suoni e sapori

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INIZIARE CON UN RITORNO Ishonosuke Uwano è un soldato di vent’anni quando, nel 1943, raggiunge l’Armata Imperiale sul fronte russo, che divide l’isola di Sakhalin, nel Pacifico settentrionale. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, sconfitto insieme al suo esercito, il soldato Uwano sfugge ai campi di lavoro russi, rimane a Sakhalin e nel 1958 sparisce. Lo considerano disperso e, all’alba del 2000, lo dichiarano deceduto. Invece è vivo. Si muove in Unione Sovietica, viaggia e nel 1965 si sposa in Ucraina, dove risiede fino al 2006, quando decide che è arrivato il momento di tornare a casa. Per riabbracciare i fratelli, le sorelle, gli amici. Per rivedere la vecchia casa e pregare sulla tomba dei genitori. Per scoprire se i ciliegi in fiore sono proprio come se li ricorda, diversamente dalla lingua, che invece non sa più parlare né capire. Sessantatré anni dopo la sua partenza, inatteso figliol prodigo, rientra in Patria. Giornali e televisioni raccontano la storia. L’incontro con il fratello e le sorelle – cosa insolita da quelle parti – tralascia ogni cerimonia e scivola nella commozione. Il governo invece, pragmaticamente, gli comunica che – pur attivandosi per restituirgli la cittadinanza – lo considera “uno straniero”. Ma al soldato Uwano la burocrazia interessa poco: è felice di essere tornato nel Paese più complicato, enigmatico e seducente del mondo. Nell’isola di Zipagu (Cipangu), come l’avrebbe chiamata Marco Polo: in Giappone.

BREVE ESPERIMENTO DI “NIPPOLOGIA” Pensate a tutte la parole giapponesi che conoscete. Sushi, sashimi, sakè, bonsai, ikebana, kimono, manga, mazinga, samurai, tatami, geisha, origami, tamagochi, judo, sumo, karate e banzai.


Campi di tè verde


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È possibile che il vostro elenco sia più articolato, ma quasi certamente comprenderà queste parole. È la dimostrazione che le suggestioni culturali – e non solo - di una nazione così lontana sono ormai parte integrante della vostra vita. Ma anche che l’immaginario comune del Giappone, proprio perché si nutre di questi fattori, è spesso troppo stereotipato e pieno di pregiudizi, al punto da distorcere la profonda ed eterogenea ricchezza che si cela dietro le apparenze. Per questo motivo, in alcuni dei prossimi paragrafi cercheremo di introdurre parole nuove; mentre negli altri proporremo modi nuovi di leggere quelle già note.

AMANONUHOKO All’origine dei tempi due esseri divini - Izanagi, l’essenza maschile, e Izanami, l’essenza femminile – salgono sul Ponte Fluttuante del Cielo e armati dell’Amanonuhoko, l’Alabarda Celeste della Palude, mescolano il mare sottostante. Alcune gocce d’acqua salata cadono dalla lama e si trasformano nell’isola di Onogoro, dove le due divinità si stabiliscono. Avete letto la base della mitologia giapponese, un sistema complicatissimo e tortuoso di credenze, tradizioni, riti, divinità e spiriti per descrivere il quale non basterebbero probabilmente tutte le pagine di questo libro. Vi sia sufficiente sapere che i miti giapponesi spesso si distinguono a fatica dalla realtà storica e che dall’unione tra Izanami e Izanagi nacquero varie schiere di figli: la prima di esse creò le otto isole principali di un arcipelago che ne raccoglie più di tremila e si allunga nel mare come un arco teso lungo il confine più orientale del pianeta. Infine, vi basti credere che da quella discendenza divina nacque Jimmu Tenno che nel 660 a.C. si proclamò primo imperatore di una nazione che ancora oggi, sotto forma di monarchia parlamentare, ribadisce l’origine celeste dei suoi regnanti.


Giardino giapponese


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NIPPON-KOKU Qui la luce sorge per illuminare il mondo. “Giappone” - ufficialmente Nihon-koku o Nippon-koku -, scritto nei kanji, i caratteri ideograficiche lo compongono, significa proprio questo: “origine del sole”, “Paese del Sol Levante”.È un territorio isolato e difficile, che “galleggia” nella zona più a rischio del pianeta, dove la terra trema in media 3 volte al giorno ed è quotidiana l’attesa di quello che dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, a San Francisco, chiamano The Big One: il più grande cataclisma della storia. Non solo. In Giappone esistono 50 vulcani ancora particolarmente attivi, accanto ad altri 165 ormai spenti, e non è raro che dal mare si levino improvvisi e pericolosi tsunami. Ne deriva che vivere su queste isole - che sono anche circondate dai più profondi abissi del pianeta - non è cosa da tutti. Serve una dose infinita di pazienza, tenacia, ingegnosità, rigore e orgoglio. Bisogna essere giapponesi, proprio come il soldato Uwano, che per 63 anni ha tenuto sepolta con severità la nostalgia di casa, ma alla fine ha dovuto soccombere davanti al peso e alla profondità dei ricordi e della propria identità.

