Episteme 2

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EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio An International Journal of Science, History and Philosophy

N. 2 - 21 dicembre 2000


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Direttore Responsabile: Euro Roscini Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991 Morlacchi Editore, Piazza Morlacchi 7/9, 06123 Perugia - Italy editore@morlacchilibri.com , http://www.morlacchilibri.com http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici nella parte destra della tastiera)


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EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio An International Journal of Science, History and Philosophy N. 2 - 21 dicembre 2000 Informazioni editoriali/Editorial Policy Presentazione del volume 1 - Felice Vinci: Omero nel Baltico, p. 10 - " " : Homer in the Baltic, p. 21 - Bruno d'Ausser Berrau: La Scandinavia e l'Africa, p. 33 2 - Flavio Barbiero: Relazione fra il calendario perpetuo basato sul ciclo di 128 anni e i calendari centroamericani, p. 54 3 - Bruno d'Ausser Berrau: Mysteria Latomorum - Uno studio sullo scisma massonico del 1717 e su alcuni aspetti generali di quell'Istituzione, p. 63 4 - Emilio Spedicato: Numerics of Hebrews Worldwide Distribution around 1170 AD according to Binyamin of Tudela, p. 91 5 - Ludwik Kostro: The Evolution of the Notion of Creation in the JudeoChristian Religion, p. 103 6 - Alberto Bolognesi: Dalla parte del torto: Tully & Fisher vs Hubble Uno studio critico sul successo della cosmologia del Big-Bang, p. 122 (con un commento su: Fotografare l'inizio, p. 138) 7 - Fabio Cardone: I fondamenti assiomatici delle teorie fisiche, p. 143 8 - Giuseppe Cannata: Etere e relativitĂ , p. 159 " " : Electromagnetism in the Ether, p. 171


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Commenti ricevuti: Euro Roscini: Parlare di filosofia (a proposito del saggio di R.V. Macrì), p. 185 Reprints: Louis de Broglie: Le role essentiel de la science pure, p. 195 Stevan Dedijer: The Rainbow Scheme - British Secret Service and Pax Britannica, p. 198 Quirino Majorana: Le teorie di Alberto Einstein, p. 250 Recensioni: Flavio Barbiero, La Bibbia senza segreti, p. 267 [con un contributo di Luciano Tansini: Il nodo dei nodi nella Bibbia - La schiavitù, p. 300; un commento di BdAB: Vero o autentico?, p. 323; due articoli di Antonio Socci: Abramo e Sara erano ariani? / Sulle orme di Mosè - Con Egeria sul "vero" Sinai, p. 330] Italo Orbegiani, Se Dio vuole ... (e Chiesa acconsente...) - San Cristoforo Colombo figlio del Papa genovese Innocenzo VIII e uomo mandato dalla Chiesa, p. 338 [con un contributo di Pier Costanzo Brio: Le balle di Colombo, p. 342] Presentazione del prossimo numero *°*°*°* Si informa che il libro di Roberto Germano (vedi il I numero di Episteme), Fusione Fredda - Moderna storia d'inquisizione e di alchimia, è stato pubblicato da Bibliopolis, Napoli, settembre 2000.


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INFORMAZIONI EDITORIALI Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti siti: http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci . Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata vuoi a mezzo Internet, a: bartocci@dipmat.unipg.it (inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg), vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo: Episteme, Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy. Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!). L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con i criteri della rivista - i quali ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi eventualmente di acquisire pareri da parte di noti esperti (le opinioni ricevute saranno nel caso rese note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche. Il materiale ricevuto anche se non pubblicato non si restituisce. ----"Episteme" è in generale un "progetto culturale", che non ha fini di lucro, e non è finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa sono ovviamente ben gradite, e


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possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati ad Episteme) al sopra citato indirizzo. Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista, tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni, etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica richiesta agli indirizzi sopra menzionati, al prezzo di L. 20.000 o 25.000 cadauna (a seconda del numero delle pagine: per esempio, poiché il II numero consta di circa 350 pagine, il prezzo di questo volume sarà di L. 25.000). Detta somma va intesa esclusivamente quale rimborso spese di stampa, rilegatura e spedizione postale, e come contributo generale per la gestione e il mantenimento in vita del progetto. Si ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno chiedere la versione stampata della rivista (si informa che sono ancora disponibili alcune copie del N. 1, a L. 20.000). Il file formato doc relativo ad ogni volume, o a singoli articoli, può essere ricevuto gratuitamente, richiedendolo presso l'indirizzo e-mail dianzi specificato, e verrà inviato al più presto sotto forma di attachment.

EDITORIAL POLICY Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to obtain some of these (about 15$ each), a request should be sent to the editor, at one of the addresses indicated below. Episteme is interested in publishing papers which illustrate uncommon points of view - that is to say, which do not usually appear in other academical Journals - in Science, History and Philosophy. Since Episteme is thought of as a multi-linguistic Journal, papers are accepted and possibly published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!). Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are in agreement with the Journal's criteria, or not. Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible illustrations in jpg format, should be sent either by attachment, to: bartocci@dipmat.unipg.it or by diskette, through ordinary mail, to: Episteme, Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy. Episteme can be found at the following websites: http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci .


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PRESENTAZIONE DEL VOLUME Presentiamo con non celato orgoglio un nuovo numero di Episteme, puntuale all'appuntamento con i lettori, nonostante le numerose difficoltà, di natura non soltanto economica ed organizzativa, che ne hanno accompagnato la nascita. Infatti, qualche divergenza ideologica ha purtroppo allontanato alcuni dei primitivi "fondatori" della rivista, fortunatamente presto sostituiti da altri non meno validi collaboratori. Il loro apporto ha permesso di andare comunque avanti rispettando i tempi, ma soprattutto di conservare le caratteristiche ideali della pubblicazione: essa rimane sempre disponibile ad ospitare ogni sincera e seria ricerca di "frammenti di verità", senza aprioristici schieramenti di parte (ovviamente legittimi per chi ha il privilegio di sapere già cosa sia vero e cosa no), e conseguenti atteggiamenti censorî. Passiamo rapidamente a commentare i contenuti del presente fascicolo, ancora più ricco in pagine - ma, si spera, non soltanto! - del primo. Felice Vinci ci conduce, con il suo straordinario "Omero nel Baltico" del quale viene presentata pure una versione in inglese, che non consiste però in una semplice traduzione dell'articolo originale - nei misteri della protostoria, e gli fa eco l'ormai cooperatore fisso Bruno d'Ausser Berrau, della cui estrema competenza in fatto di "studi tradizionali" il lettore potrà giovarsi ancora, in relazione stavolta all'importante tema delle origini della massoneria. Cominciamo poi a conoscere un altro intelligente studioso "non integrato", Flavio Barbiero, grazie a certe sue acute considerazioni relative alla "misura del tempo" presso popoli antichi, ma soprattutto attraverso l'ampia presentazione che viene in seguito offerta - nella rubrica "Recensioni" - della sua opera La Bibbia senza segreti, una delle "pietre dello scandalo" cui si accennava sopra. La delicatezza del tema ha consigliato di illustrare la questione sotto diversi punti di vista, sicché la recensione "principale" è accompagnata da un commento di Bruno d'Ausser Berrau, e da contributi di Luciano Tansini e Antonio Socci, che si ringraziano vivamente. Si auspicano, è naturale, ulteriori interventi, che potranno essere pubblicati nei prossimi numeri, eventualmente nella rubrica "Commenti Ricevuti", che qui si inaugura con un commento di Euro Roscini alla "filosofia cattolica" di Rocco Vittorio Macrì (esposta nell'esteso saggio con cui si apriva lo "storico" primo numero di Episteme).


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I lettori ritroveranno nuovamente Emilio Spedicato, il quale continua le sue indagini sulla storia primitiva dell'umanità, occupandosi di uno scritto assai poco conosciuto di Beniamino da Tudela (questa sarà la base per sue successive speculazioni che la nostra rivista spera di poter presto portare all'attenzione del pubblico), mentre il noto fisico e filosofo polacco Ludwik Kostro ci racconta dell'evoluzione del concetto di "creazione" nella religione ebraico-cristiana. La sezione scientifica si apre con uno studio contro-corrente di Alberto Bolognesi, che indaga con acume critico, fruibile anche da parte di non "specialisti", uno dei miti fondatori dell'astrofisica moderna, ovvero la teoria del Big-Bang. Prosegue il fisico Fabio Cardone, con alcune riflessioni sui fondamenti assiomatici delle teorie fisiche, e chiude un altro fisico, il palermitano Giuseppe Cannata, con considerazioni assolutamente fuori di moda sulla teoria dell'etere, le quali però, più che un residuo di concezioni irrimediabilmente passate, potrebbero considerarsi invece l'inizio di una rinnovata attenzione su temi che la "filosofia naturale" del XX secolo ha, non si sa quanto avvedutamente, accantonato. Pure in questo caso, va detto che il contributo in inglese non è una traduzione di quello in italiano. La rubrica fissa "Reprints" ospita prima di tutto delle brevi e sorprendentemente attuali meditazioni del premio Nobel Louis de Broglie, mentre Stevan Dedijer ci porta, con un'affascinante indagine indiziaria, ad investigare i "misteri" delle origini della modernità, singolarmente esaminate sotto il profilo di un'operazione di "intelligence". Si introduce così la questione dello "spionaggio", e della sua funzione nella sicurezza e nella forza di una nazione, un elemento che, ancorché scarsamente tenuto in conto nelle usuali trattazioni storiche, presenta invece grande interesse anche per la comprensione di episodi essenziali della storia contemporanea. Non a caso nel lungo saggio, che non può naturalmente fare a meno di evidenziare il ruolo dell'Inghilterra - paese una volta "small, on the edge of the civilized world, weak, almost bankrupt" - e della prodigiosa intelligenza "applicativa" di Francesco Bacone, si arriva a fare riferimento alla II guerra mondiale. La redazione desidera ringraziare esplicitamente Giorgio Iacuzzo per l'appassionata pagina di presentazione del suo amico, fisico e "spia". Chiude la rubrica un articolo di Quirino Majorana sulle teorie di Albert Einstein, ulteriore omaggio di Episteme ai portatori di un pensiero originale, libero dai condizionamenti imposti dallo "spirito dei tempi". Detto già di Flavio Barbiero, e della calorosa discussione generata dal suo studio biblico, il volume termina con un cenno alla "questione


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colombiana" (argomento sul quale si intende in futuro ritornare), attraverso una recensione di un libro di Italo Orbegiani. Si segnalano in particolare le spiritose pagine sulla storia "ortodossa" presentate da un altro studioso indipendente, Pier Costanzo Brio, che si auspica di avere ancora prossimamente tra gli autori della rivista, in relazione a qualcuna delle sue tante non comuni ricerche. Non resta che augurare buona lettura, e dire arrivederci in primavera (21 aprile) con il prossimo numero, che faremo ogni sforzo per mantenere all'altezza di quello presente, (UB) *°*°*°* Episteme ringrazia per le seguenti riviste pervenute: Algiza, Rivista di studi sulla Tradizione e il Fantastico, Bollettino interno del Centro Studi La Runa, c/o Alberto Lombardo, Via Ri Alto 5, 16043 Chiavari (Genova) runa@freemail.it , http://www.utenti.tripod.it/centrostudilaruna/index.html Altra Scienza, Rivista sulla Free Energy e sui protagonisti di ricerche e visioni del mondo alternative, c/o Franco Malgarini, via di Boccea 302, 00167 Roma malgarinias@iolit Avallon, L'uomo e il sacro, c/o Il Cerchio Iniziative Editoriali, via Gambalunga 91, 47900 Rimini - avallon@iper.net , http://www.ilcerchio.it Foundations of Science, c/o Common Sense Science, PO Box 1013, Kennesaw, GA 30144-8013 USA Krisis, Revue d'idées et de débats, 5 rue Carrière-Mainguet - F-75011 Paris Directeur: Alain de Benoist <alain.de.benoist@noos.fr> Nova Astronautica, Organo ufficiale dell'ASPS, Associazione Sviluppo Propulsione Spaziale, c/o Emidio Laureti, via Nino Martoglio 22, 00137 Roma - as.ps@flashnet.it , http://www.mywebpages.com/asps Quaderni di Parapsicologia, c/o Centro Studi Parapsicologici, Via Valeriani 39, 40134 Bologna - vod8178@iperbole.bologna.it


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OMERO NEL BALTICO (Felice Vinci) Sin dai tempi antichi la geografia omerica ha dato adito a problemi e perplessità: la coincidenza tra le città, le regioni, le isole descritte, spesso con dovizia di dettagli, nell'Iliade e nell'Odissea ed i luoghi reali del mondo mediterraneo, con cui una tradizione millenaria le ha sempre identificate, è spesso parziale, approssimativa e problematica, quando non dà luogo ad evidenti contraddizioni: ne troviamo vari esempi in Strabone, il quale tra l'altro si domanda perché mai l'isola di Faro, ubicata proprio davanti al porto di Alessandria, da Omero venga invece inspiegabilmente collocata ad una giornata di navigazione dall'Egitto. Così l'ubicazione di Itaca, data dall'Odissea in termini molto puntuali - secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto - non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell'omonima isola nel mar Ionio, ubicata a nord di Zacinto, ad est di Cefalonia e a sud di Leucade. E che dire del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i poemi? Insomma la geografia omerica fa riferimento ad un contesto del quale conosciamo bene la toponomastica, ma che, nel contempo, se confrontato con la realtà fisica del mondo greco, presenta incomprensibili anomalie, rese ancor più evidenti dalla loro stessa coerenza interna: ad esempio, quello "strano" Peloponneso appare pianeggiante non saltuariamente, ma sistematicamente, e Dulichio, l'isola "Lunga" ("dolichòs" in greco) situata da Omero nei pressi di Itaca ma inesistente nel Mediterraneo, viene menzionata più volte, anche nell'Iliade. Si configura in tal modo un universo sostanzialmente chiuso e inaccessibile, al di là di qualche parziale congruenza e nonostante la familiarità dei nomi, la quale rischia di diventare un elemento più fuorviante che utile alla soluzione del problema. Una possibile chiave per penetrare finalmente in questa singolare realtà geografica ce la fornisce Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un'affermazione sorprendente: l'isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell'Atlantico del nord, "a cinque giorni di navigazione dalla Britannia". Partendo da tale indicazione e seguendo la rotta verso est, indicata nel V libro dell'Odissea, percorsa da Ulisse dopo la sua partenza dall'isola (identificabile con una delle Färöer, tra le quali si


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riscontra un nome curiosamente "grecheggiante": Mykines), si riesce subito a localizzare la terra dei Feaci, la Scheria, sulla costa meridionale della Norvegia, in un'area in cui abbondano i reperti dell'età del bronzo. Qui, al momento dell'approdo di Ulisse nella terra dei Feaci, si verifica una sorta di "miracolo": il fiume (dove il giorno successivo il nostro eroe incontrerà Nausicaa) ad un certo punto inverte il senso della corrente ed accoglie il naufrago all'interno della sua foce. Tale fenomeno, incomprensibile nel Mediterraneo, sembra attestare proprio una localizzazione nordatlantica, dove in effetti l'alta marea produce la periodica inversione del flusso negli estuari (nel Tamigi la risalita dell'onda di marea, che favorisce l'ingresso delle navi nel porto, proprio come accade ad Ulisse, è di molti chilometri). Inoltre, nell'antica lingua nordica "skerja" significava "scoglio". Da qui, con un viaggio relativamente breve il nostro eroe fu poi accompagnato ad Itaca, situata, secondo Omero, all'estremità occidentale di quell'arcipelago su cui il poeta ci fornisce tanti particolari, estremamente coerenti fra loro ma totalmente incongruenti con le Isole Ionie: ora, una serie di precisi riscontri consente di individuare nel Baltico meridionale un gruppo di isole danesi che vi corrisponde in ogni dettaglio. Le principali infatti sono proprio tre: Langeland (l'"Isola Lunga": ecco svelato l'enigma della misteriosa Dulichio), Ærø (la Same omerica, anch'essa collocata esattamente secondo le indicazioni dell'Odissea) e Tåsinge (l'antica Zacinto). L'ultima isola dell'arcipelago verso occidente, "là, verso la notte", ora chiamata Lyø, è proprio l'Itaca di Ulisse: essa, a differenza della sua omonima greca, coincide in modo stupefacente con le indicazioni del poeta, non solo per la posizione, ma anche per le caratteristiche topografiche e morfologiche. E nel gruppo si ritrova persino l'isoletta, "nello stretto fra Itaca e Same", dove i pretendenti si appostarono per tendere l'agguato a Telemaco. Inoltre, ad oriente di Itaca e davanti a Dulichio giaceva una delle regioni del Peloponneso, che a questo punto si identifica facilmente con la grande isola danese di Sjælland: ecco la vera "Isola di Pelope", nell'autentico significato del termine. Il Peloponneso greco invece, situato in posizione corrispondente nell'Egeo, malgrado la sua denominazione non è un'isola: questa contraddizione, inspiegabile se non si ammette una trasposizione di nomi, è molto significativa. Ma c'è di più: sia i particolari, riportati dall'Odissea, del rapido viaggio in cocchio di Telemaco da Pilo a Lacedemone lungo una "pianura ferace di grano", sia gli sviluppi della guerricciola tra Pili ed Epei raccontata da Nestore nell'XI libro dell'Iliade, da sempre considerati incongruenti con la tormentata orografia della


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Grecia, si inseriscono alla perfezione nella realtà della pianeggiante isola danese. Cerchiamo ora la regione di Troia. L'Iliade la situa lungo l'Ellesponto, sistematicamente descritto come un mare "largo" o addirittura "sconfinato"; è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei Dardanelli, dove giace la città trovata da Schliemann, la cui identificazione con la Troia omerica d'altronde continua a suscitare forti perplessità: pensiamo alla critica che ne ha fatto il Finley nel suo Il mondo di Odisseo. Ora, lo storico medioevale danese Saxo Grammaticus nelle sue Gesta Danorum menziona in più occasioni un singolare popolo di "Ellespontini", nemici dei Danesi, e un "Ellesponto" curiosamente situato nell'area del Baltico orientale: che si tratti dell'Ellesponto omerico? Esso potrebbe identificarsi con il Golfo di Finlandia, il corrispondente geografico dei Dardanelli; poiché d'altra parte Troia, secondo l'Iliade, era ubicata a nordest del mare (altro punto a sfavore del sito di Schliemann), per la nostra ricerca è ragionevole orientarci verso un'area della Finlandia meridionale, là dove il Golfo di Finlandia sbocca nel Baltico. E proprio qui, in una zona circoscritta ad occidente di Helsinki, s'incontrano numerosissime località i cui nomi ricordano in modo impressionante quelli dell'Iliade, ed in particolare gli alleati dei Troiani: Askainen (Ascanio), Reso (Reso), Karjaa (Carii), Nästi (Naste, capo dei Carii), Lyökki (Lici), Tenala (Tenedo), Kiila (Cilla), Kiikoinen (Ciconi) e tanti altri. Vi è anche una Padva, che richiama la nostra Padova, la quale secondo la tradizione venne fondata dal troiano Antenore (e gli Eneti o Veneti, che Tacito nella Germania menziona accanto ai Finni, nell'Iliade vengono enumerati fra gli alleati dei Troiani); inoltre i toponimi Tanttala e Sipilä - sul monte Sipilo fu sepolto il mitico re Tantalo, famoso per il celebre supplizio - indicano che il discorso non è circoscritto alla sola geografia omerica, ma sembra estendersi all'intero mondo della mitologia greca. E Troia? Proprio al centro della zona così individuata, in una località, a mezza strada fra Helsinki e Turku, le cui caratteristiche corrispondono esattamente a quelle tramandate da Omero - l'area collinosa che domina la vallata con i due fiumi, la pianura che scende verso la costa, le alture alle spalle - scopriamo che la città di Priamo è sopravvissuta al saccheggio e all'incendio da parte degli Achei ed ha conservato il proprio nome quasi invariato sino ai nostri giorni: Toija, così si chiama attualmente, è ora un pacifico villaggio finlandese, rimasto per millenni ignaro del proprio glorioso e tragico passato. Varie visite in loco, a partire dall'11 luglio 1992, hanno confermato le straordinarie corrispondenze delle descrizioni dell'Iliade con il territorio attorno a Toija, dove per di più si riscontrano


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eloquenti tracce dell'età del bronzo. Addirittura, in direzione del mare, il nome della località di Aijala ricorda la "spiaggia" ("aigialòs") dove gli Achei avevano tratto in secca le loro navi (Il. XIV, 34). Tali corrispondenze si estendono anche alle aree adiacenti: sulla costa svedese antistante, 70 chilometri a nord di Stoccolma, si affaccia la baia di Norrtälje, lunga e relativamente stretta, le cui caratteristiche rimandano alla Aulide omerica, da dove mosse la flotta achea diretta a Troia; attualmente dalla sua estremità partono i traghetti per la Finlandia, ricalcando la stessa rotta: essi transitano davanti all'isola Lemland, il cui nome ricorda l'antica Lemno, dove gli Achei fecero tappa e abbandonarono l'eroe Filottete; a sua volta, la vicina Åland, la maggiore dell'omonimo arcipelago, probabilmente coincide con Samotracia, mitica sede dei misteri della metallurgia. L'attiguo Golfo di Botnia a questo punto è facilmente identificabile con l'omerico Mar Tracio; e, riguardo alla Tracia, che il poeta colloca al di là del mare rispetto a Troia, in direzione nord-ovest, essa giaceva lungo la costa della Svezia centro-settentrionale e nel suo entroterra. Più a sud, oltre il Golfo di Finlandia, la posizione dell'isola Hiiumaa, situata dirimpetto alla costa dell'Estonia, corrisponde esattamente a quella dell'omerica Chio, che l'Odissea pone sulla rotta del rientro in patria della flotta achea dopo la guerra. Insomma, oltre alle caratteristiche morfologiche del territorio, anche la collocazione geografica di questa Troade finnica "calza a pennello" con le indicazioni della mitologia; e così si spiega finalmente perché sui combattenti nella pianura di Troia cali spesso una "fitta nebbia" ed il mare di Ulisse non sia mai quello splendente delle isole greche, ma appaia sempre "livido" e "brumoso": nel mondo cantato da Omero si avvertono le asprezze tipiche dei climi nordici. Dovunque vi si riscontra una meteorologia tutt'altro che mediterranea, con nebbia, vento, freddo, pioggia, neve - quest'ultima anche in pianura e perfino sul mare - mentre il sole, e soprattutto il caldo, sono pressoché assenti: in quello che, secondo la tradizione, dovrebbe essere un torrido bassopiano dell'Anatolia, il tempo è quasi sempre perturbato, al punto che i combattenti, ricoperti di bronzo, arrivano addirittura ad invocare il sereno durante la battaglia! D'altronde, a tale contesto è perfettamente adeguato l'abbigliamento dei personaggi omerici, tunica e "folto mantello", che non lasciano mai, neppure durante i banchetti: esso trova un preciso riscontro nei resti di abiti ritrovati nelle antiche tombe danesi. Inoltre questa collocazione così settentrionale spiega la macroscopica anomalia della grande battaglia che occupa i libri centrali dell'Iliade, con due mezzogiorni (XI, 86; XVI, 777) e una notte interposta (XVI, 567), durante la quale i combattimenti non s'interrompono per il


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buio, il che nel mondo mediterraneo appare incomprensibile: invece è il chiarore notturno, tipico delle alte latitudini nei giorni attorno al solstizio estivo, che consente alle truppe fresche guidate da Patroclo di continuare a combattere fino al giorno successivo, senza un attimo di tregua. Questa chiave di lettura consente finalmente di ricostruire tutto lo svolgimento della battaglia in modo perfettamente logico e coerente, senza le perplessità e le forzature delle attuali interpretazioni; inoltre, da un passo dell'Iliade si riesce persino a evincere il nome greco del fenomeno della "notte chiara", peculiare delle regioni situate a ridosso del Circolo polare: è un vero e proprio "fossile linguistico" che l'epos omerico ha fatto sopravvivere allo spostamento degli Achei nel sud dell'Europa. Notiamo ancora che, in base alle descrizioni di Omero, le mura di Troia appaiono alla stregua di una rustica palizzata di tronchi e pietre; insomma, più che le poderose fortificazioni micenee, esse ricordano gli arcaici recinti in legno degli insediamenti nordici (tali furono ad esempio le mura del Cremlino fino al XV secolo). Prendiamo adesso in esame il cosiddetto Catalogo delle navi del II libro dell'Iliade, che riporta l'elenco delle 29 flotte achee partecipanti alla guerra di Troia con i loro comandanti e le località di provenienza: si può verificare che esso si snoda seguendo punto per punto la geografia delle coste baltiche in senso antiorario, a partire dalla Svezia centrale fino alla Finlandia; in tal modo, utilizzando anche le altre notizie fornite dai due poemi, è possibile ricostruire integralmente il mondo degli Achei attorno al mar Baltico, dove, come ci attesta l'archeologia, nel secondo millennio a.C. fioriva una splendida età del bronzo. Nel nuovo contesto geografico tutto l'universo di Omero e della mitologia greca finalmente ci si rivela in tutta la sua stupefacente coerenza: ad esempio, seguendo la scansione del Catalogo localizziamo subito la Beozia, corrispondente a quella parte del territorio della Svezia in cui si trova Stoccolma: è possibile in tal modo individuare la Tebe di Edipo ed il mitico monte Nisa (mai identificato nel mondo greco), dove il piccolo Dioniso venne allevato dalle Iadi; l'Eubea omerica coincideva con l'attuale isola di Öland, parallela alla costa svedese, in posizione analoga alla sua corrispondente mediterranea; l'Atene della mitologia, patria di Teseo, giaceva nel territorio dell'attuale Karlskrona, nella Svezia meridionale (ecco perché Platone nel dialogo Crizia la colloca in una pianura ondulata ricca di fiumi, totalmente estranea all'aspra morfologia della Grecia); nella pianeggiante isola Sjælland, il "Peloponneso" omerico, si ritrovano i regni degli Atridi e l'Arcadia, nonché il fiume Alfeo e la Pilo del re Nestore, la cui ubicazione nel Peloponneso veniva considerata un rompicapo già dagli


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antichi Greci: anche in questo caso, la localizzazione nordica risolve d'incanto problemi millenari. E, a questo punto, il Catalogo si raccorda con l'area dell'arcipelago di Itaca, già identificato a partire dai dati dell'Odissea: è così possibile verificare la perfetta congruenza dei dati forniti dai due poemi, una volta calati nel contesto baltico. In particolare, gli antichi Etoli dovevano corrispondere agli Juti medievali, come ci attesta non solo la loro collocazione nella sequenza del Catalogo, ma anche l'identificazione delle loro città, Pilene e Calidone, con le attuali Plön e Kiel. E la "vasta terra" di Creta, con "cento città", solcata da fiumi e mai chiamata isola da Omero? Essa corrisponde all'attuale regione della Pomerania, nel Baltico meridionale, distesa fra la costa tedesca e quella polacca; così si spiega perché nella ricca produzione pittorica della cosiddetta civiltà minoica, fiorita nella Creta egea, non si riscontrino tracce della mitologia greca ed anche le raffigurazioni di navi siano scarsissime. Sarebbe inoltre suggestivo ipotizzare una relazione tra il nome "Polska" e i Pelasgi, mitici abitanti di Creta. A questo punto è facile identificare anche Naxos, dove Teseo lasciò Arianna nel suo viaggio di ritorno da Creta verso Atene: è l'isola Bornholm, situata tra la Polonia e la Svezia, dove il toponimo Neksø ricorda tuttora l'antico nome. Scopriamo altresì che il "fiume Egitto" dell'Odissea probabilmente coincideva con l'attuale Vistola: ecco dunque la vera origine del nome attribuito dai Greci alla terra dei Faraoni, chiamata "Kem" nella lingua locale. E così si spiega subito l'incongruenza sulla posizione della Tebe egizia, che l'Odissea colloca nei pressi del mare: evidentemente la capitale dell'antico Egitto, situata sul Nilo a molte centinaia di chilometri dalla costa e denominata originariamente Wò'se, venne ribattezzata dagli Achei discesi nel Mediterraneo col nome della città baltica. Invece la Tebe omerica forse corrisponde all'attuale Tczew, presso la foce della Vistola, di fronte a cui, nel centro del Baltico, l'isola Fårö ricorda la Faro dell'Odissea, situata ad una giornata di navigazione dall'"Egitto": in tal modo si risolve un altro dei problemi che tormentavano il povero Strabone. D'altronde, anche le fisionomie di città achee come Micene o Calidone, quali emergono dalle descrizioni di Omero, appaiono completamente diverse dalle loro omonime sul suolo greco (in particolare, una serie di indizi inducono a ritenere che la posizione della Micene omerica coincidesse con quella dell'attuale Copenaghen). Il Catalogo delle navi ora tocca le repubbliche baltiche: in particolare, l'Ellade doveva trovarsi sulla costa dell'attuale Estonia (dunque stava affacciata sull'antico Ellesponto, il "mare di Helle", l'attuale Golfo di


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Finlandia): qui gli studiosi riscontrano leggende che presentano suggestivi paralleli con la mitologia greca. La vicina Ftia, patria di Achille, giaceva tra le fertili colline dell'Estonia sud-orientale, a cavallo del confine con la Lettonia, e si estendeva anche sull'adiacente territorio della Russia, fino al fiume Velikaja e al lago di Pskov. Successivamente, procedendo nella scansione, si arriva alla costa finlandese affacciata sul golfo di Botnia, dove troviamo una Jolkka che ci ricorda Iolco, la mitica città di Giasone. Più a settentrione, è possibile localizzare anche la regione dell'Olimpo, lo Stige e la Pieria: la collocazione di quest'ultima, a nord del Circolo polare, è confermata da un'apparente anomalia astronomica, legata alle fasi della Luna, riscontrata nell'Inno omerico a Hermes e che si può spiegare soltanto con l'alta latitudine. Ancora più remota, sulle gelide coste della Carelia russa, era la zona delle "Case dell'Ade", visitate da Ulisse, i cui viaggi rappresentano l'ultimo vestigio di antichissime rotte preistoriche, risalenti ad un'epoca caratterizzata da un clima molto diverso da quello attuale. Ecco, dunque, il "segreto" racchiuso nei poemi omerici e finora mai svelato: il teatro della guerra di Troia e delle altre vicende della mitologia greca non fu il Mediterraneo, ma il mar Baltico, sede primitiva dei biondi "lunghichiomati" Achei, riguardo ai quali esiste già la tendenza a considerarli provenienti dal settentrione, sulla base di una serie di testimonianze archeologiche raccolte sui siti micenei in Grecia. A tale riguardo il prof. Martin P. Nilsson, eminente studioso ed archeologo svedese, nel suo famoso Homer and Mycenae riporta numerose, e significative, prove che attestano l'origine nordica di quel popolo: ad esempio la presenza, nelle più antiche tombe micenee in Grecia, di grandi quantità di ambra (che invece scarseggia sia nelle sepolture più recenti, sia in quelle minoiche a Creta); l'impronta prettamente nordica della loro architettura (il "megaron" miceneo "è identico alla sala degli antichi re scandinavi"); la "impressionante somiglianza" di alcune lastre di pietra provenienti da una tomba di Dendra "con i menhir conosciuti dall'età del bronzo dell'Europa centrale"; i crani di tipo nordico trovati nella necropoli di Kalkani e così via. D'altro canto, in certi reperti dell'archeologia scandinava, ed in particolare nelle figure incise sulle lastre del tumulo di Kivik, in Svezia, sono state riscontrate rimarchevoli affinità con i modelli dell'arte egea, al punto da indurre qualche studioso del passato ad ipotizzare che quel monumento fosse opera dei Fenici. Inoltre, un significativo indizio della presenza degli Achei nel nord dell'Europa è costituito da un graffito miceneo ritrovato nel complesso megalitico di Stonehenge, in Inghilterra meridionale, insieme con altre tracce, riscontrate


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dagli archeologi sempre nella stessa area ("cultura del Wessex"), di epoca precedente all'inizio della civiltà micenea in Grecia: a tale proposito, ricordando che le isole britanniche sono state un importante centro di produzione dello stagno sin dall'antichità, potrebbe essere significativo un accenno dell'Odissea ad un mercato dei metalli dove si scambiava il ferro col bronzo, ubicato oltremare e chiamato "Temesa", nome ricollegabile a quello del Tamigi (denominato "Tamesis" o "Tamensim" dagli antichi cronisti). Quanto a Ulisse, vi sono singolari convergenze tra la sua figura e quella di Ull, guerriero ed arciere della mitologia nordica; inoltre, lungo le coste e le isole del mar di Norvegia, attraversato dalla Corrente del Golfo identificabile con il mitico "fiume Oceano" - troviamo molti suggestivi riscontri alle sue celebri avventure, le quali traggono probabilmente origine da racconti di marinai e da elementi del folklore locale, trasfigurati dalla fantasia del poeta e resi poi irriconoscibili dalla trasposizione in un contesto totalmente diverso. Esse in definitiva si rivelano l'estremo ricordo di antiche rotte oceaniche dei navigatori dell'età del bronzo: i riferimenti geografici forniti da Omero ci consentono di ricostruirle puntualmente. Per di più, certi fenomeni in apparenza incomprensibili - quali le Rupi Erranti, il canto delle Sirene, il gorgo di Cariddi o le danze dell'Aurora nell'isola di Circe - una volta ricondotti alla loro originaria dimensione atlanticosettentrionale trovano immediatamente una spiegazione. Addio Grecia, addio mare Mediterraneo! In ogni caso, all'epoca in cui sono ambientati i poemi omerici doveva essere ormai prossimo al tracollo un periodo caratterizzato da un clima eccezionalmente caldo, durato per millenni: è accertato infatti che il cosiddetto "optimum climatico post-glaciale", con temperature che nell'Europa del nord furono molto superiori a quelle attuali, raggiunse l'acme verso il 2500 a.C. (fase "atlantica" dell'Olocene) e iniziò a declinare attorno al 2000 (quando comincia la fase "sub-boreale"), fino ad esaurirsi completamente qualche secolo dopo. Fu probabilmente questo il motivo che ad un certo punto indusse gli Achei a trasferirsi nel Mediterraneo (scendendo, forse, per il fiume Dnepr verso il mar Nero, come molti secoli dopo avrebbero fatto i Vichinghi, la cui cultura presenta singolari affinità con quella achea): qui essi diedero origine alla civiltà micenea, notoriamente non autoctona della Grecia, la quale fiorì a partire dal XVI secolo a.C., in buon accordo quindi con le indicazioni climatiche. Il discorso potrebbe essere altresì ricondotto alla questione più generale dell'origine della famiglia indoeuropea, di cui i Micenei facevano parte, tenuto conto del fatto che il loro insediamento in Grecia fu pressoché


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contemporaneo a quello degli Hittiti in Anatolia, degli Arii in India e dei Cassiti in Mesopotamia (per non parlare degi Hyksos in Egitto, a cui alcuni studiosi attribuiscono pure una provenienza indoeuropea, e dei Tocari nel Turkestan, riguardo ai quali va considerato che l'origine dell'età del bronzo in Cina risale sempre alla stessa epoca). Insomma, alla base della diaspora degli Indoeuropei, a partire da una possibile patria originaria nordica, potrebbe essere stato il tracollo del clima nell'Europa settentrionale a partire dall'inizio del secondo millennio a.C.. D'altronde, già alla fine dell'Ottocento il colto bramino indiano B.G. Tilak aveva ipotizzato (The arctic home in the Vedas) l'origine artica degli antichi Arii, "cugini" degli Achei omerici, sulla base dell'antico calendario vedico, che prevedeva un periodo di sole continuo ed uno di notte perenne, intervallato da "albe rotanti" (alla cui presenza l'Odissea allude nell'isola di Circe. Sempre il Tilak in Orione dimostra che la primitiva civiltà aria risaliva al cosiddetto "periodo orionico", allorché l'equinozio di primavera ha luogo in tale costellazione; ora, effettivamente ciò avveniva tra il 4000 ed il 2500 a.C., in corrispondenza con l'"optimum climatico", allorché la mitezza del clima rendeva abitabili anche le regioni artiche (le foreste di latifoglie si estendevano fino al Circolo Polare e la tundra, cioè il deserto gelato dell'Artide, era scomparsa anche nelle estreme regioni settentrionali). D'altronde nelle primitive tradizioni indoeuropee, quali l'Avesta iranico e l'Edda nordica, si parla esplicitamente del tracollo del paradiso primordiale a causa del gelo di un terribile inverno. Notiamo anche che, secondo certe datazioni, gli Olmechi arrivarono sulle coste del Golfo del Messico all'incirca nello stesso periodo: si potrebbe supporre che essi provenissero da qualche zona artica dell'America Settentrionale, dove sarebbero stati in contatto con la civiltà proto-indoeuropea attraverso il Mare Artico (che allora non gelava) e scesero verso il Messico quando la loro patria divenne inabitabile. Tornando al contesto baltico, dall'esame delle sue caratteristiche emerge un quadro straordinariamente congruente con la geografia omerica e, più in generale, con l'intero mondo mitologico dell'antica Grecia, al punto di rendere assai improbabile che tutto questo colossale insieme di corrispondenze geografiche, climatiche, toponomastiche e morfologiche - a cui fanno riscontro le clamorose incongruenze della collocazione grecomediterranea - sia da attribuirsi ad un mero gioco del caso; sussiste invece un imponente complesso di elementi tutti perfettamente coerenti fra loro e tali da giustificare l'avvio, sui siti individuati, di ricerche archeologiche basate sui risultati e sulle indicazioni che scaturiscono da questa ricerca. Inoltre, questa ricostruzione del mondo omerico non soltanto rende conto


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delle sue straordinarie corrispondenze con quello baltico-scandinavo, a cui fanno riscontro le assurdità della tradizionale collocazione mediterranea, ma spiega anche il fatto che la civiltà micenea appare diversa - e nettamente più progredita - rispetto a quella omerica: evidentemente il contatto con le raffinate culture mediterranee ne favorì una rapida evoluzione. A tutto ciò va aggiunta la dimensione spiccatamente marinara di cui essa è pervasa (come d'altronde lo è in generale la mitologia greca), il che ben difficilmente si può spiegare con l'ipotesi di una provenienza continentale, mentre trova una splendida conferma in quelle tracce riscontrate in Inghilterra. Fu, insomma, lungo le coste baltiche che si svolsero le vicende narrate da Omero, presumibilmente collocabili nella fase declinante dell'"optimum climatico", verso l'inizio del II millennio a.C., prima dello spostamento degli Achei verso il Mediterraneo e del conseguente sorgere della civiltà micenea in Grecia (ecco perché già nell'antichità classica si era persa qualsiasi notizia attendibile sull'autore, o gli autori, dei due poemi). I migratori portarono con sé epopee e geografia: attribuirono infatti alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nei poemi omerici e nella mitologia greca (la quale, se da un lato presenta molti punti di contatto con quella nordica, dall'altro, forse in seguito al crollo della civiltà micenea, avvenuto attorno al XII secolo a.C., ha perso il ricordo della grande migrazione dal settentrione, peraltro ampiamente attestata dall'archeologia); inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell'area mediterranea, quali la Libia, Creta e l'Egitto, generando in tal modo un colossale "equivoco geografico" durato fino ai nostri giorni. Queste trasposizioni vennero agevolate - anzi, forse, suggerite - da una certa analogia tra la configurazione geografica del Baltico e quella dell'Egeo: basti pensare alla corrispondenza tra Öland ed Eubea, o tra Sjælland e Peloponneso (dove peraltro, come abbiamo visto, dovettero forzare il concetto di "isola"); il fenomeno venne poi consolidato, nel corso dei secoli, dal progressivo affermarsi dei popoli di lingua greca nel bacino del Mediterraneo, a partire dalla civiltà micenea fino all'epoca ellenistico-romana. Per concludere, la prospettiva così individuata - a cui non manca il requisito popperiano della "falsificabilità" - se da un lato consente di far luce su una serie di problematiche rimaste finora insolute, dall'altro ha già subìto una positiva verifica attraverso i sopralluoghi effettuati sui territori interessati, che ne hanno mostrato la precisa congruenza con le descrizioni omeriche. Pertanto è ormai maturo il tempo di avviare specifiche indagini archeologiche nelle località individuate, "in primis" nel territorio di Toija e


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nell'isola di Lyø, corrispondente ad Itaca sotto tutti gli aspetti, geografici, topografici, morfologici e descrittivi: per di più si tratta di siti archeologicamente assai promettenti. In ogni caso, le concordanze tra i dati forniti dai poemi omerici ed i corrispondenti ambiti geografici dell'Europa settentrionale, unitamente alla coerenza del quadro complessivo delineato dalla mitologia greca una volta inserita in quel contesto, sono così straordinarie da non poter essere ignorate o eluse, anche nel caso che le indagini sui siti individuati non dovessero dare esiti favorevoli: esse, comunque, attendono una spiegazione. Qualora poi la tesi emersa da questa ricerca* fosse confortata da riscontri positivi, si aprirebbero nuovi affascinanti orizzonti, di ampiezza incalcolabile, per quanto riguarda non soltanto le indagini sulla protostoria ma, addirittura, le origini e gli sviluppi di tutta la civiltà europea. Inoltre la riscoperta di Omero in chiave nordica potrebbe favorire un diverso approccio - in chiave non più soltanto "economica" ma anche, e soprattutto, "storico-culturale" - all'idea di unità dell'Europa e, forse, contribuire alla nascita di un nuovo umanesimo nella cultura dell'Occidente. * Esposta nel libro del presente autore, Omero nel Baltico - con la presentazione di Rosa Calzecchi Onesti, grecista e traduttrice dei poemi omerici, e la prefazione di Franco Cuomo, studioso e scrittore - 480 pagine, Fratelli Palombi Editori, Roma 1998. ----Felice Vinci è nato nel 1946 a Roma. Ingegnere nucleare, dirigente industriale, socio del Rotary, da sempre è appassionato di mitologia greca. Ha finora pubblicato i saggi Homericus Nuncius (Solfanelli, Chieti 1993), e Omero nel Baltico (Fratelli Palombi, Roma 1995; II ed. 1998). e-mail: vinci.felice@enel.it


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HOMER IN THE BALTIC (Felice Vinci) Ever since ancient times, Homeric geography has given rise to problems and uncertainty. The conformity of towns, countries and islands, which the poet often describes with a wealth of detail, with the traditional Mediterranean places is usually only partial or even non-existent. We find various cases in Strabo (Greek geographer and historian, 63 B.C.-23 A.D.), who, for example, cannot understand why the island of Pharos, situated right in front of the port of Alexandria, in the Odyssey unexplainably appears to lie a day's sail from Egypt. There is also the question of the location of Ithaca, which, according to very precise Odyssey's indications, is the westernmost in an archipelago which includes three main islands, Dulichium, Same and Zacynthus. This does not correspond to the geographical reality of the Greek Ithaca in the Ionian Sea, located north of Zacynthus, east of Cephalonia and south of Leucas. And then, what of Peloponnese which is described in both poems as being a plain? In other words, Homeric geography refers to a context with a toponymy with which we are quite familiar, but which, if compared with the actual physical layout of the Greek world, reveals glaring anomalies, which are hard to explain, also considering their consistency throughout the two poems. For example, that "strange" Peloponnese appears to be a plain not sporadically but regularly, and Dulichium, the "Long Island" (in Greek "dolichòs" means "long"), which is located by the Odyssey in the vicinity of Ithaca, is repeatedly mentioned also in the Iliad, but cannot be found in the Mediterranean. Thus we are confronted with a world which appears actually closed and inaccessible, apart from some occasional convergence, although the names are familiar (which, however, tend to be more misleading than helpful in solving the problem). A possible key to finally penetrating this puzzling world is provided by Plutarch (Greek author, 46-120 A.D.). In his work De facie quae in orbe lunae apparet ("The face that appears in the moon circle"), chap. 26, he makes a surprising statement: the island of Ogygia, (where Calypso held Ulysses back for a long time before allowing him to return to Ithaca) is located in the North Atlantic Ocean, "five days by ship from Britain". Plutarch's indications allow us to identify Ogygia with one of the Faroe Islands (where we also come across an island with a curiously Greek-


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sounding name: Mykines) and, starting from here, the route eastwards, which Ulysses follows (Book V of the Odyssey) in his voyage from Ogygia to Scheria allows us to locate the latter, i.e. the land of the Phaeacians, on the southern coast of Norway, in an area perfectly fitting the account of his arrival, where archaeological traces of the Bronze Age are plentiful. In addition, on the one hand in Old Norse "sker" means a "sea rock", on the other in the narrative of Ulysses's landing Homer introduces the reversal of the river current, which is unknown in the Mediterranean world but is typical of the Atlantic estuaries during flood tide. From here the Phaeacians took Ulysses to Ithaca, located on the far side of an archipelago, which Homer talks about in great detail. At this point, a series of precise parallels makes it possible to identify a group of Danish islands, in the south of the Baltic Sea, which correspond exactly to all Homer's indications. Actually, the South-Fyn Archipelago includes three main islands: Langeland (the "Long Island"; which finally unveils the puzzle of the mysterious island of Dulichium), Aerø (which corresponds perfectly to Homeric Same) and Tåsinge (ancient Zacynthus). The last island in the archipelago, located westwards, "facing the night", is Ulysses's Ithaca, now known as Lyø. It is astonishing how greatly it coincides with the indications of the poet, not only as far as its position is concerned, but also its topographical and morphological characteristics: for example, one can identify the ancient "Phorcys's Harbour" and the "Crow's Rock" (which corresponds to a Neolithic dolmen standing in the west of the island). And here, amongst this group of islands, we can even identify the little island "in the strait between Ithaca and Same", where the Penelope's suitors tried to waylay Telemachus. Moreover, the Elis, i.e. one of the regions of Peloponnese, is described as lying to the east of Ithaca and in front of Dulichium. It is easily identifiable with a part of the large Danish island of Zealand. Therefore, the latter is the original "Peloponnese", i.e. "Pelops's Island", in the real meaning of the word "island" ("nêsos" in Greek)! On the other hand, the Greek Peloponnese (which is located in a similar position in the Aegean Sea, i.e. in its southwestern side) is not an island despite its denomination. This contradiction, which is inexplicable unless we suppose a transposition of the name, is very significant. Furthermore, the details reported in the Odyssey regarding both Telemachus's quick journey by chariot from Pylos to Lacedaemon, along "a wheat-producing plain", and the development of the war between Pylians and Epeans, as narrated by Nestor in Book XI of the Iliad, have always been considered inconsistent with Greece's uneven


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orography. They fit in perfectly, however, with the reality of the flat Danish island. Now let us turn to the region of Troy. In the Iliad it is located along Hellespont which is systematically described as being a "wide" or even "boundless" sea. We can, therefore, exclude the fact that it refers to the Dardanelles, where the city found by Schliemann lies. The identification of this city with Homer's Troy continues to raise strong doubts: we only have to think of Finley's criticism in the World of Odysseus. On the other hand, the Danish Medieval historian Saxo Grammaticus in his Gesta Danorum often mentions a population known as "Hellespontians" and a region called Hellespont, which, strangely enough, seems to be located in the east of the Baltic Sea. Could it be Homer's Hellespont? We can identify it with the Gulf of Finland, which is the "geographic counterpart" of the Dardanelles (as a matter of fact, both of them lie to the Northeast in their respective seas). Since Troy, according to the Iliad, was situated Northeast of the sea (here is another reason to dispute Schliemann's location), then it seems reasonable, for the purpose of this research, to go over a region of southern Finland, where the Gulf of Finland joins the Baltic Sea. In this area, west of Helsinki, we find lots of name-places which astonishingly resemble those mentioned in the Iliad and, in particular, those given to the allies of the Trojans: Askainen (Ascanius), Reso (Rhesus), Karjaa (Caria), Nästi (Nastes, the chief of the Carians), Lyökki (Lycia), Tenala (Tenedos), Kiila (Cilla), Kiikoinen (Ciconians) etc. There is also a Padva, which reminds us of Italian Padua, which was founded, according to tradition, by the Trojan Antenor and lies in the region of Veneto (the "Eneti" or "Veneti" were allies of the Trojans). What is more, the place-names Tanttala and Sipilä (the mythical King Tantalus, famous for his torment, was buried on Mount Sipylus) indicate that this matter is not only limited to Homeric geography, but seems to extend to the whole world of Greek mythology. What about Troy? Right in the middle of this area, half way between Helsinki and Turku, we discover that King Priam's city has survived the Achaean sack and fire. Its characteristics correspond exactly to those given to us by Homer, i.e. the hilly area which dominates the valley with its two rivers, the plain which slopes down towards the coast and the highlands in the background. It has even maintained its own name nearby unchanged throughout all this time. Today, "Toija" is a peaceful Finnish village, unaware of its glorious and tragic past. Various trips to these places from July 11, 1992 onwards, have confirmed the extraordinary correspondence between the Iliad's descriptions and the area surrounding Toija. What is more, there we come


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across many significant traces of the Bronze Age. Incredibly, towards the sea we find a place called Aijala, which recalls the "beach" ("aigialòs"), where, according to Homer, the Achaeans beached their ships (Il. XIV, 34). The correspondence extends as far as the neighbouring areas. Along the Swedish coast, for example, in front of Toija, 70 km north of Stockholm, the long and relatively narrow Bay of Norrtälje recalls Homeric Aulis, from where the Achaean fleet set sail for Troy. Nowadays, ferries leave here for Finland, following the same ancient course. They pass off the island of Lemland, whose name reminds us of ancient Lemnos, where the Achaeans stopped and abandoned the hero Philoctetes. Nearby, there is also Åland, the largest island of the homonymous archipelago, which probably coincides with Samothrace, the mythical site of the metalworking mysteries. The adjacent Gulf of Bothnia is easily identifiable with Homer's Thracian Sea, and the ancient Thrace, which the poet places to the northwest of Troy on the opposite side of the sea, probably lay along the northern Swedish coast and its hinterland (it is remarkable that a Norse saga identifies Thrace with the home of the god Thor). Further south, outside the Gulf of Finland, the island of Hiiumaa, situated opposite the Esthonian coast, corresponds exactly to Homer's Chios, which the Odyssey places on the return course of the Achaean fleet after the war. In short, apart from the morphological characteristics of this area, the geographic position of this Finnish Troas fits the mythological directions like a glove. We finally come to understand why a "thick fog" often fell on those fighting on the Trojan plain and why Ulysses's sea was never as bright as that of the Greek islands, but always "grey" and "misty". As we travel through Homer's world, we experience the harsh weather which is typical of the Nordic world. The weather described throughout has little to do with the Mediterranean climate, with its fog, wind, rain, cold temperatures and snow (which falls on the plains and even out to sea) whilst the sun and warm temperatures are mentioned hardly ever. Most of the time we find unsettled weather, to the point that the bronze-clad fighting warriors invoke cloudless sky during the battle! We are far away from the torrid Anatolian lowlands. The way in which Homer's characters are dressed is in perfect keeping with this kind of climate. They wear tunics and "thick, heavy cloaks" which they never remove, not even during banquettes. This attire corresponds exactly to the remains of clothing found in Bronze Age Danish graves, down to details as the metal brooch which pined the cloak on the shoulder. This northern collocation also explains the huge anomaly of the great battle which takes up the central books of the Iliad. The battle continues


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for two days (XI, 86; XVI, 777) and one night (XVI, 567). The fact that the darkness does not put a stop to the fighting is incomprehensible in the Mediterranean world. Instead, the faint night light, which is typical of high latitudes during the summer solstice, allows Patroclus's fresh troops to carry on fighting through to the following day, without a break. This interpretation - which is confirmed by the overflowing of the Scamander during the following battle, given that in the northern regions these phenomena occur just in that period owing to the thaw - allows us to reconstruct the whole battle in a coherent and logical manner, dispelling the present-day perplexities and strained interpretations. Furthermore, we even manage to pick out from a passage in the Iliad the Greek word used to denominate the faintly lit nights characteristic of the regions located near the Arctic Circle: the "amphilyke nyx" (VII, 433) is a real "linguistic fossil" which, thanks to the Homeric epos, has survived the transfer of the Achaeans to Southern Europe. It is also important to note that the Trojan walls, as described by Homer, were alike to rustic fences made of wood and stone. They resemble the archaic Nordic wooden enclosures (such as the Kremlin Walls up to the XV century) much more than the mighty strongholds of the Mediterranean civilizations. Let us now examine the so-called Catalogue of Ships from Book II of the Iliad, which lists the twenty-nine Achaean fleets participating in the Trojan War together with names of their captains and places of origin. This list unwinds in an anticlockwise direction, starting from Central Sweden, travelling along the Baltic coasts and finishing in Finland. If we combine this with the directions contained in the two poems, as well as in the rest of Greek mythology, we get to completely reconstruct the Achaean world around the Baltic Sea, where, as attested by the archaeology, a thriving Bronze Age was flourishing in the second millennium B.C., favoured by a warmer climate than today's. In this new geographical context, the entire universe belonging to Homer and Greek mythology finally discloses itself with its astonishing consistency. For example, by following the Catalogue's sequence, we immediately locate Boeotia (corresponding to Stockholm's region), where it is possible to identify Oedipus's Thebes and the mythical Mount Nysa (which was never found in the Greek world) where baby Dionysus was nursed by the Hyads. Homer's Euboea coincides with the modern day island of テ僕and, located off the Swedish coast in a similar position to that of its Mediterranean correspondent. Mythological Athens, Theseus's native land, lay in the present day area of Karlskrona in southern Sweden. This


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explains why Plato referred to it as being a rolling plain full of rivers in his dialogue Critias, which is totally alien to Greece's rough morphology. Nevertheless, the features of other Achaean cities, such as Mycenae or Calydon, as described by Homer also appear completely different from those of their namesakes on Greek soil; in particular, Mycenae lay in the site of today's Copenhagen, where the island of Amager possibly recalls its ancient name and explains why the latter was in the plural. We rediscover Agamemnon's and Menelaus's kingdoms and Arcadia on the flat island of Zealand (i.e. Homeric "Peloponnese"), where we also find the River Alpheus and King Nestor's Pylos, whose location were held to be a mystery even by the ancient Greeks. By setting Homer's poems in the Baltic, also this age-old puzzle is solved at once! Here the Catalogue links up with Ithaca's archipelago, which we had already identified by making use of directions supplied by the Odyssey. We are thus able to verify the consistency of the information contained in the two poems as well as their congruity with the Baltic geography (here it is easy to solve also the problem of the strange border between Argolis and Pylos, which is attested in the Iliad but is "impossible" in the Greek world). After Ithaca, the list continues with the Aetolians, who recall the ancient Jutes. They gave their name to Jutland, which actually lies near the SouthFyn Islands. Homer mentions Pylene in the Aetolian cities, which corresponds to today's PlÜn, in North Germany, not far from Jutland. Opposite this area, in the North Sea, the name of Heligoland, one of the North Frisian Islands, reminds Helike, a sanctuary of the god Poseidon mentioned in the Iliad. What about Crete, the "vast land" with "a hundred cities" and many rivers, which is never referred to as an island by Homer? As a matter of fact, it corresponds to present Pomeranian region in the southern Baltic area, which stretches from the German coast to the Polish one. This explains why in the rich pictorial productions of the Minoan civilisation, which flourished in Aegean Crete, we do not find any hint at Greek mythology and ships are so scantily represented. It would also be tempting to assume a relationship between the name "Polska" and the Pelasgians, the inhabitants of Homeric Crete. At this point, it is also easy to identify Naxos (where Theseus left Ariadne on his return journey from Crete to Athens) with the island of Bornholm, situated between Poland and Sweden, where the town of Neksø still recalls the ancient name. Likewise, we discover that the Odyssey's "River Egypt" probably coincides with the present-day Vistula, thus revealing the real origin of the name given by the Greeks to Pharaohs' land, known as "Kem" in local language. This explains


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the incongruous position of the Homeric Egyptian Thebes, which, according to the Odyssey, is queerly located near the sea. Evidently the Egyptian capital, which on the contrary lies hundreds of kilometres from the Nile delta and was originally known as Wò'se, was renamed by the Achaeans with the name of Baltic city, once they moved down to the Mediterranean. On the other hand, Homer's Thebes probably corresponds to the present-day Tczew, on the Vistula delta. To the north of the latter, in the centre of the Baltic Sea, the island of Fårö reminds the Homeric Pharos, which according to the Odyssey lay in the middle of the sea at a day's sail from "Egypt" (whereas Mediterranean Pharos is not even a mile's distance rom the port of Alexandria). Thus we solve another of the problems that tormented poor Strabo. The Catalogue of Ships now touches the Baltic Republics. Hellas lay on the coast of present-day Esthonia, therefore, next to Homeric Hellespont (i.e. the "Helle Sea"), the present Gulf of Finland. In this area, scholars have come across legends which present interesting parallels with Greek mythology. Phthia, Achilles's homeland, lay on the fertile hills of southeastern Esthonia, along the border with Latvia and Russia, stretching as far as the Russian river Velikaja and the lake of Pskov. Myrmidons and Phthians lived there, ruled by Achilles and Protesilaus (the first Achaean captain who fell in the Trojan War) respectively. Next, proceeding with the sequence, we reach the Finnish coast, facing the Gulf of Bothnia, where we find Jolkka, which reminds us of Iolcus, Jason's mythical city. Further north, we are also able to identify the region of Olympus, Styx and Pieria in the Finnish Lapland (which in turn recalls the Homeric Lapithae, i.e. the sworn enemies of the Centaurs who also lived in this area). This location of Pieria north of the Arctic Circle is confirmed by an apparent astronomical anomaly, linked to the moon cycles, which is found in the Homeric Hymn to Hermes: it can only be explained by high latitude. The "Home of Hades" was even further northwards, on the icy coasts of Russian Karelia: here Ulysses arrived, whose journeys represent the last vestige of prehistoric routes in an era which was characterised by a very warmer climate than today's. In conclusion, from this review of the Baltic world, we find its astonishing consistency with the Catalogue of Ships as well as the entire Greek mythology (Tab. 1). It is very unlikely that this immense set of geographical, climatic, toponymical and morphological parallels is to be ascribed to mere chance, apart from considering the glaring contradictions arising in the Mediterranean setting.


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Therefore, here is the "secret" which has been hidden inside Homer's poems up to now and explains all oddities of Homeric geography: the Trojan War and other events handed down by Greek mythology were not set in the Mediterranean, but in the Baltic area, i.e. the primitive home of the blond "long-haired" Achaeans. On this subject, the distinguished Swedish scholar, Professor Martin P. Nilsson, in his works (Homer and Mycenae and The Minoan-Mycenaean Religion and its Survival in Greek Religion) reports a series of pieces of archaeological evidence uncovered in the Mycenaean sites in Greece, supporting the fact that the Achaean population came from the North. Some examples are: the existence of a large quantity of baltic amber in the most ancient Mycenaean tombs in Greece (which is not to be ascribed to trade, because the amber is very scarce in later graves as well as in the coeval Minoan tombs in Crete); the typically Nordic features of their architecture (the Mycenaean megaron "is identical to the hall of the ancient Scandinavian Kings"); the "striking similarity" of two stone slabs found in a tomb in Dendra "with the menhirs known from the Bronze Age of Central Europe"; the Nordic-type skulls found in the necropolis of Kalkani, etc. A remarkable affinity between Aegean art and some Scandinavian remains dating back to the Bronze Age has also been noted, with particular regard to the figures engraved on Kivik's tomb in Sweden, to the point that a scholar in the nineteenth century suggested that this monument was built by the Phoenicians! Another sign of the Achaean presence in the Nordic world in a very distant past is a Mycenaean graffito found in the megalithic complex of Stonehenge in Southern England. Other remains revealing the Mycenaean influence were found in the same area ("Wessex culture"), which date back to a period preceding the Mycenaean civilisation in Greece. A trace of this sort of contact can be found also in the Odyssey, which mentions a bronze market placed overseas, in a foreign country, named "Temese", never found in the Mediterranean area. Since bronze is an alloy of copper and tin, which in the North is only found in Cornwall, it's very likely that the mysterious Temese corresponds to the Thames, named "Tamesis" or "Tamensim" in ancient times. So, following the Odyssey, we learn that, during the Bronze Age, the ancient Scandinavians used to sail to Temese/Thames - "placed overseas, in a foreign country" (Od. I, 183-184) - to supply themselves with bronze. And what about Odysseus's trips, after the Trojan War? When he is about to reach Ithaca, a storm takes him away from his world; so he has many adventures in fabulous localities until he reaches Ogygia, that's Faroe. They are located out of the Baltic, in the North Atlantic (he also meets the


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"Ocean River", that's the Gulf Stream). For example, the Eolian island, where there is the "King of the winds", "son of the Knight", is one of the Shetlands (maybe Yell), where there are strong winds and ponies. Cyclops lived in the coast of Norway (near Tosenfjorden: the name of their mother is Toosa): they coincide with the Trolls of the Norwegian folklore. The land of Lestrigonians was in the same coast, towards the North; Homer says that there the days are very long (actually, the famous scholar Robert Graves places the Lestrigonians in the North of Norway! In that area we find the island Lamøj, the homeric Lamos). The island of sorceress Circe, where there are the midnight sun and the rotating dawns ("the dancing of the Dawn", as Homer says), is Jan Mayen (at that time the climate was quite different). The strange "wandering rocks" are icebergs. Charybdis is the well-known whirlpool named Maelström, near Lofoten. South of Charybdis Odysseus meets the island Thrinakia, that means "trident": really, near the Maelström Vaerøy, three-tip island, lies. Sirens are very dangerous shoals for sailors, who are attracted by the misleading noise of the backwash (the "Sirens' song" is a metaphor similar to Norse "kennings") and deceive themselves that landing is at hand, instead, if they get near, are bound to shipwreck on the reefs. So, these adventures, presumably taken from tales of ancient seamen and elaborated again by the Poet's fantasy, represent the last memory of the oceanic routes followed by the ancient navigators of the Nordic Bronze Age, but they became unrecognizable because of their transposition into a totally different context. Besides, we can find remarkable parallels between Greek and Norse mythology: for example, Ulysses is similar to Ull, archer and warrior of Norse mythology, the sea giant Aegaeon (who gave his name to the Aegean Sea) is the counterpart of the Norse sea god Aegir. We can even try to link directly Homeric and Norse mythology: actually, the latter states that Odin came from Troy (the Finnish location of Homeric Troy, of course, makes this piece of news more credible). He maybe was a successor of King Priam on the throne of Troy, and lived at the time of the terrible Ragnarok, i.e. a climatic upsetting probably aroused by the explosion of the volcano of Thera, in Eastern Mediterranean Sea, in 1630 B.C.. This phenomenon affected the whole planet and probably triggered the Mycenaean migration (which happened just in those years) towards the South. Afterwards Odin was deified, taking some features of goddess Athene (whose he is almost homonymous: Othin = Athene): they are both gods of war and wisdom, with a spear and a bird (the rook and the little owl respectively). Also his strange horse with eight legs possibly is a vestige of the Bronze Age, when the knights did not ride but used a chariot


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with two horses (here are the eight legs, that probably were inspired by some ancient image). The period in which Homer's poems are set is close to the end of an exceptionally hot climate that had lasted several thousands of years, the "post-glacial climatic optimum". It corresponds to the "Atlantic phase" of the Holocene, when temperatures in northern Europe were much higher than today (at that time the broad-leaved forests reached the Arctic Circle and the tundra disappeared even from the northernmost areas of Europe). It reached its climax around 2500 B.C. and began to drop around 2000 B.C. ("subboreal phase"), until it came to an end some centuries later. Therefore, it is highly likely that this was the cause that obliged the Achaeans to move down to the Mediterranean for this reason. They probably followed the Dnieper river down to the Black Sea, as the Vikings (whose culture is, in many ways, quite similar) did many centuries later. The Mycenaean civilisation, not native of Greece, was thus born and went on to flourish from the XVII or XVI century B.C., soon after the change in North European climate. Incidentally, this is the same age as the arising of Aryan, Hyksos, Hittite and Cassite settlements in India, Egypt, Anatolia and Mesopotamia respectively. In a word, this theory can explain the cause of the contemporary migrations of other Indo-European populations (following a recent research carried on by Prof. Jahanshah Derakhshani of Teheran University, the Hyksos very likely belong to the Indo-European family). In a word, the original homeland of the Indo-Europeans was most likely located in the furthest North of Europe, when the climate was much warmer than today's. However, on the one hand G.B. Tilak in The Arctic home of the Vedas claims the Arctic origin of the Aryans, "cousins" of the Achaeans, on the other both Iranian and Norse mythology (Avesta and Edda respectively) remember that the original homeland was destroyed by cold and ice. It is also remarkable that, following Tilak (The Orion), the original Aryan civilization flourished in the "Orionic period", when the Spring equinox was rising in the Orion constellation. It actually happened in the period from 4000 up to 2500 B.C., i.e. during the "climatic optimum". We also note the presence of a population known as the Thocarians in the Tarim Basin (northwest China) from the beginning of the II millennium B.C. They spoke an Indo-European language and were tall, blond with Caucasian features. This dating provides us with yet another confirmation of the close relationship between the decline of the "climatic optimum" and the Indo-European Diaspora from Scandinavia and other Northern regions. In this picture, it is amazing that the Bronze Age starts in


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China just between the XVIII and the XVI century B.C. (Shang dynasty). We should note that the Chinese pictograph indicating the king is called "wang", which is very similar to the Homeric term "anax", i.e. "the king" (corresponding to "wanax" in Mycenaean Linear B tablets). On the other hand, the terms "Yin" and "Yang" (which express two complementary principles of Chinese philosophy: Yin is feminine, Yang masculine) could be compared with the Greek roots "gyn-" and "andr-" respectively, which also refer to the "woman" and the "man" ("anér edé gyné", "man and woman", Od. VI, 184). In this picture we could dare to insert the Olmecs, too, who seem to have reached the southern Gulf Coast of Mexico about in the same period; if this will be confirmed, one could infer that they were a population who formerly lived in some region in the farthest north of America, where they could have been connected with the Scandinavian Proto-Indo-European civilization through the Arctic Ocean, which during the "climatic optimum" was free from ice. Then they moved to Mexico when the climate collapsed (this, of course, could help to explain certain similarities with the Old World, apart from other possible contacts). Returning to Homer, this reconstruction* does not only explain the extraordinary consistency between the Baltic-Scandinavian context and Homer's world, but also clarifies why the latter was decidedly more archaic than the Mycenaean civilisation. Evidently, the contact with the refined Mediterranean cultures favoured its rapid evolution, also considering their marked inclination for trade and seafaring, which pervades not only the Homeric poems, but also all Greek mythology. This is hard to explain with the hypotheses in vogue about the continental origin of the IndoEuropeans, whereas the remains found in England fit in very well with the idea of a previous seaboard homeland (by matching this with the typically northern features of their architecture, as the scholars assert, we remove any doubt as to their place of origin). On the other hand, Stuart Piggott, famous scholar and archaeologist, states: "The nobility of the [Homeric] hexameters shouldn't deceive us inducing us to believe that the Iliad and the Odyssey are something different from the poems of the largely barbaric Europe during the Bronze Age and the Early Iron Age". Soon afterwards he quotes an extremely significant statement of Rhys Carpenter: "No Minoic or Asian blood runs in the veins of the Greek Muses: they are far away from the Cretanmycenaean world. Rather they are in contact with the European elements of Greek culture and language... behind Mycenaean Greece... Europe lies" (Ancient Europe, chap. IV).


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It was, therefore, along the Baltic coast that Homer's events took place, presumably about the beginning of the second millennium B.C., when the "climatic optimum" collapsed, before the Achaean migration towards the Mediterranean and the consequent rise of the Mycenaean civilisation in Greece (this explains why any reliable information regarding the author, or authors, of the poems had already been lost before the classical times). The migrants took their epos and geography along with them and attributed the same names they had left behind in their lost homeland to the various places where they eventually settled. This heritage was immortalized by Homer's poems and Greek mythology, which on the one hand has a lot of similarities with the Nordic one, on the other seems to have lost the memory of the great migration from the North (this probably happened after the collapse of the Mycenaean civilisation, around the XII century B.C.). Moreover, they went as far as renaming other Mediterranean regions with corresponding Baltic names, such as Libya, Crete and Egypt, thus creating an enormous "geographical misunderstanding" which has lasted till now. These transpositions were encouraged, if not suggested, by a certain similarity between the geography of the Baltic and that of the Aegean. We only have to think about the analogy between テ僕and and Euboea or between Zealand and Peloponnese (where, as we have already seen, they forced the concept of island in order to maintain the original layout). This phenomenon was then consolidated over the centuries by the increasing presence of Greek-speaking populations in the Mediterranean basin, from the time of the Mycenaean civilisation to the Hellenistic-Roman period. * Exposed in the book: Felice Vinci, Omero nel Baltico ("Homer in the Baltic"), with Introductions by R. Calzecchi Onesti and F. Cuomo, Rome 1998 (R. Calzecchi Onesti is a scholar and translator of Homeric poems into Italian; F. Cuomo is a scholar and writer). Publisher: Fratelli Palombi Editori - Via dei Gracchi 183 - 00192 Rome ISBN: 88-7621-211-6 ----e-mail: e-mail: vinci.felice@enel.it


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[Ci sembra di far cosa opportuna ai lettori, col proporre il seguente saggio già apparso presso le Edizioni del Centro Studi La Runa di Chiavari, 1999 - ad ampia integrazione e commento dei due precedenti. Si fa anche presente come, nella trascrizione in lettere greche, per meri motivi tipografici, siano stati omessi accenti e spiriti]

LA SCANDINAVIA E L'AFRICA (Bruno d'Ausser Berrau) Nel ragguardevole lavoro di Felice Vinci "Omero nel Baltico", 1 inteso a dimostrare come le vicende degli Achei abbiano avuto quale scenario, piuttosto che il Mediterraneo, una ben più settentrionale collocazione in terre e mari che vanno dal Nord Atlantico al bacino baltico, c'è 2 la scoperta che i versi:

Αλλ'ο µεν Αιθιοπας µετεκιαθε τηλοθ '∋εοντας Αιθιοπας , τοι διχθα δεδαιαται, εσχατοι ανδρων, οι µεν δυσοµενου Υπεριονος , οι δ 'ανιοντος 3 Ma se n'andò Poseidone fra gli Etiopi lontani, gli Etiopi che in due si dividono, gli estremi degli uomini, quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce4 trovano un singolare riscontro nella presenza nel Nord dell'attuale Norvegia di un grande fiordo - il Tanafjorden - estuario a sua volta di un omonimo fiume, che si getta nel Mar Glaciale dopo aver avuto un corso Sud/Nord. Questo toponimo rimanda inevitabilmente al grande lago tra le Ambe senza perdere, in tal modo, la congruenza della tipologia geografica, sia perché gli scandinavi debbono aver sempre vissuto i rapporti rivieraschi, tra quei profondi bracci di mare, più in una Stimmung lacustre anziché marittima, sia perché - in un remoto, comune ambito linguistico ellenico - l'attribuzione del nome potrebbe esser venuta, in tutta naturalezza, da ταναος, disteso, lungo, ampio; cfr. il nome greco del Don (e questo poi da quello): ΤαναιΗ. Un senso dunque, che ben si adatta a tutti e tre i casi: i due fiumi ed il fiordo.


