North Carolina Portraits [ITA]

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NORTH CAROLINA

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NORTH CAROLINA PORTRAITS

HOX

VOX

GIANLUCA

MISSERO

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Sommario Prodromi.......................................................................................... 6 Prima trasferta a Greensboro..................................................... 8 Wilmington.................................................................................... 18 Due giorni a New York............................................................... 26 Reidsville........................................................................................ 38 Due appartamenti a Greensboro............................................. 46 I locali di Greensboro................................................................. 58 Winston-Salem............................................................................. 78 Viaggio a Savannah....................................................................... 88 Aneddoti su Reidsville...............................................................102 Raleigh e Cary.............................................................................110 Charlotte.....................................................................................126 Aneddoti bizzarri.......................................................................134 Ritorno in Italia...........................................................................148

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PRODROMI

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Verso la fine del secolo scorso ero comproprietario, assieme a due soci, di Netstudio Company, una azienda del segmento IT/Sicurezza Internet/Multimedia con sede a Marcon (VE). Nel dicembre 2001 ne uscivo senza riuscire a portar via una ingente somma di danaro che mi spettava e volevo utilizzare per costruire un’altra azienda da solo, ma questa non è la sede per indagarne i motivi. Mi sono fatto mesi di depressione vera a livelli inconcepibili, stavo giorno e notte disteso su un divano a guardare il soffitto, a parte quando mi trascinavo al bagno o mangiucchiavo qualcosa che la mia compagna di allora mi metteva sotto il naso. Non ho alcun ricordo di quei giorni, come se fossi stato in coma, o sotto anestesia. Ormai mi davano per folgorato, ma una mattina mi sono risvegliato, e senza un motivo o un evento preciso avevo di nuovo contatto con la realtà, addirittura la volontà di ricominciare. Mi sono diretto al bagno, ripulito e sbarbato a puntino, vestito con il meglio che ho trovato in armadio (ormai avevo dimenticato di avere dei vestiti, stavo sempre in pigiama) e nel giro di una settimana ho trovato lavoro presso la Cooperativa Portabagagli di Mestre, con incarico al Ferrotel, l’albergo dei guidatori di treni in trasferta, dove rifacevo camere e gestivo a turno il traffico di ferrovieri, e in più pulivo uffici e a fine turno vagoni. I turni erano 8 ore di lavoro e 8 di riposo continuati, per cui entro breve diventi insonne o ti addormenti in piedi, alternativamente e non regolarmente, e il tutto è piuttosto pesante da sopportare. Ma un impiego, dopo che hai perso tutto ed eri dato per bollito, non si butta. Ci ho lavorato tre mesi, poi ad agosto ho saputo di una ditta di Mogliano, Solutia Italia, che cercava un grafico con competenze nella gestione colore, scansioni, impaginazione, creazione mockup (prototipi di prodotto), packaging, stampa su plotter e manualità artistica per la creazione e modifica di artwork. Bisognava produrre gift wrap, ovvero carta e borsette di carta illustrate da regalo. Io avevo fatto esperienza in ognuno di quei settori, per cui ho avuto la meglio sugli altri candidati e licenziatomi dalla cooperativa ho cominciato questa nuova esperienza. Per fortuna mi sono trovato subito in sintonia con Attilio, il manager esperto packaging della sede italiana di questa ditta USA e mi ha messo nelle condizioni di fare una grossa quantità di linee di prodotti, lavorando tranquillo. I proprietari hanno cominciato a chiamarmi in sede a novembre ed è partita la modalità pendolare tra Italia e North Carolina. Un’esperienza la cui parte passata oltreoceano ho voluto raccontare, per il piacere in sè di rimettere in ordine i ricordi, e per dare un elemento in più a chi voglia confrontare il North Carolina di oggi con quello di allora, agli albori del terzo millennio, poco dopo 9/11. 7


Prima trasferta a

GREENSBORO 8


Come accennato nell’introduzione, nei primi tre mesi a Solutia Italia con Attilio, il mio diretto superiore, abbiamo prodotto circa 250 pezzi, riuscendo a razionalizzare e ottimizzare al massimo la scelta degli artwork, tipi di carta, manici, formati e coerenza di scale colore per ogni linea. La rabbia di superare la mia triste esperienza come imprenditore mi ha spinto a mettere ogni energia, esperienza e caparbietà nel dimostrare la qualità del mio lavoro, e Attilio era ugualmente, se non di piÚ, determinato a raggiungere in quel nuovo passo della sua carriera un risultato straordinario. La combinazione di questi due approcci maniacali ha dato dei frutti che hanno superato le nostre aspettative e sorpreso il proprietario della Filcas, Massimo della Santa. Venuto in Italia a visionare i prototipi ci ha invitato a cena al Melograno, un ristorante elegante in centro a Mogliano, e ci ha notificato che a fine mese dovevamo andare per un paio 9


di settimane in sede a Reidsville, per vedere assieme ai venditori il nostro lavoro, e confrontarci con la loro esperienza rispetto alle richieste dei clienti, cioè le grandi mall, le catene di supermercati enormi come Wal Mart, Target, K-Mart, Four Season. La ditta distribuiva anche nei mercati europeo e asiatico, ma aveva più movimenti d’affari in USA, quindi era necessario che io e Attilio “assorbissimo” le differenze di gusto vivendo dentro la società americana. Lui era già stato su, e infatti - per esempio - mi aveva spesso avvertito di usare certi toni di verde e rosso (colori fondamentali nella carta e borsette da regalo natalizie) perché gli americani li preferiscono. Io avevo passato ore alla sera, dopo il lavoro, in internet a guardarmi le borsette fatte dalla concorrenza, però è innegabile che non puoi capire davvero la mentalità e i gusti di gente che vive in un altro continente se non la bazzichi e ci vai a bere qualche birra insieme. Inoltre io dovevo interagire con Raul Rizza, un ingegnere specializzato in macchine di stampa capace di prendere una Andreotti a 4 colori e trasformarla in un mostro lungo cento metri con tre stampanti tipografiche da quattro colori messe in linea, si potevano stampare contemporaneamente 3 carte da regalo con tre setup colori diversi, o dodici colori dichiarati sulla stessa carta! Una duttilità folle che non avevo mai visto in quasi venti anni di lavoro come grafico; ovviamente dovevo andare davanti alla macchina, parlare con questo ingegnere, stampare roba di prova e vedere assieme il risultato, fare esperimenti, soprattutto costruire al computer tavole cromatiche per Photoshop in modo da avere poi rispondenza dei colori quando stampavamo sulla Super-Andreotti. Naturalmente la notte prima della partenza non ho dormito, ero in paranoia totale e facevo ragionamenti folli, totalmente irrazionali. Pensavo: non capirò niente di quello che dicono, o non capiranno quello che dico io perché sono troppo scarso in inglese, dimenticando che erano tre mesi che ci parlavo al telefono quasi tutti i giorni, e ci capivamo, eccome, ma io volevo pensare lo stesso di non essere capace; e poi forse, anzi sicuramente, avevo fatto borsette brutte, e lo avrebbero scoperto veramente quando sarei stato là, esposto alle loro perculate; e immaginavo punizioni corporali tipo frustate e gogna, gente che mi sputava, sguardi pieni di rancore nei miei confronti. Mi aspettava l’inferno! Il viaggio in aereo è stato abbastanza massacrante, avevamo preso una combinazione con un cambio in Germania, a Francoforte, poi ha fatto il giro sopra la Groenlandia, insomma ci abbiamo messo 15 ore ad arrivare al JFK di New York. E al check-in mi è capitato un fatto che confermava i miei pensieri della notte precedente. La poliziotta era una vecchia di estrema destra, xenofoba al massimo, che ha cominciato a provocarmi chiedendo di giustificare tutto, anche la presenza di un ombrellino pieghevole in valigia, e alla fine chiedendomi, sprezzante, come mai con tutti i grafici migliori al mondo che hanno in USA sono andato a prendere un italianetto, uno straniero da un paesetto oltre oceano, che già ce ne sono troppi là! 10


È stato lì che mi sono girate le palle, e calmo, ma con tutto il disprezzo che potevo mettere nella voce, le ho detto “Hanno preso un italiano, uno che viene da un paese che ha conquistato il mondo con l’antica Roma duemila anni prima che esistessero gli USA, quando qua c’erano solo bisonti e indiani con le frecce, il paese che ha insegnato e insegnerà per sempre a tutti cosa è la moda e il design e la pittura e la cucina e la letteratura migliore del mondo! E hanno ragione ad avere preso me, chi cazzo può essere meglio di me, un campagnolo americano?” Non è vero che lo pensassi davvero, chiaro che può uscire un genio persino da un paesetto di montagna isolato con 30 abitanti in terzo mondo, ma volevo offenderla umiliando il suo patriottismo razzista. Una ignorante che chiama “lil’ country” il paese che ha dato i natali a Cristoforo Colombo, l’uomo che - ok, per sbaglio, all’italiana - ha scoperto l’America. Se c’è una cosa che mi fa innervosire sino a perdere il controllo è avere davanti un illetterato cafone che sproloquia con il suo unico neurone spastico. 5 minuti dopo ero in ufficio del commissario del posto di polizia del JFK. Attilio, vedendomi passare accompagnato da due poliziotti alla centrale, s’è messo le mani sulla faccia e ha borbottato qualcosa che suppongo essere stato un ammasso di imprecazioni e bestemmie, poi è riuscito a rientrare in sè e mi ha urlacchiato “ma cosa succede? Dove ti portano?” e io “una poliziotta mi ha rotto il cazzo perché sono italiano, ha cercato e trovato un modo per crearmi problemi”. E mi hanno spinto dentro la porta. Il commissario, quando ha capito chi mi aveva segnalato e richiesto il suo intervento, ha fatto una faccia del genere “Ancora quella deficiente...”; mi ha interrogato in modo a dir poco svogliatissimo, rispondevo e pensava agli affari suoi,poi gli sono piaciute delle illustrazioni che avevo nel trolley e le trovava più interessanti della pantomima che stava recitando per giustificare il mio insensato fermo.Dopo tre quarti d’ora mi ha congedato,mi ha augurato buona permanenza e mi ha detto di non preoccuparmi per il mio lavoro, scriveva che ha controllato documenti e valigie di un viaggiatore. Fuori dalla porta trovavo Attilio: aveva subito a sua volta un interrogatorio telefonico dalla ditta, che voleva capire dove ero sparito e perché. Spiegatogli l’accaduto è stato silenzioso, credo perché se avesse aperto bocca mi avrebbe mandato in ogni luogo ameno possibile ed immaginabile, meglio tacere che peggiorare ulteriormente la situazione. Siamo andati a prendere il volo JFK-GSO dopo aver mangiato e bevuto una roba. Siamo arrivati a Greensboro in 3 ore e mezza, affittato un’auto all’aeroporto e ci siamo diretti verso il centro, dove prendere una stanza in un albergo, ne abbiamo trovato uno vicino Elm St (che fortuna, dormire accanto a una strada che si chiama così!), non lontano dal Natty Greene’s che in seguito diventerà un punto di riferimento costante. Ma Attilio, che era reduce da una serie di trasferte con dormite in albergo, non ne poteva più. “Basta alberghi. Cerchiamo un B&B.” Capii che non si trattava di una ipotesi, era un ordine. 11


Il B&B, in North Park Dr.

Trovato. Esattamente come voleva lui: un B&B che non fosse una catapecchia, un po’ fuori dai grattacieli e palazzoni, e infatti l’ha individuato in North Park Dr., che passa - come dice il nome stesso - a nord di un parco, continuazione dell’adiacente Fisher Park. Il padrone è persona affabile ma risoluta, ci mostra il salotto con tv comune, il backyard di discrete dimensioni, con addirittura una piccola piscina, la sala da pranzo dove si farà la colazione. Poi ci assegna due stanze al primo piano, che danno sul retro. Questa qui sotto era la mia, e subito mi sono scon-

La mia camera nel B&B.

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trato con una realtà americana: le finestre erano imbullonate, non si potevano aprire, il cambio dell’aria si poteva fare solo attraverso la porta sul corridoio. In compenso il riscaldamento andava tutto il giorno a pieno regime e in camera giravo in mutande, ci saranno stati 25 gradi! Siccome siamo stanchi morti, ci salutiamo e ficchiamo in camera, io che ero reduce da una nottata di angoscia, appena sotto le coperte m’addormento come un sasso. Alla mattina scopriamo che John, il nostro padrone di casa, è effettivamente un personaggio notevole. Ingegnere ultrasettantenne del Maine che si è formato in Belgio, provvido di una quantità infinita di aneddoti ambientati in entrambe le parti dell’oceano, spesso interconnessi, ad esempio fatti cominciati in Europa che hanno trovato poi la conclusione in Nord America. Girovago, ha cambiato un sacco di lavori e di case, si è creata subito empatia perché anche io mi sono mosso parecchio, e Attilio aveva alle spalle già una discreta carriera da manager che svolazza in giro per il mondo. Inoltre cercavo di capire com’è quando non ti supporta più la giovinezza, e cominci ad essere stanco di fare traslochi. La moglie è una donna simpatica e allegra, senza però mai sguaiatezze, e si capisce che con il marito ha un rapporto vecchio stile. Quando lui parla, lei non lo interrompe mai, e scatta ad ogni occhiata in codice se il compagno sta servendo i gamberi di fiume col puré e non ha più mani per portare l’insalata e il succo di frutta. Si, perché la colazione da John era praticamente il pranzo, con primo, secondo e pure frutta e dolce. Infatti a mezzogiorno non avevamo neanche fame, mangiavamo un hamburger piccolo in centro a Reidsville ed eravamo a posto. Unico problema: nelle prime due ore della mattina stavo in digestione piena, con tendenza a leggero letargo, e sono quelle ore in cui devi essere più sveglio perché arrivano i problemi da risolvere, poi verso fine mattina si fa qualche progetto grafico, si discute, si prova a vedere note e suggerimenti lasciati in post-it sulle scrivanie nostre o spediti via email dai venditori. Purtroppo non si possono invertire le due fasi. Ma del lavoro preferisco parlarne nei capitoli su Reidsville, questo riferimento era necessario per capire le dinamiche innestate dal B&B, di cui ero entusiasta anche io, perché in quelle due settimane l’oretta di colazione con i due padroni di casa era uno dei momenti davvero gustosi (anche culinariamente) del NC: non si sapeva che traiettorie avrebbe preso John, poteva parlare di pesca, astronomia, sport, politica, filosofia, meccanica quantistica, storia, sale da ballo europee anni 60, un cantastorie senza bisogno di supporti musicali o audiovisivi. Aveva un altro B&B gestito con la figlia nel Maine, che sarebbe lo stato dove è nato, e considerava casa sua anche se stava più spesso a Greensboro. Per risolvere la questione aveva imparato il Visual Basic e si era costruito un software che aggiornava via internet la situazione prenotazioni, pagamenti e richieste clienti dei due B&B. Inoltre gli mandava sms, così poteva essere informato sul cellulare anche se non stava davanti al PC, e ovunque fosse aveva sempre l’altra situazione sotto controllo. Aveva aggirato il fatto che non fosse ancora stato inventato lo smartphone. Genio. 13


Avevo solo due problemi rispetto a questa accomodazione. Il primo, è che dovevo uscire per poter fumare. D’inverno è freddino in NC, anche se è uno stato del sud. Per non incappottarmi spesso tornavo dentro congelato. Il secondo, erano gli scoiattoli. Io amo tutti gli animali, a parte parassiti in generale e in particolare le zanzare. E gli scoiattoli sono bellini, isterici, divertenti, non stanno mai fermi... Ecco, alt, non dimentichiamo questo elenco di caratteristiche dei roditori in oggetto. Camera mia stava di fianco all’uscita sul backyard, una piccola piattaforma di legno coperta da un tetto in ondulato, alla fine delle quale c’era una scaletta per scendere giù. Le prime due notti non è successo nulla, ma la mattina della terza notte, alle 4 e mezza, mi sono svegliato che pareva stessero sparando sul tetto con una mitragliatrice da contraerea. Erano quei cazzo di scoiattoli già svegli che giocavano sull’ondulato a rincorrersi e tirarsi le ghiande. Sono uscito con un asciugamano grande, mi sono arrampicato su una trave di sostegno e raggiunto il tetto dell’ondulato ad altezza petto ho cominciato una battaglia furiosa io da solo contro 100 scoiattoli più bastardi di Cip e Ciop. Naturalmente ho perso, e mi prendevano per il culo saltandomi in testa e sulla schiena, o mi rimbalzavano sul petto con pose plastiche da parkeur mentre scappavano. Appena mi sono arreso e ho richiuso alle spalle la portina che dava sulla piattaforma, hanno ricominciato due volte peggio di prima. In quel momento ho capito tutti: Wile Coyote, Gatto Silvestro, Tom, Daffy Duck. Quell’astio verso animali nanetti carogne, oh come lo capivo! Per fortuna si annoiavano a giocare sempre nello stesso posto, solo per metà delle notti mi hanno fatto dormire 3 o 4 ore, quei maledetti. Una strana forma di sindrome di Stoccolma: quando tornavamo dal lavoro e andavo a farmi un giro nel retro, a fumarmi la cicca prima di prepararci per uscire a cena, continuavo a tirargli le noccioline. Non ho più tentato di scacciarli, troppo forti per me.

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Un sabato mattina io e Attilio abbiamo messo su tuta da ginnastica e scarpe da tennis, mangiato e riso con i nostri ospiti a colazione, poi siamo andati al Guilford Courthouse National Military Park. Eravamo allegri a fare un po’ i turisti finalmente, ma non lo davamo a vedere reciprocamente. Questo è un classico panorama che incontri mentre corri nel serpente sinuoso della strada che porta a destinazione quando è autunno in NC. Un trionfo di gialli, rossi e verdi. È come una droga per gli occhi, le pupille non riescono a credere che esista un tale festino di colori, e per persone che lavoravano proprio sul colore, sviscerandolo per far vincere una dominante sull’altra, questo è come andare al luna park. Tutti e due immaginavamo quei toni dentro borsette e carte da regalo, ognuno rimurginava idee e materiali da accostargli, e glitter, e oggettini da appiccicarci sopra.

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Ma torniamo alla meta della nostra gita. Qui sopra c’è la mappa dell’area, dandoci un occhio già si intuisce cosa sia successo. Il cartello qui a destra è più chiaro, ma per dissipare i dubbi rimasti: gli inglesi hanno vinto qui, perdendo così tanti uomini che alla fine questa sconfitta in una singola battaglia è diventata sul lungo termine una vittoria degli americani. Nel dettaglio, 2100 uomini agli ordini del luogotenente generale Charles Cornwallis sconfiggevano 4500 soldati americani guidati dal generale maggiore Nathanael Greene, ma al prezzo di una enorme perdita di uomini degli inglesi. Tempo dopo, a causa di questa mazzata, Cornwallis venne sconfitto a Yorktown, mentre gli altri reparti inglesi conquistavano il South Carolina e la Georgia (l’ho notato a Savannah, vedi capitolo dedicato), e successivamente perse contro Washington e de Rochembeau coalizzati. 16


Il parco, però, è un trip. Maniacalmente, in ogni luogo che fu teatro di qualche scontro di rilievo hanno messo pezzi di artiglieria, figure di soldati (guappi ‘e cartone come dicono a Napoli) e leggii con immagini e testo che spiegano esattamente cosa è avvenuto. Anche se non sapevi esattamente la storia, camminando per il parco, poco a poco, come in un videogame adventure, scopri tutti i fatti perché ti danno degli indizi. Ti aggiri per il bosco con aria circospetta, sapendo che là, proprio là era passata la terza ondata, e sei curioso dove avessero tentato di fermare la seconda, e poi pian piano arrivi passando per questi sentieri in mezzo a una natura scatenata a fare a ritroso - o col verso corretto a seconda della porta di entrata - gli stessi percorsi di quella gente che disperatamente si massacrava a vicenda, tentando di immaginare l’odore di polvere da sparo, le urla... ma volendo, negli anniversari di questa battaglia alcuni volontari rievocano indossando divise e armi d’epoca. Inutile sottolineare che questa logica di forzare lo spettatore a raccogliere indizi aggirandosi in un’area predefinita, tanto cara ai creatori di videogame, è nata ben prima di loro. 17


WILMINGTON 18


Chiacchieravamo su cosa fare il prossimo giorno libero e Attilio ha proposto una gita a Wilmington. Sarebbe stata una occasione per attraversare il North Carolina, partendo dal Piedmont e andando giù verso sud-est, fino alla parte centrale della costa; e poi proseguire, bordeggiandola, per vedere altre cose interessanti. Io non avevo ancora scoperto Red Lobster: ho subito aggiunto ai vantaggi dell’operazione il prevedibile pranzetto di pesce, così una domenica mattina presto siamo partiti, diretti verso l’oceano. Il tragitto non ha richiesto la mia consueta funzione di navigatore con cartina alla mano (il GPS era esotismo puro, all’epoca). Basta infatti raggiungere la highway 40, entrare nella direzione giusta e seguirla finchè non si vede il cartello “Benvenuti a Wilmington”. 19


Il downtown di Raleigh.

Nella prima parte, circa un terzo del tragitto, il paesaggio è leggermente vivace, a dei tratti in mezzo a boschi con laghetti si alternano diradate di alberi da cui emergono Burlington con davanti Graham, poi un tratto in cui si ha Chapel Hill a destra e Durham a sinistra, poi Cary e infine Raleigh, capitale del NC. Superata quest’ultima, panorami sconfinati e piani (ormai anche le collinette sono alle spalle) e gli immancabili laghetti, solo le chiacchiere ci hanno salvati dall’addormentarci. Sono rimasto colpito dalla quantità di roadkill, cioè animali che vengono investiti dalle auto mentre tentano di attraversare i lati della strada; una ecatombe! Quasi tutti procioni, a ritmo di uno ogni 50 metri.

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il porto di Wilmington in una foto del 1918.

La nave da guerra “North Carolina�.

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La strada che porta a Wrightsville Beach.

Arrivati a Wilmington, la prima cosa che noti è l’assenza di grattacieli. Gli edifici più alti hanno una decina di piani, tutti concentrati nell’area industriale e amministrativa, il resto è una serie di case singole immerse nel verde. Man mano che ci si avvicina alla costa, si sente sempre di più l’aspetto turistico, pululano cartelli che pubblicizzano ristoranti, spiagge, locali, eventi, giri in barca. Siamo andati alla spiaggia di Wrightsville, girellato tra i vari baretti e locali, tutti belli e colorati, ma nulla di particolare rispetto a qualsiasi centro turistico allegato a una spiaggia. Ripartiti in direzione sud, abbiamo seguito strade che sono divise dalla costa alternativamente da alberghi e case su palafitta, quelle spazzate via dal tornado di qualche anno fa. Verso ora di pranzo siamo finiti al Kure Beach Pier (vedi foto sotto).

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Andando alla fine del molo si vede tutta la costa fino a Cape Lookout verso nord e l’isola di Bald Head a sud. Siamo rimasti un po’ là a commentare il panorama, e la differenza di dimensioni tra le dighette del Lido di Venezia, con le ondine dell’Adriatico rispetto a questi pier enormi, lunghi duecento metri e alti 7/8, con sotto l’oceano. Poi ci è venuta fame e ci siamo diretti verso un ristorante dall’altra parte della strada, il Big Daddy’s, e qui c’è stato il primo momento notevole della gita. L’impatto non è stato dei migliori, perché prima di entrare passi a sorpresa (nulla si vede da fuori) per il loro negozio di souvenir. Ho avuto l’impressione di essere in autogrill, che non è esattamente il posto dove ti aspetti un Gordon Ramsey ai fornelli. Abbiamo ordinato due piattoni di scampi alla piastra, un po’ di fritto misto e una caesar salad come contorno, niente di particolarmente esotico. La frittura è difficile che venga male, anche il più scalcinato riesce ad ottenere una qualità sufficiente; ma la perfezione della cottura di quegli scampi era esaltante, al punto che abbiamo fatto il bis, e complimentoni alla cuoca. Siamo usciti satolli e soddisfatti, fatto un giretto per dare almeno lo starter alla digestione e io per fumare una sigaretta, poi siamo risaliti in auto con due obiettivi sicuri. Il primo è la foce del fiume Cape Fear, dove Scorsese ha girato il film omonimo, ma essendo una bella giornata la veduta non ha coinciso granchè con la memoria di quelle scene. Sono un cinefilo, ma non a tal punto da sfiorare il feticismo, e neanche Attilio: abbiamo dato una occhiatina di qua e di là, poi siamo ripartiti.

Fort Fischer Historic Museum.