SAKOKU Significa “Paese blindato”. È il nome della politica isolazionista che il governo degli shogun (Sei-I-Tai-Shogun: "generalissimo inviato contro i barbari") impone nel 1639 e che per più di duecento anni taglia fuori il Giappone dal resto del mondo, con l’eccezione di una microscopica colonia olandese, “recintata” sull’isola artificiale di Deshima. Viene decisa per mantenere l’ordine e la tranquillità interna dopo il primo sbarco di commercianti e missionari europei, avvenuto nel 1542. Per riuscirci gli shogun non esitano a espellere gli stranieri e imporre la pena di morte per i giapponesi che vogliono espatriare. Durezza militare, cinica al punto da non soccorrere gli scampati ai frequenti naufragi che avvenivano al largo delle coste. Strategia drastica, lunga ma che termina l’8 luglio del 1853, quando all’orizzonte compaiono quattro navi nere che battono bandiera

americana. Dopo una trattativa estenuante gli viene concesso di gettare l’ancora. È un momento decisivo: segna l’inizio della storia moderna del Giappone e innesca quelle che in futuro saranno la sua forza economica (nonostante le cicliche crisi economiche è il Paese più ricco dell’Asia e nel mondo è secondo solo agli Stati Uniti) e la sua sottile, implacabile, silenziosa e globalizzata influenza culturale, tecnologica e artistica.

SAKURA Significa “albero della ciliegia”, i cui fiori identificano da sempre l’atmosfera e il contesto ambientale giapponese. Con l’acero rosso rappresenta l’emblema di una vegetazione ricchissima, che passa dalla flora sub-artica delle isole più settentrionali a quella quasi tropicale dei territori più a sud, immersi nel Mar della Cina. Una varietà raccolta in boschi e foreste che coprono il 70% del territorio nazionale e fanno del Giappone il secondo Paese più verde del mondo dopo la Finlandia. Quella nipponica è una vegetazione che cresce a immagine e somiglianza del popolo con cui convive: è ordinata e paziente nell’accettare la meticolosa cura, l’architettura, l’ordine e la composizione che le vengono imposti dall’uomo. Sembra che anche un solo fiore di ciliegio, in queste terre, non sbocci a caso, ma in virtù di un calcolo preciso, che somma la ricerca della bellezza con quella dell’equilibrio. Non a caso il Giappone, tra le tante particolarità, è noto per una pratica diventata arte: quella di pensare, disegnare e allestire giardini che “non-sono-solo-giardini”, ma perfetti meccanismi naturali. Incantevoli luoghi di meditazione dove la forza e la leggerezza della natura diventano un palcoscenico interiore in cui rappresentare la grazia e la fragilità della vita. Proprio il fiore del ciliegio è il simbolo di appartenenza alla classe guerriera più famosa del Giappone. Hana wa sakarugi, hito wa bushi: “tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”. Tra i guerrieri, il samurai.


Foresta di bamb첫


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INTERMEZZO LETTERARIO #1 “Il perfetto samurai non deve mai fermare la sua attenzione sulla spada dell’avversario; né sulla propria, né sul colpire, né sul difendersi, ma deve solo annullare il proprio io; deve sapere che non è con la spada ma con la non-spada che si vince; che i maestri forgiatori di spade raggiungono l’eccellenza della loro arte attraverso l’ascesi religiosa.”

BUSHIDY :

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Samurai significa “servitore” e il Bushidÿ (la “via del guerriero”) è il suo rigido codice d’onore, composto da sette precetti da seguire in battaglia e nella vita. Il concetto è simile a quello di Cavalleria, con la differenza che in Giappone, per la durata estenuante del periodo medievale (dall’inizio dell’anno Mille fino all’arrivo delle navi nere americane), è diventato parte del codice genetico nazionale, trasformato in un nucleo di principi etici di derivazione religiosa e – nel 1866 – in uno dei capisaldi del nazionalismo giapponese. Onestà e Giustizia. Gi. Yu. Eroico Coraggio. Compassione. Jin. Rei. Gentile Cortesia. Completa Sincerità. Makoto o Shin. Meiyo. Onore. Dovere e Lealtà. Chugi. Parole e concetti da mandare a memoria, perché rappresentano gli obblighi morali di una casta (nella quale ogni rappresentante doveva essere al servizio di un padrone e chi non lo era perdeva lo status di samurai per diventare un ronin) che oggi è sinonimo di nobiltà guerriera, ma anche i tratti essenziali dell’identità nipponica e di un modo di comportarsi che spesso agli occidentali appare come troppo rigido, formale, per nulla incline all’emozione. Una freddezza morale che ha il suo estremo nell’espressione ultima del Bushidÿ e del carattere del samurai: il kamikaze.

KAMIKAZE È un nome composto da due parole: kami che vuol dire “dei” e kaze che significa “tempesta”. Così i giapponesi definiscono il tifone che li difese, nel 1281, dall’invasione dei mongoli e così finisce per essere chiamato chiunque decide, durante un’azione di guerra, di trasformare se stesso in un’arma, suicidandosi per la causa comune. Sono figure diventate pura iconografia, che nulla hanno a che vedere con la follia terroristica di chi si lancia contro obiettivi civili. Sono i piloti d’aereo venerati come divinità dai commilitoni. Suicidandosi vanno in cerca della via per l’immortalità, che non è tracciata in un paradiso religioso, ma nella memoria del proprio popolo. Sapete perché quando un kamikaze si getta sull’obiettivo grida banzai? Perché significa “diecimila anni”: la durata del tempo in cui – grazie al proprio sacrificio - si spera di essere ricordati. Il suicidio per il samurai e per il militare è addirittura ritualizzato – col nome harakiri o seppuku – in un obbligo morale di fronte al disonore della sconfitta o dell’essere venuti meno a uno dei principi previsti dal proprio codice di condotta. Meglio la morte a una vita macchiata dall’aver tradito il proprio Bushidÿ.

