamenti interni costituisce una forte spinta nel campo della socialità”4. Nell’idea dell’architetto questa “Lama estesa per un chilometro”, come l’ha definita Bruno Zevi5, doveva fungere da salvaguardia del territorio circostante contro il consumo caotico e indiscriminato di suolo, che stava divorando la periferia e la campagna romana. Ed è proprio nel rapporto con quest’ultima che la massa leggendaria dell’edificio si carica di significato. Fiorentino infatti considera il rapporto tra l’edificio e il sito alla maniera greca, come un tempio laico affacciato sul panorama, opponendosi in modo volutamente simbolico e dirompente all’edificazione, legale o abusiva, che minacciava la campagna romana. L’immagine figurativa che ne deriva, d’altra parte, richiama direttamente alla memoria le raffigurazioni sette-ottocentesche del territorio capitolino, solcato da acquedotti e punteg-
1 Apologia e critica dell’idea megastrutturale, in immaginazio-
3 Relazione di progetto allegata al Piano di Zona n° 61-CORVIALE, Mario Fiorentino, 1972.
ne megastrutturale..., Fulvio Irace, 1979
2 Nel 1962 venne approvata dal parlamento italiano la legge
167 con l’obiettivo di reperire terreni accessibili all’edilizia popolare e, di maggiore importanza, vennero introdotti i PEEP (Piani per l’edilizia economica e popolare).
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4 Romano De Simoni, membro del team di progettazione del corviale.
5 La lama nel territorio, in “l’Espresso”, Bruno Zevi, 1983.
Fotografia del Corviale immerso nell’agro romano.
Fotografia aerea del quadrante Corviale di Roma, Google earth.
In alto: Fotografia del Corviale di Roma. In basso: Adolfo Tommasi, Turis� nella campagna romana (Visita all’acquedo�o), olio su tela, 1877.
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Immagine frontale del Corviale immerso nell’agro romano.
giato da ruderi. Soprannominato anche “serpentone” o “palazzone” per via della sua lunghezza, il Corviale di Roma è stato realizzato tra il 1975 e il 1982 da un gruppo composto da Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Giulio Sterbini, Romano De Simoni e Michele Valori, coordinati da Mario Fiorentino. Il Corviale, costruito dallo IACP, rappresenta uno delle ultime megastrutture realizzate in Italia e, sia per la localizzazione – alla periferia di Roma – che per le dimensioni, diviene fin da subito oggetto di un acceso dibattito con accaniti detrattori e insospettabili difensori. Il “serpentone”, concepito dallo stesso architetto come un pezzo di “città lineare”, era una struttura ideata per contenere 1202 appartamenti con annessi servizi e per essere “un unico complesso edilizio che si sviluppa con continuità per la lunghezza di circa un chilometro e che, pur potendosi considerare dal punto di vista meramente fisico un solo gigantesco edificio, in realtà contiene ed esprime anche nella sua archi139
tettura la complessità e la ricchezza di relazioni propria della città. (…). Non è solo dunque una casa “più lunga” di una casa tradizionale, è un sistema di un chilometro, profondo 200 metri, integrato fra servizi e residenze, con percorsi veicolari e pedonali distinti, progettato con una voluta tendenziosità”3. Il progetto iniziale era teso quindi alla costruzione di un complesso autonomo: l’area si articolava attorno a tre corpi – una “stecca” primaria, un corpo più basso parallelo al precedente ed un terzo corpo che ruota di 45° e connette Corviale alla zona di Casetta Mattei, ultima propaggine urbana – tutti a funzione principale residenziale e che contenevano al loro interno i servizi di pertinenza delle abitazioni. Il corpo principale definisce, con i suoi 960m di lunghezza, l’ingombro longitudinale dell’area e si sviluppa verticalmente in 11 piani profondi 23,6m (36 nei piani inferiori costituenti lo “zoccolo” dell’edificio) per un’altezza totale di 37m.
Fotoinserimento del Corviale in via del Corso a Roma.
Fotografia del Corviale immerso nell’agro romano.
La direzione longitudinale principale è spezzata trasversalmente da cinque assi secondari su cui si attestano gli accessi, anticipati da piccole piazze di ingresso e che suddividono il corpo continuo in altrettante unità di gestione. Sugli stessi cinque assi si sviluppano i collegamenti con l’edificio parallelo, cui corrispondono strutture destinate a servizi. I due piani inferiori del primo corpo, delimitati da piani inclinati, ospitano cantine, garage e spazi di distribuzione e costituiscono il basamento di accesso dell’intero edificio. Superiormente si attestano gli 8 piani residenziali, interrotti nel mezzo da un “piano libero”, destinato originariamente a servizi di tipo commerciale, che separa le due diverse tipologie residenziali: nei quattro piani superiori si sviluppano unità abitative a ballatoio, cui si accede dai cinque corpi scala principali in corrispondenza degli accessi, mentre i quattro piani inferiori al piano commerciale sono connessi da corpi scala secondari, ognuno dei quali serve quattro unità abitative che proseguono fino ai
piani superiori. I ballatoi sono illuminati internamente da una chiostrina centrale profonda 4,5m, interrotta esclusivamente dai corpi scala. Il secondo corpo segue la direzione della costruzione principale, ponendosi sul lato Ovest parallelamente ad essa, ed è costituito da sei edifici alti circa 11m e profondi 9,5m. Gli appartamenti a ballatoio sono interrotti da strutture a servizi posti in continuità con i collegamenti orizzontali tra i due edifici, formati da corridoi sopraelevati che lasciano libero il passaggio sottostante per la strada carrabile che separa le due stecche. Il “corpo a 45°” si trova a Est e collega l’area aperta centrale della zona di Corviale con la città esistente, attraversando lo spazio dedicato agli impianti sportivi. Anch’esso è ad uso prevalentemente residenziale, con due alloggi serviti per corpo scala, e presenta al piano terra un percorso pedonale coperto interrotto in tre punti dal passaggio dell’anello stradale e da una strada che serve i vicini edifici delle cooperative.
Immagine di uno degli Ingressi monumentali del corviale con la piazze�a an�stante.
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Il “palazzone” di Fiorentino, che conta ad oggi circa 8000 inquilini, di cui solo un quinto legali, è diventato sinonimo di degrado, abbandono, disagio, vandalismo, illegalità e criminalità. “La malavita garantisce di più dello stato, è questa la triste verità – affermava un settantenne con le lacrime agli occhi – il quarto piano non è che la foglia di fico perché qui l’80% delle case è gestito abusivamente dall’antistato. Chi cerca di far rispettare le regole viene preso di mira, isolato, minacciato fino ad arrivare a veri e propri atti intimidatori.” Corviale può essere considerato una sorta di simbolo del disagio sociale delle periferie metropolitane e del rischio di fallimentarietà di politiche socio-economiche calate dall’alto, che intervengono con eccessiva arbitrarietà. In verità, la progettualità originaria di Corviale – innovativa, sperimentale, avanguardistica – è stata tradita dal non completamento di una serie di opere che, forse, avrebbero consentito il raggiungimento di un risultato finale vicino a quello sperato inizialmente. Le immagini di “prigione piranesiana” e “ghetto”, termini frequentemente accostati al Corviale, derivano unicamente dalla struttura dell’edificio, troppo rigida e concepita escludendo la soggettività e le scelte individuali, in nome di un’astratta utopia sociale e figurativa. Infatti analizzando l’edificio tramite più tecnici parametri europei quali la qualità dell’aria, i parcheggi, il verde, il livello d’inquinamento acustico e i servizi, quest’ultimo risulta avere una vivibilità maggiore di diversi quartieri della periferia romana e di altre città, avendo una dotazione di verde, spazi per i bambini e per lo sport sopra la media. Inoltre anche la composizione sociale non è molto diversa da quella delle periferie urbane di tutto il mondo. 6 La monografia di Mario Fiorentino. Il sogno realizzato, in “Casabella” n. 257, Francesco Tentori.
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Questi fattori dimostrano come le problematiche del Corviale vadano ben oltre il “fallimento di un’utopia”, e siano infatti rintracciabili solo ripercorrendo la sua storia e, con essa, la sua rappresentazione. Nel 1982, anno di completamento del complesso romano, l’architettura italiana, e con lei quella di tutto il mondo, aveva già cominciato a mettere in discussione il modello abitativo dell’ “Unitè d’Habitation” di matrice lecorbusiana e con esso tutti quei progetti, moderni e tardomoderni, che da questa prendevano ispirazione. Come scrisse Francesco Tentori: “Corviale ha cominciato la sua vita da rudere: con i grandi spazi collettivi abbandonati e deserti”6. L’immagine di luogo “invivibile” che ha contraddistinto il “serpentone” ancor prima che questo prendesse vita, è dimostrata – ed accentuata – da una serie di pellicole di ispirazione pasoliniana tra cui spicca l’opera di Pier Francesco Pingitore intitolata: “Sfrattato cerca casa equo canone”. Questa pellicola infatti, suppur uscita nel 1983, già dipingeva il Corviale come il palazzo degli indesiderati, degli emarginati, degli ultimi della società. Nonostante le premesse, o forse proprio in virtù di queste, fin dal dicembre 1982 – ad un anno dalla sua realizzazione – il complesso divenne oggetto di una serie di occupazioni illegali che portarono a Corviale più di 500 nuove famiglie, mosse da un’impellente necessità di abitazione. Questo causò quello che molti esperti definirono “l’inizio del declino”. Infatti il primo luogo in cui molte delle famiglie si insediarono fu il quarto piano o, per usare le parole dei condomini, “il maledetto quarto piano”. Quest’ultimo era stato progettato per ospitare tutti quei servizi che avrebbero dovuto fare del palazzo una città.
Fotografia del cavedio interno del Corviale.
Frame del film di fantasceinza: “I predatori dell’anno omega”, di David Worth, 1984.
“La forte concentrazione che si materializza nell’idea del grande edificio, nel sistema distributivo lineare, nel rapporto netto e grandioso con il paesaggio, nell’alta densità insediativa è frutto di una scelta a priori”. Mario Fioren�no, La casa. Progetti 1946-1981, Kappa, Roma 1985.
“Il progetto nacque da un’idea ispirata alla storia ed alle immagini di Roma e del suo territorio. Questo presentarsi dell’edificio, così perentorio, e solo nel paesaggio della campagna, su un costone emergente e questo suo proporsi nel paesaggio anche da grandi distanze alto sulla valle del Tevere e sulle colline, richiama alla memoria gli acquedotti e i grandi ruderi del paesaggio romano, un tempo soli e grandiosi, così come ci appaiono nei più ampi spazi delle incisioni della città e della campagna romana”.
Mario Fioren�no, La casa. Progetti 1946-1981, Kappa, Roma 1985.
“Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico, voleva che la sua mastodontica macchina abitativa fosse una specie di comunità che si sarebbe autoregolata e che avrebbe fatto prevalere sugli interessi privati quelli collettivi; anche se Fiorentino arrivò fuori tempo massimo, quando ormai in architettura si era affermato il post-moderno, che faceva perno sull’individuo e i suoi bisogni”. Franco Purini
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Fotografia in bianco e nero del Corviale di Roma.
“Da 35 anni in quel piano avviene di tutto. Le condizioni igienico-sanitarie sono da terzo mondo e il business della mala si concentra proprio lì: stranieri, soprattutto, ma anche latitanti, vengono ospitati in quell'alveare a costi che vanno dai 70 ai 120 euro al mese per un bagno comune, una stanzetta di 15 metri quadri e un cucinino. E quasi tutti finiscono anche per guadagnarsi da vivere entrando nelle schiere della manovalanza per lo spaccio”7. Nonostante le evidenti condizioni di degrado ed il continuo manifestarsi di situazioni di disagio e problemi, molti degli inquilini insistono sull’eccessiva demonizzazione degli abitanti. In merito Antonello d’Elia, che per anni si è occupato di Corviale e dei suoi abitanti, affermava che “il degrado è interio-
re. Sia il primo impatto, che la fama di luogo pericoloso sono convinzioni piuttosto gratuite oggi. Il problema è forse quello di una qualità di vita spenta” concludendo che la capacità di resistere, di “farcela” comunque, rendeva l’edificio “Tempio della resilienza”.8 L’insieme di questi fattori, molti dei quali gravano ancora sull’edificio, hanno portato nel 2001 allo scatenarsi di un dibattito circa la possibilità di demolire il complesso. La proposta, avanzata dall’amministrazione regionale, ha scatenato reazioni contrastanti tra le diverse personalità del mondo architettonico. La proposta, proprio in virtù di questo dibattito, è stata abbandonata e, a questa, sono subentrate iniziative sociali, galvanizzate dal fermento culturale generatosi attorno al Corviale.
7 Corviale tra abusi e droga, il chilometro di cemento dove
8 Intervista, in Corviale domani: Dossier di ricerca per un
detta legge “er palletta”, Repubblica, 2017.
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distretto culturale, Isicult; Antonello D’Elia,2010.
Fotografie dell’interno del “Serpentone”, a�e a mostrare problemi e potenzialità del Complesso romano.
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“La diga insicura,le cui paratie passanti dei corpi scala lasciano intravedere quella marea edilizia incontrollata che di lì a poco fluirà inarrestabile, e a nulla valgono la stessa volontà di ordinare finalmente il caos della periferia, certi rigori formali, alcuni eccezionali rigori linguistici, poiché questi non possono che restare muti dinanzi alla propria disfatta”. Manfredo Tafuri, Diga insicura. Sub temine fagi. In “Domus”, 1981, n.607.
«Corviale è un insediamento che non solo mi piacerebbe aver immaginato, ma essere stato capace di realizzare» «questo presentarsi dell’edificio così perentorio e solo nel paesaggio della periferia disaggregata ai margini della campagna, su un costone emergente e nel suo proporsi nel paesaggio, anche da grandi distanze, alto sulla valle del Tevere e sulle colline» Vi�orio Grego�, 1985
“Corviale è l’opera più importante realizzata a Roma in tutti gli anni Settanta e una delle architetture più significative della produzione mondiale di quegli anni”. “L’unico suo problema è la necessità di essere portato a termine al più presto, seguendo le indicazioni di Fiorentino. È necessario liberare il quarto piano da coloro che lo occupano e installare lì al più presto i servizi che il piano originario prevedeva: non solo abitazioni, dunque, ma case dello studente, residenze per anziani, uffici pubblici, centri sociali”. Franco Purini
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“Il Corviale è un energico segno sul territorio, un solido “fermo” all’espansione caotica, disomogenea e squallida» della città”. Bruno Zevi, L’espresso, 1983
“una galera lunga 1 km, inquilini assaliti in casa, drogati che si appostano negli interminabili corridoi per aggredire i malcapitati. A Gregotti piace come progetto? Che ci vada ad abitare lui!”. A. Cederna, in “L’espresso”, 4 luglio 1993
“(…) vivere dentro le sue soffocate corti dalla “piranesiana” oscurità non è facile, né è possibile ricavare dalle fascinose ma ossessive prospettive dei ballatoi momenti di identificazione e di privatezza”. Franco
Purini.2001
“Il problema è che i due progetti [Zen e Corviale] sono stati affrontati con un approccio molto ambizioso ma sottovalutando l’incapacità della società italiana di realizzare interamente un disegno così complesso, e di questa sottovalutazione i progettisti sono indubbiamente responsabili.” ”Se non avesse sottovalutato la situazione, Mario Fiorentino non avrebbe progettato un palazzo lungo un chilometro, nel quale c’era tutto quello che serve a una città, una “città di fondazione”, creata cioè per intero dal nulla, concentrata in un solo edificio. Una concezione utopistica, ideologica e proprio per questo sbagliata, in quanto la società non era in grado di accogliere un simile prodotto; e forse era anche sbagliato che lo accogliesse”. Giuseppe Campos Venu�, Città senza cultura. Intervista sull’urbanis�ca, a cura di F. Oliva, Laterza, 2010.
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Tra le diverse iniziative sviluppatesi nei primi anni 2000 merita particolare attenzione quella dell’”Osservatorio Nomade”9, curata dalla Fondazione Adriano Olivetti e promossa dal Comune di Roma. L’iniziativa “Immaginare Corviale”, aveva come scopo il superamento della marginalità sociale del palazzo-quartiere e la sua riqualificazione urbana, il tutto con un obbiettivo preciso: non distruggere, ma correggere quel che già c’è. Per un anno, a cavallo tra il 2004 e il 2005, artisti, architetti, videomakers e musicisti hanno “abitato” il serpentone portandone alla luce, insieme ai molti abitanti che hanno collaborato con loro, contraddizioni e potenzialità. Si legge sulla pagina ufficiale dell’Osservatorio Nomade: “È una realtà che propone una pratica collaborativa e creativa per la ricerca e l’azione sul territorio fondata sulla cooperazione, la multidisciplinarietà, il rispetto della diversità, la convivenza e il gioco.” Il progetto si basa sulla co-azione fra l’osservatore e il territorio, fra la sua realtà vivente, le memorie e gli immaginari che lo animano, e si concentra sulla tessitura di relazioni che promuovano creativamente consapevolezza, collaborazione e auto-organizzazione. Obiettivo del progetto è l’individuazione di una nuova immagine condivisa per l’edificio e di alcune domande della cittadinanza relative allo spazio pubblico che possano fornire indicazioni progettuali per l’area interessata da un più ampio programma di riqualificazione. La domanda più ricorrente che gli abitanti hanno posto agli artisti presenti era quella di cambiare l’immagine stereotipata e negativa
di questa costruzione. I risultati del progetto sono stati significativi e hanno dato modo agli abitanti di percepire in modo diverso il quartiere nel quale vivono e a coloro che vi entravano per la prima volta di superare i preconcetti legati all’edificio. Le azioni svolte dal progetto sono state molteplici ed hanno prodotto risultati diversi, tra queste vi è la realizzazione di un plastico del “Serpentone” che, successivamente, ha portato alla “spontanea” creazione del “Corviale Urban LAB”, una “Piazza delle Arti” permanente che anima la vita del quartiere, ed inoltre, un’altra azione straordinaria, almeno da un punto di vista mediatico, è stata la realizzazione di una stazione televisiva locale chiamata “Corviale Network”10, andata in onda sul canale satellitare Roma Uno TV, che ha permesso agli abitanti di comunicare all’esterno una nuova immagine di sé. L’Osservatorio Nomade ha infatti individuato proprio nella televisione lo strumento migliore per comunicare un Corviale lontano da quello stereotipo negativo costruito proprio dai media. Questa forma autogestita di comunicazione è rimbalzata sui media nazionali e ha fatto sì che in pochi mesi si parlasse di Corviale come luogo di una vivace sperimentazione, catalizzando l’attenzione pubblica e modificando l’immagine della sua periferia. Il primo importante risultato di questo cambio di rappresentazione si è concretizzato nel 2009 quando l’edificio è divenuto oggetto di un primo intervento di riqualificazione che, oltre al completamento della parte per i servizi, ha visto anche l’aggiunta
9 L’Osservatorio Nomade è un gruppo di ricerca crea�vo e mul�disciplinare nato su inizia�va del Laboratorio Stalker, quest’ul�mo è un sogge�o colle�vo che compie ricerche e azioni sul territorio, con par�colare a�enzione alle aree di margine e ai vuo� urbani, spazi abbandona� o in via di trasformazione. Tali indagini si sviluppano su diversi piani, a�orno alla pra�cabilità, alla rappresentazione e al proge�o di ques� spazi. [www.osservatorionomade.net]
10 Corviale Network è una "street tv". Dicesi street tv
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quell’emi�ente che viene fa�a in strada, e che magari trasme�e da un condominio, per un condominio. [www.fondazioneadrianolive�.it]
Frame della “street tv” locale chiamata “Corviale Network”..