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Lo studio attento delle mappe - e in questa circostanza mi è stata utile una riproduzione al 400.000 dell'estremo Nord della Norvegia - fornisce però ulteriori sorprese: Omero ci dice che <<gli Etiopi … in due si dividono … quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce>>. Ebbene, parallelo al Tana c'è il Laksefjorden: entrambi, con il loro andamento, determinano la penisola di Nordkinhalvøya. Questa, in alto, viene profondamente tagliata da due fiordi più piccoli, aventi l'ingresso nei due solchi principali e così conseguendo una contrapposizione secondo un asse Ovest/Est: l'incisione è tanto netta e profonda da far sì che, a collegare le due parti della penisola, non rimanga altro che un sottile istmo. 5 Il nome del solco occidentale (<<quelli del sole che tramonta>>) è Eidsfjorden, l'altro (<<quelli del sole che nasce>>) è chiamato Hopsfjorden: Eid-Hops dunque. Se si pensa che l'etnonimo viene da αιηι≅Ρ, si rimane stupefatti ed è molto difficile attribuire il tutto alla casualità di qualche assonanza. Mentre la sequenza di lettura nella toponomastica e la concordanza con il testo dell'Odissea perfettamente si corrispondono, i due termini del composto appaiono invertiti nel nome del piccolo centro, che sorge proprio sull'istmo: Hopseidet. A mio parere questo è avvenuto perché le popolazioni germaniche, sopravvenute nell'area scandinava dopo la migrazione achea, avevano perso cognizione del reale significato della parola, conservando soltanto una vaga coscienza della necessità dell'assemblaggio. Tanto più che il nuovo composto non suonava del tutto privo di senso nel nuovo contesto linguistico; tolto il suffisso locativo -et, si ottiene un curioso riferimento all'avifauna nordica: l'edredone (-eid) che saltella (Hops-). Quest'inversione dei componenti - nella fattispecie rispetto ad un originario αιηι≅Ρ- è fenomeno assai comune dell'interpretatio vulgaris, specialmente quando, nella lingua succeduta alla precedente, si venga in tal modo ad ottenere un nuovo, comprensibile e qualche volta, accettabile significato: in un'area toscana, già sede di arimannie (ari-mann) longobarde è presente, con significativa frequenza, il cognome Mannari6 (mann-ari) ed ancora, sempre nella stessa zona ma attribuito in modo assai incongruo alla cima di un colle: Valberga. Visto dunque che la valle non c'è, sarebbe sembrato più ragionevole Bergwald, ma tutto si spiega con Wald (bosco), ancora testimoniato, sulla cima, da una modesta copertura di querce e pini. Verificata questa corrispondenza, che per la sua precisione ci permette di mettere in relazione gli abitanti di due continenti, sorge ora qualche problema sulla reale natura di quel popolo. Gli Αιθιοπας traggono con immediatezza il loro nome da αιθιοπψ, dove αιθ(ω) è "bruciare" e οψ "faccia", ovvero "faccia bruciata" e questo


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parrebbe far propendere per un'appartenenza alla razza nera ma l'etnonimo <<…ait jamais été appliquée aux pays habités par des peuples appartenant proprement à la race noire>>. 7 In effetti, benché strano ciò possa sembrare, gli Etiopi si definiscono "rosei" 8 e tali si rappresentano nell'iconografia tradizionale. Per complicare le cose, <<…les anciens donnèrent en fait le même nom d'Éthiopie à des pays très divers>> 9 in particolare all'India ma - oltre al luogo normalmente noto con tale nome <<…l'Atlantide elle-même, dit-on, fut aussi appelée Éthiopie>>. 10 A questa luce, ci appare assai enigmatico un riferimento geografico di Virgilio; è nei versi nei quali si manifesta la disperazione di Didone per la fuga di Enea:11 Oceani finem iuxta solemque cadentem Ultimus Aethiopum locus est, ubi maximus Atlans Axem umero torquet, stellis ardentibus aptum … Presso le rive d'Oceano e il sole cadente c'è l'ultimo lembo d'Etiopia, dove il massimo Atlante regge a spalla a spalla la volta d'ardenti stelle preziosa … Ma torniamo a ciò che ci suggerisce l'etimo: la √aidh12ha il senso d'un luogo dove si fa fuoco. Infatti, ne derivano ædes che, in una specifica accezione, è anche un tempio Ædes Vestæ. Poi naturalmente æstus ma anche, in senso più ampio, Æstas e - con un ancor più indiretto riferimento al ribollire delle acque - æstuarium; il che può, di nuovo, far pensare al Tanafjorden, estuario dell'omonimo fiume. Il derivato però più significativo della radice è, a mio parere, l'etere, αιθηρ, che nelle dottrine tradizionali non è soltanto la fons prima dei quattro elementi (la quinta essentia alchemica) ma, superando l'ambito cosmologico, proprio per questo suo ruolo, può - per analogia - essere preso tout court a simbolo del Principio stesso. Nell'Induismo, infatti, il centro vitale dell'essere umano è considerato risiedere nel più piccolo ventricolo del cuore <<… in questo soggiorno di Brahma c'è un piccolo loto, una dimora nella quale è una cavità occupata dall'Etere; si deve cercare ciò che è in questo luogo e Lo si conoscerà>>.13 Chi, dunque, avrà realizzato questa "conoscenza del cuore"14 sarà nella luce del Sol Spiritualis e "bruciato" da quel fuoco superiore che è l'Etere del Cielo Empireo. Non a caso del resto << Αιθηρ, per il senso originario, richiama i "cieli templa" di Ennio e di Lucrezio>>.15


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Ecco dunque perché c'è quest'ambivalenza geografica del nome etnico: esso può essere inteso sia come nomen, sia come vocabolum. In quest'ultima accezione, ne deriva il riferimento ad un'intera classe di persone; la cui funzione, nell'ambito "sociale" - quando cioè esse, si trovano riunite in una collettività - viste le loro qualificazioni interiori, altra non può essere se non quella di dare vita ad un sodalicium spiritualis. A quel punto, il nostro vocabolum, si trasformerà nel nomen sodalicii diventando il titolo distintivo di un preciso istituto. A riprova, mi sembra rilevante ricordare come, nel Medio Evo, fosse detto che il regno del Prete Gianni, si trovasse, appunto, in Etiopia. Ovvero; tale era la virtus attinente il termine da poter adombrare il Centro per eccellenza di questo nostro mondo; perché quella era, all'epoca, la designazione di ciò che gli indù chiamano Agartha e Agarthi i mongoli. Pure significativo è constatare che in ebraico il nome biblico del paese sia Kush, da una √KSh: che implica <<…l'idée d'un mouvement de vibration, qui agite l'air et la dilate>> 16 da essa: KUSh, , <<ce qui est de la nature du feu, et communique le même mouvement. Au figuré, ce qui est spirituel, igné>> 17. Se tutto questo è esatto dovremmo avere un qualche riscontro della particolare natura di questa remota comunità nordica dalla lettura dei poemi omerici. A mio parere, in tale direzione, ci sono oltre alla visita di Poseidone, citata all'inizio di questo studio18 e l'altra:19

Τον δε> Αιθιοπων ανιων Ενοσιχθων Ma dagli Etiopi tornando il potente Enosíctono … Due ulteriori passi assai significativi; nel primo è Teti (ΘετιΗ) che parla:20

<<... Ζευσ γαρ εΗ Ωκεανον µετ'αµυµοναΗ ΑιθιοπηΗ χθι.οΗ εβη κατα δαιτα, θεοι δ'αµα παντεΗ εποντο.>> Però che Zeus verso l'Oceano, verso gli Etiopi senza macchia ieri partì, per un pranzo; e tutti gli dèi lo seguivano. Nell'altro la parola è a Iri (Iride,ΙριΗ):21 <<... ουχ εδοΗ ειµι γαρ αυτιΗ επ Οκεανοιο ρεεθρα, ΑιθιοπΤν εΗ γαιαν, οθι ρε.ουσ'εκατοµβαΗ αθανατοιΗ, ινα δη και εγω µεταδαισοµαι ιρων.>>


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Non posso sedere: vado sulle correnti d'Oceano, degli Etiopi alla terra, dove fanno ecatombi ai numi, ch'io pure abbia parte alle offerte. Da tutto ciò, sappiamo che gli Etiopi sono immacolati, eccellenti, 22 che la loro compagnia sia addirittura ambita dall'intero Olimpo così come sempre per gli eterni - l'aver parte alle loro offerte sacrificali abbia la precedenza su qualsiasi altro impegno: non è sicuramente da popoli normali godere di un tale status e mi sembra pertanto di aver trovato, in questi versi dell'Iliade, la cercata, interna conferma dell'assunto acquisito dai riscontri storici e linguistici. Chiarito che siamo in presenza di un centro spirituale, più arduo è comprenderne il riferimento tradizionale. Nel maggior spazio che ho dedicato all'argomento in un altro lavoro 23 ho messo in evidenza i motivi per i quali l'attuale razza europea sia il frutto della fusione di due correnti principali: una - che nettamente prevalse - proveniva dall'estremo settentrione, ed era rappresentata dalla razza bianca o nordica che dir si voglia, l'altra, si trovava stanziata grosso modo, su tutto l'arco occidentale del continente eurasiatico - area mediterranea e Vicino Oriente compresi quale residuo della tramontata civiltà atlantidea ed era costituita - nella sua principale componente - dalla razza rossa. L'aspetto di questa non fu certo meno "bianco" della controparte tant'è che oggi, dopo millenni, 24 il tipo "rosso" è percepito quasi semplice variante e non certo quale razza a sé stante anche se, a suo riguardo, sussistono tutta una serie di significativi, curiosi pregiudizi. A mio parere, la suddetta distribuzione dell'espansione coloniale del continente scomparso suggerita, oltre un secolo fa da Ignatius Donnely, 25 resta ancor oggi assai valida. Posso solo precisare, per evidenti ragioni connesse agli esiti del presente studio, che - a mio avviso - tale insediamento dovesse comprendere anche la parte più settentrionale della Scandinavia, esclusa invece dallo studioso anglosassone: gli Iperborei, eredi della tradizione primordiale, provenivano quindi da terre, in parte sommerse dopo il cataclisma,26poste ancora più a Nord e ad Est dell'Eurasia: <<…le siège de la tradition primordial …a pu devenir … occidental [la fase atlantidea] pour certaines périodes et oriental pour d'autres, et, en tout cas, sûrement oriental en dernier lieu et déjà bien avant le commencement des temps dits "historiques">>. 27 A questo punto anche la specificazione che questi Etiopi omerici <<in due si dividono … quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce>>


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assume un senso che, senza negarla, travalica la semplice accezione geografica e ci suggerisce come potesse essere quello, uno dei centri in cui si operò la fondamentale giunzione - non solo razziale 28- tra le due correnti: <<jonction dont devait résulter la constitution des différentes formes traditionnelles propres à la dernière partie du Manvantara>>. Da essa, oltre alle primarie conseguenze, cui allude il Guénon, dovevano scaturire, per le genti iperboree, alcune importantissime acquisizioni, presenti poi in proporzioni anche molto diverse da popolo a popolo ma che determinarono tutto il successivo svolgersi del ciclo sino ai giorni nostri: l'arte della navigazione, il commercio, il matrimonio esogamico ed alcuni corollari caratteriali riassumibili nell'astuzia, che erano estranei all'originario εη≅Η della stirpe.29 Questa fase di "sistemazione" tradizionale, iniziata, come già accennato intorno al -8000, è proseguita molto a lungo. Due episodi d'estrema rilevanza - la nascita della tradizione ebraica e di quella cinese - hanno quasi lo stesso starting point: il -3468 la prima, ed il -3760 la seconda. In tutti questi casi, la "componente" iperborea dà luogo ad un apporto determinante se non costituisce il vero e proprio "lievito" per "vivificare" situazioni letargiche o di conclamata degenerazione. In questa prospettiva, tornando al nostro caso, intorno all'inizio del II millennio a.C., si muovono dalle loro sedi settentrionali quelle genti, che nel Mediterraneo prenderanno il nome di "popoli del mare" mettendo a dura prova le capacità belliche degli autoctoni. Essi costituiranno la cultura micenea progenitrice di quella greca e - nel contempo - diventeranno in molti casi il "sale" delle più diverse popolazioni dell'area. 30 A riprova, <<nella zona settentrionale in cui la tradizione ebraica colloca definitivamente la tribù [israelitica] di Dan è stata trovata ceramica micenea>>.31 Tribù questa, che ha origine nei Danai, come quelle di Issacar e Aser provengono dai Teucri e Zabulon dai Sardi. Tutti e tre questi popoli, citati appunto nella lista onomastica dei popoli del mare, fatta stilare dal Faraone Amenemope (-1100), si insediano nel Nord della Palestina.32 Si stabiliscono a Sud i congeneri Filistei, i quali - non assimilandosi invece al popolo ebraico - manterranno con esso un lungo ed aspro rapporto conflittuale. Ma cosa avvenne in quella terra che oggi conosciamo con il nome di Etiopia ? <<Agli albori della storia … l'altopiano era abitato da popolazioni cuscitiche.33 Il Nilo Azzurro ed il suo spartiacque con il Hawash segnavano, all'incirca, la linea di separazione tra le genti (cuscitiche) degli Agau che tenevano la parte settentrionale … e le genti cuscitiche dei Sidama che occupavano la zona meridionale. Nel settore


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occidentale, sui declivi dell'acrocoro … verso il Sudan, nuclei di negri… si mantenevano indipendenti o assoggettati ad Agau e Sidama.>>. 34<<… [Gli] Agau che furono la popolazione dell'Abissinia propriamente detta prima della semitizzazione del paese>>. 35 Gli Agau o Agiw (ma anche Agaw) all'uso inglese rappresentano dunque, per quanto - in una prospettiva puramente storiografica - ne possiamo oggi sapere, uno dei popoli più antichi del paese. Questo dovrebbe esserne anzi il vero e proprio nucleo originario. Inoltre, poiché abbiamo visto che i primi coloni semiti, provenienti dall'Arabia felix, il mitico regno di Saba, non giungono in zona prima del VI sec. a.C. è dunque certo che, la presenza di quest'ultimi corrisponda ad una fase successiva del popolamento. Agli Agiw o Agaw, la cui lingua fa appunto parte del gruppo cuscitico,36appartengono le popolazioni dei Qemant e dei Falasha. 37 Di questi ultimi, noti anche come "Black Jews", è piuttosto conosciuta l'appartenenza ad un ebraismo pre-talmudico, dai tratti "settentrionali" e pertanto con caratteristiche tutte decisamente arcaiche; 38 del resto la tradizione che li vuole discendenti di Dan ne è la conferma. Le puntuali osservazioni di un ricercatore indipendente, quale Graham Hancock 39ancorché espresse in una forma assai prossima allo scoop e quindi non la migliore per essere ascoltato in ambiente accademico - sono a mio parere nettamente condivisibili e ci permettono pertanto di fissare, a parte ante la costruzione del primo Tempio ovvero il - 931, l'arrivo dei loro antenati nei dintorni del lago Tana. Quanto ai Qemant, le peculiarità pre-ebraiche, 40che li contraddistinguono, ci riportano, se possibile, ancor più indietro nel tempo: a quando la terra dei Cananei, quella "dove scorrono latte e miele"41era contesa tra gli Ebrei, che entravano da Sud ed i "popoli del mare", che sbarcavano insediandosi lungo le coste e nel Nord (circa -1200). La concomitanza di tutti questi fattori, ci permette di ipotizzare uno scenario nel quale, le tesi del Vinci e quelle di Hancock diano luogo, integrandosi, ad un verosimile svolgimento di quegli eventi remoti. Nel momento in cui gli Achei, si mossero dalle sedi scandinave anche il "centro", dal quale traeva senso il nome degli Etiopi, si spostò oppure dette luogo ad una "proiezione", la quale seguì o guidò i partenti o almeno quella loro compagine, che scelse di migrare sulle coste orientali del Mediterraneo. Il trasferimento - come fu per i Variaghi millenni più tardi avvenne attraverso il sistema idrografico, ricco di fiumi, laghi e paludi, che tuttora mette in comunicazione il bacino del Baltico a quello del Mar Nero. Dopo una prima sosta nell'area delle sorgenti del Giordano, 42 non sufficiente però ad una completa ebraizzazione, 43"gli estremi tra gli


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uomini", decisero di rimanere tali anche nel nuovo contesto geografico 44 e, approfittando pure qui di un fiume, seguirono il corso del Nilo fino al grande lago che lo alimenta ad oltre 1800 m. di altitudine. In breve, su quel remoto acrocoro, si costituirono quale gruppo dominante, acquisirono la lingua cuscita degli indigeni ma - come è avvenuto per molti altri popoli 45conservarono (vedremo tra poco come) il nome: Agaw o Agiw. Quanto all'appellativo di Etiopi - colporté jusque là - penso che, in quella prima fase, fosse limitato - come già spiegato - ad un gruppo specifico, sì da ritenerlo, di fatto, un titolo: l'indicazione d'una funzione insomma. Secondo le leggi della "geografia sacra", un luogo santo non è tale ad arbitrio ma perché corrisponde a determinate condizioni: orografia, posizione relativa all'ambito tradizionale di competenza, correlazioni di geografia astronomica… Sgombrando il campo dalla patina sentimentale cui siamo abituati nel considerare quest'ordine di argomenti, si può quindi affermare che esso dovesse essere scelto in un'ottica strumentale e del tutto oggettiva; secondo criteri meramente tecnici insomma ma applicazione questi di una scienza della quale, oggi, emergono residue conoscenze e sorprendenti adattamenti all'urbanistica moderna, soltanto nei paesi di cultura estremo orientale. A riprova, è facilmente verificabile, sul piano archeologico, quanto frequente sia la constatazione della pluralità di forme tradizionali, testimoniate da una coerente e plurimillenaria stratificazione, presenti su uno stesso sito quand'esso appartenga appunto a quella specifica tipologia. Per tali ragioni, è da supporre che la scelta non fosse avvenuta a caso e, in tal senso, anche il nome di Cusciti è rivelatore essendo, come ho già indicato,46pressoché sinonimo di Etiopi con tutto quello che ciò comporta. Le motivazioni all'origine della costituzione di questo "polo" furono probabilmente sempre quelle inerenti le tematiche della giunzione tra "correnti" spirituali: nello specifico, doveva trattarsi d'un compito correttivo m'anche assuntivo, destinato a quanto rimaneva della tradizione "meridionale". Tradizione che, in epoche più remote, ebbe comunque a dare importanti contributi alla costituzione della civiltà egizia mentre, quasi in contemporanea con gli eventi in argomento, li stava trasferendo anche alla civiltà indù, essendo quel popolo da poco sceso nel subcontinente dove, in quest'ultima fase del ciclo, avrebbe compiuto il suo destino storico. Seguendo la ricostruzione dello Hancock, 47 lo stesso percorso fu seguito da un gruppo sacerdotale, che, per sottrarre l'Arca alla contaminazione in animo dell'eretico Re Manasse (-697/-642), riuscì a toglierla dal Tempio e si mosse verso l'Egitto dove, più tardi, raggiunto da gruppi di transfughi,


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cacciati dalla distruzione del Regno di Giuda e del Tempio gerosolimetano (-580), edificò nell'Alto Egitto e, precisamente, nell'isola nilotica di Elefantina, il Tempio detto di Yaho48(prob. pronuncia: Jèho). Quando poi nel -411, l'ostilità dei sacerdoti egiziani ebbe la meglio sulle reticenze delle occupanti truppe persiane, reticenti ad intervenire, anche quel Tempio fu distrutto e l'Arca, scampata al disastro, fu portata ancora più a Sud, fino a raggiungere l'isola di Tana Kirkos nel lago omonimo, circondato allora dalle fiorenti comunità ebraiche dei Beta Israel non ancora disprezzati come stranieri, qual è, appunto, il significato dell'attuale nome di falasha. Soltanto all'avvento del Cristianesimo i nuovi invasori del paese ormai convertiti - i semiti sud-arabici, portatori della lingua ge'ez - l'avrebbero tolta da lì per trasportarla nella cattedrale della loro capitale Axum. Indipendentemente dall'improbabile, attuale permanenza dell'Arca in questa sede, come prospettato dall'avventuroso autore, è comunque significativo che le isole del lago conservassero, pur con questa perdita di status, i connotati sacrali (cfr. Kirkos) e rimanessero luogo di pellegrinaggio anche per la nuova religione del paese. 49 A mio parere, di tutto questo, sono ancor oggi riscontrabili alcune tracce che, nel quadro delineato, assumono notevole rilevanza. Ho detto più sopra che l'etnonimo di riferimento è Agiw/Agaw; ebbene, a mio parere, ci sono i presupposti linguistici perché esso scaturisca dalla deformazione di Achei (Αχαιοι) e del resto, in conformità con il quadro che si è andato delineando, esso <<désigne les Grecs de l'épopée homérique et de la civilisation mycénienne, dans divers documents attestés hors du monde grec>>.50 Il termine di partenza è Αχαιοι ma anche Αργαιοι, che, per l'opportunità offerta dal latino di formulare lezioni attestanti una fase antica della dictio greca, ritroviamo in Achivi e Argivi.51 A questo punto, un esito come Agiw o Agaw non mi sembra implichi forzature o difficoltà. S'impone qui una breve digressione che ci permetterà di ricollegarci con le posizioni scandinave di partenza: l'etimo greco riposa su una √arg,, il cui senso di fondo è bianco splendente, brillante, lampeggiante (i.e. fulminis lux). Questo ha comportato - in ambito indoeuropeo - una serie di derivazioni, la più gran parte delle quali è molto significativa per il punto di vista qui esposto: α∆(ο∉, α∆(υριον, argentum, tok.A ârki, tok.B arkui, itt. harkiš, skr. arjun, tutti col significato di fondo indicato dalla radice. Da essa vengono anche αρκτοΗ52ovvero l' orso, da intendersi quindi tout court - nell'accezione originaria, propria alla specie polare - come il bianco, assunto in senso onomastico; a riprova abbiamo sia che lo stesso termine possa indicare l'omonima costellazione boreale, sia αρτικοΗ, quest'ultimo non necessita d'ulteriori commenti. 53 Per completare il quadro,


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si può aggiungere che, quale epiteto, <<le mot est interprété par les Anciens "aux yeux brillants">> e qui viene alla mente come i Romani, nei loro contatti con i popoli d'oltre Reno, che avevano ben conservato le caratteristiche del tipo originario, restassero impressionati dalla qualità dello sguardo: l'acies germanica. Essa, nella sua chiarezza e, soprattutto, per una certa, caratteristica fissità, richiamava, infatti, l'acies divina. In definitiva, ritengo che, per le molteplici implicazioni di carattere razziale e geografico, connesse al nome di Achei, esso dia luogo a significative conferme degli assunti di questo lavoro. Ritornando al lago Tana, c'è un'ulteriore e non trascurabile traccia: l'isola Tana Kirkos non è la sola ad avere connotati sacrali; lì presso se ne trova un'altra chiamata Dag (o Daga) Stephanos, così dedicata per il monastero che ospita. Ed è proprio il nome dell'isola, per un altro di quegli indizi convergenti tanto frequenti in questa ricerca, a ricondurci ai "popoli del mare". Ma andiamo con ordine: la tradizione propria a questi popoli, per le premesse da cui mi sono mosso, non poteva essere diversa da una delle possibili articolazioni del mondo religioso 54acheo, quale c'è giunto attraverso i poemi omerici. Oltre alle diversità formali, inevitabili tra tribù e tribù, l'elemento ebraico nei primi Agaw - riscontrabile dalla vivente testimonianza dei Qemant - doveva dipendere da una di quelle acquisizioni non infrequenti nel mondo antico e che noi ben conosciamo dalla facilità con la quale sappiamo essere penetrati in Roma gli esotici ed apparentemente non assimilabili, culti orientali. 55 Presso i Filistei, i quali, fedeli invece alle loro origini, mantennero, nell'antagonismo con gli Ebrei, anche culti alternativi a quest'ultimi, il dio principale, come ci è stato tramandato dalla Bibbia,56era Dagon (Dag-on). Poiché non si conoscono dèi di questo nome nel mondo greco, sembrerebbe d'esser finiti in una via senza uscita; invece un popolo molto lontano dai nostri Etiopi ma pur sempre africano, ci fornisce utilissimi suggerimenti. Nell'Africa nord-occidentale, vive infatti una gente tenace, che ha mantenuto una tradizione assai complessa non cedendo alle lusinghe missionarie di cristiani e mussulmani: è il popolo dei Dogon da me, precedentemente,57citato quale appartenente al novero di quei popoli coloureds, da considerare però d'incerta appartenenza alla négritude. A mio giudizio, nel loro caso, i dubbi sono da limitare ad un remoto imprinting originario. Infatti, in precedenza, ho parlato di "lievito" e "sale" per esprimere la funzione che la tradizione iperborea ebbe a compiere durante il presente ciclo nei confronti delle più diverse culture con cui venne a contatto; nella fattispecie dei Dogon, l'impressione è che essa sia stata una greffe, un innesto remoto e che il tronco principale sia rimasto


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largamente dominato ed in molte riprese implementato, da componenti ad essa allogene. Nel racconto che il vecchio e saggio dogon Ogotemmêli fa all'antropologo Griaule58c'è, comunque, un preciso riferimento a questa eterogeneità originaria: <<…les hommes d'autrefois étaient dits "banu", c'est-à-dire rouges, ainsi qu'on appelle encore les peaux claires>>. 59 Il richiamo è molto esplicito ed anche il riferimento al rutilismo è tutt'altro che trascurabile.60 In tutta l'area dell'Alto Volta, compresa nella grande ansa del Niger, la diffusa presenza "chiara" è - nell'immediato - dovuta ad evidenti infiltrazioni berbere (Tuaregh) mentre, per un più remoto passato, il ruolo dei Garamanti della Phazania (tracce sino al V sec.) sarebbe tutto da verificare. Per i Dogon però l'intero svolgersi delle loro vicende è nell'incertezza ed anche in merito a tempi relativamente più prossimi, non c'è concordanza di vedute tra gli studiosi: • secondo M.Griaule avrebbero lasciato l'alto bacino del Volta Bianco intorno al 1480, dirigendosi verso le attuali sedi dei colli Badiangara per sfuggire alle incursioni dei cavalieri Mossi; • secondo G.Dieterlen si sarebbero formati come popolo Dogon aggregando varie tribù intorno al XII sec. ed avrebbero abbandonato la stessa zona per non accettare la conversione all'Islam. In ogni caso, sembra che - prima ancora di questi eventi, c'è chi dice nel V sec., sempre della nostra era - gli antenati dei Dogon siano venuti dall'Alto Egitto seguendo una via Est/Ovest percorsa, per altro, da molte popolazioni presenti ora in Africa Occidentale. A questo punto, si può supporre che, in virtù del nome così prossimo a quello del dio dei Filistei e del preciso riferimento razziale di Ogotemmêli, quello stesso primo nucleo o meglio, la gente di cui esso era il tardo epigono, avesse la sua origine nelle avventurose escursioni nilotiche dei "popoli del mare". Nella complessa cosmologia e nell'antropologia esposte a Griaule dal vecchio saggio, tutti i principali mitologhemi sembrano riposare sul concetto di gemellarità. Già per l'etimo di Achei - ma è questo, in ogni caso, fenomeno frequentissimo - abbiamo visto l'interscambiabilità dei suoni consonantici c (k) e g (j); allora, per tale motivo, << δοκανα, .... , simbolo di Castore e Polluce; i.e. due legni paralleli uniti da 2 trasversali; cfr. segno dei Gemelli [], Plut. M. 478>>61 è di fatto l'omofono del nome di questa popolazione e, semanticamente, prossimo al suo mondo culturale. Sorge adesso un problema; il dio Dagon, da quanto si può leggere nelle Scritture, non ha un gemello e la sua statua, per quanto si sa, rappresenta


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una figura unica. C'è però l'episodio di Sansone: 62in esso, vengono in evidenza due colonne e così ravvicinate tra loro da potervi esercitare, soltanto con l'estensione delle braccia, una forza notevolissima. L'immagine che viene alla mente ripete il segno astrologico  ed inoltre quest'azione, nella quale si trovano le componenti "forza" (Sansone) e "stabilità" (le colonne), ci rimanda alle colonne poste all'ingresso del Tempio di Salomone chiamate appunto forza (Bo'Z ,    ) e stabilità (YaKYN, ). Se poi <<ricordiamo [che] il ciclo narrativo di Sansone, l'eroe della tribù di Dan, che vive in ambiente filisteo e che come un filisteo si comporta; il suo stesso nome ("solare"63) ne rivela l'origine non israelitica …. [comprendiamo come sia] … significativo che, quando l'eroe è stato fatto proprio dalla tradizione ebraica, egli sia stato assegnato alla tribù di Dan>>.64 A questo punto, si precisa il già accennato, complicato intreccio che la presenza Achea ha determinato in tutta l'area, rilevabile, del resto, dalla presenza delle due emblematiche colonne anche in templi dei paesi posti a Nord e ad Oriente della Palestina. Ma c'è di più, questo legame viene espressamente dichiarato e la controparte è, per la fattispecie in esame, assai rilevante: •

<<Gionata sommo sacerdote e il consiglio degli anziani del popolo e i sacerdoti e tutto il resto del popolo giudaico, agli Spartani loro fratelli salute. Già in passato era stata spedita una lettera ad Onia sommo sacerdote da parte di Areo, che regnava tra voi, con l'attestazione che siete nostri fratelli …>>;65 eccone il testo: <<Areo, re degli Spartani, a Onia sommo sacerdote salute. Si è trovato in una scrittura riguardante gli Spartani ed i Giudei, che essi sono fratelli e che discendono dalla stirpe di Abramo …>>; 66 poi ancora, dove il soggetto è Giasone, il sommo sacerdote ellenista cacciato dalla rivolta maccabaica: <<… morì in esilio presso gli Spartani, fra i quali si era ridotto quasi a cercare riparo in nome della comunanza di stirpe>>.67

Sparta è significativa non soltanto perché erede di una Weltanschauung sicuramente prossima al prisco ε2≅Η acheo m'anche perché sede del culto dei sacri gemelli Castore e Polideuce. <<Gli Spartani rappresentano i Dioscuri con due travi di legno parallele unite da altre due travi trasversali. I loro co-re portano sempre questo simulacro in battaglia>>, 68 che è appunto la precitata δοκανα . Il Vinci, nel suo lavoro, per tutta una serie di considerazioni legate all'economia generale dell'opera, pone la Laconia


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originaria nell'isola danese di Sjælland, la più grande di quell'arcipelago. Ebbene, su questa, è reperibile un toponimo: Sparresholm (Sparr-esholm)69dove holm è isola (in questo contesto non ha rilevanza ed inoltre la località è sulla terraferma), -es è un semplice suffisso è resta però Sparr, che ha il significato - sorprendente - di trave (td. der Sparren). In sv. spår, è il binario (i.e. ferroviario); il che rende, se possibile, ancor più evidente ed anche visivamente percepibile il senso - così significativo per noi - di gémelliparité.70 La radice è par71, s- è un durativo come nell'affine it. Spartire,72che trae sì immediata origine dal lt. pars ma bene rende, nella totale omofonia (spart-ire), la lettura del nome della città in argomento, con evidenza concettualmente identico al suo emblema e conforme al culto che la caratterizzava. Questo studio è iniziato citando proprio l'enigmatica duplicità degli Etiopi omerici della quale ho mostrato il sorprendente, attuale riscontro geografico. Esso si è poi sviluppato disvelando, di questa duplicità, anche il senso etnico e storico.73 Vorrei ora sottolineare la pregnanza d'altre valenze ad essa sottese. Nel momento dello scontro tra lo stanziamento atlantideo e la corrente iperborea - scontro che, come abbiamo visto, trova corrispondenza nell'epopea indù di Parushu-Râma - pel moto precessionario, il punto vernale percorreva (-8700/-6540) l'asterismo oggi chiamato Cancer () ma che, al tempo, era rappresentato dal polipo (Polypus, Πολυπουν) e, di questa sua diversa immagine, abbiamo testimonianze arcaiche diffuse in una vasta area, che va, appunto, dalla Scandinavia alla Grecia micenea. 74 Astrologicamente,75 questo segno è domicilio della Luna, alla cui sfera compete l'elaborazione delle forme sottili che andranno poi a manifestarsi concretamente in questo nostro mondo. Inoltre, per essa e per la natura dei citati riferimenti zoomorfi, l'elemento acqua è dominante e le Acque corrispondono ad analoga funzione poiché stanno a simbolizzare il principio passivo e plastico del cosmo: in effetti, tutto il periodo, caotico per gli eventi guerreschi che lo contraddistinsero, fu determinante per l'elaborazione e la definizione cultuale ma anche razziale di quella parte del ciclo che s'estende sino ai nostri giorni. A tale momento embrionale, fa riferimento la forma ovulare del corpo del cefalopode e, allo stesso contesto, è da ricondurre il mito di Leda e dell'uovo da cui nasceranno i Dioscuri; ripreso quest'ultimo, nella loro iconografia, dagli elmi, che ne rappresentano le due metà e dai corti mantelli vestigia della membrana. La costellazione che segue (-6540/-4380) 76 è, appunto, quella dei Gemini ed essa è coerente emblema di un'epoca nella quale le due grandi correnti si fusero facendo sì che i nemici, al termine di un periodo tormentato,


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diventassero fratelli. In questa corrispondenza, si manifesta una costante e verificabile proprietà ossia la proiezione - con congrua evidenza, nell'immagine dell'asterismo vernale - del quid caratterizzante lo spirito del tempo. Spirito ed immagine poi in mille modi ripresi nei miti, nei culti e nell'arte del periodo considerato. Un esempio molto noto è la coincidenza tra il segno dei Pisces () ed il suo uso nel Cristianesimo; ad es. ΙησουΗ ΧριστοΗ Θηον ΥιοΗ Σωτηρ: ΙΧΘΥΣ, pesce, appunto. Qui giunti, mi sembra importante sottolineare come la prospettiva evemeristica di molte delle interpretazioni che ho proposto nel presente studio, non voglia, in alcun modo, escludere gli altri piani - cosmologici e metafisici - impliciti in tutti i miti. Anche quello di Leda comporta chiari riferimenti storici agli eventi testé ricordati: Zeus, s'unisce a lei sotto forma di cigno ed è questa, dell'Ottimo e Massimo, un'evidente personificazione della tradizione iperborea; infatti nell'Induismo è Hamsa, cigno, il nome della razza primordiale e polare all'origine di questa umanità. Inoltre, Leda è chiamata anche ΝεµεσιΗ oppure, con essa, che di fatto è un'astratta potenza divina tutrice dell'ordine ed equilibrio universali, è spesso scambiata. Tutto ciò che nelle cose, negli uomini e negli eventi usciva per taratologica dismisura dalla norma; dall'ineluttabile intervento di questa potenza era riportato a giusta dimensione, proporzione e rango. E ciò, per quel senso della ∆ικ0, così consonante nella mente dei Greci con l'armonica moderazione d'ogni cosa. In definitiva, il mito ci dice che, la tradizione iperborea (il cigno), facendo giustizia - nello specifico unendosi alla Nemesi - della difforme e proterva grandezza (naturaliter di Titani e Giganti77 ovvero degli Atlantidei), implicita nelle stesse cause delle epifanie nella storia della temibile partner del dio, ristabilì tra i (giusti dei) due popoli un rapporto di fratellanza; in altri termini, li rese come gemelli. Un riferimento a questo equilibrio lo ritroviamo nella versione architettonica della δοκανα: le due colonne Forza e Fermezza; 78 infatti senza la seconda c'è solo eccesso. Non a caso, nella tradizione massonica, il nome della prima corrisponde alla parola di passo degli Apprendisti mentre quello dell'altra è attribuito ai Compagni, riproducendo nella sequenza gerarchica la corretta scala valori. Approfondire però la misura in cui tutto questo, più ampiamente, si riverberasse in quella lontana filiazione che fu la società filistea e - per ciò che abbiamo constatato - in quella ebraica nonché nelle altre, solo accennate relazioni, è certo compito che supera la portata e gli scopi del presente lavoro.


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NOTE 1

F.lli Palombi Editori, Roma, 1998. È pertanto in questa prospettiva che va inteso tutto il presente studio, il quale si avvale inoltre della fondamentale opera del Tilak (The Arctic Home in the Vedas, Poona Bombay, 1903) e delle notizie in tal senso più volte fornite da René Guénon nella sua vasta produzione nonché dal conforto di molti, analoghi e più recenti lavori apparsi in Italia ed altrove. 2

Ibidem, p. 372 e ss.

3

Od. I. 22-23.

4

Ibidem, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino.

5

Così sottile che, durante l'ultima guerra, i tedeschi occupanti ne progettarono il taglio per favorire la navigazione interna; avrebbero così evitato il passaggio nel mare aperto settentrionale assai più esposto alla minaccia delle flotte nemiche. 6

In questo caso l'ambiente agricolo ha favorito l'interpretatio vulgaris in senso strumentale: i Mannari ovvero quelli dalla "† mannàra" (*manuaria[m], agg. di manus) ossia una scure con lama larga o un pennato, comunque arnesi atti al taglio della legna. 7

R.Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Paris, 1962; ch. XVI. Numerosi sono i popoli che in Africa, sicuramente scuri per il colore della pelle però, a dispetto delle evidenti mistioni avvenute, negri da nessuno vengono considerati; alcuni di essi si trovano ai limiti meridionali della zona arabo-camito-cuscita settentrionale, con ciò determinando come per i Dogon, che incontreremo in chiusura di questo studio, qualche incertezza classificatoria. 8

In ogni caso, la composizione razziale del paese è assai complessa; non a caso l'altra designazione - Abissinia - proviene dall'ar. ∴ _ν∩ , aHaBaSh →√hbsh, che ha il senso di radunare da cui l'accezione comunemente intesa di popoli misti: appellativo confermato dalla presenza di circa 84 lingue (attualmente parlate: almeno 70). L'ultimo apporto etnico, di grande rilevanza per i tempi storici, è quello semitico sud-arabico (intorno al VI sec. a.C. i primi insediamenti sull'altipiano), vettore della lingua ge'ez (sing. di Ag'âziyân, una delle tribù semitiche) e dell'alfabeto ancor oggi in uso. 9

R. Guénon, op. cit.

10

11

Ibid.

En. 4.480-482, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1989. Questo virgiliano riferimento all'oceano è molto esplicito in senso extra-mediterraneo ancorché non necessariamente settentrionale, in tale accezione non vengono invece comunemente intesi quelli presenti nelle successive (vd. p. 3) citazioni omeriche ma è sempre il Vinci,


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che (al Cap. XVII, op. cit.) brillantemente risolve l'enigma della frequente, oscura dizione ποταµοιο Ωκεανοιο attribuendola al Gulf Stream, un cui ramo si spinge anch'oggi a lambire la Scandinavia fino l'estremità artica della Norvegia: vero fiume quindi, pure visibilmente percepibile, il quale, diverso per temperatura, riflessi e colori, tra liquide pareti, scorre per migliaia di chilometri nell'Atlantico. 12

Cfr. skr. édha, fuel [Hirish, aodh, Old High German, eit, Ang. Sax. âd]; Sir Monier Monier-Williams, Sanskrit-English Dict., N.Delhi, 1995. 13

Chândogya Upanishad. Per questa funzione del cuore cfr. anche Dante: <<… dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore …>>; Vita Nuova, 2.4. 14

Anche nell'Esichiasmo lo scopo del lavoro iniziatico è indicato con questa stessa definizione. 15

G.Semerano, Le Origini della Cultura europea, Diz. della Lingua Greca, Olschki, FI, 1994; s.v. αιθηρ. 16

Fabre-d'Olivet, La Langue hébraïque restituée, L'Age d'Homme, Vevey, CH, 1985.

17

Ibid. Per l'ambivalenza dei simboli, l'aspetto igné implicito all'appellativo ha determinato la sua attribuzione anche ai rappresentanti della razza negra per il rapporto di questa con l'elemento fuoco. Da esso proviene il ns. cusciti <<… peoples of southern Nile-valley, or Upper Egypt, extending from Syene indefinitely to the South>>: Hebrew English Lexicon of the Old Testament, OUP, s.v. . È inoltre assai singolare come, ai suddetti derivati della √aidh, sia affine esât, che in etiopico (ge'ez) significa fuoco. 18

Cfr. supra, n. 4.

Od. 5.281; trad. op. cit.: Ενοσιχθων, è un attributo di Poseidone; scuotitore della terra (Rocci; op. cit.). 19

20

Il. 1.423-424; trad. op. cit.

21

Il. 23.206; trad. op. cit.

Cfr. L.Rocci, Voc. Greco-Italiano, s.v. a-:u:Τ< ma anche εσχατοι (cfr. supra Od. 1.23: <<…gli estremi…>>) può andar oltre l'accezione geografica: ibidem s.v. εσχατοΗ, traslato: il sommo, il più alto, il più grande. 22

23

24

"Il Nome e la Storia", in via di pubblicazione su questa stessa rivista.

Tracce mitiche di questo scontro/incontro, si trovano nell'epopea del 6°Avatâra di Vishnu cioè Parushu-Râma (rif. ad eventi collocabili intorno all'8000 a.C.), nelle storie


49

dei Giganti, dei Titani e nella lotte tra Asi e Vani delle varie tradizioni europee: cfr. infra n. 60 e p. 8. 25

Atlantis: the antediluvian world, New York London, 1882.

26

-11.000 circa.

27

René Guénon, Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Gallimard, Paris, 1970; p. 36: utilizzando <<le siège>> in riferimento al centro supremo, Guénon, per necessità espositiva, sceglie di non addentrarsi nella complessità del problema. In effetti, dopo la "caduta", la sede de la tradition primordial è nelle valenze sottili della Terra mentre nella nostra modalità grossolana non possono esservi che "accessi" e "proiezioni" più o meno secondarie, com'è appunto il caso del sodalicium in questione. 28

È piuttosto curioso che un popolo dell'Etiopia occidentale (Eritrea m'anche Somalia), i Danàkili (ma loro chiamano sé Afar o Adal), si suddivida in "uomini rossi" (asà ian mara, sono questi i nobili) ed "uomini bianchi" (adò ian mara e questi sono i commons): cfr. R.Biasutti, Razze e popoli della Terra, UTET, 1967, vol. III, p. 222. Quanto al nome fa pensare questo Dan-: l'assonanza con Danai è evidente e così le tracce di un culto preislamico affine a quello dei Qemant e la lingua cuscita richiamano gli Agaw dei quali parlerò più avanti. 29

Cfr. E.Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, 1969. Per una testimonianza della penetrazione di questo tratto caratteriale è caratteristico il personaggio di Ulisse. 30

Trovo, in questo senso, davvero illuminante il recente lavoro del Prof. Giovanni Garbini: I Filistei, Rusconi, 1997. Le considerazioni che seguiranno fanno in larga misura proprie le sue conclusioni ed a quell'esposizione non resta, per non troppo appesantire di citazioni il presente studio, che rimandare il lettore. Mi sembra infine importante non dimenticare che allora, anche per le origini di Roma, secondo il racconto di Virgilio, il cui status tradizionale non può essere contestato, il ruolo di quest'apporto, si riveli fondamentale. 31

Ibidem, p.67.

32

Significative ed illuminate da altra luce appaiono, dal punto di vista offerto da quest'ipotesi: • la "fronda" sull'unicità del luogo di culto, condotta con costanza dal Nord (Regno d'Israele o Samaria) contro il Sud ossia contro Gerusalemme (Regno di Giuda); • la "perdita" delle dieci tribù settentrionali non più tornate dall'Esilio (iniziato nel -722 per il Nord e nel -587 per il Sud), • l'esclusione da ogni comunanza etnica e l'odio verso i superstiti di queste rimasti in patria ossia verso i Samaritani considerati poi sempre quali stranieri. 33

Cfr. supra, p. 3 e note nn. 16, 17.


50

34

Enciclopedia Italiana, s.v. Etiopia.

35

Ibidem.

36

Precisamente al cuscitico occidentale; le altre lingue del paese, oltre al già citato gruppo semitico, appartengono a quelli berbero e omotico. Il nome ha il significato di estraneo, straniero ed è stato, con evidenza, loro attribuito dai più tardi invasori sud-arabici; in effetti essi chiamano sé stessi Beta Israel, la Casa d'Israele. 37

38

Senza voler insistere su un tema inesauribile come quello delle differenze cultuali tra Israele e Giuda, è evidente come l'attribuzione "settentrionale" di questi tratti sia importante al fine di una datazione della presenza ebraica nel paese. Cfr. supra n. 32. 39

The Sign and the Seal. A Quest for the lost Ark of Covenant, W.Heinemann Ltd., London, 1992; trad. it. Piemme,1995. Anche in questo caso, per chi desideri approfondire l'argomento, rimando alla lettura - del resto piacevole - del saggio, 40

Cfr. Frederik C.Gamst, The Qemant: a pagan hebraic peasantry of Ethiopia, New York, 1969. 41

Es. 3.8, Lv. 20.24, Nm. 13.27, Sir. 46.8, Bar. 1.20.

Da HEL; Jordan, YRDaN,    : • YRD,    , come or go down, descent, • DaN, , the tribe of Dan, id est: [il fiume che] scende da Dan; proprio la tribù quindi che origina dai Danai ed è considerata ancêtre dei Falasha. 42

43

Oppure essendosi parzialmente ebraizzati in seguito a contatto dei sopravvenuti Falasha. 44

Senza voler dare eccessiva importanza alla cosa, è curioso come la distanza tra la sede nordica e l'arcipelago danese (Dan-mark) e quella tra la sede africana e Israele sia, in linea d'aria, pressoché identica. 45

I Franchi ad esempio ma anche i Rus o Variaghi e per gli Agaw cfr. infra stessa pagina. 46

Cfr. supra p. 3 e n.17.

47

Op. cit.

48

Sulle molto complesse ragioni di quest'insolita diminutio del Tetragramma (YHWH), cfr. d'Ausser Berrau, op. cit.


51

49

Nella ricostruzione dello H. l'unico punto che mi trova decisamente scettico è la sua convinzione che l'Arca, custodita ancora dalla locale chiesa copta, possa essere quella originale. 50

Chantraine, op. cit. s.v. ΑχαιοΗ.

51

Poetico per greco in genere, cfr. F.Calonghi, Diz. Latino-Italiano, s.v. Argos.

52

Cfr. skr. [a]rkša, av. arša, lat. ursus, arm. arj.

53

Stessa derivazione ha la virgiliana Arcadia, che tanta parte ha nell'Eneide "continuazione" dell'Iliade - dove Evandro, installato sul Palatino quale capo d'una colonia d'Arcadi, stabilisce con Enea quell'alleanza dimostratasi fondamentale per la riuscita dell'avventura dei Teucri nel Lazio. E l'Arcadia come l'Argolide e la Laconia è un nomo del Peloponneso, che con Sparta troveremo ancora. 54

Aggettivare la tradizione classica come "religiosa" - ovvero accomunarla, per la colorazione storicamente assunta dall'aggettivo, alle forme ed allo spirito delle tre religioni abraminiche - è pura comodità espositiva ma forza la realtà. La sua natura, come ben vide il Dumezil, era tale da renderla più prossima alle complessità dell'Induismo che non alla univocità semitica. 55

In ogni caso, i rapporti in Palestina tra un Ebraismo arcaico, le forme proprie ai nativi e quelle degli invasori che provenivano dal mare, debbono essere visti nella prospettiva d'una avvenuta coalescenza, insita del resto in quel concetto di "giunzione", qui più volte evocato e che - non dimentichiamolo - esclude il caso ma implica una precisa volontà, un progetto da parte dell'élite (gli "Etiopi" del "everywhere" nella loro migrazione dall'Artico all'Equatore) costituente il centro tradizionale in argomento. 56

Gdc. 16.23; 1 Sam. 5.2, 5.3-7; 1 Cr. 10.10; 1 Mac. 10.83-85, 11.4.

57

Cfr. supra n.7.

58

M.Griaule, Dieu d'Eau, Fayard, 1966.

59

Ibidem, p.88.

60

Cfr. supra, p. 3 e n. 24, inoltre, si potrebbe vedere in quel termine banu un relitto linguistico di Vani (guerra Asi/Vani), che nella mitologia nordico-germanica, sono la rappresentazione della controparte "rossa", "occidentale" con la quale si giunge infine all'armistizio, sinonimo bellico della giunzione più volte citata. La Scandinavia inizia a diventare germanica intorno al -2000, quando collassa, tra tempeste di neve, per il repentino abbassarsi della temperatura, l'optimum climatico e sopravviene il popolamento delle più temprate dai freddi continentali (provenivano dal "serbatoio" di Nord-Est, come assai prima gli iperborei antenati degli Achei, cfr. supra p. 3), genti dalle "asce di combattimento", le quali si fondono con il consistente nucleo di coloro, ch'erano rimasti dopo la grande migrazione ellenica. Ciò determina una continuità


52

tradizionale che giustifica la presenza dell'eventuale, suddetto relitto altrimenti anacronistico. 61

Rocci, op. cit.

62

Gdc. 16.22-30.

63

Cfr. l'assonanza germ. San-son, figlio del sole.

64

G.Garbini, op. cit. p. 67.

65

1. Mac. 12.5.

66

Ibidem, 12.21.

67

2Mac. 5.9. Sono perfettamente consapevole che, per gli storici, siano queste della ricerca d'una comune ascendenza, soltanto antichi, ingenui vezzi diplomatici per ingraziarsi il possibile alleato (cfr. E.J. Bickerman, The Jews in the Greek Age, Harvard U.P. 1988, Chap. XX) così come l'Eneide sarebbe un'opera letteraria a nient'altro intesa se non al "bello" ed all'adulazione del Principe: il criterio da cui parte questo lavoro è invece quello di prendere au sérieaux ciò che traditum est ed attraverso un riscontro dell'interna coerenza dei dati e nella loro rispondenza a questa prospettiva - appunto tradizionale - deciderne o meno l'accettabilità. 68

R.Graves, Greek Myths, trad it., Longanesi, 1977; Cap.74, § p.

69

Non è in ogni caso questo l'unico toponimo su base Spar reperibile in Scandinavia come del resto il ruolo fondamentale di una coppia gemellare, si ritrova anche a Tebe ed a Roma stessa a dimostrazione del valore, in effetti, universale di tutti i simboli. 70

Neologismo coniato dal Graule per rendere le specificità dei miti dogon.

La√par, esprime in i.e. il concetto base di coppia ma da questa base per ampliamento o specializzazione deriva una serie veramente imponente di vocaboli: lt. par, paris; ing. pair, td. das Paar, coppia; td. der Spalt, spacco, fenditura (un qualcosa che si apre e diventa due); skr. para, oltre, remoto, opposto (un qui ed un là alternativo); lt. pars, parte (una dualità data da una parte e dal suo confronto con un tutto). 71

72

Citato dal Kluge: Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, de Gruyter, Berlin, 1995; s.v. Sparta 73

74

Supra: p. 3 e n. 24.

Lo schema strutturale dell'ottopode, si presta a mostrarsi in raggianti immagini solari o in disposizioni svastikoidi ma n'esiste - com'è per tutti i simboli - anche una controparte tenebrosa data dalla Medusa con tutta la sua inquietante ambiguità: <<'Tis the tempestuous loveliness of terror…>>.


53

75

I riferimenti di quest'ordine qui utilizzati sono tra quelli che davano giustamente un ruolo cosmologico a questa scienza oggi dimenticata ed ormai residuante nelle sue più banali, fantasiose e dubbie applicazioni divinatorie. 76

Al termine di quest'epoca di remissione, ci sarà l'inizio del Kaly Yuga, la "confusione delle lingue" e l'ingresso nella parte ultima del Manvantara, cfr. supra p. 3. 77

Nella Bibbia sono i Nephilim (NeFLYM,   

78

Cfr. supra p. 9.

) i caduti, i.e. gli sconfitti.

----Bruno d'Ausser Berrau, e-mail: ausserberrau@hotmail.com [Una presentazione dell'autore si trova nel I numero di Episteme]

Disegno su anfora rappresentante il combattimento tra Ettore ed Achille [da: http://www.etna.it/liberliber/biblioteca/h/homerus/iliade/html/indice.htm]


54

Avviso: A p. 192 è stato inserito un breve cenno storico-biografico sulla "questione omerica".


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RELAZIONE FRA IL CALENDARIO PERPETUO BASATO SUL CICLO DI 128 ANNI E I CALENDARI CENTROAMERICANI (Flavio Barbiero) La durata dell'anno solare, secondo le più moderne misurazioni, è di 365,2422 giorni. L'anno giuliano ha una durata media di 365,25 giorni, ottenuta alternando un anno bisestile di 366 giorni a tre di 365. Esso quindi risulta leggermente più lungo dell'anno solare, il che provoca uno sfasamento fra di essi di un giorno e 86 secondi ogni 128 anni. Sarebbe sufficiente saltare un anno bisestile ogni 128 anni per ottenere un calendario perpetuo avente uno scarto medio annuo rispetto all'anno solare dell'ordine di 1 secondo. (Ciò significa che dovrebbero trascorrere più di 80.000 anni prima che si accumulasse uno sfasamento pari ad 1 giorno. Il calendario civile attuale, invece, è basato sul ciclo Liliano, che prevede dì saltare 3 anni bisestili ogni 400 anni. Lo scarto rispetto all'anno solare risulta di 2 ore e 53 primi ogni 400 anni, 25 volte superiore che nel primo caso, tanto che sono sufficienti 3.300 anni per accumulare una differenza di 1 giorno). E' una coincidenza felice il fatto che il periodo di correzione ottimale sia proprio di 128 anni. Questo numero è uguale a 2 7, il che offre la possibilità di concepire intere famiglie di calendari perpetui, tutti con la medesima precisione. Il procedimento è il seguente: 1) Si considera la lunghezza dell'anno solare di 365 giorni esatti per tutta la durata di un periodo costituito da S = 4n anni (definito d'ora in poi "secolo"). 2) Al termine di ogni secolo si aggiungono n giorni. 3) Al completamento di un ciclo C = 128n, pari a 32 secoli, non si aggiungono gli n giorni. Ciascuna famiglia di calendari sarà poi caratterizzata dalla suddivisione in mesi e/o settimane che si vuole attribuire ai 365 giorni dell'anno solare. Si può ottenere una famiglia di calendari considerando l'anno solare diviso in 18 mesi di 20 giorni ciascuno, più 1 mese finale di 5 giorni (365 = 18 x 20 + 5), ed utilizzando una settimana di lunghezza n da 1 a 18 giorni, che si ripete all'infinito, e un anno "ausiliario" di lunghezza pari a


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20 settimane. I parametri caratteristici di questa famiglia di calendari sono sintetizzati nella seguente tabella: n week 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18

T = 20n S=4n auxiliary year century 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240 260 280 306 320 340 360

4 8 12 16 20 24 28 32 36 40 44 48 52 56 60 64 68 72

C=128n cycle 128 256 384 512 640 768 896 1024 1152 1280 1408 1436 1664 1792 1920 2048 2176 2304

L'anno ausiliario T è formato da 20 settimane di n giorni e reciprocamente da n mesi di 20 giorni. Tra l'anno solare e l'anno ausiliario esistono le seguenti relazioni: 1) 360 x 4n = T x 72 2) 72T + (5x4n) +n = (72+1)T + n = 1461 n = (360+5)4n + n . La 2) esprime il numero di giorni e settimane contenuti in ognuno dei 32 secoli di un ciclo completo (ad eccezione dell'ultimo, che ha una settimana in meno degli altri). 1461 è il numero di giorni contenuti in 4 anni giuliani (365,25x4= 1461) e rappresenta un rapporto ricorrente in questa famiglia di calendari. Il ciclo completo, pari a 128n anni, contiene (1461x32)-1 settimane di n


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giorni. L'orologio astronomico perenne L'interesse di questa famiglia di calendari non sta tanto nella sua eleganza formale, quanto piuttosto nel fatto che essa è caratterizzata da una settimana di n giorni che "gira" all'infinito ed è un sottomultiplo intero rispetto all'anno ausiliario, il secolo ed il ciclo. Ciò consente di realizzare un vero e proprio "orologio" astronomico, valido per l'intera la famiglia, in grado di conteggiare gli anni indefinitamente, mantenendo lo scarto annuo medio rispetto all'anno solare nell'ordine di 1 secondo. L'orologio si basa sulle relazioni 1) e 2); la sua realizzazione, pertanto, è pressoché obbligata. Il meccanismo base consiste in una ruota centrale, che avanza di uno scatto al giorno e compie un giro completo dopo n scatti, cioè una settimana. All'esterno c'è una ghiera circolare, divisa in 20 parti, lungo la quale si muovono due lancette, una lunga ed una corta. La lancetta lunga conta i giorni e avanza di una unità ad ogni scatto della ruota centrale. La lancetta corta conta le settimane ed avanza di una unità ogniqualvolta la ruota centrale completa un giro.

Fig. 1 Un giro completo della lancetta lunga rappresenta un mese di 20 giorni. Un giro completo della lancetta corta rappresenta 20 settimane, cioè 1 anno ausiliario completo (T=20n). Per le relazioni 1) e 2) si ha che: - la lancetta lunga compie 73 giri completi ogni 4 anni di 365 gg.;


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- la lancetta corta compie 73 giri completi ogni secolo (4n anni di 365 gg). Al termine del secolo, quindi, le due lancette si vengono a trovare in fase sullo zero, avendo la lancetta lunga effettuato n volte i giri della corta. A questo punto per rifasare il calendario con l'anno solare bisogna aggiungere n giorni, cioè una settimana. Ciò si ottiene arrestando momentaneamente la lancetta lunga e facendola avanzare soltanto al termine della settimana, assieme alla lancetta corta. Il nuovo secolo inizia perciò con le due lancette in fase sull'1, che diventa il nuovo zero di riferimento. Per evitare confusione coi numeri, quindi, al termine di ogni secolo è opportuno fare avanzare di uno scatto anche la ghiera numerata. L'operazione si ripete identica per 31 secoli. Al termine del 32.mo secolo il meccanismo deve provvedere ad azzerare il tutto, senza aggiungere la solita settimana, ed ha inizio un nuovo ciclo di 32 secoli. E così via indefinitamente. Come si vede, si tratta di un meccanismo molto semplice, ma per farlo funzionare in modo automatico t necessario disporre di "contatori", che tengano il computo dei giri delle lancette e facciano scattare i meccanismi di autoregolazione al momento opportuno. Si vede subito che sono necessari 3 contatori, che effettuino il conteggio rispettivamente di: - numero di giri della lancetta lunga (proporzionale agli anni solari) - numero di giri della lancetta corta (proporzionale agli anni ausiliari) - numero dei secoli trascorsi. Cominciamo con il contatore dei secoli. Il fatto che 32 = 25, suggerisce di utilizzare un contatore binario, costituito da quattro registri in cascata, ognuno in grado di contare fino a 4.

Quando il primo registro ha completato il conteggio di 4 unità, il secondo registra 1. Il terzo registro inizia a contare soltanto dopo che il secondo è arrivato a 4 e così via. Poiché il conto finale deve essere 32 secoli di 4n anni ciascuno, il contenuto dei registri sarà, a partire dal più alto: - 32S (128n anni) - 8S (32n anni) - 2S(8n anni) - ½S(2n anni). Ne consegue che l'unità in ingresso al primo registro è costituita da 1/8 di


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secolo e deve quindi essere fornita dal contatore di giri della lancetta corta (contatore degli anni ausiliari). Poiché un secolo è indicato da 72+1 = 8x9 +1 giri, conviene conteggiare l'ottavo di secolo come formato da 9 = 3 2 giri di lancetta. Si dovrà avere quindi un contatore "ternario", la cui uscita va in ingresso al contatore dei secoli. 4 gruppi di 9 giri rappresentano mezzo secolo, e 2 mezzi secoli 1 secolo (il 73 suo giro non viene conteggiato e può servire per predisporre gli automatismi di fine secolo). Queste informazioni sono rilevanti per l'utilizzatore del calendario, ed è opportuno quindi vengano riportate sul quadrante del contatore, il quale, pertanto, sarà propriamente rappresentato nel seguente modo:

Infine viene il contatore di giri della lancetta lunga, indispensabile perché indica il trascorrere degli anni solari. Dovendo conteggiare 72+1 giri ogni 4 anni, sarà l'esatta replica del precedente e indicherà il trascorrere del tempo di 9 mesi in 9 mesi (mezzo anno). L'orologio astronomico completo avrà un aspetto grosso modo come quello della seguente figura:

Fig. 2 Il fatto di registrare i secoli in contatori in cascata consente di rappresentare il loro contenuto graficamente mediante cerchi concentrici: il


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primo cerchio rappresenta il contenuto del registro più alto e quindi dell'intero ciclo calendariale, di 32 secoli, ed è suddiviso in 4 settori di 8 secoli ciascuno. Ogni settore contiene per intero il terzo registro ed è quindi a sua volta suddiviso in 4 settori, ciascuno contenente 2 secoli. Il cerchio più esterno, infine, rappresenta i 64 mezzi secoli che costituiscono l'uscita del primo registro. Da notare che la scala dei tempi dell'orologio cambia al cambiare di n. Dovrà esserci pertanto un meccanismo che consenta di variare la lunghezza n della settimana, ed il valore impostato dovrà comparire sul quadrante. L'aspetto finale dell'orologio astronomico, quindi, risulterà quello della seguente figura:

Fig. 3 La rappresentazione in cerchi concentrici consente di visualizzare altri fenomeni astronomici o astrologici che siano in rapporto costante con la durata dell'anno solare. Pertanto, la scelta di una particolare lunghezza n per la settimana può essere determinata dalla possibilità che tale valore consente di controllare grandezze astronomiche di particolare interesse, quali il ciclo lunare, i periodi sinodici dei pianeti e così via. Ad esempio, è noto che 8 anni solari contengono quasi esattamente 99 mesi lunari e 5 anni sinodici del pianeta Venere (583,92 giorni). Un valore n = 1 sembrerebbe il più idoneo a rappresentare queste grandezze. Per contro, un n = 13 consentirebbe di controllare in modo immediato anche gli anni di Marte, il cui periodo sinodico è di 779,94 giorni, quasi esattamente 3 anni ausiliari di 260 giorni. In ogni caso, comunque, la precisione non costituisce criterio di scelta, perché essa è la stessa per qualunque valore di n.


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Il calendario centroamericano Questa lunga descrizione della famiglia di calendari basati sul ciclo dei 128 anni (e mese di 20 giorni) e della struttura di un orologio atto a rappresentarli, non ha certo lo scopo di proporre la sostituzione del calendario gregoriano (cosa impensabile al giorno d'oggi), ma soltanto quella di poter dimostrare la logica che sta alla base del calendario in uso presso le popolazioni del Centro America fino a pochi secoli fa. Gli Aztechi, i Maya, i Toltechi, e prima di loro gli Olmechi, avevano in comune un calendario che era basato su un anno ausiliario di 260 giorni, diviso in 13 mesi di 20 giorni (o in 20 settimane di 13 giorni), che definiva un secolo di 52 anni. L'anno solare era diviso a sua volta in 18 mesi di 20 giorni, più 5 giorni fmali. Straordinaria importanza veniva attribuita a tutte le combinazioni di numeri risultanti dall'intreccio dell'anno di 360 giorni con quello ausiliario di 260. E' evidente che questo calendario appartiene alla famiglia di calendari descritti nella prima parte. Non sappiamo che cosa abbia determinato la scelta del 13 come lunghezza della settimana, ma è innegabile che le società centroamericane davano grande importanza ai periodi sinodici di Venere e Marte, che questo numero consente di controllare agevolmente. Non abbiamo prove che le civiltà centroamericane applicassero questo calendario nella sua interezza. Ad esempio, non possediamo notizia che venissero aggiunti 13 giorni alla fine di ogni secolo di 52 anni. Logica vuole, tuttavia, che lo facessero. Sappiamo per certo che i sacerdoti erano in grado di misurare gli slittamenti del calendario rispetto all'anno solare, mediante vari traguardi, che consentivano di determinare con precisione la data di solstizi ed equinozi. Appare inverosimile che non provvedessero a rifasare i due cicli, tanto più che la cifra da aggiungere era di 13 giorni, e cioè proprio la settimana base dell'intero calendario. (Una possibile ipotesi per spiegare la mancata menzione di questi giorni è che essi fossero considerati "non esistenti". In un orologio astronomico del tipo descritto, infatti, essi non vengono conteggiati). Parimenti non possediamo testimonianze scritte o verbali che le civiltà centroamericane fossero a conoscenza del ciclo di 1664 anni definito dal numero 13. Anche il "conto lungo" dei Maya, ammesso che la sua interpretazione sia corretta, porta a cifre che non sembrano avere relazione con il calendario descritto. C'è però da osservare che i vari calendari scolpiti su pietra, i cosidetti "dischi solari", trovano una chiave di lettura pressocché immediata e del


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tutto coerente nell'orologio astronomico di Fig. 3. Si osservi, ad esempio, il grande calendario scolpito dagli Aztechi a Tenochtitlan nel 1492, e noto come "Pedra del sol". Si osserva innanzitutto il fatto che al centro della fascia più esterna, in alto, compare in bella evidenza il numero 13, che stabilisce la scala dei tempi di questo calendario. Nel mezzo del disco è chiaramente riconoscibile il meccanismo dell'orologio astronomico, con la ruota centrale rappresentante la settimana (il sole che gira 13 volte) e due lancette, una lunga e una corta, puntate su una ghiera circolare che rappresenta i 20 giorni del mese. Si riconoscono anche i due contatori ternari dei giri delle lancette, con associati gli indicatori dei semianni solari e dei semisecoli. Inconfondibili, infine, i 4 registri binari che tengono il conteggio dei secoli. Il ciclo risulta di 1664 anni e con questa scala le varie grandezze rappresentate nei cerchi esterni trovano immediata interpretazione, ad eccezione del primo cerchio, suddiviso in 40 rettangoli ciascuno rappresentante 5 unità. Vengono definiti quindi 200 periodi che non corrispondono ad alcuna grandezza astronomica di un qualche interesse, se si intendono riferiti al ciclo di 1664 anni. L'ipotesi più probabile è che essi rappresentino i 200 anni sinodici di Marte compresi in 600 anni ausiliari di 260 giorni. Il cerchio successivo è suddiviso in 8 settori di 208 anni ciascuno, ognuno diviso in 10 parti di 20,8 anni. Questo intervallo di tempo rappresenta esattamente 13 anni sinodici di Venere, particolarmente significativo, vista la coincidenza con la "scala" di questo calendario Nei cerchi successivi sono rappresentati i 32 secoli ed i 64 semisecoli del ciclo. Interessante è il simbolo che compare periodicamente lungo il cerchio esterno, formato da un rettangolo contenente 5 unità sormontato da 3 "tacche". Sembrerebbe logico interpretarlo come la rappresentazione (una sorta di "zoom" sulla scala dei tempi) dei 3x33 mesi lunari e 5 anni di Venere contenuti in 8 anni solari. Tutto sembra combaciare. Certo, non abbiamo prove che questo disco rappresenti realmente, nelle intenzioni di chi l'ha scolpito, un orologio astronomico; ma è un fatto che esso può essere utilizzato come tale. Sembra alquanto improbabile che ciò sia dovuto ad una coincidenza fortuita.


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----Flavio Barbiero è nato a Pola nel 1942. Laureato in ingegneria a Pisa, ha trascorso gran parte della sua vita professionale in centri di ricerca della Marina Militare e della NATO. Da trent'anni svolge attività di esploratore, ricercatore, scrittore in campo climatologico, geofisico e archeologico. Nel '75 e '78 ha organizzato e guidato due spedizioni esplorative in Antartide, contribuendo in maniera determinante all'impegno italiano in quel continente. Dal 1984 partecipa ai programmi di ricerca archeologica del Centro Camuno di Studi Preistorici in Israele. Collabora con l'Università di Bergamo in programmi di ricerca scientifica. Ha pubblicato vari libri, fra cui Una Civiltà sotto Ghiaccio (Ed. Nord), Alla ricerca dell'arca dell'alleanza (Sugarco), La Bibbia senza segreti (Rusconi) [recensito in questo stesso numero di Episteme], e numerosi articoli e saggi di carattere scientifico su riviste italiane ed estere. e-mail: flbarb@tin.it

La "Pedra del Sol" Attualmente presso il Museo Archeologico di Città del Messico


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MYSTERIA LATOMORUM Uno studio sullo scisma massonico del 1717 e su alcuni aspetti generali di quell'istituzione (Bruno d'Ausser Berrau) Intorno all'Istituzione massonica, 1 alla sua storia ed al suo vero significato esistono non soltanto molte incomprensioni ma anche assurde costruzioni affabulatorie, difficili da scalfire presentandosi quasi sempre come il negativo coagulo di personali idiosincrasie, alimentate, del resto, da un'informazione che, quand'anche provenga da ambienti ad essa interni, non brilla per conoscenza, chiarezza ed obiettività. Questo detto, non si vuole però affermare che la materia sia facile e che le confusioni lamentate non siano prive di una qualche umana giustificazione. La difficoltà maggiore, quella concernente la natura profonda di quest'organizzazione, sta nel disagio dell'uomo d'oggi a confrontarsi, in termini che non siano meramente sentimentali, con realtà che affondano le proprie radici nel mondo pre-moderno. Non a caso, sono correnti le espressioni quali quella di <<sentimento religioso>>, che ben le riassume con il ricondurre tutta la materia ad una questione d'ordine morale e psicologico. Riuscire a disfarsi di queste abitudini mentali è almeno difficile, poiché pesa su esse tutta l'inerzia di una formazione, che impedisce anche d'accorgersi di trovarsi di fronte ad un problema. Il problema sta dunque tutto nella comprensione della vera natura degli antichi mestieri; 2 riguardo ai quali è necessario sbarazzarsi delle opinioni preconcette determinate da un "senso comune", il quale, lungi dall'essere il frutto principale dell'innocenza è il risultato di qualche secolo di una specifica formazione culturale ed essa si riassume nei contenuti dell'istruzione contemporanea. Il mestiere, che qui ci riguarda, è quello del costruttore, inteso nella sua accezione più elevata ossia quello di colui che progetta e segue nel suo edificarsi un'opera di rilevante importanza. Quest'uomo, un architetto, non era una persona colta nell'accezione attuale anche se alcune delle conoscenze professionali, che gli erano necessarie, debbano essere inserite nella storia della tecnologia mentre altre - le più importanti e caratterizzanti - sono oggi ignote. Non era nemmeno un operaio anche se certe abilità manuali gli appartenevano avendole apprese nell'iter formativo iniziato col giovanile apprendistato; spesso poi, egli aveva anche un ruolo imprenditoriale, essendo titolare di


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quella che noi chiameremmo una "ditta". La cosa però fondamentale e che lo differenziava dai moderni, omonimi epigoni è che, il suo patrimonio culturale e tutto il suo agire erano posti in una prospettiva radicalmente diversa e tale da ribaltare ciò che noi intendiamo per lavoro. Intanto, quello che faceva e delle cui implicazioni egli era, per la sua formazione tradizionale, perfettamente cosciente, corrispondeva ad una simbolica imitazione della Creazione e quindi l'opera, che, sotto la sua direzione, andava a prendere forma, era, volutamente, un'immagine del cosmo. Pertanto, ogni parte di essa stava in relazione analogica con livelli ontologici d'ordine superiore essendo, di questi, una rappresentazione sensibile; nello stesso modo, anche tutto il cosmo era letto ed interpretato. Inoltre, per la stretta aderenza tra l'intima natura personale ed il lavoro esercitato, caratteristica di tutte le arti antiche, l'atto proprio estrinsecava le potenzialità dell'uomo, proprio come <<il saper costruire [sta] al costruire … e l'oggetto cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza ed allo [stesso] oggetto non ancora finito>>. 3 In questo senso ovvero nel passaggio dalla potenza all'atto di ciò che era latente, in tale reminiscenza dunque, che rende simile il pensante al pensato e, all'interno di una specifica forma iniziatica, si compiva la realizzazione spirituale dell'artista. Tale azione personale e soprattutto interiore è, sempre, un compito fondamentale ed ineliminabile ma, nelle iniziazioni di mestiere, qual è, appunto, il caso massonico, assume un ruolo di prevalenza il lavoro collettivo e da esso discende la necessità di una struttura corrispondente. Quest'entità operativa era la Loggia: 4 la quale, per essere costituita e poter trasmettere il fiat lux iniziatico, necessita, ancor oggi, della presenza di almeno sette maestri.5 La Massoneria medievale, quella dei costruttori di cattedrali, era pertanto organizzata in entità autonome: le Logge. Ed è per tale autonomia che, anch'oggi, s'usa dire: <<la Loggia è sovrana>>. È perciò che la presenza, per alcuni antichi raggruppamenti rituali, di centri di riferimento quali Strasburgo, Colonia o York, non deve far pensare che, a quell'epoca, siano esistiti organismi societari e direttivi paragonabili alle attuali Grandi Logge. Nel modo stesso, in cui era diversa la struttura organizzativa anche il livello culturale dei maestri, era ben altro da quello che adesso noi immaginiamo figurandoci quei massoni operativi come semplici operai o, al più, quali esperti capi-mastri: 6 in effetti, le nozioni tecniche prima citate erano applicate ed adattate ma, in linea di massima, sarebbe più giusto affermare che erano subordinate ed espressamente derivavano dalle esigenze di una prospettiva simbolica nota come <<philosophia hermetica>>. Ogni particolare dei grandi edifici religiosi medievali, dalla


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disposizione generale del progetto ai dettagli architettonici e scultorei sempre interpretabili ricorrendo a quel peculiare linguaggio - testimonia quanto profondo fosse questo legame. Legame, che era il prodotto, all'epoca della cristianizzazione dell'Impero di Roma, della confluenza, avvenuta nei collegia fabrorum,7 tra il pitagorismo ivi dominante, l'ermetismo dall'Egitto ellenistico 8 e - portata dal Cristianesimo - quella corrente ebraica9 (salomonica), che, in tanti modi, ha poi profondamente determinato tutte le ritualità massoniche. 10 Prima delle radicali modifiche apportate alla società europea (che s'identificava con la Cristianità) dall'avvento del mondo moderno, le organizzazioni compagnoniche dei costruttori erano diffuse su tutto il continente dove avevano, nel senso dianzi accennato, un carattere nettamente operativo. Quest'aggettivazione non deve far pensare che, dalle Logge, fossero esclusi personaggi non strettamente legati al mestiere: essi sono invece quelli che ritroviamo sotto la qualifica di "accettati". Anzi, due indispensabili "ufficiali" di Loggia lo erano per definizione: il medico ed il cappellano. Per quest'ultimo, esistevano speciali condizioni ed in virtù di esse, la sua iniziazione avveniva in una loggia a tal fine costituita: la Lodge of Jakin. Il nome di quest'ufficiale era pertanto quello di Brother Jakin. Per seguire gli sviluppi storici, che hanno portato al nascere della Massoneria moderna (speculativa), è necessario fissare la nostra attenzione sulle isole britanniche, dove si sono appunto verificati gli eventi per tale indirizzo determinanti. La costituzione dello "stato" medievale era basata su una parcellizzazione e privatizzazione del potere nei feudi ed ogni classe, gerarchicamente ordinata, aveva le sue strutture di riferimento tanto che, tale costituzione, poteva essere, appunto, definita corporativa. In questo senso, anche il segreto 11 non era soltanto peculiare a particolari organismi, quali, nel nostro caso, la Massoneria operativa ma faceva parte di quella separatezza, che compartimentava ogni articolazione della società. È con la prevaricazione regia, nei confronti della Chiesa prima, con la distruzione del sistema feudale poi e la conseguente crisi dell'aristocrazia che, attraverso i sempre più estesi e pervasivi poteri della corona, si mettono le basi dello stato moderno. Tutto è regolamentato e centralizzato ed a quest'occhiuta presenza nessuno ha diritto di opporre quell'autonomia e riservatezza fino allora tanto naturali entrambe: è a quel punto che sorge l'odio per il "segreto", così caratteristico di quell'illusorio ed astratto ideale d'eguaglianza, cui tanto ci si reclama nel mondo moderno. Ogni cambiamento è un processo continuo, ogni modificazione ha sempre avuto dei precedenti, ogni agente dell'innovazione ha la sua


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giustificazione negli errori e nelle ottusità degli attori della controparte ma è tuttavia da rilevare come, tra il 1580 ed il 1620, sia da collocare il passaggio dall'Inghilterra medievale a quella moderna e come Lord Francis Bacon, Baron of Verulam, Viscount of St. Alban 12 sia stato uno dei motori politici e filosofici di questa trasformazione. Il suo ruolo, per la storia delle idee nel mondo anglosassone, è, in qualche modo, paragonabile a quello di Cartesio:13 in tutti e due la spinta antitradizionale è molto forte, proponendosi entrambi il problema dell'elaborazione di un metodo reso indipendente dalle forme dell'antico sapere. La differenza tra loro può essere sommariamente riassunta affermando che la ragione cartesiana è necessaria non potendo essere diversa da sé e per questo non può essere smentita e neppure richiede ulteriori conferme mentre, per Bacone, tale necessità non si pone, dovendosi, qualsiasi ragionamento, sottoporre al vaglio della prova (inductive logic with trial and error): soltanto la verifica della sua utilità sarà la dimostrazione della sua rispondenza alla realtà naturale. Non la contemplazione dunque ma la comprensione della natura nei suoi processi sarà lo scopo del metodo: la scienza guida all'azione e l'uomo può quanto sa. Questo principio si applica al mondo fisico ed a quello umano: il primo si sottomette con la tecnica mentre chi conosce l'intima essenza del secondo è destinato all'impero. La visione del mondo di Bacone, anche messa a confronto con quella di Cartesio, considerato il fondatore del pensiero moderno, appare assai più lontana di questa da qualsivoglia impronta tradizionale: mentre nel filosofo francese resta, nel concetto delle idee innate, qualche traccia di metafisica, in lui, si fa soltanto riferimento ad una trama, che, soggiacente al reale, ne è come una costante, una struttura assoluta (schematismus latens) ed immodificabile dal vortice fenomenico (he identified four non-rational neuro-ontological and epistemological interpretive idola for eliminating distortions and prejudices from perceptions). Da quali influssi può essere stata determinata una visione tanto innovativa e diremmo anche spregiudicata? Nei molti segreti che velano la vita di quest'uomo singolare, c'è anche chi ha supposto come la sua nascita sia stata il frutto della relazione tra la regina Elisabetta ed il favorito Robert Dudley Conte di Leicester, al quale, da ragazzo, fu assegnato, dal padre Duca di Northumberland, un precettore nella persona del dottissimo John Dee. 14 Imbevuto di cultura ermetica, era costui un uomo affascinante e geniale, considerato un filosofo ma soprattutto un mago. 15 Questo non gli impediva di scendere a più pratiche e politiche considerazioni: sosteneva significativa coincidenza baconiana - la necessità di un'educazione utilitaristica improntata ad un'etica puritana dell'utile ed il suo umanesimo


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era totale, non concependo limiti alle possibilità dell'uomo. 16 Per le strette relazioni esistenti tra loro, fu del tutto naturale che Dudley lo introducesse a corte, dove divenne consigliere ed astrologo della Regina. Intanto, l'educazione del giovane Bacone, sembra dipendesse più che dalle cure di Lady Ann e di Sir Nicholas Bacon ed a conferma delle suddette supposizioni, dalla segreta, attenta supervisione di Elisabetta. Fu soltanto quando Bacone aveva ventuno anni che avvenne un incontro tra i due: in un pomeriggio dell'11 Agosto 1582, egli, in compagnia di Mr. Phillipes, un criptografo alle dipendenze di Sir Francis Walsingham, il capo di quello che oggi definiremmo il servizio segreto del regno, andò a far visita a Dee nella sua casa di Mortlake, 17 dov'era custodita la più ricca biblioteca privata d'Inghilterra. Motivo della visita 18 era di far vagliare da un esperto le possibilità criptografiche insite nella tecnica cabalistica nota come gematria. Sembra sia stato lo stesso Dee, molto interessato al Bacon (Roger), alchimista del XIII sec., a suggerire al promettente omonimo giovane, la lettura delle opere di quell'antico maestro; tale episodio potrebbe spiegare alcune delle similitudini oggi riscontrabili nel loro pensiero.19 Soltanto più tardi, quando, succeduto al trono Giacomo I (Stuart), di tutt'altro avviso verso l'aspetto occulto della realtà che non la disponibile Regina (Tudor), Bacone preferì dissimulare questo lato della sua personalità, facendo propria la massima shakespeariana <<discretion is the better part of valor>>.20 La sapienza ermetica di Dee ed i nostri precedenti riferimenti massonici allo stesso ambito, impongono alcune precisazioni. Come abbiamo visto testé, sia Dee, sia Bacone presentano un pensiero le cui linee di fondo hanno poi avuto, nella storia della cultura occidentale, sviluppi dai tratti fortemente antitradizionali 21 mentre le considerazioni, sul ruolo nell'operare massonico, di questa speciale "philosophia" fanno presupporre tutto il contrario. C'è dunque contraddizione? Come è stato prima precisato, l'origine della scienza ermetica e di quella che potremmo chiamare la sua tecnica: l'alchimia, si collocano nell'Egitto ellenistico, dove, il greco Hermes era fatto corrispondere al dio Thoth ovvero al principio ispiratore dal quale traeva autorità e conoscenza quell'antico sacerdozio. Questa scienza, c'è pervenuta singolarmente isolata dal suo contesto, inserendosi prima nel Tasawwuf22 e poi, in alta epoca medievale, transitando nelle equivalenti organizzazioni cristiane. La condizione di essa sarebbe stata quindi di perfetta ortodossia solo nel caso fosse stata accolta ed integrata in un ordine tradizionale completo. Presentava però alcuni rischi connessi e alla sua natura di singolare, erratico masso distaccato dalla rocca scomparsa di un'antica sapienza e - poiché le scienze, 23 socialmente, erano


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appannaggio del secondo stato - il "pericolo" poteva essere incrementato per il ruolo, non sempre corretto, giocato dall'aristocrazia nella società ospitante. Per la prima condizione, c'era il rischio che tale scienza potesse tendere, con l'allontanarsi dal principio metafisico informatore, ad uno sviluppo autonomo e, di fatto, preso un indirizzo meramente naturalistico, fu da lì che senz'altro venne uno dei maggiori contributi all'attivazione nell'uomo europeo di quell'ansia d'azione sempre, spasmodicamente, intesa a sottomettere e servirsi degli elementi. Per la seconda condizione, essendo la metafisica, virtuale appannaggio del sacerdozio, ove i nobili a quest'ultimo si fossero ribellati, le possibilità di deviazione erano evidenti. Ebbene, è noto come in Inghilterra, sin dal 1531, il Re, con un atto di vera e propria usurpazione, si fosse proclamato capo di quella Chiesa; in aggiunta poi a quelle che potevano essere le loro caratteristiche ed inclinazioni personali, si può anche prendere atto di come Dee fosse un gentleman24 e Bacone un altissimo esponente della nobility.25 Oltre a queste peculiari circostanze dell'Inghilterra, da qualche tempo (1307), era stato eliminato, per opera del Re di Francia e del Papa a lui sottomesso, 26 uno dei κατεχονες27 di riferimento nell'ordinamento della Cristianità: la milizia templare, la quale assommava in sé il potere spirituale e quello temporale. È quindi palese come il momento storico ed il luogo fossero tra i più opportuni per sferrare, con lusinghevoli influenze e potenti suggestioni, un nuovo attacco alle strutture tradizionali della società. L'offensiva generale, alla quale il suddetto episodio appartiene, si è sviluppata in più tempi ed è tuttora in corso; le fasi, determinanti l'allontanamento dell'Occidente dalle radici della propria tradizione, sono pertanto in successione e vedono il punto di partenza d'ognuna, diversamente localizzato: non si tratta quindi di "criminalizzare" uno specifico paese o un singolo popolo, perché anch'esso è un errore, che a sua volta genera mostri e rientra nella studiata ricerca di quella generalizzata confusione sempre tanto utile a nascondere i veri attori. Si può dire invece che queste forze dell'eversione, di volta in volta, "cavalchino" più destrieri,28 sfruttando etnie ed aree geografiche, secondo le esigenze d'avanzamento del progetto. Tutti i periodi storici nei quali tali impulsi, in particolare, s'attivano debbono avere certe caratteristiche onde garantire successo all'iniziativa; resta però il fatto che non si tratta soltanto di privilegiare una certa "qualità" del tempo ma, affinché l'operazione riesca, è naturalmente richiesta la presenza di intelligenti "esecutori" ovvero di agenti motivati e consapevoli. In questo caso, l'intervento diretto, attivo dell'uomo è del tutto analogo a quello col quale s'organizza la discesa, la presenza e la permanenza delle influenze di carattere