INTERMEZZO LETTERARIO #2 “L’allievo d’un grande fabbro di spade pretendeva d’aver superato il maestro. Per provare quanto le sue lame erano affilate, immerse una spada in un ruscello. Le foglie morte portate dalla corrente passando sul filo della lama venivano tagliate in due di netto. Il maestro immerse nel ruscello una spada forgiata da lui. Le foglie correvano via evitando la lama.”


Lottatori di Sumo



Pesci Koi


14 SEMPAI / KYHAI :

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Amélie Nothomb è una scrittrice belga nata in Giappone e qui tornata da straniera, per lavorare in una multinazionale, scontrandosi con automatismi e rituali gerarchici impenetrabili. Racconta la sua esperienza nel romanzo “Stupori e tremori”. Queste sono le prime, emblematiche righe: “Il signor Haneda era il capo del signor Omochi, che era il capo del signor Saito, che era il capo della signorina Mori, che era il mio capo. E io non ero il capo di nessuno. (...) Gli impiegati della Yumimoto, come gli zeri, assumevano valore solo dietro altre cifre.” Niente di più efficace per comprendere come tutto, in Giappone, sia vincolato al rispetto della più ferrea gerarchia di ruoli, compiti, competenze e anzianità. È un antico insegnamento spirituale: discende dal confucianesimo e in Giappone è stato talmente assimilato da essere applicato in qualsiasi tipo di rapporto quotidiano. In principio c’è il sempai, l’anziano, “colui che è arrivato prima”, il maestro. E poi c’è il suo kÿhai, il giovane, “colui che è arrivato dopo”, l’allievo. Il mondo delle relazioni personali, a Tokyo, ha la forma di una rigida scala gerarchica basata sulla duplicazione dell’interazione tra queste due figure: ognuno si sottomette al potere del superiore e tutti si inchinano alle esigenze di un interesse più alto, quello della comunità. Il giapponese, anche l’impiegato di livello più basso, vive per la sua azienda, al punto che quando si presenta, dopo il nome, dice per chi lavora e con quali mansioni. Schiavitù? Dipende, visto che a queste latitudini nessuno la considera tale: l’obbedienza è ritenuta necessaria per il progresso sociale, per raggiungere la massima efficienza e produttività, per essere il più competitivi possibile. È una virtù a tutti gli effetti, che però può generare veri e propri mostri. Fosse altrimenti, nel vocabolario nipponico non esisterebbe la parola karoushi: “morte per troppo lavoro”. È la causa, secondo le stime più affidabili, di circa diecimila decessi all’anno, duemila dei quali per suicidio. Casi limite – come quello di un ragazzo crollato dopo 17 mesi ininterrotti di lavoro –, ma reali e preoccupanti, che finiscono per offuscare il lato positivo di tutti questi schiaccianti meccanismi sociali. Come il grande rispetto dei giapponesi (perlomeno formale) per il prossimo e la famiglia. Come

l’educazione cerimoniosa che impone il dovere dell’inchino come formula di saluto e rispetto. Come lo smisurato senso dell’onore che fa degli impegni presi con chiunque un compito da portare a termine a qualsiasi condizione. Tutto questo (compreso quello che seguirà) per dimostrare che essere giapponesi non è scherzo e diventarlo fino in fondo è pressoché impossibile.

SATORI Significa “comprendere”: è “l’illuminazione che porta a un più alto livello di coscienza”. È il fine ultimo dello zen, pronuncia giapponese della parola cinese chan, termine che raggruppa l’insieme delle scuole buddiste nipponiche e una pratica spirituale di una vastità pressoché infinita. Lo zen “è tutto”: è una forma di meditazione profonda molto dinamica, legata all’idea del mu, “l’indicibile nulla” che non è morte e tantomeno negazione assoluta. Lo zen è “condizione di ogni possibilità”, partecipazione attiva al mondo e applicazione dei suoi precetti a qualsiasi ambito della vita, dell’arte, degli usi e dei costumi. Lo zen è il cuore pulsante della cultura, delle tradizioni, del modo di comportarsi dei giapponesi. Permea di spiritualità, spazi meditativi e ordine migliaia di discipline, dalla poesia all’ikebana (l’arte di disporre i fiori), dalla pittura al teatro, dalla cucina alle arti marziali e al Bushidÿ. Allo stesso modo è la base di un modo di vivere quotidiano che, per quanto possibile, cerca di bandire lo spreco, il disordine, la confusione e il ritardo. Non stupitevi se, dopo essere atterrati a Narita, l’aeroporto di Tokyo, qualcuno arriva a scusarsi profondamente con voi perché il treno per la città è in ritardo di due minuti. Solo due minuti. O se, aspettando quel treno, vedete i pendolari incolonnati senza nervosismo in tante code perpendicolari ai binari: le hanno formate nei punti esatti – segnati sul marciapiede - dove si aprono le porte. Non stupitevi se una delle prime cose che colpisce di una metropoli come Tokyo è proprio la sensazione di precisione, puntualità, efficienza e funzionalità.