Immagine realizzata nell’ambito del proge�o Immaginare Corviale, in occasione del Forum Internazionale sulle mobilità no�urne a Roma. 2004.
Fotografie di due delle realtà più importan� presen� a corviale: A sinistra: “Centro dei miracoli”; A destra: “Mitreo - Arte contemporanea”.
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Fotografia del corviale sca�ata dal nuovo campo da calcio realizzato grazie al “Centro dei miracoli”.
di strutture destinate ad attività commerciali e uffici comunali. Questo intervento, realizzato dall’Amministrazione Comunale della città di Roma, dal XV Municipio Arvalia-Portuense, dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, ha avuto origine dall’accettazione, da parte di questi enti, di alcune delle proposte venute dagli abitanti e dai promotori di iniziative culturali e sportive, i quali hanno proseguito nell’ottica di un complessivo “ripensamento” sull’esperienza dell’insediamento a Corviale. L’obiettivo di fondo è stato quello di creare le condizioni per portare i cittadini di Roma a frequentare Corviale, e a fargli trovare solo lì alcuni servizi importanti. È stata così completata la parte centrale – chiamata anche “spina servizi” – che ad oggi accoglie il consiglio del XV municipio e gli uffici tecnici, il Comando del XV Gruppo dei Vigili Urbani, uno sportello anagrafico, un anfiteatro all’aperto di circa 300 posti di proprietà 149
ATER, un centro attrezzato per prove musicali situato nel plesso di Via delle Vigne, una scuola d’arte, un centro per il disagio mentale della Asl Roma D, un mercato coperto, un incubatore di impresa, un centro anziani ed un centro commerciale. L’incremento della presenza delle istituzioni, ovvero di funzioni come i vigili urbani o l’incubatore di impresa, hanno inoltre contribuito ad accrescere la percezione di sicurezza fra quanti abitano o si recano a Corviale. È stato inaugurato inoltre un Centro polivalente contenente una biblioteca, una scuola materna, due elementari, una farmacia comunale, un complesso sportivo e tante altre funzioni. L’insieme di questi servizi era teso a rendere il territorio di Corviale parte integrante della città. Infine per il “maledetto quarto piano” e le sale condominiali abusivamente occupate è stata prevista una profonda ristrutturazione: alcune di queste, infatti, andranno alla Facol-
Fotografia dell’esterno del Corviale arredato per even� musicali in occasione del proge�o “Immaginare Corviale”.
tà di Architettura della terza Università di Roma, che si troverebbe così inserita in uno degli spazi più discussi fra quelli realizzati dall’architettura italiana della seconda metà del Novecento. Corviale, ospitando le lezioni di urbanistica e progettazione, diventerebbe così una “città dello studio” frequentata da tanti giovani romani e non. Luoghi come il “Mitreo – Arte Contemporanea” e il “Centro dei Miracoli”, diventati oggi simboli del riscatto del quartiere, sono solo alcuni dei luoghi per la comunità sostenuti dall’iniziativa. A seguito di questo intervento di riqualificazione è stato avviato l’iter di una proposta di deliberazione consiliare nell’ambito del Comune di Roma, dal significativo titolo “Linee di indirizzo al Sindaco e alla Giunta per l’individuazione e promozione dell’ambito territoriale di Corviale come Distretto Metropolitano dell’Arte, della Cultura e dello
Sport”, proposta depositata il 25 maggio 2009. Il gruppo di ricerca incaricato di valutare se l’ambito territoriale di Corviale sia o meno adatto e predisposto a diventare un nuovo distretto culturale per la capitale è ancora al lavoro, ma l’attenzione mediatica che questa proposta ha generato, ha cominciato a portare i suoi benefici già nel novembre del 2012, grazie specialmente alla coordinazione dello spazio “Mitreo – Arte Contemporanea”, con l’avvio di un partenariato di associazioni locale chiamato “Corviale Domani”, il cui progetto, riconosciuto di interesse Nazionale dal Ministero dei Beni Culturali, ha dato il via ad una ricerca e ad un confronto che ha coinvolto l’intera comunità fino alla realizzazione delle linee guida per un Concorso Internazionale di Architettura, indetto dalla Regione Lazio nel 2015, per la Rigenerazione di Corviale e del suo territorio.
Volan�no della galleria del “Mitreo - arte contemporanea”, membro del Corviale urban lab.
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Il Concorso internazionale di progettazione “Rigenerare Corviale. Look Beyond the present” ha visto la partecipazioni di 45 studi di architettura da tutto il mondo e di altrettante proposte progettuali, e tra queste, è emerso vincitore, con un atto ufficiale del 9 dicembre 2015, il progetto “Il Respiro di Corviale” dello studio romano “Laura Peretti Architects”, coordinato da Laura Peretti. Il progetto, stando alle parole dell’architetto, “intende ricostituire, alle diverse scale dimensionali, un sistema chiaro di relazioni degli spazi pubblici e di circolazione – dal territorio al pianerottolo – recuperando l’originaria intenzione di costituire un “pezzo di città”, soprattutto alla scala intermedia della città”. Per fare questo il nuovo design si concentra sulla sistemazione dell’attacco a terra, rendendolo progressivo e continuo – come l’orografia originale del terreno circonstante –, senza strappi, attraverso la creazione di percorsi fluidi e articolati. Per “attacco a terra” non si intende solo la proiezione dell’edificio al suolo, bensì una fascia che varia dai 70 ai 200 metri dove vengono individuati i luoghi principali di attraversamento, oltre che la permeabilità puntuale lungo il chilometro. Questo ripensamento delle vie d’accesso al serpentone ha inoltre lo scopo di creare una nuova sequenza di avvicinamento, che sovverta quindi l’impatto diretto con “il mostro”, in grado di filtrare, ordinare, orientare e riaprire verso altre prospettive. Il progetto prevede quindi di modificare il tracciato della strada da rettilinea a curvilinea, creando così spazi verdi più stretti e più ampi, e producendo un sistema di differenze spaziali nelle quali sarà più facile per gli inquilini riconoscersi. Inoltre la nuova via permetterà di differenziare gli accessi, che da 5 diventeranno 27, così che ogni abitante possa arrivare a casa in maniera diversa, “costituendo magari un nucleo coi vicini, una comunità”; queste le parole dell’architetto. 151
Per lo stesso motivo è prevista anche la creazione di una piazza che degraderà da +61,50 a +51,50, su cui si affacceranno negozi e attività di ristoro. Questo nuovo spazio ha lo scopo di ricucire un luogo chiamato “la frattura” – un punto con un dislivello di 9 metri che si attraversa con un ponte – situato in uno degli accessi centrali del Corviale, e di trasformarlo in un vero e proprio spazio di connessione trasversale che metta in relazione l’accesso all’edifico con l’agro romano. Tutte queste operazioni verranno affiancate da un progetto definito di “luce sociale” che permetterà, ad inquilini e visitatori, di cogliere da lontano la dimensione complessiva dell’edificio, alla scala intermedia la sequenza di avvicinamento scandita dalla luce e, all’interno, permetterà invece la percezione e l’orientamento. L’intero processo è stato definito un esempio di “democrazia urbana” – alludendo al coinvolgimento e alla partecipazione dei residenti – tuttavia, l’unico momento di ascolto della cittadinanza, è avvenuto nella fase preliminare del progetto e solo grazie all’impegno di associazioni come “Corviale Domani” e “Campo dei Miracoli”. Il progetto dello studio “Laura Peretti Architects” è quindi “solo” relativo agli spazi pubblici, per quanto riguarda la sistemazione del piano quarto, che è oggetto di un piano di recupero già dal 2009, la sistemazione è affidata allo studio romano “T-Studio” coordinato da Guendalina Salimei, che, oltre a regolarizzare la situazione di abusivismo esistente, propone la realizzazione del “chilometro verde”, ovvero una rigenerazione dell’intero piano in cui le residenze sperimentali sono funzionalmente e architettonicamente integrate con giardini pensili e spazi di aggregazione per gli abitanti. Questo intervento, così come quello dell’architetto Laura Peretti, ad oggi attendono ancora di essere attuati.
Render del “chilometro verde”, proge�o del T-Studio.
“Gli inquilini di Corviale amano il mostro. Anche se non lo capiscono ne sono affascinati. Hanno quasi un senso di fierezza ad abitare in un palazzo così conosciuto, discusso e fatto oggetto di attenzione continua da parte dei media”
Nicole�a Campanella, sociologa sudiosa delle periferie di Roma.
“Un periodo iniziale difficile generazioni decimate dall’eroina, come peraltro in tutta Italia, ma anche costellato dalle tante battaglie di cittadini che non si sono arresi, ed in virtù degli anticorpi sviluppati hanno chiesto con forza, ed in parte ottenuto, pari diritti e dignità, avviando un lento ma inesorabile, ed oggi potremmo dire inarrestabile e straordinario cambiamento. Un grido, uno strappo che in tanti abbiamo avvertito e a cui abbiamo risposto mettendoci il cuore, coltivando il sogno, con passione ed instancabile quotidiano impegno, di creare insieme una migliore e sostenibile qualità di vita per questo territorio così ricco di potenzialità e talenti”.
Monica Melani, ar�sta e promotrice culturale del Mitreo Iside.
“Sì, ma non solo al bel paesaggio, anche al brutto paesaggio urbano. Ogni luogo ha una sua qualità e noi architetti siamo chiamati a restituirgliela. Questo l’ho imparato dai miei grandi maestri”.
Laura Pere�, archite�o vincitore del concorso “Rigenerare Corviale, look beyond the present”.
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Planietria del proge�o “Il resipiro di Corviale”, realizzato dallo studio “Laura Pere� Architects”. 2015.
Viste renderizzate del proge�o “Il resipiro di Corviale”, realizzato dallo studio “Laura Pere� Architects”. 2015.
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FotograďŹ a aerea del quadrante Corviale di Roma, -Google earth- 2018.
FotograďŹ e degli esterni del Corviale. 2018.
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Immagine frontale della “Diga insicura” di Roma immersa nell’agro romano.
Immagini dei 2 differen� approcci u�lizza� nella rigenerazione del Corviale. A sinistra: Azione immateriale. A destra: Azione materiale.
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Il caso studio presenta, come visto, cara�eris�che uniche, non solo per la peculiarità del proge�o di Mario Fioren�no, ma anche per l’approccio “rigenera�vo” che è stato ado�ato, il cui iter non programmato è cominciato agli albori del nuovo millennio e, più precisamente, proprio quando la “lama estesa per un chilometro” è stata ad un passo dalla demolizione. Proprio in virtù di de�a proposta infa�, il Corviale è divenuto per mol� un simbolo, quasi mi�zzato, di un periodo e di un modo di fare archite�ura, che non torneranno mai più; quasi fosse l’ul�mo gigante rimasto in piedi nella lo�a al modernismo. Il Diba�to che ne è scaturito ha a�rato l’a�enzione di diverse associazioni che, in cerca di fama o con più nobili ideali – la ques�one non ha importanza –, hanno deciso di provare a cambiare Corviale, non fisicamente ma media�camente. A ques� interven�, lungi dall’essere compiu� o risolu�vi, va dato il merito di essere riusci� ad a�rare l’a�enzione degli en� pubblici – detentori del potere decisionale – i quali, proprio grazie alle associazioni, hanno cominciato a valutare diversamente tu�a l’area su cui si trova il Corviale, promuoven-
do a�vità e manifestazioni e finanziando nuove stru�ure sia pubbliche che private, con lo scopo di riappropriarsi di uno spazio della ci�à e di res�tuirlo così ai ci�adini. Queste azioni trovano il loro coronamento nel concorso inde�o dalla regione Lazio “Rigenerare Corviale. Look Beyond the present”, in cui viene indire�amente ufficializzato il cambio di direzione. Da demolire a rigenerare. Sebbene i dubbi sul concorso rimangano, in par�colare per l’approccio troppo autoritario u�lizzato dallo studio vincitore, in cui si assiste ad un predominio dell’”archite�onico” sul “culturale”, e dove la tanto necessaria partecipazione a�va dei residen� – assolutamente fondamentale nelle fasi preceden� – viene rido�a ad una consultazione in fase preliminare; le premesse per una riqualificazione sociale e urbana ci sono tu�e, bas� pensare infa� che la movimentazione culturale avviata ad inizio secolo non sembra intenzionata ad arrestarsi, e che, forse, nonostante rimanga “un chilometro di problemi” e al di là dei proge� sogna� da archite�, vecchi e nuovi, il rudere sta già, lentamente, prendendo vita grazie alla crea�vità.
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Bibliografia Campos Venuti, G., Oliva, F. (a cura di) (2010), Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica, Laterza, Bari Fioren�no, M. (1972), Relazione di progetto allegata al Piano di Zona n° 61-CORVIALE Fioren�no, M. (1985), La casa. Progetti 1946-1981, Kappa, Roma Gennari Santori, F., Pietromarchi, B. (a cura di) (2006), Osservatorio Nomade: Immaginare Corviale.Pratiche ed estetiche per la città contemporanea, Bruno Mondadori, Milano Maglio, A. (2017), Utopia della realtà e immagine dell’abbandono: il Corviale nel cinema, Università degli Studi di Napoli Federico II Montuori, P. (2016), Il quartiere Corviale a Roma. La mostruosa e affascinante immagine di una “città della città” nella cinematografia e nei nuovi media, Università degli Studi dell’Aquila Nicolin, P. (1994), Notizie sullo stato dell'architettura in Italia, Bolla� Boringhieri, Torino Tentori, F. (1961) La monografia di Mario Fiorentino. Il sogno realizzato in “Casabella” 257 Zevi, B. (1983), La lama nel territorio in “l’Espresso” Sitografia www.archidiap.com www.corviale.com www.corvialedomani.it www.elledecor.com www.fondazioneadrianolivetti.it www.laurapere�architects.com www.osservatorionomade.net www.roma.repubblica.it 157
ZEN 2
ZEN La formazione dell’area se�entrionale di Palermo si cara�erizza per alcuni interven� emblema�ci di nuova edificazione e per un susseguirsi di retoriche molto for�, che, al pari del fa�o costruito, hanno informato e deformato la le�ura di questa parte di ci�à. Originariamente l’area era conosciuta come des�nazione di una stagione di “villeggiatura”, ovvero del posizionamento a�orno alle aree agricole di numerose ville baronali che, durante il XVIII secolo, hanno operato una profonda “ristru�urazione del territorio suburbano”1. Nel 1962 venne approvato il PRG il quale definì tre direzioni di espansione per la ci�à, tra cui, la più importante, era quella se�entrionale, poiché ritenuta più reddi�zia - in considerazione degli interessi specula�vi. Per questo mo�vo al Piano Regolatore Generale subentra, nel 1966, un PEEP (Piano di Edilizia Economica e Popolare), il cui scopo prevedeva la costruzione di un nuovo quar�ere di Edilizia popolare molto lontano dal nucleo urbano al fine di riempire gli spazi inters�ziali – 4 Km, questa era la distanza dalle ul�me propaggini periferiche della ci�à – con interven� priva�, incuran� delle norme del PRG, dei requisi� lega� ai servizi e del rispe�o del tessuto urbano preesistente. Questo primo intervento, denominato ZEN (Zona Espansione Nord), verrà integrato, negli anni ’70, con il più noto ZEN 2. De�o intervento scaturì in seguito ad un violento terremoto che, nel 1968, colpì la Sicilia occidentale provocando il crollo di molte case del centro storico palermitano, peraltro 1 Palermo, Cesare De Seta e Leonardo Di Mauro, 1980 2 Il fatto di stornare i fondi dei finanziamenti pubblici
dall’obiettivo vero e proprio, cui sarebbero destinati, verso altre iniziative collaterali differenti e sovente improprie (in Italia casi analoghi abbiamo osservato di recente con le colombiadi e i mondiali di calcio) non è nuova per Palermo, se
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già gravemente danneggiate dai bombardamen� allea� del 1943 e non ancora compiutamente riqualifica�. Gli sfolla� del centro storico, per lo più appartenen� alle classi sociali più deboli, richiesero al comune nuove case. Fu così che nel 1968 lo IACP (Is�tuto Autonomo Case Popolari) bandì un concorso pubblico per l’edificazione di un ampliamento del quar�ere ZEN, che rientrava in un programma di finanziamen� per il risanamento del centro storico2. Tale ampliamento verrà appunto conosciuto con il nome di ZEN 2. Il complesso fu così realizzato su proge�o di Grego�, Amoroso, Bisogni, Matsui e Purini, vincitori del concorso del ’68. Il nuovo insediamento appariva come la sintesi fortunata di molte ricerche orientate a rivedere la concezione del quar�ere di abitazione popolare messa a punto negli anni ’30 e giunta ad esaurimento.3 Dal punto di vista morfologico le innovazioni principali consistevano nel concepire il quar�ere come una stru�ura chiusa e definita, una sorta di grande archite�ura, o una ci�à di fondazione coloniale formata da una massa edilizia omogenea e compa�a ed estesa in orizzontale entro un perimetro re�angolare. Quest’ul�mo è formato da 18 insulae ordinate su 3 file parallele di 6 insulae ciascuna a formare una griglia ortogonale orientata longitudinalmente secondo l’asse nord-sud. L’insula è l’unità morfologica cos�tu�va di tu�o il quar�ere, e la soluzione più originale: consta di 4 corpi in linea di 3 piani di alloggi, si pensa che alla fine del secolo scorso, con i fondi destinati al risanamento del centro storico – ancora una volta – fu costruito il più grande teatro lirico d’Europa, il Teatro Massimo, Notizie sullo stato dell’architettura in Italia
3 Notizie sullo stato dell’architettura in Italia, Pierluigi Nicolin, 1994
Fotografia di un baglio, un complesso archite�onico provvisto di corte e cor�le.
Fotografia aerea del quar�ere ZEN di Palermo, Google Earth, 2005.