Siamo passati per i due musei del complesso di Fort Fisher, il NC Underwater Archeology Center, minuscolo,dove hanno raccolto relitti navali e materiali cartacei su tutto ciò che va dalle canoe indiane fino alle ultime imbarcazioni che usavano il fiume Cape Fear per trasporto merci o passeggeri (i famosi paddle steamer, piroscafi a vapore o a ruota), e il Fort Fisher Historic Museum, che però non mi risultava particolarmente interessante, probabilmente perché non sono mai stato un appassionato di armi e guerre. Questi tre luoghi li abbiamo visti in un’ora. 23


L’ingresso del North Carolina Aquarium.

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la piantina del North Carolina Aquarium a Fort Fisher.

La terza attrazione dell’area di Fort Fisher, e secondo obiettivo che non volevamo mancare, è il North Carolina Aquarium, dove invece abbiamo passato il resto del pomeriggio. È circondato da una zona erbosa attraversata da vari canali dove sguazzano in libertà pesci e animali inoffensivi da palude: varie specie di uccelli e un sacco di rane gigantesche. Già lì ci siamo persi per quasi un’ora a passeggiare su ponticelli e sentierini. In mezzo c’è l’acquario vero e proprio, composto da due blocchi collegati da un passaggio. Guardando la mappa qui sopra, si entra dalla parte a destra, e si accede subito al Cape Fear Conservatory, un percorso che si snoda tra vasche che contengono piccole ricostruzioni di ambienti palustri, dove ci sono rane, tartarughe, coccodrilli (piccoli, lunghi un paio di metri), serpenti velenosi. Non dico sia inquietante, gli animali sono ben ingabbiati, ma un po’ timore che qualche coccodrillo o serpentaccio saltasse fuori ce l’avevo lo stesso, sentimento condiviso dal mio collega. Qui effettivamente siamo rimasti solo dieci minuti. Oltrepassata quest’area si accede al livello superiore del Marine Building. Qui si può guardare il mega-acquario centrale dall’alto, ci sono altre vasche con tartarughe, pesci assurdi o capitoni, e poi delle stanze dove fanno lezioni e gli uffici amministrativi del centro. Poi c’è la parte figa della faccenda, il piano inferiore dove troneggia al centro l’acquario, e tutto attorno ancora vasche con cavallucci marini, meduse, rane velenose, schermi che mandano continuamente audiovisivi, materiali da leggere, un auditorium/sala cinematografica e un ristorante che ha i tavoli accanto all’acquario. Al ritorno, rifacendo l’analisi della giornata, ci siamo resi conto che parlavamo solo del pranzo e il NC Aquarium. Ma soprattutto di dove mangiare altri scampi così buoni. 25


Due giorni a

NEW YORK 26


Prima di ritornare in Italia, alla fine della mia prima trasferta in USA, il capo ci ha detto di stare pure un paio di giorni a New York a spese della ditta, prima di prendere il volo per Venezia. Per la precisione, ce l’ha detto durante una cena a casa sua, con tutti i venditori e l’intero reparto di produzione, cioè designer e coordinatori, per festeggiare una stagione in ampio attivo. Quel venerdì siamo usciti di corsa dal lavoro per saltare in auto, riconsegnarla al rent-a-car e ficcarci nel volo GSO-JFK, e in poco più di tre ore siamo arrivati a New York. Stavolta non ci sono stati problemi al check-in, e recuperate le valigie siamo andati in cerca di un taxi che ci portasse all’hotel Metropole, dove ci era stato consigliato di andare per la posizione abbastanza centrale. Una parentesi sui guidatori di taxi newyorkesi: li ho visti passare con 27


Taxi driver.

un’auto larga un metro e mezzo in uno spazio tra due altre auto largo un metro, contro ogni legge della fisica. Ma non una sola volta: continuamente. È inspiegabile come facciano a divincolarsi dove esseri senzienti, anche di grande possanza intellettiva, si arrenderebbero emettendo un gemito di sconfitta. C’è qualcosa di animale in quei freddi cacciatori di passeggeri refrattari ai mezzi pubblici. In ogni caso quell’afroamericano che ci è toccato in sorte è stato onesto, Attilio che già era stato a NY lo ha ripreso solo un paio di volte mentre tentava di fare giri larghi per pompare la ricompensa. Dopo varie imprese come già detto inspiegabili, tra stormi di folli guidatori che sembrano pagati da qualche oscura entità per creare turbative al traffico, ci recapita esattamente davanti all’albergo. Pagato il teppista dentro l’auto gialla, andiamo a chiedere le chiavi della camera, e tasto con mano un fatto: a New York parlano un inglese che non serve sforzarsi molto per capire, a differenza del sud dove spesso la gente apre la bocca a inizio discorso e la chiude alla fine, producendosi in una serie di vocali dove talvolta affiora qualche consonante. Questo naturalmente mi rassicura, così con Attilio saliamo in ascensore alle nostre camere separate ma adiacenti, mettiamo giù trolley e valigie e ci ritroviamo per la cena. Il posto è un ristorante italiano a destra dell’uscita del Metropole. Entriamo e il padrone ci accoglie con affettatezza e relativa cerimonia bon ton. Decidiamo per un tavolino nella prima sala 28


e mangiamo tris di primi, di secondi, di contorni, non dimentichi di spazzolarci anche il caffè, l’amaro e il dolce. Tutto a dir poco ottimo. Servizio perfetto, cibo perfetto, conversazione mai banale, il tipo è uno intelligente e furbo, si discetta di economia e problemi nell’impresa, delle conoscenze comuni di lui e Attilio, ma mai una farragine, perfetto ospite nel suo core business. Persino la musica di sottofondo, pur essendo il solito pop-folk italiano che non ho in simpatia, era sensata in quel contesto, lì improvvisamente era una colonna sonora ideale per un luogo avulso rispetto il vicinato. Di fronte al ristorante, un po’ sulla destra dall’entrata, giganteggiava un afroamericano gigantesco col suo banchetto di hot dog, un messaggio chiaro “in quel ristorante vi spellano, qua con 7/8 dollari mangi e bevi una birra”. A prescindere, finita la cena ci siamo ficcati a letto perché eravamo distrutti da quel venerdì al fulmicotone.

Per caso avevi voglia di un hot dog?

La mattina ci svegliamo e devo risolvere un problema: si era rotta due giorni prima la macchina fotografica della ditta che io usavo spudoratamente anche per gli affari miei, e che deve avere preso una botta chissà dove. Quindi cercavo una macchinetta di quelle usa e getta, praticamente parallelepipedi di cartone con una lente attaccata e dentro pellicola da far avanzare con delle rotelle di plastica, stando attenti di non fare solo mezzo giro o ti ritrovavi due foto sovrapposte, una intera con sopra metà di quella scattata dopo. Questo perché le macchine fotografiche digitali serie ancora costavano attorno ai 500 $, un po’ troppi per un acquisto d’emergenza; e comunque, come si vedrà dalle foto che ho fatto con la scatoletta di cartone, beh, era ancora meglio quest’ultima, a parte in condizioni di scarsa luce, dove il digitale in automatico metteva (e mette) delle pezze decenti. Ma prima cercavamo dove fare colazione, e abbiamo trovato un bar perfetto, che assomigliava un poco a Nighthawks di Hopper. Le solite paste formato gigante americane, ma con colori meno folli di quelle di Greensboro, e - fantastico! - dei croissant. 29


Avevano una macchina da caffè buona, e infatti il capuccino era come quello italiano. Questa fortuna ci è sembrata un segnale che la giornata si metteva bene subito e sarebbe proseguita meglio. A parte il fatto che abbiamo rinunciato a vedere l’Empire State Building perché avevamo solo un giorno a disposizione e non volevamo spenderne metà in coda, in effetti ci è andato tutto per il verso giusto. Una volta rifocillati abbiamo trovato un negozio di fotografia, comprato una macchina fotografica usa-e-getta e siamo andati verso il porto, rigorosamente a piedi, per non perderci nulla durante il percorso. Qui sotto siamo sulla Broadway, Attilio studia le opzioni più interessanti da vede-

Questa l’ho fatta uscendo dal bar dove abbiamo fatto colazione.

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re nelle vicinanze. Qui a sinistra il famoso palazzo ad angolo extra-acuto che sta all’incrocio tra la Broadway e 7th Ave, e si intravede nella foto della pagina a fianco. Lo showroom della New Filcas of America era a 300 metri di distanza alle mie spalle rispetto a questa foto. Perdersi a Manhattan è impossibile, le strade sono tutte perpendicolari (a parte la Broadway che va un po’ in diagonale), come nel reticolato romano: è grossomodo un parallelepipedo, con le Avenue che corrono per il lungo, le Street parallele al lato corto, per cui basta che raggiungi un incrocio qualsiasi e capisci esattamente posizione e orientamento. La classica domanda “Ma dove siamo???” non fu mai ragionevolmente posta. Mentre andavamo verso il porto abbiamo trovato un amBroadway. bulante che vendeva Rolex, ah ah ah!!! Dapprima lo abbiamo perculato un pochetto, poi ci siamo detti, ma si, diamogli sti 30$ e ci compriamo due Rolex finti, LOL. Abbiamo continuato a fare gli sboroni per ridere con i nostri orologi per un bel pezzo, poi abbiamo intravisto che eravamo arrivati quasi alla banchina e ci siamo concentrati su un fatto curioso: nel parchetto davanti al waterfront ci sono vagonate di scoiattoli. Questo qui sotto faceva l’equilibrista su una transenna.

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Quella figurina verticale alla mia sinistra, che ci crediate o no, è la Statua della Libertà.

Ed eccomi in posa per la solita foto ricordo a New York, infagottato come si deve per resistere al freddo, che colà a fine novembre si fa sentire. Ma attenzione alla donna con i capelli rossi nell’angolo in basso a destra. Finita la foto, raggiungo Attilio e mi siedo di fianco, cominciamo a parlare senza peli sulla lingua, tanto siamo in USA, non ci capisce nessuno se parliamo in dialetto veneziano, neanche gli italoamericani. Dopo 3 minuti, la rossa si gira e ci fa “ma siete veneziani?”. Lei era di Treviso. Sulle prime ho pensato: vado a New York e la prima persona con cui scambiamo due chiacchiere è una che sta a 30 km da casa mia... un po’ mi ha tolto il fascino d’essere in terra straniera, all’avventura, però era una tipa brillante, siamo rimasti lì a parlare e scaldarci al sole, poi abbiamo salutato perché avevamo da girare ancora e la mattina stava per finire. Tornando indietro siamo passati per Wall Street e ci siamo trovati davanti il famoso toro, che è davvero impressionante, è più grande di come te lo immaginavi dopo averlo visto in TV. 32


Andando verso Soho.

Il nostro piano era semplice, andare a fare un giro a Soho e poi vedere il Greenwich Village. Qui siamo quasi arrivati, le due foto sono il verso destro e quello sinistro della stessa strada, scattate dalla stessa posizione. Soho è a destra, un po’ piĂš avanti rispetto alla foto sotto.

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I resti di 9/11.

Ah, dimenticavo; all’andata eravamo passati per le ex-Twin Towers, purtroppo ho perso per sottoesposizione l’unica foto in cui ero riuscito a inquadrare il cratere gigantesco. Era pieno di turisti e c’era attorno una rete per cui non si riusciva a non inquadrare le stecche di ferro. Arrivati a Soho ho avuto l’impressione di essere in Asia: era pieno di cinesi, cingalesi, taiwanesi. Quartiere vivacissimo, affollatissimo, pieno di negozi di hi-fi. Ne abbiamo girati un po’ perché dentro potevi trovare qualsiasi cosa, anche uno stereo portatile grande come un SUV, che andava con 12 pile torcia di quelle grandi. E naturalmente per gli audiofili furiosi, roba vintage, degli anni 70/80, con le valvolone, casse enormi, un lunapark dell’ascolto musicale. Però di per se un quartiere come un altro, nessuna particolarità a livello architettonico. Decisamente più interessante il Greenwich Village, dove c’è una strada in cui ogni negozio ha una bella vetrina con dietro un artista o artigiano in azione: pittori, creatori di mobili, scultori, sarti, tapezzieri, gente che faceva animali all’uncinetto... di tutto. Anche i locali, i bar sono differenti dal resto di Manhattan, più raffinati, con clienti artisti e intellettuali che contrastano l’immagine da Little Asia avuta a Soho. Il Village è molto europeo, anzi, spesso quello che vedevo mi evocava la Francia. Non a caso, essendo ormai l’una dopo ore di podismo turistico forsennato generatore di fame atavica, abbiamo trovato un bar molto bello, il classico bar-ristorante degli artisti, disposto su due piani. Da sopra il primo, essendo fatto a ferro di cavallo e vuoto in mezzo, si vedono i tavoli sotto, uno schema che mi piace perché ovunque tu ti sieda vedi praticamente tutti gli altri clienti. Naturalmente alle pareti poster epici e quadri di ogni stile, soprattutto astratti. Noi siamo andati di sopra, prevedendo che fosse più caldo del piano terra, dove c’era la porta fastidiosamente sempre aperta, e subito dopo una cameriera piuttosto carina è venuta a portarci il menù, che era composto quasi interamente da piatti di cucina francese. Io non ci capivo 34


una mazza, il francese non lo so, ma per fortuna Attilio è poliglotta per cui ha provveduto a spiegarmi cos’erano e a ordinare. Era tutto di nostro gusto, e il caffè finale non ha deluso, il posto era così bello e rilassante (ottima musica, ça va sans dire) che siamo rimasti a chiacchierare e digerire - e riposarci della camminatona - là, credo fino alle due e mezza. 5 minuti dopo eravamo nella 5th Avenue, che parte da Washington Square Park, la piazza vicina al bar che avevamo appena lasciato. È l’area più costosa di Manhattan, sia come affitti/costi case che come negozi, ci sono tutti i modisti, gli orafi, Disney, negozi di giocattoli assurdi come quello della foto qui a destra. Non si vede bene perché non avevo il flash e c’era scarsa luce dentro, ma quello in mezzo Il gigantismo a tutti i costi made in USA.

è un robot-ascensore animato alto 6/7 metri. Non so quante follìe elefantiache ho visto girando per i negozi, certo è che il negozio gigantesco di Disney in confronto era quasi misurato. Ecco, questa parte della giornata è risultata la più confusa nella mia memoria, perché tutta questa opulenza e scatenamenti hanno finito col mischiarsi in testa in modo disordinato. Ricordo particolarmente la Trump Tower per l’utilizzo di ottone simil-oro che rendeva tutti gli interni così pacchiani da risultare insopportabili. Siamo andati a bere una birretta nel bar da cui si vede la cascata interna, altra pacchianata in stile tait con le scarpe da tennis arancio e calzino bianco. Perfetto specchio di Donald Trump, uno che non è certo famoso per il buon gusto. 35


Poi siamo tornati in albergo per farci una doccetta dopo la scammellata durata tutto il giorno, alle 21 siamo usciti di nuovo, e si è ribaltata la situazione di fine mattinata. Saltando completamente il Village siamo andati a cenare in un ristorante indiano a Soho. Non avevo mai visto tanto cibo su un tavolo contemporaneamente in vita mia, pensavo fosse uno scherzo. Ci avranno portato trenta piatti di roba, siamo riusciti a mangiarne solo un quarto. Alla fine ci hanno chiesto se volevamo portare via il resto, io ho detto di si per l’istinto di non buttare via tre quarti di cibo, ma Attilio si è opposto “Non vorrai mica che andiamo a fare serata a New York con quattro borse di cibo indiano in mano?”. Prima di uscire nella hall dell’albergo avevamo chiesto il giornale degli spettacoli, e avevo notato che era grosso come l’elenco telefonico di Milano. Migliaia di concerti, mostre, spettacoli teatrali, film da vedere. Quello che accade in veneto in un migliaio di anni succedeva là ogni sera. Mi sono reso conto dell’effettiva potenza di fuoco di quella città uscendo dal ristorante e prendendo una strada che finisce nella Broadway. Eravamo passati di lì alla mattina per andare al Village, e non mi aveva detto nulla. Ma di sera... C’erano localini bar + sala concerto sui due lati della strada. Uno dietro l’altro, neanche una porta d’abitazione in mezzo. Siamo entrati nel primo a destra, ed è cominciata una sarabanda incontrollabile. Rimanevamo 15 minuti in un bar, prendevo un whisky e ascoltavamo due pezzi del concerto, poi andavamo in quello di fianco o dall’altra parte della strada. 36


Alle 3 di notte quando siamo arrivati alla fine di quella strada avremo visto cento pezzetti di live act, di ogni genere musicale possibile e immaginabile, blues, jazz, rock, fusion, reggae, country, e io non riuscivo a camminare in linea retta neanche concentrandomi al massimo. Fossi stato alla guida di un auto e fermato dalla polizia, mi sarei preso un ergastolo.

Il ritorno in camera.

Siamo tornati in albergo perché per fortuna Attilio non è un festaiolo. Fosse dipeso da me, avremmo passato la notte girovagando a caso e tentando di ricordare dove dovevamo andare a dormire. In realtà non abbiamo “dormito” quella notte, perché avevamo l’aereo la mattina presto, mi sono guardato un po’ la TV senza capire una mazza a causa dei whisky e ho fatto una specie di mezzo pisolino di un paio d’ore, poi mi sono rivestito e mentre ero ancora brillo, a dir poco, ci siamo ficcati dentro un altro demente taxi e dopo una serie di evoluzioni degne di uno skater, ma con sotto i piedi un’auto, siamo giunti sani e salvi al JFK. Ho tentato di mitigare l’hangover con due caffè formato gigante allo Starbucks dell’aeroporto, inutilmente, e siamo andati al gate. Questa sotto l’ho presa mentre rimpiangevo di dover tornare in Italia.

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REIDSVILLE 38


Reidsville è una minuscola città (circa 15.000 abitanti) che sta nella contea di Rockingham, a nord, vicino al confine con la Virginia. È nata infatti ad inizio 1800 come ultimo avamposto sul tragitto Salisbury,NC - Danville, VA e per la sua posizione strategica è diventata la seconda base dell’American Tobacco Company, i vecchi proprietari di Lucky Strike e Pall Mall, ma anche di molte altre aziende del settore tabacchi acquisite una dietro l’altra a cavallo dei due secoli; la sede centrale era situata a Durham, NC. ATC entro breve tempo dava lavoro a una gran parte di cittadinanza; su questo core è nato anche un polo industriale con alcune aziende del tessile e queste due realtà hanno reso la piccola Reidsville prospera ed importante fino alla fine del secolo scorso. 39


Nel 1994 dopo una serie di cause da parte del governo americano per l’antitrust (erano arrivati ad assorbire 200 compagnie di tabacco, una posizione di imbarazzante monopolio), l’American Tobacco Company viene smembrata, come avvenne anche per AT&T, e ufficialmente chiusa. Con effetto domino, cominciano a chiudere, una alla volta, anche le aziende del tessile, perché la mancanza di un così grosso centro direzionale ha ovviamente generato disoccupazione e fuga di parte dei cittadini verso altre città, e quando gli americani cominciano a fuggire da una città, quasi sempre entro breve questa diventa una ghost town. Comprensibile che gli investitori del tessile annusando la tendenza abbiano deciso di svignarsela altrove, se non fare direttamente il salto dell’oceano e delocalizzare in Cina.

New Filcas of America

In mezzo al polo industriale c’era la New Filcas of America, azienda del settore gift wrap (carta e borsette di carta da regalo). Come ho raccontato nell’introduzione, ero stato assunto dalla sua filiale italiana Solutia Italia, a Mogliano, ma dopo due o tre mesi ho cominciato ad essere chiamato a fare parte del lavoro in USA e periodicamente tornare in Italia per seguire la stampa dei campioni come responsabile della coerenza colore: ogni nazione ha colori di forza differente, per cui devi andare a vedere se il verde che usciva brillante in stampa in USA non è diventato verde marcio in Italia, e che a correggerlo non finisca che gli arancio diventano rossi, praticamente è un corpo a corpo 16 ore al giorno contro i due tipografi che si danno il cambio alla macchina, discussioni al limite del filosofico sull’apertura degli ugelli del colore. Per fortuna ho scansato di controllare anche quelle che stampavano nella tipografia/filiale in Cina, perché i cinesi hanno colori 10/15% più carichi dei nostri, un inferno controllarli, e parlano un inglese che non capisci una mazza, anche solo perché pronunciano la R dappertutto meno 40


dove ci andrebbe. Cioè quando parlano in cinese la usano, ma se parlano in un’altra lingua no. Ho sempre avuto il sospetto che facciano apposta perché sanno che così fa più “cinese”, più esotico. In ogni caso mettersi a discutere di fatti tecnici con uno che parla male in inglese significa fraintendimenti a pioggia, e cappelle conseguenti.

L’epico ingresso in stile doricobabiloniano dell’Holiday Inn di Reidsville.

Non è una foto mia, ma la stanza è uguale a quella dove stavo io, a parte il colore delle tende. La moquette è invece tragicamente la stessa.

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Nelle prime trasferte sono stato in USA per due o tre settimane alla volta, non vale la pena prendere un appartamento in affitto se non stai manco un mese intero, quindi per comodità ho abitato in un B&B a Greensboro, che ho descritto dettagliatamente nel primo capitolo dedicato a quella città; ma siccome Greensboro è a un’ora di auto da Reisville, e stavolta dovevo stare là per almeno un paio di mesi di seguito, ho chiesto di essere piazzato all’Holiday Inn che si

Fan di Dale jr.

trovava di fronte alla ditta, a 100 m. di distanza. Nella foto qui sopra indosso con malcelata soddisfazione la felpa #8 di Ralph Dale Earnhardt Jr., che per tutti i fan di stock racing è semplicemente Dale Jr, uno che ha vinto una serie davvero impressionante di corse e titoli in varie categorie, ma mi era caro soprattutto perché nato a Kannapolis, NC. Città che purtroppo non ho mai visto. In questo modo, tornando al tema principale, ho potuto rendermi conto di cosa sia vivere a Reidsville nell’era della disgregazione del suo polo amministrativo/industriale.

L’auto FOLLE di due miei colleghi, sposati e dipendenti entrambi della New Filcas of America. Delirio Warner Bros.

Per cominciare, nell’area erano rimaste solo tre aziende: la Filcas; un terminal di scambio merci via container che stava tra l’Holiday Inn e la Filcas (il traffico di TIR di notte aveva un certo fascino, ma purtroppo non ho preso una foto); una ditta con il suo megacapannone dall’altra parte di Barnes St, la strada che praticamente divide in due la città, e congiunge l’area industriale a quella residenziale. Io che non ero automunito perché privo di patente trovavo salvezza facendomela a

Birre e snack da Marathon.

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Il centro di Reidsville.

piedi sino al negozio/rosticcerìa della stazione di servizio della Marathon (vedi foto in basso nell’altra pagina), sempre sulla Barnes, per fare scorta di six-pack e e vari sacchetti di patatine assurdi di qualsiasi gusto possibile, c’erano persino patatine che sapevano soltanto di patatine; niente del reparto fritti, non mi fidavo di quello che cucinavano, le stazioni di servizio americane non sono certo famose per avere le cucine pulite. Quando non avevo colleghi che mi scarrozzassero in giro, o non avevo voglia di seguirli a Greensboro, spesso cenavo qua, mangiando schifezze impachettate bevendo birre. Tra il polo industriale e l’inizio dell’abitato c’è l’area ristorazione dove ci gettavamo a pausa pranzo, quando non avevamo voglia di un hamburger “vero” in centro. Qui io e Marius scansavamo i fast food come se fossero il vaiolo, e a turno andavamo al messicano o al giapponese.