Mercato del pesce di Tokyo


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EDO È il nome della baia dove entrarono le navi americane nel 1853. Così si chiamava la città oggi nota come Tokyo: la capitale e la perfetta metafora del Giappone. La sua area metropolitana è la più grande del mondo, con oltre 30 milioni di residenti, un quarto di una popolazione complessiva che vive stretta nel 30% di un territorio poco più esteso dell’Italia. Una concentrazione di quasi 340 abitanti per chilometro quadrato che a Tokyo raggiunge picchi da alveare e si distribuisce all’interno di una metropoli “multilivello”, fatta di sopraelevate e sottopassaggi, cavalcavia autostradali e gallerie pedonali sotterranee, composta da quartieri che sembrano piccole città del tutto autonome, ognuna con la propria specifica identità e il suo ordine, separate e distinte, in grado di incarnare tutte le anime nazionali: la tradizione (Asakusa, Ueno, Ikebukuro) e il più sfrenato lusso modaiolo (Ginza e Omotesando), il divertimento stile luna-park (Shibuya e Roppongi) e la compulsiva e istintiva tendenza nipponica alla tecnologia di ultimissima generazione (Akihabara). Zone popolatissime, in cui la sensazione di calarsi in un mondo a parte è accentuata dal fatto che il tasso di immigrazione è quasi nullo: muoversi per le vie di Tokyo significa camminare in mezzo (quasi soltanto) ai giapponesi, lasciandosi trascinare dalle ondate di folla che spingendo con fermezza – ma senza mai reagire o imprecare, sarebbe maleducato - cercano di ammassarsi nei vagoni della metropolitana scoperta, la Yamamote. Oppure salendo sulla monorotaia automatica che corre sospesa tra i grattacieli e atterra in mezzo alle luci del porto, in una sorta di viaggio tra le antiche suggestioni della tradizione e l’emozione di essere alle prese con un Paese dove il futuro arriva sempre in anticipo.


A-Dome, Hiroshima


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HIBAKUSHA Ci sono due città, in Giappone, dove l’impressione appena descritta ha avuto una dimostrazione terribile e tragica. A Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, il futuro arriva dal cielo, sganciato da due aerei americani, seminando morte e distruzione in un modo fino ad allora sconosciuto. Gli hibakusha sono “sopravvissuti” alle esplosioni atomiche che sancirono – il 6 e il 9 agosto di quell’anno - la definitiva conclusione della Seconda Guerra Mondiale, la resa del Giappone e l’inizio di una nuova era, che nonostante i vari accordi e moratorie, continua ancora oggi: quella nucleare. Ogni anno a Hiroshima e Nagasaki muoiono ancora migliaia di hibakusha per colpa delle radiazioni che assorbirono quel giorno, quando il sole esplose sopra le loro teste, bruciando occhi, gambe, braccia; spazzando via ogni cosa nel raggio di chilometri. Adesso Hiroshima è una città “normale” e così Nagasaki. Ma tra i grattacieli, le gigantesche sale-giochi e una gioventù che spesso dice di ignorare cosa accadde quella mattina, spuntano resti inquietanti come presagi. Uno di essi, a Hiroshima, è l’A-Bomb Dome. Prima delle 8 e 15 minuti del 6 agosto 1945 è la sede dell’Industrial Promotion Hall. Dall’istante successivo all’esplosione le sue macerie si trasformano nel monumento alla capacità dei giapponesi di rinascere, testardi e tenaci, dalle proprie ceneri: oggi hanno le sembianze di un pugno costantemente teso e serrato contro la cieca follia distruttrice dell’uomo.

INTERMEZZO LETTERARIO #3 “L’arte del più grande maestro della cerimonia del tè, Sen-no Rikyu (1521-1591), sempre ispirata alla massima semplicità, s’espresse anche nel progettare giardini intorno alle case del tè e ai templi. Gli avvenimenti interiori si presentano alla coscienza attraverso movimenti fisici, gesti, percorsi, sensazioni inattese. Un tempio vicino a Osaka aveva una vista meravigliosa sul mare. Rikyu fece piantare


Coltivatrice di riso ai piedi del monte Fuji


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due siepi che nascondevano completamente il paesaggio, e vicino ad esse fece collocare una vaschetta di pietra. Solo quando un visitatore si chinava sulla vaschetta per prendere l’acqua nel cavo delle mani, il suo sguardo incontrava lo spiraglio obliquo tra le due siepi, e gli si apriva la vista del mare sconfinato. (…) Chinandosi sulla vasca e vedendo la propria immagine rimpicciolita in quel limitato specchio d’acqua, l’uomo considerava la propria pochezza; poi, appena sollevava il viso per bere dalla mano, lo coglieva il bagliore dell’immensità marina e acquistava coscienza d’essere parte dell’universo infinito.”

CHA NO YU Significa “acqua calda per il tè” e indica una delle più note arti di derivazione zen: la cerimonia del tè, che tramandata nei secoli, è qualcosa che va ben oltre la banale preparazione di una bevanda. È un’alchimia di gesti di altissima spiritualità, per la quale si usa il verbo tateru (“celebrare”) e che va allestita, a voler essere precisi, in una stanza apposita, con finestre schermate in modo che la luce filtri in modo sommesso e una porta bassa per costringere chi entra a piegarsi in segno di umiltà. La cerimonia può durare ore e si svolge secondo stili e forme diverse. In base alle stagioni cambia la posizione del bollitore: in un buca quadrata d’inverno e in autunno, sopra un braciere posto sul tatami in primavera ed estate. Il tè usato è verde e polverizzato (matcha), mescolato ad acqua calda con un frullino di bambù (chasen): ne risulta una sospensione ben diversa dall’infusione a cui siamo abituati in occidente, perché la polvere di tè si beve insieme all’acqua. Il rito è celebrato dal teishu: inginocchiato, con le punte dei piedi rivolte all’esterno, posiziona gli utensili e versa il tè nella tazza (chawan; alcune di esse, di finissima ceramica e antichissime, sono esposte nei musei e valgono delle vere fortune). Il primo ospite è invitato a consumare il dolce e bere il tè. Poi restituisce la tazza al teishu, che la lava e ripete il rito con gli altri ospiti. Anche una donna può eccellere nella cerimonia del tè. Ma una donna particolare, unica al mondo: la geisha.