”E’ ormai tecnicamente e socialmente impossibile risanarlo. Lo abbatterei, a condizione che venisse ricostruito com’è. Anzi, come era stato da me progettato”
Vi�orio Grego�, Proge�sta dello ZEN
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Fotografia dello stato di abbandono del quar�ere ZEN di Palermo.
con il piano terreno des�nato a servizi collet�vi e ad ampi por�ca�. L’insula è ispirata a modelli archite�onici del passato e richiama, per la sua forma, l’idea del baglio; naturalmente il debito culturale che i proge�s� hanno nei confron� di Le Corbusier e del movimento moderno è un fa�ore rilevante ed è – insieme ad altri elemen� ineren� alla natura del luogo – riscontrabile sia nelle forme che nei materiali u�lizza�, ma soprattu�o nella concezione dello spazio. Si tra�a quindi di un approccio �picamente razionalista al proge�o urbano, nel quale il proge�sta intende indicare le forme “appropriate” per la vita delle persone.4 L’insula è divenuta l’immagine più nota dello ZEN, benchè nei fa� appartenga solo allo ZEN 2: questa sineddoche ha appia�to e uniformato le differenze interne al quar�ere, che in realtà esistono e sono profondamente
tangibili. Lo ZEN 1 infa� , già negli anni ’90 ma ancor di più negli ul�mi 15 anni, si è integrato nel tessuto periferico palermitano, mentre lo ZEN 2 diventa un luogo in cui, prima ancora della violenza criminale di alcuni abitan�, è lo spazio stesso a mostrarsi feroce, condizionando in nega�vo le pra�che quo�diane.5 Nel concentrare 20.000 persone in un impianto archite�onico e urbanis�co che, stando alle parole di Pierluigi Nicolin, si rifà alle esperienze delle ci�à di fondazione baronale siciliane, e che richiama per compa�ezza e geometria ci�à come Alcamo o Bagheria, i proge�s�, scegliendo un’edilizia bassa ad alta densità, immaginavano un uso dei piani terra arricchito dalla presenza di una vita pulsante, come in certe strade del centro storico, di cui lo ZEN 2 non nascondeva di voler essere un “analogon”.
4 Cities in revolt, Scandurra e Krumholdz, 1999
5 La violenza dello spazio allo Zen di Palermo. Un’analisi critica sull’urbanistica come strumento di giustizia, Lo Bocchiaro G. e Tulumello S., 2014
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Fotoraddrizzamento delle 18 insulae inscri�e in un re�angolo (marcato dalla presenza delle strade).
“Abbiamo preferito costruire -si legge nella relazione di progetto- una griglia di riferimento di misurazione del fatto naturale entro la quale gli elementi emergenti del territorio, collocandosi, si costituissero punto per punto come elementi di orientamento, a partire dall’interno del quartiere (un’analogia con i quattro mandamenti del centro storico palermitano), e si qualificassero in rapporto alla griglia stessa”. Relazione di proge�o di Vi�orio Grego�.
Tra�o da: M. Scolari, Tre progetti di Vittorio Gregotti, in Controspazio, 1971.
“Impraticabilità dell’invenzione, tutta ideologica, di un predefinito raggruppamento intermedio tra la città e la cellula dentro un’unità architettonica e strutturale con il conseguente svuotamento di significato della strada pubblica.” C. Quartarone. Lo Zen a Palermo. La de-costruzione di un nucleo urbano autosufficiente. 2008
“Lo Zen è un contesto socialmente chiuso. […] ti senti inadeguato, perché sei dello Zen, perché vivi in una casa brutta, perché non c’è lavoro, tuo marito è in carcere, i tuoi figli disertano la scuola, siamo tutti mezzi ignoranti, anzi analfabeti. […] ci si sente indifesi, perché hai un mondo esterno che non sai come affrontare, non hai le risorse.” Intervista ad uno dei
residen� dello ZEN 2 di Palermo, 2008.
“Se tu per quarant’anni dici agli abitanti che sono senza risorse, che sono dei poveracci, che non hanno strumenti, che vivono in un quartiere degradato, quelli finiscono per crederci, si adagiano su questa situazione e non reagiscono.” Intervista ad uno dei residen� dello ZEN 2 di Palermo, 2008.
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Nei due decenni in cui lo ZEN 2 viene realizzato, dal 1971 fino alla fine degli anni ’80, la popolazione del quar�ere arriverà quasi a raddoppiare, mentre la popolazione complessiva della ci�à inizia a subire, nel secondo decennio, un calo che diventerà sempre più cospicuo. La popolazione a�ualmente residente allo ZEN, sommando residen� legali e abusivi – presen� specialmente allo ZEN 2 – si aggira intorno alle 20.000 unità. Tra ques� non sembrano esistere discriminan� legate a variabili come etnia o genere, ma altri elemen� tracciano invece un quadro molto diverso: la percentuale dei laurea� sulla popolazione totale allo ZEN è del 1,33% (Palermo ha il 12,04%); anche considerando, oltre ai laurea�, chi possiede un diploma di scuola superiore, lo ZEN rimane a percentuali molto basse (11,48% rispe�o al 38,40% di Palermo). Inoltre, il tasso di occupazione è di appena il 25,50% (contro il 43,79% di Palermo). Ques� da� mostrano la presenza di una sorta di “segregazione culturale”, legata infa� alla sfera educa�va e a quella lavora�va. Un altro elemento di discon�nuità con la ci�à di Palermo è la composizione piramidale dell’età media, cara�erizzata dalla presenza di mol� giovani e pochi anziani, un dato, questo, difforme dalla media ci�adina nel quale è visibile un sostanziale equilibrio generazionale. Ad oggi il quar�ere presenta un gran numero di spazi “vuo�”, ossia luoghi privi di una funzione specifica e incapaci di me�ere in relazione gli abitan�. L’abbandono di ques� spazi, da parte di Stato e residen�, non fa altro che incen�vare comportamen� irrispe�osi nei confron� dei beni pubblici presen� nel territorio.6 È interessante osservare come, se la segregazione dello ZEN 1 era più riconducibile alla sua localizzazione geografica che ad altro 6 Teoria criminologica dei “vetri ro�” sviluppata dai sociologi James Q. Wilson e George L. Kelling nel 1982
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– segregazione socio/spaziale –, quella dello ZEN 2 è invece legata, oltre che a fa�ori spaziali, ad elemen� fisici, morfologici e �pologici. La forma fisica dell’insula, con poche vie di accesso, con i marciapiedi rialza�, con lo spazio dei cor�li interni frammentato dalle scale di accesso alle abitazioni, sembra davvero – e molto più del baglio storico – trasme�ere l’idea di un for�no che si chiude al mondo esterno. L’isolamento dello ZEN 2 passa anche dalla sua piazza centrale, che nel proge�o di Grego� e soci doveva contenere tu� i servizi per la comunità, poi mai realizza�. Inoltre sono quasi del tu�o assen� le a�rezzature e i servizi più basilari, una delle tante incongruenze con il proge�o originale. Ad acuire la segregazione del quar�ere, oltre alla scarsità fisica di collegamen�, vi è la presenza di un anello di circonvallazione veloce costruito in occasione dei Mondiali del ’90 e delle Universiadi, la cui presenza presenza ha chiuso defini�vamente l’insula come un baglio-fortezza. Per comprendere il fallimento dello ZEN bisogna analizzare i processi dall’interno: dalla concezione archite�onica alle implicazioni sociali, urbanis�che ed economiche; e bisogna prendere in considerazione i meccanismi burocra�ci a�raverso i quali lo Stato costruisce alloggi per i non abbien� producendo dei ghe�.3 Una delle cause del degrado del quar�ere, com’è noto, dipende dal fa�o che, in a�esa del completamento dei servizi colle�vi e degli allacciamen� (luce, acqua, gas ecc.), e a uno stadio quasi ul�mato della parte meramente edilizia, il quar�ere fu occupato abusivamente prima che gli eventuali assegnatari ne prendessero possesso.3 L’occupazione dello ZEN non aveva il cara�ere “poli�co” di altre realtà italiane, come per esempio il complesso milanese di Gallarate-
Save the Children Atlante dell’infanzia a rischio 2018 -Le periferie dei bambini-
Fotografie del quar�ere volte ad accentuarne gli aspe� nega�vi, come lo stato di abbandono, la precaria salubrità ambientale e l’insicurezza.
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Fotografia in bianco e nero dello ZEN di Palermo.
se, ma aveva, più brutalmente le cara�eris�che di un assalto a un patrimonio pubblico da parte di un ceto so�oproletario dominato da gruppi mafiosi. La debole reazione degli en� amministra�vi ci dà la misura di quanto la realizzazione del nuovo quar�ere fosse legata alla possibilità di speculare sulla costruzione di un nuovo insediamento piu�osto che con l’obie�vo di risanare il centro storico della ci�à. Nel tempo la narrazione media�ca sul quar�ere si è fossilizzata su stereo�pi reitera� e rappresentazioni sociali, talvolta addiri�ura snaturate, che hanno appia�to l’eterogeneità delle traie�orie di vita presen� nel quar�ere e ostacolato l’emergere di possibilità relazionali, tanto che oggi si parla di “s�gma�zzazione media�ca”7. Questa “s�gma�zza7 La s�gma�zzazione media�ca degli abitan� è descri�a in
due docufilm di ben diversa caratura. In Zenigma (2005), il regista Antonello Longo presenta una visione ancora molto tradizionale del quar�ere, con estra� di interviste a ci�adini palermitani che, pur ignorando la posizione del quar�ere, dimostrano di avere idee molto chiare rispe�o alla sua
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zione”, che plasma la storia dello ZEN 2 e che ha nel periodo tra il 1990 e il 2004 il suo apice, è oggi centro di un acceso diba�to, forse ancor più dello stesso ZEN, a�o a rivedere e rivalutare l’influenza che questa rappresentazione distorta della realtà ha, e ha avuto, sulla sempre crescente segregazione del quar�ere. È in quest’o�ca che dal 2004 sono in a�o azioni mirate a risca�are l’immagine del quar�ere, a�raverso la collaborazione - o meglio, coesistenza - di inizia�ve pubbliche e private, la prima delle quali ha inizio nel 2004, quando il comune avviò il proge�o di recupero dell’inslua 3E. Nel proge�o originario dello ZEN 2 infa�, tu�e le insulae erano indicate con un numero e una le�era, a par�re da 0A. L’insu-
(presunta) pericolosità (PICONE, 2011). CityZEN di Ruggero Gabbai (2015), invece, offre una le�ura più complessa e a�enta dello ZEN, decostruendo lo stereo�po nega�vo legato al quar�ere e proponendo interpretazioni più sfumate, con scelte composi�ve estremamente efficaci.
Frame iconografico del film “CityZEN” di Ruggero Gabbai del 2015.
Le mappe e gli schemi qui presenta� mostrano come la segregazione allo ZEN sia un tema complesso e non riassumibile in una banale ghe�zzazione del quar�ere rispe�o alla ci�à. Queste immagini sono il risultato di come oggi è possibile percepire quasi sessanta anni di con�nue azioni sul territorio, di flussi di abitan� che si spostano e di a�ori sociali pubblici e priva� che, in modo spesso poco coeren�, tentano di perseguire i propri interessi, siano essi rivol� alla colle�vità o meno.
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Fotografie dell’insula 3E: a sinistra: aprile 2005 a destra: maggio 2016
la 3E non fu mai completata perché devastata da un incendio doloso sviluppatosi durante uno dei periodi più bui del quar�ere, verosimilmente per protesta contro la decisione del Comune di alloggiare lì un gruppo di ci�adini rom. Al volgere del nuovo millennio, l’insula si presentava in uno stato di estremo degrado, sede di traffici illeci�, deposito di carcasse d’automobili, luogo simbolo del degrado sociale e urbanis�co dell’intero quar�ere. Il proge�o, completato nel 2010, ha dotato l’insula, per la prima volta nella storia dello ZEN, di servizi pensa� per la ci�adinanza: una biblioteca – in realtà mai inaugurata –, uno sportello di consulenza per madri single, un asilo nido, un piccolo anfiteatro des�nato ad ospitare spe�acoli e una caserma del corpo dei carabinieri, quest’ul�ma rappresenta l’avamposto delle forze dell’ordine nel quar�ere. L’a�uale aspe�o dell’insula 3E è impressionante, se confrontato col suo passato o, più semplicemente, con le altre insulae; questo grazie anche alla dotazione 169
di verde pubblico nel cor�le interno – elemento completamente assente nel resto del quar�ere. Oggi il padiglione, peraltro abitato solo da assegnatari legi�mi, sembra un luogo fin troppo perfe�o rispe�o al resto del complesso. Il recupero dell’insula fa parte di un proge�o più ampio, volto a modificare l’immagine del quar�ere e a so�rarla agli sguardi s�gma�zzan�; nonostante l’intervento sia stato realizzato con la collaborazione degli abitan�, mol� di loro però, percepiscono la presenza della caserma come il tenta�vo dello Stato di instaurare una sorta di “stato di polizia”. Questa percezione, reale o meno, alimenta la già enorme diffidenza nei confron� dello Stato, il quale, con la nuova caserma, sembra voler contenere la criminalità locale con la forza, anziché avviare processi educa�vi e partecipa�vi che agiscano sul piano culturale. L’intervento dunque, seppur abbia innegabilmente limitato le spinte alla segregazione socio-spaziale – l’insula infa� è manifesta-
Biblioteca Giufà, aperta da giugno 2015.
Fotografia rappresentate lo “stato di polizia” instaurato allo ZEN.
Centro commerciale Conca d’Oro.
zione del tenta�vo dello Stato di portare un “pezzo” di ci�à all’interno dello ZEN –, non indica tanto un’apertura del quar�ere verso l’esterno, né a�ra all’interno abitan� di gruppi sociali diversi, ma si limita, realis�camente, a creare una sorta di oasi prote�a – militarmente – all’interno di un contesto infernale, una “gated community in miniatura all’interno del ghe�o”.8 Un’altra importante operazione, questa volta di iniziativa privata, è stata la realizzazione del centro commerciale “Conca d’Oro”, voluta dall’imprenditore Maurizio Zamparini e inaugurata nel 2012. L’iniziativa, accolta con grande entusiasmo dagli abitanti dello ZEN, sorge a poche centinai di metri dal quartiere di Gregotti ed è a questo ben collegata. La nuova realizzazione sopperisce, a detta
degli stessi abitanti, alla carenza di servizi e luoghi di incontro del quartiere, e soprattutto allo ZEN 2.9 La “Conca d’Oro” di Zamparini va ovviamente considerata per quella che è, ovvero un intervento in cui l’imprenditore, sfruttando la crisi dell’attore pubblico, si impossessa di spazi della città utilizzandoli per fini privati e redditizi. Detto questo va comunque elogiato l’intervento di Zamparini, in quanto capace di aprire lo ZEN ad una dimensione nuova, in cui i flussi commerciali cittadini per la prima volta penetrano nel quartiere “infernale”. Inoltre, e non di secondaria importanza, il centro commerciale nella realizzazione di luoghi pseudo-pubblici sopperisce all’incapacità del Comune di offrire spazi per la socialità nel quartiere palermitano.
8 Lo ZEN è stato a tu� gli effe� considerato un “ghe�o” sia
sicilienne de l’exclusion urbaine, 2007.
per mo�vi sociali (logiche matrimoniali, comunità chiuse, scarsi livelli di istruzione, ecc.) sia per ragioni geografiche: lo dimostra la rete stradale che circonda il quar�ere e limita i suoi conta� con l’esterno. Banlieue de Palerme. Une version
9 Shopping malls and neoliberal trends in southern European
Il quadro d’insieme di ques� qua�ro movimen� ci fornisce una prima mappa della segregazione allo ZEN (fig. 3). I pa�ern lineari o quadre�a� indicano le diverse zone del quar�ere; le linee perimetrali sono più o meno spesse in base al grado di isolamento che creano tra il quar�ere e l’esterno; i cunei (più o meno sfuma� a seconda del grado di de-segregazione a loro associato) individuano invece le porosità del quar�ere, ovvero quei luoghi in cui il mondo esterno penetra più facilmente dentro lo ZEN
cities: Post-Metropolitan challenges for urban planning policy, Tulumello S. e Picone M., 2016
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A questi interventi che potremmo definire fisici, o pratici, vanno sommate tutta una serie di iniziative socio-culturali, avviatesi già a partire dalla fine degli anni ’80, la più importante delle quali è svolta dall’associazione “Laboratorio ZEN Insieme”. Fondato da un gruppo di assistenti sociali, in collaborazione con alcuni abitanti del quartiere, il gruppo si è occupato nei suoi primi anni dell’accompagnamento e della tutela dei ragazzi che frequentavano la scuola media “Leonardo Sciascia”. Da quella esperienza, “ZEN Insieme” ha raccolto molte informazioni utili sullo stato del quartiere e, in particolare, su quello delle famiglie che lo abitavano. Da qui la decisione di raggiungere i ragazzi e le famiglie maggiormente in difficoltà direttamente all’interno del quartiere, dove, sino ad allora, non era riuscita ad insediarsi nessuna realtà di volontariato, neppure la parrocchia. Il piccolo centro sociale venne aperto dentro una delle insulae e fu condiviso con gli abitanti del quartiere, condivisione sottolineata dalla scelta di intitolare il locale ad “Agostino Catalano”, caposcorta di Paolo Borsellino, che nel quartiere era vissuto. L’associazione, dirà uno degli assistenti sociali coinvolti, si diede come priorità: “la presa di coscienza, la crescita e l’autonomia degli abitanti, soprattutto dai condizionamenti mafiosi” e aggiunse “Il raggiungimento di un grado di istruzione, anche minimo, da parte degli abitanti è fondamentale per riuscire a sottrarsi ad una logica di controllo mafioso”. “Zen Insieme” opera quindi innanzitutto nel contrasto alla povertà educativa e nella costruzione e nello sviluppo di una comunità educante. Negli anni ha attivato decine di progetti per il contrasto alla dispersione scolastica, attivando percorsi di accompagnamento allo studio che stimolassero l’emersione di talenti e desideri, nonché con attività laboratoriali, artistiche e di formazione, scambi culturali, visite a musei e monu171
menti, spettacoli teatrali e sport. Un altro aspetto da non sottovalutare è la costante lotta alla povertà che l’associazione svolge grazie ad una consolidata esperienza sulle politiche attive, operando per fornire strumenti e opportunità in un territorio caratterizzato da forti deprivazioni. Questo è possibile grazie all’utilizzo di percorsi di inclusione e partecipazione volti ad accompagnare nella crescita, sviluppare competenze professionali, favorire l’autodeterminazione e stimolare le capacità di poter essere risorsa per gli altri. Oggi il centro sociale anima con successo una rete territoriale informale, fatta di associazioni ed enti pubblici che operano su tematiche di inclusione e sostegno, con l’obiettivo di scardinare lo schema che produce esclusione sociale. Il “Laboratorio Zen Insieme” si impegna inoltre nella promozione di percorsi partecipati di rigenerazione urbana, portati avanti dalle cittadine e dai cittadini del quartiere, che mirano a ridare funzione ai luoghi abbandonati o deturpati. “Fondamentale è supportare la costruzione di una comunità che si riconosca in un territorio, non solo come contenitore di attività, ma come spazio di relazioni, che lo difenda e lo protegga, promuovendo azioni che tendono alla rimozione delle cause del disagio e al superamento delle varie forme di segregazione” è ciò che si legge nel sito ufficiale dell’associazione. L’ultimo aspetto da sottolineare è la consapevolezza, da parte del gruppo, dell’incidenza della rappresentazione di un luogo, sul suo futuro sviluppo. Come detto infatti, fin dalla sua occupazione, lo ZEN è stato “etichettato” come luogo inadatto alla vita sociale. Per questa ragione il Laboratorio Zen Insieme si impegna da sempre per l’abbattimento degli stereotipi del quartiere, promuovendo una nuova narrazione a partire dall’autorappresentazione dei suoi abitanti come comunità coesa e attiva.