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Il messicano era una vera goduria, tutto rivestito in legno quindi bello accogliente, mi sparavo polli piccantissimi affogati in tempeste di sugo e verdurine cotte, e traducevo al mio collega sudafricano quello che si dicevano i messicani, che infatti sapendo che sono italiano stavano attenti (come i loro connazionali che lavoravano alla Filcas, d’altronde), perché sanno che quei cazzo di italiani un po’ capiscono lo spagnolo. Si mangiava discretamente bene, i piatti erano suntuosi, epici, scatenati, esagerati. Il giapponese invece era un ambiente diametralmente opposto: molto freddo, molto bianco, con la cucina a vista, ma il servizio molto più rapido dei messicani, e facevano dei sushi che pari non ne ho più mangiati, ma anche gli ibridi con la cucina cinese non erano male, io prendevo un menù completo dove mettevano praticamente un assaggino di tutto e godevo molto, copiosamente. Oppure, appunto, andavamo in un posto in centro che aveva l’aria del locale di Arnold di Happy Days. Senza il legno dell’originale, più grande, ma a parte quello mi aspettavo che entrasse Fonzie da un momento all’altro, per la gente, che era praticamente anziani vestiti quasi anni 60. E gli hamburger li facevano al momento, dal macinato, non sembrano neanche parenti di quelli di McDonald’s. Sono hamburgher VERI. Più avanti abbiamo scoperto un altro messicano, ma più selvatico, vicino a un passaggio a livello; assomigliava alle peggio bettole nostre, con le sedie tutte diverse, e pure i tavoli, tutto plasticone, e lo gestiva un paio di messicane che non definirei anoressiche, anzi, erano più larghe che alte; i camerieri erano i figli, tutti rigorosamente troppo piccoli per lavorare, il più vecchio avrà avuto 12 anni. Il marito di una arrivava, si metteva in un tavolo e beveva birre, e non contento da stravaccato stressava sua moglie continuamente dicendole le tipiche cazzate da ubriaco che ha finito la scuola dell’obbligo a 20 anni. Non è difficile immaginare che ci stava sulle balle, sorta di paradigma di marito parassita che non fa un cazzo dalla mattina alla sera e vive dei soldi che guadagna la povera congiunta. Una situazione che avrebbe dovuto consigliarci di darcela a gambe e tornare al nostro solito messicano, ma siccome siamo dei testardi, ovviamente quel giorno, la prima volta, ci accomodiamo e ordiniamo. Non siamo più tornati nell’altro, a parte un paio di volte che eravamo di fretta: per raggiungere 44


quest’ultimo ci vuole una mezz’ora in più tra andata e ritorno, e a pausa pranzo, se hai finito tardi e devi essere al lavoro in orario, fa la differenza. Ma questo era decisamente meglio, i piatti erano meno “esagerati”, più cucinati con eleganza e classe che con la violenza dell’altro locale, la brutalità della povertà del luogo cozzava con la qualità del cibo, tutto buonissimo, qualsiasi cosa ordinassimo. Inoltre era anche decisamente più economico, essendo più osterìa brutal che ristorante. Infatti era sempre pieno, così si sfrattava prima o poi il marito nullafacente che a tutti gli effetti ci indisponeva. Poi c’era un bar dove andavamo talvolta dopo cena, anche questo ricoperto di legno; ogni sera c’era il concerto di un chitarrista acustico, uno sempre diverso, intendo, ma arrivavano tutti da soli, alla stessa ora, verso le 9 e mezza, l’ora del whisketto post-prandiale. Il tipo arrivava, spesso aveva il cappello da cowboy che appendeva al muro, salutava tutti; non di rado il chitarrista di turno passava a dare la mano a tutti i presenti, ma la stanza dove suonavano ha 6 tavoli, non era mai una cerimonia lunga. Poi prendeva una sedia da un tavolo libero, qualcuno si metteva uno sgabellino per la gamba su cui è appoggiata la chitarra, e partiva il concerto. C’era sempre qualcuno che chiacchierava apparentemente incurante, ma quando cominciava la musica abbassavano tutti il tono, passavano al sottovoce. E qui arriva la nota dolente: quel bar era L’UNICA cosa da fare la sera a Reidsville, a parte mangiare in qualche ristorante e poi tornare a casa. La città era diventata una sorta di quartiere dormitorio, dove non ci sono locali, discoteche, grossi concerti, ma neanche bar da fighetti dove conoscere gente. Finita la giornata di lavoro, o vai a Greensboro, o fai un salto in Virginia, ma è lunga trovare qualcosa da quella parte, perché c’è bosco fitto per un bel po’ di miglia. O letteralmente ti aspetta un sarcofago come opzione di serata. La città è piena di anziani abbarbicati alla loro casa di proprietà, i figli sono scappati. Una situazione simile a quella di Venezia, dove tre quarti della popolazione residente “nativa” ha più di 70 anni. Inutile dire che l’anno successivo ho preso un appartamento a Greensboro, preferendo perdere due ore al giorno per andare e tornare dal lavoro, ma dove effettivamente c’erano molte opportunità per divertirsi; di questo racconterò nel prossimo capitolo, e riprenderò il tema Reidsville successivamente per raccontare alcuni aneddoti di lavoro, tornadi e una operazione di polizia nell’azienda di fronte alla Filcas. 45


Due appartamenti a

Greensboro 46


Racconterò di due dei tanti appartamenti che ho girato, perché in entrambi c’è stato qualcosa di più del semplice alloggiare. Non curiosamente stavano a pochi km di distanza, uno sopra e l’altro sotto la Wendover, perché era la zona con gli affitti meno feroci, e tutto sommato comoda per raggiungere Reidsville tramite la 40 e poi la 29. Il primo, anche in ordine cronologico, era quello a nord, in un villaggetto per lavoratori pendolari, vicino a W Market St, e lo si raggiungeva passando accanto a questi pachidermi d’alta tensione nella foto sopra, che ronzavano inesorabili, inarrestabili. Per fortuna erano abbastanza distanti da risultare inaudibili. Il villaggio era diviso in vari stabili di due o tre piani con più appartamenti, sorta di condominietti, con auto da ceto medio-alto, dentro le quali non era raro 47


vedere campioni di prodotti, valigette 24 ore, mappe e magari 3 o 4 vasi prosciugati di caffè Starbucks. Praticamente tutti dirigenti spostati per un periodo a Greensboro, o venditori (non i porta-a-porta, parlo dei B2B) che avevano deciso di spendere qualche mese a battere meticolosamente tutti i possibili clienti nell’area. Difatti nel periodo in cui sono stato là non ho sentito festini nè caciare di alcun tipo, tutta gente che sta lì per motivi di lavoro, magari in cerca di riscatto, e quindi non è propensa a comportarsi come studenti del college. Io e marius avevamo due appartamenti sullo stesso pianerottolo del condominio più grande, dalla parte del bosco, situazione comodissima per interagire. Potevo attirare la sua attenzione tirandogli pigne in testa quando era in terrazza, o più civilmente uscendo e andando a bussare direttamente al suo uscio. Gli appartamenti erano piuttosto grandi, come penso si evincerà da questa serie di foto del mio, che avevo scattato per mostrarlo ai miei.

Panoramica dell’open space sala da pranzo/cucina/salotto. Dal salotto si accedeva alla terrazza attraverso quella porta finestra.

Salotto, dalla parte del mio trono per guardare la TV; il corridoio con le camere da letto a sinistra e bagno/lavanderia/ripostiglio a destra; la lavanderia.

Le due camere da letto.

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Purtroppo non ho foto dell’esterno, e mi spiace perché sarebbero state funzionali alla descrizione. In quell’appartamento mi trovavo bene, per questi motivi: • Io sono spatentato, e abitava a 8 metri da casa mia l’amico-collega automunito con cui andavo d’accordissimo, e ci piacevano gli stessi ristoranti e gli stessi locali. • Era munito di connessione internet ultraveloce e TV via cavo. • Avevo due camere da letto, uno col letto queen size e l’altra con uno singolo, e due divani comodi, potevo anche metterci a dormire un plotoncino di amici a fine serata. • Terrazza privata larga come il salotto e la prima camera da letto, perfetta per prendere il sole, o mangiare, o bere un drink con qualcuno. E poi ero a ridosso di questo boschetto, in mezzo alla natura. Non avevo finestre su quel lato, stavano tutte nel salotto e le due camere, cioè verso i tralicci di alta tensione, che non vedevo perché c’erano frapposti un sacco di alberi e un altro condominietto. Spesso arrivavo a casa distrutto da una giornata particolarmente stressante. La strategia era sempre la stessa. Mi negavo ad eventuali sortite serali, mangiavo qualcosa di veloce, e mi ficcavo a letto dopo cena, così mi svegliavo prestissimo, alle 4 o 5 di mattina, Mi pigiamavo, facevo un caffè con la caffettiera che mi ero portato dall’Italia (il vero italiano all’estero), e non lo bevevo tranquillo perché avevo già ricominciato a pensare a tipi di carta da usare e come accoppiarne di differenti per ottenere qualche effetto originale, sequenze di stampa convenienti, come sistemare lo showroom, come mettermi d’accordo con lo scannerista per fare una riunione e passargli le illustrazioni nuove... ALT. Cancellavo tutto, mettevo il giaccone perché era inverno, pacco di Camel, accendino, scarpe senza legare le spighette a mo’ di ciabattone, e uscivo sul pianerottolo. Immaginate una piattaforma di legno tra due case (erano proprio staccate, legate solo da queste piattaforme ad ogni piano), in mezzo la scala, stretta, che sale zigzagando tra i piani, anche questa completamente in legno. Alla fine della piattaforma, dalla parte del bosco, un corrimano che ti fa pensare ai western, come quella del piano superiore nel saloon. Mi ci appoggiavo con i gomiti, accendevo la sigaretta e guardavo verso il bosco. Dalla casa partiva un prato in discesa, che finiva dove iniziava la collinetta di fronte, e dal punto più basso di quella collina, alberi altissimi, improvvisamente, a perdita d’occhio. Noi stavamo al secondo piano, ma gli alberi erano almeno venti metri più alti del tetto. Sulla sinistra si intravvedeva Market St attraverso gli alberi, da quella parte più bassi. Sulla destra, colline e collinette una dietro l’altra per km, con le montagne del Piedmont sullo sfondo. 49


Quando ti svegli così presto non te lo perdi il sorgere del sole, hai anche il tempo di aspettarlo, e da quella posizione era magnifico perché arrivava da dietro sulla sinistra (la facciata guardava verso sud-ovest), per cui vedevo il riflesso fino alle montagne, aspettavo il momento in cui la realtà diventava compattamente rossa, a parte le zone in ombra. E più o meno in quel momento cominciavano ad arrivare i soliti scoiattoli. Calano dagli alberi con aria quasi minacciosa, tutti allo stesso momento. Alla fine della collinetta d’erba dietro casa c’erano dei trespoli con casette per uccellini e vaschette con miglio e altre granaglie. Era quello che volevano gli scoiattoli. Rapidissimi sono già per terra, corrono, si arrampicano sui trespoli e come piranha pelosi si mangiano tutto quello che c’è nelle vaschette, gli uccelli li contrastano vanamente ma poi sopraffatti dal numero scappano. La scena dura qualche minuto. Ho visto che chi curava quelle casette per uccelli, una donna energica sui 55/60, una volta s’è presentata all’alba con la scopa a cacciare quei piccoli bastardi ma, come ho appurato al B&B di John, è scientificamente impossibile. Magari scappano adesso, poi appena ti giri sono di nuovo in azione. Ti batteranno sempre, tanto tu prima o dopo dovrai allontanarti a fare altro. Gli sono in ogni caso debitore di questi microeventi scacciapensieri. Un altro vantaggio era la vicinanza a Sheetz, che stava aperto sino alla notte fonda. La foto a destra devo averla fatta alle 2, in seguito a un venerdì sera passato a Winston-Salem, mi pare. Siamo partiti da lì che era l’una e mezza, e a metà strada ci è venuta fame. Come al solito avevamo preso la 421, che passa in mezzo ai centri abitati, ma nonostante ruotassimo la testa a destra e sinistra come in una partita di tennis vedevamo solo insegne accese con sotto le luci del locale spente. Stavamo rapidamente valutando cosa avevamo a casa da mettere assieme per

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fare uno spuntino, del genere che uno aveva il pane e l’altro il salame, ma ci risultava solo roba da cucinare e alle due non ne hai voglia. In più eravamo tutti e due senza birre. Intanto, attorno era tutto chiuso. Nell’auto è calato un inconsueto silenzio, due chiacchieroni inarrestabili sconfitti dalla mancanza di uno spuntino lussorioso, tipo alette di pollo fritte o un paninazzo di quelli definitivi. E una birra fresca. Una bella birrona gelata. Improvvisamente, ormai quasi giunti a destinazione, come un’oasi in mezzo a un deserto, l’apparizione della sagoma rossa di Sheetz. Sembrava avesse persino un’alonatura come le teste dei santi nei dipinti rinascimentali. Entrambi, all’unisono, siamo passati dalla posizione “sacco di patate” a “guerriero ninja”. La scena successiva: Marius, con manovra degna di un campione di rally entra nel parcheggio zigzagando e frena in uno slot di fronte all’entrata, e giuro che c’è stato un momento in cui stava ancora seduto dentro, con la cintura appena tolta, e contemporaneamente era già in piedi fuori dal PT Cruiser, per dire la velocità con cui è uscito dall’auto. O quanti whisky avevo bevuto quella sera. Per non essere da meno, un secondo dopo ero fuori anche io. Ci siamo diretti al banco e abbiamo ordinato tutto, volevamo mangiare anche i commessi, poi ci siamo ridimensionati sui soliti panini con pollo alla griglia, forse nachos o burritos, di sicuro patatine e birre. Mentre addentavamo i panini rinfrancati e di nuovo ciarlieri, ci dicevamo appunto, tra le altre cose, che avevamo trovato il posto giusto, da rimanerci finchè lavoravamo a Reidsville. 51


Abitavo lì da un mese ormai, e avevo avuto negli ultimi tempi dei pruriti ingiustificati: non c’erano zanzare o altri insetti ematofaghi. Pensavo a qualche allergia, pollini di piante di un altro continente cui non sono abituato, anche al lavoro avevano notato che mi grattavo sempre più spesso. Una sera la storia era diventata quasi insopportabile. Mi sono fatto una doccia di un’ora, grattandomi con la spugna ruvida, e alla fine mi sono sentito sollevato, persisteva ancora qualche pruritino, ma niente di angosciante come l’incubo prima della doccia. Rilassato, eccomi schiaffato a letto, ho dormito subito. Quella notte è arrivato il momento peggiore. Mi sono svegliato prestissimo, verso le 3, perché il sonno era diventato dormiveglia a causa del fatto che mi stavo grattando sempre più forte, quando ho aperto gli occhi mi sono reso conto che le lenzuola, la mia maglietta, il cuscino erano pieni di macchie e striscie di sangue (quasi come un film gore), e io ero completamente ricoperto di bolle come se avessi la varicella o il morbillo. Mi sono rimesso sotto la doccia, con l’acqua caldissima che mi correva addosso sentivo più bruciore che prurito, e francamente lo preferivo. Ma non potevo stare a bollire come un’aragosta per ore, a un certo punto ho smesso e sono rimasto a rantolare oscenità e smadonnamenti camminando per la casa. Sedermi o peggio stendermi di schiena mi aumentava il prurito. Alle 7.30 Marius mi ha bussato, stupito che non fossi ancora pronto. Ho aperto in accappatoio ed è rimasto pietrificato. Sembrava che mi avessero accoltellato in tutto il corpo con un ferro da calza. Gli ho detto che non mi pareva il caso di andare al lavorare in quelle condizioni, e nel frattempo mi grattavo e insanguinavo ulteriormente, era insopportabile. “Non puoi restare qua in quelle condizioni”, mi dice. Dopo un breve consulto telefonico con il capo si decide che vengo lo stesso in sede, e la ditta mi fa visitare in un centro dermatologico nell’area nord di Greensboro. Mi vesto e partiamo, con me tarantolato a fianco di un guidatore preoccupato che la cosa non sia infettiva. Al lavoro sono rimasti tutti impressionati, e anche preoccupati, mi stavano lontani almeno 3 metri, e non c’è da biasimarli, sembrava che avessi un virus alla Ebola. Il proprietario appena è arrivato mi ha detto di andare in auto con un manager che sapeva dov’era l’ambulatorio e mi stava aspettando fuori, siamo partiti subito (io seduto dietro) e in un quarto d’ora ero già in sala d’attesa. Mi hanno visto tre dottori, uno di seguito all’altro. Il primo, un indiano, mi ha fatto una serie di domande sulle mie abitudini alimentari, eventuali passate allergie e altri dati medici che gli servono per la diagnosi. Il secondo, afroamericano ha analizzato i miei bozzi, ne ha schiacciati e tirati un po’, chiesto anche lui se avevo qualcuna da una lista di allergie che mi ha passato, e io a ripetere che no, mai avuto problemi. La terza, una bianca, ha chiamato me e il mio accompagnatore e ci ha detto che secondo loro avevo la scabbia (!), dovevo essere messo immediatamente in quarantena ma non nel mio appartamento, che andava disinfestato. Non dovrebbe esserci stato pericolo per l’auto, visto 52


che avevo fatto il viaggio vestito e incappottato, ed era durato solo pochi minuti, ma sarebbe stato meglio disinfestare anche quella. Il mio collega riferisce parola per parola in sede, e mi guarda con l’aria preoccupata, è ovvio quello che sta pensando, cioè “E adesso mi tocca anche riportarlo indietro”. Dopo un po’ lo richiamano e gli dicono che hanno chiesto all’Holiday Inn di Reidsville se può tenere un cliente in quarantena, ottenendo l’assenso. Mi deve portare alla stanza prenotata. Paga con la carta di credito aziendale la prestazione, la modica cifra di 850$, si fa dare la lista di medicine da ingurgitare e di unguenti che debbo spalmarmi, ripartiamo verso l’Holiday Inn, ci fermiamo a una farmacia dove prende i medicinali, e finalmente mi consegna all’albergo. Le ragazze alla reception sono quasi tutte le stesse dell’anno precedente, sono state avvisate della quarantena, però mi salutano con i soliti sorrisi e mi augurano pronta guarigione. Vado in camera, e guardo le posologie, c’è una crema bianca che devo spalmarmi dappertutto compreso il cuoio capelluto (un problema, visto che avevo i capelli lunghi), devo prendere delle gocce, delle pastigliette, ingurgito il dovuto e poi mi cospargo questa crema. Per mangiare, telefonavo ai take away lì attorno, la mattina una delle ragazze mi portava un vassoio con caffè, latte (per farmi il caffellatte come voglio IO) due o tre frutti, una fettina di dolce. Al di là di essere unto tutto il giorno come un un bastone della cuccagna, che è invero fastidiosissimo, e dell’isolamento da tutti gli altri esseri umani a parte comunicazioni telefoniche o chat (mi avevano dato un portatile della ditta, per stare in contatto ma soprattutto perché non morissi di noia), era umiliante l’idea di avere preso una malattia così disonorevole. Anche se lentissimamente, la quarantena è passata e finalmente ho potuto uscire. Mi hanno cambiato di camera per disinfestare quella precedente, e sono rimasto lì per un altro paio di mesi. Non ho più avuto pruriti, quindi si sono rassicurati anche i miei compagni di lavoro. Raul, che notoriamente amava gli scherzi pesanti, mi soprannominò comunque “The Scabby Boy”. Una delle ultime sere prima di tornare in Italia siamo andati a cenare all’Applebees, praticamente di fronte al Red Lobster ma dall’altra parte della Wendover Ave; nessuno mi avrebbe riportato a Reidsville e poi fatto di nuovo 60 miglia per tornare a casa (stavano tutti a Greensboro), quindi avrei dormito da Marius, tanto lui non aveva la scabbia in appartamento. Nei due o tre giorni successivi, e pure durante la notte passata là mi pareva di avere di nuovo prurito, ma ho pensato che fosse la forza di suggestione di tornare vicino a dove avevo preso la scabbia. No. Tornato in Italia la situazione prurito è precipitata quasi ai livelli peggiori, quindi ho chiesto una visita d’urgenza per farmi rifare quarantena e le cure. Il dermatologo ha ascoltato la mia storia, faceva una faccia poco convinta. Ha preso una specie di bisturino, mi ha tolto una fettina di 53


pelle dal cuoio cappelluto, ha guardato al microscopio e mi ha detto:“Non hai la scabbia. Questi sono degli acari da letto, quelli americani sono diversi dai nostri, evidentemente non sei abituato. Usa ‘sta crema anti acari, lavati con acqua caldissima, compra un materasso nuovo o fallo pulire a vapore, e lava tutti gli indumenti e lenzuola e coperte che hai usato ultimamente”. Faccio come dice, passato tutto. Dopo aver raccontato in ditta l’accaduto, il padrone non si è espresso, ma credo abbia pensato di denunciare i dermatologi per truffa. Raul imperterrito continuò a chiamarmi Scabby Boy per darmi fastidio, ah ah ah! Che ridere quell’uomo, anche quando ero io l’obiettivo delle sue battute, uno humour sempre carogna.

Questo invece è l’ultimo appartamento dove ho abitato, in Stanley Rd, si chiamava StudioPLUS, ora è diventato Extended Stay America. Nella foto in alto, visto dal retro, corrispondeva alla prima finestra a sinistra, a piano terra. Sullo sfondo la stazione Citgo. La foto qui a fianco è visto da davanti per mostrare la vecchia denominazione e grafica. Qui sotto si vede di lato, e si nota il Car Wash.

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A sinistra l’area salotto/camera da letto/tavolo da lavoro e pasteggio. A destra la cucina.

Era un bilocale con bagno, grande un quarto dell’altro, e vicino alla Wendover per cui abbastanza trafficato, anche se circondato da un po’ di verde; come il resto dell’area, dove ogni albergo ha il suo giardino e un po’ d’alberi attorno, essendo periferia di Greensboro. Però come posizione strategica era migliore. Nell’altro dovevo ricorrere all’auto perché il primo ristorante a piedi l’avrei incontrato dopo due ore, e anche per raggiungere Sheetz a piedi ci avrei messo tre quarti d’ora. Qui, dall’altra parte della strada, a 50 metri da casa mia, c’era (e c’è ancora) Citgo, che ha dietro le pompe di benzina uno snack bar con supermercatino e un ristorante cinese, e poi una serie di paninoteche e altri snack bar, partendo dalla sua destra e risalendo Stanley Rd verso l’aeroporto. Nell’ultima paninoteca, quella gestita da tre afroamericani, sono andato una volta sola. I fatti sono andati così: entro, guardo i panini, ne scelgo uno, gli dico se me lo dà, indicandoglielo, con una birra alla spina. Lui mi guarda per due secondi, poi mi risponde e non dice una sola parola che io possa riconoscere come inglese. Sembrava parlasse una lingua arcana, di qualche civiltà scomparsa. Gli dico, scusa, sono italiano e non ho capito niente, comunque vorrei quel panino e una birra, semplice, prendi quel panino, dammelo, e poi una birra alla spina, it’s that easy. Lui mi indica due o tre panini e continua a parlare in ostrogoto. In quel momento vedo che c’è un bianco in tenuta da jogging che aspetta il suo turno a mio fianco ridacchiando, lo guardo e alzo le spalle e le mani a palmi in alto, a significare: qua non ne esco. Lui si fa una risatona, e mi dice, tranquillo, quando parlano in slang stretto non capisco quello che dicono neanche io, che sto qua da tutta la vita. In quel momento penso: ci sono altre 5 o 6 paninoteche nel giro di 300 metri, ma perché devo rimanere a parlare con l’incomprensibile, che sicuramente lo fa apposta per prendermi in giro? 5 minuti dopo mi sto mangiando un panino proprio nella paninoteca di fronte. Dove mi ha servito un altro afroamericano che però, guarda un po’, capivo perfettamente. Alla fine di Stanley Rd c’erano anche due posti diventati fondamentali, sempre vicinissimi da raggiungere a piedi, il TGI FRiday’s, snack bar, e il Red Lobster, un ristorante. Nel primo andavo quasi 55


tutti i giorni per un drink dopo il lavoro, e nell’altro ho mangiato spessissimo. Li descriverò meglio nel prossimo capitolo dedicato ai miei locali preferiti di Greensboro. Inoltre dietro la paninoteca del parlatore di lingue ermetiche c’era una piccola ma fornitissima mall, 5 minuti da casa mia, e nella zona dietro il Red Lobster altri supermercati di vario genere, dal supereconomico a quello dedicato solo a bricolage e giardinaggio, o soli mobili, o elettronica. Poco prima di arrivare al TGIF passi davanti a un ristorante italiano, il Villarosa. Una domenica ero solo, e avevo appunto voglia di mangiare italiano. Un piatto di ravioli in brodo o tagliatelle al ragù, delle scaloppine, niente di particolare, ma che fossero fatti bene. Entro e noto che ci sono solo due altri tavoli occupati da clienti, e mi insospettisco, ma leggendo il menù vedo più o meno quello che cercavo, c’erano anche lasagne e persino dei gnocchetti all’anatra che prendo subito, e poi proprio scaloppine al marsala, con patate al forno. Da bere provo il rosso della casa, un azzardo fuori Italia, ma a questo punto, mi dico, vado sino in fondo. I gnocchetti sono un po’ troppo duri, e l’anatra si intuisce più che sentirla. Penso: forse sono abituato ai turbo-sapori americani e mi sembra tutto sciapo. Vediamo se le scaloppine sono più gustose, d’altronde è difficile che non lo siano... 56