Tokyo Asakusa, Tempio di Sensori


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24 GEISHA Significa “persona esperta nelle arti” e con il samurai è uno dei simboli della tradizione giapponese nel mondo. Proprio per questo motivo porta con sé una serie di luoghi comuni che ne hanno distorto l’identità, anche in Giappone. Uno su tutti: non è una prostituta. Semmai – molto superficialmente – una cortigiana, esponente di spicco di un certo tipo di aristocrazia, confidente degli uomini di potere della nazione. Il suo lavoro è quello di vendere un sogno esclusivo, languidamente romantico, artistico, lussuoso, impeccabile: se poi si concede sessualmente, è solo per sua scelta. O almeno così dovrebbe essere. Perché la geisha è una donna padrona di se stessa, diventata tale dopo anni di studio e ferrea disciplina. Lo scopo di tanta fatica e abnegazione è formale e allo stesso tempo interiore: deve incarnare alla perfezione l’iki, il canone estetico su cui si basa l’identità giapponese. La geisha è la donna più raffinata e colta della nazione. Inizia la sua formazione, lontano dalla famiglia, attorno ai 9/10 anni in una scuola che le insegna a curare al meglio il corpo, a vestirsi solo con costosissimi kimono di seta, a truccarsi il viso con un pesante cerone bianco, occhi marcati di nero e labbra rosso fuoco. La sua è una vistosa maschera di grazia ed eleganza: deve eccellere in ogni cosa, dall’uso degli strumenti musicali più antichi al canto e alla recitazione, dal modo in cui farsi aria col ventaglio al Cha No Yu e alla calligrafia. Studia i testi classici, ma impara anche le più sottili tecniche di seduzione. Deve sia rappresentare che essere la donna ideale, combinazione ammaliante e stupefacente di fragilità (della carne) e forza (dello spirito).

HAIKU Makio Hasuike, Isao Hosoe, Tadao Amano. Mai sentiti i loro nomi? Sono designer giapponesi, tra i più quotati al mondo: lavorano in Italia e rappresentano l’apice visibile di un modello creativo e artistico che dal Giappone ha colonizzato – consapevolmente o meno – tutto il mondo, prendendo la spinta dalle solite e inevitabili regole zen e stabilendo che i principi primi e assoluti del design, dell’architettura e anche dell’organizzazione di un processo produttivo sono l’essenzialità, la semplicità, il minimalismo, la ricerca dell’efficienza:


Architettura d’interni


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26 bianco e nero, linee e angoli retti, togliere piuttosto che aggiungere. Questo è il contesto teorico di un approccio creativo che ha fatto scuola grazie al suo rigore che proclama la necessaria assenza di ogni futile elemento decorativo. Prendete questi concetti e applicateli in ogni ambito espressivo che riuscite immaginare: scoprirete che un giapponese ci ha già pensato, usando colori e materiali sobri, che esaltano i valori primari e immediati dell’esistenza e della natura. Conoscete la beat generation? Proprio questo movimento artistico ed esistenziale, negli anni ’50, perse la testa per l’essenzialità giapponese veicolata dallo zen, appropriandosi dell’haiku, pratica poetica basata sulla semplicità e non può avere più di tre versi, che bandisce le congiunzioni, evita qualsiasi “decorazione” lessicale e s’intreccia con la natura e l’alternarsi delle stagioni. È lo specchio poetico del modo in cui i giapponesi vivono l’arte, il design, l’architettura. Tenete presente anche che, se negli ultimi anni Louis Vuitton, marchio del lusso idolatrato al limite del feticismo a Tokyo e dintorni, ha visto moltiplicarsi i dati di vendita delle sue borsette lo deve all’estro di un giapponese, Takashi Murakami. Sua è la rilettura vincente della classicità del logo della griffe francese. Suo uno stile che unisce cultura figurativa, elementi tradizionali, tendenze dell'età contemporanea, manga e cartoni animati.

ANIMÎSHON Si abbrevia in anime e deriva dall’inglese animation, “animazione”. È il nome usato per catalogare tutta la produzione giapponese di cartoni animati, che dalla metà degli anni Settanta in poi ha letteralmente invaso il mondo, dagli storici Atlas Ufo Robot e Mazinga a tutti i titoli (anche da adulti e non solo robotici, come Lupin III) che oggi affollano - per citare l’esempio più palese - il palinsesto di Mtv. Derivano dal settecentesco Teatro delle Ombre e sono approdati in televisione nel 1963, quando fu trasmessa la prima puntata di Astro Boy. Si ispirano a una storia fumettistica di lunga data, quella dei manga, e sono diventati uno dei tanti marchi di fabbrica culturali di Tokyo nel mondo. Storie, sceneggiature e soggetti sono impostati sui consueti principi estetici e filosofici: molto spesso tra i protagonisti c’è un monaco zen; il Bushidÿ con la sua etica marziale fa da base a ogni scena di combattimento, il rapporto gerarchico tra sempai e

kohai è ben presente. Caratteristiche tipiche di moltissima produzione letteraria (da Kawabata a Mishima, fino a Banana Yoshimoto) e cinematografica (da Akira Kurosawa a Kenji Mizoguchi per arrivare a Takeshi Kitano). Fattori che, riletti e rivisitati, hanno decretato il successo anche di molte produzioni non giapponesi. Quali? Pensate alla Forza, a ObiWanKenobi, all’addestramento jedi di Luke Skywalker, a Guerre Stellari e vi sarete già dati una risposta.