Fotografie di alcune delle molte a�vità realizzate dal “Laboratorio ZEN Insieme”.
Fotografia dell’inaugurazione del nuovo campo da calce�o realizzato allo ZEN. Rappresenta ad oggi un simbolo delle potenzialità del quar�ere.
Fotografie di alcune a�vità organizzate dal “Laboratorio ZEN Insieme”, il quale è da anni impegnato nella cura e nell’accompagnamento dei bambini del quar�ere.
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Ancora oggi, a distanza di decenni dalla fondazione, grazie all’impegno di un gruppo di giovani, il Laboratorio Zen Insieme si impegna per il riscatto e la dignità di una delle zone più difficili di Palermo. Il centro attualmente ospita i programmi “Punto Luce” e “Spazio Mamme” realizzati in collaborazione con “Save The Children” e ha in carico più di 300 minori coinvolti in attività di doposcuola, laboratoriali, didattiche, culturali, sportive e ricreative. L’associazione è inoltre parte integrante di un fermento verso una crescita collettiva da parte del quartiere intero, che ha portato negli ultimi anni al recupero di aree importanti come l’orto adiacente al centro, il campetto da calcio A. Parisi e, ultimo solo in ordine cronologico, il giardino di via Primo Carnera, progettato da Gilles Clément e Coloco per Manifesta 12 . Manifesta è una Biennale nomade europea che nasce nel primi anni ‘90 in risposta al cambiamento politico, economico e culturale avviatosi alla fine della guerra fredda, con le conseguenti iniziative volte a facilitare l’integrazione sociale in Europa. Manifesta è un progetto culturale che reinterpreta i rapporti tra cultura e società attraverso un dialogo continuo con l’ambito sociale e si impegna a promuovere nuove esperienze creative in ogni contesto in cui si inserisce. La dodicesima edizione di questa biennale si è svolta a Palermo dal 16 giugno al 4 novembre 2018. Le ragioni alla base della scelta del capoluogo siciliano sono individuabili nelle prime righe del sito ufficiale di Manifesta 12: “A Palermo, tolto scetticismo e diffidenza iniziali, ci si può abituare anche alle cose belle, basta realizzarle. E a dimostrarlo è un quartiere che forse più di tutti reclama da tempo rivoluzionari atti di normalissima bellezza: lo ZEN 2”. Questo “rivoluzionario atto di normalissima bellezza” ha iniziato a prendere forma tramite la creazione di un 10 Lo ZEN e il terzo paesaggio, Roberto Collovà, Lotus interna�onal 167, 2018. 173
giardino collettivo. Un luogo cioè dove ognuno, specie i residenti, possono mettersi in gioco e imparare a prendersi cura di un progetto in cui si impegnano in prima persona. Il giardino, progettato da Gilles Clément con il collettivo Coloco, un collettivo di paesaggisti e architetti francesi, mira a coltivare il senso di comunità e a trasformare uno spazio da sempre abbandonato in un posto vivo e di cui prendersi cura nel tempo. Questo spazio, situato lungo via Primo Carnera, è da sempre luogo di “immondizia e degrado” come spiega Mariangela Di Gangi, presidente del Laboratorio Zen Insieme, che aggiunge: “Allo ZEN non ci sono cose belle perché non sono mai state fatte”. E l’entusiasmo con cui è stata sostenuta l’iniziativa, da parte di chi il quartiere lo vive quotidianamente, sembra esserne la prova. “I lavori per la realizzazione sono proceduti volutamente a rilento”, spiega Gilles Clément, poiché “interessa dedicare più tempo al coinvolgimento graduale delle persone, che non alla realizzazione in sé”. Ed è proprio questo aspetto che fa la differenza: “in questo modo ognuno sente di averci messo del suo, di averci messo un pezzo di sé insomma, e da un lato così sarà più facile tutelare questo giardino, se ognuno lo sente proprio”. Tutto passa per l’esperienza del corpo. Toccare, valutare, manipolare fanno imparare. Cura, gioco e sapere rafforzano il desiderio di accudimento. A parte il rettangolo incolto, questo sembra essere il concreto terzo paesaggio su cui hanno lavorato Coloco, e Gilles Clément e i loro collaboratori per la costruzione del giardino.10 Il giardino si candida a diventare uno stimolo efficace da estendersi ad altri spazi, coinvolgendo sempre più cittadini. Questa iniziativa è un’occasione non solo per riappropriarsi di un luogo che appartiene a tutti, ma anche e soprattutto della sua bellezza.
Gilles Clément, noto paesaggista e scri�ore francese.
Fotografie delle lavorazioni eseguite da bambini, adul� ed esper�, per la realizzazione del giardino colle�vo.
La Conca d’oro aveva lo scopo di: “fare dello Zen e delle aree a verde che lo circondano, le quali oggi accentuano il suo degrado, il “centro” vivo e vitale di Monte Gallo.” Variante generale al PRG,
Relazione generale, 2004.
“Il bello di questo progetto sta anche in questo, nell’aver messo in questo modo insieme specialisti del settore, come gli agronomi per esempio, che fanno questo di mestiere e persone che invece hanno acquisito certe competenze per necessità, dalla strada in un certo senso, per arrangiarsi, in uno scambio reciproco e continuo.” “Il giardino è stato accolto benissimo e viene curato ogni giorno da chi abita qui. Tutti ne annaffiano un pezzetto ciascuno, sotto la supervisione dei tecnici che stanno coordinando l’avvio del progetto, mostrando e insegnando il necessario alla gente”
Mariangela di Giangi, presidente del Laboratorio Zen Insieme, sul giardino colle�vo.
“L’erba cattiva non esiste. Se vogliamo salvare il mondo, unico Paese senza bandiere né barriere, dobbiamo cambiare il modello culturale dominante, partendo dall’educazione, dalla pédagogie.”
“Per creare un bel giardino dobbiamo saper dialogare con la diversità e non concentrarci sull’ossessione formale della costruzione dello spazio.”
“Fin dalle sue origini il giardino è caratterizzato da una mescolanza di specie trasportate da luoghi sempre più lontani. Come ogni giardino è definito da un recinto, anche la vita del nostro pianeta è delimitata dalla biosfera e dunque possiamo considerare la Terra come un unico grande giardino planetario, dove le specie vegetali si muovono da un continente all’altro”.
Intervista a Gilles Clément, 2018
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Fotografia dell’area selezionata per l’intervento prima dell’inizio dei lavori.
Fototgrafia della fase preliminare dei lavori: il team di Coloco instruisce i residen� sulle modalità di realizzazione del giardino.
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Fotografie dell’area durante i lavori di sistemazione del giardino colle�vo.
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Fotografia di un bambino che, a�raverso la creazione di un nuvo frame, cerca di incoraggiare uno stravolgimento della rappresentazione s�gma�zzante del suo quar�ere, a vantaggio di una raffigurazione più a�enta alle diverse sfacce�ature del quar�ere
Fotografie recen� del quar�ere. L’obie�vo è chiaro, mostrare lo ZEN so�o una luce diversa e cercare di coglierne la bellezza celata.
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Il quar�ere ZEN di Palermo si presenta oggi, all’alba del 2019, come un quar�ere ricco e vivo. “Ricco” perchè abbondano le inizia�ve culturali e sociali che lo�ano giorno dopo giorno per stravolgere l’immagine stereo�pata del quar�ere, e “vivo” in quanto i primi a me�ersi in gioco alla ricerca di un risca�o sociale sono proprio i residen� stessi. Comba�ere la segregazione del quar�ere alle diverse scale – territoriale e locale – è un’operazione complessa che, come dimostrano i tenta�vi più pra�ci messi in a�o da en� pubblici o priva�, non può essere realizzata solamente tramite pra�che archite�oniche. Per meglio comprendere questo aspe�o, può tornarci u�le la considerazione fa�a da Pierluigi Nicolin. “Da un punto di vista generale tale fallimento [quello dello ZEN] mette in discussione le approssimate teorizzazioni sui rapporti tra piano e progetto: la costruzione della città attraverso grandi progetti architettonici che escludono dal processo sia una più ampia visione urbanistica che la partecipazione dei cittadini evidentemente non ha funzionato”. Ed è proprio per la loro natura autoritaria che il proge�o dell’insula 3E, e successiva-
mente il centro commerciale Conca d’Oro, non hanno prodo�o i risulta� spera� - dai promotori e, principalmente, dagli abitan�. Tu�’altro discorso è da farsi sull’azione delle associazioni presen� allo ZEN. Le quali, da più di trent’anni, investono tempo, denaro e risorse in un quar�ere che lo stesso proge�sta aveva definito “tecnicamente impossibile da risanare”. L’impegno di ques� en�, di cui il Laboratorio Zen Insieme è il più a�vo ma non l’unico, ha permesso negli anni un miglioramento dell’immagine del quar�ere, che tu�avia rimane profondamente segnata da anni di giornalismo “s�gma�zzante”. L’intervento si schiera fortemente a favore di quella poli�ca emergente che fa della rappresentazione di un luogo un primo importante intervento volto al miglioramento delle sue condizioni sociali. Ed è proprio in virtù di questo che l’“operazione immateriale” svolta dalle associazioni del quar�ere può essere paragonata agli interven� più concretamente archite�onici realizza� da en� pubblici o priva�. Si prospe�a così una nuova possibilità di intervento a fianco di quelli più tradizionali, basato invece che sulla costruzione di spazi, su quella di iden�tà.
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Bibliografia Collovà, R. (2018), Lo ZEN e il terzo paesaggio in “Lotus International” 167 Lo Bocchiaro G., Tulumello S. (2014), La violenza dello spazio allo Zen di Palermo. Un’analisi critica sull’urbanistica come strumento di giustizia, Franco Angeli, Milano Nicolin, P. (1994), Notizie sullo stato dell'architettura in Italia, Bolla� Boringhieri, Torino Quartarone, C. (2008), Lo Zen a Palermo. La de-costruzione di un nucleo urbano autosufficiente Scandurra, E., Krumholtz, N. (1999), Cities in revolt in “Plurimondi” 1 Scolari, M. (1971), Tre progetti di Vittorio Gregotti in “Controspazio” 3 Tulumello S., Picone M. (2016), Shopping malls and neoliberal trends in southern European cities: Post-Metropolitan challenges for urban planning policy, Centro de Estados Geograficos, Punta Alta Sitografia www.journals.openedi�on.org www.m12.manifesta.org www.palermo.meridionews.it www.zeninsieme.it 179
OCCUPAZIONE
& AUTOCOSTRUZIONE “L’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto” Totò, dal film Totò contro Maciste
La celebre frase di Totò nel film di Fernando Cerchio dal �tolo “Totò contro Maciste” torna u�le per introdurre un fenomeno tanto an�co quanto so�ovalutato. I saggi che seguono mostreranno come il fenomeno dell’occupazione, pra�ca ampiamente diffusa nell’America meridionale e da sempre considerata un’epidemia da es�rpare, possa, al contrario, essere una soluzione – per alcuni l’unica possibile – al problema incontrollabile dell’inurbamento delle ci�à di tu�o il mondo. La capacità auto-organizza�va che l’archite�o John F. C. Turner ha per primo riconosciuto e divulgato degli insediamen� informali la�no americani trova riscontro in quelli che sono due casi emblema�ci situa� entrambi nella capitale venezuelana. I fenomeni in ques�one differiscono dalle più comuni favelas autocostruite; infa�, ciò che li rende estremamente rappresenta�vi è che, a divenire rifugio di intere comunità, non sono una collina o un campo abbandonato, bensì una torre incompiuta nel cuore di Caracas e un complesso di superblocchi realizzato rispe�ando pedissequamente i principi della carta di Atene. Ques� “interven� spontanei” hanno palesato la capacità auto-organizza�va di intere comunità, le quali, senza alcun aiuto da parte delle amministrazioni locali – anzi, incontrando spesso la loro opposizione – sono riuscite a raggiungere livelli di autoges�one di gran lunga superiori a quelli o�enu� in mol� dei grandi proge� governa�vi di housing sociale. Il riconoscimento internazionale della Torre David, acquisito grazie al Leone d’Oro vinto dal gruppo UTT alla Biennale di Venezia del 2012 per il lavoro di ricerca svolto sull’edificio, è un primo importante passo verso il riconoscimento formale dell’“autorganizzazione” come strumento di ges�one della crescita incontrollata di popolazione e, allo stesso tempo, come mezzo di rigenerazione dei complessi residenziali degrada�. La ba�uta del comico napoletano può essere interpretata come un’esemplificazione del processo di trasformazione: l’edificio deve prima essere spogliato della sua funzione, deve essere privato del proge�o di vita per il quale era stato pensato; solo così potrà essere pervaso da una nuova forma, spontanea e autoges�ta, di esistenza. Affinché l’operazione riesca, l’ammalato deve prima morire. Le macerie dei modelli archite�onici del Moderno possono dunque essere ri-occupate da altre vite, così come in altri secoli i popoli occupavano le rovine degli anfiteatri, dei templi o delle terme dell’an�ca Roma. Riconosciuta la validità del modello insedia�vo viene dunque da interrogarsi su quale sarà, in un prossimo futuro, il ruolo dell’archite�o all’interno del processo abita�vo. Tra le sperimentazioni più interessan�, avviatesi negli ul�mi anni, vi è quello che potremmo definire un “esperimento archite�onico e sociale” dell’archite�o cileno Alejandro Aravena, il quale propone una nuova archite�ura basata su di un processo incrementale, in cui la collaborazione tra proge�sta – il quale fornisce l’involucro – e il des�natario – che a sua volta lo completa e personalizza – raggiunge nuovi e inesplora� livelli di interrelazione. L’analisi del proge�o sudamericano esula dal focus di questa tesi, tu�avia è importante so�olineare come, grazie all’opera di John Turner prima e del U-TT poi – l’Urban Think Tank è il gruppo responsabile del riconoscimento e della valorizzazione delle cara�eris�che uniche della Torre David –, si s�a già assistendo, in ambito internazionale, ad una nuova e sperimentale fase dell’archite�ura, in cui la centralità dell’archite�o viene ridimensionata a favore di un approccio mul�disciplinare in cui i fruitori sono dire�amente coinvol� nell’intero iter proge�uale. 182
23 de Enero
23 de Enero In Venezuela, le grandi trasformazioni sociali e fisiche sono spesso state, più che in ogni altro Paese, stre�amente collegate alle mutevoli condizioni poli�che; nonostante ciò la relazione tra ques� fa�ori non è sempre semplice da comprendere o prevedibile da immaginare. I primi tenta�vi di autodifesa del paese si verificarono alla fine del 1800, quando una prima fase di modernizzazione produsse inizialmente solo modifiche su piccola scala all'ambiente locale prevalentemente rurale e agricolo. Fu solo con il boom petrolifero degli anni '20 che questo progresso iniziò a manifestarsi su una scala più ampia e le entrate economiche iniziarono a trasformare radicalmente il paese. Questa modernizzazione improvvisa causò un repen�no inurbamento di tu�e le ci�à del Venezuela . A Caracas, in par�colare, so�o il di�atore Gomez, la crisi creata da questo afflusso improvviso fu resa più problema�ca dalla topografia del terreno che, con le sue ripide montagne che ne marcano il confine, formava un ostacolo alla crescita fisica della ci�à, chiusa all'interno del suo “contenitore” naturale. Fu così che la capitale cominciò a crescere su se stessa, densificandosi in maniera incontrollata, dando così vita ai primi barrios; i quali, furono l’unica risposta possibile all’incapacità del Governo – per mancanza di fondi e di poli�che sufficien� – di offrire soluzioni abita�ve adeguate. La maggior parte della popolazione cominciò così lentamente a migliorare il proprio habitat, a�raverso l'autocostruzione e lo sviluppo incrementale. È in questo contesto che la figura is�tuzionale del Banco Obrero (Banca dei lavoratori), creata nel 1928, prese in carico la costruzione della maggior parte delle unità abita�ve pubbliche in America La�na. Inoltre, a�raverso l’is�tuzione di un proprio studio di 185
archite�ura, il Banco Obrero divenne un mezzo per diffondere idee tra archite�, ar�s� e studen� a�raverso la sponsorizzazione di mostre, conferenze e pubblicazioni, creando così i presuppos� ideologici e morfologici per rispondere alla crescente crisi abita�va. L'archite�ura fu presentata come "uno strumento per il miglioramento sociale e la trasformazione urbana" e, forse a causa della sua rela�va autonomia, si pensò che le sue soluzioni fossero in grado di trasformare i futuri residen� e le loro condizioni economiche e materiali. Durante gli anni '40, con l'is�tuzione del primo governo venezuelano ele�o democra�camente, vennero a�ua� massicci interven� nel tessuto esistente del centro ci�à con lo scopo di imitare gli sforzi degli Sta� Uni� nella liquidazione dei bassifondi. Poco dopo, tali interven� di “pulizia” vennero replica� sulle colline circostan�, nel tenta�vo di liberare anch’esse dai numerosi ranchos e dai loro residen�. Nel 1952, tu�avia, una giunta militare guidata da Marcos Perez Jimenez estromise il governo democra�camente ele�o, stabilendo al suo posto una di�atura di destra. Con l'ascensione dell’autonominatosi “Presidente”, si verificò anche un cambiamento nei modelli culturali: Jimenez era interessato infa�, non solo a rafforzare i legami economici con gli Sta� Uni� – il più grande consumatore di petrolio del Venezuela – ma espresse anche il desiderio di emulare gli USA in altre ques�oni, in par�colare nel suo approccio alla modernizzazione, spostando così l'enfasi del Venezuela lontano dal un modello culturale europeo, a favore della "superiorità" percepita nell'esempio nordamericano. In questo clima di rivoluzione poli�ca e modernizzazione economica, l’incarico
Fotografia aerea del complesso “2 de Diciembre” 1958.