Le “scaloppine” nuotano, non impanate, in uno strano brodetto trasparente; dico, galleggiano nel vero senso della parola, con sopra foglie di prezzemolo intere dall’aria tragicamente casuale. Cosa sarebbe ‘sta roba? Nonstante il nervosismo, con calma al cameriere spiego brevemente come si fanno, e gli chiedo se secondo lui quel piatto assomiglia a quella che gli ho appena spiegato essere una scaloppina. Non sa cosa rispondere. Gli dico di portarmi il conto e chiarisco che la scaloppina non l’avrei pagata. Mangio due patate, sono buone ma ormai sono deluso. Non ho mai più cercato di mangiare italiano in USA, a parte la pizza da Elizabeth. Il gestore dello StudioPLUS era un afroamericano, come la maggioranza della popolazione in quella zona, di nome Kwami, alto due metri. Era persona molto cortese e sempre pronto ad aiutare il cliente con un sorriso. Sua moglie era una persona inquietante, anche lei altissima, sembrava la sorella cattiva di Grace Jones ma con i capelli lunghi, aveva sempre una espressione del viso trucida. Mi stava simpatica. La loro figlia, tanto per cambiare, sarà stata un metro e 90; ventenne, di una bellezza impareggiabile. Non solo era bellissima, ma aveva una eleganza e delicatezza nelle movenze da sembrare leggera come una piuma, celestiale, e sempre vestita con gusto quasi europeo. Di questi tre, generalmente uno, o al massimo due alla volta erano più che sufficienti per gestire tutto l’albergo a lunga permanenza: non c’era servizio in camera, nè colazioni a buffet, tu ci vivevi come in un normale appartamento affittato per abitazione (e senza la seccatura di pagar bollette). A differenza di un appartamento, però, niente lavatrice. C’era una lavanderia con alcune lavatrici e asciugatrici a gettone giù nel seminterrato, mezzo dollaro a lavaggio e 25 cent per asciugare, mi sembra. Può sembrare poco igienico e anche fastidioso, ma in realtà la lavanderia diventava luogo d’incontro. Dovendo rimanere là ad aspettare che finisse il lavaggio, e poi mettere in asciugatrice e aspettare pure quella, ci si ritrovava sempre in due o tre clienti e per passare quella mezz’orettaa finivi col chiacchierare, così in breve tempo ho fatto conoscenza con tutti gli altri, e ho anche avuto modo di chiedere e ottenere passaggi in auto, o raggiunto la confidenza sufficiente per suonargli il campanello e chiedere, che ne so, dello zucchero di cui ero rimasto senza, ma più spesso mi sono trovato io a socializzare qualche alimento mancante. E poi c’era la triangolazione tra clienti dello StudioPLUS, che conoscevano per forza quelli del Car Wash di fronte perché ne facevano uso, ma anche quelli della Citgo per la benzina e soprattutto il The Pop Shoppe dietro, dove andavano più o meno tutti a fare provviste di snack, beveraggi e qualche panino. E poi ci si rivedeva magari al TGIF o al Red Lobster a cena. In due settimane conoscevo tutti, e ci salutavamo, mentre in un mese non avevo salutato nessuno dei miei vicini dell’altro appartamento. Ho avuto l’impressione che abitare dove ci sono tanti afroamericani, a parte l’episodio con la paninoteca, renda più facili le interazioni. 57


I locali di

GREENSBORO 58


La domenica mattina presto andavo spesso a Barnes & Noble, quasi sempre con Marius, ma se era tornato in sudafrica, o spedito in qualche tipografia cinese dalla nostra ditta, scroccavo un passaggio in auto di un vicino di casa, coll’accordo di rivedersi a una certa per il ritorno. Un paio di volte mi ha portato un texano che abitava due appartamenti dopo il mio, quando stavo a Stanley Rd, e che non ho mai visto senza il cappello da cowboy; non se lo toglieva neanche mentre guidava, immaginavo non lo togliesse neanche per dormire. Un tipo taciturno, facevamo il viaggio in silenzio, ma questo non era imbarazzante, sapevamo di avere idee politiche e gusti/passioni/interessi diametralmente opposti, per cui rinunciavamo a misurarci. Però c’era 59


una inspiegabile empatia tra noi. Con lui c’era il vantaggio che tornava indietro il pomeriggio, non so cosa facesse e non mi interessava, ma questo mi dava il tempo giusto per le mie cose. Barnes & Noble è una specie di oasi nella cultura americana. Tutto attorno ci sono una o anche più mall (supermercati come Target, o l’immancabile Wal Mart), negozi di abbigliamento, strumenti musicali, caccia o pesca, armerie dove comprare armi come se fossero scatole di cioccolatini, ristoranti dove si affollano persone che non leggono un libro neanche se li torturi, li vedi e da come parlano e si vestono sai che non li troverai mai in quella libreria. Questo in qualsiasi posto; gli USA sono modulari in un modo allucinante. Ricordo che un pomeriggio in un bar di Greensboro abbiamo conosciuto un camionista che andava avanti e indietro da una costa all’altra, e ci diceva che spesso aveva l’impressione di correre in circolo, uscendo e rientrando sempre nella stessa città. La concessionaria Toyota, il Taco Bell, la M di McDonald’s, le casette di legno nelle zone periferiche e i palazzi in centro, ad ogni nuova città si ripresentavano, regolarmente. Passato attraverso questa umanità votata al disinteresse per la cultura, mi avvvicinavo (o ci avvicinavamo quando ero col mio collega) alla libreria e già la gente era diversa, più elegante, meno chiassosa, più composta. Comprensibile. Dentro c’è, al centro del locale, un bar dove hanno 60


le macchine da caffè come le nostre, proprio quelle italiane, e fanno il caffè come il nostro, non lo sbrodoletto marroncino di Starbucks, e ci sono pastine decenti, addirittura i croissant. Così cominciava il tutto con una colazione soddisfacente, se ero con Marius si parlava un po’ manducando e caffettando.

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Finita la colazione ci dividevamo, e ognuno andava ad indagare gli interessi suoi tra gli scaffali. Quando trovavo un libro interessante, cercavo una poltrona libera e mi ci spaparanzavo. Leggevo comodo e tranquillo, la musica di sottofondo non era mai banale, misto di classica, jazz o fusion, o pop ma mai quello idiota, perché ovviamente i clienti non sono degli ignorantelli alla moda. A volume basso perché le note non disturbassero la concentrazione. Dopo aver scroccato un libro intero o quasi (non sempre il tempo bastava), poi ne compravo uno per leggermelo dopo a casa, alla fine era equivalente al pagare uno e prendere due del supermercato.

Ce l’ho ancora.

Pagare alla cassa era a sua volta un evento piacevole, perché i commessi, per la maggiore donne, erano tutti cortesi, pazienti, e spesso ti consigliavano qualcosa dello stesso autore, o analogo che secondo loro tu avresti gradito. Infatti non di rado gli ho detto di aspettare un attimo, che andavo a prendere anche il libro suggerito. Una volta mi sono presentato alla cassa con la maglietta “Articolo 11, L’Italia ripudia la guerra” che avevamo stampato con LibLab durante le guerre yugoslave, e con mio stupore la cassiera sapeva un po’ di italiano e aveva capito!, così sono rimasto là a raccontarle la genesi di quella maglietta (lei era una liberal), di quanto fosse stato interventista D’Alema (sapeva chi era, e pure tutti gli altri premier europei) e spiegato un po’ come era messa la situazione politica in Europa dopo l’avvento dell’euro. Nel frattempo pagavano altri, lei li scontrinava a dovere e noi continuavamo a chiacchierare. Mi è capitato spesso di chiacchierare anche con altri clienti seduti sullo stesso divano o nella poltrona di fronte, tutti con il loro libro sotto il naso, attaccavi bottone con uno in pausa lettura e nel giro di qualche minuto diventava una tavola rotonda.Va detto che è un atteggiamento piuttosto comune negli americani, si fanno imbarcare subito perché li vedi che gustano a parlottare. Magari si partiva dal libro che aveva uno di noi in mano, e poi si chiacchierava d’altro, anche di cazzeggio puro, come prendere in giro Bush per le sue ultime prodezze dialettiche nel servizio d’apertura di Fox News. Era anche una scuola di inglese efficace, perché ovviamente trovavo gente che lo parlava correttamente, senza accenti totalmente incomprensibili e con ricchezza di linguaggio, il che mi dava modo di imparare vocaboli nuovi. Ecco, mi manca molto quella situazione. Quel senso di pace e tranquillità “attive”. 62


Per quanto riguarda invece attività più prettamente goderecce e disimpegnate, i locali che preferivo stavano quasi tutti nel downtown: anzi, più precisamente in Elm St o nelle immediate vicinanze. In uno dei primi giorni della mia prima trasferta in USA io e Attilio siamo andati a mangiare fuori con il padrone della New Filcas of America e la sua famiglia al Natty Greene’s. Principalmente è un birrificio, e sinceramente non ho bevuto birre migliori delle loro da nessun’altra parte in NC, ma fanno anche hamburger di ogni genere (anche vegetariani) e, di 63


nuovo, è difficile mangiarne di migliori. Infatti era raro entrare e trovarlo vuoto, soprattutto dopo le 6 di pomeriggio quando gli americani escono dal lavoro e vanno all’attacco di bar dove trovare gli amici (o conoscerne di nuovi) per il rituale drink prima di cena. Dall’altra parte della strada (ma ci si accedeva la saletta ristorante del Natty Greene’s girando attorno allo stabile) c’era il M’Coul’s Public House, ristorante irlandese dove pure si mangiava abbastanza bene, ma ci siamo andati solo una volta, una sera con un po’ di venditori della ditta alla fine di una riunione fuori orario. Dopocena, peraltro, siamo andati a giocare la peggior partita a biliardo della storia, i drink che ci eravamo bevuti rendevano le buche impraticabili. Ci sono invece tornato spesso ma piazzandomi al primo piano, c’era un bar dove mi piaceva andare a bermi una sfilza di B52 come si può notare nella foto qui a destra. Dietro quelle finestre c’è una terrazza riparata dal vento, la si intuisce nella foto a tutta pagina qui a fianco, e spesso ci siamo dati appuntamento là nei mesi caldi, perché potevi bere qualcosa e fumare, stando però fuori dal traffico incessante di Elm St (nel plateatico del Natty Greene’s c’era lo stesso vantaggio, ma durante le ore di punta dovevi urlare come in discoteca, per capirti con i tuoi interlocutori: ci passa di fronte una linea ferroviaria e dietro c’è Ero con un amico che mi ha fotografato, non è che ordinassi B52 a due alla volta! la stazione degli autobus). A 50 m. di distanza dal Natty Greene’s, sullo stesso marciapiede della Elm St, c’era il Green Bean, un coffee shop dove potevi bere vino buono e birra, ma soprattutto facevano sempre concerti, quindi qualche sera ci andavamo, prendevamo una bottiglia di vino con due bicchieri e ci passavamo là un paio d’ore. Proseguendo per altri 150 m. ce n’era un altro, un classico bar notturno di cui non ricordo il nome (ora non c’è più, sostituito da un taco), ma del cui interno ho una foto, quella a sinistra, in cui il braccio di Marius viene immortalato nell’operazione-simbolo dell’economia USA: pagare due whisketti, totale 8$... con la carta di credito. 64


E questi erano i luoghi abituali, per non dire rituali. Poi devo citare un paio di posti dove ho mangiato bene, uno molto chic, l’altro spettacolare. E questi erano i luoghi abituali, per non dire rituali. Poi devo citare un paio di posti dove ho mangiato bene, uno molto chic, l’altro spettacolare. E questi erano i luoghi abituali, per non dire rituali. Poi devo citare un paio di posti dove ho mangiato bene, uno molto chic, l’altro spettacolare.

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La serata decolla.

Dietro il M’Coul’s, zigzagando verso sud-est, si arrivava in Summit Ave dove c’era un ristorante che mi piaceva parecchio, il Solaris. C’eravamo già andati un paio di volte perché si mangiava bene, buon vino, servizio veloce, i bagni a portata di mano e un tavolo bello si trovava sempre (io odio quelli in centro alla sala) perché era piuttosto grande, con 3 sale da 50 tavoli l’una. Ma una sera, finita cena, siamo andati al bar del ristorante per un caffè e un drink, e abbiamo conosciuto i cubani delle due foto in alto sulla sinistra, e una coppia di Brooklin scappata in NC per stare tranquilla, perché come diceva Kenny, il marito, c’erano tante di quelle sparatorie, coltellate e scorribande di delinquenti che non volevano assolutamente mettere radici e fare figli là. Lì ho pensato: meno male che quando siamo andati a NY con Attilio non ci è venuto in mente di andare a Brooklin. Con Kenny ci siamo trovati subito in una sintonia incredibile, dopo 15 minuti eravamo già col braccio attorno al collo a urlare “offro io fratello”, “no cazzo, tocca a me!”... un’ora dopo eravamo le due persone più ubriache del locale, e ridevano tutti come si vede nelle foto in alto, perché anche lui quando beve spara cazzate insospettabili, a sorpresa, figurati due completamente ubriachi che fanno ping pong di stronzate al ritmo indiavolato, e in più rompevamo le palle a tutti. Naturalmente nel mezzo non abbiamo risparmiato la barista, molto carina (la foto non le rende onore), che qui si vede al limite della sopportazione ascoltare Kenny che voleva convincerla a sposarmi, mentre io la fotografavo. Poi ci siamo accorti che avevano trasformato un soppalco dietro il bar in uno 66


stage, e ci hanno suonato alcune band, i primi abbastanza noiosi, quel post-rock alla Iron & Wine, ma poi a sorpresa dopo i primi due gruppi lentissimi e pallosi, sono arrivati dei tipi che suonavano qualcosa di più movimentato; li abbiamo poi conosciuti perché ci siamo messi a fare stage diving al primo pezzo. Il palco era alto 20 cm., andava su Kenny, si tuffava e lo prendevo io, poi andavo su io e mi prendeva lui, e loro ridevano a vedere questa scena di rara idiozia, ma hanno notato che effettivamente stavamo attirando tutti i giovani presenti, incuriositi da quel casino; erano partiti con il solito math rock compassato, ma vedendo questo entusiasmo si sono messi a suonare sempre più veloce finchè non è diventato praticamente un concerto punk hardcore, e sono partiti tutti a fare mosh pit. Un casino incredibile. Lì ho capito che quando partono col mosh pit gli americani, sono cavoli amari, pestano come fabbri donne comprese. Poi alla fine ci siamo fermati a parlare con loro un po’, ci hanno ringraziato per il supporto, e spiegato i problemi che incontravano per trovare una casa discografica. A fare discorsi seri io e Crazy Kenny (come io e Marius l’avevamo ribattezzato) ci siamo placati, sua moglie lo ha finalmente catturato e ridendo mi ha detto “scusa, ti porto via l’amicone, vi rivedete un’altra sera”. Segue scena strappalacrime dei due amici ubriaconi abbracciati che si dicono cose imbarazzanti tipo “sei il più grandissimo amico che abbia mai avuto anche nelle vite precedenti”. Ci siamo anche baciati, sua moglie e Marius ridevano di gusto. Poi si sono stufati perché continuavamo a vaneggiare, probabilmente se non stoppati sino al pomeriggio successivo; ognuno ha preso il suo e lo ha portato di peso in auto. Raramente trovato un compagno di avventure per fare serata come lui, di quelli che non si tirano mai indietro rispetto a nulla, compreso tentare di ballare il tip tap sopra il banco bar rincorsi dai baristi. Ci piaceva molto anche il Green Valley Grill (si, a Greensboro i locali con il Green e il Greene nel nome abbondano), collegato con l’O. Henry Hotel, entrambi categoria lusso, qui a fianco la sala principale del ristorante. Filetti spettacolari, alti 5 cm come le fiorentine, cotti perfettamente (il medium rare), ma era ottimo anche per il brunch, con frittatine, patate arrosto, insalatine, ci siamo andati spesso con i colleghi/amici della ditta. 67


Quando avevamo voglia di una pizza andavamo da Elizabeth’s Pizza, l’ultimo sulla Battleground Ave, andando verso nord. Ci eravamo andati la prima volta con altri compagni di lavoro, che ci hanno presentato i padroni - erano contenti di parlare con italiani - e la pizza era buona: i pizzaioli erano napoletani immigrati, non italoamericani come i padroni, e infatti li sentivi urlacchiare in napoletano stretto nella zona forno. Per cui prima ci tornai qualche volta con Attilio, e poi ho continuato con Marius. Io tentavo sempre di atterrare nel primo tavolo a muro sulla sinistra (ho già detto che mi piace avere un muro di fianco o dietro quando mangio, e qui confermo). Dopo un paio di volte, se quel tavolo era libero, Marius ci si dirigeva da solo, ormai abituato dalle mie paranoie logistiche. Era molto paziente, quel gigantesco afrikaan. Io prendevo sempre pizze con un numero tendente all’infinito di ingredienti e non contento mi facevo mettere l’uovo crudo. Birra, formato Oktoberfest. C’era da aspettare, ma le cose precipitavano il sabato sera, quando ti toccava aspettare prima di tutto che qualcuno si alzasse e la cameriera ti desse l’agognato tavolo. E poi attese per l’ordinazione, e per avere la pizza... È la solita strategia: dopo l’ordinazione ti portano subito la birra, e poi aspetti mezz’ora il cibo. Quando arriva, hai bevuto tre quarti di birra per noia e ne ordini un’altra. Infatti siamo andati due sole volte di sabato. E fin qui, un quadro abbastanza generico di un ristorante dove si sta bene, si mangia bene e bla bla bla. Però una volta siamo andati a mezzogiorno, credo una domenica. 68


Siamo entrati, andati al solito tavolo, cominciamo a domandarci che pizze non avevamo ancora provato. A un certo punto sento una presenza di una persona in piedi al mio fianco, sicuramente la cameriera, avevo appena deciso cosa prendere, mi giro per dirglielo, e vedo questa ragazza molto simile a Liv Tyler, ma più bella, con un fisico scombussolante, alta quasi uno e ottanta, che mi sorride e inclina la testa come a intendere “Puoi parlare tranquillo, fammi sta cazzo di ordinazione, siamo tra amici!”. Il mio sguardo dev’essere stato come un libro aperto, sulla pagina dove lui, con una bottiglia di Dom Perignon in una mano e due calici nell’altra, rincorre lei, ilare, disinibita e in sottoveste. Marius mi disse successivamente che pensava fossi andato in coma con gli occhi aperti, perché non respiravo più ed ero immobile come un manichino della Rinascente. La scena mi sembrò durare un quarto d’ora, ma si trattò di pochi secondi. Poi riuscii ad articolare e trasferirgli la mia volontà, ahimè quella culinaria. Per tutto il pranzo quando passava uscivo dalla conversazione e seguivo i suoi volteggi per la sala, e sorrideva, forse perché era grevemente palese il mio interesse. Non l’ho più rivista. Sicuramente uno coi soldi le avrà detto “Senti, togliti quel grembiule, licenziati e sali sulla mia Lamborghini, che ti porto a Miami”.

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L’ultimo anno, quando sono andato ad abitare in un bilocale in Stanley Rd, nella zona all’estremo sud di Greensboro prevalentemente abitata da afroamericani (lo era anche il mio padrone di casa, orgogliosamente chiamato Kwami per rivendicare le sue radici africane), sono entrati prepotentemente nella mia vita due luoghi diventati tappa consueta nella maggior parte delle sere dopo il lavoro. Il primo è il Thank God It’s Friday’s, dove dopo un po’ che 70


lo frequentavo ormai entravo dalla porta e il barman sorridendo tirava fuori la coppa di vetro grande come un lavandino per il Margarita. Dopo una dura giornata di lavoro, passata a risolvere problemi di ogni tipo, fornitori scomparsi perché non hanno finito il lavoro, i messicani in montaggio che avevano sbagliato il colore dei manici delle borsette, lo scannerista che non ha finito le scansioni degli artwork, qualche venditore che sostiene noi avessimo fatto troppo poche borsette con colore dominante azzurro, o verde, o rosso, era un toccasana. Da solo o con altri colleghi mi piazzavo all’angolo del banco bar e me lo sorseggiavo chiacchierando, ci voleva almeno mezz’ora per finirlo. Il bello del Margarita formato gigante è che non ti ubriachi; certo, non rimani indifferente, ma non arrivi ai livelli di quella serata con Kenny al Solaris, è come bersi due/tre Tennent’s o Corona. In più lo accompagnavo con antipastini vari, roba piccante, per cui assorbivo. Nella fattispecie, quelli sotto a sinistra sono ali di pollo fritte, con qualche gambo di sedano e una salsetta di formaggio fuso; quelli sotto a destra invece sono bastoncini di mozzarella e asiago fusi insieme, con sopra scagliette di parmigiano reggiano e quello che chiamano “formaggio romano”, cioè il pecorino, accompagnati da salsa marinara. È uno di quei bar dove ti senti rilassato lo stesso, anche se intorno c’è una folla casinista al punto che guardando una delle tv appese sui muri devi fare conto sul caption control (i sottotitoli) perché non si sente nulla. Erano meno frenetici dei bar in centro, ma anche i clienti, tutti tranquilloni che stavano lì ore a chiacchierare, mangiucchiare e bere. La maggioranza era composta da afroamericani, però c’erano anche bianchi, soprattutto gli ispanici, o latinos come li chiamano loro, un termine che non sopporto perché per me “latino” è italiano. Capisco che è un riferimento all’america latina, ma il termine lo vedo attaccato meglio all’antica Roma che a persone che parlano spagnolo. 71


L’altro luogo che mi ha dato felicità è il Red Lobster. L’ho scoperto per caso mentre giravo in cerca di una mall tipo Leroy Merlin, dietro il TGI Friday’s, e me lo sono trovato davanti. Mi sono ricordato di una trasferta con la ditta, durante la quale ci siamo fermati a mangiare in uno dei loro locali, ed ero stato soddisfatto anche se non pensavo molto a mangiare. Ero distratto da quello che dovevamo discutere dopo pranzo, non avevo quindi fame e infatti devo aver preso della frittura e una insalatina, quella volta. Però vedevo che i miei colleghi si strafogavano astici e aragoste con grande soddisfazione, e pure piatti di ostriche come questo. 72


Comunque, continuo la mia ricerca, trovo quello che mi serviva, materiali da usare come addon per le mie borsette, li riporto velocemente a casa perché non mi fido a mangiare fuori con una borsa di roba per il lavoro, che distrattamente non la lasci appesa a una sedia e me ne vada, dimentico. Ritorno indietro di buon passo, e tutto sto camminare mi ha messo fame. Entro, mi siedo a un tavolino per due vicino alla cucina, guardo il menù e ordino un mezzo astice, una cesar salad una birra da mezzo e le cape sante, che loro chiamano scallops. Vedo che costano 3 dollari e mezzo, penso che saranno DUE in tutto, perché costavano due euro l’una nella Fiaschetteria Toscana, vicino all’ex-Ponte dei Giocattoli, a Venezia. Il mezzo astice è enorme, con la chela e tutto (l’aragosta non ha le chele, contrariamente a ciò che pensano molti di quelli nati in terraferma; è in pratica un mega-gambero. Quello nel logo di Red Lobster è quindi un astice, o nefropide). Quello che però mi sorprende di più è che per quei 3 dollari e mezzo mi portano un piatto pieno di cape sante, una cosa che a Venezia mi sarebbe costata 50 euro. Non credevo ai miei occhi, temevo di aver letto male il menù, che i dollari fossero stati 35 invece che 3 e mezzo, e che mi portassero un conto da 50 $ alla fine. Macchè. Con 15 ho pagato tutto, compreso un whisky al banco bar. Sono uscito dal locale confuso. È stato come mangiare il cenone di capodanno al costo dei soldi per le sigarette. Una sera ho chiesto come mai, mi hanno spiegato che hanno allevamenti intensivi in oceano sia di cape sante che astici, aragoste e ostriche, per cui i costi si abbattono drammaticamente. Inutile dire che l’ultimo anno a Greensboro non ho quasi mai mangiato a casa; mi bastava lo spuntino al TGI Friday’s, o andavo a strafogarmi di ostriche, gamberoni, astici, cape sante e aragoste al Red Lobster. 73