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spirituale.29 Soltanto che, in questo caso, ben diversa è la loro natura, essendo gli influssi in questione appartenenti agli strati inferiori del mundus subtilis o psichico che dir si voglia ed anche se ciò possa sembrare bizzarro, è proprio nell'ambito della magia, lato sensu, che tutto questo si svolge: l'aggregato psichico, individuale o collettivo che sia, resta puramente virtuale rispetto al "celebrante" sino a che l'"operazione" 30 non è compiuta. Ciò fatto, esso, uscendo dall'indistinzione nella quale, in precedenza, si trovava, s'attualizza rendendosi disponibile ai più diversi scopi. Giustamente, René Guénon ha definito i movimenti che così agiscono contro-iniziazione, sia per certe similitudini formali 31 con le società iniziatiche, delle quali sono come un'immagine invertita, sia perché l'iniziazione <<incarne véritablement l' "esprit" d'une tradition, et aussi ce qui permet la réalisation effective des états "supra-humains", il est évident que c'est à elle que doit s'opposer le plus directement (dans la mesure toutefois où une telle opposition est concevable) ce dont il s'agit ici, et qui tend au contraire, par tous les moyens, à entraîner les hommes vers l'"infra-humain">>.32 Da quanto sinora esposto, appare abbastanza chiaro che, le persone, in quest'ultimo e preciso senso realmente fattive e partecipi, non siano, nel loro più profondo sentire, veramente "moderne" ma che, l'insieme delle idee (progressismo, evoluzionismo, razionalismo, meccanicismo…) diffuse negli ultimi secoli, altro non rappresenti che un mezzo a giustificazione di un fine; il quale, si colloca nel pervenire attraverso la preventiva distruzione del patrimonio dottrinario trasmesso ab immemorabili - alla costituzione di un'universale contraffazione del Sanctum Regnum e ad una caricatura della vera spiritualità. Di questa fase "costruttiva" à rebours, già da non pochi anni, se ne intravedono, in parte velati, i segni nelle attese pseudo-messianiche e negli accenni pieni di speranza per l'allettante avvento di una next, new age. Tale indirizzo di fondo, con la determinazione ed i mezzi utilizzati per giungere al fine, implica come, alle remote origini33 dell'intero, occulto processo, debba esserci stata una prospettiva insuperabilmente dualistica e come, tale vulnus metafisico, impedendo la concezione di un Principio unificatore delle due apparenti, irriducibili opposizioni presenti nella 34 Manifestazione, abbia indotto i remoti responsabili dell'immensa, attuale valanga, ad un'irreversibile scelta di campo verso quel Princeps huius mundi, che, Demiurgo e signore del Cosmo, li chiuderà così in un magico cerchio d'illusione, facendo loro dedicare alla <<prigione cosmica>> ogni sforzo di conoscenza e dominio insito nelle possibilità dell'uomo. Un ruolo non indifferente in queste manovre lo gioca sia la voga delle previsioni ottimistiche o disastrose che siano - sia la suggestione, che può scaturire da


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certi libri visionari. Tra questi, importante è la Nova Atlantis35 di Bacone nella quale, oltre ad alludere a programmi già elaborati e forse anche attuati (erga paucos), se ne vuole, in effetti, determinare la futura realizzazione (erga omnes) attraverso un potente stimolo di fascinazione letteraria.36 I semi, gettati da John Dee e da Lord Bacon, non mancarono di fruttificare e molti studiosi, gli interessi dei quali erano rivolti alla fisica ed alle scienze naturali, forti dei suggerimenti organizzativi e metodologici dei maestri, intorno al 1645, prima quindi della guerra civile, cominciarono a riunirsi al Gresham College di Londra. Questi meetings sono meglio noti sotto il titolo di "Invisibile College" ma, alcuni anni dopo, nel 1660, superato il Protettorato di Olivier Cromwell, con la restaurazione stuardiana di Carlo II, il consesso fondò, nella stessa sede, la Royal Society37 finché, nel 1662, ottenne il royal charter che ne confermava le funzioni. Si stava quindi organizzando, in maniera palese, quel dominio di un establishment culturale, il quale, sino allora, era apparso prospettato soltanto in forma utopistica. Fino a questo cruciale periodo della storia britannica, la presenza nelle Logge di ulteriori "accettati" oltre ai due istituzionalmente previsti, non n'alterava minimamente la struttura ed operatività tradizionali; il loro inserimento derivava da prossimità intellettuali, vicinanza d'interessi o dal patronage di qualche famiglia38 di rilevante rango sociale. Dopo, con la perdita di potere dei Pari e l'ascesa della Gentry e dei commons, legata anche all'imporsi dell'etica capitalistico-protestante, imperniata sul perfezionismo, l'individualismo, l'autonomia personale, la morigeratezza dei costumi e la moderazione nelle spese, l'esaltazione della concorrenza e la ricerca di un sistema sociale in grado d'offrire a tutti eguali possibilità di riuscita, crebbe, <<tra le Colonne>>, il numero dei gentlemen. Guardare oggi al comportamento di tanti, dal critico punto di vista qui espresso e nella retrospettiva dei secoli trascorsi, può non rendere giustizia del loro livello d'effettiva, cosciente partecipazione alle linee ideologiche sottese al disegno baconiano. Ciò non pertanto, tra i molti "innocenti", furono accettati in Massoneria anche alcuni che avevano in animo qualcosa d'assai alternativo rispetto alla partecipazione ad un esoterismo tradizionale: un progetto questo, riassumibile nel voler fare dell'Istituzione uno strumento da utilizzare per fini molto lontani da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi propri. L'impresa, che si andava dunque preparando, si palesò con lo scisma39 del 1717: dal corpus degli Operativi, si staccarono quattro Logge40 che costituirono la Grand Lodge of London, non più dunque operativa ma, com'era esplicitamente affermato, speculativa.41 Con quest'aggettivazione,


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s'intendeva porre l'accento sull'avvenuta dislocazione, da una centralità del punto di vista tradizionale ad una deriva su posizioni pre-illuministiche: indubbie manifestazioni dei fermenti novatori presenti negli ambienti più progressisti del regno. Significativa, nel senso di quanto sia oggi difficile discernere l'animo di quei lontani protagonisti e di quanto poco monolitiche siano state certe organizzazioni, è la vicenda di Sir Christopher Wren. 42 Architetto e professore d'astronomia al Gresham College, egli fu uno dei dodici fondatori della Royal Society e suo presidente negli anni 1680/1682, Gran Maestro degli Operativi dal 1689 e pertanto colui, sotto la cui autorità, ebbe quindi a costituirsi, nel 1691, la St. Paul Lodge (in effetti, "The Goose Grideron", cfr. n. 40). Loggia, che sarebbe poi diventata il motore dello scisma: inoltre, i componenti di essa erano, in larga parte, membri o comunque vicini alla Royal Society e tutti quindi ben conosciuti da Sir Christopher. Nonostante ciò e sebbene l'ostilità degli Operativi verso quel tipo di tendenza sia storicamente dimostrata, il nuovo indirizzo doveva essere - ancorché, forse, parzialmente occultato nella sua portata conosciuto e già avversato sin dalla nascita della St. Paul. Evidenti dovevano anche apparire le manchevolezze nel rituale 43 e già doveva aver dato segni di sé la sicumera che traspare dalla dichiarazione di fondazione, quando vi s'afferma che, finalmente, nella Grand Lodge of London <<i privilegi della Massoneria non saranno più appannaggio esclusivo dei massoni costruttori [e] gli uomini di differenti professioni verranno chiamati a gioirne>>: affermazione insulsa, agli orecchi della maggioranza, ben al corrente della varietà sociale presente negli organici delle Logge ed ampiamente cosciente dell'elevato livello intellettuale, sotteso al vero significato da dare all'espressione "massoneria operativa". 44 In realtà, il gruppo, che poi fondò la Gran Loggia di Londra, a differenza della Royal Society, doveva essere piuttosto omogeneo e comunque con appoggi tali da sfidare l'autorità di Wren: non a caso, nel 1691, quand'esso si costituì in Loggia ("The Goose Grideron"), il filo-cattolico Giacomo II Stuart45 era stato da poco cacciato (1688) dalla Glorious Revolution; Guglielmo III d'Orange era sul trono d'Inghilterra e le simpatie giacobite 46 per il fuggiasco non potevano palesarsi apertamente. Queste erano però il sentimento della maggioranza dei massoni e ne è una prova l'unanime giudizio sul dolo,47 ritenuto all'origine dell'incendio (1720) di buona parte degli archivi generali (the Old Charge) dell'Istituzione, i quali erano in mano proprio alla "The Goose Grideron", conosciuta come St.Paul perché lavorava nel churchyard dell'omonima Cattedrale48 e nelle cui sagrestie tali documenti erano appunto custoditi. In questo modo, "opportunamente",


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scomparvero i maggiori riferimenti ad un contesto politico ma soprattutto dottrinale, che sarebbe apparso imbarazzante per chi aveva intenzione di fare della Massoneria uno degli instrumenta Regni per quella translatio Imperii, la quale, ispirata a suo tempo da John Dee, intendeva riguadagnare ad Albione, per vie pragmatiche ed utilitaristiche, le terre che la leggenda arturiana voleva fossero appartenute a quel mitico Re. A questo punto, gli scismatici furono, appropriatamente, definiti "moderns" mentre gli Operativi furono etichettati come "antients"; le differenze erano palesi ma la scelta di un sistema centralizzato e organizzato di guida della Massoneria, messo in atto nel 1717 fu, di per sé, considerato adeguato alle esigenze dei tempi e, in rapida successione, anche chi era rimasto estraneo al nuovo movimento, lo adottò. In questo senso, curiosamente, si mossero per prime le altre componenti del Regno Unito: nel 1725 fu fondata la Gran Loggia d'Irlanda, nel 1736 fu la volta della Scozia e soltanto nel 1751 gli "antients" d'Inghilterra, s'allinearono creando la "Grand Lodge of Free Accepted Masons of the Old Institution" 49 con Robert Turner quale GM. Considerato come la rivolta giacobita del 1745 abbia avuto, nell'anno successivo, tragico termine con la sconfitta di Culloden, si può supporre che, esaurite le residue speranze di cacciare gli Hannover, 50 non rimanesse agli Antichi che adeguarsi sul piano organizzativo con la rivale Gran Loggia di Londra, strenua sostenitrice della dinastia regnante. La Chiesa Cattolica, che, nei piani,51 elaborati in epoca elisabettiana, era indicata come uno degli obiettivi nemici, nel 1738, 52 irrogò la scomunica all'Istituzione in coincidenza con la seconda e più importante stesura delle costituzioni dei "moderns". Evidentemente, viste ormai annullate le speranze per il Pretendente Stuard, non ritenne di dover ancora contare sul contributo che, alla causa cattolica avrebbero potuto portare gli "antients" e disinteressandosi che, la reiterazione della scomunica, 53 venisse così a coincidere con la suddetta fondazione della Gran Loggia dei massoni tradizionali. Le Costituzioni di Anderson non potevano, di certo, piacere alla Chiesa dell'epoca: con assai discutibili accenti di vaghezza e banalità, vi s'affermava come ogni membro fosse libero d'esercitare la sua religione ponendo poi un'enfasi particolare sulla necessità di un amore fraterno tra gli uomini e su quella di una vera e propria rigenerazione dell'intera umanità. Del resto, a giustificazione di tali generici idealismi, non si deve dimenticare che l'altro fondatore degli Speculativi, il pastore anglicano Desaguliers,54 era a sua volta figlio di un pastore, costretto, dall'iniqua revoca (1685) dell'editto di Nantes, a lasciare la Francia come altre centinaia di migliaia55 di concittadini riformati cacciati da Luigi XIV. Quel monarca, così facendo, riaperse una piaga giustamente sanata, nel 1598,


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dal più saggio Enrico IV, che, in quel modo, aveva messo fine ad un tormentato e sanguinoso periodo di guerre di religione. Quest'improvvido atto del cosiddetto Re Sole, riprovato con sdegno da tutti i paesi dell'Europa settentrionale, si rivelò non soltanto un grave danno d'immagine per il paese ma, come poi ebbe a dire il Talleyrand: <<c'était plus qu'un crime, c'était une faute!>>; infatti, la Francia, si ritrovò priva di un elevato numero di cittadini qualificati, operosi e fedeli alla dinastia. È importante porre l'accento su quest'episodio perché, nelle tappe dell'azione antitradizionale, un ruolo tutt'altro che indifferente spetta, oltre che alle offensive degli avversari, anche all'ottusità fondamentalista 56 di coloro che quelle posizioni avrebbero dovuto difendere. In tacita (?) polemica con le suddette Costituzioni, gli "antients", nel 1754, pubblicarono una Carta normativa chiamata "Ahiman Rezon"57 nella quale erano raccolti, senza sbavature ideologiche, antichi doveri, usi e canzoni corporative. La Massoneria - che era sicuramente un'unica (ma non unitaria) organizzazione nella Cristianità medievale ed anzi, nelle isole britanniche, era giunta tardi, importata dal continente all'epoca dei Maestri Comacini. 58 Nel periodo preso in considerazione in questo studio, per l'effetto conservativo, caratteristico degli ambienti insulari, oltre Manica, essa era rimasta piuttosto attiva e di buon livello nei suoi aspetti operativi mentr'era invece scaduta su un piano di davvero modesto artigianato nel resto d'Europa. Queste sopravvivenze muratorie erano e sono tuttora presenti in Francia (m'anche in Germania e Scandinavia) quali componenti dei mestieri raccolti nel Compagnonnage. In quella forma, non era quindi di nessuna attrattiva per le classi colte della società del XVII sec., le quali, si dimostrarono invece assai ricettive per gli aspetti che l'Istituzione stava assumendo in Inghilterra. Di fatto, la forma più adatta all'esportazione fu quella dei "moderns", in loro, inoltre, agiva con evidenza uno stimolo "mondialista" e missionario assente negli altri. 59 Fino alla metà del secolo, nonostante l'appoggio del potere, la resistenza tradizionale si dimostrò ampiamente prevalente tanto che, intorno agli anni venti, l'esperimento sembrò sul punto di fallire. Da allora, il vento mutò, tant'è che si giunse alla fatidica unione del 1813 con una situazione invertita: i Moderni si presentarono con 1085 Logge tra Inghilterra ed Oltremare e, di queste 387 sul territorio metropolitano. Gli Antichi con 521 Logge complessive e 260 in patria; soltanto nella capitale la situazione era pressoché bilanciata: ciò permise a quest'ultimi una discreta forza nelle trattative. A tutto ciò, si deve aggiungere come, nella seconda metà del XVIII sec., parallelamente alla crescita organizzativa dei progressisti fosse andato maturando, in senso qualitativo, in tutti gli ambienti massonici, sia inglesi, sia


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continentali, anche un forte revival tradizionale. Di esso sarebbe però troppo lungo occuparci adesso ma che possiamo accennare come rappresentato dal neo-templarismo, molto attivo specie nel mondo germanico. Inoltre, dall'Ordre des Elus Coens in Francia e da personaggi anche assai singolari, esemplificabili nel Conte di Saint-Germain, presenti, a vari livelli, un po' in tutta Europa. Il risultato di queste forze combinate fu che, intorno al 1790, il Principe di Galles, in seguito Giorgio IV, divenne il 38° GM. dei Moderni mentre suo fratello, il Duca di Kent, fu designato quale Past GM. Nel 1813, il medesimo divenne il 10° GM. degli Antichi succedendo al Duca di Atholl. La strana trasferta di quest'ultimo, col risultato che la guida, delle due Obbedienze rivali, fosse affidata a due fratelli di quel rango, furono entrambe il palese indice di come la divisione non fosse più tollerata e come l'unione si presentasse ormai quale affare di stato. Pertanto, nel 1813, fu tenuta la Grand Assembly of Freemasons for the Union of the Two Grand Lodges of England. Quando lo scopo fu raggiunto il 27 Dicembre,60 un terzo fratello dei due precedenti, il Duca di Sussex, fu infine eletto GM e, nell'anno successivo, fu installato quale 1° GM dell'United Grand Lodge of England (UGLE). Il compromesso, alla base dell'unione, stabiliva che, la data d'inizio della nuova forma di Massoneria fosse formalmente fissata al 1717, data di fondazione della Grand Lodge of London. Il sistema rituale dei Moderni era però ampiamente riformato in conformità a quello degli Antichi, 61 fatto salvo, nell'abbigliamento, il mantenimento del più pratico, corto apron degli scismatici. Il grado di Maestro ed il suo fondamentale completamento del Royal Arch furono ripristinati per l'apporto degli Antichi, dando così al nuovo organismo quella completezza tradizionale che, le gravi alterazioni precedenti avevano compromesso sul piano della continuità e pertanto della validità della trasmissione iniziatica. I GG.MM. delle Grandi Logge d'Inghilterra, Irlanda e Scozia, nel 1814, si riunirono in un'apposita conferenza che ratificò, ove necessario, l'adeguamento delle loro Comunioni ai rituali ed alle procedure stabilite al momento della creazione dell'UGLE; cosa che non dovette comportare grossi problemi essendo le altre GG.LL. britanniche, in pratica, da sempre, allineate sul sistema degli Antichi. Un ulteriore segno di raddrizzamento tradizionale, furono le trattative, iniziate intorno al 1851 e proseguite, con alterne vicende sino al 1878, quando, in Londra, giunsero a conclusione e fu infine fondata la Grand Lodge of Mark Master Masons of England, Wales & the Dominions & Dependencies of the British Crown. Quest'organismo non deve essere inteso quale un'Obbedienza rivale dell'UGLE, com'è il caso per le irriducibili rivalità, presenti nelle decine di Comunioni d'Italia; è piuttosto


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un organismo parallelo fruente di una sua specifica autonomia. Ritualmente, the Mark Master è un'estensione del grado di Compagno corrispondente al momento nel quale a questi Operativi era concesso il "marchio" che avrebbero utilizzato da Maestri per contrassegnare i loro lavori, in effetti, oggi, vi si può accedere soltanto se si è giunti al culmine del Craft ossia al Royal Arch. Da un punto di vista organizzativo, mentre l'UGLE guida il Craft la GL. del Marchio è il riferimento 62 di numerosi additional o side ma anche higher degrees o come chiamare si vogliano, quelli cioè che in Italia si usa definire "Riti" e tra i quali occupano un posto d'onore e tutto speciale The Knights Templar & Malta Orders 63 e The Ancient Accepted Rite or Rose Croix.64 Questi eventi, tanto sommariamente riportati, c'interessano soprattutto per alcune considerazioni. Senza remore abbiamo posto in evidenza quanto le forze antitradizionali abbiano cercato di utilizzare ed al fondo tentato di rendere inefficace quella che, di fatto, si presentava come l'unica organizzazione iniziatica accessibile a chi vivesse nel mondo occidentale. L'operazione degli scissionisti, per certi versi ovvero per la politica, è riuscita quando ha legato i destini dell'Istituzione a quelli della ragion di stato, per altri, ha fallito lo scopo poiché, infine, la via tradizionale dell'iniziazione è rimasta agibile. Speciale il caso delle colonie americane, dove, i membri fondatori, quasi tutti massoni, i cui rituali provenivano non dai Moderns ma dagli Antients, determinarono un'inopinata, grave perdita per la madrepatria e divennero poi, una volta costituiti gli Stati Uniti, in special modo a partire dal XX sec., la terra d'elezione di potenti operazioni contro-iniziatiche: non è stato il primo caso di conservatori diventati poi eretici in intima contraddizione alla loro formale ortodossia. Ciò, a riprova di come, per quelle forze, sia stata sempre del tutto strumentale la scelta di un partner: i temporanei, diretti vantaggi ricavabili dal rapporto erano (e sono) soltanto la secondaria ricaduta di quelli che sarebbero poi stati i risultati finali e, al fondo, i risultati realmente ricercati ma, a loro volta, non sempre davvero convenienti per il visibile ed ignaro esecutore di tutta la manovra. Tutti effetti, quelli ultimi, non facilmente riconducibili da un osservatore esterno, nel tentativo di ricostruzione storica, alla sequenza delle fasi dell'intero episodio ma, evidentemente, importanti quali veri obiettivi, per un occulto protagonista - meglio sarebbe dire regista - sempre tutt'altro che desideroso di farsi individuare. Anche sul continente europeo, nonostante l'eterogeneità d'origine delle Logge filiate dall'Isola, 65 la forma rituale, che infine ha prevalso anche prima del 1813, è stata quella degli Antichi, con particolarità da paese a paese ma sempre di relativa completezza nei riti. Rimangono da spiegare le caratterizzazioni


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progressiste e laiciste molto forti soprattutto nei paesi latini e generalmente in quelli che più hanno subito l'influenza napoleonica. Viene da pensare alla favola della Rivoluzione francese preparata dalla Massoneria; in gran parte diceria del secolo successivo, costruita a fini auto-gratificatori anche dalla stessa Istituzione francese di quegli anni e, in realtà, leggenda maturata in un contesto culturale ed in un costume posteriori all'89 e particolarmente sviluppati con l'Impero. Impero, che è stato, ancora una volta, dopo averlo ideologicamente parassitato per renderlo meglio funzionale ai propri scopi politici, uno dei molti utilizzatori del mezzo massonico. In definitiva, dal punto di vista di chi abbia a cuore la regolarità iniziatica e pertanto tradizionale dell'Istituzione, si può dire come lo scisma massonico del 1717 l'avrebbe in gran parte compromessa, avviandola, se avesse avuto un completo successo, verso quella definitiva estinzione toccata, in seguito, ad analoghi organismi di tipo compagnonico, quali, ad esempio, la Carboneria, ridotta a mero strumento politico delle lotte nazionali italiane.66 Le cose però non andarono esattamente così e la correzione degli errori e delle manchevolezze rituali dei Moderni, cominciò a prodursi già nel corso del XVIII sec. finché, in quello successivo, esse furono, come abbiamo visto, ampiamente anche se non totalmente emendate con la fondazione della UGLE. Il risultato è che, adesso, questa struttura è "tecnicamente" in grado di trasmettere l'influenza spirituale dell'iniziazione. Affinché poi il fiat lux sia suscettibile di passare dalla virtualità all'atto, tutto risiede nelle disposizioni e potenzialità interiori del recipiendario nonché nel modo in cui i lavori si svolgono in quella specifica Loggia e particolare Obbedienza. Il problema maggiore ed a nostro parere insanabile - è quello che ha scavato un abisso tra l'aspetto esoterico e quello exoterico della Cristianità, procurandole un'amputazione che non ha riscontri presso altre forme tradizionali se non, per l'Islam, nella sola Arabia Saudita. Paese dove il Tasawwuf è duramente perseguitato dagli ottusi esponenti dell'eresia Wahhabiya67 ivi dominante: è, in effetti, questa una forma di puritanesimo che, ossessionata dal peccato di shirk (idolatria), reputa tale qualsiasi introduzione di nomi diversi da quello di Allah (nomi di profeti, santi ed angeli) nelle preghiere e, di conseguenza, condanna il culto dei santi (importante in quell'esoterismo) nonché l'interpretazione ermeneutica (ta'wil) del Corano. Gli atti degli incontri, 68 che, a volte, avvengono tra "alti" esponenti massonici e cattolici in vista di un qualche accordo, offrono una lettura, la quale sarebbe decisamente risibile se, in realtà, non fosse drammatica per lo stato mentale ed intellettuale, da essa rivelato nei partecipanti: la Chiesa


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ha una rigida struttura gerarchica, corrispondente ad una precisa sistemazione teologica; il "potere delle chiavi". Quella, solo apparentemente analoga, della Massoneria non è invece intrinseca alla natura dell'organizzazione ma, come abbiamo visto, frutto di una sistemazione in forma di moderna associazione, derivata dall'innovazione del 1717. Pertanto la Chiesa, che trova sempre difficoltà a figurarsi una forma tradizionale organizzata in modi diversi dai propri, 69 ama confrontarsi sempre con i "vertici". Nello specifico, quelli massonici, i quali equivocano sul proprio stesso ruolo, si sentendo, in tal modo, autorizzati a prese di posizione non solo fondamentalmente illegittime ma spesso frutto d'ignorante arroganza relativamente al senso vero da dare all'Istituzione. Istituzione, che legittimamente guidano, soltanto ed esclusivamente, in un senso amministrativo e gestionale. C'è da aggiungere che, a queste "alte" posizioni massoniche, 70giungono di norma personaggi 71 tra i meno qualificati sul piano dottrinario e mossi soltanto da quell'ambizione alla carica così caratteristica dell'uomo comune inteso nell'accezione intellettuale e morale più modesta. Resta da precisare come la Massoneria, pur appartenendo di pieno diritto all'ambito del sacro, non sia in alcun modo una religione ma, esclusivamente, una via iniziatica; la quale, in condizioni normali, analogamente a quanto accade in altri contesti culturali, dovrebbe appoggiarsi su un preciso exoterismo. Nella fattispecie esso era il Cattolicesimo ma, dalla caduta dell'Ordine del Tempio in avanti, la situazione europea, col deteriorarsi in senso tradizionale, è andata rapidamente mutando. Certe ferite non sono più sanabili: dalla Riforma, la Cristianità è divisa e la Massoneria ha generalmente assunto una veste religiosamente "neutra",72 perciò ad essa possono aderire appartenenti a qualsivoglia indirizzo confessionale. Per tutto quello che abbiamo esposto, si può affermare che sola permanga la virtualità iniziatica, 73 le cui possibilità d'attuazione restano affidate a condizioni disomogenee da stato a stato, da Obbedienza a Obbedienza e da Loggia a Loggia, fermo restando che, indispensabili per ogni realizzazione spirituale, sono le personali qualità dell'iniziato. In questo studio, nel toccare alcuni particolari aspetti relativi alla nascita del mondo moderno, abbiamo dovuto spesso riferirci, per ciò che riguarda la storia inglese, al ruolo in tal senso assunto da persone ed organizzazioni di quel paese. Non sappiamo se siamo riusciti a rendere la complessità delle relative situazioni ma ci appare indispensabile sottolinearla perché conosciamo bene quanto, secondo le proprie personali inclinazioni e simpatie, sia facile dividere la realtà con tagli netti. Molto raro è, infatti, che qualcuno o qualcosa si collochi tutto da una parte e


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senza sfumature: per le persone qui rammentate direi che decisamente assegnabili ad un preciso e forse cosciente ruolo contro-iniziatico, ci sono soltanto Francis Bacon, Olivier Cromwell e forse James Anderson mentre alcuna delle organizzazioni in argomento, fatte da uomini e quindi ricche delle innumerevoli varianti che ciò comporta, può averlo rivestito interamente. La stessa fondazione degli speculativi, sicuramente "eretica" ed eversiva rispetto al passato massonico, dandosi una struttura centralizzata, ha creato sì un'innovazione burocratica ed irrilevante se non negativa rispetto ai veri motivi dell'esoterismo ma - ci sembra necessario sottolinearlo - ha reso disponibile per l'Istituzione un mezzo in grado di garantirne la sopravvivenza durante gli enormi mutamenti sociali e politici degli anni e dei secoli successivi. NOTE 1

In queste tematiche è, a nostro avviso, importantissima la questione linguistica, non soltanto per la diversità e spesso purtroppo per l'incompatibilità dei modi individuali di pensiero, che si esprimono nel medium in questione ma proprio per un netto deterioramento, caratteristico del mondo moderno, della congruenza semantica connessa al lessico: la precisazione che segue sarà superflua per molti ma anche se ciò può sembrare impossibile abbiamo riscontrato così grandi e fantasiose illazioni sull'origine della parola che reputiamo meriti insistere. In Italia dunque, detta istituzione è nota come "Massoneria" mentre il piuttosto desueto "Libera Muratoria" meglio renderebbe la stretta contiguità con l'Arte in argomento. Da un punto di vista etimologico non ci sono però dubbi in proposito: in qualsiasi dizionario europeo il lemma (massoneria, masonry, franc-maçonnerie, freimauerei, frimurare, frimureri, vapaamuurari…) rimanda al lt. maceria il cui senso tecnico per <<muro di chiusura>> fatto di terra argillosa stemperata in acqua e consolidata con paglia e pietre, trova, comprensibilmente, origine nel più ampio contesto relativo alla significanza del verbo macero. Da qui, al basso latino medievale, machionis→ machio→ macio ed infine massa (da cui tanti nostri toponimi) il passo è breve: prima è il nome del casale al centro di un a tenuta, poi, si trasferisce, intorno al X sec., alla grande fattoria fortificata e da questa va, infine, ad indicare un intero dominio feudale. Il senso edificatorio del vocabolo è pertanto indubitabile e quindi la Massoneria è, con certezza, il mestiere, the Craft. Mestiere deriva dall'ant. fr. metier, questo dal lt. ministerium → minister, il quale fa coppia con magister dove le due radici danno rispettivamente: un senso di subordinazione la prima (minis- → minus) ed il suo contrario la seconda (magis-); è quindi il minister l'esecutore delle disposizioni del magister e tale fattispecie è appunto quella in cui, chi esercitava un mestiere, si trovava nei confronti di chi lo iniziava e lo guidava sui sentieri dell'arte. In questa prospettiva diventa congrua l'equivalenza tra mestiere e mysterium (da µυστεριον a sua volta da µυστε, l'iniziato ai misteri) che 2


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"popolare" come etimologia, non è però meno significativa asseverando, nella propria storicità, il contesto esoterico nel quale esso era esercitato e vissuto. 3

Aristotele, Met. IX, 6.

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Detto termine, nell'accezione massonica, è utilizzato oggi universalmente e proviene dall'ing. lodge, importato dai normanni nella forma di un originario fr. loge ma derivante dall'ant. francone laubja, pergola. In origine, stava ad indicare quella costruzione provvisoria, che, sul cantiere, era destinata al ricovero degli attrezzi ed alla direzione dei lavori. In Italia era denominata, con molta più pregnanza rispetto alla ritualità che soprattutto ospitava, "baracca": la parola deriva dall'ebr. BeRaKaH, "benedizione" ma, in quella lingua, è così chiamata anche l'influenza spirituale trasmessa con l'iniziazione (cfr. ar. BaRaKT) ed essendo questa il fiat lux ordinatore per il caos oscuro della condizione profana è anche un éclair: BaRaQ, ebr. lampo, fulmine. 5

Le iniziazioni di mestiere erano proprie del terzo stato, per le altre classi (nobiltà e sacerdozio), in linea di principio, non valevano queste condizioni, potendo - ad es. - un cavaliere creare tale chiunque ritenesse degno anche se, di fatto, da una certa epoca in avanti, ciò non fosse più avvenuto, essendo stati costituiti gli ordini cavallereschi con le relative cerimonie d'investitura e la successiva regola e disciplina collettiva. 6

La differenza con questo tipo di muratori (masons without the word; non appartenenti cioè all'Istituzione) era marcata dal dispregiativo loro attribuito di "cowans" dal vb. to cow: to depress, subdue, keep under. 7

L'adesione a tali organizzazioni faceva i membri partecipi dei cosiddetti "piccoli misteri" e, sia questi ultimi, sia i "grandi" (Elusi), non si ponevano in contrapposizione con la religione pubblica (exoterica) ma ne costituivano un completamento, atto a rispondere a rispondere alle esigenze di perfezionamento ed approfondimento di coloro che avvertivano questa necessità. 8

Anche l'alchimia, importante elemento costitutivo dell'Ermetismo, mostra chiaramente tale origine: la parola viene dall'ar. AL-KÎMÎA, il quale, a sua volta, deriva dall'egiz. Kémi, terra nera ovvero l'antico nome del paese. Un ulteriore e determinante contributo all'acquisizione in Europa di queste conoscenze, si deve agli arabi come attestano numerosi etimi della terminologia alchemica. 9

È qui, il motivo della presenza, nella nomenclatura massonica, o d'esplicite parole ebraiche, o, se deformate, di un etimo che, pur sempre, a quell'idioma conduca. Inoltre, per tutto il Cristianesimo, l'ebraico resta l'unica lingua sacra di riferimento essendoci la Rivelazione pervenuta soltanto in traduzione greca. Da questo stato di cose, si comprende il rapporto contraddittorio avuto in due millenni col popolo vettore di tale tradizione, il quale, inoltre, è stato anche un medium indispensabile nelle fondamentali relazioni culturali e spirituali con l'Islam. 10

Questo è particolarmente evidente nel Craft perché la "colorazione" cristiana prevale invece negli High Degrees cavallereschi. In ogni caso, il legame con la stratificazione di


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precedenti culture è un fenomeno che investe non solo la Massoneria ma è veramente di carattere universale. Un esempio palese è rilevabile nella continuità locativa dei centri d'importanza sacrale: è nota la lettera con la quale Papa Gregorio raccomandava, a S. Agostino di Canterbury, impegnato nell'evangelizzazione degli Angli (inizio dell'VIII sec.), di limitarsi in questa sua missione a distruggere gli idoli mantenendo però le cadenze e certe caratteristiche delle festività e, soprattutto, di conservare i templi. Oltre ai motivi d'evidente e contingente opportunità pastorale, presenti nella fattispecie, fanno invece vieppiù pensare le riscontrabili tracce di conoscenze decisamente "tecniche" sottese a alle remote ed immutate collocazioni geografiche delle sedi di culto: nelle rappresentazioni cartografiche, secondo la nota proiezione di Mercatore (Gerhard Kremer; 1512/1594) - la quale è una cilindrica isogona - un percorso lossodromico diventa una retta. Ebbene, è curioso constatare come, così rappresentata, la localizzazione di alcuni centri significativi, diventi un "percorso", una vera e propria "rotta", disposta secondo un angolo di 60° con i meridiani: pertanto i due San Michele di Cornovaglia e Normandia, Bourges (l'Avaricum dei Galli), Perugia, San Michele sul Gargano, Delfi, Delo ed il Mt. Carmelo, si trovano tutti, sorprendentemente, sulla stessa retta. Quest'allineamento è, di per sé, già abbastanza curioso; inoltre, data l'importanza del 3 e del 7 nella tradizione muratoria, può essere parimenti significativo prendere atto di come la distanza di tali luoghi tra loro sia ritmata secondo un intervallo medio con valori oscillanti tra gli 8°57' e 8°59' ovvero tra i 537'ed i 539', dove 539 = 77 x 7 mentre la tg. 60° = 1, 7320 = √3. Ed ancora: l'angolo in questione è quello proprio al triangolo equilatero, il cui ruolo in tutto questo simbolismo (il Delta ed il Magen David ad es.) è non meno importante. Con ciò, s'intende mettere in evidenza come, certe "scoperte", verificatesi a partire dal Rinascimento, abbiano più l'apparenza che la sostanza dell'invenzione ma che siano, in effetti, il palesarsi, in nuove forme, di cose altrimenti note. Cfr. Lucien Richer, L'«AXE» DE SAINT MICHEL ET D'APOLLON in ATLANTIS, n. del 05 e 06/1977. 11

Secretum viene dal vb. secerno, secreti, secretum, secernere; separare, dividere (sacrum ha la stessa radice), è quindi un part. pass. ossia "separato" che, nell'accezione esoterica, sta a sottolineare la distinzione dal mondo profano. In ultima istanza, il vero segreto d'ogni via iniziatica è nell'ineffabile. Il quale, è bene precisare, è soltanto l'incomunicabile e non l'incomprensibile come il punto di vista exoterico troppo spesso erroneamente fraintende quando, in ordine ai misteri della fede, si rapporta a questo concetto, riducendo la medesima ad un ben misero epifenomeno dell'infrarazionale: cfr. il <<credo quia absurdum>>. 12

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1561/1626.

1596/1650; per detto filosofo, vd. il ns. JANUA INFERNI apparso nel 1° n. di questa rivista. Riguardo ad un'eventuale influenza di Bacone su Cartesio, in ordine alle regole da applicare in materia sperimentale, la fisica induttiva del primo e quella - del tutto opposta - del secondo, sembrano argomento sufficiente a rigettare l'ipotesi. Il loro abbinamento, messo in atto da un dissenziente Spinoza, ebbe il solo scopo di rimproverare loro quelli da lui ritenuti, in merito alla natura della scienza ed ai fondamenti del metodo, errori filosofici comuni ad entrambi.


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1527/1608.

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L'importanza di questa fama risiede, non tanto nella persona di Dee, sebbene nel suo generale significato d'avvertimento: lo sviluppo della magia è caratteristico della fase tarda e comunque decadente di una civiltà; ricollegandosi, in qualsiasi ambito conoscitivo tradizionale, le pratiche di questo tipo a svolgimenti inferiori e lontani dal Principio. Essendo essa, in qualche modo, una "tecnica", sono evidenti i suoi rapporti con la nascita del mondo moderno, le cui scienze e tecnologie sono nient'altro che uno speciale "sviluppo" ("progresso", nella prospettiva corrente) delle antiche matrici. Del resto, è noto, come la quantità degli scritti, dedicati a questi temi dal ben più tardo Newton (1642/1727), superi in quantità quelli di carattere "scientifico". Nel caso individuale di Dee, per obiettività, deve essere fatto presente com'egli sempre si sia sempre difeso dall'accusa di essere un mago "nero" (e non lo fu) limitandosi queste sue pratiche - nell'intento - all'evocazione degli angeli. La sua personalità aveva anche sorprendenti tratti di assoluta ingenuità e fiducia nel prossimo. Importante fu anche la propaganda che condusse a favore del sistema copernicano. Sono infine certe, sia la sua fede cristiana, sia la sua personale onestà, confermata da una morte in miseria. 16

Inteso però nella sua integralità e non nella prospettiva laicista e razionalista che si suole, oggi, attribuire all'espressione. 17

Oggi fa parte della Grande Londra; è a 10 km. a SW di Westminster sulla riva destra di un'ansa del Tamigi. Sul luogo sorgono un crematorio ed un cimitero; è curioso verificarne l'etimo: mortlake→ mortal lake. 18

In BACONIANA, Dec. 1983: Ewen MacDuff, AFTER SOME TIME BE PAST.

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David Kahn, THE CODEBREAKERS, 1996.

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È nota la discussa attribuzione dell'opera di Shakespeare a Bacone.

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Tale considerazione è soprattutto valida per Bacone; per Dee la valutazione è più complessa, essendo, appunto, indubitabile la sua sincerità nella sempre professata fede cristiana. Quindi, per lui il discorso, più che indirizzarsi alle intenzioni dell'uomo, riguarderebbe piuttosto le potenzialità di un certo ordine, presenti in alcune delle sue formulazioni: è quello che è accaduto anche a Cusano ed a molti altri intellettuali rinascimentali o tardo-medievali. 22

È l'esoterismo islamico. Per dare appena un'idea della sua centralità in quella religione sarebbe sufficiente fare presente come tutti i santi islamici - il loro culto è molto popolare - siano tali giacché esponenti dell'esoterismo (pertanto dediti ad una via di conoscenza piuttosto che meramente devozionale) mentre adesso, nel Cattolicesimo, con la "puritana" riforma delle ricorrenze calendariali e con l'evidente inflazione dell'elevazione a quello status, il titolo tenda ormai, prevalentemente, a designare una condizione esemplare sul piano della devozione e dell'impegno sociale.


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Avendo costatato come, da parte di alcuni, molto s'equivochi in senso negativo sulla natura dell'Ermetismo, sarà bene fare presente che, praticamente, tutte le scienze tradizionali della Cristianità ad esso, in tutto o in parte, si rifacciano e ciò proprio per il suo carattere nettamente cosmologico: astrologia, araldica, fisiognomica, medicina, architettura….non c'è settore che sia escluso: demonizzarlo equivarrebbe quindi ad una condanna totale delle radici della nostra stessa civiltà, il che, da sé, si qualifica. È forse utile ricordare che Ermete Trismegisto campeggia, in un magnifico mosaico, sul pavimento della cattedrale di Siena ed egli è rappresentato mentre tiene in mano una tavola, nella quale si celebrano le lodi del Verbo fatto carne. Infine, il cattolicissimo Filippo II possedeva all'Escorial un'intera biblioteca ermetica. 24

La famiglia, ai tempi di Enrico VIII, era giunta in Inghilterra dal Galles, apparteneva ad una delle stirpi più antiche di quel paese facendo risalire la propria agnazione al Principe Roderico il Grande e sembra che avesse anche una qualche parentela con i Tudor. 25

Il padre di Bacone era stato fatto Baronetto mentre il figlio, Lord Cancelliere del Regno, ebbe accesso alla peerage. Esponendo fatti concernenti la storia britannica sarà utile ricordare, per meglio orientarsi in quella società, come l'aristocrazia inglese si divida in gentry e nobility. La prima non è mai stata disciplinata e se ne fa parte per lenta assimilazione e consenso sociale; è quindi lo stile di vita che fa il Gentleman. Gli appartenenti non hanno un titolo specifico e, in genere, al nome, s'aggiunge, quale forma di cortesia, Esquire. La nobility è tale per nomina regia, ha un titolo feudale e la peerage comporta un seggio alla Camera Alta (trattamento di Lord e Lady; quello di Honourable è riservato to the children of peers below the rank of Marquis) mentre l'accesso a quest'ultima è escluso soltanto per il titolo di Baronet (the lowest titled order), il quale comporta il trattamento di Sir. Quello del Knight è invece un ennoblissement ad personam; non ne consegue quindi trasmissibilità ma è egualmente previsto il trattamento di Sir. Al di fuori dell'ambito aristocratico, Mister (Mr.) è invece rivolto a chi, appunto, non abbia altri titoli (common) ed è una variante di Master (cfr. supra, n. 2) e pertanto equivale a riconoscere, nel destinatario, l'eccellenza in un mestiere: ad es., per rimanere in tema, the master mason. 26

Prodromi della "cattività" avignonese: 1309 / 1377.

In tutto il Medioevo, quest'espressione di S.Paolo (2Ts. 2.7, <<κατεχων>>: "colui che trattiene", qui tenet, der Aufhalter) è intesa quale "forza frenante" nei confronti dell'avvento dell'Anticristo ed era, di norma, interpretata come profeticamente riferita al Sant'Impero. L'ordine del Tempio fu, quale fondamentale ricetto dell'aspetto più "interno" (iniziatico) della Tradizione, posto espressamente da San Bernardo a difesa della Respublica Christiana. 27

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Nell'utopico stato della Nova Atlantis, Bacone attribuisce la funzione di guida ad un collegio di saggi, definito Domus Salomonis e in detta, troppo specifica denominazione, si può già intravedere quel progetto d'infiltrazione che porterà poi alla creazione della Massoneria speculativa. Allo stesso modo, con l'intenzione di stringere legami coi ricchi mercanti e banchieri ebrei di Amsterdam ed a tutto vantaggio economico della


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britannica monarchia, il suggerimento "biblico" di John Dee, il quale faceva discendere il mitico Artù dall'altrettanto mitico Bruto - d'ascendenza troiana - e questi da Noè, servì a più tardi epigoni (John Sadler, 1649; Dr. Abade, 1723 ed altri posteriori), che la impostarono sull'irrisolta vicenda delle dieci tribù perdute d'Israele, per elaborare la teoria del British-Israelism: the British, as Abrahm's seed, were to inherit the earth. Tutto ciò svolse una funzione preparatoria per il successivo assorbimento di parte di tale formidabile centro di know-how finanziario nella società inglese: le condizioni, per annullare la cacciata degli ebrei nel 1290, si realizzarono nel clima religioso e politico suscitato dalla rivoluzione e dalla dittatura di Cromwell e pertanto, nel 1656, la riammissione della presenza ebraica fu un fatto compiuto come, ancorché limitato, l'acquisizione del loro diritto di cittadinanza. Ed anche per gli ebrei vale quanto detto per la Massoneria: essi sono stati usati con cinismo da un, in larga parte, invisibile establishment, che li ha esposti, facendo ricadere su loro il risentimento di azioni da questo preparate e suscitando, anche direttamente ma nelle maniere più subdole, quell'antisemitismo che è stato uno degli espedienti principali per realizzare il proprio occultamento. Un esempio per tutti, I PROTOCOLLI DEI SAVI ANZIANI DI SION, editi per la prima volta nel 1901, in Russia, furono tradotti in inglese e pubblicati (1919) dalla Eyre Spottiswoode Publishing House, stampatore di tutto ciò che d'ufficiale fosse rilasciato dalla Royal Family: il libro vendette molto rapidamente 30.000 copie, finché non fu ritirato dal commercio su pressione dei Rothschild. In detta circostanza, la cosa più singolare del falso, è che il modus agendi attribuito ai supposti Savi è proprio quello caratteristico delle forze contro-iniziatiche: letto in questo modo, il testo rivela allora prospettive di notevole interesse. L'aspetto paradossale del British-Israelism è che, dall'apertura filoebraica degli inizi sino ai giorni d'oggi, attraverso il filtro di stravaganti personalità del XIX sec., esso, in alcuni gruppi, ha assunto una veste nettamente agli antipodi di quell'originaria versione: the adherents embrace the Anti-Semitism by claming that those normally referred to as Jews are not God's chosen people but the "seed of serpent" and the "true Jews" are the Anglo-Saxons. 29

Cfr. il ns. EFFICERE DEOS nel prossimo numero di questa stessa rivista.

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Nell'opinione di Dee e di Cusano, uno degli strumenti fondamentali, in senso ovviamente non negativo, avrebbe dovuto essere la matematica; poiché, il mezzo migliore, per penetrare nell'intima struttura cosmica, era nel possesso delle scienze de numeris formalibus, de ponderibus misticis, de mensuris divinis. È evidente come gli stessi procedimenti possano poi essere volti ad altri scopi. Ben cosciente della tripartizione dell'universo, Dee si dedicava in particolare al ruolo di un certo uso degli algoritmi nel mondo intermediario essendo da lì che poteva giungere, in una visione utilitaristica, il maggior aiuto for the mechanics. A differenza di Cartesio, egli aveva però ben chiaro che il puro intelletto, non confuso con la ragione, era l'essenza divina presente nell'uomo. Cfr. J. Dee REHEARSAL, citato in Peter French, JOHN DEE. THE WORLD OF AN ELISABETHAN MAGUS, Ark Edition, 1987. 31

La cosa è evidente se si riflette su queste righe: <<The organisation of method of transmission he [Bacon] was such as to ensure that never again so long as the world endured, should the lamp of tradition [!], the light of truth, be darkened or extinguished>> (in H. Pott, FRANCIS BACON AND HIS SECRET SOCIETY, Kissinger Publishing


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Co., reprint 2000, USA). Altro tema capovolto è quello della Prisca Religio o Religio Una o Tradizione Primordiale, quella comune a tutta l'umanità ed alla quale gli ermetisti facevano riferimento nella speranza di poter ricomporre le divisioni della Cristianità. La sua parodia è riconoscibile negli "ideali" del mondialismo e della globalizzazione, che già Dee prefigurava ipotizzando la necessità di un governo mondiale. Tali prospettive utopiche erano condivise anche da Guillaume Postel, matematico ed ermetista francese che Dee incontrò nei suoi viaggi sul continente. 32

R. Guénon, LE RÉGNE 1962; p. 188.

DE LA

QUANTITÉ

ET LES

SIGNES

DES

TEMPS, Ch. XXVIII; Gallimard,

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Queste sono fatte risalire alla deviazione di una remota civiltà cui dovrebbe alludere Gen. 6. 4 con i suoi enigmatici, prediluviani protagonisti: possono quindi essere indizi della presenza negli autori di una perfetta cognizione di causa, sia il riferimento atlantideo nel titolo dell'utopia baconiana, sia quel singolare preannuncio del BritishIsraelism in Dee. Accostamento etnico che - privo di fondamenti nel suo riferirsi a the lost ten tribes - non sarebbe invece così inconsistente ove fosse presa in considerazione la remota area di dominanza della "razza rossa", tuttora ben rappresentata per la non trascurabile incidenza del rutilismo in the British seed: per quest'ordine di problemi vd. i ns. LA SCANDINAVIA E L'AFRICA, ibi est e DE VERBO MYRIFICO, in via di pubblicazione su questa stessa rivista. 34

Difficoltà sentita specialmente dai teologi nella loro ricerca dell'origine del Male: <<si Deus est, unde Malum? Si non est unde Bonum?>>. 35

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Pubblicata ad Amsterdam nel 1661.

Per meglio intendere quello che vogliamo dire, diamo, qui di seguito, un breve ed efficace resumé di quest'opera nota ma poco letta: <<In this romance of the future, "New Atlantis", Bacon outlines a Commonwealth, ruled by a powerful research institute, which thanks to its labours extending through the centuries, solved problems and achieved philosophical understanding that now permit the people of Bensalem to enjoy a more pleasant life. There are most of the scientific institutions founded but today, and, what is more, also those which do not ordinarily exist even today. Each special field of science, geology, botany, zoology, meteorology, chemistry, mathematics, physics, mechanics, acoustics, optics, astronomy, comparative anatomy, experimental physiology, teratology, they all have their own house of research, laboratories, meteorological and biological observatories, stations for agricultural experiments, associations to promote studies for special purposes, all these are available. This Commonwealth has known, three hundred years prior to their invention, the submarines, the aeroplanes, the radio, the gramophone, the film and the microphone. This land is artificially manufactured; gigantic quantities of energy are produced in engine houses, the heat of the earth's interior is made use of. Victuals are manufactured in a synthetic way; healing by air, water and diet is offered in special clinics. Experiments on animals are conducted in order to diagnose and to cure human diseases. All these inventions were possible only, because the Commonwealth created an organisation in which new inventions are followed up systematically, laboratories


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and experimental stations govern the Commonwealth of New Atlantis in the true sense of the word. After all, the natural philosophers, who unveil there the secrets of life and Nature, are, at the same time, the true rulers of the country. Bacon uses this allusion to point out the necessity that each Commonwealth should lay the foundations of scientific institutions, conducting experiments for the benefit of the combined population, which a single scientist, standing by himself, could never achieve>> (THE INTELLECTUAL HISTORY OF THE 17TH CENTURY AND IT'S IMPORTANCE FOR THE DEVELOPMENT OF RESEARCH METHODS IN THE FIELD OF EXACT SCIENCES. Written by Dr. Helmuth Minkowski, Berlin 1937, translated from German into English by Arthur B.Cornwall). 37

Il nome di Royal Society apparve, di fatto, per la prima volta nel 1661 e fu ufficializzato come Royal Society of London for Improvement of Natural Knowledge nel secondo Royal charter del 1663. 38

Come nel caso esemplare dei Saint-Clairs of Roslin, i quali tennero la carica magistrale (ad essa nominati da James II of Scotland: 1430 / 1460) per la Scozia, dal 1430 fino al 1736, quando William, al momento della fondazione di quella moderna Gran Loggia, decise di lasciare l'incarico ad un Gran Maestro eletto. 39

Proprio di questo si trattò: l'Istituzione non era per niente in crisi come invece scrivono ancor oggi tanti massoni "laici" quanto piuttosto del fatto che <<few lodges at London finding themselves neglected>>: sono parole di Anderson, le quali stanno a dimostrare come, la stragrande maggioranza , anche nella stessa Londra, non sentisse alcuna necessità di un'innovazione contraria ai principi dell'Ordine. I secessionisti, già prima, erano evidentemente emarginati dai Fratelli. Anderson poi specifica: <<… neglected by Sir Christopher Wren>>, ad ulteriore riprova della posizione nettamente contraria di quest'ultimo. Cfr. infra, n. 42 e vd. Jean Barles, HISTOIRE DU SCHISME MAÇONNIQUE ANGLAIS DE 1717, Trédaniel Éd., 1990. 40

In ordine di fondazione: 1. "The Goose Grideron", meglio conosciuta come "St. Paul Lodge", 1691, 2. "The Crown", 1712, 3. "The Apple Tree", 1716, 4. "The Rummer Grapes", 1716. È evidente come le ultime tre siano state costituite in fretta proprio per dare consistenza alla progettata ed imminente nuova Gran Loggia. 41

Speculum, specchio; l'etimo ben esprime quel qualcosa d'indiretto, quindi tutt'altro che positivo rispetto all'operatività, com'è appunto la condizione dell'immagine riflessa rispetto alla realtà e le cui limitazioni sono affermate con sicurezza da S.Paolo nella 1Cor. 13.12. 42

1632/1723; era nato in Inghilterra da nobile famiglia d'origine danese. Suo zio Matthew, vescovo anglicano, godeva del favore di Re Carlo I e per questo, per diciotto anni, fu imprigionato come papista, da Cromwell, nella Torre di Londra. Nel 1660, alla restaurazione, ritornò alla sua sede episcopale di Ely. Noto era dunque l'attaccamento di Sir Christopher alla causa stuartiana ed alle tradizioni. Egli fu professore di matematica


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ad Oxford e sono sue la scoperta della rettificazione della cicloide e che l'iperboloide di rotazione ad una falda può essere generato dalla rotazione di una retta intorno ad un'altra ad essa sghemba. Dal 1668 al 1718 fu Royal Architect. 43

In quella forma anomala di Massoneria l'ordinamento prevedeva soltanto due gradi, con l'esclusione di quello di Maestro; a maggior ragione mancava il Royal Arch, il quale, del terzo grado, è il coronamento: evidentemente, la ragione dell'anomalia risiedeva nel fatto che, i due principali promotori (Anderson e Desaguliers) erano pastori e pertanto la loro condizione di massoni era limitata alle funzioni di Cappellano (destinazione antica degli "accettati"). Iniziati perciò nelle speciali Jakin's Lodges (cfr. supra, p. 2) dove, il rituale era assimilabile a quello di Compagno. 44

A riprova: nel 1663, sotto la presidenza del Re, Carlo II Stuart (il Re cattolico quindi), fu tenuta a York l'assemblea generale dei massoni d'Inghilterra con l'elezione, quale GM., di Lord Henry Jermyn, Earl of St-Alban. 45

Il suo favore verso la Massoneria era reso evidente dalla carica di Gran Maestro che rivestiva nel templare Royal Order of Scotland, fondato dal Re Robert Bruce nel 1314 a difesa e protezione del Tempio perseguitato. Sempre in onore dei massoni, che avevano combattuto per lui, Re Giacomo ripristinò the Order of St-Andrew soppresso dalla Riforma. 46

Erano così definiti i filo cattolici ed i nazionalisti scozzesi fedeli ad una dinastia originaria, appunto, di quella terra. L'interesse massonico per le vicende politiche sorge dunque per difesa e - in contrasto con lo stereotipo corrente - in senso nettamente antiprogressista ovvero quando la rivoluzione puritana comincia a scardinare il vecchio mondo: è quindi dal 1650, vale a dire in epoca pre-speculativa e dopo la decapitazione di Carlo I, che Cromwell ed i suoi, si rivelano i temibili portatori di un'ideologia estremamente antitradizionale. Prima di questi tragici avvenimenti, gli "infiltrati" modernisti non erano né facilmente individuabili, né immediatamente classificabili in senso politico. Essi apparivano agire, infatti, su un piano prevalentemente filosofico. 47 La responsabilità si tende ad attribuirla ad Anderson, cappellano della St. Paul, dal 1710, personaggio piuttosto enigmatico, che, dal 1714, cominciò a tenere riunioni riservate ai soli gentlemen e dalle quali escluse la partecipazione di Brethren esterni alla Loggia. Stava, con evidenza, preparando lo scisma, tant'è che, nel 1715, gli Operativi di Londra, su disposizione di Wren, lo espulsero unitamente agli altri sette: Payne (2° GM, 1718; 4° GM, 1720), Desaguliers (3° GM, 1719), Johnson, Stuard, Sayer (1°GM), Entick, Montagu. Quasi tutti membri della Royal Society. La raccolta degli antichi documenti, alcuni risalenti all'epoca anglo-sassone, era stata organizzata dal GM. George Payne, che aveva intenzione di pubblicarli almeno in parte. Sembra sia pertanto stato il timore che ciò avvenisse a decidere la loro distruzione: segno evidente della presenza di posizioni interne assai discordi in un gruppo per altri versi molto omogeneo. 48

Ricostruita dopo il grande incendio di Londra del 1666 ed il cui progetto fu affidato allo stesso Wren.


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In seguito, conosciuta anche come Atholl Grand Lodge a ragione del 3° e 4° Duca di Atholl, che ne furono rispettivamente 6° (1771) e 7° (1775) GM. 50

Succeduti agli Orange nel 1714; a livello parlamentare il legame strettissimo dei "moderns" era con il partito progressista dei Whigs, gli altri tenevano ovviamente per i Thory. Nel 1714, alla morte della Regina Anna con l'avvento di Giorgio I di Hannover, i Whigs, si chiamarono hannovriani e mentre i Thories furono soprannominati, con intento spregiativo, dal nome del fuggiasco Giacomo II, giacobiti. Della casa di Hannover e quindi dell'attuale Royal Family, è poco nota l'origine "italiana": nel X sec. Oberto (= 975), Marchese e Conte del Sacro Palazzo, figlio del Marchese Adalberto, aveva un immenso feudo, che comprendeva i comitati di Genova, Milano, Tortona, Bobbio, Luni, Gavello e Monselice, i suoi pronipoti agnati si perpetuarono sotto i nomi di Malaspina, Pallavicini e Este. Alberto Azzo II d'Este (nt. prima del 997), si sposò con Cunegonda, della celebre casa dei Guelfi di Germania. Casa aspirante all'Impero ma poi ridotta al solo Ducato di Brunswick, costituito dalla regione del Lunenburgo in Bassa Sassonia. Possesso che, nel XVII sec., assunto all'elettorato, mutò il nome in quello della dominante città di Hannover. In Inghilterra intanto, Guglielmo d'Orange, coniugato con Maria Stuart, si spense improle mentre l'unico figlio della Regina Anna Stuart (regnante nel periodo 1702/1714), sorella di Maria, le premorì nel 1700. A quel punto, il Parlamento riconobbe la legittimità del pretendente Giorgio Ludovico di Hannover, in quanto sua madre Elisabetta, elettrice vedova, era nipote di Giacomo I (= 1625) il primo dei monarchi Stuart. A seguito del matrimonio della Regina Vittoria (Hannover) con il Principe Alberto di Sassonia Coburgo Gota, quest'ultima fu la designazione dinastica sino alla prima guerra mondiale, quando, per ragioni di opportunità politica, il nome tedesco fu mutato in quello tratto dal Castello di Windsor e, per sovrano rescritto, non più modificabile. 51

È a quest'ordine di argomenti che la Chiesa intende riferirsi col termine storico di "machinatio": esso si trova anche nel divieto di aderire alla massoneria, riportato nel Codex Iuris Canonici del 1917. 52

Lettera Apostolica "In Eminenti", 28 Aprile 1738.

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Bolla "Providas Romanorum", 18 Marzo 1751.

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Desaguliers era un ottimo matematico e fisico, inventò il planetario e fu, ai suoi tempi, scienziato di fama. Fu intimo di Newton, più anziano di lui di circa ventuno anni, membro della Royal Society ed in ottimi rapporti con gli ambienti di Corte. Newton lo seguì sempre e, pur se non massone, era pertanto a perfetta conoscenza del progetto relativo alla fondazione di un'innovativa Gran Loggia. 55

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Sembra in numero di circa 250.000.

Sta lì la differenza tra tradizione e tradizionalismo; gretto epifenomeno quest'ultimo di spiriti intellettualmente timorosi, di fatto aggressivi, al fondo limitati.


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Titolo assai bizzarro redatto in un ebraico un po' forzato: qualcosa come <<the Brother's secret monitor>>; il curatore della raccolta era un irlandese, il Gran Segretario, Laurence Dermott. Nello stesso anno fu pubblicata anche la terza edizione delle Costituzioni di Anderson, riviste da John Entick. Dermott fu inoltre molto attivo a convincere le non poche Logge londinesi ostili agli speculativi a stringersi nel Bund che doveva portare alla "Grand Lodge of Free Accepted Masons of the Old Institution", tra queste la più antica e famosa era "The Queen's Head" in St. Charles Street al Covent Garden. 58

L'apparente facile etimo del nome rimanderebbe alla zona di Como dalla quale molti di essi, in realtà, provenivano ma le cose non sono però così semplici perché, nello stesso modo, erano spesso chiamati anche quei maestri originari di altre aree della penisola e forse non per semplice generalizzazione: risulta, infatti, che co- (→ lt. cum) sia qui da intendere - nel composto nominale - quale prefisso indicativo d'unione, compagnia mentre -macini, appare, evidentemente, l'aggettivo del basso lt. macio (cfr. supra, n. 1) a sua volta radice dell'attuale "massoneria". Il toponimo è, infatti, derivato da un supposto celtico *camb-, piegato, curvato, evidentemente per la disposizione urbana sulla costa lacustre. Como e i Comacini non sarebbero pertanto in alcuna relazione semantica ma espressioni di un fatto linguistico di mera convergenza fonetica. 59

La prima Loggia di questa filiazione sembra sia stata fondata nel 1728 a Madrid (la "French Arms"), seguono poi nel 1732 Parigi, nel 1733 Valenciennes e Château d'Aubigny nel 1734. Per l'Italia, a Firenze, nel 1732, dov'era ambasciatore della corte di San Giacomo, Sir Horace Mann fondò una Loggia, tra i cui membri c'era un medico, quel Tommaso Crudeli, che ebbe poi, per questo, a subire un noto processo inquisitoriale. Tale Loggia sotto il titolo di "Sir Horace Mann, 1732" è ancor oggi presente e, nell'almanacco massonico internazionale LIST OF LODGES, è segnalata come <<a English speaking Lodge>>. 60

<<Be it known to all Men, That the Act of Union between the two Grand Lodges of free and Accepted Masons of England, is solemnly signed, sealed, ratified, and confirmed, and the two Fraternities are one, to be from henceforth known and acknowledged by the style and title of The United Grand Lodge of Ancient Freemasons of England; England and may the Great Architect of the Universe make their Union eternal!>> 61

Questo in linea di massima, perché gli Antichi imputarono ai Moderni l'abbandono, nei nuovi rituali unificati, di ben undici elementi ritenuti di notevole rilievo: tra questi si possono citare la soppressione di tratti nettamente cristiani nei primi tre gradi e nel Royal Arch - di fatto ignorato dagli scismatici - e l'uso delle spade che è invece rimasto in Italia ed in Francia dov'è, erroneamente, reputato un lascito napoleonico. Sicuramente falsa è però l'accusa d'aver omesse le preghiere, tuttora praticate nel rituale più diffuso l'Emulation - e questo con grave scandalo delle "laiche" Obbedienze "latine". 62

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Riferimento ma non guida perché questi Riti godono tutti della più ampia autonomia.

Anche qui, si può trovare una precisa smentita alle malevole fantasie, che vorrebbero l'Istituzione un organismo cripto-giudaico; una specie di B'naï B'rith graziosamente


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aperto anche ai goim; in questo rito, espressamente cristiano, si prevede il giuramento di fedeltà alla Santissima Trinità, non può pertanto essere ricevuto cavaliere chi, evidentemente, non accetti la regola. Quest'esclusivismo cristiano vale anche per le Massonerie scandinave e per una delle quattro GG.LL. tedesche: quella che adotta, appunto, gli stessi rituali delle consorelle nordiche. È bene essere chiari: queste Massonerie escludono, nella loro totalità organizzativa, chi non accetti la ritualità cristiana e non, come avviene nel caso inglese, soltanto chi voglia accedere ad uno specifico corpus rituale. 64

Quello che, al di fuori del Regno Unito, è conosciuto come Rito Scozzese Antico ed Accettato (RSSA). Degli altri corpi rituali, con varianti qui non riportate per la Scozia e l'Irlanda, si possono citare, in forma sommaria ed incompleta, i seguenti: Royal Ark Mariner, Allied Degrees, Cryptic Degrees, Royal Order of Scotland (templare, molto importante per la storia di Scozia, cfr. supra, n. 45), Order of Secret Monitor……. 65

Cfr. supra, n. 59.

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Il periodo della sua massima attività, può essere collocato tra il 1815 ed il 1830.

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I seguaci di essa sono denominati wahbiti in Occidente - dal fondatore 'Abd alWahhab; 1703/1787 - ma il termine col quale designano se stessi è: muwahhidun, unitari. 68

Esemplari quelli avvenuti in Germania tra il 1976 ed il 1980 tra esponenti di quell'episcopato ed i rappresentanti delle quattro GG.LL. federate del paese: cfr. LA CHIESA CATTOLICA E LA MASSONERIA. LA COMMISSIONE PER IL DIALOGO HA CHIARITO LA DECISIVA QUESTIONE , di Mons. Josef Stimpfle, in QUADERNI DI "CRISTIANITÀ" , anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 45-67. 69

Cfr. l'affannosa ricerca in questi anni di incontri al "massimo livello" con esponenti religiosi delle più varie estrazioni: islamici (l'Islam non ha clero, fatta parziale ed impropria eccezione per l'eresia sciita), buddisti (fatta salva la forma Mahayana; con il Dalai Lama ed altri minori tulku) o induisti (non c'è gerarchia nell'Induismo) con il risultato della presenza, a volte anche grottesca, d'improbabili personaggi, di sicuro bizzarramente abbigliati ma di alcuna effettiva rappresentatività. 70

Il GM. e gli Ufficiali di GL. I famosi "33" invece - ossessione "profana" tra le più comiche - sono soltanto il vertice del Rito Scozzese (RSSA). L'influenza del RSSA varia secondo l'Obbedienza e secondo il paese ma, dovunque, la consistenza kleine bürgerlich dei più di loro e la facilità con cui si può giungere a tanta altezza toglierebbe rapidamente, se conosciuta, tanto del fascino tenebroso che ispira. 71

Nel Regno Unito, la situazione è, potremmo dire, ufficializzata in senso nazionale essendo la carica di GM., fin dal 1814, appannaggio di un membro della Royal Family; dal 16 Giugno 1967 è tale HRH the Duke of Kent (10° GM. dall'Unione). In questi ultimi anni, il Duca ha però manifestato l'intenzione di dimettersi e pare che il successore sarà scelto fuori dell'ambito dinastico. In Svezia il rapporto tra le istituzioni statali e quella Massoneria era ancora più stretto ma la situazione è andata da qualche


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anno modificandosi in questi termini: <<There are approximately 60 freemasons in Sweden currently holding the XIth degree. They are present or past members of the Grand Council or Grand Officers. In 1811 King Karl established the Royal Order of King Karl XIII. It is a civil order, conferred by the King, only to Freemasons holding the XIth degree with the number limited to 33, three of whom must be ordained. Although not a Masonic degree, it is considered the highest rank in Swedish Freemasonry. New members are appointed by the King. An annual Chapter is held on Carl-day, January 28th. Does the King still play an active role or does he delegate his duties to a deputy? The question has no relevance today, since the King of Sweden, Carl XVI Gustaf, is no longer Grand Master. Duke Carl became Grand Master in 1770 (Later King Carl XIII from 1809-1818). After him, all Kings were Grand Masters until 1973, when King Gustaf VI Adolf died. In those days even the Pro Grand Master and the Deputy Grand Master were members of the Royal House. In 1973, the new King, Carl XVI Gustaf (grandson of Gustaf VI Adolf), didn't want to become a Freemason. Instead his uncle, Prince Bertil, became Grand Master. Prince Bertil died in January 1997, the present Grand Master is Mr. Gustaf Piel.>>; vd. SWEDISH RITE FAQ, by Trevor. W. McKeown, 1999 (http://www.bc-freemasonry.com/Writings/swedish_faq.html). [URL aggiornato (28.X.2001): http://freemasonry.bcy.ca/Writings/swedish_faq.html] Questo ed altri segni, presenti pure negli USA, sembra stiano ad indicare un certo abbandono dell'utilizzo ufficiale m'anche strumentale della Massoneria, che era ormai ritenuto consolidato da parte di un certo numero di stati. 72

Con le eccezioni per le quali vd. supra, alla n. 59.

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Unica possibilitĂ effettiva (tradizionale e non grottesca ricostruzione contemporanea) in tal senso fruibile dall'uomo occidentale, che non voglia distaccarsi dal proprio ambito culturale.

----Bruno d'Ausser Berrau, e-mail: ausserberrau@hotmail.com [Una presentazione dell'autore si trova nel I numero di Episteme]


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NUMERICS OF HEBREWS WORLDWIDE DISTRIBUTION AROUND 1170 AD ACCORDING TO BINYAMIN OF TUDELA (Emilio Spedicato) Abstract - We present data on the world distribution of the Hebrews around 1170 AD as found in the book Itinerary of Binyamin of Tudela. The data show about half of the Hebrews living in the Yemen region, in agreement with the recent thesis of Kamal Salibi that the original land of the Hebrews was the western-southern Arabian peninsula.

Introduction In a series of recent books the Lebanese historian Kamal Salibi [1,2,3] has argued that before their deportation to Mesopotamia (the people of Israel by Sargon in 722 BC, the people of Juda by Nebuchadnezzar in 587 BC), the Hebrews were a coalition of Arab tribes living in the high land (the Al-Sarat, elevation between 1700 and 3200 meters) of westernsouthern Arabian peninsula (approximately in the Asir region of present day Saudi Arabia). It is known that when Cyrus let the Hebrews free of leaving Mesopotamia, only a limited amount of them, belonging to the Juda and Beniamin tribes, went to Palestine, reconstructing the temple in the city of Jerusalem. The fate of the remaining ten tribes has been object of lot of discussions, e.g. by Velikovsky (he proposed the Caucasus, the Volga region and a third indetermined destination, see [4]), by Koestler (he claimed that many people around the Caspian sea at the time of the Khazars empire were Hebrews and that most of Eastern Europe Jews descended from them, see [5]). The arguments given by Salibi are based on the geography in the biblical books dealing with the period preceding the deportation. He notices that almost all the about 2000 toponima appearing in these books can be found in the Asir region. Moreover additional data given in the biblical text, as distances, proximity to rivers and mountains etc., are supported by the Asir localization. Only a handful of such toponima can be located in Palestine where oreover some topographical features are often incompatible with statements in the Bible.


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Salibi bases his analysis on the so called "received text" of the Bible, namely the original version containing only consonants. He claims that the current vocalization, made by the Masoretes over 1000 years after the exile, is often not correct. Among his remarkable claims we recall: - "Jordan (h-yrdn) river" is a wrong translation for "ridge", referring to the great almost impassable rocky escarpment, having a sheer drop of some 100 meters, that separates the Arabian high plateau from the lower land by the sea. This escarpment stretches almost continuously for about 1000 km from just south of Meccah to near Aden, additional long stretches extending parallel to the south coast of the Arabian peninsula (see the map at pages 32-33 of The Times Atlas of the World, comprehensive edition, 1973). Additionally one should note that in the Bible the Jordan is never explicitly called a " river (nhr)", a fact that has always puzzled scholars. - Jerusalem is never associated with the term "city" and its 26 gates are highly improbable, since a city of its size would normally have no more than 4 gates, the great cities of antiquities having usually at most 12 gates. "Jerusalem" is identified by Salibi as a secluded well defended natural area in the Arabian high plateau having 26 natural accesses, 24 of which are found on maps still bearing their ancient biblical name. - only some of the Jews settled in Palestine with the favour of the Persians in the sixth century BC, when Palestine suddenly became important from the trade point of view in the context of the Persian empire, being located between Egypt and Mesopotamia. Salibi does not discuss the fate of the other Hebrews, but notices that a large amount of them was well known to have dwelled in the Arabian peninsula in medieval times and that the opinion expressed by these dwellers of being in their fathers land was recorded by several medieval authors. It is worth to recall that one of the main historians of Islam, the Persian Al Tabari who wrote in the ninth century, describes a large number of fortified villages in the region of the city of Iathrib (later redenominated Al Madinah), whose population consisted of Hebrews in control of the cultivations of dates. One of the first acts of the political activity of Muhammad was fighting against them. In this paper we look at very interesting information on the distribution of the Hebrews in the world given in the book Itinerary by Binyamin of


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Tudela, a little known important source that is not quoted by Salibi. The data provide clear support to Salibi's thesis. 2. The travels of Binyamin of Tudela The rabbi Binyamin of Tudela lived in the 12-th century in the city of Tudela in Aragona, not far from Saragosse. Around 1170 AD he underwent a trip that lasted about three years along the coasts of the Mediterranean and inside parts of Asia, visiting the local communities of Hebrews. He gave a quite synthetic description of his travels in the book Itinerary [6]. This book has little information about his personal events but is curiously rich in data about the number of Hebrews that were living in the cities he visited (or possibly in some cities he did not visit but was given information about). There has been of course discussion about the accuracy of the figures given by him and someone has even claimed that the trip was not done at all. Here we are not going to enter such type of discussion. Our personal impression is that the text is essentially accurate. Binyamin therefore may provide invaluable information on a time where the world distribution of the Hebrews could still be considered as a good reflection of the distribution in classical times. Not long after Binyamin time persecutions in Europe and the onslaught due to the Mongols modified the distribution of the Hebrews in Europe and especially in much of Asia. In the following section we give Tables listing the number of people living in various regions of the world visited by Binyamin. Then we will comment on them and discuss the data relation with Salibi thesis. 3. Tables of Hebrews distribution in the world In the following Tables we list the cities for which Binyamin provides the number of Hebrews (without his distinctions between rabbanites, i.e. followers of the rabbinic teaching giving importance to the Talmud, and caraites, followers of the original precepts in the canonical biblical books). For a small number of cities or places (e.g. Barcelona or Cyprus) Binyamin does not provide figures.


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Hebrews in Spain, France and Italy GERONA 300 LUNEL 300 POSQUIERES 40 ST. GILLES 100 ARLES 200 MARSEILLES 300 PISA 20 LUCCA 40 ROMA 200 CAPUA 300 NAPOLI 500 SALERNO 600 AMALFI 20 BENEVENTO 200 MELFI 200 ASCOLI SATRIANO 40 TRANI 200 TARANTO 300 BRINDISI 10 OTRANTO 500 TOTAL 4370 Hebrews in Greece CORFU 1 ARTA 100 ACHELOO 30 PATRAS 50 KIFTO 100 CRISSA 100 CORINTH 300 THEBES 2000 EGRIPO 200 IABUSTRISSA 200 RABENIKA 100 SINON POTAMOU 50


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ARMILO 400 BISSENA 100 SALONICA 500 DEMETRIZI 200 DRAMA 140 CRISTOPOLI 20 COSTANTINOPLES 2500 RODOSTO 400 GALLIPOLI 200 KALES 50 CHIOS 400 SAMOS 300 RHODES 400 TOTAL 8841 Hebrews in Siria and Palestine ANTIOCH 10 LATAKIA 100 BYBLOS 250 BEIRUT 50 SIDON 50 TYRE 500 AKKO 200 CAESAREA 200 JERUSALEM 200 BETHLEHEM 2 BEIT GIBRIN 3 BETHNABLE 3 RAMAH 300 YAFO 1 ASQUELON 240 LUDD 1 TIBERIAS 50 GUSH 20 ALMAH 50 DAMASCUS 3100 GALID 60 TADM0R 2000


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EMESA 20 HAMA 70 ALEPPO 5000 BALIS 10 QALAT GABER 2000 RAQQAH 700 TOTAL 15190 Remark - Binyamin lists separately the Samaritans: 400 in Damascus, 200 in Caesarea, 1000 in Nablus, 300 in Asquelon. Hebrews in Mesopotamia HARRAN 20 RAS EL AIN 200 NISIBI 1000 GEZIRET IBN OMAR 4000 MOSUL 7000 RAHBAH 2000 KARKEMISH 500 AL ANBAR 3000 HADARAH 15.000 OKBARA 10.000 BAGHDAD 40.000 ZERIRAN 5000 BAYBAL 3000 AL HILLAH 10.000 KAFRI 200 QUSUNAT 300 AL KUFAH 7000 AL ANBAR 3000 TOTAL 111.220 Remark - Binyamin makes the interesting observation that near Kafri there was an important complex of buildings, including the synagogue and the grave of Ezekiel and a rich library containing scrolls from the first and the second temple.