Fotografie della costruzione dei superblocchi con stru�ura portante in calcestruzzo armato, 1952.
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Immagini del nuovo quar�ere modernista cos�tuito da superblocchi di 15 piani e piccoli blocchi di 4 piani, appena dopo il suo completamento, 1958.
affidato all'archite�o Carlos Raul Villanueva per il proge�o denominato “2 de Diciembre” sarebbe dovuto essere tra gli ul�mi commissiona� dal Banco Obrero. L'enorme scala di questo proge�o abita�vo serviva ormai più a fini poli�ci che non per dare effe�vamente alle persone della classe operaia luce, spazio, aria e verde, in quanto la sua imponenza non significava più solo un aumento della produzione di unità abita�ve per i poveri, ma serviva sopra�u�o per accrescere la visibilità del complesso stesso, che diveniva così un simbolo volto ad a�rarre l'a�enzione sia della popolazione locale che del mondo esterno, aiutando così Jimenez nel suo desiderio di riconoscimento internazionale. In altre parole il “2 de Diciembre” – oggi 23 de Enero – venne realizzato a scopo propagandis�co, e secondo alcuni al fine di creare una sorta di registro dei ci�adini che si oppo1 Eric Carlson, “Evaluation of Housing Projects and Programmes: A case report from Venezuela”, Town Planning Review, October 1960. 2 Non solo il ritmo di crescita ha superato il ritmo della 187
nevano alla di�atura, che in questo modo sarebbero sta� monitora�, iden�fica� e, se necessario, rido� o elimina�. Nonostante nel 1960 il Venezuela, con una popolazione di poco meno di 2 milioni di persone, avesse inves�to di più nell'edilizia pubblica di qualsiasi altro paese dell'America La�na1, in una ci�à come Caracas che tra il 1941 e il 1950 ha visto raddoppiare la sua popolazione, ques� sforzi non furono sufficien�. Infa� nonostante i 16.000 appartamen� distribui� nei 38 nuovi edifici del 23 de Enero per dare una casa a circa 70.000 persone, la ci�à non riuscì a tenere il passo con la rapida crescita demografica della capitale2, rendendo l'espansione delle baraccopoli non solo inevitabile ma necessaria. Gli edifici del 23 de Enero, ispira� all’Unité d’Habitation di Le Corbusier, prevedevano la costruzione di servizi a supporto del vicinato costruzione di alloggi, ma l'alloggio è stato considerato un fattore che contribuisce alla rapida crescita della popolazione fungendo da calamita per i migranti nelle aree rurali in cerca di migliori condizioni di vita. Ibidem
Fotografia dei superblocchi del 2 de Diciembre con i loro colori sgargian�, 1958.
quali asili, scuole, negozi, merca� e centri civici. Il complesso era cos�tuito da una serie di fabbrica� a basso costo divisi in superblocchi di 15 piani e in piccoli blocchi di 4, costrui� tra il 1955 e il 1958 su un pendio ripido e già abusivamente occupato situato a nord-ovest di Caracas. I ranchos – le minuscole case autoportan�, spesso autocostruite con materiali di fortuna su terreni ripidi e instabili – precedentemente esisten� furono demoli�, e con essi fu livellata l’intera area montuosa sulla quale si ergevano, per far spazio ad un piano terrazzato e aperto3: un'azione che non fu mai perdonata dagli ex abitan� anche dopo il loro trasferimento nelle nuove unità abita�ve. All'epoca si notava che: "L'apparenza dei superblocchi è spettacolare, dipinta con colori vivaci in tonalità multicolore e schierata in maestose agglomerazioni su siti collinari, con meno del 20% di copertura territoriale." 4
Il proge�o venne completato alla fine del 1957, tu�avia, prima che potesse essere inaugurato ufficialmente, il presidente Perez Jimenez fu rovesciato dal governo con una rivolta popolare. Mentre i giornali descrivevano scene contrastan�, tra festeggiamen� gioiosi e comba�men� sanguinosi tra folla e agen� di polizia, Jimenez fuggì dal paese. Subito dopo, il nome del complesso fu ufficialmente cambiato da "2 de Diciembre", data originariamente scelta per celebrare la salita al potere di Jimenez, a "23 de Enero", data della sua disfa�a. Gli appartamen� non erano ancora sta� tu� vendu� o aggiudica�, e più di 4.000 di ques� vennero le�eralmente invasi e occupa� senza il consenso di alcuna autorità, iniziando così la storia ribelle di questa parroquia – il corrispe�vo venezuelano del nostro quar�ere. Questa prima occupazione, così come quasi tu�e le altre da allora in poi, fu in
3 La rapidità e la deliberatezza con cui le autorità hanno agito per demolire i ranchos esisten� hanno creato un'animosità tra gli ex abitan� che nemmeno le opportunità per nuove
abitazioni hanno cancellato, contribuendo a creare per anni problemi di ges�one alle autorità.
Fotografia della rivolta che ha portato alla deposizione del di�atore Perez Jimenez, 1958.
4 Eric Carlson, Ibidem 188
sostanza compiuta da squatters – quei contestatori urbani cos�tui� da singoli, da nuclei familiari o da gruppi organizza� che occupano abusivamente terreni o edifici pubblici a fini abita�vi. Questo fa�o ha indubbiamente contribuito alla proliferazione di problemi finanziari che hanno fin sa subito cara�erizzato il proge�o: entro un anno dal suo completamento, infa�, le condizioni di vita al 23 de Enero furono descri�e nei rappor� ufficiali come "le peggiori" di uno qualsiasi dei moderni alloggi di Caracas, una condizione che è stata a�ribuita principalmente a problemi economici, sociali e ges�onali piu�osto che, come sostengono alcuni, alle cara�eris�che fisiche degli edifici.5 Alla fine, i superblocchi modernis� si sono dimostra� troppo difficili da ges�re e troppo costosi da mantenere, e le loro condizioni fisiche e sociali sono andate incontro ad un inesorabile deterioramento. I nuovi abitan�, tu� provenien� da zone rurali e non abitua� alla vita urbana in edifici a più piani, avevano semplicemente trasferito i propri alloggi tradizionali nelle nuove case, con�nuando di fa�o ad abitare le nuove unità razionaliste così come avevano abitato le vecchie abitazioni rurali. L’incapacità dei proge�s� di ques� “falansteri moderni” di leggere e interpretare i modelli sociali e insedia�vi tradizionali, si è rivelata deleteria, sia per i nuovi inquilini che per gli edifici stessi. La caduta di Jimenez non rappresentò solo un cambiamento radicale nella poli�ca venezuelana, da una di�atura a una democrazia, ma inoltre aggravò ulteriormente il problema degli alloggi, che per questo ed altri fa�ori, persiste tu�ora. La stre�a connessione tra cambiamento poli�co e urbanizzazione nel 1958: “(…)ha inaugurato una nuova fase del tutto inedita di sviluppo [abusivo]. Le restri5 È interessante notare che la cri�ca più severa del proge�o era incentrata sulle trombe delle scale, citandole per promuovere condizioni non sicure e inadeguate al loro compito, una cri�ca simile a quella che sarebbe stata dire�a 189
zioni sull'insediamento di terra furono immediatamente revocate e le famiglie si riversarono fuori dai propri ranchos affollati per accaparrarsi il terreno libero alla periferia delle città il più rapidamente possibile. Quando le famiglie contadine ancora in campagna hanno sentito parlare delle nuove opportunità, il flusso migratorio è aumentato vertiginosamente .... La maggior parte dei barrios del venezuela risalgono a quei ventiquattro mesi post-rivoluzione.” 6 Nonostante la crescita dell’emergenza abita�va in tu�o il paese, non furono mai più costrui� blocchi abita�vi su larga scala: la combinazione di volontà poli�ca e di risorse finanziarie, che aveva prodo�o i grandi proge� di edilizia pubblica degli ul�mi 30 anni, non si verificò più. Al 23 de Enero, benché un rapporto di valutazione sponsorizzato dal governo insistesse su un punto: "la costruzione di ranchos sarebbe stata proibita nell’area del progetto, per assicurare la disponibilità di spazio sociale e di servizi necessari alla comunità", i governi successivi si rifiutarono di interferire quando ques� spazi aper� cominciarono ad essere occupa�. La creazione di ques� nuovi barrios, discenden� dei ranchos che erano sta� inizialmente bonifica� per far posto ai superblocchi, rappresentavano una nuova forma di alloggio e un nuovo approccio al "fare" che procedeva senza piani o proge� formali e che invece si evolveva secondo principi autoctoni che non avevano alcun rapporto con le idee astra�e dei grandi archite� del periodo. A tale riguardo, i barrios hanno cos�tuito un approccio "dal basso verso l'alto", per rispondere alla crisi abita�va, piu�osto che proge� "top-down" a�ua� dalle is�tuzioni nella realizzazione del 23 de Enero. agli ascensori della Chicago del dopoguerra proge� abita�vi.
6 Talton F. Ray, The Poli�cs of the Barrios of Venezuela, Berkley: University of California Press, 1979.
Fotografie del degrado del quar�ere causato dall’accumulo di immondizia per le strade dovuto principalmente all’aumento incontrollabile di ranchos che hanno saturato il tessuto urbano.
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Fotografia di ranchos in ma�oni na� ai piedi dei superblocchi modernis� del 23 de Enero, 2006.
Fotografie dei superblocchi in cui è sempre molto presente la relazione con il governo e i rivoluzionari.
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“Quando arrivi a Caracas, una delle prime immagini che ti colpiscono sono le sue grandi colline piene di case ed edifici che circondano questa grande città. Questi quartieri cominciarono ad emergere con la migrazione dalla campagna alla città negli anni '60, edifici costruiti per lo più dai loro stessi residenti che stavano andando a vivere in città, fatti come potevano con cartone, fango e altri materiali di scarto”.
“Quando gli abitanti controllano le decisioni importanti e sono liberi di dare il proprio contributo alla progettazione, alla costruzione o alla gestione del loro alloggio, sia questo processo che l'ambiente prodotto stimolano il benessere individuale e sociale. Per le decisioni chiave nel processo abitativo, d'altra parte, gli ambienti abitativi possono invece diventare una barriera alla realizzazione personale e un onere per l'economia”. John Turner
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Fotografia del barrio saturo di baracche autocostruite dagli occupan� abusivi, 2003.
I barrios erano cos�tui� da innumerevoli stru�ure in laterizio a uno o due piani, realizzate a mano e intonacate, costruite sfru�ando la topografia del terreno invece che, come avviene spesso ancora oggi, livellandolo completamente. Queste aree furono occupate senza alcun fondamento legale – proprio come gli squatters originari che occuparono i superblocchi –, mol� di queste autocostruzioni erano arroccate su pendii estremamente pericolosi e sogge� a devastan� colate di fango. Ques� barrios erano ovviamente sprovvis� di qualsivoglia servizio pubblico, quindi per sopravvivere gli abitan� si a�accarono alle vecchie abitazioni, da cui a�nsero ele�ricità, acqua e il sistema fognario. La condivisione dei servizi di prima necessità contribuì inoltre all’integrazione sociale tra gli abitan� legi�mi, che risiedevano negli edifici modernis�, e quelli illegali, divisi tra alloggi occupa� e altri autocostrui�. Col passare del tempo, lo spazio aperto che circondava i superblocchi fu colonizzato, accogliendo una crescente proliferazione di nuovi “elemen�” che furono poi incorpora� 193
nel paesaggio in evoluzione: non esisteva più un "piano terra aperto" modernista, ma al suo posto vi era una superficie abitata che poteva espandersi o contrarsi in base alle circostanze e alle necessità. Il risultato è che oggi al 23 de Enero risiedono un numero incalcolabile di persone alloggiate in un numero altre�anto sconosciuto di “baracche” la cui somma crea uno spazio senza confini e senza forma. Sebbene sia l’occupazione che la costruzione su di un rancho fossero illegali all’epoca, i poli�ci sostenevano comunque le invasioni, in cambio di vo�, fornendo agli occupan� materiali e proteggendoli dall'eradicazione. Il boom del petrolio del 1973 ha accentuato la crescita dei maggiori barrios nella capitale: secondo i da� tra� dalla rivista accademica “Urbana”, tra il 1950 e il 1990, la popolazione risiedente in ques� insediamen� informali è cresciuta di quasi il 900%. Solo nel 2002 il governo ha ufficialmente riconosciuto ques� insediamen�, iniziando a consegnare la proprietà terriera alle famiglie residen� nei barrios, legi�mando così lo
Allacci abusivi alla rete ele�rica, 2013.
Murales lungo una strada del 23 de Enero raffigurante il colectivos Tupamaro, 2008.
status del 60% dei 26 milioni di abitan� del Venezuela che vivono in questo �po di “alloggio”. Questa ufficializzazione ha di fa�o riconosiuto e acce�ato la validità di ques� insediamen� e inoltre può essere intesa come un incoraggiamento della popolazione ad aiutare se stessa, laddove il governo ha fallito. Questo processo ha lo scopo di trasformare fisicamente i barrios fornendo loro i servizi necessari, e inoltre mira a stabilizzarli poli�camente, democra�zzandoli a�raverso l'is�tuzione di consigli governa�vi a� a consolidarne il tessuto sociale. Nonostante tu� i quar�eri della capitale venezuelana, cara�erizza� da un'urbanizzazione labirin�ca, dall'esterno appaiano iden�ci, il 23 de Enero è diventato uno dei più popolari di Caracas, culla e santuario dei rivoluzionari del Venezuela e di tu�a l'America La�na. Da quel famoso 23 gennaio 1958, la parroquia in ques�one è stata conosciuta nel paese per le innumerevoli ba�aglie che i suoi abitan� hanno intrapreso per o�enere migliori condizioni poli�che e sociali. Per questo mo�vo, il 23 de Enero è stato visto dai
diversi governi che si sono sussegui� dal ‘58 in poi come quar�ere "sovversivo", "zona rossa", "area di vagabondi e truffatori" in cui i caraqueños della classe media e alta non osano entrare. Ma c'è un'altra realtà che va so�olineata: l'esistenza di una comunità ricca di esperienze di autorges�one sociale che è des�nata ad essere embrione e simbolo della coscienza poli�ca dei suoi abitan�. I residen� di questo parroquia, infa�, presto raggiunsero grandi progressi nell'autorganizzazione e nella creazione di un’iden�tà di quar�ere. A�ualmente al 23 de Enero coesistono innumerevoli gruppi e organizzazioni provenien� da diverse lo�e sociali tra cui: il “Coordinadora Simón Bolívar”, il “Movimiento Revolucionario Tupamaro” (MRT), il “Colec�vo La Libertad”, il “El Panal 2021”, la “Fundación Alexis Vive”, il “La Piedrita” e la “Fundación Tres Raíces”. Inoltre, esistono ben 3 stazioni radio locali: la “Radio 23, Comba�va y Libertaria”, la “Radio Arsenal” e la “Al Son del 23”, tu�e create per s�molare e dare voce a tu�e quelle persone rimaste invisibili per decenni. 194
Immagine storica dei superblocchi appena costrui�, 1958.
Fotografia aerea ad ampio campo del nuovo insediamento abita�vo, 1958.
Fotografia del presidente Perez Jimenez prima dell’inaugurazione dei blocchi residenziali, 1957.
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Il barrio punteggiato dai colori vivaci dei ranchos costrui� a ridosso dei blocchi razionalis�, 2015.
Una delle “missioni sociali” del presidente Chavez per migliorare le condizioni di vita dei poveri nei barrios, 2000.
Casa de Alimentacion, is�tuita da Chavez e tu�ora operante, che dà aiuto alimentare ai poveri dei barrios, 2019.
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A questo approccio sociale di riappropriazione dello spazio popolare si sono aggiunte rivoluzioni violente, come quella cubana emersa nel con�nente, che hanno influenzato e incoraggiato i militan� di Caracas a usare la “guerriglia” come forma di lo�a. La combinazione di queste due componen� ha trasformato questo territorio in uno spazio unico in cui si respirano dignità e rivoluzione, come ha spiegato Juan Contreras, presidente di Coordinadora Simon Bolivar "È la nostra piccola Cuba". Il trionfo di Chávez nel 1998 fu un momento storico della rivoluzione bolivariana7 che rilanciò le speranze dei poveri del paese. Come tu� i quar�eri poveri di Caracas, anche il 23 de Enero era in con�nua lo�a contro le amministrazioni dei par�� conservatori: "La voce dei poveri non è mai stata ascoltata. Tutti potevano votare, ma nessuno ha soddisfatto i nostri bisogni", ha de�o Rabin Azuaje, insegnante e abitante del barrio. "Con Chavez, è stata la prima volta che un presidente ha costruito case per i poveri. Grazie a lui, abbiamo iniziato a capire che eravamo la maggioranza e che i nostri interessi avrebbero dovuto guidare le politiche del Paese". Il neoele�o presidente espropriò terre e industrie, sos�tuì giudici, ufficiali e dirigen� petroliferi e dichiarò che avrebbe alleviato le sofferenze e le disuguaglianze all’interno del paese. Queste promesse vennero mantenute; leggendo i da� del Na�onal Ins�tute of Sta�s�cs: fino al 1998, il 50,8% della popolazione era considerato povero, il 20,3% estremamente povero; in dodici anni, ques� indici sono scesi rispe�vamente al 31,9% e all'8,6%. Un recente studio della Commissione economica per l'America la�na e i Caraibi mostra inoltre che il Venezuela è a�ualmente il paese dell'America La�na con la minore 7 Il bolivarismo è il nome che rappresenta la visione
storico-poli�ca dell'America la�na di Simón Bolívar. Esso punta alla creazione di una unione poli�ca dei paesi e delle
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disparità sociale. L'aumento dei reddi� e la creazione di pos� di lavoro spiegano la devozione che i più poveri dedicarono a Chavez. Il neo-presidente venezuelano inoltre inves� ingen� somme di denaro in tu�a una serie di programmi sociali, a� ad affrontare e ridurre la diseguaglianza sociale esistente nel paese. Ques� programmi rappresentarono uno dei principali mezzi ele�orali e, la loro combinanzione, rientra in quella che lo stesso Chavez ha definito “rivoluzione bolivariana”. Nei dodici anni preceden� al suo governo, infa�, erano sta� spesi 73,5 miliardi in programmi sociali. Tra il 1999 e il 2011, questa cifra è salita a 468,6 miliardi. Da gioiello dell’urbanis�ca sociale quale inizialmente doveva essere, il 23 de Enero è rapidamente diventato la principale sede di tu� quei movimen� di confronto e di protesta contro il potere centrale. I suoi abitan� sono sempre sta� "stru�ura�": per molte generazioni, la comunità ha assis�to all'emergere di innumerevoli gruppi poli�ci, sociali e culturali molto a�vi che hanno forgiato la cosidde�a "mentalità 23". Oggi questa zona è considerata un bas�one del chavismo, si potrebbe anche dire un laboratorio, poichè è qui che i programmi sociali, le cosidde�e ”missioni” del presidente Chavez, sono state sperimentate agli albori della "rivoluzione bolivariana". Il 23 de Enero fu infa� il primo quar�ere in tu�o il Venezuela ad essere dichiarato “territorio privo di analfabe�smo” prodo�o di una delle “missioni sociali” svolte dal governo. Nella “capitale mondiale del deli�o”, unico caso tra le ci�à del sud America dove gli insediamen� urbani spontanei coes�tono con quelli formali e in cui l'insicurezza è la norma e il caos dilaga, il famoso Barrio 23 de Enero è diventato il simbolo dei guerriglieri società la�noamericane, mantenendo sempre vivo il proge�o della Grande Colombia, confederazione che esiste�e dal 1819 al 1831 e dalla cui frammentazione nacquero gli a�uali Sta� di Colombia, Venezuela, Ecuador e Panama.