E questi erano i luoghi abituali, per non dire rituali. Poi devo citare un paio di posti dove ho mangiato bene ma ci sono stato una volta sola; uno molto chic, l’altro spettacolare. Il primo è il Table 16, che si trova - guarda caso - ancora in Elm St e descrive la sua proposta come “New World Cuisine”, cioè un incontro tra la cucina del nuovo continente e quella europea. Non posso garantire per com’è oggi, ma all’epoca, una dozzina d’anni fa, con “europea” al Table 16 intendevano principalmente quella francese. Ci siamo andati una sera perché ci passavo davanti ogni tanto, e a colpo d’occhio mi dava infatti l’idea di essere un ristorante francese, anche per il design del locale. Oggi, come si vede nella coppia di foto a sinistra, ha questo intonaco giallo che im-

provvisamente, con profilo irregolare lascia uscire la mattonatura, e ci sono appesi quadri. Quando ci sono andato io, invece, era come nella foto qui a destra: molto freddo, con i muri ricoperti di legno bianco, i tavoli ai lati piccoli e rigorosamente appoggiati al muro, e questo rigore si estendeva 74


all’esterno, con le entrate sempre in legno bianco, un’aria minimal in stile “posto prediletto da intellettuali, artisti e i soliti snob”. A me, però, interessava principalmente perché avevo voglia di mangiare qualche piatto non impegnativo per la digestione, leggerino, magari porzioni non pantagrueliche, da novelle cuisine; e che mi favorisse qualche gusticino inconsueto nella Queste sono cape sante, o scallops. Si di nuovo. Ammetto che sono il mio debole. cucina americana. Con vinello buono. Quando siamo entrati il corridoio era un po’ claustrofobico, i tavoli appoggiati al muro mi davano l’impressione di una mensa, per un attimo ho avuto il timore di essere finito in un postaccio, ma a metà si nota che la cucina è a vista e puoi seguire l’operato del cuoco come nei ristoranti giapponesi, e passato il corridoio si accede alla sala, che è più luminosa e ha i tavoli a distanze ragionevoli. Questo mi ha rassicurato. Ho pensato: se non hanno messo due tavoli in più per spillare più soldi, facendo però stare scomodi i clienti, sicuramente avrebbero avuto la stessa accortezza sia nel servizio che in cucina. La lettura è risultata corretta; il cameriere era veloce ed efficiente, non appena ha capito che Agnello con radice e zucca. avevamo deciso cosa prendere, senza aspettare cenno è arrivato col blocchetto alla mano a prendere le ordinazioni. Il menù comprendeva un po’ di antipasti e quattro o cinque piatti per tipo nelle categorie zuppe, sandwich, mare, carne e vegetariano. Però invogliavano tutti, ogni piatto aveva un ingrediente curioso e inaspettato. Non ricordo bene cosa ho preso, di sicuro una zuppetta gustosissima, molto densa con le cipolle, un piatto di carne (pollo, se non sbaglio) e uno di pesce, ma per certo ho gustato ogni boccone con grande piacere. C’erano clienti solo in altri tre tavoli, e parlavano tutti a voce bassa, persino io (che di solito sono un urlatore), coinvolto dal clima generale; però questo ha consegnato a quel ristorante la palma di posto più rilassante in cui ho mangiato a Greensboro. 75


Il secondo posto è il Lebion, una churrascarìa, cioè una steakhouse alla brasiliana. Qui invece ci siamo stati a una cena con la ditta, tutti i dipendenti dei reparti management e design, i responsabili e i soliti venditori imbucati. Ogni tanto il Grande Capo ci portava a mangiare fuori, una cosa che ho sempre apprezzato. In stile Adriano Olivetti non solo ci pagava bene, più di quello che mediamente guadagnavano ingegnere, manager, grafici e direttori artistici del settore, ma tentava di fare squadra uscendo periodicamente con noi, offrendo la cena e chiudendo un occhio se al tavolo qualcuno si concedeva qualche bicchiere in più. Naturalmente la cena era sempre di venerdì sera, così eventuali hangover se li assorbiva il weekend. Ogni tanto durante queste serate si parlava anche di lavoro, ma per la maggiore battute, aneddoti comici e scherzoni. Un’altra volta, alla fine di una di queste cene, ci ha portato tutti in discoteca in centro a Greensboro, ma ne parlerò in seguito, ora rimaniamo nella churrascarìa.

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Al Lebion vige l’estremizzazione del concetto all you can eat (“paghi fisso e mangi tutto quello che riesci”). Non c’è un menù, o meglio c’è, ma solo per avvisarti della varietà di carni, contorni, insalate, dessert, tu paghi un fisso, poi vai al buffet (vedi la foto sotto) e ti prendi quanta insalata, contorni e alla fine dessert vuoi, si ordina il vino e poi parte la sarabanda delle carni. I gauchos, non so perché ma mi ricordano certi survivor game 3D Le arrostiscono su quegli spiedoni col manico che si vedono in basso nell’altra pagina, poi i gauchos (camerieri) quando sono pronte impugnano gli spiedi come spade al contrario, brandendo nell’altra mano un coltellone da macellaio (si, al primo impatto la scena ha una certa violenza), girano per i tavoli chiedendo chi ne vuole un pezzo, e a richiesta te l’affettano direttamente in piatto. Il clima comunque è l’opposto del Table 16: qui musica sudamericana a volume piuttosto alto, i gauchos roteano continuamente tra i tavoli, i clienti mediamente mangiano e bevono voracemente, raggiungendo a breve l’ebbrezza sufficiente a trasformarsi in casinisti. Però ci stai bene proprio perché l’ambiente, gli stimoli e le pulsioni sono diversi: abbuffarsi di carne cucinata in modo perfetto, a ritmo di indiavolati samba ti fa dimenticare ogni malinconia. Mi sono divertito con i miei colleghi pazzoidi e mangiato benissimo, ma il top della serata è stato quando alla fine della cena Raul ha portato me, Claudio e Marius a bere il bicchiere della staffa in un bar/teatro lì vicino dove fanno concerti, di cui purtroppo non ricordo il nome, e con mia somma sorpresa mentre ci beviamo i nostri drink seduti davanti al palco... escono gli Average White Band, invecchiati - logicamente - ma dall’aria pimpante, e attaccano subito con Pick Up the Pieces! Finale a sorpresa graditissimo (uno dei miei 3 gruppi funky storici preferiti con Larry Graham e Defunkt) per una serata davvero formidabile. 77


WINSTON-SALEM 78


Winston-Salem è vicinissima a Greensboro. Stanley Rd, dove abitavo l’ultimo anno, è una perpendicolare della 40, quindi basta entrare in quest’ultima e seguirla in direzione Charlotte, una mezz’oretta di viaggio, come si può verificare nella mappa sottostante.

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Il muretto ricoperto di cerchioni, piatti in porcellana e oggetti di ogni tipo.

L’arrivo in centro ti manda immediatamente dei segnali precisi: graffiti, vicino alla stazione degli autobus c’è un muretto trasformato in scultura perché ci hanno piantato e cementato cerchioni d’auto e altri oggetti (un tripudio di arte povera stile “urban”), è pieno di negozi che vanno dall’impostazione “piccola galleria” (in tutti puoi comprare quadri e sculture esposti) al merchandising d’arte tascabile, o posti come My Sistah’s Place (che ha ispirato il titolo del secondo brano di Hurry Up Harry pt. 2) dove compri saponi fatti a mano, stoffe, vestiti e sculturette/oggettistica di cultura africana (non afroamericana, è un approccio proprio root), e poi il museo d’arte americana Reynolda, il SECCA (Southeastern Center for Contemporary Art) e il museo antropologico dell’università Wake Forest (sono tutti nella stessa area, infatti non capisci se non dai contenuti dove stai scorazzando).

L’entrata del Reynolda.

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L’interno del 6th & Vine.

A margine, il Reynolda a noi europei suscita una sensazione bizzarra: io ho avuto per anni in salotto un tavolo più antico di qualsiasi pezzo in quel museo. Sembra più modernariato che pezzi di storia dell’arte. Arrivati a destinazione, ci dirigevamo subito al 6th and Vine, perché l’arte è bella ma quando hai un languorino posponi, e pretendi soddisfazione per la tua panzetta. Era uno dei miei ristoranti preferiti di tutto il North Carolina, assieme al Table 16, il Green Valley Grill e il Red Lobster di Greensboro. Entri, e in due secondi hai già capito di avere trovato il posto giusto.Vini europei (italiani, francesi e, capperi!, dei portoghesi niente male) e californiani (ho bevuto un Cabernet fatto là che

Un graffito di fronte al 6th & Vine.

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pareva proprio il nostro Franc come hanno detto pure i miei commensali). Per carità, io non sono un sommelier, o almeno un fine intenditore, sono più sensibile a birra o superalcolici; garantisco che ne abbiamo provati tanti (quasi tutti) e quantomeno non abbiamo mai pensato che uno sapesse di tappo o fosse una specie di tavernello. Per accompagnare la bevuta ti davano dei piatti con formaggi e salumi italiani. Eravamo già palesemente alticci nonchè accecati dal flash.

Quando ho messo in bocca ‘sta fettina di pecorino, e poi un gorgonzola bello morbido, dopo mesi di ristoranti messicani e steak houses, ho chiuso gli occhi e provato un piacere che nessuno può capire se non passa qualche anno in USA. Non vi dico poi la fettina di salame e quella di mortadella, che parimenti non mangiavo da mesi per via di un ciclo di lavoro che non mi prevedeva rispedito in Italia. Il ristorante offriva cucina europea e piatti in cui tentano di fondere la cucina loro con la nostra; i risultati erano piuttosto soddisfacenti e soprattutto non indigesti.

Jam session.

In più all’ora di cena la saletta vicino all’entrata viene svuotata di tavoli e sedie, diventa palco e ci suonano; ho visto due concerti in due sere diverse, due gruppi tecnicamente fortissimi - ma in USA non ho mai visto gente che “suonava male”. Non come quelli che mi hanno fatto cadere la mascella a Savannah (vedi capitolo relativo) ma quasi. Tutti e due genere funky/fusion con fughette rock,e persino prog; credo perché Phish quel periodo impazzava in lungo e in largo.

Non vorrei dare adito a sospetti su una mia propensione a sfondarmi di birre: è una certezza.

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Il mio amico e collega sudafricano Marius felice dopo avere razziato My Sistah’s Place.

Tornando a My Sistah’s Place, che sta in Trade St, ci ho trovato dentro tutti manufatti interessantissimi, niente di produzione industriale. Una caparbia vetrina di artigianato. Ho goduto, senza mezzi termini. Il sapone nero, con minuscoli pezzetti di legno e sassetti dentro che ho comprato là era un piacere da usare quando facevo la doccia, alla mia morosa di allora piaceva parecchio, infatti quando ci sono tornato con lei ne ha fatto una scortina; e con la enorme proprietaria, tra donne, hanno fatto subito comunella e battutine. Metti a contatto due donne e facilmente quelle, con quella linguaccia, partono a perculare i maschi. Quel sapone profumava di albero; si sentivano radici, tronco, rami, foglie, fiori. Lavarsi con un albero, che sensazione bizzarra e piacevole! Le sculture africane davano l’idea di portarsi dietro 50.000 anni di umanità, ma forse anche un po’ del cro-magnon e persino il neanderthal, ci vedevi dentro l’origine dell’Uomo, come è stata effettivamente l’Africa. 83


Pochi minuti prima di cadere nella perdizione, non vedevo l’ora.

Proseguendo in Trade St finisci davanti al Silvermoon Saloon. Quando l’abbiamo visto la prima volta ci siamo fatti due foto fuori (una è quella sopra) e poi ci siamo sparati dentro, convinti che fosse un altro posto da non perdere. Avevamo ragione. Due motociclisti (una coppia) dopo esserci bevuti assieme un po’ di B52 (il mio cocktail preferito con il Rusty Nail e il Negroni, ma più leggero e dolcetto, io lo considero un cocktail da merenda e infatti me lo bevo sempre di pomeriggio, all’ora del tè) mi hanno imbarcato a fumare dietro il locale. Mi accommiato con un “torno subito” e li seguo. Tirano fuori una ganja violastra, a quella vista i miei occhi sono diventati grandi come due piatti zildijan. 5 minuti dopo invece - rientrati nel retro del bar - avevo gli occhi come Mr. Magoo, e ridevo steso su un divanetto, con i 2 rudi motociclisti ilari a loro volta e soddisfatti di avere piegato l’amico italiano come si deve. Uno ci tiene, a verificare che il festino estemporaneo che ha organizzato è stato apprezzato. Tra cocktail e fumi sono andato furiosamente di legno, sparavo cazzate straordinarie, abbiamo passato un fine pomeriggio con le lacrime agli occhi per il ridere, e poi racconti febbrili per scambiarci le nostre culture ed esperienze, lo dico chiaro e tondo, uno dei momenti più divertenti in 4 anni passati nell’andirivieni tra Italia e USA. 84


Una illustrazione in una delle gallerie sparse per Winston-Salem che si presta a molteplici letture.

Parlando invece genericamente di Winston-Salem, va detto che ogni tanto fanno qualcosa di straordinario: chiudono tutti gli accessi al centro, tu arrivi in auto e sei costretto a parcheggiare nella periferia. Basta auto, diventa una città di pedoni, tirano su palchi per suonare negli slarghi e piazze, e giù concerti e feste per qualche giorno. Te ne guardi uno, poi a metà ti stufi, ti fai quattro passi e ti trovi in mezzo a un altro concerto completamente differente, lì c’era funky, qua rock, ma se allunghi l’orecchio c’è un gruppo punk che suona nell’altro isolato, ti prendi un’altra birra al primo bar e ci vai. È pieno di gente allegra, mai visto una rissa, anzi, entri nei bar e se attacchi bottone ti rispondono subito come se non vedessero l’ora di farsi imbarcare, e non ci trovi molti ignorantoni; è tutta gente interessata all’arte e alla musica. Poi erano tutti curiosi di capire che ci faceva un europeo là, in quella realtà locale non certo di risonanza mondiale come New York o Roma. Come gallerie d’arte, me ne sono piaciute due che stavano adiacenti, anzi, per essere precisi una occupava il piano terra, l’altra il primo piano nel palazzo di fianco (guarda caso) al 6th & Vine. Lascio qualche immagine a commento nelle prossime due pagine. 85


RomanticherĂŹa.

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I gestori dei due locali erano persone intelligenti, raffinate, cortesi. Quelli della Seed Gallery a dire il vero si sono manifestati dopo un po’ che giravamo tra le sale, denotando una curiosa fiducia nei confronti dei visitatori; gli altri invece più presenti, anche per via della struttura, più orientata al negozio. Ci hanno spiegato pazientemente tutto quello che abbiamo chiesto, e di fronte a tanta cortesia non abbiamo potuto evitare di comprare qualche oggettino d’arte, compreso il dollaro con l’effige di Saddam Hussein, che purtroppo ho dimenticato nel mio appartamento a Stanley Rd quando sono tornato definitivamente in Italia.

L’insegna un po’ naive di una delle due gallerie d’arte/negozio.

Art-O-Mat, distributore automatico di piccoli oggetti artistici.

Dettaglio; il famoso dollaro Irakeno :D

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Viaggio a

SAVANNAH 88


Negli accordi contrattuali era previsto periodicamente un viaggio A/R per la mia compagna di allora che stava in Italia, e qualche giorno di ferie per me. La prima cosa che abbiamo fatto al suo arrivo è stato affitare un’auto, in uno degli uffici al primo piano dell’aeroporto di Greensboro, pomposamente nomato Piedmont Triad International Airport. Non ricordo in che compagnia siamo caduti, ma in un delirio di onnipotenza abbiamo valutato il top, una Buick LeSabre 2002 (700$ alla settimana). Dopo aver analizzato gli interni, sorta di salotto asociale perché composto di due poltrone e un divano dietro le loro schiene, con radio satellite XM e tutti gli optional, abbiamo deciso che sarebbe stato l’appartamento semovente che cercavamo per vagabondare quella settimana. 89


Buick LeSabre 2002. Quest’auto è pura comodità.

Aneddoto: io non ho la patente, Alberta non aveva mai guidato un’auto americana. Siamo rimasti 10 minuti fermi in parcheggio perché non capiva come avviarla. Girava la chiavetta, non succedeva niente. Abbiamo anche avuto il sospetto che fosse “rotta”. Per fortuna è passato un baldo e gigantesco signore che ci ha spiegato; capito il meccanismo ci siamo diretti verso casa mia. Abbiamo deciso di andare a Savannah su consiglio di un mio collega magazziniere. L’ultimo giorno di lavoro prima della mia vacanzetta mi ha detto, mentre ci fumavamo una cicca in giardino: “È un posto bello, se ci vai con la tua donna, ma meglio da solo, he he he!”. Dal suo sguardo ho capito che non mentiva, e ho prontamente subodorato sue fughette colà, all’insaputa della moglie, ma non mi sono permesso di chiedere (“don’t ask, don’t tell”) così l’ho ringraziato e dopo aver guardato un po’ di foto e letto i siti turistici locali ci è parsa una buona idea. Fatta. Per raggiungere Savannah dovevamo attraversare tre stati: North Carolina, South Carolina, Georgia (anche se il tratto in quest’ultimo è minimo). Tra le varie possibilità abbiamo scelto di passare per Charlotte e poi Columbia, come si può vedere nella mappa qui a fianco, e come mi aveva suggerito il collega. Il giro per Florence è più breve, ma ero già passato più volte per Asheboro e Rockingham, e soprattutto, dopo mesi e mesi in cui abitavo all’inizio di Stanley Rd e continuavo a vedere il mezzo Km che la congiunge alla Highway 40, avrei saputo finalmente 90


cosa c’è dall’altra parte. Dopo aver bevuto un caffè e controllato per l’ultima volta se ci eravamo ricordati tutto quello che ci poteva servire, siamo partiti di buon’ora, alle 7:30.

Gli americani non vogliono mai rimanere a corto di energia elettrica.

Beh, dall’altra parte di Stanley Rd c’è solo quello che si vede qui sopra per 20 km. Non esattamente un panorama esaltante; una strada stretta e zigzagante, con a fianco i cavi dell’alta tensione, che corre attraverso un bosco. Non mi ero perso granchè durante il mio soggiorno.

Fame. La “nostra” Buick era la prima a destra.

Avvistata una Waffle House prima dell’immissione nella Highway 85, abbiamo fatto la prima sosta. Ci siamo abbuffati di waffle, ovviamente, con vari mieli e marmellate, e succhi di frutta. Anche solo l’idea di doversi ciucciare 8 ore di viaggio effettivamente mette appetito. 91


Ci siamo fumati una cicca mentre controllavamo il tragitto sulla cartina, e poi dentro in auto di nuovo. Abbiamo messo su la radio satellite a palla, canale jam bands, e subito Umphrey’s McGee, moe., Phish e simili ci hanno fatto da colonna sonora per il primo tratto noioso del viaggio, le 60/70 miglia di autostrada sino a Charlotte. Abbiamo odiato a morte questi cazzo di auMaledetti! tobus scolastici, lentissimi, che a quell’ora erano in fermento a portare sbarbatelli in giro per le scuole tra Greensboro e Charlotte. Non potei fare a meno di notare che sono dello stesso colore delle Waffle House.

Charlotte, NC.

Poco più di un’ora dopo, alla velocità costante di 60 miglia siamo giunti a Charlotte. Velocità costante nel senso letterale del termine: le auto USA hanno un bottone sul volante o sul cruscotto che mantiene l’auto all’attuale velocità, puoi anche togliere il piede dall’acceleratore e limitarti a ruotare il volante. È molto utile perché spesso le autostrade sono praticamente un mega-rettilineo per decine di miglia, non c’è bisogno di variare la velocità, e poi anche gli altri premono il bottone. In North Carolina i poliziotti sono particolarmente feroci, per cui se c’è il limite di 60, ti conviene andare a 60 o sono cazzi tuoi. L’ultima notazione non è una semplice lagnanza nei confronti dell’eccessiva durezza della stradale del N. Carolina: è un brutale confronto con quello che abbliamo trovato dopo. Girato attorno a Charlotte, e proseguito per la highway 77, a un certo punto abbiamo visto il cartello “Welcome in South Carolina”. Noi eravamo nella corsia centrale (sono 5 in quel tratto), e appena abbiamo oltrepassato il cartello, con vari rombi di motore hanno cominciato a sorpassarci a velocità assurde in tutte le altre corsie, e suonare quelli dietro l’auto nostra. 92


Fu così che imparammo che la polizia in South Carolina NON è inflessibile. La tal cosa ci ha fatto piacere: la Buick corre, abbiamo recuperato quasi due ore sul tempo di viaggio previsto. Un paio di volte abbiamo passato auto incidentate sul lato della strada, è il famoso fenomeno delle uscite di strada misteriose. L’auto è sempre appoggiata sul guard-rail, perfettamente parallela all’asse della strada. O dentro un canaletto al lato della autostrada. Tu vedi la scena, non ci sono segni di frenata, il tutto appare un po’ surreale. Il motivo è semplice: ci sono tratti rettilinei che durano anche due o tre Km, poi curva larghissima, altro rettilineo smisurato. Dopo un po’, senza dover neanche cambiare marcia o premere pedali, mettici anche un paio di drink in corpo, uno si addormenta e lentissimamente si sposta dall’asse di marcia ed esce di strada, per risvegliarsi al rumore di ferraglia che emette l’auto che si struscia sul guard-rail (per la gioia del carrozziere). Se invece c’è il fossetto, abbatte un po’ di paracarri e ci finisce dentro.

Speedway Blvd.

La parte di ponte dello Speedway Blvd.

Altre notazioni su questo stato non ne ho, in realtà lo abbiamo attraversato tutto a folle velocità, e il paesaggio non è diverso da quello del NC. La faccenda ha cominciato a farsi interessante quando siamo arrivati allo Speedway Blvd. dove si molla il South Carolina e si entra in Georgia. Tra noi e Savannah c’era solo questo ponte lunghissimo, che attraversa due rami del fiume e la parte di terra in mezzo in un colpo solo. Ma non siamo andati in centro a trovare un albergo, abbiamo girato attorno alla città e siamo andati verso la zona delle spiagge, le isole di Wilmington e Tybee soprattutto. 93


Metto tre foto per rendere situazione e paesaggio:

Appena fuori Savannah. Carino l’autobus turistico, pieno di turisti acccaldati.

Swag Toyota. M’ha colpito la sobrietà a livello di luminarie e colore.

“Ma dove l’ho già vista questa strada?”

Ecco, qui abbiamo urlato all’unisono “OUT RUN!!!”. Avremmo voluto che la Buick fosse decapottabile, e poi ci sarebbe stato solo da stupirsi che non si vedevano i pixeloni dello storico arcade di corse. Un deja-vu totale, anche perché dopo la strada attraversa la laguna (purtroppo non ho una foto) esattamente come nel videogioco, per raggiungere le varie isole. Mi è venuto il sospetto che non sia un caso, cioè che una delle piste fosse effettivamente una ricostruzione sommaria di questa strada qua. 94


Finalmente un break al fresco in spiaggia.

Giunti a Tybee Island dopo ore di viaggio abbiamo cercato un albero, dietro una casetta del villaggio turistico e ci abbiamo parcheggiato sotto. Senò al ritorno prima che l’aria condizionata avesse avuto il sopravvento saremmo morti arrostiti. Assenza quasi totale di nubi, un sole che trapanava nonostante non fosse ancora estate. L’area ricorda la pineta di Jesolo, solo che ci sono palme al posto dei pini marittimi, come si vede dall’angolo superiore destro della foto qui sopra. Causa vento leggermente meno impetuoso della bora, la spiaggia, e ogni tanto il cielo, erano attraversati da velocissimi surfisti col paracadute (kite surfing). Ogni tanto saltavano fuori dall’acqua come enormi pesci rondine.

Kite surfer che prende la rincorsa per poi flettere i muscoli e librarsi nell’aria.

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Quando ne abbiamo avuto abbastanza di stare a prendere il sole in spiaggia e guardare questi pazzoidi scatenati, siamo tornati a Savannah, la stanchezza del viaggetto cominciava a farsi sentire, e poi volevamo trovare la stanza subito per avere il tempo di tirare fuori la roba dalla valigia, cercare informazioni sui posti più interessanti da visitare e poi con calma farsi un giretto e a cena fuori. Abbiamo trovato una stanza al Quality Inn, una via di mezzo tra Motel e albergo. Costosissimo, per due notti mi pare 250 $., ma aveva il vantaggio di stare in posizione perfetta, accanto al fiume Savannah proprio dove iniziano tutti i negozi fighi, le barche che portano a fare giri turistici, migliori locali serali/notturni e ristoranti. La stanza non era Man in his shelter. male, superaccessoriata, un bel frigo bar ben fornito. Qui a fianco sono stato fotografato nel momento in cui annusavo un profumino che entrava dalla porta della camera ed esclamavo: “Frittura di pesce... cosa dici, anticipiamo la cena?”