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Hebrews in Arabia and Yemen TANAI REGION 300.000 TILMAS 100.000 HAIBAR 50.000 DIRAE 3000 LASAS 2000 BASRA 10.000 TOTAL 465.000 Remark - The Tanai region had 40 cities and 200 villages. The whole region is called by him Saba or Al-Yemen, meaning "the South", with respect to Shinar (i.e. Mesopotamia). Hebrews in Greater Persia NAHR SAMURAH 1500 SUSA 7000 RUDBAR 20.000 HULWAN 4.000 AMADIYAH 25.000 HAMADAN 30.000 TABARISTAN 4000 ISFAHAN 15.000 FIRUZEH 10.000 HIVA 80.000 SAMARKANDA 50.000 QIS 500 QATIF 5000 TOTAL 252.000 Hebrews in Greater India QULAM 100.000 LABRIG 3000 AL GONGALAH 1000 TOTAL 104.000


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Hebrews in Africa and Sicily HELUAN 300 KUS 300 FAYYUM 200 CAIRO 7000 BILBEIS 300 BUTIG 200 BENHA 60 MINYAT ZIFTA 500 SAMNU 200 DAMIRAH 700 MAHALLAH 500 ALEXANDRIA 3000 DAMIETTA 200 SIMASIM 100 TANIS 40 PALERMO 1500 TOTAL 15.000 Total and area percentages TOTAL 975.621 AFRICA--SICILY 1.5 % INDIA 10.6 % PERSIA 25.8 % MESOPOTAMIA 11.4 % ARABIA--YEMEN 47.7 % SIRIA--PALESTINE 1.6 % EUROPE 1.4 % In addition to the above numbers, Binyamin quotes without figures the existence of Hebrews in Germany and in the Khazar empire. Also he claims that a "large number" of Hebrews were living in a mountainous territory that appears to broadly correspond to Afghanistan. Curiously he omits figures about Andalucia.


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We recall that according to Koestler the number of Hebrews in Germany before the end of the Khazar empire was marginal while it was probably substantial in the Khazar empire, whose leaders had converted to Hebraism ("in Khazaria sheep, honey and Jews exist in large quantities", is a statement by Muqaddasi in his 10th century Descriptio Imperii Moslemici). The Khazar empire was already in decay at the time of Binyamin, due to growth of the Rus power and the many incursions of Vikings along the Caspian shores. Koestler argues that people from the Khazar territory escaped west flying the terrible Mongolian invasion. Many of them set in the wooded and marshy territory between present day Poland and White Russia. From them, and not from Hebrews expelled from the western European countries, the large population of Eastern Jews should have descended. 4. Comments on Binyamin data We do not know how the numbers given by Binyamin relate to the actual total population of Hebrews at his time, because of the following questions: A -- Do the numbers refer to the whole population or only to the male adults? Some passages suggest that only male adults were considered. B -- How many people lived in cities or regions not touched by him? Because of the above, even assuming that the given figures are basically correct, the total number of Hebrews corresponding to these figures, i.e. somewhat less than one million, is certainly a lower bound, by possibly a factor 4 with respect to problem A and a factor 2 or more with respect to problem B. By these factors one might estimate a total population of somewhat over 8 million, which is a reasonable estimate, being close to the numbers of Jews for the whole Roman world at the Augustus census (the Hebrews were the most numerous population!). At that time only part of the world inhabited by Hebrews had been censed, but economical conditions were probably better generally than at Binyamin time, allowing a higher population density in the Roman empire. It is anyway well known that human population has been rather constant in total numbers till the explosive growth related to the starting of the industrial revolution.


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One should also notice that most Hebrews lived in cities or small towns on jobs requiring a certain specialized competence (making or colouring clothes is an occupation often quoted by Binyamin). Despite the certain inaccuracy in total numbers, it is likely that the ratios of Hebrews in different geographical areas are quite correct, since such ratios are independent of the multiplying factors, which are presumibly similar for the different regions. Therefore the following observations coming from an inspection of the above given Tables should be basically valid. * The region of Arabia and Yemen contains about half the total population of Hebrews. This fact is a strong argument in favour of Salibi thesis that Arabia-Yemen was the original region where the Hebrews were deported from by the Assirians and the Babilonians, since many of the deportees would naturally like to come back to the land of their ancestors. ** The region containing the second largest amount of Hebrews is Greater Persia, at the time of Binyamin including a large part of central Asia now belonging to Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kazachstan. Impressive is the large number of Hebrews living in Hiva, close to the Aral see, a region now environmentally ruined but in medieval times very flourishing, as described for instance by Ibn Battuta. It is natural to conjecture that such large population descended from people who settled there during the Persian Achaemenid empire, when the Hebrews were treated well by the Persians and many of them acted as administrators. It is likely that large part of the population of these cities was later massacred by the Mongols, whose policy of utterly destroying the inhabitants of cities is so graphically described in for instance Ata Malik al Juvaini, [7], writing about 1250 AD. It is however possible that a part of these populations, possibly those living in the more western regions, e.g. in Hiva, could have escaped the Mongols onslaught by joining the Khazars in their flight towards Europe, thereby contributing to the stock of Eastern European Jews. *** India is the region containing the third largest population of Hebrews, with a concentration in the city of Qulam, present day Quilon, in the western-southern part of the Indian peninsula. Under Salibi's scenario of the Hebrews living originally in Southern Arabia it is likely that many of them formed colonies already in very ancient times in that part of India, which was on the way to the farthest eastern regions wherefrom spices and


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silk were imported. It is well known that trade between Taprobrane (Sri Lanka) and Oman or Aden is extremely ancient, being practiced exploiting the monsoons by boats made of planks connected with coconut fiber ropes, a production of the Laccadive islands (see Severin [8] for a description of these boats and his personal experience of crossing the Indian ocean from Oman on a reconstructed boat). The Hebrews population of India might also have been increased some centuries before Binyamin by influx of refugees from west--northernly parts of India, that were once part of the Achaemenid empire and where the Islamic conquest was quite bloody, due to the local resistance to religious change (see again Ibn Battuta for a description of the massacres made by the muslim chiefs against the nonmuslim populations in the region of present Chittagong). Notice that the migrations of Zoroastrians to the quite southern location of present Mumbay was as well motivated by escape to forced conversion. **** The region containing the third largest amount of Hebrews includes present day Siria, Irak and southern Turkey. It can be surmised that this population consisted partly of Hebrews that decided to stay there during the time of the Persian Achaemenid empire, partly of people who went there during the best time of the Islamic empire, partly of people who left Palestine after the Roman wars of Vespasian and Hadrian. Again much of this population may have perished during the massacres of city dwellers by the Mongols. It is clear from the information in Binyamin that most precious cultural relicts of the Hebrews were preserved in cities near Baghdad. These were most probably destroyed together with the population during the Mongolian invasion. ***** The number of people living in Europe, in the Byzantine empire and along the Mediterranean coasts of Africa, namely in the regions where we would expect most of the Hebrews under the standard hypothesis that the original land of the Hebrews was Palestine, wherefrom they dispersed during Hellenistic and Roman times, is only a small fraction of the total Hebrew population according to Binyamin figures. Barring the hypothesis of a higher mortality in these regions in some past time (but earthquakes and plague around 540 AD devasted these regions...) this fact supports the idea that already in classical times the Hebrews living around the Mediterranean were only a small fraction of the total population of Hebrews.


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The above analysis, in conclusion, seems to support Salibi's hypothesis that only a marginal part of the Hebrews, when given freedom by Cyrus, settled in Palestine; most of them must have returned to their original land in Arabia--Yemen, or they dispersed in the vastness of the Achaemenid empire, where history later spread them even farther throughout the world. References 1 - K. Salibi, Secrets of the Bible people, Saqi Books, London, 1988. 2 - K. Salibi, The Bible came from Arabia, Naufal, Beirut, 1996. 3 - K. Salibi, The historicity of biblical Israel. Studies on Samuel I and II, Nabu, London, 1998. 4 - Communicated by Donald Patten, Seattle. 5 - A. Koestler, The thirteenth tribe, Picador, London, 1976. 6 - Binyamin of Tudela, Itinerario (Sefer Massa'ot), Luisè, Rimini, 1988. 7 - Ata Malik Al-Juvaini, Ta Rikh-i-Jaman Gusha, University of Manchester Press, 1958 8 -- T. Severin, The Sindbad voyage, Hutchinson, 1982 ----Emilio Spedicato, e-mail: emilio@unibg.it Department of Mathematics, University of Bergamo, Italy [Una presentazione dell'autore si trova nel I numero di Episteme]


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THE EVOLUTION OF THE NOTION OF CREATION IN THE JUDEO-CHRISTIAN RELIGION (Ludwik Kostro) Specialists: philosophers, theologians, biblical scholars, and religious experts - both believers and non-believers - deal with the research on the evolution of the most essential notions of world-view. Catholic universities talk about the evolution of Revelation when a given notion was a subject to changes in individual books of the Bible, and the evolution of a dogma when the notion was changing in the post-Biblical period. The notion of creation was also a subject to such changes. Roman Catholic Church believes at present that God created the world out of nothing. In Latin it is defined as 'creatio ex nihilo sui et subiecti'. According to this description God created the world neither out of himself, nor out of any material. 1. Doctrine of creation of the univers out of nothing is post-Biblical one The Bible does not contain the doctrine of out-of-nothing creation although sometimes two texts (2 Macc. 2; Rom. 4,7) are indicated as recognising such doctrine. These texts will be examined later. The Old and New Testaments maintain the notion rooted in Sumerian times; according to the Sumerians everything emerged out of everlasting and boundless waters. The creative activity of the Bible God is presented as separating some waters from the others. To find this out it is enough to read the first chapter of Genesis which shows how God created the heavens and the earth: "(‌)And God said, 'Let there be a dome in the midst of the waters, and let it separate the waters from the waters'. So God made the dome and separated the waters that were under the dome from the waters that were above the dome. And it was so. God called the dome Sky. (‌) And God said, 'Let the waters under the sky be gathered together into one place, and let dry land appear'. And it was so. God called the


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dry land Earth, and the waters that were gathered together he called Seas." (Genesis, 1:6-10) [1] The Bible assumes the existence of everlasting and boundless waters. Nowhere in the Bible can we find the line: "And God said, 'Let there be waters and so the waters were'." Old Testament term 'bara' reserved to God only and translated into other languages as 'to create' never bears the meaning of 'to create out of nothing'. According to the Great Catholic Biblical Encyclopaedia [2] the basic etymological meaning of the term 'bara' is best reflected by the English 'to separate'. Many biblical scholars show that we are not allowed to translate the Hebrew verb bara by the verb "to create out of nothing". For exemple, according to J. St. Synowiec OFM Conv., the statement that bara means 'to create ex nihilo' is erroneous because in the Bible the verb bara is used parallel with the the verbs asah - 'to make', jasar - 'to form', which , obviously, were used to indicate acivity transforming mater. Even in Genesis 1 the verbs bara and asah are used in a parallel way. [3, p. 15-17] Also the word bore - 'Creator' does not mean anyone who creates out of nothing. [3, p. 16] Also the New Testament supports the opinion from the Old Testament. The Second Letter of St Peter reads: "(‌)by God's word the heavens existed and the earth was formed out of water and by water." (2 Peter, 3:5) First post-Biblical Christians were also convinced of the emergence of heavens and the earth by God's word out of water and by water. Tertullian, who lived at the turn of the 2 nd and 3rd century A.D., in his work On Baptism where he presented his cosmological speculations, he tried to prove why water had been selected for this sacrament. According to him, water had existed 'at dawn' [Tertullian Bapt. 3-4]. Another representative of patristics, Cyril of Jerusalem says briefly: "Water exists in the beginning of the world, as Jordan is in the beginning of the Gospel." [Cat., 3, 5] The origins of the faith in the creation out of nothing reach back to the middle of the 2nd century A.D.. In his 'Shepherd' written ca 150 A.D., Hermes said that the first commandment is:


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"(…)to believe that there is only one God, who created and put to order everything, and who created all out of non-existence." [Hermes, Pastor, Praeceptum 1,1] He mentioned, however, the primeval waters again: "(…)with his mighty word did he spread the heavens and fixed the earth upon waters." [Hermes, Pastor, Visio 1,3,4] The expression 'ex nihilo' - out of nothing - can be encountered at the writings of Theophilus of Antioch (ca 180 A.D.): "(…)out of nothing does God derive and did derive, what He wanted, and in the way He wanted." [Ad Autolicum, 2,4 (POK 4)] Irenaeus (also the 2nd century A.D.) forcibly states: "(…) people really cannot do anything out of nothing, but only out of the matter that has existed before them. God is superior to people mostly because He supplied Himself with the matter for his act of creation, altjough it had not existed before." [Adversus haereseos, 2,10,4] Another apologist, Athenagoras (ca 177 A.D.) still imagined, however: "(…) Providence as a shaper of the matter existing before." [4] Athenagoras was expressing here - as we shall see later on - a notion included in the Old Testament's Wisdom of Solomon. 2. The doctrine of creation out of nothing found its substantiation in erroneous translation of The Second Book of the Maccabees 7:28 done in the 4th century A.D. In the 4th century A.D. a Vulgate, i.e. a Latin translation of the Bible, was produced. It was then, when St. Jerome (to whom the Latin version of the Bible is usually attributed) erroneously translated the 2 nd Book of the Maccabees. This ancient Biblical scholar instead of precise translation the


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original Greek text of the address of Maccabee mother to her seventh son before his martyrdom, created a text being actually mere interpretation. Instead of using the words "cognosce quod non ex ea quae erant fecit illa Deus (caelum et terram)" [5, p. 121] which means "Recognise that not of the things that had been created them God (i.e. heavens and the earth)", St. Jerome used the words "intellige quia ex nihilo fecil illa Deus" [5, p. 121], which means "understand that out of nothing created them God". St. Jerome recognised, that before the heavens, and the earth, and all the things included in them were created, nothing had existed. However, in the times when the Books of Maccabees were written, there existed a conviction that when God started to create the world, there had been everlasting and boundless primeval waters, which constituted something like primeval material. Out of these waters, upon God's Word, there emerged heavens and the Earth. Italian translations are usually accurate as far as the original text is concerned: "Sappi che Dio non li fece da cose preesistenti" [6, p. 851 ], which means "Understand that god had not created them out of the things that had existed before". According to Georges Auzou [5], a Biblical scholar, those words must be understood in a context of the then books of the Bible and we must stick to the Biblical tradition. In his opinion, St. Jerome originated a new tradition of nonBiblical character. Let us quote here an excerpt from the Auzou's book: "(‌)in the 2nd Book of the Maccabees we can find a text which was overused a lot of times. Let us place this text in its own context. I mean persecutions ordered by Antiochus IV. Seven young men were sentenced to torture because of their disobedience to royal decree. Their mother boosts their courage. She addresses the last one with the following words: "Please, son, look at the heaven and earth(‌), and notice the fact, that God created them not out of the things that had existed before and that the human race was created in the same way". (The 2nd Book of the Maccabees 7:28) This text is written in Greek. It was disseminated in the West over the centuries in its Latin version; the translator, however, instead of translating exactly the excerpt under discussion, the translator transformed it into the form we can find in the Bible at present: "Notice, that out of nothing created them God". It is the creation "out of nothing", ex nihilo! A new tradition was born which disrespected all other traditions, Biblical one included, disdaining other texts, and imposing against them a new concept of time and matter. The first words referring


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to creation [Genesis: In the beginning God created the heavens and the earth - L.K.] in particular were interpreted in coherence with this tendency, as we shall see, against their real contents. Even if we recognise this error, we still preserve certain conviction: some indefinable ancient reality (waters, according to myths) had existed before the heavens and the earth were created. The text of the 2 nd Book of the Maccabees neither confirms, nor denies it: it only says that the world was not created out of any known elements. It says that "God called into being" non-existent before heavens, the earth, and everything they contain; this does not necessarily mean the rejection of the thesis that some kind of matter had existed before. The case of the existence of the mankind in our text confirms this explanation. The Old Testament [and the New Testament as well, as we shall see later L.K.] will maintain its uniform vision of creation and the "beginnings". The last of the living Biblical authors, who wrote ca 70 years before Christ (a contemporary of a Roman poet and philosopher Lucretius) confessed that God created the world out of "disordered matter"( Wisdom of Solomon 11:7). The concept is rather Platonic than Jewish, it confirms, however, the existence of some ancient matter preceding the divine act of creation". [5, pp. 121-122] The 2nd Book of Maccabees with the text in question was written in the 2nd century B.C., and the Wisdom of Solomon, including the words "Your omnipotent hand, which created the world out of disordered matter"(Wisdom of Solomon 11:7) was created, as we already know, a century later, in the seventies B.C.. The 2 nd Letter of St Peter, including the words: "long ago by God's word the heavens existed and the earth was formed out of water and by water" (2 Peter 3:5) was written in the 2 nd half of the 1st century A.D., i.e. two centuries after the 2nd Book of Maccabees, 7:28 had been written. If we assumed, following St. Jerome's translation of Vulgate, that the world ("the heaven and the earth" according to the 2nd Book of Maccabees, 7:28) was created out of nothing, we would also have to admit, that one hundred, and two hundred years after the Books of Maccabees were written the old concept was restored, that it emerged out of "disordered matter", or - using more concrete terms - "out of water and by water" by the power of God's word.


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3. 2nd Letter of St. Peter, Chapter 3, Verse 5 - closer analysis of the text Let us have a closer look at the words of the 2 Peter: "long ago by God's word the heavens existed and the earth was formed out of water and by water" (2 Peter 3:5), which may be understood as only the earth was formed out of the water and by water. The original text in its Greek construction points both to the heavens and the earth. Rev. F. Gryglewicz, a Biblical expert, confirms it in the following way: "The creation of the world is presented by him [i.e. by the author of the 2 Peter - L.K.] on the basis of the description included in Genesis. 'God's word' is the word which created the whole world. The verbs 'existed' and 'was formed' refer to both elements, i.e. to the heaven and the earth (‌). 'Water' out of which the word of God created the earth is the chaos, which, as Genesis tells, had existed before it was separated into the heavens and the earth. The waters of this chaos, when the Spirit of God was hovering over them, were separated into the water over the expanse and the water under it. Thus the sky beyond the firmament, which - according to the ancient - held the waters, comprises the stars. The waters under were gathered to one place and the dry ground appeared." [7, p. 300] Thus the words "out of water and by water" refer both to the heavens and the earth. And here St. Jerome did a good translation work. 4. Does the text Rom 4,17 mean creation out of nothing? According to the author of the letter to Romans Abraham believed in God who calls into existence the things that do not exist (Rom 4,17). If we interpretate these words in the framework of the doctrine creatio ex nihilo then we can recognise in them such a doctrine. But when we interpretate them in the framework of the biblical tradition then they do not mean necesserly "a creation out of nothing" because God calls into existence the things that do not exist also when he ordered: 'Let the eart put forth vegetations: plants yielding seed, and fruit trees of every kind on earth that bear the seed in it'. And it was so. Here the calling into existence does not mean creatio ex nihilo. We have also to add that Abraham did not believe in creation out of nothing because in his times (19 th century B.C.) nobody believed in such a doctrine. The doctrine creatio ex nihilo


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appeared for the first time in the 1st century B.C. It was held by the neopythagorean thinkers [8, p. vii]. 5. The first sentence of the Bible says nothing about creation out of nothing The text of Genesis 1:1 - 2:4 discussing the creation of the world by God, which constitutes today the beginning of the Bible, and to which refers 2 Peter 3:5, is translated into contemporary languages in the spirit of the 2nd Book of Maccabees 7:28 as understood by Vulgate. This means that the Hebrew term Bereshit is translated as the absolute beginning of everything. This translation, however, is done against the grammatical rules applied while writing the first sentence of the Bible, i.e. "Bereshit bara Elohim et hashshamaim weet haaras" which, according to present translations means "In the beginnings God created heavens and the earth". Appropriate translation uninfluenced by the future conviction that everything was created out of nothing is completely different and does not mention absolute order. What should the translation of the first sentence of the Bible look like then? Although Rev. St. Lach, a Catholic Biblical expert, is a supporter of the later tradition of God creating everything out of nothing and finds this meanings in the first sentence of the Bible, he also notices, however, that that there are some Biblical experts who translate the first sentences of the Holly Script disregarding that tradition. According to the latter ones, this tradition was unknown at the time Genesis was written. This can be substantiated by the lack of an article before the word "Bereshit" and the word "bara" should be pronounced [bero] when we consider the fact, that ancient Hebrew did not use vowels in spelling. "Scholars dispute whether the first word of Genesis, i.e. bereshit is a noun in its active or passive form (‌). N. Ridderboss mentions Ibn Ezra, A. Dillman, and W. Allbright as the followers of the first interpretation (Genesis 1 und 2, OTS 1958, 227). If we accepted this opinion, verse 1 should be treated as side subordinate clause, verse 2 as a non-restrictive clause, and verse 3 would finally contain the main clause. Thus we would obtain the following interpretation of the verses: 'When God started to create (instead of bara the word was pronounced bero) the heaven and the earth, and the earth was formless and empty


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and darkness was over the surface of chaos and the spirit of God was hovering over the waters , God said then: Let there be light.' This interpretation can be supported by the analogous construction of the second Biblical history of creation (cf. Genesis 2:4b) and the Babylonian poem Enuma Elish" [9, p. 182] The correctness of the above translation of the Bible can be confirmed by its further sentences which present how God created the Heaven and the earth by separating vast waters (Genesis 1:6 - 2:4), which have been quoted in the beginning of this paper. Georges Auzou, the Biblical expert who has already been mentioned before [5, pp. 133-135], is convinced that the idea of creation out of nothing is absolutely alien to the text of Genesis 1:1 - 2:4. In the footnotes he quotes other authors who come to similar conclusions of their research: "Famous mediaeval Rabbi Rashi of Troyes (1040-1105) translated these lines in the following way: 'In the beginning of creation of the heaven and the earth', 'in the beginning, when God created' (La commentaire de Rashi sur le Pentateque, vol. 1, Comptoir du livre Keren Hasefer, Paris 1957, p. 4). In our times, having analysed the meaning of reshit in all the texts the word appears in, P. Humbert came to the 'conclusion that in every case when the word bears the temporal meaning, it does not have the meaning of absolute beginning'. [Therefore](…)'the only correct translation is: While God started to create the world… The idea of creation out of nothing is completely alien to the text' (Opuscule d'un hebraiant, Neuchatel 1958, p. 195). The same conclusion is drawn by W. R. Lange in his The Initiation of Creation, in: Vetus Testamentum, Leiden, vol. XIII, No 1, January 1963, pp. 62 - 73: 'There are only two translations based on solid grounds - either First God created, or When God started to create." (p. 72) [5, p. 134-135] Anna Świderkówna is one of the Polish Biblical scholars who claim, that the notion of creation out of nothing is non-existent in Genesis 1:1 2:4. She does not know, however, that the text of the 2 nd Book of Maccabees was wrongly translated, therefore she thinks that the notion of creation out of nothing already exists in here. "God created… Does that mean that He created out of nothing? This question would bear no sense for P, [the priest author of Genesis 1:1 2:4 -LK] as he did not know the notion of nothingness… The words


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speaking clearly about "creation out of nothing" appear in the 2 nd Book of the Maccabees, in the already Hellenistic world of the turn of the 2 nd century (2nd Book of the Maccabees 7:28). [10, p. 49] Let us see then how Rev. Krzysztof Niedaltowski from Gdaùsk presents the contents of the first Biblical sentences: "Bible in the first sentences of Genesis speaks of the vast waters sunken in the darkness in the beginnings of time (‌) God separates the waters of the deep, putting them in order and giving them borderlines. From now on the sea want cross those borders without His prior consent. The act of creation appears in the Bible as getting the sea-chaos in order. This is how further books of Isaiah (51:9) and Job (7:12) present it." [11, p. 57 ] In the excerpt quoted above I have missed the following words on purpose: In the Bible, however, the sea is an ordinary creation. There is no struggle here between God and the waters of chaos. [11, p. 57 ] These words contradict the rest of the text. The creation of the sea in the Bible may be discussed in the context of getting into order the sea-chaos, not in the sense of creation out of nothing, which might be suggested by the words ordinary creation. The words Let there be waters, and there were waters can nowhere be found in the Bible. As for the struggle of God with the waters of chaos, this is in contradiction to the above mentioned text of Isaiah (51:9), which clearly refers to the fight with the monsters of the sea of chaos. The role of ancient waters in various religions is presented by Rev. Niedatowski in the following way: "The most important motif of meaning emerges in religious tales of numerous ancient cultures who treat the sea as the beginnings of all the existence, life, or even man. The waters symbolise general sum of potentiality and they precede every form of existence. The island emerging from among the waves is an image of creation. The ancient set of waters is shapeless and formless. The emergence from them becomes the beginnings of some form. Thus the sea appears to be fons et origo (the source and the beginning) of every existence." [11, p. 56-57]


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6. The basin called 'the sea' symbolised the ancient waters in the Temple of Jerusalem The idea of emergence of everything out of vast and ageless ancient waters was also reflected in the cult of the Temple of Jerusalem. Since the unification of the Canaanite cult of God called El (who had been worshipped by Abraham, Isaac, Jacob, and other ancient Israeli patriarchs) with the cult of God called Yahweh (adopted by Moses via his father in law, Jethro, form Midians and Kenites) there had been placed in the Temple of Jerusalem a large water basin called "the sea" which symbolised the ancient waters. The main stage of the unification of the two cults ended in the times of Solomon when God Yahweh takes over some features of God El, who was believed to have been the creator of the world and to have conquered the monster of ancient waters, Leviatan.[12, p. 126] It was then, when Solomon placed in the Temple the symbol of ancient waters, a basin called "the sea". "The sea" cast out of copper and filled out with water is described in the Bible twice: in 1 st Kings 7:23 7:26, and in 1st Chronicles 4:2 - 4:6. Both descriptions differ between themselves a little. Since the Israel of the then did not have the actual access to the sea, and was not a maritime state, the experts believe that the "sea of copper" in the Temple was a symbol of the vast timeless "ancient sea" well known from Mesopotamian, Egyptian, and other mythologies. Catholic authors do not exclude this meaning of the "copper sea", they use, however, the expressions of 'perhaps' or 'probably'. The Dictionary of Biblical Theology reads: "The Sea" of copper (1 st Kings 7:23 nn) perhaps introduced to the Temple cult the cosmic symbol of the ancient ocean, provided it really did represent this ocean." [13, p. 507] The Practical Biblical Dictionary has the entry: "THE SEA OF BRONZE, or THE SEA. Huge container cast out of bronze containing the holy water placed in the yard of the Solomon's Temple (1st Kings 7:23 - 36:44). Initially probably a symbol of ancient sea as a source of life and fertility, afterwards was used by priests for ablutions (2nd Chronicles 4:6)." [12, p. 762] And here we have the description of the symbol of the ancient sea as presented by the 1st Kings:


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"He [King Solomon - L.K.] made the Sea of cast metal, circular in shape, measuring ten cubits from rim to rim and five cubits high. It took a line of thirty cubits to measure around it. Below the rim, gourds encircled it - ten to a cubit. The gourds were cast in two rows in one piece with the sea. The sea stood on twelve bulls, three facing north, three facing west, three facing south, and three facing east. The Sea rested on top of them, and their hindquarters were toward the centre. It was a handbreadth in thickness, and its rim was like the rim of a cup, like a lily blossom. It held two thousand baths." [1st Kings 7:23 - 7:26] "Bath" used to be a Hebrew measure of liquids approximately equal to 45 litres. Thus the Sea contained approximately 90,000 litres of water. 7. The "ancient sea" in the religions of Mesopotamia, Egypt, and Canaan Our civilisation is rooted in the Mesopotamian civilisation and in its oldest form known by us in this area, i.e. in the Sumerian one. A renowned religious expert, Mircea Elliade describes the first moments of the act of creation according to the Sumerian religion in the following way: "We have never discovered any cosmogonic text in the strict sense of the word so far; certain hints, however, let us reconstruct the most important moments of the act of creation as understood by the Sumerians. Goddess Mummu whose name can be found in the pictogram designating "the ancient sea", where she is displayed as "mother who gave birth to the heaven and the earth", and the one who in the beginning gave life to gods". The motif of ancient waters understood as the cosmic and divine entity is quite frequent a phenomenon in archaic cosmogonies. In this instance, as well, the water mass is identified with the ancient Mother, who thanks to parthenogenesis gave birth to the first couple, the Heaven (An) and the Earth (Ki), incarnating the male and the female principle. This first pair united up to the absolute unification into hieros gamos [sacred marriage-L.K.]." Out of this marriage Enlil, god of the air was born. Another excerpt teaches us, that Enlil separated his parents: god An raised the sky up high, and Enlil took his mother, the Earth, with him. The cosmogonic topic of separating the heavens and the earth is also widely spread: we can practically find it at various cultural levels. It seems,


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however, that the version written down in the Middle East, and the version from the Mediterranean region [i.e. in the region of the Biblical world L.K.] can be derived from the Sumerian tradition." [14, p. 42]. In the 3rd millennium B.C. Semites settled down in the central Mesopotamia; they are also called the Akkadians, or - more generally - the Babylonians. They were to some large extent the inheritors of the Sumerian civilisation, and they took over the Sumerian cosmogony. They presented it, however, in their own way in a more detailed manner. The ultimate source of everything were the vast and ageless ancient waters. In the ritual Babylonian song, some parts of which managed to survive, we can read: "The whole country was the sea. Everything was under the sea depths (‌) and Marduk lived among the ocean‌ Marduk decorated the surface of the waters with reed. He created the particles of the earth and covered the plait with them, so that gods would live in an enjoyable place. He created mankind; he did that together with his spouse, Aruru. He made the human sperm. The farm animals are also his creation; he created Tigris and Euphrates, and assigned their place to them; the herbs, the rushes, the reed - he made them; the cow and the calf, the ewe and its baby‌" [5, p. 43] Marduk, the creator mentioned in the song quoted above, belongs to the younger generation of gods. He overthrew the ancient old gods, and took the power over. Since, according to the then ideas, creation was a constantly contemporary act [5, p. 50], by taking the power over he was actually creating everything by his active presence. He had to combat the old ancient gods and the water monsters, including the idol of salty waters, Tiamat. Ancient waters that had existed before the heavens and the earth emerged were divided into freas and fertile waters called Apsu, and the abyss of salty and stormy waters called Tiamat. Thus while creating, Marduk had to lead a battle with Tiamat. During the combat he made use of destructive winds, typhoons, and stroms. Following the discovered texts, Biblical expert Auzou presents it in the following way: "Terrible strife begins: in the open jaws of the furious Tiamat Marduk casts his "Malicious Wind"; the distended body of the monster is pierced with an arrow, destructed, torn into pieces while other monsters are loosing the battle and are captured prisoners." [5, p. 48]


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I quoted this excerpt, because later Yahweh, God of the Hebrew would be presented in the Old Testament as the God fighting with the sea monsters like Leviatan, Rachab and generally called "Sea Dragon". Also according to the Egyptian mythology everything emerged out of primeval waters: it was believed that the universe emerged out of the ancient ocean. The Sun which was worshipped in Egypt as the most important god-creator "emerges every day out of the water which is ageless, ancient, and vast" [5, p. 28]. Primeval ocean is called Nun, and god-creator is called either Atum, or Re. In one of the oldest Egyptian cosmogonic books, "The Book of the Dead", we can read: "I am Atum, I was alone in Nun. I was Re, when he shows as the first. (‌) What is he? It is just him - great god, who became out of himself, he is Nun - father of gods." [5, p. 29] Canaan (today's Palestine and Syria) was situated between Mesopotamia and Egypt. "A short time before 3,000 year B.C. a new civilisation, a civilisation of the Early Bronze Epoch emerges in Palestine this denotes the beginnings of the settled life of the Semites. We may call them the Kannanites after the Bible . We can reconstruct the Kannanite mythology on the basis of the Ugarit excavations (ca 20,000 inscripted clay tablets from the 14th century B.C.) and the excavations of Ebla (also ca. 20,000 tablets from ca. 2,300 year B.C.). Also the Canaan mythology mentions "primeval waters" and the strife between the idol and the sea monster. The highest god called El used to live "at the source of two water abysses" and was called the "creator of creatures". Asherah (Asherot), the mother of gods and the goddess of the seas, was born out of himself. El begot 70 sons and several daughters with her. Baal, the god called "He who Rides on the Clouds", the god of Storm, the Lord of Rain and Dew, thus the Lord of Fertility, was the most active of his sons. According to some texts, he was a son of Dagan, El's brother. As we can see, El the Creator, like Marduk, was not a member of the first generation of gods: he defeated his father Eliun, and took over his power and creative activity. In the Canaan mythology Baal is fighting the sea idol Jam. "As it seems, this mythical tale is Siro-Phoenician or Canaan version of the fight of Marduk, the creator of the human world, against


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Tiamat, the monster representing the oceanic forces of chaos and destruction". [5, p. 52] El is the God worshipped by Abraham, the Patriarch of the Israeli nation, when he arrived to the land of Canaan. His sons and grandsons bear the names with "El" roots: Ishma-El, Issac-El, Jacob-El, (Isra-El), etc. After the unification of the El's and Yahweh's cults which was completed in the times of King Solomon, who introduced to the Temple cult the "copper sea" as the symbol of primeval waters, and after the cult of God became monotheistic, taking in the Israeli nation the form of the cult of Yahweh in the times of Josiah, and after the Babylonian bondage (the 7 th century B.C.), Yahweh is often presented as the one, who shaping the world by separating the waters had to fight the sea monsters Leviatan, Rahab, and the sea dragon as such. Let us see a couple of texts that confirm this theory: "Awake, awake! Clothe yourself with strength, o Arm of Yahweh; awake, as in the days gone by, as in generations of old. Was it not you who cut Rahab to pieces, who pierced that Dragon through? Was it not you, who dried up the sea, the waters of the great deep(…)?" (Isaiah 51:9 51:10) "It was you who split open the sea by your power; you broke the heads of the dragons in the waters; It was you who crushed the heads of Leviathan(…)" (Psalm 74:13 - 74:14) "O Yahweh, God Almighty, who is like you? You are mighty, o Yahweh (…) You rule over the surging sea, when its waves mount up, you still them. You crushed Rahab like one of the slain; with your strong arm you scattered your enemies. The heavens are yours, and yours also the earth." (Psalm 89:9 - 89:12) The Bible never says that God created the water or the waters. He only divides them into upper, lower, and the ones surrounding the earth. When the Holy Scripture says about creating the sea, it means the separation of the already existing waters: "And then Elohim said, "Let there be expanse between the waters to separate water from water. So Elohim made the expanse and separated the


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water under the expanse from the water above it. Elohim called the expanse 'sky'." (Genesis 1:6) "And Elohim said: "Let the water under the sky be gathered to one place, and let dry ground appear." Elohim called the dry ground 'land' and the gathered waters he called 'seas'." (Genesis 1:9 - 1:10) The excerpts quoted above prove once again that the Bible does not recognise the notion of creation out of nothing and that the first chapter of Genesis does not contain such an idea. Werner Steinmann, a Biblical expert, writes about this chapter: "While attempting to explain [this chapter - L.K.] we must consider the following aspect: first of all the issue is to contrast 'chaos vs. world in order', and not 'nothingness vs. creation'. The appropriate task of the first description of creation is to show the power of God, which brings out what is created out of the state of chaos." [15, p. 18] Vast water chaos is called in Genesis 1:1 tohuwabohu, and the Spirit of God which was hovering over the waters - Ruach Elohim. Conclusions In Mesopotamian and Egyptian mythologies, in which the Bible is rooted, the ancient Existence and Absolute is displayed as the primeval waters, as the endless ancient sea or ocean, personified as the ancient Mother Mammu or ancient Father Nun. God and gods emerge from those ancient waters, and they are always the personifications of the forces of Nature. Gods-creators Marduk, El, Elochim, and Yahweh are usually not the representatives of the first generation of gods, who came into power by taking the creative function from the first-generation gods. The Biblical bara - to create - although assigned to God, never means to create out of nothing. After the cult of El, Elohim, and Yahweh became monotheistic (the th 7 century B.C.) there still existed, besides the eternal primeval waters, the ancient God El Olam. In other words, we deal in the Bible with two primeval beings: primeval waters or shapeless matter, and the ageless ElElochim-Yahweh.


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It was not until the middle of the 2 nd century A.D. that God gradually turned in the ideas of some patristic apologists into the exclusive Absolute who creates everything out of nothing. Although the Biblical substantiation of this doctrine is related to a certain error in translation, it must be noted, however, that the teaching about the creation of the Universe out of nothing had somehow been prepared, when the cult of El became monotheistic, turned into the worship of Yahweh, and became universal. In the 7th century A.D., Biblical God becomes the God of all the nations. The Apostle Paul of Tarsus presents his panentheism: Everything is in God (pan en Theos). "In Him we live, in Him we move." After the erroneous translation of the Book of the Maccabees, the teaching on creation out of nothing rapidly developed. This happened so, because the notion had developed earlier within the concept of the universal, eternal, and omnipotent Only God, which we may contribute to the prophets of the Babylonian bondage period and the New Testament. The concept was developed and preached by Saint Augustine, a little younger than Saint Jerome. The Catholics are obliged to believe in creation of the world out of nothing by the Catechism of the Catholic Church. The authors of the Catechism, however, seem to be absolutely unaware of the erroneous translation of the 2nd Book of the Maccabees 7:28 and present the teaching on the creation out of nothing as the truth revealed by God in the Holy Scripture. This paper aimed at presenting the evolution of the concept of creation, and it was not to enter into a dispute on which stage of its development the concept became correct or true. This paper was also not intended to solve the dispute which of Gods-Creators was the true God: was it the God who in the Bible bears the name of El, Elochim, Yahweh, or perhaps Babylonian Marduk, or Egyptian Atum. Nor does it attempt to answer the question if the world was created or not, and if it was - in what manner. The paper's intention was solely to present a glimpse on the history of the concept of creation; it is just a glimpse and therefore it is full of gaps. This paper aimed at showing that the ideas of creation evolved, therefore they differ among themselves; it also aimed at showing that Catholic authors are more and more aware of the fact (while writing this paper I made use of Catholic literature only). In their opinion, it had to be like that. God while revealing his truth adjusted it to the mentality of people at a given stage of their development. This was simply, in their opinion, God's educational methods. At first, people noticed that everything emerged from waters: amniotic waters appeared first, then a


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human being or some other animals were born; islands and lands were emerging from sea waters; water had a reviving effect with the rainfall. All this was the reason for the belief in everything originating out of primeval waters; it was even believed that gods who were creators of the heaven and the earth were born out of water. At first man could not imagine God without His spouse and His family, therefore it was believed that Marduk, El, or Yahweh must have had their life companions, their sons and their daughters. When people gradually started to become aware of the exclusiveness, eternal nature and omnipotence of God, the concept of Absolute God upon whom everything is dependent in existence was developed. It was then that the concept of creation of everything out of nothing started to grow. As a matter of fact, it is still growing and developing. Saint Thomas Aquinas claimed that God creates by allowing the participation in His own existence. He expressed something like the law of preservation of existence. He claimed that after the act of creation there emerged more beings, not the existence - non plus entis sed plura entia. According to this presentation, the world did not emerge out of some absolute non-existence, but from God, and it exists only due to its participation in God's existence. Therefore when we discuss today the creation out of nothing we mean, that before the act of creation there had existed nothing but God. Thus we might conclude that the human concepts on creation will evolve and nobody can stop the process. And were are bound to accept the evolutionism in the world of the human concepts. NOTES [1] The quotation is taken from The Holy Bible containing the Old and New Testaments (New Revised Standard Version: Catholic Edition), Catholic Bible Press a division of Thomas Nelson Publishers 1991. [2] Grande lessico dell'Antico Testamento, Vol. I (entry: bara), PAIDEIA Editrice, Brescia, 1988. [3] J. S. Synowiec, Na początku, Pradzieje biblijne: Rdz 1, 1-11,9, 2nd edition Bratni Zew, Cracow 1996. [4] John N.D. Kelly, Początki doktryny chrześcijańskiej, Pax, Warsaw 1988 [English original: Early Christian Doctrines, Fifth, revised edition, London 1977].


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[5] Georges Auzou, Na początku Bóg stworzył świat, Pax, Warsaw 1990 [French original Au commencement Dieu crea le monde, L'histoire et la foi, Les Editions du Cerf, 1973]. [6] La Sacra Bibbia, Marietti, 1966. [7] F.Gryglewicz, Listy Katolickie, Wstęp-Przeklad z oryginau, Komentarz, Pallotinum, Poznań 1957. [8] G. May, Creatio ex nihilo, The Doctrin of 'Creation out of Nothing' in Early Christian Thought, T&T CLARK, Edinburgh 1994. [9] S. Lach, Księga Rodzaju, Wstęp-Przeklad z oryginalu - Komentarz, Pallotinum, Poznań 1962. [10] A. Świderkówna, Rozmowy o Biblii, PWN Warsaw 1994. [11] K. Niedaltowski, Żywio morza w religiach świata, in: Universitas Gedanensis, GIT, NR 13, 1995. [12] Praktyczny Slownik biblijny [Practical Biblical Dictionary], red. A. Grabner Haider, Pax-Pallotinum, Warsaw !994. [13] Slownik Teologii Biblijnej, red. Xavier Leon-Dufour, Pallotinum, Warsaw 1973. [14] Mircea Elliade, Historia wierzeń i idei religijnych, Vol 1, Pax, Warsaw 1988. [15] W. Steinmann, ABC Starego Testamentu, Wyd. Kerygma, Lublin 1992.

----Ludwik Kostro, professor of the University of Gdañsk in Poland, between 1963-1970, studied physics and philosophy in Rome (at the University "La Sapienza" and at Gregorian University). In 1975 he joined the University of Gdañsk until 1994 as a Lecturer and Assistant Professor in the Physics Institute and from 1994 onward as University Professor in the Institute of Philosophy and Sociology, of which he served as Director. He is presently Director of the Department for Logic, Methodology and Philosophy of Science at the same University. Since 1988 he has been a member of the Editorial Board of the Insternational Jourmal Physics Essays (Ottawa, Canada). He is the member of the board of the Interdivisional Group of History of Physics at the European Society of Physics, and serves on the Scientific Committee of the International Conferences Physical Interpretations of Relativity Theory, held every two years at the Imperial


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College in London and sponsored by the British Society for Philosophy of Science. Since 1986 he has been Secretary of the Department of Mathematics, Physics and Chemistry at the Gdañsk Scientific Society. He is the author of 79 scientific papers in physics and philosophy, as well as several books, e.g., Eros, Sex and Abortion in the Critical Catholicism (Scientia, 1999), and Einstein and the Ether (Apeiron, 2000. He has been awarded a number of major prizes. The French Goverment decorated him with the Les Palmes Accadémiques medal. University of Gdañsk, Department for Logic, Methodology, and Philosophy of Science, 5 Bielañska Street, 80-851 Gdañsk, Poland e-mail: fizlk@univ.gda.pl

Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale (1536/1541) Roma, Musei Vaticani, Cappella Sistina Particolare: La creazione dell'uomo


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DALLA PARTE DEL TORTO: TULLY & FISHER VS HUBBLE Uno studio critico sul successo della cosmologia del Big-Bang (Alberto Bolognesi) Allan Sandage è l'astronomo che ha ereditato "gli orizzonti che si allontanano" di Hubble: è il depositario dell'universo in espansione e a buon diritto viene soprannominato Mister Cosmology. L'unica volta che mi riuscì di parlargli, molti anni fa, mi disse: "Lei è uno strano dilettante. Mi aspettavo una domanda sui marziani e invece mi viene fuori con gli effetti di selezione". Col passare del tempo ho continuato a peggiorare. Di recente mi è capitato di assistere a una conferenza di cosmologia allestita da teorici di fresca nomina e da professori di scuola che ammettevano di non aver mai fatto osservazioni al telescopio. Uno di essi inaugurò così il suo intervento sui problemi della cosmologia: "Cosa fa un astronomo quando intende determinare la distanza di una galassia lontana? Beh, la fotografa. Poi va a misurare la luminosità apparente sulla lastra, la moltiplica per pi greco al quadrato e trova la luminosità assoluta. Nota la luminosità assoluta, basta rovesciare il tutto sotto radice ed ecco la distanza 1. Poi può effettuare la prova del nove andando a misurare lo spostamento verso il rosso". Un gioco da ragazzi. Ma di lì a poco, un successivo relatore invitò con forza il pubblico "desideroso di approfondire davvero le proprie conoscenze" a rinunciare a qualsiasi concetto di distanza. "Tutte le formule cosmologiche relative alle galassie - soggiunse sprizzando astuzia da tutti i pori - possono essere scritte in termini di redshift e di luminosità senza che vi sia bisogno di far entrare nei calcoli alcuna distanza". "Infatti - sbottai dall'audience - non conosciamo con esattezza neanche una distanza! Che succede se mescoliamo insieme galassie con luminosità molto diverse?". Ricordo che ci fu un attimo di panico, acuito dal fatto che nessuno mi conosceva e che quindi quella frase, come un macigno che si abbatte inaspettatamente sul palcoscenico, sembrò venire giù dal cielo. Provai io stesso una punta di disagio per la mia impulsività, ma poiché nessuno si mise a indicarmi dicendo "è stato lui, è stato lui!", l'oratore poté riprendersi dallo sbandamento e condurre in porto la sua tormentata teorizzazione delle distanze. L'omertà salvò il contestatore e l'eccezione fu cancellata dagli atti.


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Nessun libro di divulgazione si sofferma volentieri sulla debolezza congenita dell'astronomia extragalattica, che non può misurare con due sole dimensioni ciò che senza contare il tempo ne ha almeno tre. E' la storia triste della "distanza secondo luminosità" che assume tinte drammatiche in cosmologia: alle frontiere del visibile si rivelano solo gli oggetti più brillanti e si è indotti facilmente a scambiare un gigante dello sfondo per una galassia nana più vicina o un oggetto debole per un oggetto molto lontano. I filosofi hanno fatto un rispettabile sforzo per impadronirsi delle complessità concettuali della fisica quantistica e delle sue relazioni di incertezza, ma hanno completamente trascurato - o almeno non hanno ponderato a sufficienza - l'indeterminazione "classica" di cui soffre il macrocosmo osservabile che pende come una spada di Damocle sulle extrapolazioni della cosmologia deduttiva. Come oramai sanno anche i profani, il diagramma di Hubble visualizza l'eccitante possibilità che il mondo fisico abbia preso le mosse da un punto e che le galassie continuino a separarsi da quel punto le une dalle altre, e proporzionalmente alle loro distanze, come frammenti di una primordiale esplosione. Certo, si può sempre rappresentare con una velocità radiale uno spostamento spettrale applicando per convenzione la formula Doppler Vr = c*∆λ/λ = cz . Se osserviamo due galassie di diversa luminosità apparente ma con il medesimo spostamento spettrale deduciamo che si trovano alla stessa distanza, mentre se osserviamo due galassie di eguale luminosità apparente ma di diverso spostamento spettrale assumiamo che quella con lo spostamento più alto sia la più lontana, anche nel caso che sia apparentemente la più luminosa. E quando si osservano galassie del medesimo tipo morfologico e della medesima luminosità apparente ma con diverso redshift e in differenti regioni di cielo assumiamo l'esistenza di "espansioni asimmetriche dell'universo …".

Fig. 1 - Il diagramma di Hubble del 1968 secondo Sandage


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Il grafico è dunque fondato sul presupposto che debba esistere sempre una relazione diretta fra la distanza della galassia osservata e lo spostamento verso il rosso che si misura sullo spettrogramma. Viene così annotato il redshift di tutti gli oggetti esaminati in funzione della luminosità apparente (Fig. 1): in ascissa è riportata la magnitudine visuale (corretta), mentre in ordinata vi compare il logaritmo cz dello spostamento verso il rosso, che nell'ipotesi cosmologica rappresenta una velocità Vr di recessione nei confronti dell'osservatore. In prima approssimazione una galassia che giace sulla retta tre volte più lontano fugge tre volte più rapidamente. In diagonale è tracciata la retta teorica che può adattarsi a tutti i modelli di universo quando gli spostamenti verso il rosso non sono elevati. Va anche rammentato che le correzioni apportate alle magnitudini sono riferite a un fondo del cielo che non è mai completamente buio; che è necessario tener conto dell'assorbimento prodotto dalla nostra stessa galassia (A°), e che il redshift interpretato come velocità di allontanamento tende a raccogliere radiazioni sempre più lontane dell'ultravioletto. E' molto evidente che tutte le stime di luminosità e il loro posizionamento sul diagramma dipendono prima di tutto dalla corretta determinazione della magnitudine e della distanza delle galassie vicine, M 31 e M 81, assunte come prototipi di luminosità in base alla loro morfologia. Poi si deve tener conto dell'effetto Doppler prodotto dal moto solare attorno al centro della nostra Galassia e di tutta una serie di incidenze minori (l'accertato movimento rispetto alla media delle stelle più vicine verso il centro galattico, verso la direzione di rotazione e fuori dal piano). Anche lo "spostamento eliocentrico" (il moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole) va eliminato, e poi sarebbe lecito attendersi moti e deviazioni peculiari della Via Lattea in base alle leggi della gravitazione. La conoscenza di tutti questi moti è preliminare a qualsiasi collocazione sul diagramma di Hubble: il valore complessivo - vicino a 300 km. al secondo in una direzione che accidentalmente coincide con la posizione di M 31 - solleva problemi di cinematica all'interno del Gruppo Locale per la nostra Galassia, che qui non esamineremo. Ci limitiamo a ricordare che alla distanza stimata (692 chiloparsec) e con una costante di espansione Ho compresa fra 50 e 100 km. al secondo per megaparsec, M 31 dovrebbe allontanarsi a una velocità oscillante fra i 35 e i 70 km. al secondo, mentre lo spettro che si osserva è esattamente di segno opposto, fortemente orientato nel blu. Se vogliamo trascurare questo "dettaglio" assumendo che l'espansione cosmologica non operi all'interno degli ammassi, cominciamo a disegnare la maestosa galassia in Andromeda in corrispondenza della sua


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magnitudine apparente, in basso, a sinistra del diagramma di Hubble, e poi proseguire posizionando una ad una le compagne del Gruppo Locale lungo la diagonale retta. Non ricorderemo ancora che questa pendenza deve identificare una relazione lineare fra la quantità di redshift di una galassia e la sua distanza spaziale rispetto a noi: se la relazione esiste, ci sarà una concentrazione di tutte queste compagne adiacenti a M 31 sopra la posizione che occupa nel grafico. Per le galassie del Gruppo Locale non abbiamo bisogno di ulteriori calibrazioni: sono gli oggetti meglio conosciuti e più accuratamente esaminati dell'universo. Da molte generazioni gli astronomi sanno bene che appartengono alla "circoscrizione" di M 31. Per annotarli sul diagramma all'inizio della "salita" basta solo controllare i loro spettri. Gli scarti in eccesso o in difetto, i redshift o i blushift, renderanno conto dei loro movimenti peculiari rispetto al baricentro del gruppo stesso. Trattandosi delle galassie "di casa" e della mutua gravitazione che ci tiene tutti insieme, andremo in pratica a misurare un effetto Doppler depurato di qualsiasi incidenza cosmologica. La fig. 2a è una grossolana schematizzazione dell'universo locale e del nostro suburbio: con una facile battuta possiamo dire che "noi siamo lì". Chi non si accontenta può apporre una freccetta in corrispondenza dei punti che delimitano la Via Lattea e indicare anche la posizione della propria nazione o del paesello natale, ma se passiamo alla fig. 2b, che riporta in dettaglio la distribuzione degli spostamenti verso il rosso di tutte le più importanti compagne di M 31, noi compresi (MW), la voglia di scherzare ci passerà subito. I dati relativi a queste galassie sono disponibili da molto tempo. Sono stati controllati e ricontrollati per decenni ma mantengono inalterata la loro spettacolare evidenza. Se mi si perdona il riferimento, fu proprio la pubblicazione di questi dati, venticinque anni fa, a farmi perdere "la fede" nei confronti del redshift cinematico. Prima ancora che Arp e Sulentic scrivessero articoli di fuoco sull'argomento, Gratton e Maffei venivano importunati dal seccatore che state leggendo.


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2a:

2b:

Fig. 2 (a e b) Schematizzazione del Gruppo Locale e galassie adiacenti

Distribuzione degli spostamenti verso il rosso di tutte le pi첫 importanti compagne rispetto alla dominante (pi첫 massiccia) M 31

Tutte le compagne del Gruppo Locale mostrano un sistematico spostamento verso il rosso nei confronti della galassia dominante M 31! Non occorre il dottorato in astronomia per accorgersi dell'assenza di qualsiasi moto in avvicinamento (blushift) che dovremmo pur attenderci almeno da parte di qualche componente in base alla gravitazione: un'aggregazione di galassie che ruota secondo le leggi note attorno ai suoi membri massici dovrebbero apparirci pi첫 o meno equamente ripartita in


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spostamenti verso il rosso e spostamenti verso il blu, perlomeno rispetto alla nostra visuale! Halton Arp ha calcolato che la possibilità statistica di osservare una simile distribuzione delle orbite è una o due su due milioni, e afferma che la fig. 2b rappresenta la prova definitiva dell'esistenza di uno spostamento verso il rosso intrinseco. Possiamo invitare il giovane astrofilo addestrato ormai a tradurre le percentuali di spostamento delle righe spettrali in chilometri al secondo, a collocare sul diagramma di Hubble tutte le compagne note di M 31. Con sua presumibile sorpresa egli vedrà che queste compagne gli si dispongono sì lungo il quadrante inferiore sinistro, ma in un modo che il loro spostamento verso il rosso aumenta all'aumentare della magnitudine apparente. Cioè al diminuire della luminosità, non al crescere della distanza! (fig. 3).

Fig. 3. Diagrammi di Hubble per oggetti del Gruppo Locale (da H. Arp)

"Se non sapessimo niente su questi oggetti - scrive Arp - diremmo che sono meno luminosi di M 31 e più spostati verso il rosso proprio perché rappresentano un gruppo più lontano. Pertanto - conclude - la relazione tra il loro redshift e le loro magnitudini imita semplicemente la legge di Hubble"2. Per fare la rivoluzione non basta cambiare la legge. Se sorvoliamo sulle probabilità milionarie calcolate da Arp, resta pur sempre una miserabile chance (o due) che la distribuzione delle orbite dei compagni di M 31 sia accidentale. Certo non è facile assumere che con tutto l'universo a disposizione il caso abbia potuto colpire proprio qui, nel cortile di casa, ma


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non possiamo ignorare che con l'accettazione del redshift "intrinseco" è in ballo una nuova fisica e un nuovo sistema del mondo. Occorrono dunque altre prove, altre conferme. Per esempio: come si comportano i sistemi di galassie a distanza differenti? La domanda consente una spettacolare riprova, priva di equivoci. La pubblicazione della fig. 4 non è che l'ennesima conferma di una serie ininterrotta di conferme dell'esistenza di redshift "anomali", emersi chiaramente fin dagli anni Sessanta. E' stata ostacolata dai referees delle riviste professionali di mezzo mondo, ma ora anche i lettori di EPISTEME possono esaminarla senza timore di scomuniche. Si riferisce all'altro gruppo di galassie a noi più prossimo, centrato sulla grande spirale M 81 in Ursa Major: e anche qui, come si vede, la prevalenza di spostamenti verso il rosso delle compagne rispetto alla dominante è fuori discussione. Se questa conferma non è abbastanza impressionante, il lettore può consultare l'Astrophysical Journal, 291, p. 88, 1985, dove vengono presi in esame 40 gruppi differenti e 159 compagne, per convincersi che il redshift della galassia più luminosa appare sistematicamente inferiore al redshift medio dei componenti l'ammasso.

Fig. 4. Il gruppo di M 81 e i suoi redshift rispetto alla galassia principale (cortesia di H. Arp)

Impietosamente, questo suona a martello per la proporzionalità del redshift con la distanza. La retta di Hubble non è stata tracciata soltanto per mostrare come dovrebbe apparire la grande spirale M 31 - o la sua "gemella" M 81 - a distanze sempre più grandi: se questa relazione dovesse adattarsi a un solo tipo morfologico di galassie (le spirali Sb, appunto), che ne sarebbe di tutte le altre, delle Sc, delle Sd, delle nane, delle ellittiche,


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delle irregolari? Che ne sarebbe delle loro distanze e del parametro che sostiene tutta la cosmologia? Che ne sarebbe delle loro "velocità"? Al di là dell'ammasso della Vergine le galassie cominciano a diventare macchioline indistinte. Non c'è modo di stabilire oltre un certo limite se ci sono bracci di spirale avvolti o aperti, se si tratta di grandi ellittiche o di galassie nane. Come se non bastasse - lo abbiamo già ricordato - entrano in gioco effetti di selezione che penalizzano gli oggetti poco luminosi e che tendono a mescolare galassie "medie" ai giganti più lontani; si parla in proposito della "distorsione di Malmquist" (dal nome dell'astronomo svedese Gunnar Malmquist che la descrisse), da sempre in agguato sulle estrapolazioni della cosmologia. Ai confini dell'invisibile la sola possibilità è rappresentata dalla determinazione dello spostamento verso il rosso: pochi grani di luce da disperdere ulteriormente, alla ricerca di "righe" da giustapporre a uno spettrogramma di riferimento che ci siano familiari. Se questo spostamento - o anche solo una parte di questo spostamento - non ha a che fare con moti di allontanamento come già ci dimostrano le compagne di M 31 e di M 81, come possiamo affermare che un vago bagliore catturato sulla lastra sia pari a un quarto o a un centesimo di un altro perché recede a una velocità due o dieci volte più grande? Ma se cade il diagramma cade l'espansione, Sandage e ... tutti i filistei. "Un dilettante - mi è stato autorevolmente rimproverato non ha nulla da perdere quando produce dati o ricerche che possono decretare l'interruzione di programmi che promuovono alta tecnologia e lavoro qualificato. E non lo posso negare, ma questo rimprovero non trova riscontri in tutta la storia della fisica. In fisica nessuna impresa può essere "distruttiva". La possibilità di verificare e quindi di poter confutare qualsiasi affermazione scientifica è il requisito che ancora distingue la ragione dalle opinioni: se una teoria non è suscettibile di verifica, di controlli, di critica, o se nessuna evidenza contraria è abbastanza forte da falsificarla, allora non c'è niente al mondo che possa dimostrarla come vera, e i cosmologi possono attingere le loro certezze anche dai fondi di caffè. Se però l'appunto ci è stato mosso per sollecitare altre prove contro "la retta di Hubble", non ci facciamo certo pregare. La possibilità di rincarare la dose ci viene offerta dall'indicatore di distanze proposto negli anni Settanta dagli astronomi Brent Tully e Richard Fisher. Pur limitato alle sole galassie a spirale, si tratta di un metodo entrato prepotentemente


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nella prassi professionale, e costituisce una delle più accreditate alternative alla stima della distanza secondo redshift e luminosità. Tully e Fisher ritengono che la luminosità intrinseca di queste galassie sia proporzionale alla quarta potenza della velocità rotazionale, cioè in pratica che ci sia una correlazione fra la velocità di rotazione di una galassia e la sua luminosità. Quanto più rapidamente ruota una galassia, tanto maggiore dev'essere la quantità di materia che la tiene insieme. Poiché tale velocità è desumibile da osservazioni spettroscopiche (in ottico e in radio), dalla luminosità apparente possiamo risalire a quella assoluta e quindi alla distanza. La possibilità di operare un cruciale confronto fra il redshift e l'indicatore Tully-Fisher (TF) è offerta dal "Revised Shapley-Ames Catalog" di Allan Sandage e Gustave Tamman. Vi sono comprese le 1.246 galassie più luminose del cielo fino alla magnitudine apparente 13, magnitudini apparenti da cui è stato eliminato il moto solare, gli effetti di assorbimento e di inclinazione (A° e Ai ), convertite nel sistema di de Vaucouleurs (T). Rappresentano la più accurata collezione di magnitudini apparenti corrette e di redshift, disponibili in astronomia extragalattica. Effettueremo fra un attimo la comparazione fra la "distanza di redshift" e quella che si ottiene con l'indicatore rotazione-luminosità di Tully e Fisher: ci preme ricordare che la qualità di questo catalogo consente di confrontare anche in funzione delle "classi di luminosità" (I, II, III etc.) il comportamento del redshift su differenti tipi di galassie (Sa, Sb, Sc, ellittiche). E' un altro invito per l'astrofilo rigoroso che ha appena finito di collocare le compagne di M 31 e quelle di M 81 al di là della linea di Hubble, nei territori "eretici" dello spostamento verso il rosso intrinseco. La fig. 5 mostra un eloquente raffronto fra le distribuzioni di redshift per galassie di tipo spirale Sb (quadrante superiore) e galassie di tipo spirale Sc (quadrante inferiore). E' tratta dallo studio di Halton Arp "Differences between Galaxy Types Sb and Sc" (pubblicato da Astrophysics and Space Science, 167, 1990), forse uno dei più fondamentali lavori di tutta l'Astronomia extragalattica. Abbiamo qui la scelta fra due differenti costanti di Hubble (una per tipo morfologico di galassie). Oppure possiamo dire - ma sarebbe il colmo - che questa costante è incostante dal momento che tende a deviare fortemente con la distanza. Avremmo in pratica un flusso di espansione H o che trascina ordinatamente le spirali Sb nello spazio ma che impartisce vistose accelerazioni alle Sc e a tutte le altre ...


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Fig. 5. La relazione di Hubble applicata a galassie a spirale Sb e Sc (cortesia di H. Arp)

Valtonen e Byrd3 hanno tentato di spiegare il mistero degli eccessi di redshift trovati negli ammassi. L'idea è che se i gruppi di galassie osservate sottendono un angolo apprezzabile di cielo, allora osserveremo un volume maggiore alle spalle del gruppo dal più lontano sfondo: ciò può essere facilmente visualizzato dalla fig. 6, che mostra come il cono di vista in direzione di un ammasso è più stretto davanti che dietro.

Fig. 6. Dato che il cono di vista in direzione di un ammasso è più stretto davanti (A) che dietro (B), le galassie dello sfondo dovrebbero contaminare in eccesso il redshift medio che si osserva, per semplice sovrapposizione prospettica.

In questo modo il punto di vista convenzionale ha tentato di spiegare anche gli eccessi sistematici di redshift presenti nelle compagne di M 31 e


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M 81 che abbiamo visto in precedenza, sostenendo che l'effetto è causato dal fatto che particolarmente per il Gruppo Locale noi subiamo la conseguenza di far parte integrante (cioè di trovarci all'interno) di un sistema in espansione. Ma passata l'euforia per il salvataggio del Big Bang, le conseguenze appaiono in tutta la loro drammaticità. Intanto per il Gruppo Locale è evidente che non si può parlare di "contaminazione del fondo": questa, infatti, è esattamente la nostra regione dell'universo, quella delle galassie che assieme alla nostra formano l'aggregazione "di casa". E' l'album di famiglia, siamo solo noi, e dunque non può esserci alcuno sfondo! Inoltre, ciò non giustifica perché le sole Sb riescano a collocarsi correttamente sulla linea di Hubble e apre anzi l'ulteriore interrogativo del perché queste galassie appaiano immuni da "contaminazioni" e da "distorsioni di Malmquist". La catastrofe è tuttavia rappresentata dal fatto che se le velocità delle compagne di M 31 sono reali - come pretende la cosmologia dell'espansione - esse dovrebbero svuotare un volume sferico di raggio approssimativamente pari a 2-3 megaparsec nel tempo abitualmente attribuito all'età dell'universo: insomma, non potrebbero essere più là dove le osserviamo, perché il Gruppo Locale dovrebbe già essersi disperso nello spazio! Ma ci attende adesso la cruciale comparazione della "distanza di redshift" con l'indicatore Tully-Fisher. Questo confronto è decisivo per il modello in espansione a simmetria sferica e per lo stesso Big Bang. Abbiamo già anticipato che il nuovo criterio si basa sulla relazione esistente tra la larghezza della "riga" dell'idrogeno neutro e lo splendore assoluto: è assunta per ipotesi in base a considerazioni di meccanica newtoniana ma è ben documentata dalla radioastronomia per le galassie a spirale più vicine. L'ipotesi è che la dispersione della riga, cioè il suo allargamento intorno al segnale di 21 cm. sia proporzionale alla massa della galassia stessa. Tramite l'effetto Doppler, la differente direzione dei due estremi dei diametro dell'oggetto che ci appaiono l'uno in avvicinamento, l'altro in allontanamento, verrà captata ai due lati della riga: se il radiotelescopio è sintonizzato sulla lunghezza d'onda tipica di 21,106 cm., per esempio, esso rileverà soltanto quegli atomi di idrogeno che non si stanno né avvicinando né allontanando, mentre se viene sintonizzato a 21,105 o a 21,107 cm. identificherà rispettivamente quelli che si stanno avvicinando e quelli che si stanno allontanando dal nostro punto di osservazione. Se non agiscono forze complementari, se cioè la rotazione delle spirali è totalmente


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controllata dalla gravitazione, questa velocità rotazionale e la magnitudine apparente ci forniranno la luminosità assoluta e quindi il modulo di distanza della spirale esaminata. Ci avvarremo ancora del Revised Shapley-Ames Catalog di Sandage e Tamman, invitando il lettore stesso ad un'appassionante riduzione dei dati. Limiteremo al minimo il nostro commento: la costante H è quì fissata in 65 km. al secondo per magaparsec, mentre le tavole sono tratte ancora una volta dallo studio di Arp, "Differences between Galaxy Types Sb and Sc". L'ennesimo saccheggio ha come unica giustificazione il fatto che nessuna rivista scientifica italiana acconsentirebbe alla loro pubblicazione. L'elenco identifica la galassia, il tipo morfologico e la classe di oi luminosità; la magnitudine totale M B ,T , la stima di distanza secondo redshift (dz) e la stima di distanza Tully-Fisher (dTF). In base all'osservato redshift viene anche fornita la deviazione dalla relazione di Hubble, espressa in chilometri al secondo (HR).

Edwin Hubble Discovers the Universe (Credit: Mt. Wilson Archive, Carnegie Institution of Washington)


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Le divergenze sono stupefacenti solo per chi non ha mai dubitato dell'espansione dell'universo. Per alcune galassie le distanze di redshift eccedono quelle ottenute con il metodo Tully-Fisher di 20, 30 e più megaparsec!! Queste tabelle visualizzano nel modo più impietoso la precarietà della relazione che sorregge tutta la cosmologia deduttiva del XX secolo, e restituiscono dignità alle riserve sempre manifestate dallo stesso Hubble sull'origine cinematica dello spostamento verso il rosso. Le galassie che presentano le più elevate discrepanze sono quelle col


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più elevato spostamento verso il rosso: se i redshift esprimessero davvero delle velocità di recessione, il rapporto massa-luminosità dovrebbe variare per il solo fatto di trovarsi a distanze crescenti dall'occhio dell'astronomo! Il commentatore che volesse stemperare lo chock con l'ironia potrebbe rilevare che sul campione esaminato di 125 galassie, 82 hanno dispersioni in eccesso e 43 in difetto. Per le 82 galassie con eccesso di redshift si hanno 60 casi in cui la distanza dz risulta superiore alla dTF ma 22 in cui l'indicatore Tully-Fisher dà distanze più grandi. Per le 43 galassie in cui il redshift è inferiore alle attese "cosmologiche" abbiamo 31 casi in cui la dTF produce distanze superiori, 11 in cui la dTF è lievemente inferiore alla dz e perfino un caso in cui i due metodi coincidono... Un burlone direbbe che le differenze sono troppo forti perché i due metodi siano sbagliati. NOTE 1

Si consideri una grande superficie sferica radiante, col centro che emette radiazione luminosa a ritmo costante. L'energia totale emessa in un secondo è uguale alla superficie della sfera x energia che cade su un centimetro quadrato. Poiché l'area di una superficie sferica è 4 x (raggio)2, segue che: luminosità assoluta = 4 π (distanza)2 x luminosità apparente. 2

H. Arp, Quasars, Redshift and Controversies, 1987.

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Mauri Valtonen, Università di Turku, Finlandia e Gene Byrd, Università di Alabama.

----Alberto Bolognesi è nato a Bologna nel 1944. Astrofilo dal 1966 è autore di numerosi articoli e dei libri Piccola Cosmologia Portatile (Novalis, 1976) e Eppur non si muove! - La controversia sull'Espansione dell'Universo (Studio Stampa, 1994). E' stato membro onorario della Società Astronomica del Pacifico, negli anni 1980-81 e fa parte di quella ristretta schiera di "eretici" che si raccolgono sotto il nome di "Anti-BigBang Minority Band" che annovera fra i suoi esponenti più illustri Fred Hoyle, Halton Arp, Jayant Narlikar, Geoffrey Burbidge. e-mail: "Biblioteca Misano" <biblioteca@hi-net.it>


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[Aggiungiamo al precedente articolo un commento dello stesso autore sulle notizie recentemente apparse con grande clamore sulla stampa aprile 2000 - in ordine alle pretese "foto del Big-Bang" effettuate da parte di un gruppo di ricerca italo-americano. Commento della redazione di Episteme: queste sensazionali "rivelazioni" non sembrano aver troppo impressionato, per fortuna, neppure le persone meno esperte di tale genere di questioni, ma, si sa, la pubblicità è l'anima del "commercio", e ormai certa ricerca è diventata soprattutto ricerca di fondi…] ----"Dio sia lodato! Chi dirà più che c'è qualcosa di impossibile, ormai?" ("La frottola del pallone", E.A. Poe)

FOTOGRAFARE L'INIZIO Quando la qualità dei programmi televisivi ci costringe a spremere il telecomando alla ricerca del canale che non c'è, ci imbattiamo talvolta in frequenze intermedie alle stazioni emittenti. Vediamo allora comparire sullo schermo nugoli di pallini danzanti bianchi e neri che si invorticano senza posa, emettendo un fastidioso e costante ronzio. Meglio che niente. O della faccia di Chuck Norris. Una piccola parte di questa balugine frusciante, che ha ispirato finzioni di ogni genere, storie di fantascienza e fenomeni di poltergeist, è provocata da una radiazione onnipervasiva che angustiava le ricerche di due tecnici della Bell Telephone del New Jersey, impegnati verso la metà degli anni Sessanta nella messa a punto delle prime comunicazioni satellitarie. Dopo vari e reiterati tentativi, Arno Penzias e Robert Wilson si resero conto che non era possibile eliminare quel rumore di fondo: lo attribuirono così a una radiazione di natura ignota nel campo delle microonde, ben livellata in ogni direzione, che si comportava come un materiale posto alla temperatura di 2,7 gradi al di sopra dello zero assoluto. I radiotecnici caratterizzano tipicamente l'intensità di una radiazione in termini di temperatura, confrontando l'intensità a una qualche lunghezza d'onda con l'intensità di una radiazione termica che sarebbe emessa da un corpo nero idealizzato nella stessa banda di lunghezza d'onda. Penzias e Wilson (che avrebbero poi ricevuto il premio Nobel per questo) presentarono i dati di questa misteriosa radiazione al gruppo cosmologico


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di Princeton guidato all'epoca da Robert Dicke, che la salutò senza esitazioni come l'eco di un'esplosione primigenia che avrebbe dato origine a tutto l'universo. Nientemeno. L'idea che l'universo fosse potuto sorgere da un punto esplodente, densissimo e caldissimo, cominciò ad affacciarsi intorno al 1920, quando gli astronomi constatarono uno spostamento nei dettagli spettrali della luce delle galassie che osservavano. In base alla fisica nota il fenomeno avrebbe potuto spiegarsi o con una perdita energetica progressiva della radiazione luminosa nell'attraversamento delle distanze cosmiche, oppure facendo l'ipotesi che quelle galassie si allontanassero radialmente dal nostro punto di osservazione (cioè dalla Terra e quindi dalla nostra stessa galassia) innescando in tal modo un abbassamento di tutte le frequenze elettromagnetiche attraverso il classico effetto Doppler. Si può riassumere sommariamente questo effetto dicendo che una sorgente in avvicinamento aumenta apparentemente le proprie frequenze (e quindi l'energia ad esse associata) mentre le diminuisce se si allontana. La prima ipotesi non era in grado di dire nulla di interessante sullo stato complessivo dell'universo: una perdita energetica dei quanti di luce o un qualunque meccanismo intrinseco in grado di spiegare lo spostamento spettrale delle galassie verso le grandi lunghezze d'onda (redshift) rimandava invariabilmente a un cosmo insondabile nelle sue dimensioni spazio-temporali, che sembrava sfuggirci per gradi. Uno spazio tempo infinito suscita ironie insuperabili quando si tenta di conferire all'eternità un carattere quadridimensionale ... Ma l'alternativa che lo spostamento spettrale potesse riflettere un effetto Doppler verso il rosso della radiazione luminosa (e che quindi le galassie potessero essere animate da moti di allontanamento radiale rispetto alla Terra) dischiudeva la stupefacente possibilità che in un lontano passato tutte le galassie avrebbero potuto trovarsi ammassate le une sulle altre in un impasto primordiale di materia e di radiazione. Apriti cielo! Per i teorici della cosmologia fu come decidere fra Gerione e Naomi Campbell, nonostante che Edwin Hubble, il leggendario osservatore di Monte Wilson, abbia invece ratificato le sue ricerche dichiarando che "i modelli di universo in espansione sono un'interpretazione forzosa dei risultati sperimentali" (Astrophysical Journal, 1936). Ciò è tanto più sorprendente in quanto Hubble viene invariabilmente etichettato come "lo scopritore dell'espansione dell'universo, avvenuta nel 1929", espressione che ha indotto alcuni profani a ritenere che il cosmo abbia cominciato a espandersi a partire dal 1929 ...