La rivoluzione bolivariana incen�vata da quella cubana.
Quando si arriva al 23 de Enero, una delle cose che si dis�ngue fuori è il numero di allusioni internazionaliste, frasi che spronano le persone a comba�ere, e murales di diversi militan� rivoluzionari internazionalis� come l'Aragonese Cura Perez, il portoricano Filiberto Ojeda Rios , il nicaraguense Augusto Sandino, il messicano Emiliano Zapata, il basco Pakito Arriaran o il cubano Camilo Cienfuegos.
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marxis� dell'America La�na e la casa dei temu� colectivos di Caracas. Tradizionalmente, i colle�vi sono considera� gruppi arma� radicali di sinistra i cui membri sostengono il par�to di governo venezuelano in cambio di favori economici. Ma si considerano molto di più, essi infa�, si e�che�ano come organizzazioni sociali nate dalla repressione. Ciò non significa tu�avia che i colectivos abbiano un'unica iden�tà, al contrario: sono clan autonomi, in lo�a gli uni con gli altri per contendersi risorse, territori e potere. I clan reclutano generalmente i loro membri tra i residen� che vivono nel Barrio 23 de Enero. I superblocchi hanno spesso i propri colectivos, che, a loro volta, hanno i loro coordinatori o leader. Secondo alcuni residen�: "Ci sono più di 60 colectivos, alcuni dei quali hanno i propri obiettivi personali, come l'istruzione, altri sono intrinsecamente legati ai funzionari governativi, e altri ancora, i più piccoli e nuovi, si auto-etichettano come colectivos solo per ispirare paura, ma in realtà non sono altro che bande criminali." Sebbene i colectivos siano spesso descri� come semplici milizie patrocinate dal governo, la loro stru�ura e i loro obie�vi sono in genere molto più ar�cola�. Infa�, mol� dei più no� colectivos di oggi non si definiscono più come tali, ma come "organizzazioni sociali" o "fondazioni" – i “Tupamaros”, per esempio, si stanno trasformando anche in un par�to poli�co. Alcuni dei leader di queste organizzazioni sostengono che la ragione di ciò sia o�enere legi�mità e finanziamen� dallo Stato, in par�colare per i proge� sociali. Le cure sanitarie, l'istruzione, le a�vità ricrea�ve e le inizia�ve ambientali sono diventate il metodo principale dei gruppi per raggiungere il loro obie�vo di trasformazione degli spazi sociali che ges�scono. Certa-
mente però, non tu�e le a�vità dei colle�vi sono così caritatevoli: la ci�à infa� è una delle più violente al mondo. Decine di persone vengono uccise ogni se�mana, i loro cadaveri rimangono dissemina� tra gli stre� vicoli dei barrios della ci�à. Un totale di 7.676 persone sono state uccise a Caracas nel 2009: media di circa un omicidio all’ora. Spesso purtroppo la mole di violenza tende ad oscurare le importan� cause che la generano, in par�colare le relazioni tra povertà, alloggio e violenza – e il modo in cui il governo si occupa di ciascuno di ques� aspe�. Le rivolte “Caracazo” del 1989, quando i militari uccisero più di mille caraqueños che stavano protestando contro la ges�one della crisi economica del presidente Carlos Andrés Pérez, hanno cambiato radicalmente il Venezuela, destabilizzando il suo sistema bipar��co e aprendo la strada alla visione di Chavez del "socialismo del XXI secolo". L'Assemblea nazionale ha fondato i consigli comunali nel 2006, consentendo alle comunità di eleggere i propri rappresentan� chiama� a prendere decisioni sullo sviluppo; in questo modo il governo sta trasferendo il potere al popolo, perme�endo ai consigli di amministrare le proprie risorse e risolvere i propri problemi. Tu�avia, autorizzare i consigli comunali ha nascosto solo temporaneamente i fallimen� della rivoluzione; bas� pensare che nel decennio da quando è entrato in carica, l'amministrazione di Chávez ha in gran parte sperperato la ricchezza petrolifera accumulata nei decenni preceden�, almeno quando si è tra�ato di spendere per l’edilizia abita�va sociale. Non è affa�o chiaro se il solo finanziare le comunità locali affinchè si autoges�scano – supponendo che il denaro sia sufficiente – possa essere la risposta giusta a un problema così grande.
8 Il socialismo del XXI secolo è un termine ideato dal
World Social Forum del 2005 per iden�ficare la linea poli�ca da lui ado�ata, a seguito del quale finì per essere associato al neologismo di chavismo, indicante invece la personale ideologia poli�ca dell-ex Presidente venezuelano.
sociologo tedesco Heinz Dieterich nel 1996, indicante una riformulazione generale del socialismo del nuovo millennio, ripreso e reso celebre da Hugo Chávez in un suo discorso al
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“Ma il problema è più ampio di così. È sistemico. Il problema è che non c'è mai stata una buona pianificazione urbana qui a Caracas”. Hector Tovar, funzionario del governo, 2011
“Ma il governo non capisce abbastanza. Nel nostro caso, ciò di cui abbiamo bisogno è la pianificazione urbana”. Gilberto Dan, abitante di Anauco, 2011
“Una volta che fai parte di questo luogo, proteggiamo i nostri, anche se dobbiamo morire in battaglia”. Henri Falcón
“Se hai un consiglio comunale legalmente registrato e il tuo progetto è fattibile, il governo della città ti darà i soldi per realizzare il progetto (...) Dì quello che vuoi sul governo, Chavez ci ha fatto sentire come se esistessimo davvero per la prima volta”. Gilberto Dan, abitante di Anauco, 2011
“Servizi, abbiamo bisogno di servizi”.
Pedro Serrano, abitante del 23 de Enero, 2011
“Il Chavismo è una fantasia. Cos'è il socialismo con la fame? Ma dobbiamo renderci conto che molte persone si identificano ancora con quella fantasia”. Henri Falcón, ufficiale militare durante la rivoluzione nei primi anni ‘90, 2011
“Non hai idea di quanto dolore abbiamo sopportato durante la Quarta Repubblica9 (...) L'apparato di sicurezza di Carlos Andres Perez, con l'obiettivo di tenerci a bada per via della nostra ideologia e attivismo, senza preavviso, portava la polizia nel quartiere e ci sparerebbe come cani se dovessero”. 9 Con il termine Quarta Repubblica si
fa riferimento al periodo della storia del Venezuela tra la caduta di Jimenez e l'ascesa di Chavez.
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Fotografia dell’a�uale Barrio 23 de Enero con ogni spazio libero saturato da baraccopoli, 2017
A sinistra: a�vis� dei colle�vi durante una manifestazione in piazza; A destra: una delle inizia�ve sociali promosse dai colle�vi.
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Il 23 de Enero, al pari di mol� altri casi di insediamen� informali, rappresenta un’alterna�va oramai necesseria che, laddove le utopie archite�oniche degli Smithson hanno fallito miseramente al pari di numerosi proge� urbani recen�, dimostra come la natura anachica e parassitaria di ques� insediamen� e le pulsioni verso l’autocostruzione di queste comunità si delineano come una risorsa che si rivela capace non solo di fornire una soluzione ai problemi che la ci�à del XXI secolo dovrà necessariamente affrontare, ma anche di produrre quel senso di appartenenza ad una comunità e ad un luogo, che sembra mancare ai pezzi della ci�à pianificata di più recente formazione.9 Nel barrio caraqueño il rifiuto della popolazione ad uno s�le di vita superimposto dal governo è reso ancora più evidente dalla personalizzazione che i blocchi modernis�, proge�a� per inscatolare e standardizzare gli esoda�, hanno subito. Quest’ul�ma infa� è leggibile chiaramente nelle facciate degli edifici occupa� le quali, con le mille sfumature di colore e le forature disseminate cao�camente, si mostrano molto più legate al mondo degli slums che non a quello della ci�à moderna. Ciò che stupisce del 23 de enero, ancor più che l’occupazione di un tessuto urbano e l’integrazione di questo con una stru�ura informale, è la coesitenza di spinte rivoluzionarie e di necessità inclusive, di mo� sovversivi e di missioni sociali di, in ul�ma analisi, violenza e solidarietà. Se da un lato infa�, il Barrio è ad oggi uno dei più
sanguinari del mondo, dall’altro sono presen� diverse “associazioni” che lo�ano pacificamente per offrire ai residen� servizi e condizioni di vita migliori, in risposta ad una società che troppo spesso tende ad emarginarli. Queste due facce della stessa medaglia mostrano come anche negli ambien� più difficili, in cui l’unico modo per esprimere se stessi è ribellarsi alle leggi dello Stato, possano nascere fenomeni di cooperazione sociale, di supporto reciproco nelle difficoltà, di, in una sola parola, comunità. Ed è proprio su quest’ul�mo aspe�o che gli insediamen� informali autocostrui� mostrano tu�o il loro potenziale, e dove, oggi più che mai, assis�amo al fallimento dei proge� formali. La creazione di una comunità risulta dunque fondamentale per innescare tu�a una serie di fa�ori necessari alla sopravvivenza di un qualsiasi gruppo di individui, organizza� o auto-organizza� che siano. L’esempio proposto non può certo essere considerato un modello da seguire, tu�avia mostra interessan� potenzialità circa la capacità di gruppi o individui di autoregolarsi, autoges�rsi e autorganizzarsi in condizioni di estrema precarietà e senza l’aiuto di interven� esterni. Il riuscire a sfru�are a pieno questa capacità eliminando la matrice violenta che spesso si porta dietro potrebbe rivelarsi la chiave per rispondere ad un problema a cui da anni archite�, urbanis� e sociologi cercano di dare risposta, ovvero il perenne inurbamento delle ci�à e la crescente carenza di alloggi.
9 Pierluigi Nicolin, No�zie sullo stato dell’archite�ura in Italia, 1994.
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Bibliografia Gomez Herrera, C.H., Spirkoska, B. (2009), Caracas: Privatization and re-signification of public spaces in “Ges�ón y Ambiente” 12 Carlson, E. (1960), Evaluation of Housing Projects and Programmes: A case report from Venezuela, Liverpool University Press, Liverpool Cas�llo Melo, R. (2015), Appropriating modern architecture: designers’ strategies and dwellers‘ tactics in the evolution of the 1950s venezuelan superbloques, University of Kansas Talton F. (1979), The Politics of the Barrios of Venezuela, University of California Press, Oakland Sitografia www.arainfo.org www.columbia.edu www.deapress.com www.desdelaplaza.com www.eluniversal.com www.el23net.blogspot.com www.failedarchitecture.com www.vqronline.org 203
Torre David
Torre David Il Venezuela, alla fine degli anni ’80, a�raversò una profonda crisi, in quanto l’allora presidente Carlos Andrés Perez, già fortemente contestato in diverse manifestazioni pubbliche nel 1989, subì due tenta�vi di colpo di stato e, successivamente, fu accusato di corruzione insieme a mol� membri della sua amministrazione. Questo fa�o compromise defini�vamente la sua già delicata posizione e così, nel 1992, venne arrestato per poi cadere in disgrazia. L’esistenza di una crisi generale del paese tu�avia coinvolgeva fa�ori molteplici, mol� dei quali non lega� dire�amente all’ex presidente. Questo portò ad una periodo di stallo, o anarchia, che durò fino al 1994, anno in cui si tennero nuove elezioni. Ma la pace durò poco, in quanto, nonostante l’elezione del neo presidente Rafael Caldera, il Venezuela subì una crisi finanziaria senza preceden� che causò l’implosione della maggior parte delle banche locali le quali, di conseguenza, vennero so�oposte ad un regime amministra�vo speciale da parte del governo. Mol� dire�ori di banca vennero incrimina� in seguito ad una vera e propria “caccia alle streghe” giudiziaria, mirata all’individuazione dei presun� responsabili della crisi del paese. I banchieri infa� vennero accusa� di aver manipolato il mercato, di aver dichiarato il falso riguardo al proprio patrimonio economico e di essersi resi partecipi di mol� altri episodi di frode finanziaria. La crisi ha avuto ripercussioni non lievi anche su tu�a la stru�ura di governo la quale ha così perso la fiducia di inves�tori pubblici e priva�. Quasi tu� gli is�tu� finanziari che operavano nel paese sono sta� smantella�, i loro dirigen� sono sta� arresta� ed i loro beni sequestra�. Il governo is�tuì il “Fondo Generale per la Garanzia dei Deposi�” (FOGADE), affidandogli l’incarico di sorve207
gliare le a�vità degli en� rimas� e decidere se ques� dovessero essere recupera� o liquida�. Nell’ambito di questa procedura di “controllo amministra�vo” molte banche, con le loro a�vità, vennero trasferite dire�amente al “FOGADE” il quale si occupava inoltre di risarcire, per quanto possibile, la miriade di clien� danneggia� dalla crisi. Mol� dei beni sequestra� alle banche, tra cui anche interi edifici, vennero quindi vendu�, mentre altri, restano tu�’oggi so�o l’amministrazione del “FOGADE” o di altre is�tuzioni governa�ve. Durante questa procedura mol� edifici in costruzione vennero paralizza� e successivamente abbandona� a causa della mancanza di fondi o di ges�one. La Torre di David (Tower of David, “TOD”), famigerato edificio del centro di Caracas, era fra ques�. Il “Centro Financiero Confinanzas” – questo è il nome originale della torre – era stato commissionato dal magnate David Brillembourg che era amministratore delegato e proprietario del “Grupo Confinanzas” (GC), uno dei più influen� gruppi finanziari del Venezuela durante gli anni O�anta e i primi del Novanta. Proge�ata dall’archite�o Enrique Gòmez, la torre sarebbe dovuta diventare l’o�avo edificio più alto dell’America La�na e inoltre, uno dei più moderni. La formidabile ascesa di Brillembourg, il suo fiuto e la sua audacia negli affari, gli valsero il soprannome di “Re David”, e, proprio per questo mo�vo il “Centro Financiero Confinanzas”, fiore all’occhiello del suo impero, non poteva che prendere il suo nome. La costruzione del TOD iniziò nel 1990, ma fu bruscamente interro�a tre anni dopo. Il principale mo�vo di questo arresto fu l’improvvisa mala�a del commi�ente che, nel 1994, morì causando il lento declino del suo impero finanziario, agevolato dalla situazione socio-economica descri�a in precedenza.
FotograďŹ a aerea di Caracas, a destra la Torre David, 2018
FotograďŹ e della Torre David: sinistra: foto di Carlos Garcia Rawlins destra: foto di Iwan Baan
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Fotografia della Torre David, Jorge Silva.
La stru�ura in cemento armato venne acquisita dal governo che, tu�avia, dopo il fallimento di una prima asta con base a due terzi del valore originale, non riuscì mai a prendere una decisione sul suo futuro. Questa indecisione portò ad un lento quanto inesorabile abbandono del complesso. Il GC fu infine liquidato, e i suoi beni – compreso il “Centro Financiero Confinanzas” – furono divisi tra diverse en�tà controllate dal Governo. In questa fase il TOD venne trasferito al FOGADE, il quale come an�cipato, non seppe come disporre dell’edificio. In ques� anni la Torre di David è diventata soltanto uno sbiadito ricordo degli anni d’oro dell’industria della pianificazione venezuelana e si è trasformata in un “errore” nello skyline di una ci�à altrimen� moderna e prospera. Una vera e propria svolta nella narrazione della storia della Torre David è avvenuta nel 1998 quando, in concomitanza con la presunta fine della crisi finanziaria del paese, l’ex comandante militare Hugo 209
Chavez venne ele�o presidente del Venezuela. Chavez promise di guidare una vera e propria rivoluzione poli�ca e promosse una serie di emendamen� a�, a de�a dello stesso presidente, ad avvicinare il Governo al popolo. Fin dall’inizio del suo mandato il neo ele�o presidente dove�e affrontare due importan� sfide: la prima, dovuta ad un disastro naturale avvenuto nel 1999, era l’assistenza a migliaia di famiglie rimaste senza casa e senza beni; la seconda, avvenuta nel 2003 a causa di uno sciopero dell’industria petrolifera – principale motore economico del paese – , era la risoluzione di una nuova crisi finanziaria a cui il Venezuela stava andando incontro. Questa seconda sfida tu�avia causò un dras�co aumento del prezzo del petrolio e questo permise un repen�no rinvigorimento dei fondi pubblici. Questa nuova capacità economica si riflesse immediatamente su quella poli�ca, facendo guadagnare al governo Chavista una grande influenza a livello nazionale e internazionale.
Fotografia della Torre David, Fernando Llano.
Una parte significa�va di ques� nuovi fondi venne u�lizzata nel tenta�vo di trovare una soluzione alla prima sfida, finanziando una serie di programmi sociali chiama� “Misiones Bolivarianas”.1 Nonostante l’ingente stanziamento di fondi, le “misiones” non furono in grado di offrire una soluzione efficace ai diversi problemi della popolazione, in par�colare il programma si rivelò incapace di offrire soluzioni abita�ve ada�e e sufficien� per rispondere al problema della mancanza di alloggi abitabili. Tra le cause di questa esagerata domanda abita�va vi erano: il precitato disastro naturale che ha privato migliaia di venezuelani delle loro abitazioni, le poli�che “ultra protezionis�che” del paese che incen�vavano i proprietari di case a non affi�are i loro beni, la paraliz-
zazione del se�ore edile e le ondate migratorie dalle zone rurali verso le maggiori ci�à. Nel tenta�vo di placare una popolazione sempre più impaziente, il Governo a�uò una serie di poli�che protezionis�che che, tu�avia, lungi dall’offrire soluzioni defini�ve, non fecero altro che contribuire alla polarizzazione tra inquilini e proprietari. Con il peggiorare della situazione, diversi funzionari governa�vi, tra cui lo stesso presidente Chavez, iniziarono a incoraggiare le persone a occupare qualsivoglia terreno o edificio inu�lizzato, senza temere di essere sfra�a�2. L’occupazione dilagò in tu�o il paese. Sebbene la maggior parte delle proprietà vi�me di occupazione fossero di proprietà privata, lo squa�ng interessò anche edifici di proprietà del governo e persino degli spazi pubblici.3
1 The (mis)Use of Legal Tools in the Pursuit of a Political
3 Si stima che circa il 40% della popolazione di Caracas ad
Agenda, A. Gòmez, 2013.