La corte interna del Quality Inn.

Questa è la corte interna di quell’albergo. Dietro c’è una fabbrichetta che dona al tutto un’aria da città industriale ‘mericana, tipo Cleveland, ma molto pulita, senza ruggine o muffa, le ciminiere di giorno sembravano d’argento. È una delle foto di questa gita che ho usato nel libretto 96


del mio EP The Wanderer. Dopo esserci persi un po’ per la città, e stati un po’ in albergo a leggerci depliant e bigliettini di eventi raccolti in giro, siamo usciti per cenare. Ci sono decine di ristoranti sul lungofiume. Il fiume Savannah di sera è effettivamente un colpo d’occhio. A parte la dimensione, le luminarie lo rendono parecchio romantico, un po’ come Riva degli Schiavoni a Venezia.

Il fiume Savannah.

Questa è la strada che passa dietro un’area piena di ristoranti affacciati sul fiume. Siccome il resto delle città è 7/8 metri sopra il livello della riva, e il dislivello si risolve in una ventina di metri in orizzontale, questo è il livello che dà accesso al primo piano (il piano terra si raggiunge solo dalla parte del fiume) e sopra si vedono i passaggi che portano ai secondi piani, che stanno al livello del resto della città.

Vicolo dietro il lungofiume.

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“Ormai avevo prenotato il giro e non ci rinuncio, cazzo!”

Il giorno dopo, a sorpresa, pioggia ad intermittenza; qui sopra la malinconica immagine dell’autobus turistico con un solo, testardo turista che ha sfidato Giove Pluvio. Lo immagino esclamare ogni tanto, con aria di sfida: “HA!”. Io naturalmente l’ho presa bene, a parte quella mezz’ora iniziale di bestemmioni da portuale che non mi sono sentito di risparmiare alle condizioni atmosferiche. Ma quando hanno cominciato le schiarite mi sono rabbonito. come si può vedere nella foto a fianco, quel fiero panzone di 95 Kg dall’aria gaudente ed ilare. Quello alle mie spalle era il mio ristorante preferito, il Dockside Seafood, dove trionfavano i fritti. Era ok anche per fermarsi a bere una birra fuori, guardando la processione lenta dei turisti e contemporaneamente quello delle barche nel Savannah, come due flussi indipendenti ma stranamente sincroni e alla lunga ipnotici. La cosa più notevole del lungomare è che L’ottimo Dockside Seafood. nei negozi domina il verde e i trifogli, i riferimenti all’Irlanda sono ripetuti e persino sfacciati, ovviamente ci sono pure gli irish pub. Nel resto della città assolutamente no, ma appena ti avvicini alla riva del fiume capisci che sei a Little Ireland. La cosa non mi spiaceva affatto, tutt’altro. 98


Tobacco, what are you?

Questo qui sopra non è un tabaccaio, è la perdizione per chi fuma; sono entrato, non uscivo più, comprato vari tabacchi da portare in Italia ai miei amici che fumavano pipa o cartine (anche io ora, mentre a quei tempi fumavo le Camel), ma c’erano anche cylum e bong di ogni foggia e misura. Faccio sommessamente notare la posa ASSOLUTAMENTE identica nelle due foto; in quella sotto sono forse ancora più grasso. Ma almeno sorridente. Una cosa che mi ha colpito molto lungo il fiume sono queste tre figure che fanno capolino dal tetto, vedi a sinistra. Non sono riuscito a sapere il perché della loro presenza, ma sono in ferro battuto e di sicuro non sono una trovata pubblicitaria, non c’è un logo, un brand. I tre misteriosi omini neri. Mi piaceva immaginare che fossero tre esempi di migliaia di figure posticce che gli abitanti di Savannah mettevano sui tetti, per impaurire eventuali nemici che li avessero assaliti risalendo dalla foce del fiume. Chissà se è vero. 99


Un’altro scorcio che mostra il dislivello tra la città e il lungofiume.

Quella sera avevo voglia di bermi un po’ di cocktail o whisketti, e siamo finiti dentro un bar vicino alla piccola fabbrica che si vedeva dal retro del mio albergo; a duecento metri di distanza. Non era un bar di quelli elegantini, somigliava di più a quelli dei CSO. Il barista, un ragazzo sui 18 anni, con dread biondi/castani lunghissimi. Altri ragazzi molto giovani si adoperavano come camerieri, anche loro con un look alternative. I clienti, un po’ sderenati, non i soliti turisti leccati, più gente che si sfondava di whisky e rideva ai tavoli, nella penombra: l’illuminazione interna era volutamente bassa, tipo quella sopra i divanetti più appartati della discoteca. Dopo aver tracannato un paio di drink, a un certo punto notiamo che in un ango-

Motonave per turisti Old Style.

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lo della sala tolgono dei lenzuoli da una struttura che sembrava, e poi si è rivelata realmente, una batteria con due amplificatori discreti ai fianchi. Si siede uno, comincia a suonicchiarla, un altro attacca e stacca cavi tra pedali, mixer e le casse, e sento che si dicono, “ma quando arriva quell’altro?” “che cazzo ne so, la barca sua è già attraccata da un pezzo”. E continuano a suonicchiare e accordare senza costrutto, gli manca il chitarrista. Poi, con passo veloce, il chitarrista arriva. È un bel ragazzo, in infradito, vestito di bianco ma sporchetto, è un pescatore con ancora addosso la maglietta e le braghe da pesca.Tira fuori una chitarra da dietro un mobile, attacca cavi anche lui, apparentemente è il più vecchio dei tre, ma avrà 21 anni. Con Alberta ci siamo lanciati una occhiata del tipo: se sono orrendi, tre sbarbetti che suonano punk alla Blink 182, finiamo il drink e filiamo. 5 minuti dopo abbiamo dovuto recuperare con la ruspa le due mandibole che ci erano cadute a terra. Facevano blues. Il batterista, preciso e secco, come una drum machine, il bassista anche lui preciso, ma caldo e pastoso. Il chitarrista, mostruoso. Si è messo a fare pezzi di Steve Ray Vaughan ma arricchiti ulteriormente rispetto all’originale, e altra roba che non saprei dire se ulteriori cover o pezzi loro, ma è stato uno dei migliori concerti che abbia mai visto. Un’ora e mezzo di musica con tutti gli avventori del bar entusiasti e a spellarsi le mani continuamente durante le innumerevoli prodezze di quei tre. Giuro, mai pensato di andare a un concerto blues perché è un genere che non mi piace molto, ma... in quel caso non mi sono pentito neanche per un secondo di essermelo visto. Peccato che all’epoca non c’era lo smartphone, per poterci girare un video o almeno registrare l’audio. È stata l’esperienza più frizzante durante quel viaggio, credo sia l’aneddoto giusto per chiudere questo frammento del ritratto del North Carolina (ok, qua siamo in Georgia, ma lo inquadro come una delle rapide fughe in un altro stato, e poi, in fondo, faccio un po’ come mi pare).

Pronti per ripartire.

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Aneddoti su

REIDSVILLE 102


Nel capitolo dedicato al viaggio a Savannah, in Georgia, ho fatto riferimento alla severità della polizia del North Carolina. Rispetto a questo racconterò tre fatti, uno accaduto a Reidsville, gli altri due sulla 29, la strada che la collega a Greensboro, andando dal più “leggero” al più spettacolare. Durante uno dei miei primi trasferimenti in USA, una giorno io e Attilio stiamo per immetterci sulla 29 dall’area settentrionale di Greensboro. Si forma una piccola coda, e spunta quasi dal nulla un ragazzo piuttosto giovane, direi sui 25/28 anni, barbuto come un hipster di oggi, magrissimo, dai movimenti lenti, stanchi, ha l’aria di uno che non mangia da qualche giorno, quasi 103


allo stremo delle energie. In mano, un pezzo di cartone con su scritto “non ho casa nè lavoro, aiutatemi”. Si, un homeless in età appena dopo i teen, chissà se scappato di casa, o rimasto senza famiglia e senza lavoro, ma non è un tossicodipendente. Mi dà l’idea di uno che ha davanti una vita in salita e non per colpa sua. Tenta di approcciare le tre auto davanti, ma nessuno gli dà retta, finestrini chiusi, manco lo guardano. Sta per arrivare da noi, quando vedo che butta il pezzo di cartone e guarda alle nostre spalle. Guardiamo nello specchietto retrovisore, sta arrivando un’auto della polizia. Il ragazzo è indeciso tra scappare o fare finta di niente. Attilio vede che ho una banconota da 10$ in mano, e mi fa “guarda che è vietato mendicare, e anche dare soldi a un mendicante, in USA”. Non che avesse sentimenti antagonisti ad aiutare il prossimo, ma temeva che il mio istinto di ingenua generosità si trasformasse in una giornata alla centrale di polizia. Nel frattempo i poliziotti sono arrivati dietro l’auto nostra. Io avevo la cartina di Greensboro aperta sulle ginocchia perché fungevo da navigatore Tom Tom analogico. Mi viene una idea al volo: metto i soldi in mezzo alla cartina, apro il finestrino e chiamo il ragazzo, a voce alta “Hey, scusa, sei di qua?” Fa cenno di si con la testa “Ci puoi aiutare?, perché ci siamo persi, siamo italiani”. Si avvicina, gli mostro la cartina piegata un po’ a V in modo che non si veda da dietro, gli chiedo “Dove siamo, qua o qua? Da che parte dobbiamo andare per Reidsville?” e gli indico il pezzo da dieci. Lui si china sulla cartina, dando la schiena ai poliziotti; e fingendo di indicarci questo e quello agguanta veloce i soldi e ci spiega che siamo giusti, basta girare a sinistra dopo l’incrocio. Arriva il verde, lo ringrazio, lui ha un sorriso da pubblicità del dentifricio. Ripartiamo, noi giriamo a sinistra, i poliziotti tornano indietro verso il downtown di Greensboro. Non riesco a non pensare per alcuni minuti che ho dovuto inscenare una pantomima, inventarmi un trucco per poter aiutare uno in difficoltà, e mi sembra tutt’ora una assurdità. Comunque questo è stato tutto sommato una questione di due minuti di tensione, come preannunciato il fatto meno spettacolare, anche se pone una questione morale. Un anno dopo sono in auto con Marius alla guida, io davanti e Claudio - il responsabile della produzione in Cina - seduto dietro. Torniamo da Reidsville sempre sulla statale 29, a fine lavoro, e stiamo chiacchierando, scherzando, ridendo, per cui il nostro guidatore è leggermente distratto. Improvvisamente mi pare di essere sul set di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, luci rotanti rosse e blu che si riflettono dentro l’abitacolo e i vetri, e subito dopo si sente la sirena della polizia. Sono dietro, vicinissimi, e vedo dallo specchietto che un poliziotto fa segno di accostare. Marius obbedisce, rallenta e si porta sul bordo della strada, dentro la corsia di emergenza, e dimenticandosi di essere in USA, forse per lo stress di dover avere a che fare con le forze dell’ordine per chissà quale motivo, appena accostato apre la portiera per uscire. Io e Claudio ci eravamo girati per guardare e cercare di capire il motivo di quel fermo, vediamo i due poliziotti sporgersi dai finestrini pistola in mano, e urlare “STAY IN YOUR CAR!!!”. Da bravi italiani abbiamo subito paura e ci mettiamo nascosti dietro i sedili. Per fortuna Marius ha 104


tempi di reazione notevoli, richiude immediatamente la porta e si mette dritto, guardando davanti, mani sul volante. Lo facciamo anche io e Claudio, ci sediamo normalmente, non pensino che stiamo prendendo un fucile da sotto i sedili. Quelli escono dall’auto incazzatissimi, sono due biondi del tutto simili a Ivan Drago di Rocky, alti due metri, muscolosi, avrebbero potuto arrestarci anche a cazzotti. Ci dicono, voi due state qua e non muovetevi. Pistole alla mano fanno uscire Marius dall’auto e lo portano dentro la loro. Per un lunghissimo quarto d’ora non sappiamo più nulla, seduti dentro quest’auto, e cominciamo a chiederci cosa diavolo gli staranno facendo. Magari hanno trovato qualcosa, qualche vecchio reato suo in database, ma mi sembra impossibile, è una delle persone più oneste del mondo... forse hanno visto che è sudafricano e lo sospettano di essere un irregolare... oppure si stanno proprio chiedendo: cosa ci fanno due italiani e un sudafricano in auto tra Reidsville e Greensboro? Ma soprattutto, perché ci hanno fermati? Eravamo nei limiti di velocità, niente guida spericolata, niente fanali rotti (eravamo su un PT Cruiser appena affittato, non era neanche impolverato). Ormai siamo in paranoia totale, non sappiamo più cosa pensare, quando si aprono le porte dell’auto della polizia ed escono ridendo il poliziotto non guidatore e Marius, e vengono verso di noi. Il nostro amico nonchè collega sale e torna in posizione di guida, il poliziotto gli dice, mi raccomando, stai tranquillo che è tutto a posto. Ci saluta, e torna indietro, noi lo salutiamo e ci giriamo a salutare anche l’altro poliziotto, che con un sorrisetto ricambia. Ripartono, ci superano e li vediamo sparire all’orizzonte a tutta velocità. Marius accende e riparte, e ci spiega. Il motivo del fermo è: stavamo andando a 61 miglia all’ora col limite di 60, e lì in coro abbiamo detto, ‘azz che reato, roba grave eh!!! Eh si, per i parametri Greensboro anche 60,1 kmh è infrazione. Se vai a 80, penso ti abbattano col bazooka. Comunque i due poliziotti sono passati dall’essere incazzati a quell’atteggiamento amichevole perché lui gli ha raccontato come mai era lì, ma proprio partendo dal contatto che ha avuto con la Filcas mentre stava ancora a Cape Town. I due poliziotti si sono incuriositi, perché non avevano mai conosciuto un sudafricano, visti solo in tv. Lui li ha imbarcati per dieci minuti a raccontargli delle magnificenze del luogo, aneddoti divertenti, e i due erano tutti orecchie, facevano cento domande, e alla fine uno gli ha detto, ormai in confidenza: senti, noi ti facciamo la multa, devi presentarti a pagarla entro tre mesi dopodichè c’è la prescrizione. Ma se vai in Italia e torni tra 4 mesi, la questione si risolve da sola, manderanno un avviso all’appartamento dove ci hai indicato che alloggi, il padrone di casa è tenuto a rispondere che non abiti più lì, e alla verifica che non sei più in territorio USA perché c’è la traccia che hai preso un aereo per l’Italia, si blocca ogni ulteriore azione giudiziaria. Per festeggiare lo scampato pericolo, siamo andati a farci un cicchetto al Green Valley Grill. 105


Il terzo evento riguardante una azione di polizia si è verificato a Reidsville. Era un venerdì, che in america è giorno di paga (lo stipendio è pagato settimanale). Di solito il danaro viene erogato a fine turno mattutino, per cui spesso accade che nel pomeriggio la ditta si svuoti perché molti chiedono un permessino pomeridiano per correre subito a spendere i soldi. Gli americani non sono dei gran risparmiatori. Infatti il magazzino aveva solo quelli più inguaiati con i debiti ai loro posti. In più per vari motivi (ritorni a casa, trasferte, giri a vendere stock di carta e borse) nella parte creativa/gestionale dell’azienda eravamo rimasti i tre grafici (io, Penny e Susan), la segretaria e qualche impiegato. Beh, improvvisamente sentiamo un rumore di elicottero, e rumori di motori come se fosse Indianapolis. Guardiamo verso la ditta che stava dall’altra parte della strada e vediamo che l’elicottero va a parcheggiare sul tetto. Nel frattempo il ruggito di motori si arresta. Esco per scansare gli alberi che ci sono di mezzo, e vedo che ci sono varie auto della polizia parcheggiate là davanti. Anche altri vengono a vedere, e capiamo l’accaduto. Devono avere commesso qualche illecito, 99 su 100 è per tasse non pagate, abbiamo dedotto. Praticamente sono arrivati a sorpresa, senza neanche usare le sirene, hanno circondato tutte le uscite compreso il tetto dove poteva andare a nascondersi qualcuno, e hanno cominciato a interrogare tutti dentro la ditta, lasciando uscire uno alla volta i dipendenti con cui avevano finito le loro verifiche. Evidentemente avevano paura che convocandoli al posto di polizia avrebbero potuto nascondere o distruggere prove. Quando sono arrivate le 6 e siamo andati a casa, c’erano ancora auto di dipendenti e soprattutto tutte quelle dei dirigenti parcheggiate, quindi sono andati avanti sino a notte fonda. Il lunedì successivo la ditta era chiusa, senza neanche un’auto parcheggiata davanti. Ho lavorato alla Filcas per altri 6 mesi prima di tornare definitivamente in Italia, ma quella ditta non ha più dato segni di vita. Non si è mai capito bene cosa fosse successo, ma di sicuro per le peripezie dei padroni hanno perso il lavoro decine di dipendenti. Per carità, non dico che sarebbe stato giusto lasciarli evadere le tasse per salvare lo stipendio degli impiegati, ma di sicuro non hanno fatto un favore alla già quasi ghost town Reidsville. Ho sempre avuto il sospetto che fosse stata una soffiata da parte di qualche mafia che non aveva ricevuto il pizzo dalla ditta, ma sono solo illazioni, non supportate da fatti concreti. Tra 106


l’altro quando ero su non si sentiva parlare di pizzo da pagare, forse ho traslato in quella ipotesi troppo di quello che è tristemente tradizione italica, e non solo al sud. Chiudiamo questa parte di genere poliziesco, e passiamo al meteorologico. Il giovedì prima di andare a Savannah è venuta a prendermi a fine lavoro Alberta, e ci siamo diretti verso Greensboro. Stavamo raccontandoci come era era passata la mia giornata di lavoro e i suoi giretti per il NC, ascoltando a palla la radio, quando ci accorgiamo che alberi, cespugli e persino i semafori (che in USA spesso sono appesi a cavi tirati attraverso la strada, invece d’essere in cima a un palo come da noi) sono un po’ troppo sventolanti, c’è un forte vento fuori perché sento che l’auto stessa è un po’ sballottata di lato, oppure rallenta e velocizza in modo sospetto, ma non facciamo in tempo a pensare che stia arrivare un semplice temporale, improvvisamente capiamo, mi giro e dietro a distanza di circa 10 km c’è una tromba d’aria enorme, il celebre twister, che sta attorcigliando e facendo ruotare nuvole a una velocità che ti aspetteresti solo dai cartoni animati di Tex Avery. in più non è come le trombe d’aria nostre, è larga quanto è alta, anche da lontano fa paura. Alberta lancia uno “Speriamo stia andando da un’altra parte!”, e in effetti ancora sembrava ferma, ma io mi sono ricordato che di solito gli uragani e cicloni vengono giù da nord, e noi stavamo proprio andando da nord verso sud, e nei due minuti in cui abbiamo scambiato queste parole mi ri-giro e lo vedo grande il doppio, si sta avvicinando a gran velocità, a occhio in due minuti o anche meno ce l’abbiamo sopra. Stavamo in un’area dove non si può uscire, e anche se si fosse potuto, dove nasconderci, dietro una delle casette di legno nella periferia di Greensboro? Quelle volano via come aquiloni, ma che dico, coriandoli se ci passa un tornado sopra. Stavamo quasi all’uscita della US-29 Bus e ormai gli alberi ballavano la samba come se fossero fatti di gomma, il vento stesso ci ha fatto andare tra il terrapieno dello snodo e il guardrail, abbiamo proseguito sotto il cavalcavia passando per l’erba, parcheggiato sul lato opposto del terrapieno, quello “riparato”, e abbiamo cominciato a veder passare volando alberetti, cartelli stradali, pezzi di lamiera, oggetti inidentificabili, ma stando dietro il terrapieno non ci finivano 107


addosso. Io ho pensato, siamo fottuti, lo sguardo di Alberta era eloquente, stesso pensiero. Per pura fortuna non è passato sopra la strada, ma a più di 500 metri di distanza. La cosa impressionante è il rumore, sembra il verso di Godzilla, come una voce di animale gigantesco che ruggisce due ottave sotto il tono del leone, o come un tuono che però non finisce mai... credo sia la somma della potenza del vento e il rumore degli oggetti che trascina. L’auto ha ballato e saltato, prima davanti, poi dietro, si è anche girata lentamente slittando sull’erba, e poi quel maledetto si è allontanato e abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Siamo rimasti là altri dieci minuti, che per caso non rallentasse o cambiasse traiettoria e gli finissimo dentro di nuovo. Abbandonando i drammi vorrei chiudere questa serie di aneddoti parlando di qualcosa di leggero: Il Green’s, che stava (è chiuso dal 2012, causa recessione) sulla 29. Sarebbe un locale di Greensboro ma sinceramente l’ho sempre percepito come oggetto a metà strada, anche perché dietro ha solo bosco, manco una casa. Era un oyster bar, con annessa una sala concerti. La sala ristorante era un enorme banco bar fatto ad L, regolarmente pieno di gente e metà avevano il cappello da cowboy in testa, come il mio vicino di casa texano a Greensboro. Noi chiedevamo il piatto con le ostriche intere crude, guscio e tutto, dentro il solito letto di ghiaccio, e le mangiavamo senza neanche toccare i dip (ciotoline con salse micidiali, vere e proprie bombe caloriche in grado di dissestare qualsiasi fegato sul lungo termine). Gli altri, gli autoctoni, se le facevano servire senza guscio e bollite, il che è già disgustoso perché sembravano, scusate la franchezza, enormi caccole; e ovviamente le inzuppavano nei dip finchè - molto probabilmente - non si sentiva più il gusto dell’ostrica ma solo quello del condimento. Lo percepivamo come un gesto di grande barbarie, ma essendo i redneck persone non propriamente accomodanti (eufemismo,) e generalmente forniti almeno di un fucile nel pickup e una pistola in tasca, per non parlare dei motociclisti, stavamo attenti a non commentare su questo mentre eravamo nel locale. 108

Tipico cliente del Green’s.


Uno dei “minuscoli” pick-up che potevi trovare parcheggiati davanti al Green’s. N.B. Marius è alto quasi due mettri.

Naturalmente non c’erano solo ostriche da mangiare, facevano anche i soliti bistecconi (rib); e zuppe che però non ho mai visto nessuno mangiare. Avevano anche vini decenti, e naturalmente una cornucopia di birre. Una sera a fine cena stavano per cominciare i live nella sala a fianco del ristorante, e si è avvicinato un tipo somigliante al motociclista nell’altra pagina in basso, solo che questo era un redneck, col suo bravo cappello da cowboy, stivalazzi e persino braga con le frange. Pareva una comparsa di Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco di Mel Brooks. Ci siamo messi in tre a tentare di capire cosa stesse dicendo, ma solo Marius è riuscito a capire che stava per suonare e voleva che andassimo a fargli da pubblico. Lo abbiamo rassicurato, ok, adesso finiamo di mangiare e poi veniamo di là, promesso! Ha cominciato lo spettacolo, ed è partito suonando il violino in FA e cantando in FA diesis, e non ha più smesso di essere stonato di un semitono. Oddio, non posso garantire per il resto del concerto: siamo fuggiti terrorizzati all’idea di ascoltarcelo tutto. * IT’S - but, hey, that’s a redneck place! 109


Raleigh e Cary 110


Quello qui sopra è il nuovo North Carolina Museum of Natural Sciences, aperto nell’aprile del 2000, e lo scheletro di tirannosauro che si intravede dietro i vetri di quella specie di abside lo conferma. Non è soltanto un museo, dentro c’erano sale interattive basate su tecnologie web, un piccolo cinema ad altissima definizione da 256 posti e una classe virtuale che mette in contatto insegnanti e studenti da tutti gli USA; continua a produrre innovazione e creare nuovi progetti, ma naturalmente qui mi riferisco a cosa ho trovato nella primavera 2005, questo dev’essere un reportage di come era il North Carolina di allora. Ma un dato aggiornato si può dare: È uno dei musei più visitati degli USA, quello con la maggior affluenza nel sud-est: più di dieci milioni di persone ci sono entrate dal 2000 al 2016. 111


Andiamo in ordine cronologico, partendo dal piano viaggio. Per raggiungere Raleigh abbiamo praticamente rifatto la prima parte del tragitto per Wilmington, solo che siamo partiti dal mio appartamento in Stanley Rd invece del B&B di North Park Dr. Siccome stavolta non eravamo molto mattinieri, abbiamo evitato di fermarci a Burlington, Chapel Hill o Durham e fatto tutta una tirata sino a destinazione per non bruciarci tutta la mattinata. Cary l’abbiamo vista tornando indietro, nel primo pomeriggio. A parte il notevole museo di cui parlavo prima, a Raleigh sono stato subito rassicurato, appena sceso dall’auto e guardato l’albero che avevamo davanti: se vai in giro per gli USA, di scoiattoli non si resta mai senza. Dopo un po’ cominci a pensare che siano miliardi, perché non solo sono dappertutto, girano a stormi. Sono peggio degli italiani emigrati. Questi scoiattoli però erano molto più grandi di quelli di Greensboro o di New York, con una codona enorme, e con la stessa arietta strafottente e dispettosa di quei maledetti che mi svegliavano alle 4 di mattina correndo sulla tettoia del B&B di John. Dopo aver fatto queste considerazioni, ci siamo messi a girare un po’ e come preannunciato all’incipit di questo capitolo ci siamo ritrovati al museo di storia naturale, dove ci siamo guardati un po’ di tutto, soprattutto l’area Jurassic Park. Durante la giornata siamo passati davanti anche al North Carolina Museum of History (qui a destra), ma non ce la siamo sentiti di fare la doppietta museale. 112


Monumento ai confederati.