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La cosmologia, si sa, è scienza di estrapolazioni. Il fisico George Gamow esaminò nel dettaglio gli aspetti di un'origine esplosiva di tutto l'universo, trovando che l'elio primordiale avrebbe dovuto essersi prodotto a partire da nuclei di idrogeno e neutroni termalizzati dall'esplosione stessa; e fece la previsione che tutto lo spazio cosmico attuale avrebbe dovuto trovarsi immerso in un debole residuo di quel gran botto iniziale. Ma andrebbe anche ricordato che quando il valore della temperatura della radiazione dì Penzias e Wilson venne determinato con precisione da strumenti a bordo di sonde e satelliti artificiali, i calcoli basati sul modello esplosivo (Big Bang) hanno continuato a fornire valori molto lontani e assai più elevati, compresi fra i 30°K e i 10°K; i divulgatori hanno poi sempre sistematicamente ignorato che nello stesso periodo in cui Gamow elaborava i suoi calcoli, Max Born, Erwin Findlay-Freundlich e Walter Nernst proposero meccanismi di interazione fra fotoni predicendo un fondo livellato molto vicino ai 2,7°K della radiazione dì Penzias e Wilson utilizzando la formula della cosiddetta "luce stanca". Senza dubbio una spiegazione molto meno affascinante della "nascita dell'universo", ma molto più vicina almeno quantitativamente ai dati reali. Andrebbe aggiunto che l'espansione dell'universo è stata falsificata da alcune osservazioni: l'astronomo americano Halton Arp - che per questo è stato licenziato da Monte Palomar - ha raccolto un numero impressionante di casi in cui oggetti di differente spostamento spettrale appaiono manifestamente alla stessa distanza. Questi dati sono un colpo alla nuca per la cosmologia della grande esplosione: o gli oggetti di Arp sono tutti accidenti di prospettiva o il Big Bang non c'è mai stato, e allora tanti saluti alla radiazione "fossile" ... L'immenso sforzo che si sta facendo per accreditare un inizio dell'universo rende le interpretazioni alternative del fondo a microonde poco popolari: una delle più interessanti è che sia in connessione con la nebulosa planetaria che ha dato origine al sistema solare. A differenza del Big Bang che è solo ipotizzabile, questo evento si è sicuramente verificato e meriterebbe un'attenzione migliore da parte degli specialisti. Non è chiaro perché l'astrofisica debba sempre dare la precedenza alla cosmologia. Un'altra spiegazione è che noi stiamo semplicemente captando la temperatura dello sfondo cosmico del mezzo extragalattico, mentre il fisico Eric Lerner ha proposto un meccanismo di termalizzazione e redistribuzione della radiazione delle stelle in fotoni di più bassa energia che produrrebbero l'osservata nebbia radio. Il celebre Fred Hoyle, contestatore storico del Big Bang a cui ha dato il nome, sostiene assieme


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all'indiano Chandra Wickramashinge che questo processo di scattering è innescato da aghi ferrosi liberati nello spazio dalle esplosioni delle supernovae. Alcuni fisici quantistici poi, trovano del tutto naturale che il "falso vuoto" cosmico possa essere un eccellente termalizzatore dell'energia dissipata da stelle e galassie, ma per ora hanno formulato le loro istanze con grande circospezione. Lo stesso Arno Penzias intervistato dall'autore di questo articolo a Milano in occasione della manifestazione "10 Nobel per il futuro", manteneva ancora nel 1996 una posizione rigorosamente agnostica sulla natura effettiva di questa radiazione: la sussistenza di questo "fondo" in regioni molto lontane dell'universo è al di là di qualsiasi possibile verifica strumentale. Ho potuto ironizzare sul carattere universale di questa temperatura con il rinomato cosmologo inglese John Barrow al termine di una conferenza da lui tenuta a Misano un paio di anni fa: "Se lei viene a Rimini a prendere sul bagnasciuga la temperatura del mare Adriatico - gli dissi - pensando di rilevare contemporaneamente la temperatura dell'Oceano Pacifico e quella di tutti i mari della Terra, potrei sospettare che abbia preso un colpo di sole. I nostri strumenti di rilevazione – aggiunsi sono vicinissimi alla Terra e lontanissimi dal fondo dell'universo!". La riposta fu un garbato sorriso. C'è una poesiola di Giuseppe Basini, astrofisico e poeta, che sintetizza molto bene il problema di fondo di tutta la cosmologia: non è un gran che ma val la pena di memorizzarla. "Come è nato l'universo? Ed è poi davvero nato? Od oppure pur cambiando esistente è sempre stato?". Lo scorso mese di aprile i giornali di mezzo mondo hanno riportato in prima pagina una "foto del big bang". Nessun astronomo si è affrettato a precisare che non si tratta affatto di una fotografia ma di una mappa che visualizza su carta le infinitesime variazioni di temperatura intorno al valore di 2,7°K della radiazione di Penzias e Wilson, rilevate da un pallone sonda sui cieli dell'Antartide. I divulgatori l'hanno descritta come "l'immagine della palla di fuoco primordiale in cui si troverebbero avvolte le prime galassie in formazione", "poco dopo il disaccoppiamento della radiazione dalla materia - come ha precisato sapientemente Margherita Hack – all'incirca un milione di anni dopo il Big Bang". Insomma: è la sindone della Creazione, la reliquia del "fiat lux". In un mondo in cui i figli dei falegnami risorgono e i pastorelli prevedono il futuro, anche gli astro fisici atei non vogliono essere da meno. "Le zone chiare - ha dichiarato uno dei responsabili dell'impresa, l'astronomo italiano Paolo de Bernardis - rappresentano gli addensamenti di materia da cui nasceranno poi le galassie che vediamo in cielo. L'intensa


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luce sprigionata dalla primordiale sfera infuocata ha viaggiato nello spazio per 12 miliardi di anni, trasformandosi in una debole radiazione a microonde che il nostro strumento ha raccolto". Bingo, è la faccia di Dio, abbiamo fotografato l'inizio. -----

Abbe Georges Lemaître The "Big Bang" theorist who produced a revolutionary space theory Abbe Georges Lemaître (1984-1966) was a Belgian astronomer. Lemaître was originally a priest and his interest in astronomy stemmed from his studies about creation, which in turn led him to propose the Big Bang theory. Lemaître studied astrophysics at Cambridge University and the Massachusetts Institute of Technology. He graduated in 1927 and returned to Belgium and taught at Reubens University. He produced the progressive space theory in 1933, which was the first to touch on the Big Bang belief that the universe was created by a massive explosion. Rather than considering simple expansion of the universe, Lemaître was successful in his assumption that the expansion was started by something Lemaître's studies into the beginning of the universe were motivated by the belief that something had to have started it. He first expounded his theory in 1931. Lemaître said that the universe started with one simple particle. This "space particle" was the first object in existence. When radioactive elements mixed with the particle they started a chain reaction that forced the immediate and rapid expansion of the Universe and also created life. Furthermore, as repulsion forces came into effect, expansion became dominant and from that time (about 9 billion years ago), galaxies began to separate. The important point of Lemaître's theory is not so much the expansion of the universe, but the assumption that something actually started it. One can say that it was this assumption that gave birth to the "Big Bang" theory. [From: http://spaceboy.nasda.go.jp/note/Kagaku/E/kag111_remaitre_e.html]


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I FONDAMENTI ASSIOMATICI DELLE TEORIE FISICHE (Fabio Cardone) Indice Introduzione Definizioni Assioma metodologico Prima teoria: la Meccanica Seconda teoria: la Relatività Ristretta Terza teoria: la Relatività Generale Quarta teoria: la Meccanica Quantistica Meccanica Quantistica Relativistica Gli assiomi fondamentali Introduzione Tutti i fondamenti assiomatici delle teorie fisiche hanno una genesi induttiva ed un valore deduttivo a posteriori, se non altro per evidenza storica. La sperimentazione fornisce le informazioni alla induzione, questa è la fisica sperimentale. L'induzione fornisce gli elementi alla deduzione, questa è la fenomenologia in cui si mette ordine nei fenomeni noti. La deduzione fornisce predizioni suscettibili di sperimentazione, questa è la fisica teorica. Le teorie fisiche dalle quali si ottengono predizioni sino ad oggi verificate sono tre e vengono elencate in corrispondenza alle interazioni a cui si possono applicare. TEORIA FISICA

INTERAZIONE

Meccanica

Gravità nel limite minkowskiano

Relatività Ristretta

Elettricità senza energia quantizzata


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Relatività Generale

Gravità senza energia quantizzata

Meccanica Quantistica

Elettricità con energia quantizzata

Definizioni Si procede ora a dare le definizioni dei concetti che verranno usati limitatamente al loro significato in fisica. Assioma : una qualsiasi assunzione su cui si basa una teoria matematica come ad esempio la geometria o i numeri reali, è altrimenti noto come postulato, pertanto assioma e postulato saranno usati come sinonimi. Fisica Teorica: la descrizione dei fenomeni naturali in forma matematica. Teoria: in fisica, un tentativo di spiegare una certa classe di fenomeni come conseguenze necessarie di altri fenomeni considerati come più primitivi e meno bisognosi di spiegazione. Principio: una legge scientifica che è altamente generale o fondamentale e da cui altre leggi sono derivate. E' dubbio se i principi in fisica possano essere considerati postulati, si pone quindi il problema di fronte ad un principio fisico se inserirlo tra i postulati di una teoria. Assioma metodologico 1 - Tutto ciò che è razionale non sempre è reale. 2 - Ordo et connectio rerum idem non est quam ordo et connectio idearum. 3 - La logica della natura non è logica umana. Prima teoria: la Meccanica La Meccanica può essere fondata su base assiomatica utilizzando il principio di minima azione di Maupertuis, la conservazione dell'energia totale intesa secondo Hamilton ed il principio di relatività di Galilei,


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ovvero come è stato mostrato compiutamente da Galletto essa è la teoria della interazione gravitazionale nel limite minkowskiano o di spazio piatto. Tuttavia si preferisce illustrare una fondazione assiomatica della Meccanica basata su tre principi i quali in una visione a posteriori si applicano compiutamente a corpi con massa costante diversa da zero. Negli enunciati si intende per moto naturale quello soggetto a forze conservative, ossia gravità ed elettricità, per sistemi fisici adiabatici, ossia che non scambiano energia con l'osservatore. 1 - Principio di Hamilton. Nei moti naturali con uguali punti di partenza ed arrivo nello spazio considerati a tempi sincroni, cioè uguali, l'energia totale si conserva. Si noti che l'affermazione "a tempi uguali" è fondata poiché nelle trasformazioni di Galilei-Newton per la coordinata temporale si ha t = t'. 2 - Principio di Maupertuis-Hoelder o dell'azione stazionaria. Nei moti naturali isoenergetici con uguali istanti di partenza ed arrivo nel tempo considerati a tempi asincroni, cioè diversi, il prodotto dell'energia per il tempo, detto azione, si conserva. 3 - Principio di minima azione o di Eulero. Se il moto naturale è adiabatico il prodotto dell'energia per il tempo, l'azione, ha sempre il minimo valore possibile. E' opportuna qui una digressione, sul terzo principio si può innestare l'ipotesi quantistica di Planck e Sommerfeld ed indicare che tale valore minimo è sempre un multiplo intero di una quantità costante h per qualsiasi sistema fisico. Sempre sfruttando una visione a posteriori, non storica, per corpi privi di massa a riposo si può ben estendere il fondamento assiomatico della Meccanica al principio del tempo minimo o di Fermat: il moto naturale della luce tra due punti nello spazio è tale che l'intervallo di tempo corrispondente ha sempre il minimo valore possibile. Questo principio è alla base della identificazione dell'Ottica Geometrica con la Meccanica corpuscolare i cui fondamenti sono stati prima enunciati.


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Seconda teoria: la Relatività Ristretta La Relatività Ristretta ha di fatto soppiantato la Meccanica conglobandola come suo limite come verrà esposto in seguito. Oltre alla sua fondazione assiomatica storica basata sui due postulati fenomenologici, è possibile dare una enunciazione assiomatica non fenomenologica della Relatività Ristretta basata sulla equivalenza dei sistemi inerziali, storicamente definito principio, e sulla covarianza (ossia le leggi della fisica hanno la stessa forma matematica in tutti i sistemi inerziali). Si presenta qui la struttura a tre assiomi come desunta da Mignani e Recami. 1° Assioma - Proprietà dello spazio-tempo. Lo spazio ed il tempo sono omogenei e lo spazio è isotropo. 2° Assioma - Principio di Relatività. Tutte le leggi fisiche sono covarianti quando si passa ad osservarle da un sistema inerziale ad un sistema in movimento a velocità costante rispetto ad esso. 3°Assioma - Principio di Reinterpretazione. Il nesso di causalità è realizzato da segnali fisici che sono effettivamente trasportati da oggetti aventi solamente energia positiva finita. Questa formulazione assiomatica esalta ancora di più le contraddizioni tra la Relatività Ristretta e la Meccanica Quantistica non relativistica che, a causa della sua equazione fondamentale di Schroedinger, viola tranquillamente il 1° e 2° assioma; come se non bastasse, la Meccanica Quantistica Relativistica violerebbe il 3° se non vi fossero l'evidenza sperimentale dell'antimateria secondo Dirac e la tecnica della rinormalizzazione secondo Feynman. La conseguenza fondamentale di questa formulazione a tre assiomi è che esiste un invariante u avente le dimensioni fisiche di una velocità al quadrato e valore finito il quale però va identificato sperimentalmente, da ciò discende il principio di corrispondenza secondo cui se l'invariante assume un valore infinito si ottiene la Meccanica come conseguenza della


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Relatività Ristretta. E' interessante notare qui che anche la Meccanica Quantistica ha un suo proprio principio di corrispondenza con la Meccanica. La conseguenza dell'esistenza di un invariante è l'introduzione nelle teorie fisiche del concetto di invarianza ovvero di simmetria. Infatti ad ogni invariante si può abbinare una simmetria la quale diviene sinonimo di invarianza. Si indica con simmetria la proprietà di una quantità o legge fisica di rimanere inalterata per effetto di certe trasformazioni od operazioni. Ne sono esempi la massa inerziale, la carica elettrica elementare, il teorema CPT coniugazione di carica (o inversione del segno della carica), coniugazione della parità (o riflessione spaziale), inversione temporale (o riflessione temporale). Mentre si indica con principio di invarianza o legge di simmetria qualsiasi principio per cui una quantità o legge fisica ha invarianza sotto certe trasformazioni, per cui è invalso l'uso di usare il nome di tali trasformazioni per indicare la simmetria, Ne sono esempi le trasformazioni di Galilei, le trasformazioni di Lorentz. Non sempre una simmetria corrisponde ad oggetti reali, esempio ne siano i quarks. Terza teoria: la Relatività Generale Anche la Relatività Generale ha una sua agile fondazione assiomatica a tre assiomi ma di natura diversa dalla genesi di quelli della Meccanica e della Relatività Ristretta che è inizialmente fenomenologica ed in seguito di tipo più propriamente logico. Si potrebbe dire, con Einstein, che gli assiomi della Relatività Generale più che soddisfare una necessità fenomenologica vanno incontro ad un gusto estetico della logica. 1° Assioma - Principio di Equivalenza. Gli effetti locali della gravità sono indistinguibili da quelli di un sistema di riferimento non inerziale. 2° Assioma - Principio di Covarianza. Le leggi della fisica hanno la stessa forma matematica in tutti i sistemi di coordinate curvilinei concepibili.


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3° Assioma - Principio di Invarianza. Le leggi del moto sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento, siano essi a velocità variabile o a velocità non variabile. Si vede facilmente nel 3° Assioma il ruolo cruciale dell'invarianza introdotta come conseguenza nella Relatività Ristretta, così come il gusto logico-estetico nel 1° e 2° Assioma, specie il 1° che eleva un fatto ritenuto accidentale in Meccanica al livello di Assioma fondamentale; d'altra parte il 3° continua a garantire la validità, mutatis mutandis, della Meccanica anche in questo nuovo ambito. La conseguenza fondamentale di questa fondazione assiomatica è il principio di solidarietà, che viene illustrato qui secondo Geymonat, e la conseguente negazione cartesiana del vuoto fisico da parte di Einstein. Lo spazio-tempo non possiede ovunque la medesima struttura geometrica indipendente dal campo di interazioni ivi esistente (localmente), sono le masse e le energie ad incurvare (deformare) variamente lo spazio-tempo, stabilendo una solidarietà fra i fenomeni e lo spazio-tempo in cui essi si svolgono. Invece la Meccanica, la Relatività Ristretta e la Meccanica Quantistica attribuiscono una esistenza autonoma allo spazio-tempo. Questa ultima idea, secondo l'Einstein, può essere "drasticamente espressa in questo modo: se la materia dovesse scomparire, rimarrebbero ancora spazio e tempo, come una specie di palcoscenico (indeformabile) per gli eventi fisici". La Relatività Generale sostiene invece che lo spazio-tempo non ha un'esistenza separata da ciò che lo riempie, ossia che non esiste uno spazio-tempo senza campo. Einstein ricollega esplicitamente la sua concezione a quella di Cartesio per il quale lo spazio, identificandosi con l'estensione, non può esistere senza corpi. Al riguardo Einstein sostenne: "Cartesio non era dunque così lontano dal vero, quando credeva di dover escludere l'esistenza di uno spazio vuoto. La sua concezione appare assurda, finché la realtà fisica viene vista esclusivamente nei corpi ponderabili. Solo l'idea del campo come rappresentante la realtà, in combinazione con il principio generale di relatività (il quale stabilisce l'invarianza delle leggi fisiche di fronte ad ogni cambiamento delle variabili spazio-temporali che lascia invariante il quadrato dell'intervallo infinitesimo spazio-temporale di un fotone od onda elettromagnetica, detto ds2), riesce a rivelare il vero nocciolo dell'idea di Cartesio: non esiste spazio vuoto di campo d'interazione".


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Il concetto di campo compare per la prima volta nella Relatività Generale conglobando e soppiantando al tempo stesso la questione dell'azione a distanza o attraverso un mezzo materiale o semi immateriale, esso sarà mutuato anche dalla Meccanica Quantistica Relativistica, ma era e continua ad essere un concetto che non è ancora oggi possibile porre in forma assiomatica o far discendere da assiomi, lo si può solo descrivere matematicamente mediante la sua azione sui corpi. Quarta teoria: la Meccanica Quantistica La Meccanica Quantistica trova il suo fondamento fenomenologico nel concetto di dualità espresso da De Broglie, la materia e la radiazione elettrica mostrano fenomeni in cui si comportano come onde ed altri in cui si comportano come corpi. A questo punto è bene dare in breve le definizioni di materia e di radiazione elettrica a livello elementare basate sulle loro proprietà. Materia: ha carica (elettrica), ha massa anche a velocità nulla, ha velocità minore di quella della radiazione elettrica. Ovviamente si intende per materia quella costituita dai corpi elementari stabili entro i limiti noti. Radiazione elettrica: non ha carica (elettrica), non ha massa a velocità nulla, ha sempre la stessa velocità, quella della radiazione elettrica, tale velocità viene identificata con l'invariante della Relatività Ristretta u . Il fondamento metodologico della Meccanica Quantistica ci viene fornito dalla cosiddetta definizione operativa secondo Heisenberg la quale potrebbe giustamente sembrare una evoluzione della definizione operativa delle grandezze fisiche data da Thompson nel 19° secolo: "le grandezze fisiche vengono definite mediante le operazioni con cui sono misurate quantitativamente". Definizione Operativa di Heisenberg: Ogni concetto della fisica deve poter essere definito mediante una serie di operazioni fisiche almeno concettualmente possibili, viene meno la possibilità di rappresentare gli oggetti atomici (e subatomici) mediante un modello; la rappresentazione dei fenomeni fisici è astratta essa avviene solo mediante enti matematici, si


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devono quindi collegare tra di loro le sole grandezze fisiche osservabili senza l'uso di grandezze ausiliarie. Partendo da quest'ultima parte della definizione operativa, Heisenberg introdusse come enti matematici le tabelle di numeri delle misure ovvero le matrici e ne ebbe come conseguenza una matematica non commutativa, l'algebra delle matrici appunto. Finora abbiamo visto le prescrizioni a cui storicamente si è cercato di adeguare gli assiomi della Meccanica Quantistica, ma se il quadro metodologico è completo quello fenomenologico non termina con il concetto di dualità, bensì prosegue con il principio di indeterminazione di Heisenberg, il quale divide con esso la proprietà di mera constatazione fenomenologica. Del principio di indeterminazione viene qui data una esposizione secondo Caldirola: è impossibile conoscere simultaneamente (e ciò nel suo senso letterale è in contrasto con la Relatività Ristretta che impedisce la simultaneità), attraverso una determinazione sperimentale, due grandezze coniugate nel senso della Meccanica (analitica), quali ad esempio la posizione e la quantità di moto di un ente fisico con una accuratezza grande quanto si voglia. Tale principio ha avuto una funzione storica fondamentale nell'associare al formalismo matematico della Meccanica Quantistica, secondo la definizione operativa di Heisenberg, un'interpretazione fisica capace di conciliare, anche intuitivamente, la dualità onda-corpo. Su tale principio si poggia, in ultima analisi, l'interpretazione probabilistica di Born dell'equazione di Schroedinger. Tuttavia nella formulazione assiomatica della Meccanica Quantistica non si ricorre esplicitamente al principio di indeterminazione. Infatti si può dimostrare come le relazioni di Heisenberg possono essere dedotte in modo generale dalle proprietà degli operatori che nella Meccanica Quantistica risultano associati alle grandezze osservabili. A questo punto sorge spontanea la congettura se il principio di indeterminazione non sia un'altra forma equivalente del principio di inaccessibilità di Caratheodory, il quale altro non è che una espressione della seconda legge della termodinamica: in prossimità di qualsiasi stato di equilibrio di un sistema ci sono stati che non sono accessibili da un processo adiabatico reversibile od irreversibile. Nel contesto di tale congettura il sistema fisico osservato e l'osservatore sono un unico sistema termodinamico, quindi gli scambi di energia


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avvengono adiabaticamente ed in questo senso ricadono nell'inaccessibilità poiché sistema fisico ed osservatore sono in uno stato di equilibrio. Tutto ciò ci permette di eliminare il principio di indeterminazione dal novero degli assiomi fondamentali, nondimeno esso ci pone il grave problema delle relazioni tra variabili e variabili dinamiche che ad un certo punto non potremo eludere. Anche della Meccanica Quantistica si può dare una fondazione assiomatica con struttura trinitaria ovvero a tre assiomi più il principio di corrispondenza o teorema di Ehrenfest, qui di seguito vengono elencati gli assiomi secondo Bohr-Heisenberg-Born. 1° Assioma - Sistema fisico. Gli stati di un sistema fisico sono rappresentati da una tabella di elementi detta ψ in generale avente una dimensione ed infiniti elementi, la ψ è un vettore ad infinite dimensioni in uno spazio di vettori di Hilbert (retaggio, solo in senso matematico, delle matrici di Heisenberg), lo stato del sistema fisico non cambia se si moltiplica il vettore ψ per una costante. 2° Assioma - Grandezze fisiche. Le grandezze fisiche misurabili sono rappresentate da operatori al primo ordine (lineari), ovvero tabelle di elementi aventi 2 dimensioni ed infiniti elementi, i quali hanno la proprietà di essere uguali al proprio trasposto complesso coniugato (hermitianicità) e con n autovalori reali i quali sono i possibili valori numerici misurabili della grandezza fisica che l'operatore rappresenta, i vettori ψn associati agli autovalori sono detti autovettori e per tali stati del sistema la grandezza è ben definita. 3° Assioma - La misura secondo Born. I possibili risultati della misura di una grandezza fisica hanno ciascuno una probabilità di essere riscontrati, tale probabilità è data dal modulo al quadrato della proiezione dello stato del sistema fisico rappresentato dal vettore ψ, su cui si misura la grandezza, rispetto agli autostati ψn (autovettori) dell'operatore che rappresenta la grandezza fisica. Gli assiomi elencati sono l'espressione, come indica Caldirola, della interpretazione probabilistica della Meccanica Quantistica (in


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contrapposizione a quella stocastica originariamente ispirata alle idee di Langevin per i fenomeni nucleari) o di Copenaghen o di Bohr-Heisenberg od ortodossa, a completamento di tali assiomi vi è il principio di corrispondenza: gli operatori in generale non commutano tra di loro e quindi non commutano le grandezze fisiche che rappresentano ma al limite per la costante di Planck h che tende a zero, azione non discreta, le grandezze sostituiscono gli operatori ed esse possono commutare e si riottiene la Meccanica (ove le grandezze sono variabili canonicamente coniugate). Il 2° assioma sembra allontanarsi dalla definizione operativa di Heisenberg, poiché la ψ non rappresenta alcuna grandezza fisica osservabile ma solo un'entità matematica ausiliaria in parte interpretabile come grandezza fisica ausiliaria grazie al 1° assioma. Il 3° assioma risolve la contraddizione dando parziale significato fisico di osservabilità ad un uso ben definito della ψ ovvero mediante un'operazione matematica, la proiezione (in pratica il teorema di Pitagora). E' inutile dilungarsi nei meandri delle contraddizioni interne della Meccanica Quantistica, viene invece riportata un'altra fondazione assiomatica secondo Caldirola la quale ha il pregio di presentare una maggiore semplicità ed immediatezza nonostante l'alto grado di astrazione comunque imposto dalla definizione operativa di Heisenberg. 1° Assioma - L'osservabile. Esiste uno scalare complesso ψ il quale contiene in sé tutte le informazioni che su di una particella si possono dare, precisamente esso permette di calcolare per ogni grandezza fisica, detta secondo Dirac osservabile, i valori possibili risultanti da una misura (che sono ovviamente reali) e le corrispondenti probabilità che la grandezza ha di assumere tali valori ad un generico istante di tempo. 2° Assioma - L'operatore. Ad ogni osservabile si fa corrispondere, nella formulazione matematica, un operatore hermitiano il quale ha autovalori reali, l'insieme di tutti gli autovalori costituisce l'insieme di tutti i valori numerici che si possono trovare in una misura dell'osservabile corrispondente, mentre l'insieme degli autovettori corrispondenti rappresentano gli autostati del sistema (la particella) relativi a tali risultati di un processo di misura.


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3°Assioma - L'evoluzione. L'evoluzione spazio-temporale di un sistema fisico è regolata dall'equazione di Schroedinger, purché all'istante iniziale lo stato di un sistema fisico sia determinato mediante una osservazione del maggior numero possibile di osservabili tra loro compatibili ed indipendenti; tale osservazione è detta osservazione massima. Questa formulazione assiomatica non è scevra di contraddizioni interne che per brevità si omette di discutere e parzialmente risolvere, tuttavia permette di mostrare il principio di corrispondenza con la Meccanica in una forma migliore quella del teorema di Ehrenfest. Considerando per una particella intesa come sistema fisico la sua generica coordinata ed il relativo momento coniugato si dimostra che le relazioni le quali permettono di calcolare le loro variazioni nel tempo sono ottenute mediante l'operatore di Hamilton; poiché tali relazioni si dimostra valgono anche per i valori medi delle corrispondenti osservabili, valgono dunque per il moto medio del pacchetto d'onde associato alla particella le equazioni del moto di Hamilton e quindi tutta la Meccanica. Ovviamente tutto questo è dovuto al fatto che l'azione discreta h, la quale compare nelle definizioni degli operatori, al limite tende a zero. Sarebbe interessante indagare se i principi di corrispondenza della Relatività Ristretta e della Meccanica Quantistica siano collegati in qualche modo, certamente la formulazione assiomatica delle due teorie non è di grande aiuto in questa indagine. In pratica potremmo solo affermare che la Meccanica è la teoria fisica la quale, in contrasto con l'evidenza sperimentale, si fonda sull'approssimazione di una misura della velocità causale massima u non limitata (in particolare grande a piacere) ed una misura dell'azione h non limitata (in particolare piccola a piacere), se poi u infinita implichi h infinitesima è un'altra questione legata alla natura stessa del fotone e dell'interazione elettrica. Meccanica Quantistica Relativistica (QED) La Meccanica Quantistica Relativistica si applica con successo all'interazione elettrica e con opportune modifiche anche all'interazione leptonica (o nucleare debole), essa si fonda sui medesimi assiomi già elencati con il completamento di un assioma unico derivato dal 2° assioma della Relativìtà Ristretta (non il 2° della Relatività Generale poiché non


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vengono contemplati spazi diversi da quello piatto di Minkowski) ossia la covarianza applicata agli operatori. Assioma Unico: Applicazione della Covarianza. Le equazioni che descrivono un sistema fisico sono composte di operatori in cui le operazioni rispetto allo spazio e rispetto al tempo sono ripetute lo stesso numero di volte, ossia tutti gli operatori dell'equazione hanno lo stesso ordine e quindi sono applicati allo stesso ente variabile (la ψ per intendersi) un ugual numero di volte rispetto alla stessa variabile. In pratica questo assioma unico è un mero completamento del 2° assioma nella forma secondo Caldirola, ma di fondamentale importanza nel determinare il definitivo successo della Meccanica Quantistica unita alla Relatività Ristretta come teorie in grado di descrivere compiutamente l'interazione elettrica e l'interazione leptonica come sua più prossima parente. Al termine di questo excursus negli assiomi della Meccanica Quantistica è doveroso notare che in qualunque modo li si consideri essi violano la definizione operativa di Heisenberg pur cercando disperatamente di adeguarvisi, visto che da essa nascono. Coerenza avrebbe voluto che argomento delle equazioni fossero state solo le grandezze misurabili, in pratica i livelli di energia o le frequenze della radiazione emessa od assorbita dai sistemi fisici, il che è lo stesso. Sfortunatamente un formalismo matematico che avesse tali variabili come incognite e conciliasse la dualità essendo al tempo stesso ragionevolmente agevole da usare, cosa che non guasta mai, non è stato storicamente disponibile. Quindi le grandezze misurabili compaiono solo come parametri delle soluzioni delle equazioni della Meccanica Quantistica gli autovalori appunto, mentre l'oggetto delle equazioni resta la ψ, la vera incognita che pur non avendo la caratteristica di esistere fisicamente, ha il pregio di essere l'utile strumento (sic!) con cui salvaguardare la dualità. Gli assiomi fondamentali Dopo questa simpatica corsa tra i fondamenti assiomatici delle teorie fisiche è corretto a conclusione domandarsi quali assiomi possano essere


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considerati utili se non irrinunciabili nella formulazione di successive teorie fisiche. Per quanto possa essere sorprendente la simmetria, pur giocando un ruolo fondamentale, non può esser presa sine cura come uno dei fondamenti assiomatici, poiché essa riposa sulla evidenza sperimentale della conservazione (come è ben messo in evidenza dal teorema di Noether). Tutto ciò che è conservato ha una evidenza sperimentale basata su limiti superiori, e non potrebbe essere altrimenti, e nulla ci garantisce da future possibili evidenze di violazioni della simmetria, quantunque piccole in grandezza rispetto ai limiti noti. Infatti volendo evitare di far dipendere troppo gli assiomi dalle necessità delle evidenze fenomenologiche è opportuno concentrarsi su alcune necessità logiche, ben consapevoli che si deve contemplare negli assiomi anche il fatto di dover fare i conti con le necessità sperimentali. Gli assiomi verranno elencati e subito dopo commentati. 1° Assioma - Indipendenza. Le proprietà dello spazio-tempo sono indipendenti dalle proprietà delle interazioni. Questo assioma si applica compiutamente alla Meccanica, alla Relatività Ristretta, alla Meccanica Quantistica includendo la sua evoluzione nel cosiddetto modello standard che descrive interazione elettrica e leptonica. 2° Assioma - Solidarietà. Lo spazio-tempo è solidale con le interazioni cosicché le loro rispettive proprietà si influenzano reciprocamente. Questa è la versione secondo Finzi del principio di solidarietà come lo enunciò nel contesto della Relatività Generale (ovvero della interazione gravitazionale); è lecito qui domandarsi se esso possa avere un valore generale ed applicarsi a tutte le interazioni, nel qual caso comporterebbe una sorta di conseguenza o lemma: ogni interazione con le sue peculiari caratteristiche determina localmente la sua propria struttura spaziotemporale.


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3° Assioma - Causalità. La causalità è il postulato il quale afferma che una situazione fisica dipende dall'altra (univocamente) e la ricerca causale si propone la scoperta di questa dipendenza (identificazione). Tutto ciò rimane vero anche nella fisica (meccanica) quantistica sebbene gli oggetti della osservazione, per i quali si sostiene esservi una dipendenza, siano differenti; essi sono costituiti dalla probabilità di eventi elementari, non dai singoli eventi in sé. Questa è la formulazione secondo Born della causalità e nella sua prima parte si applica in modo formidabile a tutte le teorie fisiche. La seconda parte è costruita molto saggiamente per tenere conto del 3° assioma della meccanica quantistica nella formulazione data da Born stesso, per dare un qualche significato fisico alla ψ necessaria alla dualità, ma anche per prevenire da violazioni della causalità dovute alla identificazione univoca della dipendenza, come si commenterà in seguito. Il 3° assioma apre il problema della identificazione della dipendenza univoca tra almeno due situazioni fisiche; questo problema è stato storicamente risolto per via fenomenologica, come era inevitabile e come era stato preannunciato, e viene qui enunciato nel seguente assioma. 4° Assioma - Identificazione. La velocità causale massima per tutte le teorie fisiche è la velocità della radiazione elettrica in assenza di materia ed in presenza dei soli campi elettrico e gravitazionale. Questo assioma è usualmente e storicamente accettato acriticamente ed altrettanto acriticamente viene automaticamente esteso agli altri due campi noti quello dell'interazione adronica (o nucleare forte) e quello dell'interazione leptonica (o nucleare debole). Si è usata l'espressione in assenza di materia ed in presenza dei soli campi elettrico e gravitazionale per evitare l'espressione "nel vuoto". Infatti essa concorda sia con la definizione cartesiana data da Einstein per il quale il vuoto è pieno di campo, sia con la conseguenza del principio di Heisenberg e della QED per cui il vuoto è pieno di oggetti virtuali (rinormalizzabili secondo la QED). Ovviamente le concezioni di vuoto alla Einstein ed alla Heisenberg (o se si preferisce alla Feynman) pur in contrasto tra di loro si scontrano entrambe


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con la necessità di determinare il livello di energia del vuoto, questione che non viene qui affrontata, avendo anche conseguenze sull'invarianza di Lorentz. Ma la vexata quaestio sollevata dal 4° assioma è se la velocità causale massima, la quale viene identificata tramite un ente fisico, e che rispetta così anche il 3° assioma della Relatività Ristretta, possa prescindere dal 2° assioma, ossia dalla struttura spazio-temporale di ciascuna interazione. Questo ci porta a considerare tre evidenze sperimentali generali con cui fare i conti nella costruzione delle teorie fisiche. I Evidenza. Le distanze possono essere misurate solo scambiando energia con una interazione. Vedasi a tal riguardo il 3° assioma della Relatività Ristretta. II Evidenza. L'osservatore è in grado di scambiare energia solo con l'interazione elettrica. Vedasi a tal riguardo il principio di indeterminazione che ne è un luminoso esempio. III Evidenza. L'interazione elettrica è il paradigma (quindi) di tutti i fenomeni dovuti alle varie interazioni. Quest'ultima evidenza meriterebbe in verità il titolo di assioma della misura, ed essere annoverato insieme agli altri quattro assiomi fondamentali. La I e II evidenza insieme agli assiomi 2°, 3° e 4° ci riportano al problema di definire quali siano le entità variabili con cui descriviamo gli eventi fisici e primi fra tutti la misura delle distanze per la ricerca del nesso di causalità.


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Concludiamo quindi introducendo i due postulati delle variabili. I Postulato delle Variabili. Esistono variabili statiche, le coordinate spazio-temporali, che non intervengono nella interazione. Ciò ovviamente contraddice il 2° assioma fondamentale ovvero il principio di solidarietà. II Postulato delle Variabili. Esistono variabili dinamiche, gli impulsi spazio-temporali, che intervengono nelle interazioni (ma sono misurati solo elettricamente). In conclusione possiamo porre il problema se l'estensione del principio di solidarietà a tutte le interazioni possa imporre di considerare tutte le variabili come dinamiche, in tal caso si avrebbe anche il problema di riconsiderare anche il significato del principio di indeterminazione almeno nell'uso alla Yukawa in cui non vi sarebbe più una relazione tra coordinate (variabili statiche) e momenti (variabili dinamiche), ma solo tra variabili dinamiche, con grande vantaggio della omogeneità logica. ----Fabio Cardone è nato a Chieti, nel 1960. Laureato in fisica, perfezionatosi in fisica delle particelle elementari, ha studiato a Pisa, L'Aquila, Ginevra, Roma, e lavorato tra l'altro presso i Laboratori di Fisica dell'INFN, del CERN, della Wisconsin University. Docente di fisica presso la Syracuse University, le Università della Tuscia (Viterbo) e L'Aquila, le Università Gregoriana e San Tommaso. Vincitore del Premio Nazionale della Fisica Galileo Galilei, è attualmente membro del Gruppo Nazionale Fisica Matematica dell'INDAM, e consulente di uno dei gruppi parlamentari presso la VII Commissione, Istruzione e Ricerca, del Senato della Repubblica.


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ETERE E RELATIVITA' (Giuseppe Cannata) Non c'è dubbio che, alla fine del secolo XIX e all'inizio del XX, le numerose ipotesi, contrastanti, sul comportamento essenziale e globale dell'etere, spingevano gli studiosi alla ricerca di un rimedio, che sopprimesse le contraddizioni scientificamente inaccettabili. Nella memoria del 1905 Einstein seguì il metodo(!) di Alessandro Magno, che affrontò la questione del nodo di Gordio, tagliandolo con la spada piuttosto che scioglierlo. Il Macèdone ottenne così il dominio dell'Asia Minore, promesso dalla leggenda, ma con una durata veramente breve. Einstein recise la necessità che l'etere esistesse, sorvolando sul fatto che i fenomeni elettromagnetici hanno effetti locali, non imputabili a trasferimenti di particelle da sorgente a ricevitore, né tanto meno attribuibili ad uno spazio vuoto, di per sé non interattivo, cioè fisicamente ininfluente... almeno fino a quando le ultime generazioni di fisici, con discutibile coerenza interna, lo hanno riempito di tanti significati. Tanto basta perché siano respinte tutte le considerazioni esposte nella sua memoria del 1905, cosparsa di imprecisioni e di ingenuità, forse veniali, se ci si riferisce alla maturazione scientifica di un secolo fa. La motivazione addotta che le interazioni elettrodinamiche tra magnete e conduttore non presentano le asimmetrie sostenute in quell'epoca, ma dipendono dal moto relativo tra i due corpi, è un po' semplicistica, in quanto non sottolinea né l'influenza degli orientamenti sia del magnete che del conduttore, né che in generale l'induzione elettromagnetica si possa manifestare senza movimenti relativi di induttore e di indotto, ma per sole variazioni locali dei campi elettrico e magnetico. Data l'assoluta insopprimibilità del mezzo, non è lecito estendere il principio di relatività galileiano ai fenomeni elettrodinamici, senza tenere conto dello stato globale dell'etere nei vari sistemi di riferimento inerziali. Facciamo un semplice esempio. Secondo l'impostazione attuale, una carica puntiforme (non elementare) crea solo un campo elettrostatico se è vista ferma da un osservatore, mentre creerebbe un campo elettromagnetico se appare in moto ad un altro osservatore. La realtà è ben diversa: quando la carica è ferma rispetto all'etere globale in cui è immersa, sia se è vista ferma o in moto da osservatori inerziali, dà sempre un campo elettrostatico o meglio elettrostazionario. Viceversa, una carica opportunamente


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orientata sotto l'azione di un campo elettrico, in moto anche lentissimo rispetto all'etere, dà comunque un campo elettromagnetico per tutti gli osservatori inerziali. Ricordiamo poi che l'energia trasmessa, sia per convezione che per irraggiamento, contiene nelle sue dimensioni la massa, nel primo caso per trasferimento diretto di particelle, nell'altro, ondulatorio, per urti successivi delle entità sollecitate, costituenti il mezzo stesso. La definizione einsteiniana di "costanza della velocità della luce indipendente dalla velocità della sorgente" è analoga a quella ben verificata in acustica, e non può destare la meraviglia, ostentata invece in diversi testi scientifici. C'è da fare però una precisazione: la velocità della luce (come del suono) è riferita al mezzo di propagazione ritenuto in quiete, per cui essa si compone con la velocità globale del mezzo, quando questa è rilevata da altro sistema di riferimento. Esempio: L'etere attorno alla Terra è per parecchi diametri terrestri solidale o in quiete con essa, quindi da un sistema di riferimento legato alla Terra la velocità della luce è riferita al mezzo in quiete. Un osservatore esterno, p. es. nel sistema Sole, dovrà comporre la velocità c con la velocità v di rotazione dell'atmosfera d'etere. Non sono certo sistemi inerziali, pura astrazione teorica, ma nei limiti di spazi e di tempi consentiti possono ritenersi tali. Del resto rimane valido il principio che i sistemi materiali di riferimento (osservatori e strumenti di misura) non devono al limite scambiare energia con gli oggetti osservati; la variazione della quantità di moto solo in direzione non implica variazione di energia. Le ulteriori interazioni tra sistemi sono in genere, in prima approssimazione, trascurabili. La contrazione delle lunghezze nella direzione del moto da un sistema di riferimento ad un altro ha affascinato gli studiosi, che sono particolarmente attratti dalle meraviglie e dalle magie. La pretesa "contrazione" nasce dall'avere trascurato erroneamente il comportamento dell'etere. La "dilatazione dei tempi" sprigiona le fantasie... Occorrerebbe invece un approfondimento dell'autentico significato meccanico, implicito nel concetto di tempo. Cronotopo, quadridimensionalità fanno sognare, ma ci fanno allontanare dal tanto svilito senso comune, inevitabile quanto auspicabile in un qualificato prodotto pur sempre umano quale la Fisica. Quelle espressioni hanno la loro funzionalità matematica, ma niente di più. Einstein introduce per esempio la dipendenza della massa dalla velocità per non violare il principio di conservazione della quantità di moto, ben più serio e fondamentale. Così si è costretti a considerare p. es. i neutrini a riposo. privi dì massa [vera astrazione metafisica, che non darebbe peraltro


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alcuna possibilità di osservazione fisica], per non attribuire loro una massa infinita, paradossale, alla velocità c (1). Ma quali corpi sono a riposo nell'Universo? Ma quale massa noi valutiamo dei corpi celesti, che rispetto a noi si muovono alle più disparate velocità? Quando saremo in grado di liberarci dalle transumananze einsteiniane per tornare umilmente al senso comune, rendendolo sempre più buon senso e riconoscendo che la Fisica è prodotto umano, migliorabile, ma non trascendente? La famosa formula E = mc2 il cui successo ha rilanciato la Relatività di Einstein può essere razionalmente dedotta dall'espressione del lavoro compiuto dalla forza F = c dm/dt proporzionale alla velocità della perturbazione elettromagnetica che investe una certa massa nell'unità di tempo. Prima di procedere alla dimostrazione richiamo una mia impostazione che porta ad affermare che tutte le forze classificate finora, dalle nucleari, dalle interatomiche e dalle intermolecolari alle forze dinamiche acceleranti, o alle statiche deformanti, elastiche e non elastiche, alle forze d'attrito, di contatto o del mezzo, a quelle elettriche e magnetiche appartengono ad una delle sole sette specie possibili. Un punto oggetto può essere individuato in un certo istante da un vettore posizione R = ρr (vedi Appendice), in un sistema di coordinate cilindriche di cui qui si trascurerà la quota sull'asse z e ci si riferirà solo al piano xy. Se nel punto P consideriamo la massa m inevitabilmente presente, anche per transito, in un certo istante, possiamo passare all'efficace rappresentazione del vettore posizione di massa: µ = mR = mρr . Una qualsiasi variazione temporale di una delle tre variabili che compongono il vettore µ dà il vettore quantità di moto [q.d.m]: dµ/dt = d(mρr)/dt = ρrdm/dt + mrdρ/dt + mρdr/dt = = ρrdm/dt + mvr + mωρθ = p [dove: ω = dθ/dt ; v = dρ/dt ] (2) . La variazione temporale della quantità di moto p fornisce poi tutte le forze possibili: dp/dt = ρrd2m/dt2 + dm/dt(vr + ρdr/dt) + + vrdm/dt + mrdv/dt + mvdr/dt + + ωρθdm/dt + mρθdω/dt + mvωθ + mωρdθ/dt =


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= ρrd2m/dt2 + vrdm/dt + ωρθdm/dt + + vrdm/dt + mrdv/dt + mvωθ + + ωρθdm/dt + mρθdω/dt + mvωθ - mω2ρr = = ρrd2m/dt2 + 2vrdm/dt + 2ρωθdm/dt + mrdv/dt + 2mvωθ + mρθdω/dt - mω2ρr . Così si hanno tre momenti lineari o q.d.m. Alle espressioni note, date dal prodotto della massa m della particella per la componente radiale della velocità o per la sua componente trasversale o azimutale, si aggiunge la prima, che esprime la q.d.m. in un punto dovuta alla massa che l'attraversa o l'investe nell'unità di tempo (p. es. del vento che batte perpendicolarmente su un punto di una vela). Tra le sette forze ottenute si distinguono quattro radiali, di cui una centripeta, e tre azimutali. La prima è la forza elastica di posizione o di vincolo, la seconda è quella che si presenta nell'attraversamento di un mezzo con velocità radiale, la terza con velocità trasversale (p. es. nella rotazione), la quarta è ovviamente la forza accelerante un oggetto libero da vincoli (proposta da Newton), la quinta dà la forza complementare o di Coriolis, la sesta è attiva in una rotazione uniformemente accelerata. La settima infine è la forza centripeta, presente nella rotazione, normale al senso del moto; non lavora e non esige quindi energia per mantenere il moto, per cui un sistema che ruota uniformemente è da considerarsi inerziale. Le forze elettriche, magnetiche, molecolari, atomiche e nucleari rientrano nelle sette forze individuate nella meccanica. Una coraggiosa, razionale ed estremamente semplificatrice interpretazione meccanica delle equazioni di Maxwell lo consente [v. G. Cannata, "Electromagnetism in ether", Atti del Convegno Internazionale 1999 "Galileo back in Italy II", Ed. Andromeda, Bologna, 2000]. L'energia irradiata dalla forza F = crdm/dt (che si propaga con velocità c = dρ/dt ) è data da: W=

F.ds =

(crdm/dt).ds =

(cdm/dt)(cdt) =

c2dm = mc2 .

Gli studiosi discutono anche sulla validità o meno della relatività speciale per osservatori non inerziali. Ricordiamo che la scelta dei sistemi inerziali di riferimento è dovuta al fatto che osservatore e strumenti di misura, solidali con i sistemi di riferimento, non devono subire interventi esterni, che non consentono la formulazione di nessuna legge, sui fenomeni osservati, se non si conoscono perfettamente le interazioni con


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l'esterno. Alla fine accludiamo una Tabella, che consente un certo confronto tra la concezione attuale e quella che andiamo proponendo, pur consapevoli che occorrerebbe trattare molto più distesamente i tanti punti appena sfiorati e citare altri aspetti non meno importanti. Riepilogando, ribadiamo alcuni punti fondamentali. L'etere, diffuso nell'Universo (in cui noi comprendiamo soltanto tutto quanto è fisicamente osservabile, attuale e potenziale), che penetra in ogni dove, è costituito da innumerevoli vortici a qualsiasi livello, dagli ammassi galattici via via alle singole particelle elementari. I grandi vortici comprendono quelli minori, tutti sempre a simmetria assiale, più o meno evidente. Mentre nei loro nuclei la materia è condensata, i vortici si estendono con materia più rarefatta, per esempio allo stato gassoso sempre più leggero, fino al limite di altri vortici confinanti di uguale livello, con cui, prevalendo quello di massa (o temperatura) maggiore, costituisce un sistema vorticoso di livello più alto, dove interagiscono raggiungendo stati di equilibrio e consentendo il passaggio di perturbazioni o di processi evolutivi. L'insieme, così come ogni singola parte, è soggetto alle leggi fisiche fondamentali, p. es. i principi di conservazione, e appare complessivamente stabile e nel contempo di grande vitalità. Le cariche elettriche elementari costituiscono vortici primordiali d'etere, che seguono le leggi della fluidodinamica, e hanno simmetria assiale. Gli elettroni (o i protoni) si respingono tra di loro solo quando sono contrapposti i loro assi di flusso entrante d'etere (o di efflusso) ma sono pronti ad attrarsi se i loro assi sono affiancati (al limite paralleli) come quando generano le correnti, sotto l'azione di un campo elettrico. Questo tende ad orientarli e ci riuscirebbe perfettamente alle bassissime temperature attorno allo zero assoluto (superconduttività), mentre alle nostre temperature ambiente le cariche elementari (in particolare gli elettroni nei conduttori metallici) per l'agitazione termica oscillano, tanto più rapidamente quanto più è intenso il campo elettrico, irradiando così onde elettromagnetiche con frequenze crescenti. I neutroni, che appaiono come atomi di idrogeno, "freddi" cioè con protone ed elettrone compatti, però pronti a scindersi alle "temperature" esterne ai nuclei, non risentono di attrazioni o repulsioni elettrostatiche, ma subiscono attrazioni fluidodinamiche se gli spin sono paralleli, analogamente alle cariche elementari, ma più docilmente. Altro problema di confusione e di distorsione è lo sviluppo ben poco regolare della meccanica quantistica, dove ipotesi non dimostrate, spesso ad libitum sono trasformate in leggi, verificabili in ambiti troppo ristretti.


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E' questo uno sviluppo o meglio un inviluppo dovuto alla soppressione pregiudiziale di uno spazio libero (etere) partecipe essenziale dei fenomeni elettromagnetici. Temo che non sarà facile uscire dal ginepraio in cui ci si è cacciati. Non si devono dimenticare i tanti meriti di illustri scienziati, ma occorrerà distinguere il buon frumento dal loglio invadente, perché riesca l'operazione di revisione, senza esaltazioni o condanne. Appendice E' bene sottolineare che ritengo fondamentale e primaria la grandezza vettoriale potenziale magnetico A = AA , che oggi è ritenuta secondaria, utile solo nell'ulteriore approfondimento dello studio dei campi elettromagnetici. Il potenziale magnetico, nell'interpretazione meccanica dell'e.m., assume il significato di vettore posizione di un qualsiasi punto d'etere, di cui, con metodo euleriano, si possono individuare le variazioni. Mentre nel sistema M.K.S.A. ha la dimensione [LMT 2I-1] certamente di non facile interpretazione; nel sistema puramente meccanico(3) M.K.S. ha la dimensione [L], cioè rappresenta una semplice lunghezza. L'opposto della derivata parziale temporale -∂A/∂t = -∂(AA)/∂t = -A∂A/∂t - A∂A/∂t è costituito da due termini, di cui il primo indica la componente radiale del vettore velocità locale, già noto come campo elettrico stazionario, che è conservativo: Er = -∇(V) ; il secondo termine è la componente trasversale o rotazionale della velocità (che varia infatti solo in direzione), già noto come campo elettrico indotto: Ei = -A∂A/∂t . Dalla relazione E = Er + Ei = -∂A/∂t si ottiene, applicando l'operatore rotore ad entrambi i membri, l'equazione di Maxwell riguardante l'induzione e.m.: rot(E) = rot(Ei) = - ∂(rot(A))/∂t = - ∂B/∂t [dove si è posto, come usuale, B = rot(A) ; rot(Er) è uguale a zero, perché come abbiamo detto questo campo è conservativo]. Interessante è pure l'interpretazione del vettore di Poynting: N = E ∧ H , le cui dimensioni sono [MT-3] in entrambi i sistemi. Esso indica l'intensità


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di radiazione elettromagnetica, cioè la potenza attraversante l'unità di superficie normale alla direzione di propagazione. La presenza inevitabile dello spin nella carica elettrica elementare ne esclude la sfericità , e suggerisce la simmetria assiale di vortice con flusso d'etere uscente dall'asse nel protone (entrante invece per l'asse nell'elettrone), flusso che rientra (o esce, nell'elettrone) lateralmente, con rotazione vorticosa d'etere per l'altro estremo dell'asse.

Protone

Elettrone

Neutrone


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Note 1 - Un articolo di Elisabetta Durante sul Sole 24 Ore - Informatica del 3/3/2000 inizia così: "Nel 1930 Wolfgang Pauli ne predisse l'esistenza e venticinque anni dopo Frederick Reines, osservandolo per la prima volta, lo descrisse come la più minuscola quantità di materia che si possa immaginare; da allora, il neutrino non ha mai cessato di essere quella particella sfuggente e asociale che tiene in scacco la comunità scientifica internazionale. Ancora oggi infatti i fisici non sono in grado di dire se i 330 milioni di neutrini presenti in ogni metro cubo dell'Universo, che a ogni istante attraversano il nostro corpo, abbiano o no una massa: questione non da poco, se si pensa che un neutrino provvisto di massa darebbe un bello scossone a quel pilastro monumentale su cui si regge la moderna concezione dell'Universo e che va sotto il nome di Modello Standard". 2 - Richiamiamo le componenti e le derivate temporali del versore radiale r, e del versore azimutale θ nel piano xy: r = cos(θ)i + sin(θ)j , θ = -sin(θ)i + cos(θ)j dr/dt = [-sin(θ)i + cos(θ)j]dθ/dt = θdθ/dt = ωθ dθ/dt = [-cos(θ)i -sin(θ)j]dθ/dt = -rdθ/dt = -ωr d2r/dt2 = θ(dω/dt) - ω2r d2θ/dt2 = -r(dω/dt) - ω2θ . 3 - Nel sistema "puramente meccanico" si tratta di esprimere per esempio il Coulomb con le sole dimensioni L, M, T. Per ottenere ciò, si può partire dalla legge di Coulomb, in forma scalare, F = qq'/4πε0r2 , il cui secondo membro deve mantenere le dimensioni di una forza, [F] = [ma] = LMT -2, come il primo. Giacché non esistono cariche prive di massa, è naturale fare in modo che possa apparire al numeratore della citata espressione, per il prodotto qq', una massa al quadrato, però in rapporto a un quadrato del tempo. Poiché la massa compare solo al primo grado nell'equazione dimensionale della forza, una massa dovrà allora intervenire, ancora al primo grado, nel coefficiente ε0 al denominatore. Infine, il semplice termine L nel numeratore della LMT -2 si può ottenere dimensionalmente pensando a un termine di spazio al cubo nel denominatore di ε0 . In definitiva si ottiene, con efficace analogia fluidodinamica: carica elettrica = massa/tempo = portata di massa


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ε0 = massa/volume = densità (ovviamente relativa al mezzo, densità di massa d'etere, vedi la successiva Tabella). TABELLA Dimensioni e significati meccanici di alcune grandezze elettromagnetiche Sistema internazionale Verranno indicati, nell'ordine: - Denominazione, Simbolo, Dimensione nel sistema Dimensione nel sistema puramente meccanico M.K.S. - Significato meccanico, ulteriori informazioni.

M.K.S.A.,

Costante dielettrica, ε0 , L-3M-1T4I2 , L-3M Densità di massa d'etere in aria rarefatta. Si deduce dalla legge di Coulomb, vedi nota 3. ε0 = 8.85*10-12 Kg/m3 . Si può ottenere anche dalla densità spaziale di energia del campo elettrico, w = ε0E2/2 . Carica elettrica, q , TI , MT-1 Portata di massa = flusso della quantità di moto per unità di volume, attraverso una superficie chiusa. Equazione di continuità (Gauss): ∫ ∫ D.dS = q . Campo elettrico, E , LMT-3I-1 , LT-1 Campo di velocità locale, radiale, di etere perturbato da sorgente attiva (carica elettrica). Valore limite di E = rigidità dielettrica Er ; per mica: Er = 2*108 m/s < c = 3*108 m/s . Spostamento elettrico, D = ε0E , L-2TI , L-2MT-1 Impulso o q.d.m. di volume unitario d'etere = densità superficiale della portata di massa. Densità superficiale di carica σe . Potenziale elettrico, V , L2MT-3I-1 , L2T-1 Potenziale di velocità in flusso irrotazionale d'etere; potenziale scalare ϕ di velocità v . Analogia idromeccanica: v = -∇ϕ ; in elettromagnetismo: E = -∇V .


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Intensità di corrente, I , I , MT-2 Energia per unità di superficie nella sezione di un filo conduttore attivo. Corrente determinata dall'orientamento di cariche elementari libere, sotto l'azione del campo E . Inverso di permeabilità magnetica µ0 , 1/µ0 , L-1M-1T2I2 , L-1MT-2 Modulo di compressibilità d'etere = energia per unità di volume. In meccanica: kc . La relazione H = B/µ0 equivale alla relazione meccanica: τ = kcθ, dove τ è il momento torcente e θ l'angolo di torsione. Induzione magnetica, B , MT-2I-1 , L0M0T0 Angolo di deformazione, dovuto a momento torcente. Si ha la densità volumica d'energia: w = ∫ H.dB . In meccanica rotazionale l'energia di torsione è W =

τ.dθ .

Campo elettrico indotto, Ei , LMT-3I-1 , LT-1 Campo di velocità locale, rotazionale, d'etere, con variazione temporale solo in direzione. In meccanica, vorticità: ω = ∇ ∧ v. Densità di corrente, j , L-2I , L-2MT-2 Forza per unità di volume, in filo conduttore sotto tensione elettrica. j = σE (legge di Ohm) con σ = conduttività elettrica. Conduttività elettrica, σ , L-3M-1T3I2 , L-3MT-1 Densità spaziale di carica libera effettiva in un conduttore; portata di massa per unità di volume. Dipendente solo dalla presenza di cariche libere, non dalla struttura del conduttore. Conduttanza elettrica, G, L-2M-1T3I2 , L-2MT-1 Densità superficiale della portata di massa, omogenea con lo spostamento D. Densità superficiale di carica sulla sezione trasversale del conduttore. Resistenza elettrica, R, L2MT-3I-2 , L2M-1T Area della sezione del conduttore per carica unitaria. Grandezza inversa della conduttanza. Non ha niente a che fare con l'attrito che le cariche incontrerebbero nel reticolo.


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Capacità elettrica, C, L-2M-1T4I2 , L-2M Densità superficiale di massa, dovuta alla condensazione superficiale della carica. Addensamento di massa sulle armature, per cariche opposte. Densità spaziale di carica, ρ , L-3IT , L-3MT-1 Densità spaziale della portata di massa. Omogenea con conduttività acustica, detta invece usualmente resistività acustica. Induttanza, L , L2MT-2I-2 , L2M-1T2 Superficie per unità di corrente concatenata. Inverso della densità superficiale di corrente. Intensità di campo magnetico, H , L-1I , L-1MT-2 Momento meccanico dell'unità di volume, analogo in meccanica al momento τ di una forza. Dimensioni uguali a quelle di 1/µ0 . Vettore potenziale magnetico, A=AA , LMT-2I-1 , L Vettore posizione di un punto d'etere, nel metodo euleriano, in cui si può individuare la perturbazione. E' il vettore fondamentale primario nell'elettromagnetismo. La derivata azimutale -A∂(A)/∂t è il campo elettrico indotto Ei ; rot(A) = B dà ulteriore significato a B; E e B sono grandezze derivate di A . ----Giuseppe Cannata è nato ad Acireale, il 23 novembre 1923. Laureato in Fisica (1949). Prof. ordinario, e poi Preside, di Fisica ed Elettrotecnica presso gli Ist. Tecn. Nautici di Trieste e di Palermo. Assistente di Fisica II (Ingegneria) e Prof. incaricato di Fisica (Ingegneria) presso l'Università di Palermo, dal 1966 al 1994. E' autore di: Fisica - Elettricità e magnetismo (pp. 454, Palermo 1973); Onde elettromagnetiche (pp. 15, Palermo 1980); L'etere, questo sconosciuto - Relatività ed elettromagnetismo (pp. 103, Palermo 1981), nel quale si sostiene l'insopprimibile esistenza dell'etere e si rilevano incoerenze fondamentali della Relatività ristretta; Mechanical image of electromagnetism (pp. 20 Proceedings of the Conference on Foundations of Mathematics and Physics, Perugia 1989), nel quale si propongono una reinterpretazione delle equazioni di Maxwell ed una esauriente dimostrazione classica dell'espressione del quanto di Planck; Le funzioni di stato e le


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conseguenze della disequazione di Clausius (pp. 23, Ed. Andromeda, Bologna 1990), nel quale si rilevano alcune incoerenze nella trattazione attuale delle proprietà dei "cicli termodinamici irreversibili", e si prova la necessità della diminuzione dell'entropia, il cui significato diventa convincente, e permette la dimostrazione dei postulati empirici del 2° Principio della termodinamica (mentre la temperatura, da grandezza empirica anomala, assume le dimensioni di intensità di radiazione energetica); Il potenziale vettore magnetico nelle equazioni di Maxwell (Congresso Internazionale "Cartesio e la Scienza", Perugia 1996); Il redshift cosmico e l'ipotesi del big bang (Congresso Internazionale "Cartesio e la Scienza", Perugia 1996); Electromagnetism in ether (Congresso Internazionale "Galileo Back in Italy II", Bologna 1999). e-mail: giorgiocannata@inwind.it

Vortici d'etere nella concezione dei Principia Philosophiae cartesiani


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ELECTROMAGNETISM IN THE ETHER (Giuseppe Cannata) To attribute an inertia to free space is not an option. It is soundly consistent with the fundamental laws of physics. The mechanical interpretation of electromagnetic phenomena would supply a concrete way of simplicity and unification. Consequently, the revised quantum theory could become without any contrast a modern chapter of a renewed classical physics. Here it is proposed a new elementary charge model, which would simplify the interpretation of many phenomena, including the controlled nuclear fusion. 1 - Introduction In the study of mechanics it is better to go from kinematics to dynamics by introducing an essential property of the body: mass or inertia. Momentum, force and energy ot the body have dimensions which contain always mass. The equations in which mass does not appear are merely kinematic. Linear and angular momenta, force and energy, in electromagnetism. do not explicitly contain mass. Nevertheless, by not wanting to consider them distinct quantities from those introduced in mechanics, and used in other sections of physics, they clearly must contain inertia, even when referring to vacuum localizations. We must therefore admit that vacuum has mass and may be easily called ether again. Of course, the global and specific characteristics of the ether must be made clear, by eliminating some wrong interpretations of the past. 2- Global characteristics of the ether a) It is no-sense to consider ether being absolute, since up to now none has been able to carry out observations of its stationarity in any part of the Universe. b) Partial or total drag of the ether does not exist. Ether is an integral part inside and around a star or a particle, and extends itself with decreasing


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density up to a limit surface, beyond which it belongs to another star or particle. Our planet, for example, as an ether-terraqueous system is not spheroid-shaped like the terraqueous nucleus, but it is like a huge drop, which is compressed on one side by solar wind, while in the opposite side it is extended with a long geomagnetic tail. Michelson and Morley experiment does confirm the relative rest of the ether in the Earth's proximity, as the interferometer does not reveal a significant fringe shift. Bradley's stellar aberration has up to now been interpreted as an experience consistent only with an absolute ether. The astronomical telescope, pointed to the zenith toward the nearest star, must be inclined, with respect to the vertical line, of an angle Îą , according to Earth's movement. This angle is such that: tg Îą = u/c , where u is Earth's orbital speed and c light's speed. But the light coming from the star takes years to reach the Earth, that is to say, it travels only a few terrestrial diameters in which the ether belongs to the Earth, a distance which will always be negligible in respect to the starEarth distance. Thus, the phenomenon can still be interpreted in Bradley's way, the thick layer of terrestrial ether notwithstanding. c) Ether is not continuous. The granularity or quantization of mass and energy is a universal characteristic. lt is evident that in acoustic phenomena the quantum of mass is a molecule of the substance which constitutes the medium of propagation. Ether can be conceived as composed by extremely small particles (ether monads), each one "insignificant", such perhaps as neutrinos, gravitons etc., however quanta of various kinds of aggregation. The organized collectivity of these entities is what we observe. The actual knowledge goes from the neutrino to the galactic clusters. In this huge range each system appears to be formed by subsystems, and so on. Each particle has a complex structure, determined by laws which are not always known, but which we often describe as more complicated than they truly are. d) Last century, light waves transversality made physicists assume an ether paradoxically gelatinous. In Maxwell synthesis, electric and magnetic fields are functions of transverse waves to be compared with shearing stress, existing only in solid bodies. Intrinsic rotationality of both fields makes the resort to the paradox useless. e) However, ether is able to transmit all perturbations from the electromagnetic to the nuclear, to the gravitational, without even excluding pressure and temperature ones. It would be enough to consider that volume


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variations require a variation of intermolecular spaces, and that temperature varies with e.m. radiations through the interposed ether. 3 - Quantitative properties of the ether Wave phenomena are based on contiguity of particles constituting the medium, for instance molecules in the air, and not on continuity. Continuity is adopted in physics only in the macroscopic vision of microphenomena, supported by the powerful differential calculus. We know that the speed c of e.m. waves in vacuo is: (3.1) c = 1/

(ε0µ0)

where ε0 = 8.85*10-12 farad/m is the permittivity of vacuum and µ0 = 4π*10-7 henry/m is the permeability of vacuum. If we compare (3.1) with the speed v of acoustic waves: (3.2) v =

(k/ρ)

where ρ is the mean density of the medium at rest, and k is its compression module, then ε0 can be interpreted as a mean density of the ether in rarefied air (in I.S. measures: Kg/m3). We may obtain the same result by Coulomb's force: (3.3) F = qq'/4πε0r2 between point charges q and q' at a distance r. As a matter of fact: 1) The force at the right-hand side of (3.3) has a physical dimension which contains mass, and this has to appear in the left-hand side too. 2) As charges without mass have never been observed, it is reasonable to think to a mass square in the right-hand side of (3.3), wich should appear in the product of the two charges; consequently, one should think to the presence of mass in the constant ε0 . Remark 1 - Incidentally, we notice that the numerical value of ε0 , or possibly an even smaller value in the interplanetary and interstellar spaces, would support the astrophysicists view in the search of a dark matter (or


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missing mass) to close up the Universe. Furthermore, the red-shift of spectral lines of stars, interpreted until now as a Doppler effect due to the recession of galaxies, of magnitude related to the distance of the star (cosmic expansion), would be caused instead by the attenuation of the energy as the light travels through space, and would then increase with the increase of distance. In this way the hypotheses of big-bang, black holes, etc. would not stand any more. Ether inertia would also explain the gravitational cohesion of many galaxies, which is another astrophysics puzzle. Going back to (3.1), considering Îľ0 as a density, we have: (3.4) 1/Âľ0 = 7.96*105 N/m2 which is a value comparable to air's compression module: (3.4) k = (cp/cv)p0 = 1.4*105 N/m2 (cp and cv are molar heat capacities of biatomic gases, respectively at constant pressure and constant volume, and p 0 is the standard pressure of the atmosphere). 4 - Origin of the electromagnetic field From (3.3) the dimensions of a mass flow for the electric charge can be deduced as: (4.1) q = dm/dt

( [q] = MT-1 ) .

Proton p and electron e are like ether line vortices, which in Helmholtz fluid dynamics maintain mass flow (l.6*10 -19 Kg/s) and angular momentum. Two model symbols of p and e, and of the neutron, can be seen in the previous article written in Italian. The proton consists in a tiny axial permanent jet of ether at a conservative velocity Er ("old" central electric field) with compensating vortex flows ("old" induced electric field Ei). On the contrary, electron aspirates ether axially, and spreads it out by circular swirls. The recovery of the ether is accomplished by the contiguity of similar ether vortices. The electric field has, in this way, kinematic dimensions of a local


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velocity of ether: E=LT-1 , which experimentally does not exceed 3*10 6 m/s ("old" dielectric strength in V/m) in the air, and about 2*10 8 m/s in mica, values which are however not exceeding light's speed c = 3*10 8 m/s. A distribution of elementary charges on the surface of a conductor, in equilibrium, produces externally a conservative velocity field Er . While the field Ei produces the attraction of similar parallel charges, according to Bernoulli's theorem on fluid dynamics, and cancels the induction field B , which has opposite values between equally directed charges. Thinking of a charge distribution on the two opposite sheets of a parallelplate capacitor, the number of field lines is finite and equal to the number of elementary generating charges. Indeed, if paradoxically two or more field lines would come out from a same single proton inclosed in a conducting shell, they would attract on the internal surface just as many electrons, and this would call on the outer surface of the shell just as many positive ions, clearly in excess of the inducing charge. And this would be in contrast with experiments and with Gauss theorem. Thus, an elementary charge acts directly only on a single opposite charge, as it happens naturally in neutral atoms. The model of point charge in spherical distribution can be applied only on a large scale. Remark 2 - According to this new scheme, the elementary electric dipole differs substantially from the presently known one, which is formed by two small spheres wich opposite charges.

Today's model of dipole


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New proposed model of dipole The two schemes agree only in the straight line going between the two opposite charges. In the old model, the other lines are all radial, irrotational, conventionally coming out from the positive charge. In the new proposed model, the same lines are rotational, opposite to the central field (straight line) and generating, in turn, a rotational magnetic field. An electric dipole, perturbed by either collisions of particles or by the incidence of e.m. radiations, does radiate in turn e.m. waves. Traditional dipole and much less accelerating charges do not clearly explain this e.m. waves generation. Furthermore, a central field has never been indeed observed in the surrounding space. Our model shows instead that the central field exists only in the antenna circuit. Besides, it locates the electric and magnetic fields, perpendicular and in time phase between themselves, and both transverse to the direction of propagation. In addition, the old model does not explain why the dipole cannot irradiate along its axis. By observing the new scheme one can obtain answers in agreement with all experience. 5 - Mechanical interpretation of Maxwell equations From a macroscopic Laplacian point of view, any point (elementary volume) of a fluid is located by a position vector, whose origin is in the center of a coordinate system, fixed in an inertial reference frame. We denote this vectorial function by A(x,y,z,t). Any elementary displacement: (5.1) dA = ∇(dψ) + dθ ∧ A


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is the vector sum of two components: 1) ∇(dψ) is the radial component, when the position vector A changes only in absolute value (ψ is a potential surface scalar function); 2) dθ ∧ A is the rotational component, when A changes only in direction. The (opposite of the) time rate change of A is given by: (5.2) E = -∂A/∂t = -∇(∂ψ/∂t) - ω ∧ A where E is a local velocity field. The first term in the right-hand side of (5.2) gives the radial component of the field, while the second term is its rotational component. ∂ψ/∂t = ϕ is the velocity potential function; ω the angular frequency. The minus sign indicates that the terms of (5.2) are reactive and correlated to the principle of energy conservation. (5.2) expresses the Cauchy-Helmholtz theorem on the velocities in fluids. We can write it again as: (5.3) E = -∇(ϕ) - ∂Ai/∂t where ∂Ai/∂t = rotational displacement. Two Maxwell equations can be now immediately deduced: I) by applying curl operator to both sides of (5.2): (5.4) curl(E) = -∂curl(A)/∂t = -∂B/∂t [where, as usual, B = curl(A) ; of course, when one decomposes E in the two components Er and Ei , respectively radial and rotational, since the first component Er is conservative, then one has: curl(E) = curl(Ei) = -curl(∂Ai/∂t) , in force of (5.3) - the equation (5.4) is obviously concerning e.m. induction phenomena]. II) by applying div operator to B = curl(A) : (5.5) div(B) = 0 ,


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which states that B is a solenoidal field. In Maxwell theory A is obviously the magnetic vector potential, B is the magnetic induction vector, ϕ is the electric potential. The charge density σ(x,y,z,t) in coulomb/m3 can be interpreted in this model as: (5.6) σ(x,y,z,t) = ∂ε(x,y,z,t)/∂t [ σ has physical dimension L-3MT-1 ] We notice that the mass density ε(x,y,z,t) of the ether is surely variable where an electric charge is localized. The second law of dynamics applied to a unit volume of a fluid, whose density is ρ and whose velocity is v , and consequently its momentum density is ρv , can be written as: (5.7) Fu = ∂(ρv)/∂t = ρ∂v/∂t + v∂ρ/∂t . In the same way as the time derivative of momentum density εE is proportional, according to Hooke's law, to curl(B) , the module of elasticity 1/µ0 can be written as: (5.8) ∂(εE)/∂t = ε∂E/∂t + E∂ε/∂t = (1/µ0)curl(B) . The term ε∂E/∂t does refer to the boundary of the unit volume where ε does not vary (as ε0 in vacuo), and so we can write it as ε0∂E/∂t . In the term E∂ε/∂t the unit volume is supposed instead to contain charges. Introducing (5.6) into (5.8) gives: (5.9) curl(B) = µ0ε0∂E/∂t + µ0σE = µ0(ε0∂E/∂t + j) which does coincide with another Maxwell equation (one defines: j = σE the vector field density current). By applying div operator to both member of (5.9), we get: (5.10) div(j) = -∂(div(ε0E))/∂t , and, if we put:


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(5.11) div(ε0E) = σ = ∂ε/∂t , we obtain at last: (5.12) div(j) = -∂σ/∂t . (5.11) and (5.12) are both continuity equations, and express respectively mass conservation and consequently charge conservation. (5.11) is Maxwell's fourth equation, local expression of Gauss theorem. 6 - The magnetic field The magnetic field vector H has the dimension L-1MT-2 of a volume vortex torque. The magnetic induction B is dimensionless as an angle. Hence the expression of energy density: (6.1) w =

H.dB = µ0H2/2

is similar to the rotational energy: (6.2) W =

τ.dθ ,

where τ = torque; dθ = rotation infinitesimal angle. We can also mention that (6.1) is the energy density which is dissipated in an hysteresis loop by a ferromagnetic substance. We have already asserted that the parallel elementary charges give rise to a magnetic field. The field B of each charge has concentric circular flow lines on planes, which are perpendicular to the rotation axis, the latter representing the direction of the central field Er (see previous pictures of the proposed vortex models for proton, electron, and neutron). The neutron, as a close coupling between proton and electron, instable outside the nucleus, has the same field B of proton and electron. In the same way, the atom of hydrogen is a steadier loose coupling of proton with electron. The molecule H2 of the hydrogen is the parallel coupling of two atoms with double field B. All these particles behave as diamagnetic elements, opposing their magnetic field to an external one. The particle rotation is such that as to inclose an area from where its field B is going out. The


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stationary particles present a spin instead of an orbital angular momentum. All this is in accordance with Faraday's law and Lorentz force. It should be noticed that the new interpretation attributes to these particles only an induced, and not a pre-existing, magnetic momentum. Furthermore it points out the presence of a magnetic reaction also in neutral particles, as it has been experimentally confirmed. As a matter of fact, in our mechanical model even elementary charges have a spin, and for instance Stern-Gerlach experiment on the splitting of a narrow beam of atoms (for instance of Ag or H2), submitted to a non uniform but symmetric magnetic field, can been easily explained under our hypotheses - without introducing at all a presumed directional quantization of a magnetic dipole momentum, which in our opinion does not exist. 7 - Energy of electromagnetic waves Let's examine plane monochromatic linearly polarized e.m. waves. We first remark that energy densities of E and B are identical: (7.1) w = ε0E02/2 = B02/2µ0 (E0 is the amplitude of the electric field, and B 0 the amplitude of the induction field). The same identity is found for acoustic waves: (7.2) w = ρω2s02/2 = p02/2ρv2 where ρ is the density of the medium, ω the angular frequency, v the propagation velocity, s0 the amplitude of displacement, p 0 the amplitude of pressure variation. We will come back again to this in the following. We can now get the equation which rules e.m. waves propagation - in a chargeless and therefore currentless space, that is to say outside of conductors (∇(ϕ) = 0). Keeping in mind that in this case equation (5.11) yields curl(B) = ε0µ0∂E/∂t , and that B = curl(A) , E = -∂A/∂t, we obtain, by means of simple substitutions in the first previous equation: (7.3) ε0µ0∂E/∂t = curl(curl(A)) = ε0µ0∂2A/∂t2 = ∇2(A) - ∇(div(A)) . We introduce now the well known "gauge condition":


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(7.4) div(A) = 0 , and we get at last from (7.3) the wave equation: (7.5) ∇2(A) - ε0µ0∂2A/∂t2 = 0 . The magnetic potential vector A, which is today usually introduced as a not univocally defined mathematical function, without any physical meaning, is now interpreted as an ether displacement, namely as a primary wave function, an observable physical quantity, from which all the others electromagnetic quantities can be deduced. Remark 3 - As far as (7.4) is concerning, a divergence different from zero of a vector function would paradoxically contrast the homogeneity of free space! The other commonly used (for instance by Landau) Lorentz gauge condition: (7.6) div(A) = - ε0µ0∂ϕ/∂t , which is invariant from the relativistic point of view, is not physically meaningful, since potential ϕ is not a spatial wave function. The variable potential electric field only exists between two opposite distributions of charges in conductors, or between the plates of a capacitor. No experiment has, up to now, located in free space any electric field, variable and conservative, acting in the direction of propagation, that is to say, a longitudinal electric field! Even this persisting confusion can be overcome by the mechanicai tnterpretation of electromagnetism, according to the presently proposed model of elementary charge. Of course, when the function ϕ is a constant in the time, then the equation (7.6) coincides with (7.4). Coming back to our point, chosen the positive axis x as the propagation direction, and the plane xy as polarization plane, a displacement wave function solution of (7.5), which has now the following form: (7.7) ∂2Ay/∂x2 - ε0µ0∂2Ay/∂t2 = 0 , is a function of the kind:


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(7.8) Ay = A0sin(kx-ωt) where k = 2π/λ is the wave number, λ the wave length, and ω = 2πν the angular frequency, λν = propagation speed = c , c2 = 1/ε0µ0 (see (3.1)). The local velocity field is obtained by derivation of (7.8): (7.9) Ey = -∂Ay/∂t = ωA0cos(kx-ωt) = E0cos(kx-ωt) while the rotational relative stress is: (7.10) Bz = -∂Ay/∂x = kA0cos(kx-ωt) = B0cos(kx-ωt) Taking into account (7.9) and (7.10), we obtain in fact the same energy densities, according to (7.1): (7.11) ε0E02/2 = ε0ω2A02/2 = 2ε0π2ν2A02 and (7.12) B02/2µ0 = k2A02/2µ0 = 2π2A02/λ2µ0 = 2π2A02/(1/ε0ν2) . ----e-mail: giorgiocannata@inwind.it

Concezione meccanica dell'elettromagnetismo secondo Maxwell


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COMMENTI RICEVUTI


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PARLARE DI FILOSOFIA 1 Dal mio punto di vista, nasce subito un problema parlando di filosofia con altri (non a se stessi): la dialettica. Che è parola/concetto significante sostanzialmente dialogo. Penso che ogni filosofo (di meno il comune ragionatore di filosofia: storico, saggista, divulgatore, insegnante, propagandista...) imposta/mantiene/realizza la dialettica che gli sta più a genio, se ne è capace. Un solo schema dialettico - ritengo - è necessario/sufficiente (direi meglio salutare/consigliabile) e va scelto affinché si sia capiti e 'partecipati' nel dialogo: cioè si risulti effettivamente dialettici. Uno schema vale l'altro - ne sono certo. La cosa difficile è mantenerlo con coerenza per tutto il ragionamento, evitando la faciloneria della citazione, la seduzione del fregio linguistico, lo scivolamento che illude di spessore argomentativo mentre dà solo un po' di fiato al ragionatore affannato.

2 Filosofeggiare su qualsiasi argomento o tema o problematica ha significato secondo me nella misura in cui si definisce da subito (quasi a premessa o come postulato) il proprio schema dialettico di riferimento. Quando mi succede d'aprire un libro/di sfogliare una rivista filosofica, fin dalla prima pagina/dalle prime frasi mi chiedo: questo autore pensa logicamente/secondo quale logica, eticamente/secondo quale etica, esteticamente/secondo quale estetica, o le tre angolazioni insieme come un tutto organico dell'essere coscienziale? La sua, è dialettica di tipo socratico/platonico (verità frantumata/riunificata/divisa), di tipo aristotelico (verità possibile/affermata/confutata), di tipo stoico (verità elementare/illuminante/splendida)?... E giù fino a Hegel, a Marx, a Nietzsche; al freudismo, all'esistenzialismo, o a non so quali maestri, avanguardie e movimenti del mio tempo e di altro tempo. Altrimenti - mi chiedo - questo 'ragionatore' si rifà a dialettiche di tipo fideistico (in verità dubbie perché catechistiche, morali/moraleggianti, per definizione seduttive e ingabbianti il libero pensiero) come induismo,


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buddismo, taoismo, ebraismo, cristianesimo, islamismo... Se no, la dialettica è proprio sua; ma quale allora?

3 Io mi definisco - è il mio schema dialettico che esprimo con immediatezza nuda - 'filosofo della tridimensione'. "Tridimensione" è difatti il titolo della formula/libro/teorema che ho scritto, in cui spiego la mia visione/concezione/emozione (appunto ternaria, ossessivamente ternaria) di me/dell'uomo, della vita, del mondo/di dio. Questa formula/teorema, nella sua sintesi più estrema, consiste nella seguente operazione mentale: andando a misurare/giudicare/interiorizzare una qualsiasi entità che m'interessi, pongo l'oggetto di tale misurazione/giudizio/interiorizzazione al centro di tre assi ortogonali. I quali chiamo, geometricamente, altezza/lunghezza/larghezza: ovvero verticalità/orizzontalità/profondità (la mia dimensione del linguaggio), pensiero/azione/senso (come intendo il concetto di humanitas) e logos/ethos/pathos (la percezione che mi resta del sé e della trascendenza). L'entità che vado a collocare ogni volta nel punto d'intersezione dei tre assi, ha così, fin dove arriva naturalmente la mia perspicacia, un'altezza/una lunghezza/una larghezza, ecc. ecc.