ENKA Alla fine del 1800 in Giappone è proibito a chiunque parlare in pubblico. I politici, per aggirare la regola del silenzio, assumono alcuni cantanti e gli affidano il compito di diffondere idee e programmi attraverso le loro canzoni. Nasce così l’enka, genere musicale che deriva nella sintassi dall’ongaku (“musica”) tradizionale e si intreccia con la nuova kayokyoku (“musica occidentalizzata”). In ogni caso si tratta sempre di musica che deve sottolineare il testo e la parola. I giapponesi hanno da sempre il gusto della narrazione e attorno ad essa – durante il loro lungo Medio Evo - hanno costruito un vasto panorama artistico, che comprende il teatro (dal noh al kabuki), la danza e la musica. L’importanza del testo è tale che gli strumenti tradizionali utilizzati (quelli che le geishe devono imparare a suonare durante la loro formazione) sono stati pensati e costruiti per riprodurre i timbri della voce umana. L’ongaku più antica raccoglie centinaia di stili caratterizzati da strutture e suoni molto distanti dall’orecchio occidentale, con forti variazioni intermedie, quasi prossime alla stonatura, e una scala musicale particolare, che viene occidentalizzata dopo l’arrivo delle navi americane, nel 1853. Da quel momento la sensibilità nipponica inizia a generare migliaia di generi, sottogeneri e varianti, che prendono e frullano ogni tendenza internazionale e creano ibridi a volte discutibili e kitsch (come la bubblegum music, trash pop con strofe in giapponese e ritornelli in un inglese biascicato e improbabile), a volte talmente estremi da risultare prossimi al non-ascolto, come il durissimo e masochista noise dei Merzbow. Tra questi due estremi, c’è spazio per tutto il resto, compresi i 43 milioni di album melodici venduti – pressoché solo in Giappone - da Ayumi Hamasaki dalla metà degli anni Novanta ad oggi.



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28 ITADAKIMASU Significa “io ricevo”, ma anche “io ora inizio”. Vale come il nostro “buon appetito”: pronunciatelo prima del pasto o nel momento in cui vi offrono una semplice tazza di tè. Ha – poteva essere altrimenti? – un senso rituale che riporta al tempo in cui gli alimenti erano considerati doni divini da ricevere, accettare e interiorizzare. La cucina giapponese – come la cerimonia del tè – è molto attenta al ciclo delle stagioni ed esprime una sorta di armonia che la rende eccitante per tutti i cinque sensi. È un’arte che gioca sugli accostamenti formali e cromatici, sul senso estetico della composizione nel piatto. L’aspetto naturale degli elementi che compongono i cibi serviti non deve essere corretto o celato: ogni ingrediente deve essere riconoscibile e per quanto possibile rivelare immediatamente alla vista il proprio aspetto originale. L’esatto opposto della cucina occidentale, dove un piatto è tanto più riuscito quanto meno è possibile riconoscere (soprattutto alla vista) gli ingredienti di cui è composto. L’arte giapponese della cucina è un rito basato sul senso di accoglienza che il cibo deve dare a ogni commensale. Si mangia tutto con le bacchette, tranne il riso al curry e quello gratinato, per i quali si usa il cucchiaio. Dimenticatevi dell’europea separazione tra primo, secondo, frutta e dessert. In tavola vanno tutte le pietanze, molte delle quali conviviali, poste in un grande piatto centrale da cui tutti - a turno - possono attingere. Utensili, piatti, posate e ciotole sono lo specchio del modo di cucinare e servire le pietanze: linee essenziali, elevata funzionalità, materiali naturali e “a vista”. Legno, terracotta, ferro, ghisa. Al termine del pasto è d’obbligo esprimere la propria gratitudine per quanto consumato: gochisou sama deshita, “grazie per il cibo eccellente”. Attenti a come maneggiate le bacchette: mai infilarle in verticale nella tazza del riso perché è una pratica legata ai riti funebri. Se vi viene cucinata una minestra, è concesso – anzi, è segno di educazione – fare rumori e gorgoglii mentre la si assapora: dicono che la raffredda e ne esalta il gusto. E per finire, ma questo lo sapete già, si mangia seduti a terra, riuniti attorno a un tavolo basso. I giapponesi lo fanno da mille anni, da

quando gli imperatori erano figure di facciata e senza particolari poteri o autorità. Spesso erano bambini. Per salvare le apparenze e fingere che valessero più dei dignitari di corte, a tavola sedevano su una sedia, mentre gli altri, fintamente umili e sottoposti, stavano più in basso, accoccolati per terra.