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Poco prima di andare a mangiare ci siamo trovati a questo raduno di auto d’epoca. Ci siamo aggirati tra questi pezzi da museo ancora funzionanti, e abbiamo notato che tra i i fieri espositori i tatuaggi più gettonati erano la svastica e le croci tedesche. Nostalgici a tutto campo, dal garage al credo politico. Le auto erano quasi tutte riparatissime, leccatissime, pulitissime come se fossero appena uscite di fabbrica, e curiosamente quelle anni ‘30 sembravano le più “fresche”, nonostante il design più demodé. Alcune erano accese, col cofano aperto, come l’auto nera con la fiamma celeste in centro; perché il proprietario orgogliosamente stava dimostrando a qualche collega di esibizione (per rivalità) o ad occasionali visitatori curiosi (per puro esibizionismo) che la sua ferraglia è ancora ruggente. Uno spettacolo a dominio patriarcale, abbiamo visto solo un paio di donne proprietarie di auto. E si notavano spesso le varie crew, raggruppate per le passioni verso un determinata era automobilistica. Quelli anni ‘30 non si parlano con quelli anni ‘50, un po’ come la scarsa comunicazione all’interno di correnti diverse di un partito. Dopo esserci guardati ogni singola auto del raduno, perché effettivamente erano tutte molto belle, e in virtù della passeggiatona che avevamo già fatto prima, è arrivato l’appetito. 114


Analizzata la cartina di Raleigh con segnati i ristoranti, ne abbiamo individuato uno vicino, un messicano a mezzo km di distanza. Raggiuntolo in men che non si dica, abbiamo ordinato una paella di pesce e due birrone. Per ingannare l’attesa ho preteso un margarita gigante, e per nulla impaurito il cameriere è andato e dopo due minuti me ne ha portato uno leggermente più piccolo di quello titanico del TGI Friday’s. Alberta ha preso un altro cocktail ma di misure convenzionali, essendo il guidatore ha fatto una scelta di sobrietà. Io naturalmente ero felice, succhiavo ‘sto margarita con tre cannucce e proponevo già di andare direttamente a Cary dopopranzo perché tanto Raleigh assomiglia a Greensboro (e a Charlotte, anche se quest’ultima qualche situazione frizzante in più ce l’ha, come racconterò nel prossimo capitolo). Inoltre, urbanistica o meno, avevo l’impressione che quella parata di auto vetuste fosse il top che potevamo aspettarci, in base anche al giro nel downtown che avevamo fatto quella mattina. La mia commensale non sembrava discorde, più che altro era intenta a mangiarsi i gamberi della paella, che era arrivata nel mezzo della pianificazione per il pomeriggio. Mi sono subito depadellato metà paella in piatto e l’ho assaltata, abbandonando a mia volta le ciance. Ottima idea, era buonissima. In realtà la discussione era già chiusa, quando uno propone e l’altro non dice niente significa che non ci sono obiezioni. Abbiamo fatto la foto della prossima pagina e siamo ripartiti per Cary. 115


Non è particolarmente gioioso, questo scorcio, ma tutto ordinato, geometrico, un po’ freddo.

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Cary è a dieci miglia da Raleigh, neanche il tempo di guardare il panorama che eravamo già arrivati. È piena di casette vezzose come questa, infatti ce le guardavamo mentre tentavamo di capire cosa c’era di interessante e dov’era, con la solita cartina delle attività commerciali. Purtroppo, col senno di poi, non ho visto né ricordato il Koka Booth, anfiteatro naturale dove avevano suonato Béla Fleck & the Flecktones tempo prima, nonchè struttura unica per soluzioni tecniche, condizioni del territorio favorevoli e soprattutto l’acustica. Non avevo potuto andarci perché non c’era nessuno cui interessasse, a parte Marius che però doveva partire la mattina dopo il concerto alle 4:00, quindi non se la sentiva. Mi sarebbe piaciuto almeno vederlo, e chissà, avere avuto la fortuna che quel pomeriggio ci suonasse qualcuno di interessante. Ma non era destino. Così continuiamo a girare in perlustrazione, ormai abbandonata la cartina andiamo a caso, e proprio quando eravamo quasi propensi a girare i tacchi e tornare a casa, c’è venuta voglia di fare uno spuntino, di roba dolce, un cappuccino con due pastine.

Il Koka Booth.

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Cominciamo a cercare il posto, attraversiamo in lungo e in largo Cary, passiamo persino per la stazione Amtrak (quella sopra), vediamo bei negozi, bar elegantini, ma non il nostro obiettivo. C’è uno strano contrasto col fatto che ci sarebbe piaciuto abitare in tre quarti delle case che vedevamo in giro, ma non si riusciva a trovare una pasticcerìa accattivante. A un certo punto vediamo una insegna: “Blue Moon”. Al Lido di Venezia c’è una parte di spiaggia omonima, quindi siamo entrati in questo parcheggio per un riflesso pavloviano, qualcosa che ha attivato nel cervello da veneziani un senso di familiarità. Stavamo per dirigerci dentro al bar pasticcerìa, ma ho notato la scritta Russian Art in un edificio a sinistra, e andiamo a vedere.

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Russian Art Gallery, infatti, ma è chiusa, anche se c’è un cartello con su scritto OPEN. C’è poco da fare, dentro è buio. Mentre stiamo imprecando scherzosamente “Dannati sovietici!”, ci cade l’occhio su un cartello appeso alla porta. L’ho fotografato perché emana un genuino entusiasmo, al limite del candore. L’orgoglio di questi galleristi russi che presentano il loro compatriota pittore (noto in patria ma non così tanto all’estero) alla popolazione di Cary, la quale potrà approfittare per seguire un ciclo di tre lezioni di tre ore l’una con il maestro, e non serve sapere il russo, le lezioni saranno tenute in inglese! ... anche perché se le avesse fatte in russo, sarebbe rimasto sicuramente senza adepti. 119


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La foto a sinistra l’ho fatta mentre salivamo al primo piano di quel centro arte, cultura e bigiotterìa/articoli da regalo. Panache, il negozio che si vede dietro la statua, dà l’idea del genere di articoli in vendita: gioielli non troppo esosi, cornici lussuose ma non burine, tripudi di gonne camicie vestitini in seta. Ce li siamo girati tutti, in questo clima tra fiabesco e demenziale (non mancavano apici kitsch, e non esattamente di quello sublime). Da sopra abbiamo visto che erano arrivati i proprietari ed avevano aperto la galleria russa, così siamo scesi di nuovo per guardarcela. Quasi tutti impressionisti, qualche astrattista, un paio di iperrealisti. I quadri erano tantissimi, e tutti stipati come se fosse un magazzino, ma il tutto risultava leggibile, anche se cacofonico. Non ho potuto fare foto dentro perché c’era scritto chiaro e tondo che non lo permettevano. Hanno tentato di venderci qualcosa, ma abilmente ci siamo divincolati e dileguati mentre li ringraziavamo per l’ospitalità. Quel quadrilatero all’angolo di W. Chaltham St e S. Academy St era un centro commerciale per... gente che non ama i centri commerciali istituzionali. C’era una boutique, dall’altra parte del Blue Moon rispetto allo stabile bianco con la galleria russa, ma non c’era da sperare di trovare dentro i vestitini alla moda: jeans con inserti folli, o già stracciati come si usa oggi, abitini eleganti da donna con pizzi audaci, t-shirt con disegni assurdi o pensieri enigmatici di intellettuali pazzi (non mancava una con citazione dall’Ubu Roi di Alfred Jarry, “The work of art is a stuffed crocodile.” e sotto un coccodrillo simile a quello Lacoste) e scarpe da donna stranissime, assaltate da turiste e autoctone alternative. Queste erano giunte già di loro addobbate con cappelli da bandito western, impermeabili alla matrix, ponchi, stivaloni o All-Stars ridipinte da loro, in stile graffiti, con gli acrilici magari comprati dalla cartoleria per designer che c’era poco distante dalla boutique, e dove avevo preso dei glitter dalle riflessioni bizzarre che mi sarebbero serviti per le borsette della Filcas. Per farla breve abbiamo comprato un po’ di cose da tenerci o regalare ad amici e parenti in vari negozietti, poi siamo tornati al Blue Moon, che per la verità si chiama “Once in a Blue Moon” ma la prima parte di testo è scritta così piccola (apposta) che ti resta impresso solo il resto. 121


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Altra magione in stile Desperate Housewives.

L’interno è come te lo immagini. La saletta col banco pasticceria, dove sta la gente frettolosa che consuma in piedi e fugge, ha i muri sobriamente gialli, alcuni manifesti pubblicitari vintage (soprattutto Coca Cola) appesi. Ma non è molto sobrio il frigorifero sulla sinistra, dove si nota che la maniglia è una mano di plastica in stile fumettistico. Mi piaceva la bottiglia incastrata dentro la luna che si vede sopra il bancone a destra, generalmente tutti gli utensili da banco avevano forme inusuali, e colori sgargianti. Le spremute di agrumi vari te le mesci da solo, direttamente da sifoni che mi ricordavano i Dalek, dentro la stanza per i clienti che bivaccano ai tavolini (come noi). Quest’ultima invece ha i muri blu con dipinti e gessi coagulati e ridipinti con temi onirici, lì dietro si può notare una carovana festosa di frutti su una collina che sembra fatta di gelato al pistacchio. La luna è un altro gesso lavorato a bassorilievo. Le stelle, non si nota dalla foto, riflettono parecchio, aumentando l’effetto fiabesco. Sembra una stanza dei giochi di un asilo... per adulti. E a noi è piaciuto, dopo quel vortice di merchandising/moda/arte in cui eravamo finiti, accamparci per un’oretta in quel tavolo dove si vede la nostra borsetta. Avevano un sacco di tortine interessanti, ci siamo presi una fettina per ogni tipo e ce le siamo mangiate riguardando i nostri acquisti e leggendo il giornale di Cary, che continuava a ribadire l’impressione generale: città elegante, con piglio d’originalità e soprattutto gente piuttosto sleek, il che per me è complimento. Anche Winston-Salem è molto artistica, ma l’architettura è la solita che accomuna Greensboro, Charlotte, Raleigh, e gli artisti/intellettuali che la vivono sono più “ruspanti”. Mi è piaciuta molto Winston-Salem, ma per abitarci e gustarmi il trio casa/gente/città verrei sicuramente qua. 123


... E qualche sera andare al Cary Theater, a vedere un film, un concerto o qualche stand-up comedian.

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Charlotte 126


Charlotte è simile a Raleigh, la capitale del NC, ma ha una estensione e una popolazione doppia, 450.000 abitanti contro 900.000; e più o meno stesso rapporto tra le due aree metropolitane (1.200.000 contro 2.500.000), a testimonianza del modello di sviluppo omogeneo nelle città USA. Charlotte però ha una caratteristica distintiva: il tasso di crescita e relativa maggiore frenesia nel tessuto connettivo della società. In poche parole, durante le due gite adiacenti a Raleigh/Cary e Charlotte ho tastato con mano che in quest’ultima c’era più vita. Te n’accorgi subito per la densità maggiore di traffico, a Raleigh ci è capitato spesso di percorrere una via intera a piedi senza che passasse una sola auto. Charlotte è più simile a Napoli, dove è raro un vicoletto in cui non passino almeno due scugnizzi in motorino. 127


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Questo edificio dalle palesi esuberanze falliche, alto 265 metri, è il Bank of America Corporate Center.Troneggia al centro dell’uptown di Charlotte ed è il primo che vedi quando ti avvicini alla città. La Federal Aviation Administration li aveva accusati di creare turbative con un tale gigante a una serie di voli da e per l’aeroporto di Charlotte. È andata a finire che hanno cambiato le rotte e le procedure di volo, ah ah ah! Non c’è speranza nel voler tirare spallate alla Bank of America. Comunque questa è la prima foto che mi è venuto in mente di prendere (all’epoca scattavo foto soltanto se lo ritenevo fondamentale, o mi serviva assolutamente fissare una immagine di qualcosa che mi serviva per le mie illustrazioni e grafiche), quindi hanno avuto successo nel creare il segnale/effetto forte che cercavano: essere impossibile non notarli, atterrire i poveri mortali! La seconda foto che ho fatto è questa. Da lontano pensavo che fosse il museo di Charlotte dedicato al dadaismo e surrealismo, o magari una galleria d’arte moderna dove trovare follìe e relative idee allegate, ma mi sbagliavo di grosso. Si tratta di una pizzeria della catena Brixx, che orgogliosamente si vanta di fare pizze col forno a legna. (“Wood fired pizza”). Tra l’altro ogni sede ha un design differente, e nessuna delle altre si avvicina a questo oggetto di indefinibile demenza architettonica. Era ancora metà pomeriggio, altrimenti in un posto del genere ci saremmo anche andati volentieri a pasteggiare... Dopo aver girellato un po’ nei paraggi non abbiamo resistito, siamo tornati indietro e andati a bere una birra al bar interno. E vabbè, ci siamo mangiati anche una chicken salad in due. Confesso. 129


Questa è la fontana di pesci davanti alla New Gallery of Modern Art, dentro il Green, il parco urbano dell’uptown di Charlotte. Il tempo era nuvoloso, aveva anche piovuto per qualche minuto, la fontana non funzionava, insomma c’erano tutte le premesse per creare una immagine malinconica. D’estate è meta di bambini vivaci che ci giocano e praticamente ci fanno la doccia. È opera di una designer d’arte pubblica di Denver, Carolyn Braaksma, commissionata da Wachovia. Altra arte pubblica, ma stavolta è uno dei nostri, un pezzo della serie Il Grande Disco di Arnaldo Pomodoro, che sta in Bank of America Plaza (e te pareva?) dalla parte di Tryon St, installato nell’ottobre del 1974. Altri 2 dischi della stessa serie si possono trovare a Milano, uno in piazza Piazza Filippo Meda (dal 2006 al 2010, durante la ristrutturazione della stessa, venne spostato temporaneamente a Lanza, di fronte al Piccolo Teatro Brera) e l’altro davanti al Teatro Strehler. Ce n’è uno anche al Campus della Chicago University, e un altro ai Donald Kendall Sculpture Gardens, che sono situati presso i quartieri generali della Pepsi (Purchase, New York). 130


Nella fontana dietro la banca ho scoperto un’anatra che faceva acrobazie da nuotatrice sincronizzata. Non era spaventata dal mio avvicinamento per farle la foto, continuava a immergersi, riapparire qualche metro più in là, saltare a riva, svolazzare sopra la fontana e lasciarsi scivolare giù come se fosse sullo scivolo di un parco acquatico. Occasionalmente, per la soddisfazione delle sue gesta, immagino, si lasciava andare ad assordanti squack. Non ne ho viste altre, quindi presumo che fosse il solito carogna della nidiata, il bastian contrario, quello che va a fare impunemente il bagnetto in uptown, alla faccia degli umani. A sinistra siamo nel parchetto con tavolini e ombrellone all’angolo di S College e E 3rd st, con il titanico Hilton davanti, e l’immancabile fontana. 5 minuti dopo la foto è arrivata correndo - non volando - l’anatra di prima e si è tuffata anche qua.Teppismo palmipede. 131


Che non si pensi però a Charlotte come una enorme uptown, appena ti allontani dai quartieri alti ti ritrovi scenari come quello qui sopra. Che in ogni caso, specie con la luce del tramonto, ha ugualmente un suo fascino, ma non certo quello dell’opulenza. L’unica auto parcheggiata accresce questo senso d’assenza di solarità. Tornare a casa la sera dopo il lavoro non dev’essere una gioia per chi ci abita, chiaro che i bar siano pieni dalle 6 di sera all’ora di pranzo, molto meglio che dirigersi in un posto così e stramazzare in divano con un six pack in mano davanti alla TV. Mentre giriamo ormai stanchi e quindi poco lucidi rispetto obiettivi e orari di ritorno, infatti è quasi ora di cena ormai, sono colpito da questo camion dei vigili del fuoco. Prima di tutto la soluzione grafica di mettere il 4 in mezzo a “ENGINE” suona come ENGFOURINE, che non significa niente. Ma dovreste sentire il casino di sirene e luci che è capace di sparare questo, per capire il mio sconcerto (e sobbalzo, quando ha acceso all’improvviso l’arsenale audiovisivo).

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Questo l’ho visto dentro un bar notturno che avrebbe aperto un paio di ore dopo. Sono stato seriamente tentato di andare a fare un giro, prontamente dissuaso da Alberta: sosteneva che sicuramente mi sarei fatto malissimo, anche se era tutto imbottito e c’era un materassone attorno al toro. Ho pensato, calma, forse sono sotto euforia di qualche birretta che ci siamo bevuti strada facendo, non mi rendo conto che al terzo sobbalzo volo via roteando come un boomerang e mi infrango sul banco bar, che è fuori campo sulla sinistra. Siccome sono quasi le 20, e abbiamo voglia di mangiarci qualcosa al Red Lobster di Greensboro, decidiamo che la gita è terminata, e ci avviamo a cercare l’auto. Per fortuna avevo tracciato la posizione con una X sulla cartina, altrimenti l’avremmo ritrovata chissà quando. Prima di andarcene, e dopo aver visto per tutto il giorno spuntare periodicamente il Bank of America Corporate Center, decido di fargli l’ultima foto con il photobombing dell’Hearst Tower. Non ne potevo più di quello sbruffone di cemento. 133


Ritorno Aneddotiin

bizzarri Italia 134


In USA, come molti sospettano, è pieno di pazzi. C’è un misto di circostanze, eventi, spinte, tradizioni, pulsioni, pressioni tali da favorire questa produzione incessante di folgorati. Io, che sono sempre stato attratto dai folli, che ho sempre amato i musicisti più demenziali, i dadaisti,, scrittori come Sanguineti o Queneau, mi sono trovato subito pungolato. Questo capitolo è contrapposto agli aneddoti su Reidsville, tutti legati a fatti come giustizia, forza della natura, socialità di motociclisti e redneck, quindi ad eventi che accadono all’interno di consuetudini. Qui invece gli aneddoti riguardano situazioni limite, paradossali, se non passeggiate in territori dove non si pensava di mettere mai piede, anche brevi sprazzi alla fine. Parto con un trittico di gigantesse afroamericane. E poi tento di indagare anche aspetti meno ludici della cultura statunitense. 135


Non posso non cominciare con il Chemistry Nightclub. Tutto è partito un pomeriggio, stavamo bevendo whisky attorno a un tavolo del Natty Greene’s. Per la privacy, mettiamo nomi fittizi: io, che non posso nascondermi e neanche voglio, Frank e Louis. Louis, che non ha mai avuto timore di farci sapere della sua omosessualità perché ha capito subito che siamo persone incapaci di pensiero discriminatorio, ci dice che aveva saputo di quel club, e che gli sarebbe piaciuto andare a darci una occhiata, però non si fidava ad andare da solo: si sa che gli stati del sud non sono molto amichevoli con gli omosessuali, non si sentiva sicuro, quindi ci ha chiesto se avessimo voglia di accompagnarlo. Girare con gente che è palesemente etero lo faceva sentire sicuro. Poi ci ha guardato bene e ha detto, no, diciamo che è perché siamo in tre invece che io da solo. Dopo avere riso molto, avendo capito ogni nuance della battuta, devo dire che la cosa mi ha inorgoglito, perché era come consegnarmi un attestato di sicura estraneità a ogni istinto omofobico. Anche Frank ha sorriso - non dubitavo di lui - e quindi non aveva problemi ad unirsi al gruppo. Fatta, come sapevamo tutti sin da quando Louis ha aperto bocca. Ci conoscevamo bene, siamo persone curiose, ci piace trovarci in situazioni inaspettate. Era chiaro che saremmo andati. Quel sabato pomeriggio ci scambiamo alcune telefonate, e messi d’accordo, mi recuperano (io, il solito stramaledetto senza patente, ehm) e andiamo al Green Valley Grill, a vedere se c’è qualcuno e bere un paio di cocktail, mangiamo anche qualcosa, poi saltiamo in auto e ci avviamo verso il luogo di perdizione. Il Chemistry è un parallelepipedo ricoperto di specchi (a parte il tetto) senza finestre, poco illuminato, in Spring Garden St, dall’esterno sembra un bunker ripensato da una queer. Infatti lo è. Era buio pesto per la scarsa illuminazione. Parcheggiamo, e ci avviamo verso la porta. Louis suona il campanello, passa qualche secondo (siamo davanti a una telecamerina), nella porta si apre il soffietto, come in carcere. Vediamo solo gli occhi dell’altro. Ci saluta cordialmente, ma ci chiede se siamo solo noi tre. Siccome è palese, capiamo tutti e tre in un decimo di secondo che questi ogni tanto hanno uno che suona e quando aprono saltano dentro altri 20 omofobi con le mazze chiodate. E ci rendiamo conto che non è più un gioco. È un momento duro, perché capisco la paura di chi è omosessuale. Ma anche che sono in mezzo a un gruppo di odiati sociali per cui potrei essere vittima io stesso della violenza altrui, 136


soltanto per la mia comunanza. La annuso, ‘sta paura, è nell’aria, ed era anche in quella cortese richiesta di Louis di essere accompagnato, e in questo momento aveva tutto il senso del mondo. Gli abbiamo allungato i passaporti e abbiamo aspettato che li controllassero. Dopo mezzo minuto, aprono, entriamo velocemente, richiudono la porta a chiave. Entrati, giriamo a sinistra, siamo in un corridoietto buio, lungo 3 metri, con davanti la cassa. A destra della cassa, l’entrata al locale. Ci ridanno i documenti mentre si prendono nota degli ultimi dati, per cui ci hanno “schedato” nel caso ci mettessimo a fare casini. Eppure non mi sento privato di una libertà, sto pensando a come manca a loro, che devono comportarsi come carcerieri per dare accesso a qualche ora di allegria. Non è finita, vogliono scambiare due chiacchiere prima, e francamente a questo punto me lo aspettavo, il dialogo con l’ospite è l’ultimo test prima di fidarsi. Gli diciamo esattamente come è la menata: io ho la ragazza, Frank si è sposato due volte, Louis è gay e noi siamo i suoi amici e lo accompagniamo in una discoteca che non conosce, non ce ne frega un cazzo. Improvvisamente sono tutti convinti che siamo gente tranquilla, i due buttafuori si spostano e ci invitano ad entrare. Si apre la portina, spostiamo la tenda e c’è un open space tre volte più grande di quello che sembrava da fuori. Due tavoli da biliardo su un soppalco con scalinata a sinistra, una sala da ballo stile Saturday Night Fever sulla destra a fianco dell’entrata, poi sempre sulla destra ma in fondo il banco bar, e tavolini alti con seggioloni attorno. Io e Frank vediamo che lasciano un tavolo, lo blocchiamo subito e andiamo a scegliere le stecche. Louis si accoda, ci mancherebbe facesse lo snob. C’era ancora poca gente, eravamo arrivati per noia un po’ presto, saranno state le nove e mezza. Ci mettiamo a giocare, ma beviamo un paio di Jack Daniels nel mentre, per cui da novelli Paul Newman recediamo ben presto al livello in cui la palla va in buca ogni 2 minuti. Alla terza partita (facevamo due contro uno a turno, perché chi gioca da solo fa il doppio dei tiri) sono arrivate le dieci e improvvisamente mi rendo conto che abbiamo 4 lesbiche incazzatissime a fianco tavolo, che ci sospettano di giocare male apposta per tenere il tavolo occupato e fargli dispetto. Io appena sento le lagnanze rispondo che siamo ubriachetti e vediamo le buche doppie, non è cattiveria, ma la spiegazione non le placa, hanno la stecca in mano che brandiscono come un fioretto, come a dire “sai dove te la metto questa”. Per fortuna all’altro tavolo i due sono stufi e vanno a farsi un drink, così superiamo l’impasse. Finiamo miracolosamente la partita, mentre le 4 ragazze piantano un casino indescrivibile tra di loro dopo soli tre colpi, e anche noi decidiamo che ormai a questo livello di serata siamo inadatti per il gioco, meglio dilettarsi a guardarci attorno. 137