4 Ora, poiché lo scritto di Rocco Vittorio Macrì dal titolo "Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento", che si legge in Episteme/n. 1/giugno 2000/pagg 9-74 (presso Umberto Bartocci/Università di Perugia) non ha/non mi pare che abbia nessun incipit o enunciazione di schema dialettico che serva a me o ad altro lettore come filo, guida e confronto, mi chiedo perciò, fin dalla prima pagina/fin dalle prime righe e magari dal titolo stesso, molte cose... Fondamento come logos, come ethos o come pathos (i termini più emblematici dei miei tre assi)? Fondamento come archetipo/struttura, come obbiettivo/valore o come rapporto/modello (i sei capisaldi che derivo da alto/basso o altezza, avanti/dietro o lunghezza, destra/sinistra o larghezza)? Fondamento come intuizione, o percezione, o relazione, o ragione, o memoria o immaginazione (le sei funzioni della personalità umana, corrispondenti ancora ai sei punti suddetti)? Oppure tutte insieme, o queste insieme con tutto, o che altro e quant'altro?


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Ma mi rendo presto conto che la 'dialettica' del Macrì è quella d'un cattolico/vaticanista. Che cita in apertura una frase oscura e impasticciata di Jacques Maritain e a ruota Giovanni Paolo II; poi a ripetere il primo e il secondo, seguitando a correre in questa direzione fino in fondo. Scorro dunque la titolazione dei paragrafi, scegliendone alcuni, scivolo un po' soffermandomi sulle note e sulla bibliografia (di ben ventiquattro pagine)... Insomma, mi sembra d'essermi già reso conto, in una decina di minuti, che genere di scrittura filosofica abbia fra le mani e sotto gli occhi: ovvero non capire niente di quello che vado leggendo - o tutto - come al solito.

5 Poiché dunque mi manca l'identità dialettica dell'altro/del Macrì, eppure intuendo nella sostanza dove questo ragionatore di filosofia vuole andare a parare, mentre procedo nella lettura faticosa e sblazata della forma del suo saggio (il contenuto/elemento ternario di mezzo, a questo punto, mi sembra inutile), mi sorprendo che vado - come dire? - a ruota libera. Mentre leggo/sfoglio qua e là, penso che, se dovessi parlare io di 'pensiero debole', riguardante il mio tempo storico o altro tempo, un pensatore/filosofo qualsiasi o me stesso magari, non lo farei di certo alla maniera del Macrì. Prima mossa - metterei l'entità/concetto di 'pensiero del mio tempo' (se proprio di questo avessi da ragionare) al centro del mio sistema triassiale. Sapendo però in partenza di volerlo, questo pensiero, anche 'debole', definirei con tale attributo - seconda mossa - un asse dei miei tre (preferibilmente la larghezza, che è analoga a profondità, a senso e a pathos). Dal che gli altri due assi del 'pensiero del mio tempo' diventerebbero - terza mossa - forte/alto e moderato/lungo. Quarta mossa stabilirei così, genericamente, che forza/moderazione/debolezza fanno un ternario inscindibile, circolare e perfetto caratterizzante qualsiasi altra entità: persona, oggetto, situazione. Concluderei - quinta mossa estendendo il ternario forte/moderato/debole dal mio tempo dell'oggi, di cui sono testimone, all'universo intero, di cui sarò forse testimone fuori della tridimensione. Finendo col pensare paradossalmente - sesta mossa che anche Dio (se c'è come suppongo e sempre che gli sia ascrivibile un pensiero alla maniera di quello umano) beh, che abbia anche Lui un pensiero forte/moderato/debole!


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6 Pensando/dicendo/scrivendo di 'pensiero debole', a farlo proprio per necessità, rivendicherei almeno per me tale unitarietà/inscindibilità/simultaneità: con determinazione, con sicurezza, con piacere. Direi che sono - vorrei essere! - uomo adulto/maturo/consapevole: in una parola organico. Che la mia visione/concezione/emozione delle cose è tridimensionale, per cui mi reputo sì uomo di pensiero strategico/fondante, ma al tempo stesso di azione coerente a tale pensiero e di animo soddisfatto e sano perché contento di compiere quelle azioni coerenti. E qualora mi venisse l'ubbìa (dico per giuoco, ma anche per fede) di definire 'debole' questo mio pensiero fondante/strategico - guai se non lo fosse affermerei che insieme è forte e moderato - guai se non lo fosse. Direi questo, dialetticamente, se mi venisse voglia di parlare di 'pensiero debole'.

7 Dopo di che, seguitando a svolazzare con un terzo del mio pensiero forte/moderato/debole sopra il saggio del Macrì, con gli altri due terzi vado/anzi piombo sul suo 'relativismo'. Già è nocivo ed amputante per me contrapporre 'relativismo' ad 'assolutismo': nocivo/pericoloso perché ogni contrapposizione diametrale ingenera avversità e inimicizia, ed amputante/perverso perché ogni monco binario va integrato naturalmente in ternario (se si vuole uscire una buona volta - prometto - dalla barbarie dell'intelletto). Perciò aggiungerei a relativismo/assolutismo un terzo elemento in coerenza con la mia tridimensione: che chiamerei 'personale'/'personalismo', perché coinvolgente la profondità più riposta della personalità del soggetto/di ogni soggetto. Ma attribuendogli sicuramente lo stesso grado di valore degli altri due!... Così che affermerei in definitiva che c'è un modo di essere (come udire/vedere/toccare l'Essere) in primis 'assoluto', secondariamente 'relativo' e in terza istanza 'personale'. Potrei dire di me, per fare solo un esempio, che sono 'assolutista' quando credo in un forte convincimento, in una legge, in un dogma, orientando le mie scelte consapevoli in quel senso e solo in quel senso; tanto che chiunque constatassi diverso da me, non sintonizzato/non sintonizzabile oppure alieno, tratterei con indifferenza, lo eviterei o detesterei, perfino cercando di ucciderlo se lui tentasse prima di farlo a me. Ma sono anche


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'relativista' nei momenti innumerevoli del giorno/dell'anno (altrimenti non solo non sopravviverei, ma perderei il gusto della vita) quando mi scopro angolare, sperimentatore, elastico, curioso, sintonizzato, volubile, non scegliendo competitivo, non attaccando conflittuale, ma adeguandomi alla realtà irresistibile del momento. E però, per terzo, sono anche 'personalista', esprimendo in qualsiasi forma (ad esempio con l'arte, come faccio) la mia pazzia incomprensibile, il mio sogno incondivisibile, la mia unicità irripetibile; tanto che se solo pensassi in quei momenti visionari ed allucinati d'inginocchiarmi all'assoluto (dio, universo, natura, ordine, legge, regola) o flettermi al relativo (rapporto, opinione, scelta, piacere, convenienza, critica) entrambi questi ordini di pensieri mi sembrerebbero inadeguati, a dir poco, e a dir molto scemi.

8 Ma a parte la specifica contrapposizione di cui sopra tra relativismo/assolutismo, sono radicalmente convinto (il Macrì direbbe 'assolutisticamente' convinto) che qualsiasi binario filosofico/concettuale germina il due/numero tragico, la dualità/nemica della misura, il dualismo/impregnato di devastazione. Credo che anzi quanto appena detto sia - ecco finalmente il centro del mio discorso! - il vizio per eccellenza delle culture umane, sulla terra, millenarie, che sento pesarmi addosso come un macigno, come una montagna di macigni (mi succede sempre più spesso d'essere lucidamente convinto di questo j'accuse): tutta/questa/nostra cultura inquinata/intossicata/avvelenata di dualismo! Rivendico ormai a tal punto il 'tre', i sistemi ternari, la mia "Tridimensione", che se dovessi malauguratamente pensare che il relativismo è "struttura portante del pensiero debole" alla maniera del Macrì, parimenti ammetterei che il relativismo è struttura portante del pensiero forte e del pensiero moderato. Ammetterei inoltre che l'assolutismo - è il suo turno - è struttura portante anche del pensiero debole e del pensiero moderato, oltre che esserlo suppositivamente (ancora alla maniera del Macrì) struttura portante del pensiero forte. E chiuderei il cerchio, aggiungendo d'obbligo che il personalismo è struttura portante del pensiero forte, del pensiero moderato e del pensiero debole, contemporaneamente, simultaneamente… irresistibilmente!


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9 A questo punto, avviandomi come sto facendo alla fine della lettura zoppa - colpa mia - del saggio del Macrì, l'ordine della divagazione che consumo ormai sistematicamente dall'inizio (con danno mio e di chi mi leggerà eventualmente) non può non rivolgersi a quell' "indebolimento del fondamento" che è - mi sembra - il cuore del saggio di questo Autore... (qui, almeno, io e il Macrì, putacaso c'incontrassimo, potremmo trovare un accordo). Io, per me stesso, sono convinto che non si tratta d'indebolimento, ma di mancanza; neppure di perdita, ma d'inesistenza bella e buona del 'logos'. Il logos, oggigiorno, non è tanto indebolito come dice Macrì/Giovanni Paolo II/Maritain: il logos non c'è adesso, come non c'era ieri e meno nell'antichità. Un vero logos - sono stra/sicuro - non è mai esistito, se non forse in rari uomini/filosofi, sparsi per la storia umana come pietre preziose per una strada mineraria e mai comunque, anche di essi, per tutto il tempo della loro vita matura. Il Logos (con la 'l' maiuscola come è per il Maritain la 'v' di Verità) è la visione/concezione/emozione tridimensionale delle cose, come ho detto: cioè, nella sostanza/nel contenuto/nella forma, pensiero fondante azione coerente che genera godimento sano. Tutto qui/non è poco, anzi è utopistico, o del tutto irrealizzabile almeno per il momento. E questo, ben inteso, al di là/al di fuori, anzi al di sopra della adesione che un determinato Logos susciti (più/meno sostenitori), del suo resistere al tempo (attimi, secoli o ere) e del diniego che scateni in chi ne sostenga altro/diverso (l'immancabilità/ineludibilità fatale del dissenso). Avere pensieri fondanti/strategici (come dire partire bene) che si concretino immancabilmente in azioni coerenti/fedeli (come dire camminare bene) affinché in fondo - questo il punto cruciale - ci si compiaccia/si goda (come dire arrivar bene), beh penso che sia davvero difficile/improbabile, comunque mai è successo a livello societario nella storia dell'uomo, neppure a livello di eccezionalità individuale a guardar proprio bene/bene. Forse un giorno l'uomo/gli uomini riusciranno in questo: a realizzare una civiltà dei Logos, politiche del Logos, ogni uomo con il suo Logos...


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10 Pur tuttavia, a conclusione della mia piccola/monumentale divagazione dialettica (poiché dialettica non ho trovato nelle pagine del Macrì) mi chiedo senza veemenza... Perché certi ragionatori di filosofia/non filosofi si trincerano dietro l'accusa delle "verità parziali/provvisorie", della "miriade di interpretazioni soggettive", del "riconoscimento della disparità dei valori", bollando il libero pensiero di relativismo, nihilismo, individualismo... E poi di sofismo, anarchica, qualunquismo... E poi ancora di ateismo, eresia, blasfemia... Perché sostengono nei momenti/loro di crisi, ripetitivi come pianticelle nella serra e tenaci come baobab nella giungla (direi tuttavia prevedibili), che la società/tutta è in crisi, che l'unico vero 'logos' del mondo (in realtà i vecchi logos dei vecchi poteri che cedono) è infiacchito, degradato, moribondo?... Verità marchiate/nere da questi ragionatori come 'conosci te stesso', 'l'uomo è misura di tutte le cose', 'le cose che appaiono a me sono tali per me e le cose che appaiono a te sono tali per te', 'nulla è e, se anche è, è inconoscibile e, se anche conoscibile, è incomunicabile", 'sospendi il tuo assenso: non giudicare!', 'Dio è morto, viva Dio!' e frasi a mille come queste, per me hanno incisività, saggezza, plasticità; mi paiono preziose; penso che dimostrino un'assolutezza, una profondità e una resistenza al tempo che non l'hanno (se non malamente e confusamente) molte parti o tutte di tutti i 'libri sacri' del mondo. Perché - mi ri/chiedo - tanta banalità, tanta noia, tanta acredine? Devo - suppongo - rispondermi a conclusione di tutto da me... Perché essi non sono produttori di logos. Perché essi sono semplicemente consumatori di logos. Perché il logos, che consumano passivamente, è tra i meno 'logici' esistenti: è il logos che appartiene al cliché delle verità 'rivelate da dio'... Quelle variegate fisionomie di 'dio', formulate ed elaborate nelle geografie/storie/ culture più diverse, che di 'dio', del 'metafisico', di quello che ciascun uomo sa/deve/potrebbe saper fare con la sua 'funzione trascendente' hanno molto poco a che fare - mi sembra e temo. Euro Roscini/ottobre 2000 Via dei Tornitori, 10 06123 Perugia *°*°*°* Si informano i lettori che il libro di Euro Roscini, Tridimensione, è appena uscito (novembre 2000), presso: Morlacchi Editore, Perugia: editore@morlacchilibri.com .


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Omero - Cenno storico-biografico Tutto ciò che si sa di Omero è leggenda. Incerto è il suo luogo di nascita: probabilmente la città di Chio, o quella di Colofone, oppure Smirne, per anni la più quotata per motivi linguistici e culturali. Incerta è l'origine del suo nome, forse di etimologia non greca: potrebbe derivare da ho mè horôn, ossia 'il non veggente' (la leggenda ci descrive infatti Omero come un aedo cieco), ma altri avanzano l'ipotesi che il suo significato sia quello di 'ostaggio' oppure di 'raccoglitore'. Per quanto riguarda l'età in cui visse (e quindi l'epoca dell'Iliade e dell'Odissea), le date oscillano tra il XII e il VI secolo A.C., anche se le tesi più accreditate propendono per il VII o VIII secolo. Per Erodoto, invece, Omero sarebbe vissuto 4 secoli prima di lui, il che collocherebbe l'aedo indietro nel IX secolo. La maggior parte delle sue tarde (e fantasiose) biografie sono zeppe di notizie senza alcuna possibile corrispondenza con la realtà, come ad esempio l'aneddoto relativo alla sua gara poetica con Esiodo. Ad Omero, considerato il primo poeta epico, gli antichi attribuirono molte opere: oltre all'Iliade e all'Odissea egli avrebbe composto dei poemi ciclici (Tebaide, Epigoni, Ciprie ecc.), una raccolta di inni, alcuni epigrammi e dei poemetti di genere giocoso. A nessuno venne in mente che Omero potesse non essere mai esistito finché, nel III secolo A.C., Zenodoto non sollevò dei dubbi circa la paternità di alcuni versi dell'Iliade e dell'Odissea, presto seguito da Ellanico e Xenone i quali, insospettiti dall'apparente disomogeneità linguistica ed ambientale che correva tra i due poemi, ipotizzarono che il secondo fosse stato composto da un ignoto aedo ben 100 anni dopo il primo. Era l'inizio dei dibattiti e delle ricerche sulla cosiddetta 'questione omerica', riguardante soprattutto la vera paternità dei due poemi epici a noi pervenuti, ma allargata anche ad altri quesiti, quali: Omero è esistito davvero? I due poemi fanno parte di un tutt'uno omogeneo? E se appartengono a più autori in che modo sono stati composti e tramandati? Già Aristarco di Samotracia tentò di dare una spiegazione: l'Iliade e l'Odissea appartengono uno alla giovinezza e l'altro alla vecchiaia dello stesso autore (Omero, naturalmente). Col passare del tempo, però, le soluzioni non sembrarono più così a portata di mano e le correnti 'unitaria' e 'antiunitaria' (che sostenevano rispettivamente la tesi dell'autore unico e quella della pluralità di autori) si arricchirono delle ipotesi più variegate. G. B. Vico pensava che Omero non fosse mai esistito ma che fosse semplicemente stato assurto a simbolo della poesia greca dell'età eroica, nonostante i due principali poemi di quest'ultima si dovessero a più autori. A sua volta Wolf prospettò l'ipotesi che, in assenza della scrittura e nell'impossibilità di mandare a memoria 2.800 versi, differenti aedi fossero stati latori di diversi canti, riuniti poi in forma di poemi epici nell'epoca di Pisistrato. A loro si aggiunse una visione 'archeologica' dell'Iliade e dell'Odissea, che vennero concepite come un insieme di stratificazioni attribuibili ad epoche differenti o come ampliamenti da nuclei originari. Con il passare del tempo lo sviluppo delle lettere comparate, della filologia, dello studio della letteratura popolare e degli scavi archeologici (che confermerebbero l'esistenza della scrittura già in epoca micenea), ha dato vita alla corrente cosiddetta 'neounitaria', la quale non nega l'esistenza di originari canti primitivi, ma allo stesso tempo afferma con forza l'unità dei due poemi in quanto composti da un singolo autore, che avrebbe raccolto i nuclei originari e li avrebbe ordinati in maniera personale utilizzando il dialetto ionico ed il verso esametro, vale a dire la lingua e la metrica dell'Iliade e dell'Odissea. A questa corrente si aggiunge l'interpretazione dell'Iliade e dell'Odissea come 'enciclopedie tecnologiche', ossia come collezione di saperi e di pratiche oralmente tramandate, indispensabili alla coesione culturale. Al di là di tutte le possibili versioni, è quasi certo che Omero non sia mai esistito e che i due poemi siano stati tramandati da più aedi erranti. Ma, nonostante l'autore dell'Iliade e dell'Odissea si riduca ad un fantasma, rimane il mistero di una costruzione e di una sintesi che, probabilmente nel VI secolo, ordinarono la materia informe ed eterogenea dei racconti più antichi e ci tramandarono due opere dalla fortuna e dalla forza inestinguibili tra i greci come tra i romani (il primo a tradurre l'Odissea in metro saturnio fu Livio Andronico ed Ennio sostenne addirittura di essere la reincarnazione di Omero), passando per il Medioevo (tramite l'Omero latino) e per l'Umanesimo, su su fino ai giorni nostri, offrendo a chiunque voglia leggerle due storie rimaste miticamente e straordinariamente avvincenti.

Nota di Maria Agostinelli http://www.liberliber.it/biblioteca/h/homerus/index.htm


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REPRINTS


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LE ROLE ESSENTIEL DE LA SCIENCE PURE* Notre époque est, surtout depuis quelques années, une époque de grands développements techniques et, pour employer un mot à la mode, de planification dans tous les domaines. Il est normal qu'il en soit ainsi et l'on peut espérer qu'il en résultera de constantes améliorations dans les conditions de vie et d'activité des hommes. Cependant, il ne faudrait pas que cette nécessaire préoccupation constante des progrès techniques conduisît à méconnaître le rôle essentiel que la Science pure, fondamentale comme on dit de préférence aujourd'hui, a toujours joué dans le développement de nos connaissances des phénomènes naturels et par suite dans la possibilité de les utiliser à notre profit. Il ne faudrait pas non plus qu'elle conduisît à oublier que la recherche de la Vérité scientifique est le plus beau privilège de la pensée des hommes, privilège qui place la race humaine bien au-dessus de toutes les races animales. C'est en cherchant la vérité** sans grand souci des applications immédiates que les plus grands savants du passé ont ouvert les voies qui ont permis les admirables applications pratiques que nous vovons aujourd'hui se multiplier autour des nous. Les ordinateurs, dont à l'heure actuelle les applications se multiplient indéfiniment, savent répondre aux questions que nous leur posons avec beaucoup plus de précision et avec infiniment plus de rapidité que nous ne saurions le faire. Mais que feraient ces machines admirables si elles n'avaient pas autour d'elles des cerveaux humains pour leur poser les problèmes a résoudre? Il faut donc continuer à encourager la recherche fondamentale à la fois parce qu'elle est l'honneur de l'esprit humain et parce qu'elle est la source de tous les progrès dans l'ordre intellectuel et dans l'ordre matériel. Et il faut aussi laisser à la recherche fondamentale, quand elle est sérieusement poursuivie, une entière liberté de façon qu'elle puisse, suivant les tendances de chacun, s'élancer dans des voies nouvelles. Dans ce domaine, tout dirigisme, toute organisation trop hiérarchisée, risquerait d'être funeste. L'histoire des sciences nous apprend et c'est peut-être l'un de ses plus frappants enseignements, que toutes les conceptions nouvelles introduites par d'audacieux chercheurs se sont d'abord, avant d'être reconnues exactes,


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heurtées à des idées admises ou à des modes d'enseignement généralement adoptés. A la fois, pour que l'esprit humain puisse continuer dans la découverte et l'explication des phénomènes naturels son éblouissante carrière et que par la suite il puisse en résulter d'utiles et souvent magnifiques applications, il faut que la recherche scientifique fondamentale reste encouragée, honorée et libre. Louis de Broglie De l'Académie française Secrétaire perpétuel de l'Académie des Sciences Prix Nobel ----* Paru dans La Nouvelle Revue des Deux Mondes, Août 1972 ** Il motto di Yale recita: "Lux et Veritas" (dalle bibliche "Délosis kaì Alétheia", secondo la versione greca detta dei Settanta, rese anche talora in latino come "Doctrina et Veritas": Sal. 43,3; nello stemma della celebre università americana compaiono in effetti anche le parole ebraiche originali, "Urim e Tummim", che fanno riferimento agli stessi concetti, ancorché nella forma plurale - con qualche difficoltà in ordine a una loro precisa interpretazione! - e sono riportate nell'Efod, simbolo del sacerdozio sacro di Israele: Es. 28,30; Lv. 8,8; Dt. 33,8), mentre in quello di Harvard troviamo più semplicemente: "Veritas". Tale riferimento ispiratore di tutta l'attività universitaria, sin dai suoi primordi storici, non dovrebbe mai venire dimenticato... ----Louis de Broglie The French physicist Louis de Broglie, b. Aug. 15, 1892, d. Mar. 19, 1987, is known for his theory that matter has the properties of both particles and waves. This particle-wave duality, derived from the work of Albert Einstein and Max Planck, was experimentally confirmed, for the electron, in 1927. De Broglie received the 1929 Nobel Prize for physics. Born into a noble family and educated at the Sorbonne, de Broglie received his doctorate in 1924. De Broglie's doctoral thesis contains his


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theory of electron matter waves, later used by Erwin Schrodinger to develop wave mechanics. De Broglie has also written numerous popular works, including New Perspectives in Physics (1962). Bibliography: Rueff, Jacques, The Gods and the Kings (1973). (from: The Software Toolworks Multimedia Encyclopedia, 1992 Edition) [Si ringrazia vivamente la Principessa Emanuela Kretzulesco Quaranta per aver fornito la fonte di questo Reprint]

Elizabeth I, Queen of England - The "Rainbow" portrait


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THE RAINBOW SCHEME BRITISH SECRET SERVICE AND PAX BRITANNICA (Stevan Dedijer) Introduction I propose here that the "Rainbow" portrait of Elisabeth I at Cecils' Hatfield House in England is a statement of an Elisabethan "grand scheme" probably conceived and commissioned around 1600 by cousins Francis Bacon and Robert Cecil with the knowledge and participation of the Queen herself. For her portraits were a state matter of political importance in which she had the final word. The scheme is a statement in the policy debate going on in England after the defeat of the Spanish Armada in 1588. As we shall see, it is also a part of the international debate on the role and policy of England and on the philosophy of the state. The cypher key for the whole "Rainbow scheme" and each of its component parts is found in iconology, the language of symbols, and images. From 1400 on, this now dead language of symbols was widely used by writers, poets, painters, architects, designers of processions and charades, kings, queens, ministers, officials in all courts and intellectual centers of Europe, including England, to communicate ideas, messages, to set up puzzles. Inventing and solving allegorical problems in the language of symbols, often with political content, was a popular pastime at European courts of the time. Queen Elisabeth herself, the most intellectual monarch of her time, was tops at this symbolic conundrum game. She knew the symbolic language, like she knew French, Italian, Latin, Spanish and Greek. William Cecil, her Secretary of State until 1572 and Treasurer until his death in 1598, wrote on December 7, 1593, at the age of 73 to his son Robert about an "Allegorical Letter" he challenged the 60 year old Elisabeth to decipher: "Hir Majestie, [wrote William] discovered the Litterale Sence thereof before the mydsts of it seene ... I think never a Lady ... nor a Decipherer in the Courte would have dissolved the Figure as Hir Majestie hath done." For Elisabeth, as she wrote in a letter to her favorite courtier, Christopher


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Hatton, "the Rainbow brought the good tidings". The Rainbow portrait is a policy proclamation bringing the good tidings "of a Golden Age Empire/ under Anglican England's world leadership/ to be based not on war/ but on strength, peace, compassion/ and a vigilant use of knowledge, science, intelligence, espionage and secrecy." For each of these themes some supporting historical evidence is presented making each plausible. It is shown, first, that each theme, and especially the one about knowledge, intelligence and espionage, has been an issue of concern for, and is based upon the experience, judgements, innovations of leading members of Elisabeth's government and of the English nation. Second, that it is most strongly related to the thoughts and writings of Bacon, the farsighted analyst of the relation of knowledge, power, and intelligence in the knowledge industry revolution of the 16th and 17th centuries. I found a high concordance and no serious contradictions in the use of the symbols language by, first, the proposed authors of the Rainbow, second, dictionaries and authorities on symbols of that time, especially Cesare Ripa's Iconologia and, third, by Bacon in all of his creations including a petticoat (!) for Queen Elisabeth. All evidence presented about the social context, intelligence culture, and their personalities makes it plausible that the two cousins together with Elisabeth produced the original idea and commissioned the painting, which was - probably - paid by Robert since Francis, as usual was broke at the time. The conjecture does not require changes in the previous hypotheses and evidence about the probable painter of the Rainbow. In a brief concluding section I relate the Rainbow scheme for intelligent Intelligence from the l6th century to the current schemes to reform national intelligence doctrines and communities in today's much more complex, and world wide knowledge industry revolution. An Ariadne's Thread for the "Rainbow" The efforts to reform national intelligence policies and communities in the current knowledge revolution could gain from a study of the rise in a similar revolution in the l6th century of the first and most successful national intelligence service, that of England. Since that time, foreigners both enemies and friends - have had an envious respect for the British Secret Service. This respect was based on the foreigners counterintelligence operations, reinforced, perhaps, by the deception technique first proposed by Francis Bacon in 1594 in his Discourse touching Intelligence and the Safety of the Queen's person. Bacon urged the Privy


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Council of Elisabeth to "sow(n) an opinion abroad that her Majesty hath much secret intelligence and that all is full of spies and false brethren." The final result is shown by the opinions of two of England's most powerful opponents: the Vatican in the 16th and Germany in the 20th century. The Vatican nuncio [sic] in Flanders of the l580's believed that "The Queen of Edgland, I know not how, penetrates everything," the nuncio in Spain warned that she "keeps a bright lookout on all sides," their Paris colleague warned the Pope that many English religious exiles are spies. The Curia in Rome heard from Mary of Scotland in prison in England, whose letters were secretly read by Walsingham in London that Elisabeth had agents close to the Pope. While among the 20th century Germans, Himmler envied British Intelligence's considerable "part in building and holding the British Empire," Hitler and Schellenberg "its tradition of 300 years," and general Gehlen described intelligence as Britain's "most important instrument for marshalling the raw materials of foreign policy." In the German Army Informationsheft [sic - forse Informationschaft] for the invasion of Britain in 1940, the German troops are warned that "Intelligence is a field in which the British, by virtue of their tradition, their experience, and certain facets of their national character - unscrupulousness, self-control, cool deliberateness and ruthless action - have achieved an unquestionable degree of mastery." For centuries such assessments had been deduced from and after the events, for the leaders of England until recently have kept silent about their intelligence doctrine as related to national policy. I conjecture, however, that some time before the death of Elisabeth in 1603, some of these leaders for their own use summed up creatively the intelligence experience during Elisabeth's reign and formulated the expansion strategy for the then second rate power that England was compared to Spain and France, which pursued by their successors, in the 19th century resulted in a "Pax Britannica" empire, "on which the sun never sets." The idea for this secret and farsighted course arose from the intense debate in England of the 1580's and 90's on war as the instrument for national security and expansion. It was becoming clear to men like William Cecil, his son Robert, the mathematician and intelligencer John Dee, scholar Hakluyt, Francis Walsingham, and Francis Bacon that England's future lay in overseas trade, expansion, inventions and that, because of its naval superiority, insular England - in the words of Bacon - "is at liberty and may take as much and as little of the war as (it) will." The debate was a national one. Students and teachers at Oxford were debating in that decade


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among the usual "Questiones Philosophicae" such as "Is Woman a nature's mistake?," "Do many worlds exist?," also "Can war be just for both sides?," "Should one advocate war to promote national goals?," "Is it wiser for a king to invade or [wait] to be invaded?" The same issues - as we shall see - were discussed among lawyers and students of jurisprudence at Gray's Inn where Bacon worked in 1590's. In the intellectual atmosphere of the Elisabethan establishment these debates reflected and influenced the political struggle on the issue in the Court and the Privy Council between the "peace party" led by William and Robert Cecil and the "war party" led by Essex, Walter Raleigh and others. These argued as Essex did in May 1598 in his Apologia that "Peace will encourage the enemy," "A just war is our necessity," while the Cecils maintained what they always believed and acted upon, that "War is a curse." In that month at one fiery Privy Council meeting the elder Cecil shut up Essex by reading to him prophetically from his pocket Bible about the "men of blood" dying prematurily, which Essex did of the axe at 32 in 1601. By 1604 under James I who succeeded Elisabeth in 1603 the issue was settled. Raleigh was in the Tower and Robert Cecil had negotiated for England a peace after 30 years of strife and war with Spain, a peace that helped to open her global ernpire to British trade. The Grandest Scheme Previous decipherers of the Rainbow, Frances Yates, Roy Strong and Rene Graziani, approached it as an expression of "courtly eulogy," of a cult of Elisabeth or "religious sentiment." For Elisabeth herself, her Privy Council, Court and establishment, these were the sweets and trifles whereas power politics, policy, knowledge, intelligence were the daily bread. For the men of the new Elisabethan generation such as Essex, Raleigh, Francis Bacon and others in the decade after the 1588 Armada defeat, the language of art and religion, if used at all, was at best a means to communicate, embellish or hide more ambitious political schemes. Theirs were the updated concerns of the previous generation's explorers, sea dogs like Drake, Cavendish, Hawkins, promoters of commerce like William Cecil and Gresham, intelligencers like Walsingham, Richard Hakluyt and John Dee. Their exploits and designs are described in great detail in Richard Hakluyt's The Principal Navigations, Voyages, Traffiques & Discoveries of the English Nation, Made by Sea or OverLand to the Remote and Farthest quarters of the Earth at any time within the compasse of these 1600 Years, published in London in 1589; in


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biographies of William Cecil, Thomas Gresham, Francis Walsingham, John Dee, Francis Drake and others. The "aspiring minds" of the new generation, as shown by R. Elser, saw the whole earth as England's imperial "Oyster" to be "opened" by Englishmen's intellectual, political, military, commercial and geographic "grand schemes," "mighty designs," "romantic models," as they called them. They dreamed, in Raleigh's words "to seek new worlds for gold, for praise, for glory." Such was Sherley's idea to close Suez to Spanish trade, Essex's plan to invade Spain, Robert Cecil's "Grand Contract" between King and Parliament. Such were Raleigh's colonial expeditions and searches for Eldorado, Bacon's goal for a "total reconstruction of science, arts and all human knowledge" to serve England and by it humanity. Most such ideas were, as a Venetian diplomat described Sherley's, "Grand Scheme, Impossible to accomplish." The Rainbow, I suggest was the grandest scheme of all. Some time around the year 1600 cousins Francis Bacon and Robert Cecil, most probably with the knowledge of Elisabeth, were involved in the production of a farsighted statement of Pax Britannica and imperial strategy based not on war but on England's intelligence, espionage, science, and other might. The medium chosen to announce this scheme suited their temperaments, their purpose, the message and the times. Both cousins highly valued secrecy, Bacon even secrecy in science. But contrary to Francis, Robert abhorred talking in public about policy even in abstract terms. He was horrified by what he called "unsecrecy," and "unsecret men" telling his sovereign: "I hope your majesty sees my course would God no other did." The intelligence "mighty design" was, therefore, stated so that only English insiders would understand it: in the language of images and symbols with multiple meanings then widely used by European artists and intellectuals and, above all, by Francis Bacon in all of his writings. The channel for the "design" message was Elisabeth's Rainbow portrait. Of the 110 known contemporary portraits of Elisabeth I, the Rainbow is the most popular today because it is the most mysterious. As we look upon it on the wall of the Great Hall of the Cecils' Hatfield House, the mysterious bits of the Rainbow that catch our eye are many. For example, Elisabeth has a strange helmet-like headdress with a crown and a half moon in it, an unfashionable dress covered with English flowers, an iron gauntlet hanging on her collar. She holds a rainbow, the symbol of peace, in its proper position relative to her sun-like face, with an inscription on the side "No Rainbow without the Sun." The rainbow rises from her golden cloak covered with eyes, ears, closed mouths. A knotted jewelled serpent is on her left sleeve, with a celestial sphere over its head, a "seeing" heart in


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its mouth, etc. Finally, unlike the realistic portraits of her at the time, the Rainbow represents the 67 year old Elisabeth as a young woman. Some of Elisabeth's portraits have one or two such strange features (the "Phoenix," the "Ermine," the "Sieve", the "Ditchley"'). The Rainbow has three dozens of them. Why these unusual features? Why so many? What do they mean? Up to now art historians who tried have not been able to answer these questions. The Rainbow remains a mystery. FrancesYates, one of the most productive and bestknown interpreters of Elisabethan and Rennaissance art symbolism, tried as many other art historians to solve the Rainbow mystery. In her last work in 1975 she concluded: "Every detail in this picture is significant ... We may wonder how the artist, or the designer of this picture could have supposed the beholder of it would understand its complicated allusions." To answer these questions, to solve the Rainbow mystery one must reconsider the approach to art as expressed in the Rainbow in comparison to that of "pure art" historians of today. To start with, for Elisabeth herself, her Privy-Council led by such pragmatic politicians as William and Robert Cecil, for her court and the whole English establishment both before and after 1588, as for the kings, courts and governments of Europe including the Vatican, "courtly eulogy" (F. Yates), "religious sentiment" (R. Graziani), the "cult" of Elisabeth (R. Strong) - as they saw the essence of the Rainbow portrait - were the form, whereas power politics, policy formulation and implementation, knowledge and intelligence operations were the content of their daily work and concern. For all of them the language of artistic and religious symbolism was an ideological and political weapon extremely useful to mythologize, rationalize and disguise their political, economic, military goals, ambitions, designs and dreams. With such a socio-political approach, the Rainbow emerges as the "grandest" - because the longest lasting - of Elisabethan schemes. Later the intelligence culture and ambitions for the world empire may have induced others in England to rediscover, apply and achieve the goals of the same policy with a minimum of war and effort. But the Rainbow was the first such "scheme" composed by means of symbols in the painting with their meanings derived from contemporary symbolic dictionaries. Securitie Is the Bane of All Governments To comprehend that proposing an intelligence policy in a painting is within the spirit of Elisabethan times, to explain and test the cypher (or the symbols of the Rainbow one needs what does not exist, a comprehensive,


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detailed social history of Elisabethan intelligence and knowledge as part of its political culture. In spite of abundant sources it is not an easy history to write. For, though feared by everyone, there was no formally organized secret service in Elisabethan England. In typical English fashion each of its top leaders did his own intelligence thing - developed sources and agent networks - while reacting to internal and external threats in the pursuit of more or less jointly defined national goals. It is the sharing of these goals and of daily experience that generated the Elisabethan intelligence culture, unwritten doctrine and tradition all secretly and silently transmitted to future generations. From the commented deeds, principles, judgements and writings of five key Elisabethan figures I shall proceed to extract the basic themes of the knowledge and intelligence doctrines guiding their daily practical work and relevant for the Rainbow. Four of them are, what Bacon called power "gamesters": Queen Elisabeth herself, ruling England as an absolute monarch for 45 years, William Cecil, Francis Walsingham and Robert Cecil for 64 years the Principal Secretaries of State of England. Their job was defined by R. Cecil at the end of this period to be "at liberty to deal ... with all matter of speech and intelligence" and for that purpose "to maintain men abroad ... from all parts of the world." The fifth is the very foremost analyst of the times, Francis Bacon, the ideologue of the knowledge revolution of l6th century, who forsightedly saw in intelligence "the light of the State," the link binding power with knowledge and said so in the "Rainbow scheme" in 1600 and in his writings right up to his posthumous New Atlantis in 1626. "No War My Lords!" On November 17, 1558, when Elisabeth became Queen she appointed William Cecil to be her first minister. Most foreign observers of the state of England would have agreed with the evaluation made by Armagil Waad, the Clerk of Elisabeth's Privy Council who prepared a document on The Distresses of the Commonwealth, saying: "The Queen poor, the realm exhausted, the nobility poor and decayed. Want of good captains and soldiers. The people out of order. Justice not executed. All things dear. Excess in meat, drink and apparel. Divisions among ourselves. Wars with France and Scottland. The French king bestriding the realm, having one foot in Calais and the other in Scotland. Steadfast enemity but no steadfast friendship abroad." For the next forty years William Cecil was to be in Bacon's words "the Atlas of this Commonwealth," "the father of his country's peace" in Elisabeth's words. From the first both William Cecil


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and later his son Robert, until the latter's death in 1612, shared and strived to achieve Elisabeth's basic goals for England: "a peac[e]able, quiet, and well ordered state of kingdom," as she wrote in an intimate prayer to God on the back of an order for a mission by the sea-adventurer Frobisher. Her faithful servant and most famous intelligencer Francis Walsingham was continuously in trouble with Elisabeth for putting his aggressive, expansionist religious ideology first, thus: "I wish God's glory and next the Queen's safety". Elisabeth's shoe throwing and screaming at Walsingham in 1575 and many times before and after, "You Puritan, you will never be content till you drive me into a war on all sides and bring the king of Spain unto me," was accompanied by subtler criticisms of his policy. By means of a symbolic, iconographic message Elisabeth gave Walsingham the same lesson. She presented him with a symbolic painting - now in possession of Mrs Dent-Brocklehurst in England - showing herself leading peace by hand into England while her predecessor on the throne and sister, Queen Mary, and her husband, Phillip, King of Spain, are leading the God of War, thus identifying Walsingham's policy with that of Englands archenemy of the time. Elisabeth's injunction to her Privy Council, "No war, My Lords" were other restatements or her basic goals for England totally shared by the Cecils. For decades Cecil was known at home and abroad as the leader of the peace party in her Council and Court. Midst all threats, dangers, internal and external crises for England he worked assiduously for "the preservation of this realm in perpetual quietness." He stressed openly and confidentially in words, writings and actions "my disposition for continuance of peace and commerce," and that "a realm gaineth more by one year of peace than by ten years of wars." On his deathbed in 1598 he urged Robert to "tend in all thy actions in the state to shun foreign wars and seditions." Robert himself maintained to the end of his life that "Peace is the mother of all honour and State." From Bacon's writings one concludes that he himself believed and advised at all time that peaceful means were preferable for welfare and expansion while violence and war could only be a last resort. All five, the "gamesters" and the analyst, each in her or his own way were in Walshingham's words, "encouragers of merchants," of scientists and of innovators, whom Bacon called "merchants of light' and "merchants of fruit." England in the l560's was a second rate power, with less than half the population of her major rivals and enemies, France and Spain, with a less centralized government than either. Until the 1550's England lagged behind Spain, Portugal, France, and Holland in exploration of the world. In


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agriculture, finance, manufacture, industry, commerce. military might, including the size of her navy, England was much less powerful than her major ally, Holland, with less than half of England's population. More than 90% of England's trade was still with traditional continental markets. Yet shrewd observers among her enemies noted after England's defeat of the Spanish armada 1588, the growing strength and expansionist drive of the English during the past generation. The Jesuit political analyst, G. Botero, observed in bis Parvum Amphiteatrum of 1600 that "England on account of her location is superior to all other kingdoms." Her insular position, her coast with its tides, make her "difficult of access to enemies and ... a good base for launching expeditions against others." Botero then cites Drake's 25 ship raid on the Spanish colonies in 1585. Botero stresses repeatedly that "in matters of navigation the English people are admirably dexterous," with "an unprecedented flexibility." For example "two of her captains [Francis Drake, Thomas Cavendish] with courage not smaller than luck have circumnavigated the globe." Botero points to England's commercial expansion: "England merchants are already in Russia, China, Egypt, Constantinople, Poland, in North and Guinea Africa." Modern French historian Ferdinand Braudel in his La Méditerranée à l'Époque de Philippe II (1976), noted that "by the end of the l6th century the English were everywhere in the Mediterranean, in Moslem and Christian countries travelling along all the overland routes that led to it or away from it to Europe or the Indian Ocean." He cites a Genoese report on the "key points in an English intelligence network covering every sector of the Mediterranean sea:" In Genoa a man named Richard Hunt(o) is described as "an intelligencer, a most malicious and perverse enemy." From 1570 to 1600 at least eight important merchant adventures and commercial share companies were founded (i.a., East India Company in December 1600) with the participation of top members of Elisabeth's government, all of whom were "encouragers of merchants." With such ambitions and goals in view from William Cecil right from the start domestic and foreign intelligence was an essential tool of government. The demand for and the use of intelligence was continuously generated by five key factors. Four of them are those identified by H. Wilensky in 1967 in his Organizational Intelligence as generators of the intelligence effort of any social system: the belief prevalent in the power elite if not of the system that its problems can be rationally described and dealt with, its degree of conflict with the environment, the unity of its power elite if not of the system, the complexity of the system and of its problems. For William Cecil, Francis Walsingham and the whole


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Elisabethan establishment there was from the start a fifth factor: the danger of being certain, of feeling secure about your own, the intentions and capabilities of your allies and enemies, the need for continuous vigilance, and a continuous search for indications both of future perils and opportunities. Archives are full of evidence of the Elisabethan awareness of this fifth factor. It is first of all seen in the creative use of questions in government documents as tools to set in doubt the existing estimates, to detect new problems and alternatives. Furthermore, Walsingham stated in 1586 this basic English intelligence doctrine generating principle when he wrote to Cecil that the factions and disagreements within the government are not so dangerous, but that "there is nothing more dangerous than [the feeling of] securitie." In 1574 he warned Cecil that the new Spanish Ambassador has come "to lulle us a sleepe for a tyme." Twenty years later this basic demand for vigilance - symbolised by open eyes and ears beeomes part of the insider tradition when R. Beale, the chief clerk of the Privy Council and brother in law of Walsingham writes in A Treatise of the Office of a Councellor and Principall Secretarie to her Ma(jes)tie: "It is a Secretarie's dutie before hande to consider of the Estate of the Realme and all ye rest of the Prince's Estates, with whom there have bine and are anie doinges, and what daungers may happen and how they may be remedied. Securitie hath bine alwais the bane of all Kingdomes and Estates," and that "securitie" is especially dangerous against "sudaine events," that is surprises and crises. Abundant documentary evidence shows that the specific internal and external threats and opportunities changed rapidly in time, but the Elisabethan establishment held throughout to its belief of the need for alertness and rationalization, thus continually generating new needs for intelligence. This was an intrinsic part of the intellectual inclination, scholarly competence, appreciation of the need for intelligence and knowledge mirrored in the symbols of the Rainbow and held above all by Elisabeth herself, William Cecil and later Walsingham, Robert Cecil and Francis Bacon. Elisabeth, Knowledge and lntelligence Writing after the death of Elisabeth on the effectiveness of intellectually endowed monarchs Bacon had this to say about her: "This lady was endued with learning in her sex singular and rare even amongst masculine princes; whether we speak of learning of language or of science; modern or ancient; divinity or humanity. And unto the very last year of her life she accustomed to appoint set hours for reading scarcely any student in a


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university more daily or more duly. As for her government, I assure myself I shall not exceed if I affirm that this part of the island never had forty-five years of better times: and yet not through the calmness of the season, but through the wisdom of her regiment." For Elisabeth knowledge, learning, deception, dissimulation, intelligence and espionage were the essential sine qua non tools of power in pursuing her goals. One of the best way to please her was to talk In Praise of Knowledge, as the Earl of Essex did in 1592 by reading one such essay (probably written by Francis Bacon). She was vigilantly curious about her realm and the world as shown by her motoes "Video, Taceo" (I see, but say nothing), and the one in her "Sieve" portrait: "I see all and much is missing." According to William Cecil, "She knew all estates and dispositions of all Princes and parties," "was so expert in the knowledge of her realm and estates no councillor she had could tell her what she knew not before," "she had manie Eyes and Ears." The French ambassador wrote to Henry IV: "She knows everything." She read and praised Anthony Bacon's intelligence reports from France, Sir Robert Naunton's from Germany - and prevented Walsingham from reading those from Holland. Her correspondence contains many intelligence instructions like the following letters. In one to Lord Hunsdon in 1569 Elisabeth says: "And herein good regard should be had to lay diligent wait for the intercepting of all espials or any other seditious person that might privily or by any colourable means, resourt to your side to stir any mutinty amongst those that serve under you; of which sort of people, if any such may be come by you, you shall do well by the speedy execution of two or three of them to make an example of terror to others of their nature and quality." To Francis Walsingham her Ambassador in France in a letter of June 8 1571, she writes to inform the French king that she had arrested Mary Stuart's representative in London, the Bishop of Ross, because, "secretly by night ... he entered into such intelligences and practices with some of our nobility ... he hath now of new entered into practices by his letters and ministers to stir up secretly some new rebelion in our Realm, and hath for that purpose dealt by his ministers with certain other fugitives and rebels in the King of Spain's Low Countries and also with the Duke of Alba, and further prosecuted his intentions to that purpose by sending both to the Pope and to the King of Spain." In 1593, she personally commissioned the extremely successful intelligencer A. Standen to write the report of his 28 years experience as agent on the Continent then granted him a 100 pound sterling life pension. She definitely had intelligence sources of her own - some historians conjecture that she had her own network. Among several incidents supporting this, one can cite


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that when Lord Sussex summoned the Privy Council to a meeting for "Her Majesty has recieved [sic] intelligence from beyond the seas." She followed important intelligence operations closely: In August 1586 while unravelling the Babbington plot which cost Mary Stuart her head, Walsingham advised Elisabeth that her suggestion to trap Mary by sending her a false letter in code as coming from her agent Ballard in Paris would not work. She tested her young favorites on intelligence competence. On his first day as a member of the Privy Council in Februaty 1593, the 25 year old Earl of Essex wrote jubilantly to Francis's brother Anthony Bacon about the Queens praise for passing the test she gave him: to write "a draft of an instruction for a matter of intelligence" to a fictitious agent in France. "Lord Treasurer's Great Intelligence: Foreign & Domestic" There is a tendency among historians to ignore the essential fact that William Cecil was a scholarly, learned and intellectual Secretary of State and later Lord Treasurer. From 1560 to 1598 he was the chancellor of Cambridge university. He graduated from its St. John's college which in his generation produced many members of government, bishops, ambassadors and scholars. At Cambridge, as at Oxford, teachers and students, part of the ruling class of England, debated and wrote academic papers on the problems of the country and how to deal with them. It was a generally known fact in his time, confirmed by many documents in his own hand, that Cecil applied to government problems the methods and techniques of what we would call the social science methods of his time, learned at Cambridge. In her dedication to Cecil of the first 1570 edition of The Scholemaster, the treatise on the theory of education by Cecil's fellow student and protegĂŠ Roger Ascham, his widow Margaret wrote: "For well remembryng how much good learning oweth unto you ... and how happily you haue [sic] spent your time in such studies and carried the use thereof to the right ende, to the good servise of the Queenes Maiesties and your co[u]ntry to all our benefites." The intellectual atmosphere Cecil lived and worked in is well attested by the fact that Ascham got the idea for his Scholemaster at Cecil's dinner table, when the latter started the discussion with the members of the govennment present about the news that Eton boys had run away from school because of floggings. The earliest government document in Cecil's hand, a position paper in 1552 for Edward VI on the question whether England should help Charles V to invade France, is structured as a traditional university paper under the headings: "Question," followed by "Answer: He shall" or "Answer: he shall not,"


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"Corollarium of a mean way," "Reasons for Common Conjunction," "Reasons against Conjunction," "Conclusion." In archives one finds dozens of papers testifying that William Cecil at all times in a similarly rational, systematic, and scholarly fashion identified the questions to be asked in order to define the problems in the light of his goal for England's expansion based on security and peace. He made alternative plans for actions and derived from them what today are called national intelligence questions (NIQ), and specific intelligence production tasks. Such documents can be classified roughly into three main groups. The first are papers - Threats, "Troubles, ... that all may presently ensue and in time come to follow to Queene Majestie's safety and of this realme," or "the safety of the Queen's person" against plots. The second group of documents often overlapping the first, dealt with "means to remedy," "to divert" the above threats,"matters necessary to be done," "things necessary to be considered," "with speede," "with forebearing," "with foresight." All of them are what modern intelligence would call early warnings of coming (or management of identified) crises. They are reactions to raw or finished intelligence about such events as, for example the marriage of Queen Mary of Scotland to Robert Darnley, her flight to England, St. Bartholomew's massacre of the Huguenots in France, the many incipient or developed plots to assassinate the Queen, start rebellions, invade England etc. A contemporary poster describes 16 such "Popish Plots" including the attempted invasion by the Spanish Armada in 1588, all backed by the popes in Rome. The third category of documents are designs, proposals, plans and ideas to strengthen and expand England economically, militarily etc. One such idea of Cecil's was to make the English eat more fish so as to strengthen the Navy. W. Peck, the compiler of William Cecil's sayings, illustrating his character, method of work and results, writes under the title "The Lord Treasurer's great Intelligence, Foreign and Domestic" that foreign observers and students of the government of England were fully aware of Cecil's intelligence activities. Thus the Italian Ammiani Sebastiano wrote in Venice in 1589 that William Cecil "had his explorers and agents in public places. Their work about many secret foreign designs that were necessary to know for the tranquillity and security of the state were made more certain." The principal sectors in which William Cecil and his successors concentrated their intelligence effort were: internal security and counterespionage, political and military intelligence in Europe including "kindling fires" in enemy camps, commercial and economic intelligence, and in time


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the "expansion intelligence" in all parts of the globe. Walsingham: "A Diligent Searcher of Hidden Secrets" This way of thinking - with rationalizations, suspicions, emphasis on "foresight" - generated demand for intelligence, for covert, diplomatic, paramilitary and other operations, counter-intelligence, police, judicial, diplomatic and political action. The best documentated example of such intelligence generation in the course of crisis management is the one related to the assassination of William of Orange in June 1584. Three documents in question were all written by Francis Walsingham, the man Cecil chose in 1572, when he became Lord Treasurer, to succeed him as the Secretary of State. Upon getting the news of the assassination of the leader in the fight against Spain for independence of the Low Countries, a struggle of strategic importance for England, Walsingham drew up at the instruction of Elisabeth a list of 23 questions on "Matters to be resolved in Council." It is a model of rational crises management and intelligence generation covering all the essential political, economic and military aspects of the problem. Here are three of the 23 questions: "Whether it be likely that the King of Spain, being possessed of these countries, will attempt somewhat against her Majesty," "By what means it is likely the King of Spain, if the war shall fall out, will attempt to annoy her Majesty, and how the same may be prevented," "What way there may be devised to annoy the King of Spain." Early in 1585, Walsingham drafted a detailed plan for political paramilitary naval operations: "A plot for the Annoying the King or Spain." By the Spring of 1587, when preliminary intelligence reports from all over Europe indicated Spain's intention to invade England, Walsingham drafted in his own hand the following: "Plot for Intelligence out of Spain" 1. Sir Edward Stafford [English ambassador in France] to draw what he can from the Venetian ambassador. 2. To procure some correspondence with the French King's ambassador in Spain. 3. To take order with some at Rouen to have frequent advertisements from such as arrive out of Spain at Nantes, Newhaven [Havre] and Dieppe. 4. To make choice of two especial persons French, Flemings or Italians to go along the coast to see what preparations ore a making there. To furnish them with letters of credit.


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5. To have two intelligencers at the Court of Spain, one of Finale, another of Genoa. 6. To have intelligence at Brussels, Leyden, Bar. 7. To employ the Lord of Dunsany. One basic principle of English intelligence is thus formulated in the official history of British Intelligence in the Second World War (by F.H. Hinsley et alii, 1981): "The value and the justification of intelligence depend on the use that is made of its findings." Numerous examples show that this principle was established and used consistently under Elisabeth's reign. This is clearly shown by how from the "Matters to be resolved in Council," "A plot for the Annoying the King of Spain," the "Plot for Intelligence out of Spain" and the intelligence Walsingham and others gathered, a plan was devised for preventive action. Richard Hakluyt in Vol. VI of his The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and discoveries of the English Nation, whose first volume was dedicated to Walsingham in 1589, its second and third editions to Robert Cecil in 1597 and 1600, describes the famous Cadiz raid in 1587 by the English fleet under the command of Sir Francis Drake: A brief relation of the notable service performed by Sir Francis Drake upon the Spanish Fleete prepared in the Road of Cadiz; and of his destroying of 100 sails of barks, etc. The report starts with the relation of intelligence on which the operation is based: "Her Majestie being informed of a mighty preparation by Sea begunne in Spain for the invasion of England, by good advice of her grave and prudent Counsell thought it expedient to prevent the same." Thus, having in the words of Drake "singed the beard of the King of Spain" by this preventive action based on intelligence, Walsingham continued his intelligence effort, so that when in June 1588 the Spanish Armada approached England, the English - in the words of one observer - "knew more about the Armada than the king of Spain himself." Whoever reads only a small sample of Elisabethan government documents will find that from his first day in office William Cecil - as well as Walsingham and Robert Cecil after him - began to identify the shifting intelligence objectives as the one just described, to invent intelligence software techniques necessary for the purpose, to find or manage men who "could penetrate everything" and "keep a bright lookout on all sides." The targets were many and the three Principal Secretaries of State neglected none: all ports, borders with Scotland, Catholic refugee groups and seminars training infiltrator priests in the Low Countries, France, Spain and Rome, recusants in prison in England, all embassies in London,


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dissatisfied nobility, Mary of Scotland, the Papal curia, England's chief resources, money and export markets, various factions contending for power in France, Dutch factions and court, Ireland, and numerous actual or potential agents or double agents etc. The activity this intelligence effort required of the Secretary of State - besides other duties than domestic and foreign intelligence - was enormous. We know that Robert Cecil in 80 days in 1610, according to one contemporary "directed and signed 2884 letters" besides "other continuous employment." About William Cecil's agent network there is little systematic knowledge but abundant evidence keeps repeating "His spies were everywhere," "Spies and secret agents paid by him were in every court and camp." For Walsingham and Robert Cecil we have some indications of the relatively small organisation and the cost of intelligence. According to Beale, Walsingham at one time received information from agents in 37 places, from 12 in France to 3 in the Turkish Empire. This was handled by a small number of clerks in London taking care of correspondence, archives and agents. Just to mention one instance: Nicholas Faunt corresponded for years with Anthony Bacon, welcomed him upon his return to England at the boat at Dover and helped him to settle in Francis Bacon's house. According to Walsingham's biography in the National Biographic Dictionary "at one time he had in his pay 53 private agents in foreign courts, besides 18 spies who performed functions that could not be officially defined." The first recorded secret service budget in July 1582 lists a yearly expenditure of 750 pounds sterling, which rose to 2000 in the year of the Armada, to drop to 1200 the year after. Robert Cecil became de facto Secretary of State after Walsingham's death in 1590, in 1596 de jure. He held this post under Elisabeth and James I until his death in 1612. According to all accounts including that of Francis Bacon, Robert was neither a scholar, nor an innovator but a pragmatic, subtle, skillful and watchful politician. In the words of his biographer, he concentrated on "this simple policy ... to make England strong, secure and independent and he saw that the foundation for this lay in commercial enterprise." The experience of his father, Walsingham and the Court taught him that the key to political power lay "in the early possession of accurate international news, more than in any other single activity," as his biographer underlines. He concentrated vigilance and his intelligence network on England's most formidable opponent with whom he wanted to make peace, Spain, and by 1598 had thirteen agents providing intelligence about it. The most interesting if not important among them, perhaps, was Richard Hawkins who from his prison cell in


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Madrid was sending information to London on the Spanish navy. A few years later Cecil had more or less permanently employed 34 agents. His intelligence expenditure averaged about 1200 pounds a year. This can be compared with the costs of Elisabethan diplomacy of an average of 4000 pounds a year. According to his contemporary Robert Naunton, Cecil "could tell you throughout Spain every part, every port, every ship with their burdens, wither bound, what preparations, what impediments for diversion of enterprises, council and resolution." He was such a skillful intelligence estimator that he could predict correctly that the attempted Spanish invasion of Ireland would take place not in 1600, as other in government maintained, but in 1601. Robert's skill was the result of learning from the intelligence experience and the innovations made by his father and above all by Walsingham. Walsingham was the unofficial chief intelligencer from 1572 to 1590. Together with the Queen, William Cecil helped England develop from a poor, besieged, internally divided kingdom surrounded by enemies into a united, prosperous state with ambition and hope for an empire. Walsingham's ideas, "plots," practices and sayings, as the one about the dangers of security, became the basic tenets of British Intelligence doctrine and tradition that Robert Cecil and men in later generations were to discuss and follow. Besides the one cited, other such principles can be found implemented as bases for intelligence operations as described in the works by F.H. Hinsley and R.V. Jones on British intelligence in World War Two. According to some historians Queen Elisabeth called Walsingham her "Moon" which sees intrigues and dangers in the darkness. In the eyes of his contemporaries - enemies and countrymen - and to all historians he is the British Secret Service personified. In the Madrid archives one reads that the Spanish ambassador in London, de Spes, caught plotting by Walsingham and subsequently deported from England, thus reported about him to Philip II: "By means of his vigilance and craftiness ... he outwits the ministers of others princes." Soon after his death - and he died so broke by spending his private fortune on intelligence that he was buried without ceremony at night - William Camden writes about Walsingham's intelligence doctrine almost in the same words as Cesare Ripa, as we shall see, described the ideal mode for State intelligence. "England's enemies," Camden says, "found fault with him as cunning and subtile [sic] in close carrying on his designs ... whilest he diligently studied to discover the secret practices against Religion, his Prince and Country." Here one can cite three cases, relevant for the basic theme of the Rainbow, of Walsingham's inventiveness, that is, how intelligence


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operations can be used to achieve goals without war. The first example is from a letter of instructions which he wrote on October 5, 1585 to the English ambassador in Turkey regarding the policy toward Spain. He urges him to find ways to provoke a conflict between the two major, competing Mediterranean powers: Turkey and Spain. "The limbs of the devil," writes Walsingham," being thus set one against another, by means thereof the true Church ... may during their contention have leisure to grow to such strength as shall be requisite for suppression of them both." Many students of history claim that British secret service practiced this doctrine everywhere during the centuries of the Empire. Some of Walsingham's exploits along the same line, "intelligence is war carried by other means," have become legends hard to document, but nevertheless parts of the British intelligence lore. Two of them are to be found in Wellwood's Memoirs. The first tells that from an agent in the Pope's entourage Walsingham obtained the Spanish plans for the financing of the invasion of England: "upon this Intelligence, Walsingham found a way to retard the Spanish invasion for a whole Year, by getting the Spanish Bills protested at Genoa, which should have supplied them with Mony to carry on their Preparations." The other example is that - according to Wellwood "Walsingham also laid the Foundation of the Civil Wars in France and in the Low-Countries, which put a final stop to the vast Designs of the House of Austria" and told the Queen "that she had no reason to fear the Spaniard; for tho he had a strong Appetite, and a good Digestion, he had given him such a Bone to pick as would take him up twenty Years at least, and break his Teeth at last. So her Majesty had no more to do, but to throw into the Fire she had kindled, some English Fuel from time to time to keep it burning." Already in 1559, in a number of documents relevant to England's policy in Scotland and France, William Cecil formulated this "kindle the fire" principle in the enemy camp. The Jesuit political writer Giovanni Botero in his classic book Ragione di Stato (State's Interest) printed in 1589, says "This mode, that we should use against the enemies of the faith, is used by Elisabeth, the so called Queen of England against the Catholic King of Spain in Holland, the most Christian king in France... in this way she has kept the fire away from her home, and set it in Scotland ... where she has become the master of that kingdom." From Wellwood's Memoirs one finds also that Walsingham together with Venetian diplomats is the inventor of "the psychological profile" - the now standard intelligence product: "In order to fathom King James's [of Scotland] Intentions ... Sir F. Walsingham gives him [his agent Wigmore]


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ten Sheets of Paper of Instructions which I have read in the Cotton Library ... [in which] he instructs him how fo find out King James's natural Temper; his Morals; his Religion; his Opinion of Marriage; his Inclinations to Queen Elisabeth, to France, to Spain, to the Hollanders ... He likewise directs him how to behave himself towards the King at Table, when a Hunting, upon his receiving Good or Bad News, at his going to Bed and indeed in all the public and private Scenes of his Life." The "socio-psychological profile" of allied and enemy leaders, in my opinion invented by Walsingham, is now standard intelligence practice. The New York Times correspondent Cy Sulzberger presents in his memoirs the psychological profile of Charles de Gaulle he wrote for President John Kennedy, prior to his first meeting with the President of France. I have heard that Chou-En-Lai asked the French Ambassador in Peking in 1972 for a profile of Henry Kissinger. William Safire describes in the New York Herald Tribune of March 16, 1982 the modern form of Walsingham's invention: "The CIA has come up with an exciting modern method of briefing President Reagan about foreign leaders: the motion picture. Before a visit to the United States by Israel's Menachem Begin, the CIA produced a psychological profile in the form of a film documentary for the president's top secret viewing that was the pride of the agency's film division." Safire then says that a similar film has been made about the psychological state and change of Fidel Castro, President of Cuba. Under William Cecil, Walsingham developed not only the rationale for the operational, but the foundations for the basic, open sources intelligence about the state, the capabilities and intentions of all opponents, allies and their empires. Very early, first William Cecil, and then Walsingham and Robert Cecil started utilizing a product of the knowledge revolution of their time to follow the trend of events by obtaining from Venice, Paris, Holland, the predecessors of newspapers called "gazettes," "letters of news," "advertisements," "weakly advices." The procurement, use and comment of these "advertisements" became a part of the daily work of the English power establishment. Another social intelligence innovation during Cecil's life leading to the development of basic intelligence, to traditions of training and selection of young intelligencers are the instructions to young men making the grand tour of the continent. There is - as far as I know - no survey and analysis of such instructions as intelligence and scholarly documents. Most top Elisabethans travelled abroad in their youth - including Walsingham, the Bacon brothers, Robert Cecil and Walter Raleigh, the Earl of Essex. Some of them wrote "instructions, describing what special Observations are to be


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taken by travellers in all Nations, States and Countries." Examples of such instructions are William Cecil's to his son Thomas, Walsingham's to his nephew, the poet Sir Phillip Sydney's to an unknown, the letter from the Earl of Essex to his friend young Lord Ruthland (probably ghost written by Francis Bacon) and Secretary of State W. Davison to his son. Bacon himself has written several manuscripts and a number of published pieces on the use of travel for intelligence, culminating in his New Atlantis where he presents a whole elaborated scheme of economic, technological, scientific intelligence related to the respective policies and organisations. All of this became a part of the intellectual tradition of England's intelligence guiding the behaviour of the most unlikely individuals; one example is Sir Isaac Newton's industrial espionage instructions written in the form of a letter on May 18, 1669 to his young Cambridge colleague Francis Ashton before Ashton's journey abroad. Most significant among such early instructions is the one by Secretary of State W. Davison. It is a design for a social science survey of basic intelligence information about any country. It starts as follows: "For your better information in the state of any Prince or country it shall be necessary for you to observe: 1. Country 2. People 3. Policy Government." There follows a detailed series of instructions about geographic, demographic, educational, economic, political information ending with that on "Ambassadors, public ministers and intelligemo [intelligencers?] employed." Davison wrote this probably before Elisabeth sent him to prison in 1587 for transmitting her order for the execution of Mary of Scotland. We do have, however, the actual report on the "State of Christendom: Italy, Austrian Empire, Germany, France" written in 1582 from abroad by Anthony Bacon, 24 years old, and brother of Francis, Walsingham's agent, and after 1592 the chief of the Earl of Essex's foreign intelligence service, competing with that of the Cecils. In both of these documents one recognizes many of the instructions found in Beale's Treatise from 1592, describing the intelligence documentation, procedures and fundamental principles at the time of Walsingham's death. From the early Instructions we see that from their early years young men of the English establishment were exposed to basic intelligence requirements. They grew up in an intelligence atmosphere, absorbing the basic tenets of


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its tradition and came early to believe - no matter what profession they later followed - that intelligence activities gave high status, were intellectually challenging, patriotic and fun. Up till now no one has pointed out a single major intelligence failure of England during the 64 years of Secretaryship of William Cecil, Francis Walsingham and Robert Cecil. From all of this the knowledge to learn was that scientific intelligence in the broad meaning is the most economic and effective tool of government. "Intelligence Is the Light of the State" For Francis Bacon, the man who most probably produced the original idea together with his cousin Robert Cecil (who possibly commissioned the painting of the Rainbow), life was a long disappointment ending in personal tragedy. For close to 25 years he strove to become a power "gamester" to obtain hopefully with the help of his relatives the Cecils, a high government post. When, finally, and only after Robert was dead, Francis became Lord High Chancellor of England, he ended up being arrested, convicted for corruption and discharged. The reasons for this personal tragedy are many including those relevant to the problem of the Rainbow. One important but not crucial barrier to his career was the fact that both Francis and his brother Anthony were homosexuals. Letters from their mother and other documents in England and France here confirm the prevalent opinion of that time. Second, and this was important, William Cecil had from the first consistently refused to support the careers of his brilliant nephews. This stand was so consistent that Francis on at least two occasions was considering leaving his law profession and his seat in Parliament in order to retire to teach and write at Cambridge. One reason for this attitude of the Cecils is that prior to 1598 they and the Bacons belonged to rival political camps. In 1592 the Bacon brothers joined the Earl of Essex, Elisabeth's latest and last favorite, soon to become a member of the Privy Council, leader of the war party and political enemy of the peace inclined Cecils. Upon his return to England in 1592 after being for 12 years the best intelligencer England had in France, according to Elisabeth and Walsingham, Anthony started building in competition with the Cecils a private foreign and counter-intelligence network for the Earl of Essex. Contrary to Francis, Anthony remained faithful to Essex until his death and that of the Earl in 1601. Francis became his political and intelligence adviser. He wrote, it seems, not only his 1592 essay on knowledge and power, but also the 1594 one. Essex fought on many issues with Robert Cecil, nicknamed "Roberto il Diavolo" by Anthony's agent


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Perez, the defected secretary of Phillip II of Spain. In 1594 and 1598 Essex made the appointment of Francis to two important government posts the focus of his conflict with the Cecils - and lost again. Shortly thereafter Francis started stressing that he was not "a man of war," began to give Cecilian advice, graciously received by the Queen. In September 1598, the constant financial difficulties of Francis resulted in his being arrested for debt by a creditor. After an appeal from prison to Robert Cecil in the name of some unnamed previous support to "your blood" he was immediately released. Two years later Francis participated in the prosecution of Essex, the enemy of Robert Cecil. After Essex's execution Francis Bacon wrote government propaganda explaining Essex's crimes. In 1601 he was again thanking Robert Cecil for being "ever careful of my advancement," and once more in 1603 when he owed Robert several hundred pounds, Francis kept reminding himself in his diary to "ungratiate my self" with now all powerful cousin Robert. Thus around 1600 the cousins' personal relations would not have precluded the kind of intellectual cooperation required for the Rainbow scheme. The third and most important reason for Francis Bacon's lack of advancement in his desired career and for posterity gaining the most profound and farseeing thinker on the relation of knowledge and power is that Bacon by prospects and ambition was a power "gamester" while by temperament and talent he was what he himself called a"looker on," a slightly detached and cynical analyst, developing further the political philosophy of Machiavelli by relating it to knowledge and intelligence. Consequently, Francis was not accepted as he hoped to be. What Bacon saw and said embarrassed the gamesters of genius around Elisabeth because his thoughts and writings were difficult to understand and hard to use for immediate political problems. Still, Francis had all the advantages to make a government career. His father and uncle were among the highest government officials. He grew up at Court. Elisabeth herself called him as a child "My Young Lord Keeper," and later "my good mistress was pleased to call me 'my watch candle.'" Francis lived all his life as an outsider right in the center of Elisabeth government and court activities including its intelligence endeavours and intelligence culture. He became involved with intelligence as actor, policy adviser, observer, formulator of doctrine. While he was Essex's adviser he lived and worked with his brother Anthony - helping him to build Essex's intelligence. He helped recruit for Anthony some top Walsingham agents like Anthony Standen, and the brilliant cryptographer, Thomas Phellippes, instrumental in finally catching Mary of Scotland. Francis evaluated foreign intelligence


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"gazettes," wrote on codes, and, aged 16, himself produced at least one of the best among about 200 known Elisabethan codes. He wrote on the necessity of the utmost secrecy of government toward the governed, but of the need of total openness in the opposite direction. To explain to the "gamesters" what the new scientific method just then being developed was about, he compared - for the first time in history - research work with that of "spials and intelligencers." It was on the basis of his own experience and that of people around him that he expressed his thoughts on the relation of knowledge and power which appeared in the script for a festival in 1594 at Gray's Inn. With Queen Elisabeth and her ministers in the audience, Francis had an adviser say to the Prince: "Have care that your intelligence, which is the light of your state, do not go out or burn dim or obscure." In 1596 this thought was repeated by Essex in a letter to a Doctor Hawkins as "Intelligence is the Light of the State" and a few years later it is the basis for the Rainbow Scheme. It was reformulated by Daniel Defoe in 1713 as "Intelligence is the soul of all public business" and in centuries to follow it continued to be a key principle of the British government. The Knowledge Revolution This thought on intelligence was part and parcel of what Bacon saw in the larger world around him. Many Europeans in the 16th century strived to understand their times in order to act upon them. From the advantage of the distance of three and a half centuries we know that in the area of today's European Community Bacon and other analysts were observing the rise of a series of interacting revolutions. The knowledge industry revolution and a new method for discovering and using nature; the "discovery" of some eight tens of the rest of the world by Europeans; the invention and development of new weapons and methods of warfare; the invention and widespread use of printing and such other communication technologies as the compass, the watch, the telescope, post office, codes and weekly newspaper as communication and intelligence tools etc; the doubling in number of universities and the general expansion of education; the rise - at first in Italy - of learned scholarly societies. A new religion developed stressing enterprise and knowledge. A new economic system was born based on manufacture, the rise of a new class of men of "meaner" but larger wealth, contemptous of yet intermarrying with the old nobility, searching for profit in new technologies and raw materials; new commercial social inventions like commercial share companies and international banks, etc. All of this was


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accompanied by shifts in the world centers of power, by religious, civil and international wars leading to the rise in north-western Europe of new national states, ambitious of Empire, and the decline of the Mediterranean empires. Francis Bacon was the most ambitious among these observers. In l592 at the age of 31 in a plea to his uncle William Cecil for support in his career he wrote "I have taken all knowledge to be my province," and as he said, "commenced a total reconstruction of science, arts and all human knowledge" ending up decades later with the claim to have made "a small globe of the intellectual world." Bacon was also the most successful of contemporary analysts, for in this same year he saw most clearly in the essay Praise of Knowledge read by the Earl or Essex in front of the Queen, some of the basic components of the knowledge revolution of his time including the need for the systematic applications of the scientific method to new inventions and the importance of education. He said: "Printing, a gross invention; artillery, a thing that lay not far out of the way; the needle, a thing partly known before; what a change have these three made in the world in these times: the one in the state of learning, the other in the state of war, the third in the state of treasure, commodities and navigation. And those, I say were but stumbled upon and lighted upon by chance.Therefore, no doubt the sovereignty of man lieth in knowledge; where in many things were reserved, which kings with their treasure cannot buy, nor with their force command; their spials and intelligencers can give no news to them, their seamen and discoverers cannot sail where they grow ..." and "... trust not your laws for correcting the times but give all strength to good education." For Bacon the goal of all his thoughts and writings to the end of his life was to make the knowledge industry in general, science and intelligence in particular, useful to the sovereign and government of England and to convince them to make this their policy. In 1592 and long afterwards, Francis Bacon in collaboration with the subtle, secretive politician and intelligencer Robert Cecil, also restated this theme in the "Rainbow scheme" as he was to elaborate this early insight in his writings to the end of his life. Bacon: "His Sublime Imagery" In the preface to the first volume of their Encylopedie in 1751 Denis Diderot and D'Alemhert, place "At the head of these illustrious Heroes'' who inspired their endeavour, "the greatest, most universal and most eloquent of all Philosophers," Francis Bacon, followed by Descartes,


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Newton and Locke. One of the four reasons cited for this estimate of Bacon is, "his sublime Imagery." The imagery used by Bacon was generally popular in his times. As Frances Yates and others have pointed out in relation to the Rainbow, "symbolism and allegory were widely used: textbooks [on images and symbols] ... were in libraries of the most educated people." I have not found any study of Bacon's "sublime imagery" based on all of his writings. But even that by Caroline Spurgeon in 1935 of the imagery in only some of them and its comparison with the imagery of Shakespeare's is extremely revealing for the Rainbow. Spurgeon shows that the major difference between Bacon and Shakespeare is that the former much more frequently uses the imagery of light, of learning and knowledge. Now this as one can see from Ripa's Iconologia and Ascham's Scholemaster - is also an expression of the contemporary awareness of witnessing an age of enlightenment caused by the knowledge industry revolution. But James Spedding goes on to stress - as one could have noticed from the previous citations from Bacon in this text - Bacon's "almost passionate association of light with intellect ... Light, indeed to Bacon very noticeabely represents all good things, enlightenement of every kind, both mental and spiritual: truth, virtue, knowledge, understanding, reason and even the essence of God himself 'the father of illumination, of Lights.'" In the first book of The Advancement of Learning Bacon writes that "in order from God ... the first place or degree is given to angels of love, which are termed seraphim; second to the angels of light, which are termed cherubim ... so as the angels of knowledge and illumination are placed before the angels of office and domination." Many subtle students of Bacon's political philosophy, as for example Howard B. White in his Peace among the Willows, have missed a good part of the spectrum, while correctly pointing out that "the union of knowledge and power is conspicuous in the leading institutions of Bensalem, the scientific Academy, Salomon's House in the New Atlantis," which incidentally is called also "the lanthorn of this Kingdome," "the very Eye of the Kingdom." In New Atlantis Bacon elaborates with imagination and farsightedness his proposition from 1594 that "Intelligence is the Light of the State" so much so that it is the central theme of the whole book. For in numerous places in this, the last of his works in 1625, we hear almost as a refrain: "You see ... we maintein a trade not for gold, silver or jewels, nor for silks, nor for spices, nor for any commodity of matter, but only for God's first creature, which was LIGHT; to have light (I say) of the growth of all parts of the world ... These adventureres (he added) we call


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Merchants of Light." What all the political scientists and historians of science who have written on Bacon have missed or passed over is that these and a dozen other types of "merchants" listed in New Atlantis are plain and simple intelligencers, acting secretly abroad under a variety of covers and that the security of the New Atlantis against foreign intelligencers is extremely high. New Atlantis can be understood as a creative synthesis of the enormous commercial, exploratory, freebooter experience accumulated from 1560 to 1600 and described in books like Hakluyt's voyages. Historians, in my opinion, have not explored this as the source for the "New Atlantis scheme." This is exactly how succeeding generations of the English intellectual elite understood the New Atlantis. Foulke Glenvill, for example, says that with his New Atlantis Bacon produced a "mighty design" for the Royal Society. And in its earliest days the Royal Society did not act only as a center for research in the natural sciences but also for economic, technological, scientific intelligence, as anyone who has read the early Philosophical Transactions can testify. Spratt's history of the Royal Society in 1666 describes in detail the use of detailed "Queries" to program the"merchants of light" before they sailed from England and to "debrief" them, as one would say today, upon their return. Thus, thanks to Bacon the value not only of the political but also of economic, geographic, technological, scientific intelligence became an early component of the English intelligence culture - long before this was the fact in any other country. Except for the likeness of Elisabeth the symbols of light dominate all others in the Rainbow. Thus in order of "brilliance" one [c]an list these light symbols as the golden cloak with its eyes, the astronomical symbols: the sun - identified with England and Elisabeth, with her bright, sunny face, and its position relative fo the rainbow in her hand and the inscription in Latin above the hand; the moon - the image of Walsingham (?), Elisabeth's chief intelligencer who sees in the dark all plots and intrigues; of Cynthia of the Seas, and of the virgin goddess Diana Lucifera; the rainbow; the profusion of pearls, rubies, diamonds, throughout the painting. It is significant to note that in Advancement of Learning, Bacon compares the interactions of light with the noble stones to various kinds of truth, both those obvious and those of the more knotted, complex, tortured kind: "Truth as a naked and open daylight ... may perhaps come to the price of a pearl that showeth best by day; but it will not rise to the price of a diamond or carbuncle that showeth in varied lights." Out of a total of 37 identified symbols in the Rainbow, 14 are connected with light (and light as intellect). Finally, as the last and most important


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symbol of light in the Rainbow we have to examine closely the meanings of the knotted snake, made entirely of noble stones, representing for Bacon, among others, Lucifer, the bearer of light. A Petticoat for Elisabeth on the New Year 1600 Francis Bacon used the serpent in most of his writings, but especially in the Advancement of Learning and New Atlantis, as a symbol for a great variety of meanings related among others to the moral issues of good and evil in the use both of power and knowledge and the active production of this last one. Francis, the son of the Puritan Anne Bacon, knew his Bible extremely well and used it much more than Shakespeare in all his writings. But he extended the symbolic use of the serpent in his writings to cover a much wider range of concepts, including that of basic science. For Bacon knowledge can have some connotations or relations to evil for, he says, it "hath in it somewhat of the serpent." But this, as he says in The Advancement of Learning is necessary: "For it is not possible to join serpentine wisdome with the columbine innocency, except men know exactly all the conditions of the serpent; his baseness and going upon his belly, his volubility, his lubricity, his envy and sting, and the rest: that is, all forms and natures of evil." In view of this note that in the Rainbow we do not have the symbol for the "columbine innocency" to balance the evil aspects of the serpent. We have instead the heart in the mouth of the serpent, which according to Ripa's multiple symbols means compassion, charity, good counsel. This meaning of the serpent should be compared with that in the image of intelligence both in the 1593 and 1603 editions of Ripa's Iconologia. The most compelling of all bits of circumstantial evidence presented until now on the connection of Francis Bacon with the "Rainbow Scheme" is related to another way in which he uses the serpent as a symbol. It is to be found in, what is, without a doubt, the strangest form ever used to state a proposition in the social philosophy of science and the most unusual application for a job in human history: a woman's petticoat. In Nicholl's Progressions of Queen Elisabeth we find in a list of New Year's gifts presented to the Queen at Richmond in 1600 the following item: "By Mr Frauncis [sic] Bacon, one petticoat of white satten, embrothered all over like feathers and billets (pens and sheets of paper are the symbols of a looker-on and writer - see also Ripa), with three brode bordes, faire embrothered with snakes and frutage." In The Letters and Life of Francis Bacon by James Spedding, from which this is taken, one finds printed right


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under this item three undated letters by Bacon to Elisabeth "Upon the Sending of a New Year's gift". I cite from the first - like the petticoat and the other two letters an application for position: "The only New-Year gift which I can give your majesty is that which God hath given to me: which is a mind in all humbleness to wait upon your commandements and business: where in I would to God that I were hooded, that I saw less, or that I could perform more: for now I am like a hawk, that bates, when I see occasion of service, but cannot fly because I am tied to another's fist." The serpent and the fruit in this petticoat is the first recorded use by Bacon of the concepts he so often used later in The Advancement of Learning, in The New Atlantis and elsewhere of "experimenta lucifera" for luciferous, light bearing experiment for basic research, and of "experimenta fructifera" for technological innovations not "stumbled upon by luck" but the product of applied science. To those who consider the "Rainbow Scheme" still as too far fetched, the obvious and simple question must have occured by now: if Bacon could state his view of science in 1600 in the embroidery of a petticoat, why could he not be the source of the "Rainbow scheme" about power, knowledge and secret intelligence in a painting in the very same year: 1600. Ripa and the Rainbow How was the "Rainbow" composed? Numerous documents of the time describe how specific iconographic images were designed - as examplified in F. Yates' Astrea (1975) and E. Panofsky's The Iconography of Correggio's Camera di San Paolo (1961). All of them start with a basic idea, a pattern of thought, called "the design," "the scheme," the impresa" (when the design, the scheme is joined with a motto, for example "No Rainbow without the Sun") or enterprise the composer of the image wants to convey to the public or the individual recipient. One then finds from various sources the appropriate symbols to express the themes and their details of the basic message. Here is one example from the Vatican library on how that was done. Alessandro Adimari in his book Quieta tells how the Grandduchess of Tuscany, Christina of Lorraine, asked him in 1619 to design her villa in Bolderone on the theme "quieta" - quiet, peace. Using 60 "concetti di pace" c[a]lled from the Old and New Testament, Adimari made up a "table of concepts," which he then translated into an image consisting of symbolic architectural details, statues, paintings, fountains, gardens for the villa all together proclaiming "PEACE." The required standard for comprehension of such iconological images as


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the allegorical letter of Cecil's presented as a puzzle to Elisabeth in 1593 or the Rainbow portrait was thus defined in 1559 by the Bishop of Giovio in his Dialogue of Military and Amorous Enterprises: "The 'impresa' must not be so obscure that it represents a Sybilline mystery to the interpreter, nor so clear that every plebeian can understand it." The Rainbow portrait. as Frances Yates testifies, has remained a Sybilline mystery until now not only for the public ignorant of the now dead language of symbols, but also for professional art historians conversant with that language. Up to now, in spite of searches of Elisabethan archives including the library at Hatfield House, where the portrait has been at least since 1713, no written "iconographic design" for the Rainbow was found. Consequently the inductive method I have used to arrive at the proposed decipherment of the Rainbow is the following: Using the socio-political approach to art described previously, I list from the symbolic dictionaries of the times various meanings for each of the strange features of the Rainbow, using the results of previous Rainbow research by art historians:


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SYMBOLS - Rainbow Detail l. Archway in background 2. Elisabeth 3. as young woman 4. with loose hair 5. bared breast 6. Headdress-helm like 7. with aigrette 8. Moon-ruby 9. Imperial crown - of rubies 10. One earing 11. Rose Cross of circles 12. English flowers on dress 13. Veil with pearls 14. Bracelets of pearls 15. Everywhere profusion 16. of pearls 17. nibies 18. diamonds 19. Iron Gauntlet on collar 20. Elisabeth's Sunlike face 21. "No Rainbow without Sun" 22. Rainbow 23. in Englands right hand 24. arising from 25. Cloak 26. held in left hand 27. golden 28. lionate - reverse 29. with eyes and ears 30. with mouth closed 31. Serpent 32. knotted 33. made of pearls, rubies, diamonds 34. Armillary Sphere 35. Armillary Sphere + Serpent 36. Serpent with heart in mouth 37. Serpent with eye in heart


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Range of Meanings from 1550-1600 Symbols Dictionaries 1. World, Eternity, Foundation 2. Elisabeth, England, "World Expresseed Imperial Virgin["] 3. Golden Age Virgin, Peace, Liberty 4. Golden Age Virgin, Peace, Liberty 5. Golden Age Virgin, Peace, Liberty 6. God's Favorite Church, "Child of Light", Security 7. Vigilance 8. Light, Walsingham (nickname), Empire, Cynthia of the Ocean, Diana Lucifera 9. Empire, Enlightment, Knowledge 10. Related to Seamanship 11. Cosmos, England, God's Favorite 12. Golden Age, England, Peace, Intelligence 13. Concealment that sees, Sea, Virginity 14. Learning, Royalty 15. Golden Age Riches 16. Related to the Eye, Sea, World, Empire, Virginity 17. Light, Passion, Elegance 18. Light, Riches 19. Has Arms, Prepared, Not Laid aside 20. "Prince of Light", Sun, Power 21. No Peace without England 22. Light, Peace as Instrument 23. Power, Priority of Peace 24. Depending, founded upon 25. Concealment, Secrecy 26. Power instrument 27. Knowledge, Light, Intelligence, Golden 28. Vigilance, Power, Strength 29. Vigilance, Intelligence, Espionage 30. Sealed lips as the Goddess of Secrecy 31. Lucifer, "Child of Light', Down to Earth Knowledge, Intelligence, "Experimenta Lucifera" 32. Knowledge of complex things, Secrecy 33. Light, Truth, Knowledge 34. World, Universal 35. Intelligence 36. Counsel, Compassion, Goodness


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37. Seeing Heart, Understanding Most of the 37 "strange details" of the Rainbow are found listed in the 1592 and 1603 editions of the Iconologia by Cesare Ripa, the most celebrated of such symbol dictionaries published in Rome. Here are some examples of the multiple meanings found for each in the 1603 edition, which, according to Erna Mandowsky's introduction to the 1970 facsimile reprint, became "the necessary handbook for most artists in l7th century Western Europe," and in a number of other similar dictionaries: Eyes and Ears: image of jealousy (with green dress; page 181), philosophy (160): fame (with pens: 74); (with mouths): spies (427). Colden cloak or dress: goodness (43, 143); golden age (136, 138); fame (142); justice (187, 188); glory (193); intellect (237); magnificence (300); magnanimity (301); virtue (501); victory (5(6); eternity (521). Serpent: prudence (182, 209, 441, 442, 543); vigilance (31); "Animale vigilantissimo" (333, 334); intelligence (with heavenly sphere; both heavenly and down to earth 364). Sun: "The sun is the symbol of light which in turn symbolises wisdom" (440). Those most visible Rainbow symbols not explained in Iconologia are to be found in other dictionaries. Thus Rainbow: G. Ruscelli, Imprese Illustri (1580); Ottavio della Strada, Symbola Divina et Humana Pontificum, Imperatorum, Regum. (1600); and Claudio Paradini Symbola Heroica (1563) give the same explanation: "The Serenissima Catherine, Queen of France (contemporary of Elisabeth) took for her symbol the celestial rainbow, as the most telling sign for the splendid serenity and quietness of peace" with the Greek mo[t]to "Bring Light and Serenity." (Paradini). Iron gauntlet on Elisabeth's Collar: E. Drouillers in his 1950 Dictionnaire des Attributes, AllÊgories, Emblèmes et Symboles points out that "one placed iron gauntlets near the images of saints who abandoned war as a tool of policy.["] Pearls, Rubies, Diamonds found all over the Rainbow: numerous symbol dictionaries point out that jewels, precious stones were symbols for light, riches, abundance, elegance. Pearls in particular of which Elisabeth was especially fond all her life, denote virginity, the sea, purity, "the eye of the world."