SAKAMAI È il nome del particolare tipo di riso usato per ottenere il sake, la bevanda alcolica più bevuta del Giappone, nonché quella fermentata con la maggior quantità d’alcol al mondo (fino a un massimo del 20%). La sua storia è antichissima: risale al III secolo a.C., quando dalla Cina fu importata la coltivazione del riso. Da allora ad oggi non c’è stata cerimonia, occasione, festeggiamento in cui il sake non sia stato versato e bevuto. Ma per arrivare alla bottiglia, nel tradizionale formato da 1,8 litri, si è dovuto attendere più di duemila anni: 1878. Il sake è ottenuto per fermentazione multipla parallela, non contiene conservanti e – per quelli a “denominazione d’origine controllata” – additivi, non deve essere esposto alla luce naturale e non va conservato a temperature superiori ai 20 gradi, si sposa bene con qualsiasi cibo, a parte quelli molto speziati. In genere mantiene integre le sue qualità per un anno, ma certe selezioni raffinate vanno consumate entro 6 mesi dall’imbottigliamento. Condizioni di conservazione da seguire scrupolosamente: certi produttori si rifiutano di vendere ed esportare il loro sake se gli esercenti non forniscono adeguate garanzie in questo senso. Metodici e meticolosi anche quando si tratta di bere il loro “vino di riso”, i giapponesi.

TSUMARANAI MONO DESU GA Significa “non è niente di speciale” ed è la frase da recitare quando, invitati in una casa giapponese o a una cena a tema, consegnerete il regalo – piccolo o grande, modesto o prezioso - che è sempre importante portare con sé, come ringraziamento per l’invito ricevuto. I giapponesi, perlomeno quelli che non si sono ancora aperti del


tutto agli stili di vita occidentali, non concedono spesso a conoscenti e stranieri l’onore di aprire la loro casa. Ma se ritengono opportuno farlo, cercano di offrire il massimo dell’ospitalità, fino ad arrivare ad eccessi che possono quasi apparire ridicoli. Ne consegue che presentarsi a mani vuote è considerato molto – molto – scortese. Basta poco: un oggetto del vostro Paese d’origine o dolci (sempre ben accetti) accompagnati dalla frase rituale del titolo, che vi farà apparire umili e degni di rispetto. Non offendetevi se il padrone di casa non aprirà il regalo davanti a voi. Per lui è un atto di grande educazione: lo farà da solo, evitando imbarazzi inutili nel caso non gli sia gradito.

99 ALBERI E UNA SPIEGAZIONE C’era una volta un imperatore innamorato di una bellissima dama che però, fiera e altezzosa, decide di concedersi a una sola condizione: per 100 giorni consecutivi l’imperatore deve dichiararle il suo amore. Testardo e risoluto, prende alla lettera le parole della dama e per 99 mattine si presenta alla sua porta, ogni volta piantando un albero. Quando ne manca una per coronare il suo sogno d’amore, ormai certo e consapevole di aver dimostrato la profondità del suo sentimento, l’imperatore non si presenta dalla dama. Non lo fa quel giorno né mai più, lasciando a memoria di sé e del suo implacabile senso dell’onore un bosco di 99 alberi che si dice esistesse un tempo nei dintorni di Kyoto. Questa storia, insieme ai testi riportati nei tre intermezzi letterari precedenti, proviene dal libro “Collezione di Sabbia”, che raccoglie scritti di vario genere e natura di Italo Calvino, compresa una serie di articoli in cui lo scrittore italiano, nello stile acuto, curioso e minuzioso che l’ha reso celebre, racconta sensazioni ed esperienze di quando, nel 1976, fu invitato in Giappone per un ciclo di conferenze. La precisa e profonda leggerezza delle sue parole è forse lo strumento più adatto per affrontare da occidentali e senza pregiudizi lo sterminato e complicato universo culturale nipponico.


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Panoramica di Yokohama



goma ae

chirashi sushi

suki yaki

SUKI YAKI Il sukiyaki è uno di quei piatti considerati sociali perché riuniscono, con un unico piatto, più persone.

su miso

Generalmente viene preparato nei giorni più freddi dell'anno ed è un piatto comune per le feste di capodanno. Gli ingredienti sono lentamente bolliti in una bassa pentola di ferro, in una miscela di salsa di soia, zucchero e mirin. Prima di essere mangiati vengono immersi in una piccola ciotola di uova sbattute. Si dice che, un sukiyaki, per essere passabile possa essere preparato con una piccola spesa.

maguro no tataki

temaki sushi

tenpura

COSA SERVE

udon

Ingredienti per 4 persone 400 g di roast beef tagliato a carpaccio 400 g di verdure miste di stagione Per salsa Soba: 4 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di Dashi o dado granulare 2 cucchiai di zucchero


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COME FARE

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1 1 In una ciotolina diluite il Dashi con due cucchiai di acqua tiepida. 2 A parte, in un piccolo tegame, versate la soia, lo zucchero, il mirin e l’aceto.

KUNIZAKARI NIGORIZAKE + HAKUTSURU YAMADANISHIKI

3 Aggiungete una parte della polpa di pesce e distribuitela lungo i gamberi. Arrotolate strettamente la pasta ottenendo un cannolo.

Per questa particolare ricetta, tendenzialmente dolce ma anche intensa e forte per la carne, si consigliano due tipi di Sake.

COSA BERE

Il primo, di buona struttura, Nigorizake freddo.

6 Saldate la pasta con un po' di acqua e farina mescolati. Una volta preparati tutti gli stick disponeteli in un vassoio metteteli in freezer per almeno 2 ore. Al momento di cuocerli fateli friggere in olio di semi caldo (180°) sino a che la pasta fillo sarà appena dorata.