Senza dirci nulla, mettiamo nella rastrelliera le stecche, chiudiamo il timer, paghiamo, poi ognuno va per conto suo. È come se tutti e tre improvvisamente avessimo voluto vivere quella storia a livello personale, guardare, girare, analizzare, ognuno seguendo la sua sensibilità. Io posso solo raccontare la mia, anche se sarebbe stato interessante sapere quella degli altri due. Era appena morta la mia coniglietta nana, Miele, la sera prima, l’avevo saputo da Alberta la mattina di quel giorno. Chi non ha un animale lo troverà ridicolo, ma è stato un dolore che mi ha perseguitato per tutta la giornata. Ero al banco del bar guardando il menù dei cocktail, quando mi è venuto il pensiero che poteva morire chiunque delle persone cui volevo bene in Italia, e io avrei potuto soltanto registrare l’avvenimento. E mi sarei perso gli ultimi giorni. Mi è venuto l’occhio lucido, e il barman, a petto nudo, con colletto bianco da tait e farfalla, improvvisamente mi porge un fazzoletto di carta. Lo ringrazio, e improvvisamente mi guardo intorno e vedo tutto. C’è un tavolino a fianco con 5 donne in tuta e fisico da camionista, capello cortissimo, ridono e scherzano, dietro due innamoratini esangui che si guardano negli occhi da un’ora, un palestrato in tanga che balla come se avesse uno jalapeno su per il culo, poi all’altro tavolino due uomini sui 40, dall’aria istituzionalmente etero, molto distinti, che si baciano e nel tavolo a fianco due donne rubizze che ridono toccandosi le mani, visibilmente ubriache. È come se ogni coppia, o gruppetto, o singolo fossero un tipo di personaggio differente, in totale contrasto con l’omologazione nel mondo aperto e accettato degli etero, per esempio la sfilata dei cloni nei locali in Elm St... Mentre penso questo, vedo passare uno dei cloni, un fighetto che avevo visto spesso, sempre circondato da sbarbine proprio in quei bar, il vero maschio alpha che “se le fa tutte”. Eccolo là, sta abbordando uomini. A questo punto aguzzo l’occhio, ne vedo un altro che faceva il virilone nel bar del californiano, quello che ora è un taco restaurant, abbracciato con un altro tipo. Mi rendo conto che una decina di quelli che fanno i maschioni, e anche con l’arietta omofoba, in giro per Greensboro sono là dentro per abbordare. Non che questo mi dia fastidio, l’atto in sè non mi crea alcun problema etico, morale o politico. No. Mi indispone quando uno fa finta di non essere sè stesso per convenienza, opportunismo, vigliaccherìa, o peggio incapacità di capirsi. Anzi, andare contro sè stesso per farsi accettare dalla gente, dall’ammasso di qualunquisti che fanno maggioranza inadempiente nella società, bell’obiettivo. Durante queste considerazioni e l’annotazione di questi fatti incrociavo gli altri due che si aggiravano, e ci scambiavamo le stesse impressioni, tutti e tre avevano notato tutto. E quello a disagio, fatto apparentemente incredibile, era Louis. In realtà aveva perfettamente senso. Io e Frank, a parte la funzione di guardie del corpo estemporanee, compito cui in realtà non abbiamo dovuto mai assolvere, eravamo affascinati da un ambiente dove non avevamo mai messo piede, per cui stava anche lui pensando e valutando quello che pure noi due rimestavamo. Ma Louis stava soffrendo un aspetto a noi indifferente: non c’era modo di entrare in quei micro138


cosmi. Non potevi attaccare bottone, al semplice scopo di scambiare due chiacchiere con le lesbiche camioniste, o quelle del biliardo, o i due esangui. Era pieno di coppie e gruppetti che si facevano i cazzi loro, evitando gli altri. Era una specie di fiera dell’incomunicabilità, dove i giochi erano già stati fatti prima. Gli unici abbordaggi che ho visto erano quelli dei già citati bisessuali che normalmente fanno i finti etero, tra loro. Gli altri entravano in coppia, e uscivano in coppia, i single uscivano single, il gruppetto stava per conto suo senza cagare nessuno e usciva intonso. Poi è successa una cosa che ci ha messo tutti e tre di fianco davanti alla pista da ballo stile Saturday Night Fever. Anzi, lo speaker ha annunciato l’attrazione della serata, per cui ci siamo radunati davanti alla pista da ballo, bicchierino in mano. E si è spenta la luce. La pista era incastrata in un angolo, e in uno dei lati adiacenti, vicino all’intersezione, c’era una porta. Sempre al buio, totale a parte i led blu luminosi a bordo pista che rendevano tutti i più vicini fantasmi semifluorescenti, parte un brano che non riconosco, ma è in stile grandi orchestre anni 50. Molto lento, suadente, morbido. Lentamente un occhio di bue blu e uno bianco, per dare luminosità continuando a iterare la dominante blu, convergono sulla porta, ed esce una donna afroamericana altissima, tacco dodici, in vestito lungo, scollato generosamente davanti e dietro, anche questo blu, ma non in modo prostitutorio. È una trans, lo capisci soltanto perché sai che in quel posto può essere solo così, e mette sul palco cinque minuti di femminilità sconcertante, senza forzature macchiettistiche, senza esagerazioni. Il trucco è leggero, a parte le ciglione. E canta veramente, sono di fronte al palco e sento la sua voce oltre al microfonato che esce dagli amplificatori. Improvvisamente tutte le considerazioni che avevo fatto sinora sulla grettezza degli attori di questa situazione sono travolte dall’evento. Ho la presunzione di credere che anche Frank e Louis abbiano pensato lo stesso, in quel momento. Continuo a guardare questa figura che sembra guidata da un regista pieno di gusto e un coreografo con la grazia di un’orchidea. E come canta magnificamente!, ogni nota della voce è scolpita perfettamente nella musica. Si sente che tutto il locale sta guardando, ascoltando, è un evento che valica le posizioni ideologiche o sociali. È una persona con del talento, e nonostante la cornucopia di talent show, trovarne una è sempre più difficile. Poi la musica rivela che sta per lasciare, e la figura fiabesca lascia il palco ritirandosi nella porta da cui era scaturita mentre si affievoliscono le luci. Improvvisamente si riaccendono i faretti, la cantante in blu riappare dalla porta e ringrazia tutti, e mentre si avvicina ai bordi della pista le mettono banconote tra le tette. Distrutto tutto in due secondi, con le armi della foia e la specchiata prostituzione. Tornando a casa, e Louis se lo aspettava, gli ho detto “Non ti accompagno più al Chemistry, e non mi piace se ci torni. Ma grazie per la magnifica serata, e sono sincero”. Lui ha capito e sorriso. 139


Ormai sono in tema “donne di colore alte” e continuo con un altro aneddoto sulla falsariga. Questo a fianco è il classico setup che trovavi nel seminterrato dello StudioPLUS in Stanley Rd: sulla sinistra le lavatrici, sulla destra le asciugatrici. Minimale, certo, ma in realtà quello che ti serviva. Come già detto, nell’estremo downtown, credo per via dei prezzi bassi, c’era una predominanza di afroamericani, non dico una Harlem di Greensboro, ma quasi. Io ero amichevole con tutti, anche perché avevo avuto solo un episodio o due di semplice perculamento da neri, e due atti razzisti da bianchi, anzi, bianche, per cui mi fidavo più dei neri, che non mi avevano mai offeso o aggredito verbalmente. Una sera ero pieno di biancherìa non lavata, perché mi ero incaponito a rifare 4 serie di borsette da ZERO, quindi da una settimana stavo in fuori orario e anche a lavorare a casa di sera per risistemarle e improvvisamente mi sono reso conto dopocena che non avevo più mutande e t-shirt pulite. Mollo giù bozze, schizzi, disegni e prove colore, e finalmente mi rimetto a pensare a me stesso, raccolgo un sacco di biancherìa, ci metto anche le lenzuola, e mi dirigo verso la scala a fianco del mio appartamento, la scendo e arrivo in lavanderìa. Ci trovo questa donna, solo lei, che abita tre appartamenti più avanti del mio, e che ho sempre visto vestita di nero, e sempre in gonna, sempre scarpa col tacco alto, portata con naturalezza, senza goffaggini. Ha sempre l’aria triste ma quando mi vede trova la forza per un sorriso. Chi mi conosce sa che tutto ciò non mi lascia indifferente. Mi piaceva come camminava, altera, e la guardavo sorridendo quando passava. Ci eravamo salutati fin dai primi giorni in cui è arrivata, subito dopo di me, sempre inverno 2005. Ha un corpo lussurioso, ma il viso duro, scolpito come quello di un maschio e questo mi attrae e respinge contemporaneamente. Il suo corpo è conturbante, ma il suo viso mi respinge, anche se non lo trovo repellente, nè brutto, anzi, è un “tipo”, una donna che non trovi 140


facilmente in giro, mi piaceva guardarle la faccia. Stiamo lavando la biancherìa entrambi, seduti sul lavello ad aspettare di asciugarla. Cominciamo a parlare, e il dialogo va ovunque, come quando bazzicavo Barnes & Noble. In poche parole, è una donna intelligente ma anche piuttosto pazzoide. Io avevo una compagna in Italia, non volevo andare con un’altra, però più volte ho sentito che questa mi tirava il cross al centro giusto per saltare e fare gol di testa. Da quel momento, con questa donna mi è capitato di tutto, compreso trovarla in camera mia (avevo lasciato la porta socchiusa causa rapido acquisto di qualcosa da mangiare alla Citgo,) per chiedermi di leggerle dei passi della Divina Commedia (tutti dell’inferno) in italiano. Ero contemporaneamente angosciato e pieno di me. Lei poi leggeva l’italiano in modo sorprendente, con poche o nulle inflessioni dialettali, ma avevo già appurato con il mio padrone di casa Kwami che ci sono afroamericani così collegati con le loro origini africane da riuscire a maneggiare sia la pronuncia anglofona che quella piana della maggior parte del resto del mondo. Se metti sotto il naso ad un ugandese una cartina italiana, quello legge i nomi correttamente come un italiano, un portoghese, uno spagnolo. Ogni tanto mi bussava la porta perché aveva capito che non l’avrei mai corteggiata. Nel giro del “prestami [...], che poi se ti serve qualcosa in futuro ti aiuto anche io” ci siamo visti più volte. Le donne americane sono molto aggressive se percepiscono che non attraggono l’oggetto del desiderio, certo con le dovute eccezioni e casi particolari, ma mediamente sono molto reattive rispetto a una risposta insoddisfacente. Non riuscivo a respingerla perché mi affascinava, ma in ogni caso quando sto con una persona non la tradisco, per cui non potevo nè volevo cadere in contraddizione. Nonostante ci trovassimo spesso al TGIF o a fare spese nei vari ipermercati, e parlassimo così spesso che ormai non mi curavo più di cercare argomenti, come fai con chi sei ormai in confidenza, c’era sempre questa tensione da parte sua. Sapeva benissimo la mia situazione, ma le sembrava impossibile che non mi rendessi conto che ormai ero uno di loro. Quando parlavo dell’Italia mi guardava con l’aria interrogativa.“ma stai qua da anni ormai! Parli inglese a cazzo perché sei un pigro” (vero) “ però ogni volta che mi racconti qualcosa sento che sei diventato uno di noi”. Infatti sto in italia di nuovo da dieci anni. Quando ho salutato Kwami per prendere l’aereo per l’Italia, c’era e mi ha detto che non mi avrebbe mai dimenticato, e neanche io, come testimonia questa doppia pagina. 141


Il Four Season era la mia perdizione. Per esempio ci ho comprato queste scarpe che mi piacevano da matti, e ho sofferto quando hanno dato forfait per disfacimento di tomaia e suola. Qui comunque c’è la terza gigantessa della miniserie.

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La prima volta in cui sono andato al Four Season mi sono reso conto che dentro c’era tutto, persino Dillard, ma quasi subito, nel 2003. Non a caso ci sono finito con tutti i miei colleghi e anche la mia compagna di allora. Ci ho comprato credo tre quarti del mio guardaroba, quando abitavo là. Non solo, trovavo capi di abbigliamento e scarpe fatti in Italia... che in Italia costavano molto di più. Entri nel Four Season, e vedi di tutto ovunque. Quando capisci come è strutturato, sai già che tanto in quei mille negozi ci sarà quello che ti serve. È una trappola peggio di una tela di ragno. Un giorno entro nel reparto caccia e pesca, da animalista indignato con la bocca a culo di gallina. Mi guardo in giro, e dopo avere visto fucili e canne da pesca, comincio a pensare: che figo quel paio di braghe. Le prendo in mano, hanno delle cerniere sotto al ginocchio, le apri, togli il pezzo sotto, diventano short. Non dico che le ho comprate; le sto ancora usando dopo 13 anni. Indagando per quel colosso scopri lentamente che hanno occupato ogni cm di immaginario collettivo. Come si nota dalla foto qui sopra, lo spazio è enorme, ma i Lucignoli abbondano e hanno sempre sorrisi smaglianti. Al piano terra c’è un pub tipo-irlandese dove ci si può appollaiare in gaiezza e tranquillità. Sempre le birre migliori. Ci sono andato decine di volte, lo adoravo. Aveva un’altra caratteristica esclusiva: non usava caption control nei monitor, perché in bar non c’era casino, per cui sentivi l’audio. 144


Un giorno ero in fissa ricordando un profumo che avevano amici miei 30 anni fa, e che avevo sentito di nuovo in giro. Convinco Marius che ha bisogno di comprare robe, ci riesco, propongo: andiamo al Four Season e ci dividiamo, chi ha finito manda un sms all’altro. Invece andiamo in giro insieme, perché in realtà avevamo voglia tutti e due di andare in un posto pieno di gente e vedere cosa sarebbe successo. Ci guardiamo tutti i negozi che vendono quello che non volevamo, prendiamo gelati non avendone voglia, parliamo con deficienti perché è inevitabile. Poi spiego al mio art director che profumo mi aveva risvegliato ricordi e voglia di comprarmelo, e mi propone di andare al primo piano, nella Disneyland del Profumo. Se non è là, non lo trovi da nessuna parte. Si tratta di un quadrilatero di mezzo km x mezzo km, con dentro profumerie, bijotterie con profumeria, profumerie che sono profumerie. Entriamo e già ho il naso che fluttua e dimentica lo scopo. Però ricordo, basta che pensi alla persona che l’aveva addosso e mi torna in mente. Giriamo per decine di negozi/stand, è un enorme open space con corridoietti creati dallo spazio tra una profumeria e l’altra. Continuo a rimbalzare giacché tentano di smollarmi tutte il profumo che gli dà più marchette alla vendita. Caracollo seguito o preceduto da Marius che fortunatamente cerca un profumo nuovo lui pure, quindi non rompe le balle per noia da quest. Improvvisamente, mi metto davanti al banco dell’ennesima profumeria, e mi trovo davanti la terza gigantessa afroamericana di questo trittico in veste di commessa. La prima cosa dopo la statura che mi colpisce (è altissima e con i tacchi da 18) è la sua tiroide: ha gli occhi enormi. È come se ti guardasse anche con la testa girata di 90 gradi. Sembra una bambinona alta due metri e dieci. Vado subito in soggezione, e la seguo in ogni suo percorso malefico per farmi comprare i profumi che non le vanno mai via. Marius vede l’andazzo e si dilegua. Dopo un po’ la ragazza si rilassa, e parliamo di argomenti casuali. Come le altre due watusse non sembra una virago, ma una persona morbida, a dispetto della statura che intimorisce. Va dietro, esce e mi spruzza un profumo sul polso, non devo annusarlo, è quello che cercavo. Mi dà una borsetta che riempie con un centinaio di campioni di altri profumi.

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Rilassiamoci un po’. Contate i gatti e vedete se li trovate tutti. Questo è il vecchio Terra Blue, sempre e comunque, con coerenza, in Greensboro - Elm St (518 S Elm Street, per la precisione). Se guardate con attenzione dice “Cappuccino” e “LATTE” in alto a destra. Ma non è un bar. Ah, una recensione di quest’anno su Terra Blue diceva: “...the cats are a nice touch, if you’re allergic to cats don’t go in there...” Siamo stati un’ora qua dentro. Ogni volta che siamo entrati, intendo, io e persone sempre differenti. Se andate a Greensboro, non mancate negozi come questo. Anche se non vi fa voglia di comprare niente, troverete sempre qualcosa che non immaginavate esistesse. La loro filosofia è cercare con ostinazione oggetti e concetti al di fuori dei percorsi mentali convenzionali. Girare per gli scaffali ed espositori è una esperienza che vale la pena. I padroni sono persone disponibili, sono sicuro che questi 11 anni non li hanno scalfiti, come non hanno spostato un mm di convinzione neanche in me. 146


Un giorno siamo andati a mangiare in una steak house vicino Reidsville, in un pranzo pagato dal capo supremo, Massimo della Santa. Qui sopra ci siamo solo io, Claudio e in mezzo la sua segretaria di allora, appoggiati al PT Cruiser di Marius. È una foto proprio di quel giorno, c’erano tutti i dipendenti dei reparti top-mid level dell’azienda. Arriviamo tutti disordinatamente, c’è chi doveva finire delle cose, chi era libero subito, chi si è perso un po’. Verso l’una siamo tutti presenti, finalmente. Il capo sa già che ci saranno ritardi, in ogni caso, pro o contro di lui: lo ha messo in preventivo di già. Finalmente siamo tutti seduti attorno a questo tavolone enorme, dove ci stiamo in una ventina. Prendono le ordinazioni, io voglio un filet mignon con patate al forno e una caesar salad, chiaro e tondo. Dopo un po’ portano i piatti, e vedo che mi mette dei dip, ma non uno o due, una decina. Mi fanno ribaltare lo stomaco, perché burri imburrati, formaggi, aceti e altri mille aromi mi fanno perdere il gusto di mangiare la bistecca. Dico alla cameriera, no grazie, li può portare via? Parte una baruffa allucinante tra me e la cameriera, che è offesa per il fatto che non voglio i dip, e io che alla fine le urlo “Sono italiano, non mi piace mettere salsette, voglio una bistecca e basta, mi danno fastidio ‘sti odori, cazzoooooooo”. Alla fine si è ripresa le salsette come se fossi un ritardato mentale che non capisce niente da accontentare. Risate e vari “Sei pazzo!” da parte di tutta l’azienda. Io sorrido, ho vinto. 147


Ritorno in

Italia 148


Nell’estate 2005 ho interrotto il rapporto con New Filcas of America per tornare in Italia. In quel periodo chiudeva anche il reparto produzione, delocalizzato interamente in Cina, e rimaneva aperto solo quello amministrativo/grafico, che nell’anno successivo fu spostato ad High Point. Mi avevano proposto già nel 2004 di rimanere definitivamente in USA con una serie di VISA annuali, finchè non avrei avuto nel giro di dieci anni la cittadinanza. Io sarei rimasto volentieri, perché era un lavoro che maneggiavo a mio piacimento, avevo il rispetto dei colleghi e del proprietario, guadagnavo bene. In più nel mio ultimo appartamento stavo cominciando a intrecciare relazioni sociali, cioè l’elemento che maggiormente ti invoglia a mettere radici. Però c’erano contestualmente anche alcuni altri fattori antagonisti. 149


Come tutti i designer che si rispettano, soffrivo di gastrite ed esofagite, le classiche malattie di origine psicosomatica dovute allo stress. Fatto fastidioso, ma non preoccupante. Durante un esame verso la fine del 2004 hanno trovato una displasia piuttosto estesa nell’esofago, e siccome non di rado progredisce come tumore, ho cominciato a valutare il peggio, cioè che accadesse sul serio e dover gestire il tutto in un paese dove ti costa un milione di dollari l’anno curarti; mentre in Italia avrei avuto supporto dalla sanità. Lo sprone più forte, però, è stato un altro, imprevedibile anche per me. In quel periodo avevo sviluppato una forte idiosincrasìa al lavoro in ambienti condivisi. Anche solo tre o quattro persone. Cosa scomparsa e verificata anni dopo, ma in quel momento riuscivo a concentrarmi solo lavorando da solo in una stanzetta. Anche un sottoscala coperto da una tenda, ma da solo. Forse perché sentivo molto il peso della responsabilità e avevo bisogno di non condividerlo. Nell’ultimo anno, infatti, ho prodotto di meno, pur mettendoci una fatica pari a quella degli anni precedenti, ed è il segnale che non stai girando più come prima, anche se ti pare di tenere dignitosamente il passo. Così ho comunicato la mia intenzione di chiudere il rapporto, ed è stato un momento duro, mi sembrava di fare un affronto al principale, dopo che si era sempre comportato correttamente con me (a parte qualche inevitabile screzio qui e lì, ma niente di trascendentale, direi anzi routine); avevo anche motivi per restare, come ho detto nella pagina precedente, e tutt’ora non sono convinto di avere fatto una buona scelta. La displasia tre anni dopo è scomparsa grazie a una dieta feroce senza carne, caffè, pomodoro, formaggi, alcolici e altri alimenti che rinfocolano quella patologia. Ma non potevo saperlo in quel momento, avevo sentito dire che statisticamente al 50% eri fottuto. L’ultimo giorno ho visto uno alla volta tutti i dipendenti recarsi nell’ufficio del principale e uscirne testa bassa con l’ultimo stipendio e una piccola liquidazione in tasca. Salutavano gli altri, salivano in auto e sparivano all’orizzonte, quasi nessuno si fermava a commentare, e aspettavano quasi tutti il loro turno in qualche angolo, o seduti in auto, da soli. A parte i giovanissimi neri, che come al solito erano in modalità crew, e allegri lo stesso, perché fondamentalmente partivano dal presupposto di averlo in quel posto in ogni caso, non valeva la pena di andare anche in paranoia. Sarcastico pragmatismo delle nuove leve afroamericane. Alla fine della giornata ho fatto una delle mie ultime sortite dallo studio e ho visto il parcheggio ormai quasi vuoto, c’erano solo le auto dei reparti rimasti attivi, silenzio nel capannone. Quella ditta dove avevo lavorato negli ultimi anni, per come la conscevo, improvvisamente, non esisteva più. Sono entrato nel capannone, l’avevo già visto vuoto quando m’è capitato di fare straordinari di sabato o domenica, era anche tutto ordinato e pulito come in ogni festivo, ma stavolta c’era la consapevolezza che non si sarebbe più rianimato. 150


Susan, io, Penny.

Susan, Marius, Penny.

Non volevo chiudere questo diario con una immagine triste, così ho voluto tenere per ultimo la brevissima nota dell’ultimo pranzo assieme del reparto design al completo. Il giorno prima abbiamo deciso di andare a mangiare durante la pausa in un parco a Reidsville, una specie di pic-nic, ma comprando le vettovaglie all’ultimo momento da qualche parte. Ero quello che se ne andava, loro continuavano tutti, così a mezzogiorno e mezzo, quando abbiamo chiuso la mattinata di lavoro, hanno convenuto di concedermi l’onore di decidere il menù. Ci ho pensato un attimo, poi ho detto “È una vita che sento parlare del Kentucky Fried Chicken, sono anni che giro per gli USA e non ci sono mai andato a mangiare, ora o mai più!” Un quarto d’ora dopo eravamo in coda al CFK di W Harrison St. Io ho preso grilled, extra crispy e wings, più patatine e una Pepsi. Abbiamo trovato subito il tavolo giusto ed è cominciato il party. Devo dire che in effetti sono buonissimi. C’era un velo di malinconia perché io e Marius tornavamo in Italia, ma lui solo temporaneamente, io invece ci sarei rimasto. Infatti tentavo di piantare nella memoria quei luoghi; chissà quando (e se) li avrei rivisti. Mi sono reso conto che quegli anni non sarebbero svaniti nel passato, persino Reidsville che tanto mi fece penare quando ero solo all’Holiday Inn, senza auto e ogni ristorante lontano almeno 7/8 km, mi sarebbe mancata.

Quando pesavo 103 kg.

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Venezia, Agosto 2016

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