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Strange headdress: Rene Graziani approached the Rainbow as an expression of religious sentiment. He considered that its explanation is to be found "not in handbooks like Iconologia, but in the Bible." In J.J. Boissard's 1581 Habitus Variarum orbis Gentium (Costumes of the Various Peoples of the World) Graziani found an exact replica of Elisabeth's headdress (the crown and the moon omitted) to signify God's favorite church - in the case of the Rainbow Elisabeth's England, described in the words of Saint Paul: "For yee are our glory and joy. Yee are children of light, and children of the day ... Yee are not of the night, not of darkness." Furthermore, Elisabeth with a half moon on top of her head and the rainbow in her hand can represent the virgin goddess Diana bearer of light: Diana Lucifera. Franc[e]s Yates, in her efforts to decipher the Rainbow, started with the assumption that it is a courtly eulogy. In this she used as her basic sources G. Ruscelli's Imprese Illustri dictionary from 1583, the many contemporary symbolic representations of Elisabeth in English art and literature and, above all, the 1593 edition of Ripa's Iconologia. She found that Ripa's 1593 image of intelligence fits precisely five Rainbow symbols. Ripa in 1593 represented "intelligence" as "A woman, adorned with flowers, dressed in gold, holding a Sphere in her right hand a Serpent in the left ... with the Sphere and the Serpent it is shown that to understand sublime and profound things it is necessary to walk on earth as the Serpent does ... Intelligence is that union which our mind makes with the thing it comprehends and is dressed in a dress of gold for it wants to be lucid, clear resplendent, not trivial, but noble and distinct from common knowledge and plebeyan persons - all this denoted by the specific qualities of gold." Here it should be noted that in the Italian language of Renaissance, although not of today, just as in modern English, "intelligence" meant both the capability to solve problems and the acquisition of (secret) information. Savonarola, rebel monk, burnt at the stake in 1498, in his Regimento degli Stati (Government of States) uses the term in this later sense when he says: "[The tyrant] has secret intelligence with other princes." Besides that of "intelligence" some groups of symbols of other images in the 1593 edition or Ripa's Iconologia are found in the Rainbow. According to Yates, the English flowers embroidered on her dress together with other symbols of virginity in the portrait - represent Elisabeth as Astrea, the just virgin of the Golden Age Empire, as many contemporary poets sung of Elisabeth. The abundance of pearls starting with the crown in the Rainbow symbolise purity, virginity, sea sovereign[i]ty.


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The rainbow is the symbol of peace, alluding to the dawn of a new golden age, where Elisabeth personifies both England and the sun, the creator of the peaceful rainbow. Neither Yates, Strong nor Graziani proposed an integrating idea, a design, an enterprise of the Rainbow; they left the Rainbow without the message. Following Adimari's method all "Rainbow" detailed symbols and proposals for their intempretation made previously can be summed up in a "table of concepts." To derive from it the pattern of thought, the design, and the scheme it is necessary to point out the most striking similarity between the Rainbow portrait of Elisabeth from 1600 and the image for "Reason of State" or State policy in the 1603 edition of Ripa's Iconologia not noticed by Yates, Graziani and other art historians who attempted to solve the Rainbow mystery. The image of the Queen or England in the Rainbow and of "Reason of State" in the 1603 Iconologia show strong similarities and polarly opposed differences. In looking on these two images one has a strong impression that two observers, one in England, and the other in Rome look at the same person, a "Prince," head of a state, and endow it with diametrically opposite traits. Both represent the head of a state as a woman with a helmet, loose hair, with a high spreading veil, dressed in a cloak covered with eyes and ears, vigilant and strong (the lionate coloured reverse of the cloak in the Rainbow denotes in numerous images in Iconologia the same thing as the lion in Ragione di Stato strength and vigilance). These striking similarities between the two images cannot be accidental. There are too many identical details in the two images to make a chance coincidence of similarities probable. The contrasts between the two images are equally remarkable. Ripa sees the woman "Prince" as imbued with singleminded advancement of the expansion of her dominion pursuing power politics, armed to the teeth (breastplate, helmet, sword, stick) totally amoral (tramples laws, destroys poppies). "She is represented, [says Ripa,] dressed in a green dress covered with eyes and ears to indicate the jealousy with which she guards her dominions, that she wants to have everywhere the eyes and ears of her spies in order to guide better her designs and counteract those of others." In Ragione di Stato image of the prince there is no mention of intelligence as capability to understand, of peace, or of religion. The Queen of England in the Rainbow on the other hand, proclaims devotion to peace (gauntlet, rainbow in her hand), religion (Graziani's God's favorite church, the English cross on Elisabeth's breast) goodness, golden age, enlightenment, knowledge, intelligence of a higher and a practical kind coupled with


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vigilance, prudence, strength. What made Ripa change his image of effective government of a state from that of "Government of the State" in the 1593 edition, described in conventional symbols for wisdom, peace, justice, to the "Reason of State' image in the 1603 edition? Is it possible that the designer of the Rainbow in 1600 and Ripa in 1603 present the same subject, Elisabeth's England from two different political perspectives? To answer the questions, to arrive to an effective and exhaustive decipherment of the Rainbow one must ask: Who was Ripa, why did he write the Iconologia at all, what did he want to say with his "Reason of State" or state policy image in 1603 which he could not say with his image of Government in the 1592 edition? Cesare Ripa is the pseudonym of Giovanni Campani, for many years the Lord High Steward, or chief administrator of the court of the powerful Cardinal Antonio Salviati, one of the highest officials of the Vatican from 1567 until his death in 1602. Hence the author of Iconologia lived and worked daily in the Vatican. He shared the concerns of one of the highest officials in a crucial center of European politics, power and communication. Campani-Ripa's political concerns are shown, among others, by the frequency of explicitely political images among the 400 in the 1603 edition of Iconologia as for example: Security, Secrecy, Peace, War, Rebellion, True and False Religion, Reason of State, etc. The top dignitaries and officials of the Catholic Church starting with the popes, cardinals like Salviati, with whom Campani-Ripa was in daily contact, were then outlining the church and civil policies and their expressions in ideology as the basis for Counter-Reformation. The Iconologia hence, must be considered as one of the Vatican's ideological and political propaganda weapons by means of art in its Counter-Reformation effort. For, as Campani-Ripa says in the introduction of his 1603 edition, "Iconologia is the art of making images signify something different from what one sees at first in them" by means of signs for ideas, that is symbols, and as such Iconologia has to be "both useful and necessary in the works of poets, painters, sculptors and others[."] England and the Vatican in 1558-1600 "Ius Mundi" To understand the similarities in detail and the contrasting differences in approach between the Rainbow and Campani-Ripa's image of Ragione di Stato, one must understand not only the political relations between England and the Vatican from 1558 to 1600, but also their conflicting


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political philosophies. One must suppose that the Ragione di Stato image is based on the information Campani-Ripa had sometimes after 1600 about the Rainbow portrait details and its basic message. In the eyes of the Curia both were blasphemous and politically dangereus: England as favorite of God whose policy is based on peace and enlightenment. How this report of the image and the message came from Hatfield House or London to the Vatican, we can only conjecture, but the fact of identical details between the two are undeniable. The Ragione diStato as response to the Rainbow scheme can be understood as part of the political propaganda war for the minds of Europeans between protestant England and the Catholic Church in Rome, as a clash of the basic philosophies of the state and its relation to the Catholic Church, and as part of interactions between the two in international politics. Pope Innocent III (1198-1216) defined international politics as "Ius mundi" (The World Game [sic]). Campani-Ripa's Iconologia was only one and not the most important tool in the Counter-Reformation "World game" that preoccupied the leadership of the Catholic Church in the l6th and 17th centuries, ever since Luther in 1517 challenged Rome with his 99 theses on Church reform. Under six popes during Elisabeth's reign, the Vatican reacted with energy and intelligence to strengthen the Catholic Church against the Reformation and Protestant movements. These movements arising in all the hitherto Catholic countries represented the gravest threat to the Church's existence in the some 1300 years that had passed since it was recognized as the official religion of the Roman Empire by Constantine I. The crisis that the Catholic leadership faced in the 16th century was both wide and deep. The Venetian ambassador Mocenigo in 1559, the first year of Elisabeth's reign, reported home: "In many countries obedience to the pope has almost ceased - in Germany, Poland, France, Spain," characteristically not including England in the list. Three great reforming popes Pius IV (1559-1565), Gregory XIII (15721585), Sixtus V (1585-1590) carried out changes in the internal structure and the internal and external functions of the Catholic Church aiming to strengthen it against the dangers of the Reformation. At that time, and today, four centuries later, as the Catholic Church historian Charles Pichon notes, "The Vatican is the most ancient establishment in the world." This ability to survive proved by the Catholic Church during two millennia is due to its inbuilt capability and experience to identify in time threats to its existence everywhere and to improve its existing "instruments" and to find new appropriate tools - including the changes in its own structure and functions - for dealing wilh these threats. This capability of a social system


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to identify early its survival problems, to procure the necessary information and to act upon it openly or secretly in time is nothing else but its intelligence capability. In spite of a thorough search I have not found a single study of the Vatican's intelligence organisation and doctrines accumulated during centuries which has enabled it to survive all threats. This is not due to the well known secrecy of all Vatican internal achivities, noted - for example by historians like Pichon, and by the students of the modern Vatican like Peter Nichols in his The Pope's Divisions (1981). My rather rapid and superficial search for information on the "eyes and ears" of the Catholic Church for the purpose of this essay, showed that one can find abundant materials from the official and unofficial Catholic and non-Catholic sources in the Vatican and elsewhere. The reforming popes, especially Sixtus V undertook important steps to improve the intelligence "eyes and ears" of the Vatican in its l6th century crisis. From among important steps of this kind he undertook, I shall list only a few. First he established 15 congregations of cardinals in the Vatican to function as ministries governing the various sectors of the Church under the supervision of its head, the pope. Second, he formally established the key position of Secretaty of State, always occupied by a cardinal, heading the Congregation for Extraordinary Ecclesiastic affairs, to act as the key figure in the Vatican's "Ius Mundi." Prior to this, this task was usually fulfilled by a pope's relative, "Il cardinale-nepote." In a document, Sixtus V defined the duties of his nearest collaborator in the following words: "to know everything, to have read everything; to have heard everything, but not to say anything." Among other duties, the Secretary of State had under his supervision the office of codes and cyphers. The popes have used secret codes in their correspondence since the 15th century. Pope Pius IV established a special officer in charge of the codes in 1565. The papal Secretaty of State was in charge of special papal envoys - Apostolic legates - and nunzios, permanent ambassadors at all important courts. In the 16th century, the number of papal nunzios rose under Gregory XIII to 13. These papal ambassadors acquired at that time the function, thus described in the official code, as cited in the Encylopedia Cattolica published by the Vatican in 1950: "to be vigilant in order to inform the Holy See on the state of the churches, that is, the observation of the ecclesiastic discipline on the part of the church functionaries and the faithful, on the progress and regress of the Catholic life in the country, on the conditions that favour or hinder its development, on the means to be adopted to further the growth and remove the obstacles


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to that growth [of the Church]." Sixtus V instituted another independent method to keep the Vatican curia, the Secretary of State and the pope informed about the internal and external events affecting the well being of the Church. As described in by L. Brady (in a doctoral thesis at the Catholic University of America in 1963), in 1585, the first year or his reign, Sixtus V established the practice of The Quinquen[n]ial Report of Religious Institutes to the Holy See, based on the decree that "patriarchs, primates, archbishops and bishops should make a report to the Holy See at regular intervals of time, to be determined by their distance from Rome." At the same time Sixtus V required that besides the written reports all bishops of the Catholic Church must come to Rome for more intimate discussions on the state of the Church and of its socio-political conditions in the area of their responsibility. Finally, the Vatican started using more systematically not only as its "eyes and ears" but as its education, propaganda and operation tools against all heretics and reform movements the religious orders, especially the "Society of Jesus," the Jesuits, founded in 1542. When Elisabeth came on the throne in 1558, England was only one of many trouble spots - and not the most dangerous one - for the Catholic Church. The country was small, on the edge of the civilized world, weak, almost bankrupt. There were other claimants to the throne of England, who had equal, if not better legal dynastic rights to it than Elisabeth. Foremost among these claimants was the Catholic Queen Mary of Scotland, whose claims were supported by the most powerful European kings - those of France and Spain. As Elisabeth's government under William Cecil started to reorganize its finance and commerce and instituted moderate religious reforms, concluded a peace with Scotland and France, England gained in prosperity and internal strength. While basically supporting the national, reformed church against the foreign dominated Catholic one, Elisabeth developed an intense diplomatic activity using her considerable talents of dissimulation and deception. For a long while, to her opponents abroad, both temporal - like France and Spain - and religious like the Catholic Church Elisabeth's diplomatic skill based on dissimulation seemed to offer a chance of gaining an upper hand over England, ruled "by a mere woman." At the same time Elisabeth and her government under Cecil started its "kindling fires," "setting the limbs of the devil against each other" policies and operations in Scotland, France, Spain and Holland keeping a blind eye on activities of English "sea dogs," half pirates, half merchants. All this was closely followed by foreign ambassadors in London and the Vaticans supporters in England. The Spanish ambassador


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in London, de Quadra, wrote as early as 1562 to King Phillip II in Madrid: "This woman desires to make the use of religion in order to excite rebellion in the whole world ... If she had the power today she would sow heresy broadcast in all your Majestie's dominions and set them in a blaze without compunction." England's "Ragione di Stato" versus Vatican's "Ragione di Chiesa" By 1570 the leadership of the Catholic Church in Rome began to see in England what de Quadra saw: its principal enemy to be fought by all the means - and these were not few - at its disposal. As the examples that follow show, the means used by the Vatican, against England ranged from intelligence and counter-intelligence operations, propaganda, supports of assassination plots against Elisabeth and her closest associates, "kindling the fires" of dissensions between the Catholics and followers of the Church of England, support of attempts at invasion in England's areas of interest like Ireland, right to the support of the invasion of England itself. The Vatican used in this all the newly acquired and improved functions based on its century long experience. Pope Pius V fired the first salve against England, by excommunicating Elisabeth in the Spring of 1570, proclaimed her "a heretic and an enemy of the Church of God." Gregory XIII in 1580 renewed the excommunication and issued a call to rebellion of the English catholics against Elisabeth and her Government. The Vatican was the supporter if not the initiator of numerous plots aiming to assassinate Elisabeth and cause rebellion such as the Ridolfi, Throckmorton, Parry and tens of other "Popish Plots" including those - and they were not few - initiated or supported by Queen Mary of Scotland from her prison (since 1567) in England, right up to the Babbington plot, whose detection in 1586 cost Mary her head. The Secretary of State of Sixtus V, the Cardinal of Como, in response to a letter by Dr. W. Parry proposing to kill Elisabeth, wrote a letter in reply on January 30, 1584 - now in the Vatican Archives [-] saying: "His Holiness [the pope] has seen your letter ... and both exhort you to persevere, and to bring to the effect that which you promise ... and he granteth unto you his blessing, plenary indulgence and remission of all your sins according to your request." In 1585 the English counter-intelligence under Walshingham had Dr. Parry executed*. In the 1570's the Vatican supported the foundation by the English catholic emigrants especially under the leadership of Dr. William Allen, appointed cardinal in 1587 by Sixtus V, and the Jesuit Dr. Robert Persons,


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of English colleges in Rome, in Douai in Holland, in Rheims [sic] in France and in Spain. Dr. Allen was a fanatic enemy of Elisabeth, and her government. As Evelyn Waugh writes in his biography of Edmund Campion (1935), Dr. Allen developed with the close support by the papal Secretaries of State a "ius mundi" activity: "besides being a great university administrator, he was a man of affairs, the last of the English cardinal-politicians. There were unexplained absences when, after a cautionary address, the President would leave his college for three months or so at Rome: there was a voluminous correspondence, written in cypher, with the great men of the age, the Duke or Guise [the leader of the Catholics of France], the Cardinal of Como [Pope's Secretary of State], Don John of Austria [the commander of Spanish troups in Holland], with Philip II himself; there were secret visitors, of whom the students [of Rheims] knew nothing except the clatter of hooves and the appearance of strange liveries in the courtyard." According to the Encyclopedia Cattolica of 1953, "by 1600 over 1000 young English priests were trained and sent to England" by Allen and Persons to support the Catholic, and hence the Spanish cause against Elisabeth and her government. The English government saw to it that the English colleges in Rome, Rheims, and Douai were as Bacon would say "full of spies and false brethren." In England itself, with the support of a considerable section of the population, these priests and their "recusant" Catholic supporters were tracked, hunted, imprisoned by government "searchers" in the ports, professional informers, agents and officials. According to the Encyclopedia "During her [Elisabeth's] reign the number of Catholics who suffered [death] was 189, of whom 128 were priests, 58 laymen, 3 women." The brutality and severity with which Elisabeth's government dealt with these priests was extreme. Edmund Campion, a brilliant Oxford scholar, who emigrated, became a Jesuit and was sent personally by Dr. Allen on his mission in 1580 and was finally, when caught, tortured on the rack, Waugh claims in front of Cecil and Walsingham. The Lord Chief Justice pronounced his sentence on Campion and his Jesuit companions as follows: "You must go to the place from whence you came, there to remain until ye shall be drawn through the open City of London upon hurdles to the place of execution, and there be hanged and let down alive, and your privy parts cut off, and your entrails taken out and burnt in your sight; then your heads are to be cut off and your bodies divided into four parts, to be disposed of at her Majestie's pleasure. And God have mercy on your souls." On December 17, 1583 after Campion and his companions were


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executed, the English Government published in London William Cecil's pamphlet The Execution of Iustice in England for maintenaunce [sic] of publique and Christian peace. In it Cecil declares that "the Bishoppe of Rome, commonly called the Pope" had inspired, supported and sent numerous priests of various sorts to stir rebellion in England against Elisabeth, among them Edmund Campion and Robert Persons. Cecil repeatedly states that in England the authorities persecute no one for their religious beliefs, but for treason and sedition fomented by the "Bishoppe of Rome." The pamphlet publishes a document seized by the English authorities on an assistant of Campion entitled Faculties Graunted to the two fathers - Robert Persons and Edmond Campion by the Pope. In the Latin document the Catholics in England are reminded that the excommunication of Elisabeth is still valid, that it must be enforced by support of Persons and Campion. The document concludes: "The highest Pontiffe graunted forsaid graces to father Robert Persons and Edmonde Campion, who are now take their Iourneys into England, the 14th day of April, in the yere of our Lorde, 1580." As the English expansion drive gained momentum and English merchants, explorers, free booters undertook missions, often with more or less open financial, military and political support of Elisabeth, Walsingham and others in her government and court against Spanish commerce, colonies, naval convoys, Phillip II decided that diplomacy, subversion, assassination plots were not enough to stop the success of Elisabeth's policy. He took to military invasion as the only means to get rid of the English incubus. The popes were informed and participated with advice and other support in all plots and attempts, especially by Spain to invade Ireland and England itself. W. Cecil, Walsingham and Robert Cecil made certain to have sources within the Vatican itself about the invasion plans and the pope's role in it. Pope Sixtus V was closely informed of the preparations of Phillips' Armada attack against England. Being a cautious man, Sixtus V promised Phillip II one million ducates to be delivered the moment the Spanish troops landed in England. When this did not happen, when the Armada was ignominously defeated**, he is alleged to have said about Elisabeth: "What a woman, what a princess. Ruler of half of one small island, she snaps her fingers at the two greatest kings in Christendom ... If she were only a Catholic." The defeat of the Armada by England surprised and amazed Englands friends and enemies. First, because Spain was considered the most powerful military might on land and the sea. Second, because it made evident that the Vaticans Counter-Reformation policy had utterly failed


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with respect to England. The defeat of Spain and the Catholic Church by this hitherto second rate power that was England set the courts and the intellectual, scholarly circles in Europe buzzing with questions like these: How did England do it? What is the nature, what are the intentions and capabilities of England in "Ius Mundi?" Is heretical Elisabeth, the enemy of the Church of God, really God's favorite? As we saw, the Catholic writers and students like the Jesuit Botero started a process or reevaluation of England, of her intentions, capabilities, her expansion, her political, military, economic thinking on which Elisabeth's government acted. The evaluation of Elisabeth's reign made by the Vatican in 1600 is still valid today in Vatican thinking. In the Encyclopedia Cattolica (1950) the article on Elisabeth I, attributes her policy to her education and "Ragione di Stato" and concludes: "When the queen died in 1603, the material conditions of the country were among the best recorded in English history..." The term "Ragione di Stato," first used by the Italian l6th century politician and writer Guicciardini, came into general use after Giovani [sic] Botero published his Della Ragione di Stato in 1589 Venice. In its article on "Ragione di Stato" the Vatican Encyclopedia says - as if Campani-Ripa has written it - that this term "serves in politics and diplomacy to cover with a mantle of dignity the selfish interests of a nation or of a dominant caste." The "Reason of State" philosophy or politics is completely contrary to that of the Catholic Church, because it places national interests above those of the church, as Elisabeth did. For the Vatican, after the defeat of the Armada, and the failure of the Vatican policy to undermine and overthrow the heretic, Elisabeth became the symbol of the "Reason of State" political philosophy. Hence, Campani-Ripa in the Vatican had to react to the news of the Rainbow portrait of Elisabeth, as godly, peaceful, favourite of God, by representing it as it "really was" in his image of the Reason of State: aggressive, immoral, based on espionage. And CampaniRipa's contribution to enlarge the Machiavellian philosophy of the Princely state, was to show - as the Rainbow did - that intelligence and espionage is a basic function for fulfilling the goals of the kingdom based on "reason of state" policy. On two crucial points, Campani-Ripa misunderstood the Rainbow completely. He completely ignored that the Rainbow proclamation of the importance of knowledge, of science for the"Golden Age" is an essential tool of English policy as described by Francis Bacon. Second, and equally important, he did not understand that avoidance of war by good preventive intelligence and the expansion of England by "intelligence" was the basis


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of Cecil's and Elisabeth's policy, and not hypocrisy. What Campani-Ripa failed to understand, was understood by expert political observers. Marin Cavalli, Venetian Ambassador in France, sent home on October 21, 1602 the following message in cipher in which, among other, he reports: "The Queen's [Elisabeth I] inducement to peace is not so much to free herself from the expenses of the war, which are partially covered by the prizes she makes, but in order to secure a free commerce, and to allow her subjects to increase their capital. It was these considerations which always induced the Lord Treasurer father of Cecil to favour a peace policy; and it seems that his son will follow in his footsteps. Some say, however, that he has a certain affection for Spain. This is put about to rouse the Queen's suspicions against him." The Missing Third Man It is most strange, although somewhat understandable, that the historians of art have paid no attention whatsoever to questions such as: What plausible guesses can one make about who commissioned the Rainbow painting? But even stranger than this is the fact that little systematic study has been made, and what there is with rather primitive techniques, on the question, which when asked within the framework of my "Robert-Francis" hypothesis about who commissioned and paid for it, is as follows: Who is the Third Man, the painter of the Rainbow? Frances Yates, has this to say in 1952 about the date: "Since it looks as though the artist, or the adviser, has used Ripa's book, the first edition of which was in 1593, this would seem to indicate that the picture was probably painted after that date." Yates does not suggest who did it. C. Kingsley Adams in his study 1973 of paintings at Hatfield House says: "scholars are inclined, on account of more research into the stylistic features of late Elisabethan portraiture by general consent to ascribe this portrait [the Rainbow] to an Anglo-Flemish artist of c. 1600." Thus, Roy Strong, on grounds of style, suggests that Marcus Gheerhaerts II painted the Rainbow around 1600. D. Piper started a new tack in the game of guessing who painted the Rainbow by combining the evidence of style with the evidence of bills paid by Robert Cecil for painting - bills found in the archives of Hatfield House. He discovered that one bill from 1607 is due to the artist John de Critz, for "Work done for the hono earl of Salisburie," reading "Item for altering of a pictor of Queen Elisabeth ... 1 p." Since it seems, though not proved, that the inscription "Non Sine Iris" has been put in at a later date,


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Piper suggests that de Critz did both the painting and the alteration. Adams suggests the Anglo-Flemish artist Isaac Oliver, married to Sara Gheerhaerts, for two reasons: first, the Rainbow has some traits of style and colour of a miniature, and Oliver was at one time a miniaturist. The other reason is that it can be proved that Oliver and Robert Cecil did much business - though not specifically about paintings. Adam found that Cecil owed the painter Oliver "the considerable sum of 200 pounds," which by Cecil's death in 1612 with interest amounted to 210 pounds and was soon after paid. So Adams asks, "Would it be too much to assume that the 200 pounds was due to him for work he had done for the 1st Earl of Salisbury?" This much from and to the historians of art on who the Third Man is. "The Lion Is Recognized From His Print" In 1697 the great mathematician Bernouilli [sic] challenged his European colleagues to solve a difficult problem. Among the answers received there was an anonymous one, which Bernouilli proclaimed to be from Isaac Newton. Asked how did he know it, Bernouilli replied: "The Lion Is Recognised from his Print." I believe that I have presented sufficient circumstantial evidence to show that the Rainbow as a whole and in detail bears the unmistakable print of the intellectual "lion" of 16-17th century Europe, Francis Bacon. The uniqueness of the mystery of the Rainbow among the paintings of Elisabeth, its rich imagery, the predominance of the symbols of light, the "luciferous" serpent, the stress on government intelligence, and the policy statement that empire is to be based not on war but on peace based on intelligence and enlightenment - all of this bears the specific imprint of the genius of Bacon. The circumstantial evidence for Robert Cecil's participation in the composition of the Rainbow is based on two major factors: that the painting is in Hatfield House which Cecil built, and it is an expression of the policy for England he has pursued all his life, as his father before him, based on Queen Elisabeth's thoughts on expansion and prosperity of England. I am aware that by proposing Francis Bacon and Robert Cecil as the inventors and commissioners of the Rainbow I am starting another "Bacon wrote Shakespeare" myth, finally laid to rest by the famous USA cryptographer William Freeman. In publishing the "Rainbow Scheme" I hope to encourage some 1980's Freeman to try to prove my proposed Ariadne's thread for the Rainbow and for its originators to be a false one.


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After all my research in various libraries, I have a strong feeling that one may still find documents which a young researcher can uso to negate in Popper fashion my "Rainbow Scheme" hypotheses or to confirm it. Prolegomena for a "Rainbow Scheme" for the Year 1990? I cannot resist the urge - and who could - to ask what this account of the social genesis of the Rainbow scheme in the 16th centuty tells us that may be relevant for national intelligence concerns today? This question has to be asked in the light of the recent national intelligence reform efforts in countries like the United States, Sweden, France, West Germany, Australia and Italy. All these efforts have certain traits in common. First, except for countries like the United States, Sweden and Italy, these processes are as removed from the public eye as was the formulation of the Rainbow scheme. Second, unlike the farsightedness of the Rainbow scheme these are at best feeble efforts at patchwork reform, for hardly any of them are the products of independent minds, academic or otherwise, but of intelligence and power gamesters or brains hired or seduced by them to see things the way they do. Third, and most important, none of these efforts up to now have systematically taken into account the central fact of our time, as Francis Bacon did of his: the current knowledge industry revolution. This new, much more complex and all embracing revolution is demanding radical changes of the intelligence doctrine not only of this or that country, as for example of England that has just finished the process of giving up Pax Britannica, but of all countries and of humanity as a whole. Because time is in much greater hurry now than in the 16th century, so much so that today Heraclitus would say "Panta rei tahiteron" (everything changes quicker), it will not be possible - because of the law of the limitations of social sciences still to be formulated - to produce in the future as long lasting an intelligence doctrine as in the times of Queen Elisabeth. But all future intelligence doctrines and reform efforts must take into account, as none of them presently do, at least the following facts of our knowledge industry revolution: First, the trend to a world wide sharing of power, of knowledge, of values, of goals and of problems calls not only for the development of global intelligence technology, but requires the elaboration of a globally diffused and accepted intelligence doctrine, based on international law. Second, the basic goals of government intelligence are now shifting from serving national security in the narrow military sense to serving national goals for development within the framework of categorical imperatives of


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internal stability, interdependence and world peace. Third, all social systems are in the process of discovering that they exist and function in a new "social intelligence" world. Everyone is beginning to realize that information and secrecy are equally fundamental resources in the national survival and growth effort. Fourth, in the process of global democratization of power, of knowledge, and intelligence, made necessary and possible by the knowledge revolution, all governments and management systems are not only becoming transparent to each other, but quite contrary to Bacon's times and thoughts, democracy is becoming a productive force, with the result that all "governments" of all social systems have to be relatively more open toward the governed, than the governed toward "governments." Those who ignore this are discovering that the rest of the world is moving ahead while their "locomotive of history" is standing still. Fifth, all are becoming "gamesters" and "lookers on" and claims by some intelligence "gamesters" for privilege of power, of knowledge, of position, of responsibility, and of effort to reform themselves are damaging to the social intelligence and other interest of all, themselves included. Sixth and finally, if social intelligence is a new phase in the evolution of humanity, as I believe, the study of the history of intelligence and especially of intelligence of those social systems which have shown an ability to survive can enrich our understanding of contemporary intelligence. The English Empire and the Catholic Church are the two social systems that have shown this intelligence capability to the greatest degree in human history. It is therefore my hope that my Rainbow scheme may become an encouragement to a study of the history of intelligence.

Dedicated to the following intelligencers I have known and admired: Mme Mabel Dean-Gruich, Virginian, dame of the Royal Yugoslav court, who made my education in ltaly and USA possible, and whom I was surprised to discover from the Zuckerman Telegram by Barbara Tuchman as working in 1917 for the British Naval Intelligence. Muyaga Golubich, participant in the "Young Bosnia" assassination of Archduke Franz Ferdinand in 1914 in Sarayevo, whom I helped escape from FBI in 1938 USA, tortured to death by Nazis when caught running the USSR-GRU radio station in occupied Belgrade in 1942.


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Veljko Michunovich, who as partisan on a frozen Montenegro mountain in 1942 killed a wolf with a knife to take its food, became chief foreign intelligencer of Yugoslavia, later its ambassador to Washington and Moscow, author of Moscow Diaries. William Colby, former director of the U.S. Central Intelligence Agency, conversations with whom over pecan pie in Cosmos Club have enriched my understandingo of the evolution of social intelligence and its threats and contributions to world peace. Reginald V. Jones, physicist, one of the founders of modern scientific intelligence, according to the official history of British World War II intelligence a major contributor to its success, worthy descendant of Francis Bacon as the "philosopher of intelligence," author of The Theory of the Practical Joke. Basil Davidson, for forty years an idealist left Labouri[s]te who as head or the Balkan section of British intelligence in 1941-44 used the English mathematicians' Ultra decipherments to give a scientific proof to Churchill from German sources on who was actually fighting the Axis powers in Yugoslavia. R. Marriott, a worthy descendant of Walsingham, whose proposal to me "on behalf of Her Majesty's Intelligence Service" in 1955 did not prevent me from respecting and admiring him in later contacts. X.Y., "merchant of light," "merchant of fruit," who by his work is showing that social intelligence and not only government intelligence is the main resource of the small and the weak in todays knowledge revolution as in that of the 16th and 17th centuries.

Some Works Used and/or Consulted I recognize my debt to art historians who deciphered single iconological "words," "meaningful sentences" and "themes" of the Rainbow and apologize that this short manuscript does not ascribe all credits where due. This is especially true of the late Dame Frances Yates, the art historian who deciphered the major theme of "Golden Age Empire" in the Rainbow and other Elisabethan works. From behind her shoulders it was relatively easy to see the whole Rainbow scheme.


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My tender thanks to Elisabeth Jenkins - is she still alive? - two lines of whose Elisabeth the Great, read in 1958, first set my nose on the trail of the Rainbow Scheme. My respectful gratitude to the scholar or Elisabethan history and language at Lund, who, wisely and modestly, prefers to be thanked anonymously. My hat respectfully off to 11 years old Miki Dedijer who in 1976 insisted he saw two things in the Rainbow his father preferred not to see. In a somewhat mixed chronological and priority orders I wish to thank the following for rendering help always required in big lumps and in a hurry: R.H. Harcourt Williams, Librarian and Archivist to the Marquess of Salisbury, Hatfield House, England; Ms H. Roberts, Folger Institute, Harvard University and Hanover, N.H., USA; Docent Bo Johnson, Faculty of Theology, Lund University; and to the personnel of the following libraries: British Museum Library and Manuscript Room. London; Dana Art Library of Dartmouth College, USA; University Library Lund, Sweden (A box of thanks, Margareth, for that last puzzle bit asked for by telephone at closing time); Princeton University Library, Princeton, N.J., USA; La Biblioteca Apostolica Vaticana. Rome, Italy. I remember with guilt and sympathy all those all over the world, who in - as far as I recollect - university halls, Cosmos club dining room in Washington, institute corridors in Jamaica, an 18th century Virginia kitchen, library coffee-lounge in Edinburgh, bars of boats, train compartments, front seats of cars, Sarajevo kafana, economy class in planes, and in front of the fire place of my dear Tegelhagen at Wittskövle castle listened always patiently and at times comprehendingly while I groped my way in various languages looking for a common Ariadne's thread in the four entwined labyrinths of Elisabethan intelligence and espionage, politics and sociology of art, the Rainbow, and the new world of social intelligence.

E. Auerbach & C.K. Adams, Portraits of Queen Elisabeth at Hatfield House (London: Constable & Co. 1973) J.J. Boissard, Habitus Variarum Orbis Gentium (1581) Eng. Drouillers, Dictionnaire des Attributes, Allégories, Emblèmes et Symboles (Tournhout, Belgique 1950) Jean Duvignaud, The Sociology of Art (London: Paladin, 1972) Rene Graziani, "The Rainbow Portrait of Queen Elisabeth I and its Religious Symbolism" (Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 35, 1972) James Hall, Dictionary of Subjects and Symbols in Art (London: John Murray, 1974) F.H. Hinsley, British Intelligence in the Second World War (London: HMSO, 1981) R.V. Jones, Most Secret War (London: H & H, 1978) F.M. Kelley, "Queen Elisabeth and her Dresses" (Connoisseur, CXIII, June 1944) Erwin Panofsky, "Studies in Iconology' (Dartmouth Library Catalogue


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many Walsingham's secret agents, who worked under the name of "Henry Fagot", and that the author relates directly to the person of Giordano Bruno, the famous heretical monk, burnt in Rome in 1600. Bruno was in London, in Salisbury Court, the house of the catholic France's ambassador Michel de Castelnau, from the spring of 1583 until 1585 (Thomas Throckmorton was executed in November, 1583; William Parry in March, 1585). The very likely explicit fighting of Bruno from the Elisabeth's side against the Catholic Church would confirm the natural hypothesis that in favour of England acted not only agents motivated by gold, but even by "ideals", and makes it worth of attention the possible role of international "early Masonic lodges" (according to a definition of Margaret C. Jacob, The Newtonians and the English revolution 16891720, Cornell University Press, 1976; Gordon and Breach, New York, 1990, p. 207). ** Robert Boucard, in Les dessous de l'espionnage anglais (published in Italy in 1936, by Ed. La Prora, Milano) acknowledges, as well ad Dedijer does, the fundamental role of English Intelligence - and of men like William Cecil (Lord Burghley), his successor Sir Francis Walsingham, and further on of Thomas Cromwell - in England's expansion policy; he notices, between the most important elements of this great victory of England against Spain, the poisoning of the chief commander of the Spanish Armada, Marquis de Santa Cruz, by one of Walsingham's secret agents, some Nicholas Housley.

----Stefan Dedijer, classe 1911, tuttora studioso e lavoratore instancabile dal fisico imponente e asciutto, alterna il suo tempo tra Lund, in Svezia, dove è professore emerito al Business Intelligence Institute della locale università, e l'isola di Dubrovnik, dove è cofondatore del Centro Internazionale Universitario delle Nazioni Unite. Proviene da una famiglia di pastori serbi di Bosnia, suo padre è stato il primo geografo jugoslavo. Trascorsa l'infanzia a Belgrado, lascia la famiglia a 14 anni (rivedrà la madre soltanto nel '45) per compiere gli studi superiori a Roma. Da qui passa negli USA, dove nel '36 si laurea a Princeton in Fisica nucleare (svolge il lavoro di tesi con Niels Bohr, ed è stato allievo diretto di Albert Einstein). Contemporaneamente agli studi e una miriade di occupazioni saltuarie, contribuisce a creare la rete delle cellule comuniste, sostenuta dall'URSS, tra i lavoratori e gli studenti statunitensi. Allo scoppio della II guerra mondiale gli USA si ritrovano senza un servizio segreto per affrontare il pericolo nazifascista, e chiedono aiuto a Stalin. Il "piccolo padre" è ben contento di aiutare l'amico capitalista, e mette a disposizione attiva gli elementi più validi delle cellule universitarie. I migliori diventeranno il nerbo dell'OSS del colonnello Donovan. Nel dopoguerra, nonostante le epurazioni maccartiste e lo


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scioglimento del servizio, alcuni di loro formeranno la CIA e, mai scoperti, arriveranno fino ai massimi vertici. Durante la II guerra mondiale, Stefan Dedijer entra come ufficiale paracadutista nella 101° divisione aviotrasportata, addetto alla sicurezza del suo comandante, il generale Maxwell Taylor. Tra le operazioni più significative cui prende parte, la battaglia di Bastogne è senz'altro uno degli eventi che non dimenticherà mai, per la durezza e la spietatezza. Alla fine delle ostilità, dalla Germania ritorna nel suo paese d'origine, dove si unisce al movimento di liberazione. Prima viene nominato da Tito direttore dell'agenzia di stampa Tanjug, poi direttore del Centro Ricerche di Fisica Nucleare Boris Kidric di Zagabria, naturalmente sempre membro del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti di Yugoslavia. Gli entusiasmi dei primi tempi per costruire il mondo nuovo si assopiscono, il paese distrutto dalla guerra naviga in enormi difficoltà, tra i burocrati del partito nasce la "nuova classe", la nomenklatura. Ma i Dedijer, Stefan e Vladimir (il fratello, storico insigne), non si associano, e vanno incontro a grossi problemi, rafforzati anche dal fatto che Tito chiede a Stefan di costruire la bomba atomica jugoslava, ma si sente rispondere che è una pazzia, e che costerebbe come 10 anni dell'intero bilancio del paese. Vladimir viene gettato in prigione, accusato di essere filostalinista, e per la vergogna il suo bambino di 11 anni s'impicca a scuola. Stefan viene privato di qualsiasi incarico professionale e di partito, gli tolgono la casa, lo buttano sulla strada, la moglie divorzia e se ne va con le due figlie, gli amici lo ignorano. Riesce fortunosamente a riparare in Svezia, dove nei primi tempi sopravvive traducendo testi di fisica dal russo in inglese e svedese. Poi, riflettendo anche sulle esperienze che ha vissuto sulla sua pelle, comincia a maturare in lui il problema dell'intelligence, strumento delicatissimo, che dovrebbe essere per un paese come è il cervello per gli uomini: capace cioè di raccogliere le informazioni provenienti dagli organi di senso, analizzarli, elaborarli e renderli utili alla propria sopravvivenza e sviluppo. Ciò nonostante, la maggior parte dei paesi e delle comunità delegano i compiti di intelligence ai militari e a poliziotti, caste chiuse e ignoranti, sempre al servizio di gruppi di potere, e mai della comunità; così, invece di essere formati da persone capaci e brillanti, moralmente ed eticamente cristalline, ossia i migliori rappresentanti di una società, i servizi sono gestiti dagli elementi peggiori. Riesce a convincere l'Università di Lund a fondare un istituto per questo delicato soggetto presso la facoltà di Economia. A metà degli anni '60 iniziano i primi corsi, dapprima dedicati al Social Intelligence, in seguito al


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Business Intelligence. Essi sono frequentati da funzionari dello stato, ufficiali dei servizi, assistenti sociali, uomini d'affari, economisti e pianificatori, provenienti da paesi industrializzati e da quelli in via di sviluppo, tutte persone che si rendono conto come l'intelligence, per poter davvero servire, debba essere aperta, trasversale, coinvolgere le persone che a qualsiasi livello possono contribuire al benessere della comunità. Vengono invitati a tenere lezioni e raccontare le loro esperienze e malefatte anche i più alti funzionari di CIA, KGB, MI5, così come i managers di grandi aziende internazionali, banchieri ecc. All'Università di Lund sorge anche man mano una biblioteca specializzata, con una quantità imponente di libri e documenti, che Stefan Dedijer ha raccolto nel corso della sua vita sull'argomento, dall'antica Cina, all'impero persiano, al Vaticano, la Repubblica di Venezia, l'Inghilterra, ecc. Le idee di Stefan Dedijer cominciano a diffondersi, e al giorno d'oggi sono numerose le strutture governative, universitarie e private che studiano come riconvertire il secondo mestiere più antico del mondo. Anche nel mondo dei servizi segreti si è infatti mosso qualcosa, sono nate associazioni di agenti per la democratizzazione, contro le strutture deviate, per una selezione seria di elementi con un alto profilo etico, per la rotazione degli incarichi. Molte strutture hanno subito modifiche, e, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, hanno sostituito le loro squadre di patetici e inutili barbe finte in unità di giovani brillantemente laureati che lavorano sull'analisi delle fonti aperte (giornali, libri, Internet, ecc.), con risultati più affidabili e utili. Abbiamo conferme che quest'evoluzione sia in atto in molti e diversi paesi, ma non un solo segnale che qualcosa di analogo stia avvenendo da noi. Dall'unità d'Italia i nostri servizi si sono circondati di una fama sinistra per l'inefficienza, il nepotismo, le deviazioni, le stragi, gli intrecci e i legami con gruppi oscuri nazionali ed esteri, che di certo non fanno gli interessi della nostra comunità. E' nostro dovere, in quanto cittadini colonne portanti del paese in cui viviamo, pretendere che queste delicate e importantissime funzioni vengano assegnate ai migliori. (Giorgio Iacuzzo - g.iac@usa.net)


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[Episteme è certa di far cosa utile ai lettori proponendo loro un discorso di Quirino Majorana sulle teorie di Einstein, assai difficilmente reperibile altrimenti, in quanto esemplare di un modo alquanto comune di considerare la relatività da parte di un'intera generazione di fisici, prima che quella successiva, dopo il clamoroso trionfo delle concezioni di Einstein ad Hiroshima e Nagasaki, cadesse in preda dello stato d'animo che Franco Selleri definisce brillantemente epistemologia della rassegnazione (La causalità impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1988, p. 13). Va rilevato subito come il Majorana cada anch'egli in alcuni tipici comuni fraintendimenti della cinematica relativistica, la cui presenza consente purtroppo ai sostenitori della "nuova fisica" di riguardare con occhio di sufficienza a tutto il resto dell'argomentazione, compresa la parte di natura sperimentale. Del resto, anche tali errori sono comunque istruttivi, a dimostrazione di quanto lo spazio e il tempo di Einstein siano anti-intuitivi, e suscettibili quindi di siffatte incomprensioni anche da parte di uno scienziato che non può certo essere ritenuto di scarsa intelligenza]. -----

Le teorie di Alberto Einstein Discorso tenuto dal Prof. Quirino Majorana All'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna In occasione della inaugurazione dell'Anno Accademico Nella sessione del 9 Dicembre 1951 Quando, una ventina di giorni addietro, il Presidente della Classe di Scienze Fisiche (alla quale spetta per turno di tenere il discorso inaugurale, Prof. Alessandro Ghigi, forse in omaggio al mesto privilegio della mia anzianità (appartengo da 30 anni a Questa Accademia), mi invitò a tenere questo discorso, io cercai di esimermi da tale onorifico incarico. Osservai, infatti, al Presidente, che non avrei avuto il tempo per prepararlo adeguatamente. Infatti, dissi, ho in corso lavori, per me, di grande interesse, e non mi sarebbe possibile distrarre da essi quel tempo. Avendo il Prof. Ghigi insistito nell'invito, si convenne che avrei appunto potuto parlare di tali lavori, per quanto in Questa Sede ed in questo momento, si dovrebbero trattare solo verità, fatti o teorie, già solidamente acquisite


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dalla Scienza. Debbo dire però, che l'argomento o lo studio che ora compio, mi occupa intensamente da un decennio. Di esso, peraltro, mi ero occupato saltuariamente, sin dal 1916. In tutto questo periodo, ho alternato le ricerche logiche, con quelle sperimentali, in relazione alle Teorie di Alberto Einstein, che, nella prima forma, comparvero nel 1905. Quanto avrò occasione oggi di riassumere è già comparso, od è in corso di stampa, negli atti Accademici. Credo opportuno che io dichiari sin dal principio, come io sia decisamente contrario alla accettazione delle teorie del fisico tedesco. Voglio però altresì ricordare, come fra i cultori di fisica ed anche di matematica, io non sia il solo ad avere un simile atteggiamento. Fra gli oprsitori alle Teorie di Einstein, si possono ricordare i seguenti, veramente autorevoli Dingler, Duhem, Esclagon, Geherke, Gleich, La Rosa, Lenard, Milne, Mohorovicic, Painlevé, Reuterdhal, Righi (che scrisse quattro Memorie, proponendo un esperimento contro la relatività), Sce, Somigliana, Wiechert, e molti altri. Il numero di tali oppositori è dunque notevole, pur essendo piccolo, di fronte alla stragrande maggioranza di coloro che credono alla relatività di Einstein. Ciò non di meno, io credo che si tratti di un contrasto, che non ha precedenti nella storia della Scienza. Tale contrasto è tanto più acceso, in quanto ha degenerato spesso in vivaci e non conclusive polemiche. Leggendo i lavori degli autori citati, e specialmente quelli tedeschi, è facile trovarvi qualifiche aspre delle teorie di Einstein. Così, vi si afferma che esse rappresentano una mathematische Fiktion; oppure che esse sono überflüssig und falsch; od infine che esse non costituiscano che un drolliger Witz. Il mio orientamento, non dipende tanto da simili asserzioni, quanto dalle mie particolari attitudini sperimentali. Esse risalgono a ben 60 anni addietro, a quando cioè cominciai, dopo aver conseguito la laurea di ingegneria, a preparare la mia tesi sperimentale, per la laurea in fisica. Da allora, ho sempre continuato nel mio metodo; preparando quasi sempre da me stesso, gli apparecchi necessari alle mie ricerche. Ritengo che ciò mi abbia permesso una più netta visione della realtà dei fatti. Anche in quest'anno, profittando della ospitalità del Collega Prof. Giorgio Valle, che ho ancora il dovere di ringraziare, ho allestito un dispositivo sperimentale, che prova l'infondatezza della teoria di Einstein. Dico ciò, a parte i ragionamenti che mi conducono allo stesso risultato, ed a cui farò cenno. *** Nel corso di tutto il secolo XIX, si è delineato il grande successo di


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un'importantissima teoria, che segnò un vero progresso della Scienza, col fornire uno schema veramente suggestivo, dei fenomeni non propriamente materiali, ma ottici, ossia dell'energia raggiante. Si tratta della teoria dell'etere cosmico. Essa, in opposizione con quella, autorevolmente formulata da Newton, (che poi, per un curioso avvicendamento delle idee umane, è risorta nel nuovo secolo, sia pure alquanto modificata), si appoggia ai nomi di pionieri come Huygens, Young, Fresnel, Faraday, Maxwell, Hertz, Lorentz. Sulla fine del secolo XIX, nessuno sembrava dubitare dell'esistenza di quel tenuissimo e, per vero, incontrollabile fluido, che, riempiendo tutto lo spazio (anche quello fra gli atomi naturali, e gli atomi stessi), dava ragione delle minute caratteristiche del fenomeno ottico. In quell'epoca, facevano testo libri di grandi scienziati, dal titolo: "Fisica dell'etere". Mi ricordo che Galileo Ferraris, quando nel 1895, presiedeva la Commissione per l'imposizione della tassa sull'energia elettrica, (di cui io fui segretario), forte dei suoi successi del suo campo magnetico rotante, mi diceva: "Stiamo per toccare con mano l'etere". Senza l'etere, non erano spiegabili, per es., i fenomeni di polarizzazione, il campo elettromagnetico, e la sua propagazione. Ma come quasi tutte le teorie umane, anche quella dell'etere cosmico era destinata a cadere. Esaminiamo la ragione di ciò. Il fisico si rendeva conto dei fenomeni meccanici. La meccanica di Galileo e di Newton pareva avesse ormai nulla di oscuro. Si dice ciò, tralasciando di considerare che nulla l'uomo ha mai saputo, nè forse saprà mai, della vera essenza dei fatti fondamentali della meccanica, come l'inerzia e la gravitazione. Comunque, certi principii erano generalmente e facilmente accettati, forse perchè appoggiantisi alle dirette impressioni dei nostri sensi. Fra essi la relatività del moto, detta relatività di Galileo. In alcune stupende pagine, questi rilevò come non fosse possibile accorgersi, nell'interno di un sistema (la nave, nell'esempio di Galileo) del suo moto di traslazione, rispetto ad altri sistemi. Ma nello spirito del fisico, per quanto riguarda i fenomeni ottici, od elettromagnetici, qualcosa rimaneva di assai oscuro. Si dice ciò, perchè la teoria dell'etere avrebbe ammesso, che nell'interno della nave di Galileo, sarebbe stato rilevabile il suo moto, servendosi di fenomeni ottici. Infatti, la sua teoria corrispondeva ad ammettere, che, nell'immensità degli spazi, l'etere costituisse qualcosa di immobile, capace però di subire perturbazioni elastiche, propagantisi nello spazio stesso, con la velocità della luce, cioè di 300.000 km/sec. Si domandava allora: se l'etere veramente esiste, la materia in moto agirà in qualche modo su di esso? Le risposte logiche a tale domanda potevano essere tre: l'etere resta fermo


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nella sua originaria posizione; l'etere rimane trascinato dal moto dalla materia; l'etere rimane parzialmente trascinato dalla materia. Il fisico tentò di chiedere all'esperienza, la risposta a tale domanda, già verso la metà del secolo scorso. Dopo esperienze non conclusive, che datano dal 1867, ad opera di Babinet, e dal 1874, di Mascart e Jamin, ne fu realizzata una famosa, dovuta a Michelson e Morley, nel 1881. Con essa, i suoi autori si proponevano di vedere se, orientando un certo apparecchio (interferometro) diversamente, rispetto al moto della Terra intorno al Sole, si osservasse, in conseguenza di quel moto (30 km/sec) qualche effetto. L'esperienza che fu poi ripetuta più volte, ebbe esito negativo. Si sospettò che tale risultato potesse dipendere da trascinamento totale o parziale dell'etere, da parte della Terra. Si fecero così, esperienze situando l'apparecchio alquanto discosto dalla superficie sferica, media, terrestre: e, per vero, dapprima sul Monte Wilson (1800 m di altitudine); e poi, da Picard in pallone libero, sperimentando per 4 ore a 2500 m di altezza. L'esito di tali ricerche fu sempre negativo [1]. Le caratteristiche del fenomeno ottico, interessante i corpi in moto, rimanevano dunque misteriose. Fu così che Fitz Gerald, e Lorentz, indipendentemente, avanzarono un'ipotesi che aveva il carattere di coup de pouce (come diceva Poincaré). Secondo essa, ammettendo pur sempre la reale esistenza dell'etere, la materia, costretta a muoversi attraverso di esso, si contrarrebbe alquanto, nella direzione del moto [2]. Il valore di tale contrazione sarebbe precisamente quello necessario, a giustificare il nessuno effetto, rilevato nell'esperienza di Michelson. Questo concetto fu bene sviluppato in una seconda teoria di Lorentz, che stabilì certe equazioni, che vennero chiamate Trasformazione di Lorentz. Mediante esse, si poteva spiegare perchè, conferendo moto uniforme a della materia, i fenomeni ottici si svolgano in essa, come quando è ferma. Forse perchè la spiegazione di Lorentz appariva artifiziosa, mentre l'esistenza reale dell'etere si sottraeva ad ogni diretto controllo, Einstein, poco dopo, nel 1905, formulò una sua nuova teoria, la relatività speciale (per distinguerla da un'altra comparsa 11 anni dopo, la generale). È da ritenersi che sembrava ad Einstein necessario servirsi ancora delle equazioni di Lorentz, chiamate appunto trasformazione di Lorentz, dando ad esse un'altra interpretazione, e deducendole analiticamente, in modo del tutto diverso. Egli riuscì in ciò, partendo da due postulati, che sono le basi della nuova teoria. Col primo, si ammette che i fenomeni ottici si svolgono sempre nella stessa guisa, in un sistema, indipendentemente dal suo moto uniforme. Tale I postulato è identico a quello di Galileo per la meccanica,


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ed è conforme al risultato negativo dell'esperienza di Michelson. Ma esso non basta per ottenere la Trasformazione di Lorentz. Einstein ne aggiunse un secondo, per il quale la velocità della luce ha sempre lo stesso valore, per qualsiasi osservatore, in quiete od in moto. Si debbono a questo postulato, tutti i contrasti a cui la teoria di Einstein dà luogo. Infatti, esso contradice i più semplici criteri della cinematica classica. Esso equivale ad ammettere, nel campo della meccanica, un principio così enunciabile: un veicolo in moto è giudicato muoversi sempre con la stessa velocità, da un altro veicolo dotato di qualsiasi velocità. L'evidente contradizione col senso comune, fu apparentemente sanata da Einstein, con l'accettare audacemente certe deduzioni matematiche, che necessariamente scaturivano dall'ammissione di quel postulato. Esse consistono nell'ammettere che le lunghezze (nella direzione del moto) di un sistema in moto rispetto ad un altro, vengono giudicate più corte, da questo. Inoltre, i tempi sono anch'essi cambiati, ossia nel sistema in moto, il tempo scorre più lentamente. Come diceva Einstein, anche in pubbliche conferenze, nel sistema in moto, l'età degli individui si accresce più lentamente. La novità di tali ammissioni, l'apparente eleganza matematica dei calcoli relativi, ebbero consenso e successo, presso la grande maggioranza dei matematici e dei fisici. Ciò avveniva anche, perchè i primi vedevano tradotte in realtà, talune teorie matematiche o geometriche, che sino allora erano puramente ideali. E qui, torna acconcio rilevare la profonda differenza logica, che intercede tra la concezionc di Lorentz e quella di Einstein. Il primo partiva dalla nozione dell'etere; ed ammetteva che esso provocasse nella materia, la nota reale contrazione. Nella teoria di Einstein non si può più ammettere l'esistenza di tale fluido: in natura non ci sarebbe che materia. E questa apparisce contratta ad un altro sistema, con cui è in moto. Ammesso ciò, si comprende come la contrazione di Einstein non possa essere che apparente, perchè di due sistemi reciprocamente in moto, tale qualità può essere attribuita all'uno od all'altro. Tale è dunque l'aspetto cinematico, della teoria speciale della relatività. Esso è ritenuto impeccabile, non venendo sottoposto, di solito ad attento esame. Quella teoria avrebbe dunque portato alla scoperta di una nuova caratteristica della metrica dello spazio e del tempo, nel caso di sistemi reciprocamente in moto, in completo disaccordo con la comune nostra osservazione dei fatti naturali, che riguarda velocità relative, enormemente più piccole di quella della luce. Accettato un simile concetto, chi studia la relatività può restare ammirato del modo con cui questa teoria dà ragione del fatto, per cui essa è


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stata creata. E cioè, la cosidetta invarianza dei fenomeni ottici od elettromagnetici dal moto uniforme, al quale i sistemi in cui si svolgono, sono soggetti. Ma, ritornando alla parte semplicemente cinematica della teoria, è possibile vedere talune sicure contradizioni a cui essa dà luogo. Ciò ha costituito oggetto di mio attento esame, da parecchi anni, e su tale punto desidero richiamare la Vostra attenzione, mentre osservo sin d'ora che si tratta di argomentazioni semplici e chiare, che con vera sorpresa non si prospettano alla mente dei fautori della relatività. Consideriamo due sistemi reciprocamente in moto rettilineo uniforme. Supponiamoli costituiti da due regoli di uguale lunghezza che chiamiamo AB ed A'B'. Essi possono scorrere l'uno sull'altro a velocità costante, che supponiamo grandissima. Ammettiamo dapprima che sia A'B' a muoversi rispetto ad AB tenuto fermo. In un certo istante A'B' si sovrappone ad AB; e successivamente lo sopravanza. Tenendo presente quanto è stato detto, la relatività porta all'ammissione che AB giudica A'B' alquanto più corto del valore che esso ha, quando è in riposo. Così, se A'B' si muove con una velocità uguale a metà di quella della luce, AB lo giudica uguale a circa 0,85 del suo valore. Se A'B' si muovesse con la velocità della luce, la sua lunghezza si annullerebbe. Così pure, AB ritiene che in A'B' il tempo si sia allungato: in un anno di AB non entrerebbero che 10 mesi di A'B', se questo si muove con la velocità metà della luce. Se tale velocità della luce fosse raggiunta da A'B', il tempo in tale sistema si arresterebbe: ossia un orologio non batterebbe più il suo ritmo, od il cuore di un essere vivente si arresterebbe. E' strano come si possano fare tali asserzioni, senza alcuna conferma sperimentale. Ma che tali asserzioni siano inconsistenti, si può comprenderlo invertendo le condizioni dei due regoli, cioè supponendo che sia AB a muoversi rispetto ad A'B'. Dovrebbe apparire allora AB alquanto contratto nello spazio e rallentato nei tempi, all'altro regolo A'B'. I due fatti non possono coesistere. Nè si può parlare di apparenza, provocata dal tempo necessario alla luce per trasmettersi fra punti discosti; chè, infatti, la contradizione è rilevabile tra punti dei due sistemi in precisa coincidenza. Di contradizioni simili[3], applicando la relatività di Einstein a casi svariati, se ne possono rilevare altre. Io non insisto nell'esporlo, anche perchè esse sono meno semplici. Comunque esse non sono tenute di solito in gran conto; e si suole appoggiare il credito che la relatività riscuote, a certe verifiche fisiche. Fra esse, primeggia quella astrononomica data dall'esame degli spettri luminosi, delle stelle doppie Queste sono costituite da due astri, quasi eguali di massa, di cui, uno almeno, è luminoso, che


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ruotano l'uno intorno all'altro. La luce che così a noi perviene, proviene da sorgente che alternativamente si avvicina e si allontana da noi. Si deve dire, che gli spettri così osservabili, dei vapori incandescenti sulle loro superficie, contengono righe spettrali più o meno distinte. Tale fatto, nella più semplice interpretazione, sarebbe una prova della costanza della velocità della luce; e ciò sarebbe d'accordo con la relatività; mentre negherebbe il principio, secondo cui, in assenza dell'etere, la velocità della luce si dovrebbe sommare con quella della sorgente (ipotesi cosidetta balistica, analoga a quella che si formula per i proiettili). Infatti, se così avvenisse, al nostro occhio dovrebbero pervenire, con velocità diverse, radiazioni provenienti da località diverse dell'orbita della doppia, qualche centinaio; così le righe spettrali risulterebbero nello spettro, variamente spostate, e, nel loro grande numero, l'occhio non le percepirebbe. Malgrado tale obbiezione, che può a prima vista apparire grave, io penso che l'osservazione delle righe spettrali delle doppie, non depone senz'altro a favore della relatività. Da più anni, ho infatti avanzato una semplice e plausibile ipotesi, che tenderebbe ad eliminare 1'obbiezione stessa. Si deve, infatti, tenere conto della circostanza per cui, nel caso delle lontane stelle doppie, i fotoni che esse ci mandano sono stati in reciproca presenza per tempi lunghissimi (anni, decenni, secoli) e noi non sappiamo se in tanto tempo non si sia manifestata tra loro qualche sconosciuta azione. Basta supporre che in sì lunghi periodi, le velocità dei fotoni, leggermente diverse, dall'uno all'altro, si siano eguagliate. Ciò permetterebbe di scorgere gli spettri a righe di quelle stelle, come realmente avviene. Questa nuova ipotesi ridarebbe credito a quella teoria balistica della luce, che, formulata dal fisico svizzero Ritz, fu ripresa con successo dal nostro La Rosa, entrambi prematuramente scomparsi. Un altro appoggio alla relatività, è dato dalla cosidetta invarianza dei fenomeni ottici od elettromagnetici, dal moto uniforme del sistema in cui essi si svolgono. Ma non è difficile, toglier valore anche a tale prova. Non è il caso che io tenti di spiegare ciò, dovendo far ricorso a concetti speciali e complessi. Tuttavia, mi piace ricordare che, un modo preciso ed elegante per ottenere tale risultato fu indicato, subito dopo la comparsa della relatività, dal fisico svizzero Ritz, di cui si è prima discorso. Resta da esaminare un ultimo controllo, che si suole portare a sostegno della relatività, e che, sotto un certo riguardo, è ritenuto il più importante. Di esso tutti hanno, per lo meno, sentito discorrere, e costituisce il maggior titolo di gloria di Einstein. Voglio con ciò alludere, al nuovo principio introdotto da Einstein, della cosidetta equivalenza fra massa ed energia. Secondo Einstein, questi due enti potrebbero trasformarsi l'uno nell'altro,


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senza peraltro che le teorie ammesse, stabiliscano le vere cause di tale trasformazione. Per passare dal valore della massa materiale, a quello di energia ad essa equivalente, basta moltiplicare, secondo Einstein, quella per il coefficiente c2, cioè il quadrato della velocità della luce. In applicazione di tale principio, si può, per es., dire quale lavoro meccanico si potrebbe ottenere, trasformando completamente in energia, un grammo di materia. Applicando la detta formula, si trova che, con tale grammo si potrebbero innalzare di un centinaio di metri, circa un miliardo di quintali; oppure ottenere circa 3000 kilowatt, per un anno. La relazione riportata: energia = massa x c2 , costituirebbe perciò uno dei più straordinari principii che la mente umana sarebbe riuscita a scoprire. E ciò, sarebbe inteso, sia perchè collegherebbe due enti fisici, apparentemente del tutto diversi, sia per la colossale misura di tale equivalenza. Esso darebbe ragione dell'enorme energia che si sprigiona nelle trasformazioni atomiche, in conseguenza di apparente sparizione di materia. Tale principio appare verificato dall'esperienza, con grande precisione, almeno nel caso dei nuclei degli atomi leggeri. Ci rimane ora a dire perchè questo fatto, che tanta importanza ha avuto ed avrà nella storia del mondo, non debba ritenersi una prova decisiva, a favore della relatività speciale di Einstein. Osserviamo, intanto, che la ragione di tale giudizio si ricava anzitutto dalla considerazione di quanto è già stato detto. Non ammettendo, nè l'esistenza dell'etere cosmico, nè il 2° postulato di Einstein, ne consegue che la velocità della luce non può essere una vera costante. Non appare così possibile, che tale velocità, variabile da caso a caso, possa costituire un semplice coefficiente di proporzionalità, fra massa ed energia, le quali grandezze rappresentano delle costanti. A parte tale pregiudiziale, esaminiamo l'argomento, sotto un altro aspetto. Non è da credere, anzitutto, che il principio dell'equivalenza tra massa ed energia, discenda senz'altro da quelli su cui si basa la teoria della relatività. Infatti, si conosceva, prima di questa, un capitolo dell'elettromagnetismo, sviluppato principalmente dal fisico olandese Lorentz, chiamato dinamica dell'elettrone. Con esso, si stabilivano certe proprietà di quel corpuscolo (costituente elementare della materia), ed in particolare, quella di apparire più pesante, al crescere della sua velocità. Va incidentalmente osservato, che questo fatto, che apparisce verificato da molto tempo dall'esperienza, può avere altra interpretazione. Ora, siccome il corpuscolo in parola, col crescere d[e]lla sua velocità ha evidentemente assorbito dell'energia (come quando un sasso viene lanciato), si venne ad ammettere per l'elettrone, il principio per cui l'aumento del suo peso (cioè l'accrescimento della sua massa) corrisponde a trasformazione dell'energia in materia [4].


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Con grande arditezza, Einstein estende questo concetto a qualunque massa materiale, anche non elettrizzata. Si dice così, perché se è possibile constatare l'accrescimento di massa per l'elettrone, ciò avviene appunto perché esso possiede una carica elettrica. Da ciò, Einstein arriva alla sua famosa equazione energia = massa x c2 , che, a priori, non ha alcuna prova della sua legittimità. Come si è detto, tale principio sembra verificato dall'esperienza, e ciò avviene con sempre maggiore precisione, man mano che i ciclotroni od acceleratori di particelle elementari, che si costruiscono in America, aumentano di potenza. In vista di tale constatazione, si può ancora domandare perchè la relatività debba ritenersi inconsistente. Si risponde osservando che questo giudizio risulta con assoluta necessità, dagli argomenti cinematici, che sono stati prima rilevati, e che, per congruenza, occorre spiegare altrimenti l'apparente equivalenza tra massa ed energia. Un passo, in questo senso, è stato da me compiuto da un paio di anni, come ho già indicato negli Atti Accademici. Accenno sommariamente ad esso. Esiste in natura una forza che domina i più importanti fenomeni, da quelli astronomici a quelli della superficie terrestre, o della struttura della materia. Le indagini in quest'ultimo caso, sfuggono al nostro diretto controllo; e solo è possibile parlare di esso in modo induttivo. Sembra perciò che in ogni caso si tratti della forza newtoniana, che tende ad avvicinare quantità di materia, poste in presenza. Si tratta cioè della cosidetta attrazione universale. Per vero, nel terzo caso, ora citato, cioè della struttura della materia, ossia di corpuscoli elementari, si dice che non si ha a che fare con la stessa forza, che governa il moto degli astri, o che genera la caduta dei travi. Si ammette, senza maggiormente chiarire, che si tratti di una nuova forza, che si suole chiamare coesione, o nel caso dei nuclei, forza nucleare. Queste forze, in ogni modo, sono enormi in confronto di quelle macroscopiche. Basta pensare per convincersi di ciò, alla forza che sarebbe necessaria per tenere aderente uno strato materiale, al resto di un corpo solido, qualora si applicasse ancora la legge di Newton. Occorrerebbe per ciò considerare una massa attirante lo strato, dell'ordine di milioni di volte quella del Sole. D'altra parte, questa concezione di una forza di natura diversa, che farebbe sentire i suoi effetti solo a piccolissime distanze, non è affatto intuitiva. Riflettendo a tale contrasto, si può intravedere la possibilità di un nuovo fatto, sinora ignorato. Si può così pensare, che quando due elementi materiali sono in grandissima vicinanza, la loro attrazione debba risultare molto maggiore di quella che si può calcolare applicando la legge di


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Newton. Non è il caso di preoccuparsi per ora di concretare la nuova legge, che permetterebbe un simile accrescimento: basta aver intravisto il principio, solo in modo qualitativo. Si spiegherebbe così, l'enorme valore delle cosidette forze di coesione. E allora, si può compiere un ulteriore passo. Poichè è da presumere che tali forze di coesione si manifestino principalmente fra le parti più pesanti dell'atomo, cioè i loro nuclei; e poichè questi nella materia sono a distanza circa 10.000 volte le loro dimensioni, è da presumere che quando i corpuscoli si siano molto avvicinati, sì da formare dei nuclei, le forze interne di questi (cioè, principalmente quelle che tengono uniti protoni e neutroni), debbano esser ancora di molto superiori. Se avviene dunque la formazione di uno di tali nuclei, può darsi che il lavoro ceduto da tali forze, sia talmente grande da permettere la liberazione di considerevoli quantità di energia. Ciò, per esempio, si può dire, può avvenire, nella formazione del nucleo di elio, per l'unione di 2 protoni a 2 neutroni. Poichè si conosce qual sia l'energia liberata in tale formazione, con un calcolo grossolanamente approssimativo, si può comprendere che la forza che lega insieme un neutrone ad un protone sia dell'ordine di 1 kg. Ora nella concezione di Einstein, la liberazione di tale energia verrebbe a corrispondere alla sparizione di un certo quantitativo di materia, essendo il nucleo di elio alquanto più leggero della somma delle masse dei 4 componenti. Ma una simile ammissione non è del tutto giustificata. Essa non dà affatto ragione, del perchè i quattro costituenti dell'elio debbano permanentemente restare alquanto alleggeriti; o perchè essi non possano riacquistare il loro peso (se costituenti elio), riassorbendo energia dall'ambiente, in cui si trovano. A una simile domanda si dà risposta, sviluppando ulteriormente l'ipotesi da me avanzata. Si può fare infatti un'ipotesi aggiuntiva, a quella dell'accrescimento della forza attrattiva, in conseguenza della vicinanza (ossia assai più di quanto voglia la legge di Newton). Tale ipotesi parte dalla considerazione dell'enorme forza che le ultime particelle elementari sono costrette ad esercitare reciprocamente, per costituire i nuclei. E si concreta, ammettendo che la facoltà di esercitare tale forza si attenui alquanto, in tali condizioni. Avverrebbe così, una sorta di processo di saturazione della forza attrattiva, analogo a quanto avviene (per vero in processi macroscopici) per es., nel caso della forza magnetica del ferro. A ciò corrisponderebbe l'apparente diminuzione di massa. Riassumendo il risultato di tali ipotesi, si potrebbe ammettere che la comparsa di energia nella integrazione del nucleo di elio (donde la progettata bomba H), sia dovuta al lavoro delle forze nucleari, e che


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l'apparente diminuzione di massa, corrisponda all'affievolirsi della capacità attrattiva delle particelle elementari. Una simile teoria darebbe spiegazione soddisfacente del cosidetto difetto di massa, come non avviene servendosi della relatività di Einstein[5]. Tutto quanto è stato sinora esposto, concerne la prima relatività di Einstein, quella cioè formulata nel 1905. E' noto come egli, forte del clamoroso successo ottenuto, almeno in certi ambienti, da tale sua teoria, ne formulò una seconda nel 1916. Le conclusioni di questa sono ancora più sorprendenti della prima. Occorrerebbe fermarsi a lungo su di essa, per dimostrarlo. Ma penso che tale critica non sia necessaria, in vista degli argomenti raccolti per la prima. E mi corre l'obbligo ancora di osservare che, malgrado le obbiezioni sollevate, nel suo complesso la relatività di Einstein abbia costituito un utile strumento di lavoro. Ciò è avvenuto in maniera simile alla funzione di uu'impalcatura, che ha permesso la costruzione di un solido edificio, in questa prima metà del nuovo secolo: la scienza moderna. La relatività, per un complesso di ragioni di cui non ci rendiamo totalmente conto, e che in ogni modo sarebbe difficile esporre, si è sostituita ad una più razionale teoria dei fenomeni ottici ed elettromagnetici. Il fisico ed il matematico, in un prossimo futuro, debbono cercare di formulare più compiutamente tale teoria. E mi avvio alla chiusa di questo mio discorso. Ho voluto esporVi il mio pensiero, circa il valore delle teorie relativistiche di Einstein. Esse sono nate nella mente di un uomo, indubbiamente di grande ingegno, ma sostanzialmente lontano dalla speculazione sperimentale. Fra le sue idee rimarrà certamente, a sua imperitura gloria, quella quantistica dell'effetto fotoelettrico, che stabilì un legame intimo e mirabile, tra elettrone e fotone. Fu per essa che egli conseguì, ben meritatamente, il premio Nobel. Ma nel resto della sua opera ardita, troviamo degli spunti che completamente gli hanno fatto dimenticare come l'essenza della natura non può venire inquadrata in simboli matematici. Ricordo, a tal proposito, il detto di un grande matematico e fisico: il Poincaré. Secondo esso, una relazione matematica può corrispondere ad infiniti modelli fisici. Einstein si è lasciato dominare dal concetto di attribuire determinati significati fisici (spaziale, temporale, cinematico, dinamico, ecc.) alle formule che man mano ricavava. Così, non si è peritato di dire, in sostanza, che i semplici fatti cinematici sono legati con la velocità della luce; o che la forza gravitazionale costituisca una modalità prescindibile od equivalente a premesse puramente cinematiche. Nessun fatto sperimentale giustifica tali asserzioni.