2 El discurso invasor, Teodoro Perkoff, ar�colo su “TAL CUAL”,2011
oggi viva in comunità informali. Questo impressionante dato è probabilmente dovuto alla politica dell’ex presidente Chavez. (inside the Tower of David, Venezuela’s vertical slum; Thedailybeast, 2016)
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La Torre David, dopo 15 anni di abbandono, è tornata a prendere vita quando, nel settembre del 2007, nonostante l’assenza di servizi di base quali acqua, fognature, elettricità e la mancanza delle maggior parte dei muri e persino delle scale, è stata oggetto di una prima occupazione, dovuta ad un devastante temporale che ha spinto molti di coloro che erano senza un riparo a cercarvi rifugio.4 L’occupazione, che doveva essere temporanea, ha colpito inizialmente solo il piano terra dell’edificio e gli occupanti utilizzavano semplicemente teloni, tende e altre coperture di fortuna, nel tentativo di proteggersi dalle intemperie. Progressivamente tuttavia, con la continuazione del temporale e l’aumentare delle persone, il piano terra divenne insufficiente ad ospitare tutti i rifugiati, spingendo questi, quindi, ad occupare anche i piani superiori. Questo trasferimento comportava spesso l’abbandono dei ripari di fortuna e la conseguente costruzione di alloggi meno precari.5 Una delle principali ragioni per cui alcuni dei nuovi inquilini decisero di rimanere era la posizione strategica dell’edificio, situato infatti nel centro della capitale venezuelana, da cui era possibile raggiungere comodamente tutti i servizi della città – vantaggio non indifferente rispetto ai barrios costruiti sulle colline limitrofe. In breve tempo i residenti iniziarono ad adeguare e adattare parti del complesso progettato da Gòmez ai propri bisogni. Cominciarono a costruire nuovi muri di separazione, a definire nuovi spazi privati e pubblici e, sorprendentemente, organizzarono una comunità autosufficiente. Fu così che il “Centro Financiero Confinanzas”,con i suoi 45 piani di altezza, costruito per essere
l’emblema del potere imprenditoriale e finanziario venezuelano, divenne invece l’edificio occupato più alto del mondo, nonché simbolo dell’occupazione abusiva a livello planetario. Il TOD è da sempre stato associato, come impone la “cultura delle baraccopoli”, al proliferare di comportamenti anti-sociali, della povertà e di condizioni di vita malsane. Questi “mali urbani”6, come li ha definiti Gerald Suttles, sembrano tuttavia essere più il prodotto della rappresentazione mediatica che lo specchio della realtà. Basti pensare a quanti film recenti, libri e programmi televisivi, sfruttano questa convinzione popolare per fini economici.7 Forse proprio in virtù di questa nomea la torre David è stata, durante i sette anni della sua occupazione, più volte oggetto di raid da parte della polizia, in cerca di spacciatori o criminali di altro tipo. L’ultimo dei quali è avvenuto il 9 aprile 2012. Un’operazione militare che ha coinvolto più di cento truppe della Guardia Nazionale, truppe dell’unità speciale anti-rapimento venezuelana e membri della polizia locale, i quali hanno fatto irruzione nella torre alla ricerca di un diplomatico del Costa Rica, che era stato rapito pochi giorni prima. L’operazione, proprio in virtù della fama dell’edificio, non sorprese nessuno, tuttavia, dopo ore di ricerche sull'intero edificio e nei suoi dintorni, la polizia non trovò alcun segno del diplomatico rapito o dei suoi rapitori. Inoltre, la polizia non rilevò alcuna prova delle presunte attività criminali che si sarebbero dovute svolgere nell'edificio, né alcuno dei presunti traffici di droga così ampiamente vociferati. Si dedusse allora che la convinzione generale che TOD fosse un covo di criminali era completamente infondata.
4 Slumlord, John Lee Anderson, ar�colo su “the Ner Yorker”, 2013.
6 The social order of the slum: Ethnicity and territory in the inner city, Gerald D. Suttles, articolo su “Chicago Press”, 1968.
5 Torre David: Informal Vertical Communities, Alfredo
7 Invasiòn: El crimen se refugia en la torre Confinanzas,
Brillembourg e Hubert Klumpner, 2013.
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Maolis Castro, articolo su “El Nacional”, 2012.
Fotografia raffigurante un gruppo di caraquenos appena sfra�a� dalla Torre David, Oscar B. Cas�llo.
“All'inizio era terribile, per mesi ho dormito in una tenda, c'erano parti in cui le acque di scolo ti arrivano alle ginocchia. Piano piano mi sono creata il mio spazio e le condizioni sono migliorate.” Contreras, ex-residente della Torre David, 2017.
“A Petare vedi di tutto e anche qui, in un primo momento, vedevi anche cose brutte, ma alla fine tutto è tornato sotto controllo e ora si viveva in pace. Non c’era problema nel lasciare i bambini in giro per i corridoi, anche fino a tardi” Suarez, ex-residente della Torre David, 2017.
“We live well here. We don’t hear gunfight all the time here. Here there’re no thugs with pistols in their hands. What there is here is work. What there is here is good people, handworking people.” I asked Daza how he had become the Tower’s jefe. “In the beginning, everyone wanted to be the boss. But God got rid of those he wanted to get rilnted of and left those he wanted to leave”. Alexander “El Niño” Daza, pastore evangelico e leader della torre David, Jon Lee Anderson, The real “Toer of David”, articolo su “the Ner Yorker”,2013.
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Fotografia della Torre David in cui sono visibili le pare� realizzate dagli occupan�, Daniel Schwartz, U-TT.
Ciò che le autorità scoprirono invece era l’esistenza di una vera e propria comunità discretamente organizzata e distribuita lungo 28 piani dell’edificio. Si resero conto infatti, e con loro tutto il mondo, che, sin dalla sua occupazione cinque anni prima, la Torre David era diventata la residenza, non di criminali, bensì di diverse centinai di famiglie “normalissime” in cerca di migliori opportunità di vita e di lavoro nel cuore di Caracas.5 Il livello di auto-organizzazione raggiunto dai residenti della torre in circostanze così avverse, ha attirato in quegli stessi anni l’attenzione di sociologi, architetti e urbanisti. L’esempio più importante è costituito da un gruppo chiamato “Urban Think Tank” (U-TT), il quale ha dedicato risorse significative, non solo allo studio della comunità, ma anche allo sviluppo di un piano atto a massimizzare l’utilizzo dell’edificio in modo sostenibile, socialmente responsabile ed efficiente. L'U-TT ha proposto una forma innovativa di intervento sperimentale orientata a sfruttare gli sforzi collettivi dei residenti del TOD.
Il piano prevedeva l'adeguamento dell’edificio al fine di poter generare la propria energia, attraverso l'installazione di un efficiente sistema idrico e di altre tecnologie che migliorassero il sostentamento dei residenti e che, l'U-TT sperava, potessero servire come modello di intervento urbano da emulare.8 Il progetto non fu mai completato, soprattutto a causa dell’opposizione mossa dal governo venezuelano – nella figura del FOGADE – il quale non poteva accettare l’occupazione di uno dei suoi beni, né tantomeno il cambio così radicale di funzione che quest’ultimo aveva subito. Al gruppo “Urban Think Tank”, nonostante non sia riuscito a portare a compimento il proprio progetto, va comunque attribuito il merito di aver aperto al mondo una comunità chiusa come quella organizzatasi all’interno della torre David. Il gruppo infatti ha svolto un lavoro di ricerca impressionante sull’edificio così da poter ricostruire la storia di questa comunità, dalla sua fondazione al suo, imposto, smantellamento.
8 La proposta finale del gruppo U-TT è stata inserita nella
premio. Questo risultato ha contribuito ad accrescere la notorietà internazionale della Torre David.
pres�giosa Mostra Internazionale di Archite�ura della Biennale di Venezia del 2012 dove ha o�enuto il primo
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Installazione alla Biennale di Venezia, Torre David, Gran Horizonte di Urban-Think Tank e Jus�n McGuirk
Fotografie raffiguran� i nuovi spazi a�rezza� costrui� dagli occupan� per rispondere alle loro esigenze. Fotografie di Iwan Baan, Jorge Silva e Fernando Llano
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Fotografia dalla Torre David, Jorge Silva.
Poco dopo l’occupazione avvenuta nel settembre del 2007 l’edificio vantava già un rudimentale quanto efficace sistema idrico, in grado di fornire acqua corrente ai singoli “appartamenti”.5 Inoltre, sfruttando le conoscenze di alcuni inquilini, gli occupanti furono in grado di prelevare illegalmente corrente elettrica dalla rete cittadina attraverso la creazione di allacci di fortuna. L’evento che sancì ufficialmente la creazione di una vera e propria comunità fu l’arrivo di Alexander Daza (detto El Niño, “il bambino”), un pastore evangelico pentecostale che, nel 2009, stabilì la sua chiesa al piano terra dell’edificio adiacente, e immediatamente divenne di fatto il leader spirituale e morale della comunità. Il suo duplice ruolo di presidente e consigliere spirituale gli diede autorità e rafforzò inoltre la sua legittimità sia internamente tra i suoi concittadini, sia esternamente agli occhi dei funzionari governativi e di tutti gli altri attori che sono entrati in una relazione con il TOD. Daza fu
determinante nell’organizzazione dei “vicini”, come usavano chiamarsi tra loro gli occupanti.9 L’”incoronazione” a leader del nuovo arrivato è stata facilitata dal fatto che la maggior parte dei “vicini” fossero seguaci dello stesso credo, questo ha inoltre rafforzato la coesione sociale tra i residenti. Non manca tuttavia chi sostiene che Daza, che era un gangster convertitosi in carcere, si servì anche di mezzi violenti per ottenere il controllo della torre.10 L’anno del suo arrivo Daza portò la comunità ad adottare una struttura amministrativa formale e riconosciuta dallo Stato con la creazione della "Cooperativa de Vivienda Caciques de Venezuela" (CCV), di cui diventò il presidente. Per comprendere l’importanza di questa iniziativa basti pensare che, da quel momento, l’elettricità cominciò ad essere fornita costantemente all’edificio attraverso cavi gestiti direttamente dalla compagnia elettrica locale. La formazione di una cooperativa presupponeva anche la creazione di
9 Torre de David se Blinda Ante la Incertidumbre, Javier Brassesco, ar�colo su “El Universal”,2013.
10 Inside the Tower of David, Venezuela’s Vertical Slum, Nate Berga, r�colo su “Daily Beast”, 2016.
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Fotografia di uno dei membri della “cerchia ristre�a” di Daza, fotografia di Jorge Silva,
Fotografia dalla Torre David, Daniel Shwartz, U-TT e ETH.
una sorta di gerarchia amministrativa, per questo motivo Daza affidò degli incarichi formali ad alcuni membri della comunità, tra questi vi erano: Segretario e il Vice Direttore dei servizi sociali e delle finanze, Coordinatore della sicurezza, Elettricità e acqua e Coordinatore del piano. La creazione del CCV aveva lo scopo di beneficiare di programmi governativi, inclusi prestiti, microcrediti e altre forme di assistenza che il governo di Chavez offriva alle cooperative.11 Per lo stesso motivo molti dei residenti del TOD si unirono, forzatamente o volontariamente, ai ranghi del partito politico dominante del paese, ovvero il “Partito Socialista Unito del Venezuela”, in quanto molti dei sostegni economici promessi, in particolare quelli offerti attraverso le “Misiones Bolivarianas”, erano accessibili solo a coloro che mostravano un sostegno incondizionato al regime chavista.12 I finanziamenti pubblici, nonostante abbiano
rivestito un ruolo importante nella sussistenza della comunità, non erano l’unica fonte di guadagno che questa avesse. Con l’aumentare e il consolidarsi della popolazione cominciarono anche a nascere i primi piccoli imprenditori i quali, come fonte di guadagno personale e come servizio alla comunità, cominciarono ad avviare piccole attività all’interno della torre.5 Nacquero così piccoli negozi di alimentari, una caffetteria, un negozio di forniture per la scuola, un salone di bellezza, un call center, un centro diurno, un negozio di sartoria e addirittura una sala giochi. Inoltre, i residenti costruirono una chiesa, una palestra, un campo da basket e altre aree ricreative. Il campo da basket è diventato uno spazio particolarmente importante e per questo è divenuto oggetto di una rigorosa regolamentazione da parte della cooperativa, che ha promulgato un codice di condotta – con regole quali ad esempio, non bestemmiare in campo, non giocare senza divisa –, sponsorizzato un campionato e
11 Logros de la Revoluciòn Bolivariana. Razones para votar por Chàvez le 3 de Diciembre, Gustavo Silva, 2016.
12 Dragon in the Tropics: Hugo Chàvez and the political economy of revolution in Venezuela, Javier Corrales, 2011.
Fotografia di uno dei membri della “cerchia ristre�a” di Daza, fotografia di Jorge Silva,
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nominato un coordinatore sportivo per far rispettare le regole e organizzare le attività. La cooperativa aveva uno stretto controllo sull'operatività di qualsiasi azienda stabilita presso TOD. Ogni bancarella o negozio doveva essere espressamente autorizzato dal Consiglio, il quale ne regolava anche i prezzi e i margini di profitto. Ad esempio, i commercianti che operavano dal piano terra al decimo piano dovevano vendere i loro prodotti ai prezzi regolati dal governo, al di sopra del decimo piano, invece, gli era permesso fissare i prezzi a uno o due bolívares in più, tenendo conto dei costi e delle difficoltà di trasporto. La cooperativa aiutò anche a organizzare un sistema di spostamento interno, necessario per sopperire alla mancanza di ascensori nell’edificio, atto al trasporto dei residenti da terra fino al decimo piano della torre. Il sistema consisteva in una serie di “mototaxi” attivi 24 ore su 24. Alcuni dei servizi gestiti dal CCV, come lo smaltimento dei rifiuti, la distribuzione dell’acqua e l’elettricità, richiedevano il coordinamento con il Comune. Per questo motivo la cooperativa divenne un mediatore efficace tra i residenti e il mondo esterno. All’interno dell’edificio, come anticipato, si instaurò una sorta di piramide di governo, alla cui cima stava “El Niño”. Uno dei membri più influenti del consiglio sembrava essere Gladys Flores13, una donna carismatica nominata segretaria e vice direttrice dei servizi sociali e delle finanze della cooperativa. Flores era stata anche incaricata di supervisionare "il terzo cerchio di leadership”, ovvero i coordinatori dei singoli piani, che, a loro volta, erano incaricati di organizzare lo spazio di loro pertinenza e assicurarsi che i sistemi di costruzione impiegati dai “vicini” sui rispettivi piani fossero adeguati.
13 Una Mirada desde la Torre de David, Javier Brassesco, ar�colo su “El Universal”, 2012.
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Le decisioni più importanti erano sempre prese ai “livelli più alti”, tuttavia i rappresentanti del CCV tenevano numerose assemblee generali a cui tutti i residenti erano invitati a partecipare. In questo modo il consiglio indagava l’interesse della comunità su determinati argomenti e inoltre valutava le legittimità delle decisioni prese dal presidente e dalla sua cerchia ristretta. In questo modo si creò un sistema di governo ibrido dove da un lato stava l’autorità di Daza e dei suoi assistenti e dall’altro una sorta di democrazia dal basso verso l’alto. Questo sistema fu capace di portare ordine all’interno della torre, poiché ogni individuo si sentiva partecipe e complice di quanto avveniva intorno a lui e , allo stesso tempo, vi era una figura importante e carismatica con potere a sufficienza per districare anche le situazioni più controverse. Infatti, a seconda del tipo di problema in gioco, della norma presumibilmente violata, degli attori coinvolti e del potenziale impatto sulla comunità, il Segretario poteva agire da mediatore tentando di portare le parti a un accordo, o semplicemente, poteva esercitare la sua autorità e giudicare la controversia in modo insindacabile. Anche i coordinatori di piano avevano un ruolo, seppur limitato, nella repressione delle violazioni che si verificavano, e i coordinatori sportivi facevano lo stesso per le controversie sorte nel loro territorio. La maggior parte delle regole e dei regolamenti furono scritte su dei tabelloni affissi al muro di ciascun piano, questi inoltre contenevano le eventuali sanzioni a cui andavano incontro i trasgressori che variavano dal pagamento di una multa fino sfratto dal piano o, in casi eccezionali, addirittura dalla comunità.
Fotografia dell’interno della Torre David, Oscar B. Cas�llo.
FotograďŹ a della Torre David, Daniel Shwartz, U-TT.
FotograďŹ a della Torre David e dei molteplici usi che ne fanno gli inquilini, a sinistra: di Iwan Baan a destra: di Jorge Silva.
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Fotografia dell’interno della Torre David, Jorge Silva.
Fotografie dell’interno della Torre David, Jorge Silva.
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Fotografia dell’interno della Torre David, Fernando Llano.
Fotografie dell’interno della Torre David a sinistra: Iwan Baan a destra: Daniel Shwartz, U-TT.
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Fotografia di un occupante della Torre David sfra�ato dalle autorità locali, agenzia fotografica “Ge�y Images”.
L’esistenza di un sistema dettagliato di regole e dei relativi meccanismi di applicazione dimostra come il TOD non fosse né un’”isola culturale” con norme e leggi completamente diverse da quelle del mondo esterno, né, tantomeno, un gruppo disorganizzato e ribelle che rifiutava apertamente i valori tradizionali della collettività. L’insieme delle regole “auto-sviluppatesi” nella torre David erano, al contrario, allineate e coerenti con quelle formali e tradizionali della società venezuelana. L’ordine sociale raggiunto non è stato tuttavia sufficiente a scoraggiare il Governo che, anche in virtù delle due dozzine di vittime della torre – decedute per essere cadute dal fabbricato –, già da tempo era intenzionato a riappropriarsi del TOD, e così nel 2014 è stato annunciata ufficialmente l’intenzione di porre fine all’occupazione dell’edificio per, stando alle dichiarazioni, trasformarlo in un 221
centro commerciale e in una torre per uffici. Il “ricollocamento” degli occupanti, per usare l’espressione del ministro della “trasformazione” di Caracas Ernesto Villegas, è cominciato il 22 luglio del 2014 e, citando lo stesso Villegas, “è proceduto armoniosamente”. Stando alle ultime stime ufficiali al TOD risiedevano più di 1100 famiglie, per un totale di circa 3000 residenti, gli ultimi dei quali sono stati sfrattati il 25 giugno del 2015. Gli abitanti sembrano essere stati tutti ricollocati in alloggi permanenti costruiti appositamente e dislocati nella periferia della città. “Il futuro della torre è incerto”, dice lo stesso Machado, presidente del Venezuela e principale promotore dello sgombro. Ad oggi infatti il “Centro Financiero Confinanzas” giace abbandonato, privato di quella vita che, lentamente, lo stava facendo resuscitare.