Il secondo, a metà pasto, un Hakutsuru Yamadanishiki (un Futsuushu, sake con aggiunta di alcol) perché la natura della ricetta richiede di avere un Sake delicato, leggero e speciale che pulisce bene la bocca. Nigorizake Prodotto da: Nakano Shuzo (Kunizakari) in


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3

4

Handa (Aichi),

Benché torbido, si sente in bocca sempre liscio e

fama a

giapponese di amabilità/asciutezza)

Importato da: Alto Gusto

morbido riconoscendolo come il prodotto più

tutta la zona; le tecniche di produzione per la

Sando: 1.4 (discreta acidità);

Tipologia: Futsuushu Nigorizake (Sake torbido

famoso e rinomato di Kunizakari:

creazione di questo Sake sono quella tramanda-

Aminosando: 1.0 (aminoacidi presenti).

solo appena filtrato);

Temperatura di servizio: 5°C-10°C, prima di bere

te in

Gradazione: 15.3%.

Nihonshudo: -5.0 (appena dolce, forse il più

agitare la bottiglia.

Hakutsuru dai vari Tamba toji, esperti tecnici

Degustazione: dal profumo fresco del riso quali-

della cottura del riso e della sua fermentazione.

tà Yamadanishiki di cui è composto al 100%,

secco tra i Nigorizake giapponesi); Sando: 1.3 (leggera acidità);

Per l’Hakutsuru Yamadanishiki per il quale viene

Prodotto da: Hakutsuru Shuzo in Kobe (Hyogo),

questo Sake schietto dal gusto sapido appare

Aminosando: 1.2 (aminoacidi presenti). Grado:

usata l’acqua della sorgente “Miyamizu”, famosa

Importato da: Alto Gusto

morbido e vellutato e sempre piacevole: è quindi

14.0%.

per l’assoluta assenza di ferro e manganese al

Tipologia: Futsuushu ottenuto dalla fermenta-

di ottimo accompagnamento a tutto pasto.

Degustazione: dalla fresca fragranza, viene

centro dell’area di

zione di riso superiore Yamadanishiki 100% da

Temperature di servizio: freddo tra 10°C e 15°C,

pastorizzato velocemente e raffreddato, quindi

Nada; il riso utilizzato è al 100%

Hyogo(Nada) con successiva aggiunta di alcol;

temperatura ambiente oppure anche caldo tra

viene imbottigliato all’istante.

Yamadanishiki di Hyogo, riso da Sake che ha dato

lo

40°C e 45°C. Nihonshudo delicatamente secco +2.0 (grado GIAPPONE £ Atmosfere, suoni e sapori



temaki sushi

tenpura

TEMPURA

COSA SERVE

udon

Ingredienti per 4 persone 8 Gamberoni 300 g di filetti di pesce bianco 400 g di verdure miste di stagione (carciofi, zucca, asparagi, fagiolini) Per la pastella: 100 g di farina di frumento 00 1 tuorlo 150 g circa di acqua molto fredda


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1 1 In una terrina sbattete bene il tuorlo con l'acqua . Aggiungete la farina setacciata. Mescolate bene ma non troppo a lungo per evitare che l’impasto diventi colloso. Conservate in frigorifero sino al momento di usarla. 2 Mondate le verdure, lavatele e asciugatele bene. Tagliatele a piacere sia sa picchi che a bastoncini l'importante che siano piuttosto sottili per cuocere bene. 3 Togliete le teste ai gamberoni (potranno servire per un'altra preparazione), sgusciateli delicatamente e riducete i filetti di pesce a piccoli pezzi. Asciugate bene il tutto con carta da cucina. 4 Mettete del buon olio di semi di soia a scaldare, possibilmente in una friggitrice a bordi alti con cestello. Passate leggermente pesce e verdure nella farina e, poi, nella pastella. Fate sgocciolare l'eccedenza e mettete, mano a mano, un po' per volta,il tutto nella friggitrice. Questa frittura deve rimanere molto chiara.

HAKUTSURU DAIGINJOU YAMADANISHIKI

Pare che questo tipo di preparazione abbia origine dagli antichi pescatori portoghesi che nel periodo piĂš propizio della pesca, appunto la Tempora, per non gettare l'eccedenza di pesce pescato lo friggevano direttamente in barca conservandolo in una salamoia di vino e aceto.

COSA BERE

COME FARE

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4

Nonostante si tratti di un fritto è molto leg-

Prodotto da: Hakutsuru Shuzo in Kobe

Seimaibuai: 50%(eliminato il 50% di chicco

gusto fruttato tipico del Ginjou riesce

gero, raffinato e delicato: il fritto va molto

(Hyogo)

di riso);

comunque a dare una piacevole sensazione

d’accordo con il gusto del Ginjo, ottenuto

Importato da: Alto Gusto

Nihonshudo: +3.0 secco (grado giapponese

di freschezza e leggerezza dovuta all’equi-

da una notevole raffinazione del chicco di

Tipologia: Sake speciale Daiginjou (grande

di amabilità/asciutezza)

librio tra il riso Yamadanishiki e l’alcol

riso e

Ginjou: riso raffinato al 50%) ottenuto dalla

Sando: 1.4 (normale acidità);

aggiunto. Ottimo a pasto nonché prima e

fermentazione a bassa temperatura.

fermentazione

Aminosando: 1.0 (aminoacidi presenti).

dopo. Temperature di servizio: freddo tra

La bocca rimane pulita dall’olio del fritto

Yamadanishiki 100% da Hyogo con succes-

Gradazione: 15.3%.

10°C e 15°C oppure a temperatura ambien-

proprio da un sake di questo tipo.

siva aggiunta di alcol;

te; sconsigliato caldo. Degustazione: abbastanza profondo con GIAPPONE £ Atmosfere, suoni e sapori

di

riso

superiore


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