Radical Ci�es: across La�n America in search of new architecture. Jus�n McGuirk,2014. Uno dei libri più significa�vi e importan� per la comprensione del fenomeno dell’uccupazione.
"Non ha un bell'aspetto, ma ha il seme di un sogno molto interessante su come organizzare la vita” Alfredo Brillembourg, socio fondatore del gruppo “Urban Think Tank”, 2018
"Come ogni micro comunità anche Torre David ha una propria struttura decisionale. Come descritto nel libro, sarebbe un errore comprendere Torre David come una democrazia rappresentativa pura o come interamente guidata dal consenso. La sua struttura di leadership è una sequenza di cerchi concentrici di influenza e autorità. il circolo più interno, noto come "La Diretiva", ruota intorno al presidente della comunità Alexander “el niño” Daza, il pastore della chiesa locale." Alfredo Brillembourg, socio fondatore del gruppo “Urban Think Tank”, 2018
“L'obiezione più comune ai cambiamenti nella politica pubblica, volta all’aumento del controllo degli alloggi da parte degli utenti a scapito delle istituzioni centralizzate, è che, a detta delle stesse, si abbasserebbero gli standard abitativi. Tuttavia, gli standard che gli obiettori hanno in mente, non sono qualcosa che può essere raggiunto con le risorse disponibili, ma, piuttosto, rappresentano l’interpretazione stessa dell'obiettore di ciò che l'abitazione dovrebbe essere.”
John Turner, Freedom to build, 1973.
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La Torre David, Iwan Baan
Fotografie della vecchia e nuova residenza degli ex-occupan� della Torre David. a sinistra: Fotografia dalla strada del complesso “Grupo Confinanzas”; a destra: Il nuovo quar�ere popolare realizzato a Zamora City per ospitare gli sfra�a� della Torre David, ad oggi non ancora completato.
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La comunità sviluppatasi nella torre David, formatasi in uno spazio fisico pieno di insidie e di avversità, è stata capace, forse proprio grazie ad una condizione di estremo bisogno comune a tu� gli occupan�,di prosperare e autoregolarsi. Indubbiamente la preesistenza di valori, in par�colare religiosi, comuni alla maggior parte degli occupan�, ha facilitato la coesione sociale, la cooperazione e la promozione di comportamen� rispe�osi della legge.14 Il fine di questa premessa non è incoraggiare i governi all’abbandono dei loro immobili, né tantomeno elogiare una pra�ca pericolosa come l’occupazione illegale, che spesso – così come al TOD – coincide con condizioni di vita al limite dell’acce�abilità. L’obie�vo è invece mostrare e dimostrare come le pra�che di autoges�one e autocostruzione possano raggiungere livelli di aggregazione sociale che, i moderni interven� di housing sociale realizza� da archite� e urbanis�, spesso non riescono ad eguagliare. In merito John F. C. Turner asseriva: “Illegal barriadas are far more productive, and, in all senses, economic, than technologically sophisticated methods”. Egli ha osservato che, quello che “mass of people have wrought with their own hands” era decisamente superiore a “supposedly “low-cost” housing project build for them”.15 Questa affermazione, comprovata dall’esp-
erienza della torre David e risalente agli anni ’60, è oggi più a�uale che mai, sopra�u�o nel contesto italiano ed europeo dove, sempre più di frequente, si assiste al lento declino fisico e sopra�u�o sociale dei grandi proge� per l’edilizia popolare e, fa�o ancora più preoccupante, non sono solo i cosidde� “gigan� del modernismo” a fallire ma anche gli insediamen� più moderni che, al contrario dei loro predecessori, dovrebbero essere ben consapevoli dell’importanza dell’aspe�o comunitario nella buona riuscita di un qualsiasi proge�o abita�vo. La validità dell’approccio “spontaneo”, tacitamente riconosciuto dalle amministrazioni pubbliche come unica soluzione possibile nell'immediato, è stata ufficialmente riconosciuta con l’assegnazione del Leone d’Oro per il miglior proge�o rappresentante il tema del “Common Ground” alla Biennale di Venezia del 2012. Si legge nelle mo�vazioni della premiazione: “La giuria elogia gli architetti – riferendosi ai membri del UTT – per aver riconosciuto la potenza di questo progetto trasformazionale: una comunità spontanea ha creato una nuova casa e una nuova identità occupando la Torre David, e lo ha fatto con talento e determinazione. Questa iniziativa può essere intesa come un modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali".
14 Housing in the Expanded Field, Lotus Interna�onal 163, 2017
15 The CIAM discourse on urbanism, 1925-1960, Eric Paul Mumford, 2000.
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CASO STUDIO PONTICELLI
L’insieme dei saggi illustra� precedentemente analizza� offre un panorama complesso di situazioni e di interven�. La matrice culturale che lega le diverse stru�ure archite�oniche – al pari del degrado fisico e sociale che ne ha decretato il fallimento – è stata solo la base per la catalogazione delle diverse soluzioni ado�ate. Di seguito viene proposto il caso studio del Rione de Gasperi di Pon�celli, nel tenta�vo di sinte�zzare e schema�zzare le differen� modalità di intervento u�lizzate negli ul�mi 50 anni a�e al recupero socio-funzionale delle opere residenziali tardomoderniste. L’esempio napoletano si presta egregiamente al divenire “cavia” per la sperimentazione dei diversi interven� per tu�a una serie di mo�vazioni che, in diversi modi, lo legano ai più no� e discussi complessi precedentemente analizza�. Il primo e più importante mo�vo sta proprio nel fa�o che, nonostante sia il periodo che il riferimento ideologico e culturale alla base dell’edificio siano gli stessi degli altri casi, la sua costruzione non è a�ribuibile a nessun “grande archite�o” della seconda metà del ‘900 anzi, al contrario, non ci è stato possibile stabile con certezza l’autore dell’opera – l’unica traccia è data dall’elenco dei proge�s�, urbanis� e archite� coinvol� nella realizzazione del Piano Straordinario di Edilizia Residenziale di Napoli Est. Questo anonimato libera noi e l’edificio da una non indifferente pressione culturale, perme�endoci al tempo stesso di me�ere in discussione un modello, distruggendolo, trasformandolo, polarizzandolo o densificandolo. Un altro elemento di non trascurabile rilevanza è il fallimento del Piano di Zona di Pon�celli e il conseguente degrado fisico e sopra�u�o sociale che questo ha provocato. Questa condizione fallimentare, comprovata dal con�nuo susseguirsi di even� di cronaca che hanno profondamente segnato l’immagine del quar�ere, è paragonabile alle diverse situazioni di degrado che, in contes� più sperimentali, ha portato all’a�uazione di dras�che o meno trasformazioni del tessuto urbano. Inoltre anche le condizioni e le cause che hanno determinato tale fallimento sono riscontrabili in mol� dei casi studio analizza� in precedenza; condizioni quali: la segregazione socio-culturale dell’area, l’occupazione abusiva dell’immobile, l’abbandono funzionale da parte degli en� pubblici, la presenza più o meno influente della criminalità organizzata e la non corre�a o completa realizzazione del proge�o – da cui la mancanza dei servizi per la comunità previs� in fase proge�uale. L’insieme di ques� e di altri fa�ori – la cui individuazione è rimandata ai singoli casi studia� – ha portato ad una condizione sociale analoga a quella riscontrata in altri contes�, in par�colare a quella rilevatasi nelle Vele di Scampia, nello ZEN di Palermo e nel Corviale di Roma. L’insieme di ques� fa�ori – ideologici e sociali – ha reso la scelta del caso studio di Pon�celli un passaggio quasi naturale e ci ha permesso di sinte�zzare e raggruppare le diverse strategie analizzate nei capitoli preceden�. Tu�avia ci preme so�olineare come il seguente paragrafo non intenda né essere una proposta proge�uale per l’area, né tantomeno scegliere o esprimere preferenze in merito ai diversi approcci a�ua� nei diversi contes�. L’intento è invece quello di sinte�zzare le varie soluzioni al fine di concre�zzare su di un unico contesto i diversi principi estrapola� dalla ricerca, in modo da rendere più immediata la comparazione e l’eventuale integrazione delle diverse strategie.
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Rione De Gasperi
Rione De Gasperi -198123 de Enero -1958Tour Bois-le-PrĂŞtre -1959Stadtvillen -1968Robin Hood Gardens -1972Vele di Scampia -1975Bijlmermeer -1975Southgate Estate -1977Corviale -1982ZEN -1983Torre David -1990-
ANALISI
BREVI CENNI STORICI La trasformazione di Pon�celli in periferia ci�adina comincia con la ricostruzione del dopoguerra e la grande speculazione edilizia che in ci�à si ebbe con il sindaco Achille Lauro. In questo periodo furono costruite cen�naia di case popolari che cos�tuirono rioni monofunzionali come ad esempio il Rione De Gasperi, il Lo�o 0, il Parco Conacal e il Parco Galeazzo. L'area orientale di Napoli era il distre�o più esteso incluso nel PSER (Piano Straordinario di Edilizia Residenziale), al cui interno il piano di zona di Pon�celli ha visto la realizzazione di 3.700 nuove case delle 13.000 previste dall’intero programma straordinario. In meno di un secolo l’intera area Est di Napoli è passata dall’essere completamente rurale al divenire una grande area industriale con tu�e le infrastru�ure annesse. Al fine di fornire un alloggio a più di 18.000 persone – principalmente operai delle nuove zone industriali – le nuove abitazioni sono state costruite in superblocchi – di ispirazione post-modernista – la cui scala sovrasta quella dei complessi abita�vi precedentemente esisten�. Inoltre i nuovi edifici sono sta� realizza� con elemen� prefabbrica� al fine di velocizzarne la costruzione, e questo ha accentuato l’omologazione e standardizzazione dei nuovi rioni. La metamorfosi di quest'area generata dal nuovo patrimonio edilizio è stata aggravata dal terremoto dell’80 – il quale causò un repen�no inurbamento del paese – che sancì la trasformazione di Pon�celli da borgo rurale con finalità agricole a propaggine metropolitana del capoluogo campano. A quasi 40 anni di distanza Pon�celli rappresenta ancora oggi un esempio emblema�co del processo di ges�one post-sisma del panorama abita�vo napoletano. Le differen� strategie per la ges�one dell’emergenza abita�va – abitazioni temporanee, nuovi complessi residenziali, recupero e riqualificazione del patrimonio esistente – sono ancora esisten� e co-esisten� e definiscono oggi il nuovo paesaggio post-sisma della periferia. Diverse sono le cri�cità derivan� da un’interazione forzata e non pianificata tra differen� �pologie abita�ve e dal conseguente diverso uso degli spazi pubblici e priva�. L’insieme di queste cri�cità rappresentano parte dell’innegabile fallimento del Piano di Zona di Pon�celli, comprovato dal susseguirsi di even� di cronaca che ne rispecchiano il fallimento sociale e culturale. A�ualmente i principali problemi che cara�erizzano l'area possono essere riassun� come segue ed essere intesi come conseguenza dire�a e indire�a del programma PSER: • Le case temporanee sono diventate case permanen�; • La mancanza di infrastru�ure e servizi pubblici causata dal mancato completamento delle re� e delle a�vità pubbliche pianificate; • Frammentazione urbana (sociale e spaziale) con dinamiche di segregazione tra i superblocchi PSER e i complessi residenziali priva�; • Dismissione delle aree industriali – a causa della decisione dell’Unione Europea di ridurre la produzione di ferro e acciaio in Europa – e il conseguente incremento del tasso di disoccupazione; • Decadimento stru�urale e tecnologico del patrimonio abita�vo provocato dalla mancanza di manutenzione e dalla variazione delle des�nazioni d’uso originarie; • Degrado diffuso degli spazi aper� e abbandono delle aree verdi.
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EVOLUZIONE STORICA - Mappe diacroniche -
1890
EPOCA DI COSTRUZIONE - Mappa sincronica -
Pon�celli è composta dal centro storico e dai suoi quar�eri periferici, suddivisi tra edifici residenziali, si� industriali abbandona� e campagna. 1. Il centro storico ospita la sede del comune, la chiesa e le piccole imprese al servizio della ci�adinanza. La principale �pologia costru�va dell'insediamento originario è la casa a corte; con la prima espansione urbana, invece, si è riscontrata una crescita lineare lungo la strada principale. 2. Allontanandosi dal centro, subentrano gli insediamen� abita�vi sviluppa�si tra gli anni ‘40 e ’80. Si tra�a di complessi residenziali prefabbrica� in pare� di cemento e cartongesso; rioni (De Gasperi, Incis, Lo�o Zero, Santa Rosa, Conogal) che servono solo la funzione di dormitorio. Sono contes� isola�, separa� dal tessuto urbano circostante e spesso sono privi di qualsiasi �po di servizio o azienda. Il loro scopo era quello di raccogliere numerosi immigra� dall'entroterra e gli sfolla� del terremoto del 1980. Sono ancora luoghi malsani e sovrappopola�, di scarsa qualità archite�onica. 3. Andando sempre più verso la periferia si incontrano aree meno urbanizzate, con abitazioni unifamiliari basse, e la presenza di campi col�va� (per la produzione di ortaggi, fiori e piante che saranno colloca� nei merca� locali) o di terreni abbandona�.
ANALISI DEL VERDE
A�raverso l’analisi del verde è possibile notare come, nonostante il cara�ere prevalentemente agricolo dell’area, sono oggi presen� molte aree abbandonate o degradate, fru�o di una repen�na e incontrollata urbanizzazione. L’incremento demografico del borgo ha portato alla realizzazione di grandi opere residenziali alle quali, tu�avia, non ha fa�o seguito un altre�anto programmato ridisegno degli spazi residuali, degli inters�zi tra gli edifici, in brave, degli spazi per la colle�vità.
EVOLUZIONE STORICA DEL RETICOLO IDROGRAFICO E DELL’USO AGRICOLO DEL TERRITORIO - Mappe diacroniche -
ANALISI DEI SERVIZI TIPOLOGIE AGGREGATIVE
Pon�celli è storicamente una dei borghi più importan� non solo di Napoli ma dell’intera regione campana. I suoi terreni infa� sono da secoli lavora� intensamente e, grazie all’esperienza dei suoi col�vatori, sono tra i maggiori produ�ori di ortaggi del’intera regione. Già dalla fine del XIX secolo i contadini residen� nell’area cominciarono ad insediarsi in prossimità di una delle vie di comunicazione principali del capoluogo. In quest’area sorsero le prime cor� che, nate originiariamente con l’intento di svolgervi piccole lavorazioni domes�che legate alla col�vazione, si trasformarono presto in veri e propri luoghi aggrega�vi capaci di me�ere insieme grandi e bambini. Questa �pologia aggrega�va contradis�ngue ancora oggi il paese, anche se le speculazioni edilizie del secondo dopoguerra ne hanno minato l’efficacia. I nuovi complessi residenziali realizza� tentano di emulare la �pologia a corte, a�raverso l’accorpamento di grandi edifici, il cui principio fondante era l’indipendenza funzionale, creando così degli spazi ambigui, spesso disumanizzan� e sempre fuori scala.
DATI SULLA POPOLAZIONE RESIDENTE
ANALISI DELLE STRADE E DEI LIMITI Le periferie napoletane iniziano a formarsi a par�re dall’età fascista, quando tra il 1925 e il 1927 vengono annessi i casali dei comuni limitrofi al territorio comunale napoletano ricos�tuendo l’an�co ager neapolitanus. Dal secondo dopoguerra in poi, fu l’edilizia residenziale pubblica a marcare ques� territori e ad alterarne l’integrità: fu la mano pubblica, svincolata da qualsiasi logica di piano, a tracciare il percorso per lo sviluppo futuro. I nuovi quar�eri periferici sorsero come aggiunte ai centri storici dei casali o come modelli di quar�eri autosufficien� nel rispe�o della cultura del decentramento razionalista. I principi a cui si ispirarono sono quelli della “cultura del quar�ere” contenuta nelle raccomandazioni e prescrizioni dell’INA-casa, e, inoltre, va riconosciuta una certa a�enzione al contesto ambientale e al rapporto con il preesistente. Pur se apparentemente sconnessi da una logica unitaria, i quar�eri periferici degli anni ‘50 avevano ancora la possibilità di determinare una crescita più stru�urata della ci�à. Furono invece le realizzazioni dei grandi proge� di edilizia economica e popolare esegui� tra gli anni ’60 e ‘70, ad alterare in maniera irrimediabile il rapporto tra centro e periferia, come ad esempio il piano di Pon�celli. Il quar�ere è la concre�zzazione del mito razionalista, con il gigan�smo della rete stradale e delle stecche abita�ve, svincolate da qualsiasi rapporto con il contesto ambientale e irrispe�ose dei modelli �pologici e delle consuetudini sociali degli abitan� insedia�, che alterano il rapporto con i centri storici dei casali e con le preceden� realizzazioni degli anni ‘50, trasformando anche queste ul�me in brandelli di tessuto urbano, avulsi da qualsiasi logica unitaria. Il mosaico di quar�eri residenziali popolari realizza� nel corso degli anni ‘80 ha determinato oggi una delle zone più frammentate del tessuto urbano napoletano. La Pon�celli di oggi appare alla vista del pedone come un insieme di recin� for�fica�, dove la maggioranza degli affacci su strada è segnata da cancellate e muri, che fungono da barriera di in/sicurezza tra edifici pluripiano degli anni ’80 e i quar�eri chiusi in sè stessi degli anni ’50, mentre non mancano assi infrastru�urali incomple�, discariche abusive e aree abbandonate.
EVOLUZIONE STORICA DELLA RETE INFRASTRUTTURALE - Mappe sincroniche 1775
1836
1936
1980
2001
STRATEGIE
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DENSIFICAZIONE DEL TESSUTO URBANO
PERMEABILIZZAZIONE DEL PIANO TERRA
TRASFORMAZIONE DELL’INVOLUCRO
CREAZIONE DI UN TESSUTO COMUNITARIO
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