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Nel progresso della Scienza, occorre riflettere che noi mai possiamo comprendere in pieno i principii intimi o primordiali dei fatti naturali, e che ci si debba accontentare di stabilire soltanto certi rapporti dimensionali, tra enti diversi, che per noi è impossibile completamente identificare. Ad ogni modo, sembra difficile che chi si è abituato al metodo del fisico tedesco, possa per le considerazioni da me svolte, mutare pensiero. E, persuaso che gli argomenti più ascoltati sian quelli che si basano su nuovi fatti sperimentali, ho da anni cercato un experimentum-crucis, che potesse costituire la migliore prova della fallacia delle teorie di Einstein. Ritengo di essere recentemente riuscito in ciò, quantunque, per varie ragioni, non abbia potuto affinare i miei risultati. Si tratta della constatazione di variazioni della velocità della luce, quando è riflessa da differenti metalli. Di ciò ho dato comunicazione in questa Accademia, il 22 dello scorso aprile, ed in quella dei Lincei, il 6 giugno. Mi sto occupando di sviluppare tali ricerche, pur presentandosi a me due diverse difficoltà: da un canto la mancanza di mezzi sperimentali adeguati; e dall'altro la considerazione dell'inesorabile legge di natura, che viene a limitare per me il tempo necessario, allo svolgimento di un simile difficile programma di lavoro. Ad ogni modo, era mio dovere manifestare chiaramente il mio pensiero, su di una questione, che, se ben risoluta, può occasionare notevole progresso della scienza. ----Note del curatore: [1] In realtà, né l'esperimento di Michelson-Morley, né le sue ripetizioni sul Monte Wilson, eseguite da Dayton C. Miller (un assistente dei due nel corso delle prime misurazioni) negli anni tra il 1921 e il 1925, hanno mai dato un risultato decisamente negativo, ma soltanto un effetto non paragonabile con un fenomeno che dipendesse dai detti 30 Km/sec. Si tratta ovviamente di questione complessa, che non è possibile di affrontare in poche righe. Qualche cenno se ne può trovare nel sito http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci , al N. 12 della pagina dedicata ai Fondamenti della Fisica. [2] In realtà, l'ipotesi di FitzGerald era ben diversa da quella di Lorentz (pur essendo entrambe basate su considerazioni fisiche, e non su semplici speculazioni matematiche introdotte ad hoc), in quanto non consisteva in una contrazione longitudinale (ovvero, nel senso del moto), bensì in una dilatazione trasversale. L'effetto pratico che ne


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conseguiva, a spiegare il preteso "risultato nullo" dell'esperimento di Michelson-Morley, era comunque lo stesso. Anche per questo argomento si può rimandare al sito indicato nella nota precedente, stessa pagina, N. 15. [3] Si tratta invece, come già annunciato in sede di presentazione, di comuni fraintendimenti della cinematica relativistica, che non hanno alcuna efficacia contro la teoria di Einstein. [4] Che la possibilità di trasformare massa in energia non sia un'ipotesi di origine strettamente relativistica, è confermato tra l'altro dalla circostanza che questo principio, "uno dei più straordinari [...] che la mente umana sarebbe riuscita a scoprire", era stato già intuito fisicamente prima della relatività, nella sua esatta formulazione quantitativa, da un sconosciuto scienziato "dilettante" italiano, certo Olinto De Pretto, il quale pubblicò l'equazione oggi celeberrima qualche anno prima del fisico tedesco. De Pretto poggiava le sue argomentazioni proprio su quella teoria dell'etere che Einstein invece abolisce (anche per qualche informazione su questa vicenda si veda il sito indicato nella nota 1, pagina dedicata alla Storia della Scienza, punti N. 9 e C). [5] In un lavoro del 1954, "L'inerzia non appare sempre proporzionale al peso" (Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XVI, pp. 591-597), l'autore tornerà su questo argomento, concludendo con le parole: "[...] viene a confermarsi la erroneità del principio ammesso da Einstein, della trasformabilità della materia in energia e viceversa. In conseguenza, viene a mancare una delle basi fondamentali di entrambe le teorie su ricordate, come da più anni, per semplici ragioni logiche, io sostengo".

----Quirino Majorana (da non confondersi con il nipote Ettore, noto al grande pubblico per la sua ancora oggi inspiegata scomparsa nel 1938), nacque a Catania nel 1871, e morì a Rieti nel 1957. Fu direttore dal 1904 al 1914 dell'Istituto Superiore dei Telegrafi e Telefoni dello Stato, quindi professore di Fisica Sperimentale prima presso il Politecnico di Torino, e in seguito, dal 1921, presso l'Università di Bologna - dove successe ad Augusto Righi come direttore dell'Istituto di Fisica di quell'Ateneo. Conseguì notevoli risultati nel campo delle telecomunicazioni, eseguendo numerose esperienze di radiotelefonia a grande distanza, dei raggi catodici, dell'effetto Volta, dei fenomeni fotoelettrici, della modulazione della luce, etc.. L'avversione dell'illustre fisico verso la teoria della relatività appare costante, e testimoniata anche in diversi altri suoi scritti. In uno di questi ("Gravità, inerzia e relatività", Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XIV, 1953, pp. 733-740), l'autore ebbe a lamentarsi nel seguente modo: "Ritengo che la definitiva conferma dei risultati esposti,


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possa avere una grande importanza, per il progresso delle moderne teorie fisiche. Per mio conto, cercherò, ove ne abbia la possibilità, di conseguire tale scopo, malgrado che gli organi competenti, per ingiustificate ragioni, non abbiano mai voluto concedermi adeguati mezzi, di lavoro sperimentale". L'anno precedente ("Considerazioni sulle forze nucleari", Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XIII, 1952, pp. 97-103), la recriminazione era stata del seguente tenore: "Per chiudere questa esposizione, dirò che mi sembra evidente l'attendibilità di quanto ho esposto nelle precedenti Note ed in questa. Penso che i relativisti dovrebbero prendere in considerazione il mio punto di vista, decisamente contrario alla relatività di Einstein. Se il loro silenzio dovesse continuare, mentre io da anni manifesto il mio pensiero, ciò dovrebbe interpretarsi con l'impossibilità di dimostrare l'inesattezza dell'insieme delle mie considerazioni. Invece, la serena discussione, potrebbe chiarificare una questione, che tanta importanza avrebbe per il progresso della scienza". [Notizie tratte da: Dizionario Enciclopedico Italiano, Treccani, Roma; si veda anche: Giorgio Dragoni, "Quirino Majorana (1871-1957)", in Figure di Maestri che hanno operato nel corso del IX Centenario dell'Università di Bologna, Bologna, Accademia delle Scienze, 1990, pp. 225-237]

Quirino Majorana (da: http://www.df.unibo.it/museo/uimages/ritra9.jpg)


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Il frontespizio degli Annalen der Physik, 1905 che ospitarono la prima celebre memoria di Einstein sulla teoria della relativitĂ

Disegno che illustra il 10mo anniversario dell'Associazione per la Matematica Applicata e la Fisica dell'UniversitĂ di GĂśttingen, la prima sede dove le teorie di Einstein furono apprezzate e valorizzate. Niels Bohr Library, American Institute of Physics, New York (da Lewis Pyenson, The Youg Einstein - The advent of relativity, A. Hilger, 1985)


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RECENSIONI


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[Ecco proposto ai lettori di Episteme un testo sicuramente degno di attenzione, che verrà quindi presentato sotto diversi punti di vista...] ***

LA BIBBIA SENZA SEGRETI Flavio Barbiero (Rusconi, Milano, 1988) 1 - Preambolo "Ma certe letture in giovinezza viziano più che insistere nel gioco d'azzardo. Il Faust di Goethe, e Dostoevskij, più degli altri poi corrompono dentro, e rovinano l'abitudine alla noia: preliminare qualità d'ogni rapida e cauta carriera bancaria. E senza cautela, negli archivi e tra innumeri libri, così io lettore di Goethe e dell'Idiota, mai m'annoiavo e anzi mi perdevo..." Così descrive Geminello Alvi, nel suo Dell'Estremo Occidente - Il Secolo Americano in Europa (Marco Nardi, Firenze, 1993; Adelphi, 1996 un altro lavoro di cui sarà bene riparlare), l'incontro con quei libri che ti formano, ti cambiano dentro: sventurato chi non ha mai avuto la ventura di godere una siffatta esperienza, e nutrire successivamente la doverosa gratitudine. Voglio adesso descrivere ai lettori di Episteme uno di tali felici "incontri" nella mia vita di studioso (per fortuna non pochissimi, altrimenti sarei ancora lì, avvinto alla vulgata corrente, così nella scienza come nella storia): quello con il libro La Bibbia senza segreti, dell'ammiraglio Flavio Barbiero, un'opera che non esito a definire unica per quanto si riferisce al soggetto. Se infatti ritrovo echi simili all'interpretazione offerta dall'autore nel Dizionario Filosofico di Voltaire, alle voci "Abramo", "Genesi", "Mosè", etc., in detto scritto (e in altri affini) l'argomentazione sembra fondata più su un presupposto "personale", una sorta di generale avversione filosofico-psicologica individuale nei confronti di certe tematiche, e dell'uso che ne è stato fatto nel corso della storia (spesso in effetti a fini di sopraffazione, la famosa religione come "oppio dei popoli"). Nel lavoro di Barbiero, invece, ogni conclusione proviene da una chiara esposizione dei fatti, da una loro lucida analisi, eseguita utilizzando un metodo di ricerca assolutamente logico e razionale:


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"Eppure [...] tutto a questo mondo ha una logica. Anche questo insieme di fatti apparentemente inesplicabili, quindi, deve rispondere a una sua logica ben precisa. Vediamola" (p. 279). Il dispiegamento di questo proposito nel corso dell'indagine storicoarcheologica del Barbiero basterebbe da solo a giustificare ogni attenzione nei confronti delle sue tesi. Se qui arriverò a forme di incondizionato consenso, è perché i risultati raggiunti appaiono invero straordinari: essi contribuiscono all'edificazione di un quadro interpretativo così solidamente razionale, realistico, coerente, da scommettere che sia assolutamente vicino alla verità, salvo forse qualche marginale questione di dettaglio. Sulla base della sua interpretazione, che lo conduce a previsioni di incredibile precisione (un elemento di grande "scientificità" ed "onestà", in quanto tanto più delle affermazioni sono ben definite e circoscritte, tanto più esse sono verificabili ed eventualmente confutabili), l'autore è attualmente impegnato in una campagna di scavi archeologici, che potrebbe portare a uno dei più grandi ritrovamenti che siano mai stati effettuati, a conferma delle "ipotesi" illustrate nel libro. Di fronte a questa possibilità, non si può non sottolineare ancora una volta come non ci sarà da stupirsi se un tale risultato verrà raggiunto da un "dilettante", un outsider, tenuto conto dello stato comatoso in cui versa la nostra accademia, a causa dei numerosi "condizionamenti ideologici" dai quali non sa liberarsi. Del resto, è forse destino costante degli intellettuali il non saper resistere alla tentazione di porsi al comodo servizio del "potere", anche se è comunque sempre da essi (con maggiore probabilità da parte di coloro che sono, come nel caso presente, meno integrati) che originano i più grandi avanzamenti nel campo della conoscenza, quale quello che stiamo attualmente esaminando. Ma procediamo con ordine, cominciando prima di tutto con l'offrire ai lettori l'Indice, e poi ampi stralci, del testo in esame, poiché si tratta di un'opera oggi sostanzialmente irreperibile, a qualche anno di distanza dall'unica edizione, che non ha però "circolato" molto neanch'essa - uno di quei libri "scomodi", da "qualcuno" rapidamente rimossi dal mercato?! Si auspica naturalmente una nuova edizione di questo libro, accresciuta e corretta di quanto il Barbiero ha nel frattempo ulteriormente elaborato sull'argomento, oltre che riscontrato sul "campo". La sua lettura è raccomandata non soltanto a chi ha interesse specifico verso siffatti temi, ma anche a chiunque abbia attenzione nei confronti della storia in generale. In effetti, si può affermare senza alcuna esagerazione che gli eventi analizzati dal Barbiero hanno avuto fondamentale influenza (che non può dirsi cessata neppure ai nostri giorni, al contrario!) nello sviluppo di tutta


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la civiltà occidentale e islamica: "L'intera operazione fu condotta con un misto di genialità e di lungimiranza straordinarie e di spregiudicatezza e ferocia, che fanno di Mosè la figura più imponente e affascinante della storia. Il risultato finale fu che un'accozzaglia di tribù senza capo, senza religione né legge, attraverso un bagno di sangue e di terrore diventò un popolo che avrebbe riempito la storia della sua religione, dei suoi ideali e delle sue leggi" (p. 257). Indice (pp. 1-467): Parte Prima - Ambientazione geografica e cronologica dei fatti biblici 1 - Ur dei Caldei 2 - L'età dei patriarchi 3 - La cronologia biblica Parte seconda - Abramo 1 - Abramo il beduino 2 - Economia dei patriarchi 3 - Identità di Abramo 4 - Abramo in Egitto 5 - Jahweh, Elohim, El Elyon, Adonay, El Saddai 6 - Tare 7 - Gli apiru 8 - La razza di Abramo 9 - La guerra fra Sauhsha-tar e Tutmosi III 10 - Abramo in Palestina 11 - Abimelech 12 - L'investitura di Abramo 13 - Cronologia del primo periodo palestinese di Abramo 14 - La campagna contro i re siriani 15 - Agar 16 - Sodoma 17 - Distruzione di Sodoma 18 - Nascita di Isacco 19 - Seir 20 - I figli di Cheturà 21 - I figli di Nahor e Milcà 22 - Il sacrificio di Isacco 23 - Morte di Abramo 24 - Cronologia di Abramo 25 - Sequenza degli avvenimenti secondo la Genesi


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Parte terza - Isacco e Giacobbe 1 - Isacco 2 - La benedizione di Giacobbe 3 - Per un piatto di lenticchie 4 - Giacobbe in Mesopotamia 5 - Storia di Esaù 6 - Rebecca e Debora 7 - La fuga da Harran 8 - Il ritorno in Palestina 9 - Mahanaim 10 - La lotta con l'angelo 11 - Giacobbe in Palestina 12 - Giuseppe 13 - Pramsess 14 - Cronologia dei patriarchi 15 - Considerazioni sul testo Parte quarta - Mosè 1 - Gli Ebrei in Egitto 2 - I genitori di Mosè 3 - La famiglia egizia di Mosè 4 - L'esilio nel Sinai 5 - Mosè fa uscire gli Ebrei dall'Egitto 6 - Il passaggio del Mar Rosso 7 - Epoca dell'Esodo 8 - L'itinerario dell'Esodo 9 - La scalata al potere 10 - Il primo tentativo di conquista della Palestina 11 - La morte di Aronne e Mosè 12 - La conquista della palestina 13 - La topografia dell'Esodo 14 - Numero degli Ebrei dell'Esodo 15 - Il tempio-tenda 16 - Le tombe di Mosè e di Aronne 17 - La tutela del segreto Parte quinta - Il libro della legge 1 - Il libro della Legge 2 - L'arca dell'allenza 3 - Eli, chi era costui? 4 - La famiglia di Mosè 5 - Il testamento di Mosè 6 - Il disegno politico di Mosè 7 - Sebuel il deuteronomista


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8 - Il redattore 9 - Conclusioni Appendici I - Il tempio-tenda II - Il problema cronologico Note, Bibliografia, Indici

2 - Abramo 2-1 La storia degli Ebrei comincia da Abramo: chi era costui?, e chi sono gli Ebrei? I risultati dell'affascinante investigazione indiziaria di Barbiero conducono a ritenere che Abramo non fosse affatto un pastore nomade, un modesto beduino di origine semita, bensì un ricco nobile Mitanni, vissuto a cavallo dei regni di Tutmosi II e Tutmosi III (ca. 1450), consegnato al Faraone d'Egitto insieme al nipote Lot come "ostaggio"; probabilmente un figlio dello stesso re Mitanni Saushsha-Tar (il biblico "Tare", Gs. 11,26). "Ebreo" proverrebbe da apiru, termine con cui gli egiziani designavano gli "ostaggi provenienti da potentati indipendenti (e cioè stranieri) con i quali si erano conclusi patti di alleanza o non belligeranza [...] Ostaggi 'forestieri' che venivano forniti di servi e armati e godevano indubbiamente di un regime di semilibertà e di considerazione superiore a quello dei normali ostaggi 'domestici'" (p. 59); "Sarebbero sopravvissuti invece, come popolo a sé stante, gli apiru di Mitanni, che ormai si identificavano con la sola tribù di Israele, a cui evidentemente il termine rimase, trasformandosi poco a poco in quello di 'ebrei'" (p. 61). Il testo dedica naturalmente ampio spazio alla discussione di questioni geografiche, per esempio quale città fosse, o dove bisogna pensare si trovasse, la famosa "Ur dei Caldei" (Gs. 11,31) - da non identificarsi, secondo l'autore, con la Ur che comunemente si crede, quella dei Caldei babilonesi, sul Golfo Persico - e cronologiche, queste ultime essenziali, qui e nel seguito, perché la ricostruzione di Barbiero colloca la vicenda di Abramo intorno al 1450, e quindi parecchi secoli dopo il comune 18001700 scelto invece dall'esegesi moderna. Sarebbe questa, secondo Barbiero, una datazione fondata su motivi esterni, per far tornare i conti con dati provenienti da una cornice storica errata (p. 19), oltre che da un grosso equivoco sul significato degli intervalli temporali indicati nel testo biblico, che induce a dilatare indebitamente la duranta degli eventi narrati. Le considerazioni portate a favore della tesi in parola sono estremamente


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acute e illuminanti: ne diamo qui di seguito un campione significativo, per di più assai godibile "logicamente". "Cominciamo col rilevare una singolare peculiarità del linguaggio impiegato nel Pentateuco. Nella lingua italiana esistono termini come 'un paio', 'alcuni', 'diversi', 'parecchi', 'molti' (giorni, soldi, uomini), che indicano grandezze indefinite, ma precise a sufficienza per gli scopi degli interlocutori. [...] Ad esempio, se uno dice: 'Sono stato assente qualche giorno', normalmente intende dire che la sua assenza è durata da quattro ad otto giorni, non di più, né di meno. Per indicare durate superiori, sempre indefinite, userà termini come 'diversi', 'parecchi', 'molti' e così via. [...] Qualcosa del genere deve necessariamente esistere anche nella lingua ebraica; ma non compare praticamente mai nel Pentateuco, dove le indicazioni di quantità sono sempre riportate con cifre numeriche. Un'ipotesi seducente e ragionevole è che quelle cifre che compaiono con frequenza eccessiva vengano impiegate con lo stesso significato da noi attribuito ai termini suddetti per indicare grandezze indefinite, ma comprese entro limiti di variabilità noti all'interlocutore. L'impiego di numeri precisi per indicare grandezze indefinite non è infrequente neppure nel linguaggio moderno [...] Pertanto quando nel testo del Pentateuco compare una cifra come 'tre', 'sette', 'quaranta', 'settanta' e 'quattrocento' ci si troverebbe di fronte a una quantità indefinita, ma compresa entro limiti più o meno noti al narratore. Da un esame accurato del contesto in cui compaiono i suddetti numeri, è possibile determinare in modo sufficientemente attendibile le reali quantità che essi starebbero ad indicare. Tutte le indicazioni e i passi del Pentateuco divengono infatti verosimili e coerenti se si suppone che esista la seguente corrispondenza: tre = 'un paio': 2-3 (spesso anche 3 esatti) sette = 'alcuni': 4-9 (spesso anche 7 esatti) quaranta = 'diversi': 10-20 settanta = 'parecchi': oltre 20 quattrocento = 'molti': oltre 50. Si potrebbe pensare che quando si incontrano numeri diversi da questi, si debbano interpretare come cifre esatte e attendibili; ma è immediato rendersi conto che non sempre è così. Le età dei patriarchi e di altri personaggi del Pentateuco, per esempio, sono chiaramente irragionevoli. Sono cifre casuali, prive di un reale contenuto informativo? Ad un esame approfondito risulta evidente che nessuna di esse è il frutto di una gratuita mania di esagerazione del redattore, ma piuttosto di suoi clamorosi errori di interpretazione. [...] A titolo di esempio vediamo come il redattore ha ottenuto la cifra di centoquarantasette anni per la vita di Giacobbe. Essa


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risulta dalla somma aritmetica delle seguenti cifre: 40 + 20 + 70 + 17 = 147(1). Ciascuna di queste cifre corrisponde alla durata di un ben determinato periodo della vita del patriarca, che può essere individuato con sicurezza sulla base del testo. [...] con l'ipotesi suesposta tutto diventa ragionevole e perfettamente chiaro e coerente. La durata della vita dei patriarchi viene ricondotta entro limiti accettabili e valutabili con sufficiente approssimazione; tutta la vicenda biblica assume così proporzioni temporali più 'umane'" (pp. 22-25). Naturalmente, una volta stabilite per questa via delle datazioni più affidabili, ottenute "basandosi unicamente su dati interni" al testo biblico (p. 28), si tratta di andare a verificare una serie di concordanze con altri eventi storici certi, per esempio con la cronologia egiziana, sulla quale esistono numerose informazioni, e Barbiero esegue questo compito con una cura che lascia infine pochi dubbi sull'attendibilità generale dei risultati a cui perviene. Terminiamo la presente sezione sottolineando una prima inaspettata conseguenza delle originali tesi esposte nell'opera che stiamo analizzando, e cioè che Abramo fosse di origine ariana, come la sua bella moglie Sara: carnagione chiara, capelli rossicci, caratteristiche somatiche riemergenti tra i suoi discendenti. Non si dimentichi infatti che Esaù era rosso, "tanto da meritarsi il soprannome di Edom, 'il Rosso' (Gs. 25,25)" (p. 63), e che più tardi Saul viene scelto come primo re di Israele esclusivamente sulla base del suo aspetto fisico. La Bibbia non specifica precisamente quale esso fosse, ma è certo che il suo "concorrente e successore, Davide, aveva i capelli fulvi. Samuele lo scelse, sembrerebbe, proprio sulla base di questo particolare fisico" (I Sam. 16,12 - pp. 63-64) (2). 2-2 Ricostruiti esattamente luoghi e periodi della vicenda, passiamo adesso all'aspetto soprannaturale che pervade il "testo sacro", almeno secondo il modo con cui milioni di persone sono state abituate a intenderlo (indotti quindi, se si vuole rifiutare tutta questa particolare "fenomenologia", in applicazione di uno stretto principio di razionalità, a relegare tale parte della narrazione nel regno della pura fantasticheria, o della metafora). Chi è il "personaggio", a cui si fa riferimento nel testo biblico con diversi appellativi, nei confronti del quale Abramo mostra tanta devozione e rispetto, colui che stringe patti di alleanza con il progenitore della stirpe di Israele, che quando è il caso gli rende giustizia come conseguenza della sua "fedeltà"? "Jahweh disse ad Abramo: 'Io sono Jahweh; io ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti questa terra'" (Gs. 15,7); "In quel giorno Elohim fece una


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promessa ad Abramo. Gli disse: 'Io prometto di dare a te e ai tuoi discendenti questa terra che si estende dal fiume dell'Egitto fino al Gran Fiume, l'Eufrate'" (Gs. 15,7); "In quella stessa notte gli apparve Jahweh e gli disse: 'Io sono il tuo Dio. Non temere perché io sono con te e ti benedirò'" (Gs. 26,23), etc. (p. 80). Bene, la risposta di Barbiero è forte e chiara, e diversa dalle due con cui usualmente si ha a che fare. Da millenni infatti una scuola di pensiero ha ritenuto che si tratti della "prima presa di contatto di Dio con l'uomo da lui prescelto per dare origine al 'popolo eletto'" (p. 49). Una seconda, contrapposta alla prima in scontri che numerose volte sono arrivati anche alla violenza fisica, ha ritenuto al contrario di essere davanti a delle pure e semplici favole, all'edificazione di "miti fondatori" intesi a far presa, per finalità peraltro assai concrete, sulla componente irrazionalistica dell'essere umano. Secondo Barbiero invece, tenuto conto di tutta una serie di caratteristiche fisiche assai poco soprannaturali di questi misteriosi "personaggi" (il plurale è d'obbligo, visto che si avrà a che fare con individui differenti nel corso dei tempi), siamo banalmente in presenza di un modo di riferirsi al Faraone (identificabile, nel caso dei versi dianzi citati, in Tutmosi III), sovrano e Dio vivente in terra d'Egitto, del quale Abramo era un fedele vassallo, un affidabile apiru, dimostratosi degno di meritare la fiducia e la stima del suo "Signore". Barbiero dedica un intero capitolo, il V della seconda parte, a una precisa discussione dei diversi termini con i quali si allude nel testo biblico all'autorità regia (oltre a Jahweh, infatti, troviamo utilizzati pure Elohim, El Elyon, Adonay, El Saddai), impersonificata o dal Faraone vero e proprio, o da suoi legittimi rappresentanti, funzionari, o in qualche caso pure dei semplici "messaggeri", ovvero angeli: "'un angelo di Jahweh', cioè un personaggio di livello molto elevato nella gerarchia egizia" (p. 95). Ciò permette di dare un senso immediato a parole come quelle che Abramo rivolge al servitore incaricato di andare a cercar moglie per il proprio figlio Isacco: "Elohim stesso manderà il suo angelo dinanzi a te, perché tu possa trovare là una moglie per mio figlio" (Gs. 24,7 - p. 125). Questo tipo di interpretazione consente a Barbiero di "agganciare la saga biblica alla storia generale del Medio Oriente" (p. 52), e quindi di affrontare, e brillantemente risolvere, alcune questioni su cui "si sono scervellat[e] generazioni di studiosi" (p. 104). Per esempio, il significato da attribuire ai versi di Gs. 17,1: "Abramo aveva novanta anni quando Jahweh gli apparve e gli disse: 'Io sono El Saddai. Ubbidisci a me e agisci giustamente...'" (p. 104). El Saddai non sarebbe altro che un termine per designare l'erede al trono d'Egitto, che da un certo momento in poi deve


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essere considerato come vero e proprio coregnante con il vecchio Faraone ancora in vita (il che crea qualche problema in ordine a possibili sovrapposizioni di "cronologie" dinastiche, gli ultimi anni di regno dell'uno essendo computati anche come primi del regno dell'altro, questioni che pure il nostro autore affronta con molta consapevolezza critica). In questo stesso ambito di idee, Barbiero offre un'elegante soluzione al problema dei numerosi "sogni" a cui fa riferimento il testo della Genesi ("Di notte Jahweh apparve in sogno ad Abimelech e gli disse: '[...] restituisci la donna a quell'uomo [...]"), che dovrebbero essere tradotti come semplici "ordin[i] dat[i] direttamente, ma non di persona e neppure tramite un 'angelo'. Il mezzo alternativo più ovvio e naturale è quello della corrispondenza, molto usato dai faraoni della dinastia XVIII" (p. 83). Tesi che potranno apparire azzardate, nella loro estrema radicalità, e capaci forse perfino di offendere qualche "suscettibilità religiosa", ma che Barbiero illustra in modo assai convincente, sottolineando anche la corrispondenza con dati storici certi relativi al regno di Tutmosi III desumibili dagli Annali di Karnak (pp. 84 e segg.). Forniamo al lettore solo un paio di interessantissimi esempi. "per quanto possa sembrare incredibile, analizzando il testo degli Annali di Karnak si può stabilire con certezza che, nel quarantunesimo anno, Tutmosi III si fermò a Ebron ed ebbe rapporti con una popolazione che dalla Genesi risulta fosse confinante di Abramo. [...] Annali e Genesi ci consentono quindi di ricostruire con precisione e attendibilità gli avvenimenti di quell'anno, il quarantunesimo di Tutmosi III" (pp. 85 e 86); "La descrizione della distruzione di Sodoma fatta dalla Genesi è praticamente coincidente, tenuto conto del punto di osservazione, con quella della campagna militare effettuata da Amenofi II in Palestina nel suo nono anno di regno, per cui si deve ritenere che descrivano entrambi lo stesso fatto storico" (p. 103)(3). Il Faraone in persona dovette infatti essere presente in Palestina nell'occasione appena menzionata, a condurre le operazioni militari, ed il suo incontro con Abramo alle querce di Mamré, mentre il sovrano ben in carne ed ossa è attorniato da personaggi di alto rango, è reso al seguente modo nel racconto della Genesi, tutto ispirato ad assoluta fisicità: "Abramo alzò gli occhi ed ecco che tre uomini stavano in piedi presso di lui, e appena li ebbe visti corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: 'Mio Signore, ti prego, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre dal tuo servo. Lasciate che vada a prendervi un


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po' di acqua per lavarvi i piedi e stendetevi sotto l'albero'" (Gs. 19,5 - p. 99). 3 - Isacco, Esaù e Giacobbe Segnata ormai la strada, è facile per Barbiero andare avanti, trovando sempre ulteriori conferme del suo metodo di decodificazione, e del suo assunto principale, che cioè la narrazione biblica è una cronaca storica sostanzialmente realistica, dalla quale si possono trarre informazioni su dati di fatto, ovviamente se si è capaci di effettuare una lettura intelligente, e "maliziosa", del testo, individuandone eventuali abbellimenti, esagerazioni, aggiunte spurie, menzogne volontarie, semplici equivoci, etc.. Incontriamo così Sara e la sua sterilità; "Agar l'egiziana" (Gs. 15,1) e Ismaele; Isacco (l'episodio del celebre sacrificio richiesto da "Elohim" non sarebbe stato altro che una prova di fedeltà imposta dal neofaraone Tutmosi IV, successore di Amenofi II, ai suoi vassalli, test che Abramo superò brilantemente - pp. 122 e segg.); Esaù, Giacobbe, e la famosa controversia sulla primogenitura, che avrà qualche importanza nei futuri sviluppi della storia del popolo ebraico, visto che sarà proprio il conflitto tra i due gemelli la causa della migrazione di Giacobbe (Israele) e di tutta la sua tribù in Egitto, intorno al 1330, a seguito del figlio Giuseppe, il quale, diremmo oggi in termini moderni, aveva lì "fatto carriera", etc.. Naturalmente, anche nella ricostruzione di ciascuno di questi eventi il criterio di realistica verosimiglianza dispiegato da Barbiero nel corso della sua ricerca, la fa da padrone. Per esempio, una successione non era automatica, ma aveva bisogno di un'investitura ufficiale da parte del padre, oltre che di un ulteriore riconoscimento, una sorta di "sanzione", da parte dell'autorità regale, ed ecco così spiegate le tante "benedizioni di Jahweh", di cui abbonda il resoconto biblico. "In Genesi 25,11 si dice che 'dopo la morte di Abramo Jahweh benedisse Isacco'. Questa parola, 'benedizione', compare nella Genesi tutte le volte che c'è da assegnare qualche eredità: Isacco viene benedetto da Elohim dopo la morte di Abramo; Isacco a sua volta benedice Giacobbe prima di morire e nega la benedizione a Esaù, perché non ha più niente da dare; Giacobbe benedice i suoi figli prima di morire [...] Queste 'benedizioni', in pratica, appaiono essere dei veri e propri testamenti. Nel caso di Isacco, essendo unico erede legittimo, non c'è bisogno di una benedizione da parte di Abramo, ma essa viene data ugualmente da Elohim, ossia dal faraone: evidentemente ed ovviamente la successione doveva essere sanzionata dal


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faraone. E' presumibile che queste 'benedizioni' fossero costituite da un documento scritto che attestatava il diritto del suo detentore alla successione. Erano quindi non semplici invocazioni verbali del favore divino, ma qualcosa di assai più concreto e consistente" (pp. 145-146). Barbiero indaga anche con una certa profondità la questione della "vendita" del diritto di primogenitura, tramandata nel corso dei secoli come una storiella, ingenua e patetica, rabberciata in modo autonomo da anziani con scarsa fantasia, per tacitare la curiosità di ragazzi privi di uno sviluppato senso critico (p. 147): "Dobbiamo considerare che tutto ciò che sappiamo sui patriarchi fu in un primo momento tramandato oralmente, fino a che qualcuno, ai tempi di Mosè, raccolse le tradizioni orali e le mise per iscritto. In tutto questo periodo le gesta dei padri venivano raccontate dagli anziani a un uditorio composto da figli, parenti e servi. Un uditorio interessatissimo a conoscere le proprie radici. Si può immaginare l'imbarazzo del narratore quando arrivava al punto chiave del suo racconto, quello che aveva avuto una influenza decisiva in tutta la storia successiva: l'investitura di Giacobbe da parte di Isacco [...] 'Perché Giacobbe, se il primogenito era Esaù?' Dalla risposta dipendeva la legittimità del primato di Israele rispetto a Edom; questione non secondaria ai tempi in cui i fatti venivano narrati". La stessa Bibbia spiega chiaramente, secondo Barbiero, il vero motivo che spinse Isacco a diseredare Esaù, il quale poi non accettò evidentemente la decisione del padre, e della madre: "Quando Esaù ebbe quarant'anni prese due mogli ittite [...] Questo fatto causò profonda amarezza a Isacco e Rebecca [...] Rebecca disse a Isacco: 'A causa delle donne ittite di Esaù ho perso il gusto di vivere. Se anche Giacobbe prende in moglie una del paese, una Ittita, preferisco morire!' Perciò Isacco chiamò Giacobbe, lo benedisse e gli diede quest'ordine: 'Non devi prendere in moglie una donna di queste parti. Va' dunque in Mesopotamia, alla casa di Betuel, tuo nonno materno, e prendi in moglie una ragazza di là [...] E Elohim ti benedirà [...] e darà a te la benedizione di Abramo...'" (Gs. 26, 34-35; 27,46; 28,1-4 - pp. 148-149). Gli Ittiti, altro che le lenticchie, nemici mortali del popolo Mitanni, che in effetti proprio intorno al 1350, segnarono la fine di quell'impero, allora retto dal suo ultimo re Tushratta. Comunque, la conseguenza di tutti questi "intrighi dinastici" di basso profilo, a causa della morte di Isacco sopraggiunta troppo presto, fu che "Esaù ebbe il sopravvento e Giacobbe fu costretto a fuggire dalla Palestina e a rimanere in esilio per ben venti anni". "Fuggito Giacobbe, Esaù


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evidentemente si impossessò dei domini di suo padre e se ne fece signore" (pp. 150 e 161). Una volta rientrato in Palestina, Giacobbe - assieme alle due mogli Lea e Rachele, le figlie di Labano - ritrova il fratello signore di Seir, "una regione semidesertica a sud-ovest del Mar Morto". Perché Esaù avrebbe abbandonato le ricche e fertili terre di Ebron la Bibbia non ce lo dice chiaramente, "Forse perché si trattò di fatti terribili o umilianti, che la tradizione o il redattore non hanno ritenuto di dover tramandare" (p. 163), fatti che comunque Barbiero riesce a ricostruire rivolgendosi ad altre fonti che ci forniscono notizie sugli eventi accaduti in quel periodo in quella parte di mondo, traendone una conferma ulteriore che il suo "metodo" funziona. E' interessante sottolineare l'esistenza di un reperto storico, un messaggio inviata al faraone Akenaton da un suo feudatario Suwardata, che si definisce "principe di Ebron", e si dichiara attaccato dagli apiru Ittiti, i quali si stavano impadronendo dei territori dei Mitanni, grazie alla debolezza della politica egizia del tempo. Per Barbiero non ci sono dubbi, "'Sw-rdt, principe di Ebron, è proprio lui, Esaù 'il Rosso'" (pp. 165-166), ed è una conclusione stupefacente, da cui consegue che riferimenti originali ad un personaggio biblico così importante sono rimasti disponibili, fatti salvi dalle intemperie dei secoli, per chi li sappia correttamente individuare. Esaù, nonostante le sue mogli ittite, dovette infine abbandonare Ebron, vuoi a seguito di una sconfitta militare, vuoi a seguito di accordi politici impostigli dall'alto, e mentre "si dissanguava nella guerra contro gli apiru ittiti, Giacobbe in Mesopotamia si dava da fare per accumulare figli e ricchezze" (p. 174). Un patrimonio ingente che non bisogna sottovalutare, per uno che era precipitosamente fuggito povero in canna, non avendo altro "che il suo bastone", quando aveva attraversato il Giordano per raggiungere Harran (Gs. 32,11 - p. 159). Comunque sia, quando il fratello rivale ritorna (probabilmente dietro suggerimento del partito egizio anti-ittita, mentre la fazione filo-ittita era stata al contrario nefasta per le fortune di Esaù), "Edom il Rosso" è ancora temibile, e assetato di vendetta nei confronti del "traditore" come il primo giorno. Sicché Giacobbe si rivolge al suo protettore dicendo: "O dio dei miei padri, dio di Abramo e dio di Isacco, El Saddai! [con ogni probabilità quindi l'avveduto Haremab, destinato a succedere al vecchio e malandato Ay, successore di Tutankamon] Tu mi hai detto: 'Ritorna al tuo paese, alla tua famiglia e io farò in modo che tutto ti vada bene [...] Renderò i tuoi discendenti numerosi come i granelli di sabbia del mare, che non si possono contare da quanti ce ne sono!'" (Gs. 32, 10-13 - p. 181); "Salvami dalla mano di mio fratello Esaù, perché ho paura di lui. Temo che egli


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venga e uccida me, le donne e i bambini" (Gs. 33,12 - p. 185). L'invocazione funziona, perché quando Esaù si presenta assai poco amichevolmente al campo di Giacobbe, accompagnato da quattrocento uomini armati, gli "angeli di Elohim" lo dissuadono a mettere in opera quell'atto di riparazione che aveva evidentemente intenzione di compiere. Si può aggiungere che tra questi "angeli" ce ne doveva essere uno particolarmente amico di Giacobbe, visto che combatté con lui per un'intera notte, fino all'aurora (Gs. 33, 24-28), e che al termine della lotta, ammirato dalla prestanza fisica del suo avversario, gli dice: "Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché hai conteso con Elohim e con gli uomini così che alla fine hai prevalso". Secondo il commento di Barbiero: "Era un'usanza tipica degli Egizi quella di dare un nome egizio ai forestieri che entravano nel Paese [...] Il cambio di nome, quindi, era associato ad un'autorizzazione a risiedere in suolo egiziano" (p. 189). Barbiero ci accompagna poi attraverso gli eventi che portarono infine alla migrazione del gruppo di Giacobbe in Egitto, i conflitti tra i suoi numerosi figli, i capostipiti delle famose 12, o 13, "tribù di Israele", la vendita di Giuseppe da parte dei fratelli, la nascita di Beniamino, etc., tutte storie ben note alla cultura occidentale, anche se, lette alla "luce" di questo libro, c'è veramente da meditare a fondo su come e quanto l'umana "ansia di credere" abbia potuto deformare nel corso dei secoli semplici (e modeste, oltre che meschine) cronache di proprietà terriere, esigenze di riconoscimenti di "nobiltà" e "purezza" della propria ascendenza, per accampare conseguenti concretissimi "diritti" su qualche pozzo, e un po' di bestiame! 4 - Mosè 4-1 Se Barbiero si occupa, opportunamente, del testo biblico nella sua interezza (almeno per la parte che può dirsi "storica", e ad eccezione, comprensibile, dei primi 10 paragrafi della Genesi - probabilmente ispirati, o se si preferisce scopiazzati, da analoghe tradizioni di altre "culture"), naturalmente il personaggio principale della sua opera è Mosè, tanto che questo di cui ci stiamo occupando potrebbe dirsi un romanzo su Mosè, ovvero la sua prima vera autentica biografia. Del resto, l'autore non nasconde la sua "predilezione" per il personaggio, quando scrive: "Gli Ebrei non avevano quindi la benché minima possibilità di fuggire, perché gli Egizi erano incomparabilmente più potenti e non era neppure concepibile allontanarsi senza il loro consenso, magari aprendosi la strada con le armi. Per andare dove, poi? La Palestina era ancora saldamente sotto


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il dominio egizio, e non era ipotizzabile, ai tempi di Mosè, una eclissi dell'impero. La Terra Promessa era dunque un sogno senza speranza finché non arrivò Mosè, l'uomo più straordinario della storia, che trovò il modo di realizzarlo" (p. 220). Ma chi era Mosè?, quali avvenimenti lo spinsero a seguire una strada tanto difficile, seppure infine così feconda di soddisfazioni? Nel Cap. II della parte IV Barbiero affronta questo problema, e l'analogo relativo al preteso suo "fratello" Aronne, che fu uno degli "amici" di Mosè "più intimi e fidati", "un 'nobile' poco più vecchio di lui. Intelligente ed ambizioso, ma caratterialmente debole, Aronne subì il fascino di quella personalità fortissima e tenebrosa [tanto da] esserne soggiogato" (p. 227). Lasciamo parlare ancora l'autore. "Senza alcun dubbio Mosè era intelligente, avido di sapere, acuto, dotato di una grande capacità di analisi e di sintesi [...] Mosè venne così a contatto con gli aspetti più intimi e segreti della civiltà egizia, con i retroscena politici e tutti i trucchi, le grandezze e le miserie dell'esercizio del potere. Capì la straordinaria importanza della religione, delle leggi e dell'organizzazione per il governo di un popolo. Apprese le tecniche più raffinate per imporre la propria autorità sugli uomini. Toccò con mano l'evidenza che i governanti erano uomini come lui; con le loro debolezze e meschinità di uomini; meno intelligenti di lui [...] [dal suocero Ietro, "un passabile stregone", presso il quale si era recato fuggiasco, in quanto ricercato per omicidio] Mosè dovette imparare tutti i trucchi del mestiere (Es. 4,1-17). Scoperse il tremendo potenziale della magia; il potere che la superstizione e l'occulto esercitano sulla mente degli uomini. E imparò a servirsene." (pp. 225 e 226). Barbiero individua anche due elementi psicologici fondamentali per chi voglia interpretare il travaglio della vita di Mosè. Prima di tutto, egli era balbuziente, difetto tanto più condizionante (assieme all'ascendenza "incerta") quanto più questi, con la sua straordinaria intelligenza, si sentiva superiore agli altri: "Essere balbuzienti, a quell'epoca, era una vera e propria tragedia: risate, scherno e lazzi vari dovevano essere il pane quotidiano del povero Mosè. Si aggiunga che era un Ebreo dagli incerti natali e si può ben immaginare quali fossero le sue condizioni e le sue prospettive. Sono fattori normalmente sufficienti a distruggere la dignità di un uomo e farne un emarginato, un parià. Ma uniti a sensibilità acuta, quasi morbosa, e ad un'intelligenza vivissima, possono formare una miscela esplosiva e far scattare la molla dei più folli sogni di rivalsa" (p. 225) (4).


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Ma l'ossessione fondamentale di Mosè, quella che ne condiziona tutti i futuri atti, è relativa alla propria sepoltura, problema che naturalmente concepisce nelle vesti di una persona la cui cultura, "aspirazioni e ambizioni dovevano essere molto più vicin[e] a quell[e] di un Egizio della sua epoca che non a quelli di un 'Ebreo' come oggi lo intendiamo": "Quella del faraone, naturalmente, scavata nelle viscere della terra e il grande tempio funerario per i quali lavorava l'intero Egitto e in funzione dei quali il nostro funzionario spremeva tributi, manodopera, energie a non finire. Ma anche la tomba di famiglia del funzionario stesso, che sicuramente ambiva a una sepoltura degna del suo rango [Nota nel testo: 'L'importanza dell'oltretomba per gli Egizi fu tale da condizionare la loro esistenza. Non esisteva una separazione netta tra il mondo dei vivi e quello dei morti [..] Gli Egizi concepivano la morte come la separazione dell'elemento corporeo dai principi spirituali; la credenza più antica, che rimase sempre viva, era che l'anima avesse bisogno del corpo per sopravvivere e che in mancanza di questo sarebbe perita per sempre [...] Durante le dinastie dell'Antico Regno gli alti funzionari furono sepolti nelle mastabe allineate attorno alle piramidi e potevano, in tal modo, partecipare ai destini del sovrano [...] I poveri, naturalmente, dovevano accontentarsi di una fossa scavata nella sabbia', F. Cimmino, Vita quotidiana degli Egizi, Rusconi, Milano 1985, pp. 122-128]. Ad essa dedicava gran parte delle proprie energie e tutto il frutto delle proprie ruberie e malversazioni [...] Su un punto, in particolare, dobbiamo ritenere che [Mosè] fosse estremamente sensibile: quello della sua tomba. Tanto più che, secondo i costumi dell'epoca, lui non aveva diritto a una sepoltura: il suo cadavere sarebbe finito in pasto ai cani e agli avvoltoi, come si conveniva ad un figlio di nessuno" (p. 226). 4-2 L'Esodo Dopo aver convenientemente delineato i punti fondamentali dello scenario nel quale bisogna inquadrare gli eventi, arriviamo alla più grande impresa di Mosè, la liberazione degli Ebrei d'Egitto, l'Esodo e la conquista della Terra Promessa, termini di riferimento concettuale e simbolico di cui tutta la cultura occidentale è stata in seguito pervasa (si ripensi per esempio all'invasione dell'America da parte inglese, concepita come occupazione di una nuova "Terra Promessa"), e lo è in certo modo tuttora: attuale situazione nel Medio Oriente docet. Rientrato in città, alla morte di Ramsess II, dal suo periodo di esilio nel deserto (dove aveva coltivato, nel corso di "lunghe ore di solitudine", "solo


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con le sue capre, se stesso e il suo passato", i suoi "folli sogni di rivalsa" pp. 227-228), Mosè iniziò i preparativi del piano che aveva concepito, d'intesa con il suocero Ietro ("Prepararono la messinscena sulla Montagna Sacra [...] tutto il repertorio di trucchi spettacolari e terribili che avrebbe consentito loro di colpire la fantasia degli Ebrei e di soggiogarli" - p. 229). Naturalmente Mosè aveva davanti a sé problemi assai difficili da risolvere: convincere gli Ebrei a lasciare l'Egitto, accettandolo come capo, prevedere ed annullare la probabile ostilità degli Egiziani alla loro partenza, etc., tutti compiti nei quali profonde il suo straordinario talento, e sul cui puntuale espletamento Barbiero ci informa in maniera ammirata, e vivacemente verosimile. Diamone un esempio, che ha quasi del comico. "Di fronte a quei preparativi di partenza [...] il governatore da cui dipendeva Israele cominciò a preoccuparsi. Non poteva certo permettere che gli Ebrei se ne andassero in massa, privando l'economia locale di uno dei suoi pilastri. Il faraone, come minimo, l'avrebbe destituito. Convocò i capi-tribù e chiese spiegazioni. Quelli negarono di voler abbandonare l'Egitto; carri, viveri, oro e preziosi vari servivano per un grande raduno nel deserto: 'Lasciaci andare per il cammino di tre giorni nel deserto: per sacrificare a Jahweh, nostro Dio, perché non ci colpisca con la peste o la spada' (Es. 5,3). Il visir nicchiava: 'Andate a sacrificare al vostro Dio nel paese' (Es. 8, 21). Impossibile: 'Non possiamo certo fare così, poiché è un abominio per gli egiziani se sacrifichiamo a Jahweh, nostro Dio; sacrificando un abominio ai loro occhi, non ci lapideranno forse? Andremo nel deserto a tre giorni di cammino per sacrificare a Jahweh, nostro Dio, come ci aveva detto' (Es. 8,22-23). Il visir chiese garanzie: lasciassero nel paese donne e bambini (Es. 10,11). Neanche parlarne: 'Andremo coi nostri giovani e i nostri anziani, andremo coi nostri figli e le nostre figlie, col nostro gregge e il nostro armento, perché è per noi una festa di Jahweh' (Es. 10,9). Lasciassero il bestiame (Es. 10,24). No: 'Anche i nostri greggi verranno con noi: non ne resterà un'unghia, perché da quello prenderemo per servire Jahweh e non sappiamo con che cosa servire Jahweh, finché non arriveremo laggiù' (Es. 10-25,26). Alla fine, dopo laboriose trattative, si accordarono: gli Ebrei potevano andarsene dove pareva loro, con quello che volevano; solo, avrebbero dovuto accettare la presenza di un forte contingente di truppe egizie, incaricate di sorvegliarli. A loro spese, naturalmente. Erano le condizioni previste e propugnate da Mosè" (pp. 232-233). Inizia così il viaggio nel deserto: migliaia di Ebrei, carri, animali, una colonna interminabile, sparpagliata per vari chilometri tutto intorno, un vasto agglomerato vivente che Mosè conduce con un "grande braciere


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pieno di bitume ardente. Sprigionava una 'colonna' di denso fumo, che poteva essere vista da chilometri di distanza e serviva da riferimento e guida durante la marcia. Di notte la posizione del braciere era segnalata dal bagliore delle fiamme (Es. 13,21)" (p. 234). Le truppe egizie seguono a distanza gli Ebrei, guidate anche loro dal braciere ardente, proprio ciò che Mosè voleva accadesse. Dopo un viaggio di un paio di settimane (Barbiero analizza anche il significato di un'unità di misura quale il "giorno di cammino"!), "Mosè piantò il campo sulla riva del Mar Rosso, di fronte alle secche [...] che in quel momento erano ben nascoste, essendo la marea al culmine" (p. 234), di cui lui solo, oltre qualche beduino, conosceva l'esistenza. Seguono tra le pagine più belle, e "mosse", dell'intero resoconto di Barbiero. Mosè sa che in un particolare giorno dell'anno, quando la marea si ritira, una sottile lingua di terra rimane libera dalle acque, e consente il passaggio sull'altra sponda. E' notte, e al buio, circondato dal suo popolo, è in attesa spasmodica del momento favorevole: a un suo cenno, gli Ebrei si precipitano nel Mar Rosso, "in colonne ordinate e silenziose, sospingendo avanti a sé le greggi" (p. 236). Le sentinelle egizie, accampate a breve distanza, avvertono forse qualcosa di diverso, il rumore prodotto dagli animali, ma il braciere è sempre lì immobile davanti a loro, "non c'era di che allarmarsi". Al primo chiarore, scorgono il campo degli Ebrei: "delle loro tende, dei carri e delle migliaia di capi di bestiame nessuna traccia [...] Cosa stava succedendo?". Il seguito della storia è noto. Le truppe risvegliate in gran fretta si precipitano all'inseguimento, ma Mosè ha previsto tutto, e osserva infine "sogghignando i cavalli che si dibatt[ono] nelle acque e i soldati che affond[ano], trascinati dalle loro armature. Il piano studiato così meticolosamente per anni, era riuscito [...] In cuor suo trionfava, gonfio d'orgoglio. E ne aveva di che: per la genialità e audacia della concezione, la complessità delle operazioni, la meticolosa pianificazione e l'esecuzione brillante e decisa, è un'impresa che non ha paragoni nella storia. Lui, figlio di genitori ignoti, balbuziente, ricercato per omicidio, armato soltanto della sua genialità e audacia, aveva osato sfidare il sovrano più potente dell'epoca, riuscendo a sottrargli un intero popolo [...] e ad annientare il meglio dell'esercito più potente del mondo [...] Nessuno riuscirà mai a fare qualcosa di paragonabile. Bastava un piccolo errore di calcolo, una mossa sbagliata, e l'avventura poteva trasformarsi in tragedia; mi piace pensare che non perdette neppure una capra!" (p. 237). Barbiero spinge l'accuratezza della sua ricostruzione fin quasi a determinare la data del memorabile evento con precisione. Siamo tra la fine di maggio e i primi di giugno, nel terzo o quarto anno del regno di


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Merneptah, quindi "in corrispondenza di una delle seguenti date: 1235, 1221 oppure 1213" (p. 402), che potrebbe essere addirittura stabilita con assoluta esattezza, visto che una delle famose "piaghe" da cui l'Egitto fu afflitto (a detta degli Ebrei, naturalmente, per volontà del loro Dio Jahweh) corrisponde con molta verosimiglianza a un'eclisse totale di sole, e gli Ebrei attraversarono il Mar Rosso circa un mese dopo. Un'eclissi totale di sole nella seconda o terza decade di maggio, quindi, verificatasi nell'alto Egitto, potrebbe permetterci di "ricavare con precisione e certezza la data assoluta del passaggio del Mar Rosso [...] di datare con precisione avvenimenti accaduti più di tremila anni fa [...] consentendoci fra l'altro di fissare una volta per tutte la cronologia egizia" (p. 402). Terminiamo questa sezione indicando un'altra delle non minori perle di cui è disseminata quest'opera: il problema del numero degli Ebrei dell'Esodo, e dei censimenti delle tribù di Israele (pp. 295 e segg.). "Mosè, prima di partire dal monte Horeb, fece un censimento (Nm. 1,1-47) e lo ripeté a distanza di anni, nella valle di Moab, prima dell'invasione della Palestina (Nm. 26,1-51). Più che di censimenti veri e propri, si trattò di un conteggio degli uomini abili alle armi, inquadrati nell'esercito, che risultarono rispettivamente 603.550 e 601.730. Sono cifre sproporzionate in quanto presuppongono una popolazione globale di almeno tre milioni di persone, del tutto irreale". La solita pretesa "mania di esagerazione" degli antichi, si chiede Barbiero, o non piuttosto il frutto di un nuovo equivoco interpretativo, simile a quello che è stato analizzato nella sezione 2-1? Questo secondo è ovviamente il caso, a ulteriore riprova che il testo biblico non è una "favola". Il fatto è che: "La parola ebraica per indicare le 'migliaia', elef, significa anche 'capo'", sicché quando si legge ad esempio che "I registrati della tribù di Ruben risultarono 46 elef e 500", non bisogna tradurre come 46.500, bensì come 500 soldati comuni, e 46 "capi", "ufficiali", "cioè i discendenti legittimi del capostipite di ciascuna tribù", "i quali possedevano collegialmente tutti i beni della tribù, mandrie e greggi, compresi i relativi pastori e le loro famiglie"! Non ci voleva poi molto, ma, si sa, neanche a far star ritto l'uovo di Colombo! Certo è che, ancora una volta (non è questo l'unico episodio di cui Episteme si dovrà occupare), i cosiddetti esperti, le legioni di filologi che di siffatti problemi si sono occupati nel corso dei secoli, non offrono un'immagine di sé molto brillante.


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4-3 Bemidbar - La peregrinazione nel deserto Sterminato il contingente egiziano destinato a sorvegliarli, gli Ebrei "poterono allontanarsi indisturbati nel deserto, verso il loro nuovo destino" (p. 242), ma i problemi naturalmente erano ben lungi dall'essere terminati, e riguardavano tanto l'ostilità dell'ambiente naturale e delle popolazioni che venivano ad incontrare, quanto questioni di "politica" interna. Barbiero ci guida in modo esemplare nell'analisi delle decisioni con cui Mosè affrontò, e risolse, le une e le altre, e dell'itinerario che il "popolo eletto" seguì nel corso delle sue peregrinazioni. Cominciamo dalle questioni di natura politico-organizzativa. "Mosè aveva sottratto al Faraone il popolo ebreo; ma era ben lungi dall'averlo acquisito per sé [...] il suo prestigio personale era alle stelle, ma ci voleva ben altro [...] Era un trovatello, senza arte né parte, senza beni. Serviva ancora come guida, essendo l'esperto locale. Ma si può stare certi che, una volta giunti a destinazione, ogni tribù se ne sarebbe andata per i fatti propri [...] Facevano i conti senza Mosè. Scattava la seconda parte del suo piano: impadronirsi del potere e creare una solida struttura organizzativa, che inquadrasse l'intero popolo di Israele. Fulcro dell'operazione fu la Montagna Sacra, dove aveva imparato le arti magiche. L'intera operazione fu condotta con un misto di genialità e di lungimiranza straordinari e di spregiudicatezza e ferocia, che fanno di Mosè la figura più imponente e affascinante della storia. Il risultato finale fu che un'accozzaglia di tribù senza capo, senza religione né legge, attraverso un bagno di sangue e di terrore diventò un popolo che avrebbe riempito la storia della sua religione, dei suoi ideali e delle sue leggi. Mosè, ovviamente, non guardava così lontano. Lui mirava soltanto a trasformare in nazione quell'insieme di tribù refrattarie ad ogni autorità e assumerne saldamente il controllo [...] Nessuno [...] avrebbe potuto farsi accettare come capo supremo del popolo ebreo. Nessuno che fosse di carne e ossa e non possedesse un poderoso esercito. Ma un Dio sì. Jahweh, il potente e terribile Dio dei padri, aveva deciso di dare al 'suo' popolo libertà, potenza e prosperità [...] Mosè, semplicemente, si pose in mezzo tra il popolo e Jahweh, quale unico portavoce del secondo verso il primo e viceversa. Dio gli comunicava il proprio volere e lui riferiva al popolo; senza colpa né responsabilità e, soprattutto, almeno in apparenza, senza potere [...] Per conferire con Dio Mosè saliva sulla Montagna sacra: lui solo era autorizzato a farlo, pena la morte (Es. 19,12). Tuoni, fulmini, fuoco e fumo testimoniavano all'atterrita popolazione, che stava ai piedi del monte, dei


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terribili eventi che si consumavano lassù... [Barbiero aggiunge in Nota: "Non c'è dubbio, invece, che lo spettacolo 'pirotecnico' fu organizzato dallo stesso Mosè, facendo largo uso di qualche sostanza incendiaria a base di zolfo. Tracce evidenti di un fuoco ad alta temperatura sono state rinvenute da Anati su Har Karkom, proprio sullo sperone che domina l'accampamento in cui dovevano trovarsi gli Ebrei]" (pp. 257-258). Risolto in tal modo un primo problema di "popolarità", conseguita anche attraverso il progetto, entusiasticamente accolto, di edificare un santuario perché Jahweh potesse abitare per sempre in mezzo al suo popolo prediletto (Es. 25,8), c'era naturalmente tra i capi chi non si lasciava proprio convincere. "Era un'opposizione ancora sotterranea, ma stava organizzandosi in modo pericoloso. Mosè corse ai ripari e decise di farla uscire allo scoperto. Architettò un piano davvero diabolico. Durante una sua ennesima assenza sul monte, che si prolungava oltre l'usuale, il fido Aronne finse di accettare di mettersi a capo di una congiura contro Jahweh [...] Mosè tornò dal monte sul più bello, nel pieno dei festeggiamenti (Es. 32,19). Finse sorpresa e uno sdegno terribile [...] I Leviti, naturalmente, si schierarono dalla sua parte [...] Un massacro: tutti quelli che si erano esposti, finendo nelle liste di proscrizione, furono uccisi. L'opposizione filo-egizia fu annientata [...] Pochi mesi dopo [...] Jahweh stesso prescelse [Aronne] fra dodici pretendenti, come suo sommo sacerdote (Nm. 17,1-9)" (pp. 259260)(5). Ma le avversità, come gli esami, non finiscono mai: invero, come ogni politico sa, se grandi ostacoli possono essere frapposti ai propri progetti dai nemici, non meno da sottovalutare sono quelli che possono provenire dai "compagni di partito". Fu proprio uno di questi, Cora, cugino di Aronne, uno degli anziani della tribù di Levi, ad investire Mosè in modo sprezzante: "Chi sei tu, che ti debba innalzare al di sopra della Congregazione di Jahweh?" (Nm. 16,3 - p. 260). "E' un flash che illumina all'improvviso uno dei lati più oscuri dell'intera vicenda di Mosè: come fosse riuscito, in Egitto, a convincere gli Ebrei a seguirlo in quella pazzesca avventura. Come stregone non era eccezionale: personaggi del genere, e di una scuola anche migliore, si sprecavano a quei tempi, in Egitto; e comunque erano sempre al servizio del potere, mai al potere [...] A quanto pare il grande colpo di genio, la chiave di volta dell'intero piano di Mosè, l'inizio di tutta la sua vicenda fu proprio questo: aveva fondato una società segreta [...] Con il fascino, i rituali e gli obiettivi, l'esercizio del potere innanzi tutto, delle società segrete di ogni tempo e luogo. I fondatori appartenevano alla tribù di Levi: Mosè, Aronne,


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Cora e gli altri capi delle famiglie levite; costituivano il consiglio direttivo della Congregazione. In seguito vennero fatti proseliti in tutte le altre tribù: personaggi che ambivano ad occupare o mantenere posizioni di potere nell'ambito del proprio gruppo [...] Era tutto previsto e definito fin dall'inizio. In sospeso doveva essere rimasto soltanto un piccolo particolare: il capo. Mosè era il promotore, l'ideologo, la mente della Congregazione; ma con quale diritto se ne arrogava la supremazia assoluta?" (pp. 260-261)(6). Come precedentemente nel caso del "vitello d'oro", Mosè non esita ad agire in maniera immediata e radicale, senza esitazioni e pietà. "Si appellò al giudizio di Dio: si sarebbero trovati, l'indomani, nel tempiotenda 'dinanzi a Jahweh' (Nm. 16,16) [...] Il nobile Levita giunse all'appuntamento sicuro di sé [...] Aveva probabilmente un qualche asso nella manica; ma non fece in tempo ad usarlo. Mosè lo precedette, vibrando un colpo micidiale: all'improvviso la terra si aprì sotto i piedi del malcapitato Cora, che precipitò in una voragine [...] Tutti gli altri suoi sostenitori furono avviluppati dalle fiamme e perirono bruciati" (p. 262) [in nota Barbiero aggiunge: "Mosè impiega spesso una mistura incendiaria micidiale, probabilmente a base di zolfo (il segreto di questa mistura era stato tramandato dai tempi di Amenofi II, che l'aveva impiegata per la distruzione di Sodoma e Gomorra)...]". L'esistenza di questa miscela la si ritrova secondo Barbiero anche in altri luoghi, per esempio là dove si racconta che: "Purtroppo la cerimonia fu funestata da un tragico incidente: i due figli maggiori [di Aronne], Nadab e Abiu, maneggiando una sostanza incendiaria (la stessa, certamente, che era servita a Mose' per i suoi trucchi sulla Montagna Sacra), commisero qualche imprudenza e morirono bruciati... (Lv. 10,1-5)" (p. 263). Superati i problemi sul fronte interno, non mancavano naturalmente quelli sul fronte esterno. Mosè sapeva bene di avere sotto il proprio controllo una "marmaglia di pastori male in armi" (p. 265), e cercava di evitare quindi ogni "contatto" con le popolazioni vicine, ma "un folto gruppo di teste calde [...] partì per proprio conto alla conquista della Palestina [...] Non fecero molta strada: furono attaccati dagli abitanti del luogo [...] e si dettero a precipitosa fuga [...] I superstiti tornarono al campo, a Cades, con la coda fra le gambe. Sconfitto, avvilito, decimato, il popolo ebreo mise momentaneamente da parte ogni velleità di conquista e si rassegnò penosamente a vivere ancora a lungo nel deserto" (p. 266). In tutto questo turbinare di eventi e di difficoltà, Mosè non dimentica mai, c'è da aspettarselo, la sua ossessione di buon "egizio", quella di avere


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una sepoltura degna di questo nome. I mezzi ovviamente non gli mancavano: "Quando lasciarono l'Egitto gli Ebrei possedevano in grande quantità oro, argento, rame e altri materiali preziosi [...] Gran parte di questi materiali preziosi furono donati per la fabbricazione del tempio-tenda. Ma i rimanenti furono con buona probabilità rastrellati da Aronne e Mosè, con sistemi che andavano dalla imposizione di tasse e contributi a vario titolo (Nm. 31,50-54; Es. 33,6; eccetera), fino alla sottrazione fraudolenta. L'episodio del vitello d'oro, a esempio, ha tutta l'aria di un trucco. Scopo principale, si è visto, era quello di far uscire allo scoperto l'opposizione filoegizia e annientarla; parallelamente, però, consentì a Mosè ed Aronne di impadronirsi di una notevole quantità d'oro. Il vitello era stato fabbricato dallo stesso Aronne [...] [che] si era fatto consegnare perfino gli orecchini e i bracciali delle donne (Es. 32,2). Con che cosa abbia realmente fabbricato il vitello, tuttavia, non è dato sapere; certamente non con l'oro raccolto. Quando Mosè scese dal monte, infatti, ridusse l'idolo in polvere, che fece bere poi al popolo, sciolta nell'acqua: tutte operazioni impossibili se il vitello fosse stato realmente d'oro (Es. 32,20; Dt. 9,21)" (pp. 303304). Ecco quindi un nuovo colpo di genio: da consumato statista senza scrupoli, Mosè si produce "in una delle sue più magistrali interpretazioni" (p. 266). E' Jahweh stesso a proclamare, infuriato, che: "nessuno di quella generazione di rammolliti senza fede avrebbe visto la Palestina; avrebbero vagato nel deserto, finché non fossero morti tutti; con le debite eccezioni, naturalmente: 'Io perdono come tu hai chiesto, ma tutti quegli uomini che hanno visto la mia gloria e i prodigi da me compiuti in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno obbedito alla mia voce, certo non vedranno il paese che io ho giurato di dare ai loro padri...' (Nm. 14,11-38)" (p. 266). Con un vero e proprio coup de théâtre, Mosè inserisce sé medesimo, ed Aronne, tra coloro della "vecchia guardia" che non sarebbero stati compresi nel numero dei privilegiati, e raggiunge così i suoi due scopi. Da un canto, avrà tutto l'agio per dedicarsi al progetto di costruire una tomba degna di un faraone, e di esservi poi effettivamente sepolto, con il fidato amico di sempre (non potevano certo correre il rischio di morire "lontano", seguendo eserciti in zona di guerra in Palestina, nel corso di operazioni pericolose: "Rischiava davvero di essere buttato, nudo come un verme, sotto un mucchio di sassi" - p. 281); dall'altro, il popolo viene costretto ad attendere per un "tempo sufficiente perché la nuova generazione


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subentrasse [...] a quella formatasi in Egitto, che si era dimostrata troppo pavida ed impreparata per intraprendere una guerra di conquista" (p. 273). 4-4 Il suicidio di Mosè ed Aronne Abbiamo visto che Mosè, dopo aver "conquist[ato] il potere con determinazione e ferocia, passando sul cadavere di chiunque avesse tentato di contrastarlo" (p. 274), aveva ormai deciso di morire nel deserto del Sinai. "Qui, pertanto, doveva essere preparata la sua tomba. Non dimentichiamo che aveva vissuto nel Sinai per una quindicina d'anni, prima di tornare in Egitto, e aveva quindi avuto tutto il tempo di studiarne ogni segreto e di scoprire siti idonei dove costruirla. Non è escluso che l'avesse già individuata e in parte scavata" (pp. 276-277). Lasciamo il lettore al piacere della lettura del libro di Barbiero, per rinvenire insieme a lui tutti quegli "indizi" che lo conducono a una identificazione assai precisa della plausibile località in cui si trova tale tomba, "al centro della piana di Har Karkom" (p. 308), dal cui ritrovamento potrebbero davvero emergere reperti di valore storico, prima ancora che artistico, incalcolabile. Vediamo soltanto con quali considerazioni Barbiero tratta il problema del segreto, che deve naturalmente avere ossessionato il duce degli Ebrei. "La più grande preoccupazione di Mosè dovette essere quella di tutelare il segreto della propria tomba [...] Gli Ebrei erano lontani e non potevano accorgersi di nulla. Ma i Madianiti, che si spostavano nel proprio territorio al di fuori del controllo di Mosè, potevano aver notato quelle manovre ed essersi insospettiti [...] Prima o poi, inevitabilmente, avrebbero scoperto la tomba di Mosè e i suoi tesori [...] Come poteva essere evitata questa prevedibile conclusione? Mosè risolse il problema in modo sbrigativo e crudele: annientando i Madianiti [...] Il motivo ufficiale dell'eccidio è piuttosto fragile: vendicarsi di una donna madianita di facili costumi, già uccisa del resto, che aveva "traviato" un Ebreo (Nm. 25,6). Ridicolo! Il motivo vero doveva essere ben piu' serio [...] I Madianiti che abitavano nei pressi del monte Horeb furono massacrati; donne e bambini presi schiavi. Che i Madianiti non si aspettassero un attacco del genere da parte dei loro "fratelli" ebrei lo dimostra il fatto che non uno solo dei soldati di Fineas rimase ucciso in questa poco edificante impresa (Nm. 31,49) [...] Mosè corse incontro ansiosamente (Nm. 31,13) alla spedizione, al suo ritorno. Si adirò moltissimo quando vide che erano state risparmiate le donne e i bambini. Le donne maritate potevano essere state messe a parte di qualche segreto, dai loro uomini; come pure i ragazzi, curiosi e impiccioni,


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potevano sapere qualcosa. Non poteva correre rischi: ordinò di sterminare anche loro (Nm. 31,17). Furono risparmiate soltanto le bambine. Mosè fu un grande uomo; ma quale scia di sangue lasciò sul suo cammino". Una volta preparata la tomba, e garantitosi il segreto (di cui dovevano essere messi a parte solo uomini fidatissimi come il suo "delfino" Giosuè "Doveva essere entrato nel gruppo dei fedelissimi di Mosè fin dai primi momenti, in Egitto; probabilmente era suo amico d'infanzia o di giovinezza (Nm. 11,28). Era intelligente e capace, ma soprattutto fidato...", p. 346), arriva finalmente il momento in cui è possibile per i due scegliere la propria "buona morte". Ma approfondiamo il modo con cui Barbiero esamina la questione. "Le circostanze della morte sia di Aronne sia di Mosè appaiono veramente strane e tali da giustificare i peggiori sospetti. Si direbbe che abbiano scelto loro il momento della propria morte, tanto è giunta opportuna per entrambi, nello stesso anno e, guarda caso, immediatamente prima che avesse inizio la conquista della Palestina. Toccò per primo ad Aronne [...] nel corso di una suggestiva cerimonia, durante la quale Aronne era vivo e vegeto e alla quale partecipò attivamente, Eleazaro ricevette le insegne di sommo sacerdote. Subito dopo Aronne morì [...] Esattamente sei mesi dopo tocco' a Mose' (Dt. 1,3). Lui fece le cose in modo piu' spettacolare: radunò il popolo nella valle di Moab, sulla riva del Giordano; tenne un lungo discorso, quello del testamento; di fronte a tutto il popolo passò le consegne e il potere al suo 'delfino' Giosuè, benedisse il popolo, annunciò la propria morte e si congedò. Poi salì sul monte Pisga, in vista di Gerico, ammirò la terra Promessa e... morì (Dt 34,1-8). Anche lui, come Aronne, rimase vispo e arzillo fino all'ultimo momento (Dt. 34,7). Anche lui venne sepolto ipso facto, lì vicino da qualche parte, non si sa bene come e dove (Dt. 34,5). Anche per lui gli Ebrei piansero per trenta giorni. Scaduti i trenta giorni di lutto, Giosuè dette immediatamente inizio alle operazioni per l'invasione della Palestina. Una morte davvero singolare e tempestiva. [...] Le morti sono avvenute entrambe sulla cima di un monte, alla presenza di pochissimi testimoni, e hanno colpito i due protagonisti quando erano perfettamente sani e in forze, al punto di salire sul monte con le proprie gambe" (pp. 277-280). Erano trascorsi quelli che la Bibbia indica con il termine generico di quaranta anni dall'inizio della straordinaria avventura che l'aveva visto ineguagliabile protagonista, e Mosè si congeda dal "popolo eletto" all'inizio della seconda fase del suo riscatto, probabilmente soddisfatto per essere riuscito a portare a compimento con tanto successo ogni piano.


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"Mosè aveva previsto tutto. Certamente l'unica cosa che non aveva previsto fu che la religione da lui fondata avrebbe avuto un tale successo universale da conquistare il mondo intero" (p. 346). 4-5 La conquista della Terra Promessa Come abbiamo detto, trascorsi i giorni del lutto per la morte di Mosè, Giosuè aveva iniziato subito i preparativi per l'invasione della Palestina. Non si trovava più davanti a un popolo di mandriani imbelli: "Era cambiato anche il popolo ebreo. La nuova generazione era ben diversa da quella nata e cresciuta in Egitto. S'era forgiata alla dura vita del deserto; alla scuola feroce dei beduini ostili. Era ben armata e addestrata. Soprattutto era disciplinata e compatta intorno ai propri capi supremi e alla nuova religione, e con la coscienza di avere Dio dalla propria parte" (p. 286). D'altro canto, anche il nuovo condottiero degli Ebrei "rivelò un genio militare sorprendente, tale da metterlo a fianco dei grandi generali della storia. Il piano di conquista era stato certamente messo a punto insieme allo stesso Mosè. L'esecuzione, però, fu tutta sua. Fu veramente all'altezza. Non per niente era stato scelto da Mosè!" (p. 286). Una prima esperienza militare rende gli Ebrei consapevoli della propria forza, e in un breve volgere di tempo (l'esegesi tradizionale la fa durare alcuni anni, ma tutto dovette aver luogo nel giro di pochi mesi) essi portano a termine la loro campagna vittoriosa. "Sihon, re di Esbon, invece, non concesse il transito sul proprio territorio; il suo popolo venne sterminato fino all'ultimo infante (Dt. 2,26-35). Stessa sorte subirono i Moabiti che abitavano il Paese ad oriente del Giordano. Il collaudo dello strumento di guerra messo a punto nei lunghi anni di permanenza nel deserto aveva dato esito favorevole: l'esercito ebreo si era rivelato invincibile sul campo. Finalmente poteva iniziare la tanto sospirata conquista [...] Primo atto: l'attraversamento del Giordano, il confine tanto a lungo proibito. Giosuè volle iniziare l'impresa, ripetendo, nel suo piccolo, l'exploit di Mosè: 'prosciugando' le acque del Giordano [il corso del fiume fu deviato dai "genieri" di Giosuè"] [...] Si rinnovò il miracolo del passaggio del Mar Rosso, con grande impressione ed emozione dell'intero popolo [...] Giosuè piantò il campo a Ghilgal, una località poco distante da Gerico. Da qui partirono le operazioni militari. La strategia adottata fu quella di affrontare i nemici uno alla volta, il più rapidamente possibile, in modo da evitare che si formassero leghe ed eserciti troppo potenti [...] Uno


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dopo l'altro ben trentun re furono uccisi, i loro popoli sterminati, le loro citta' distrutte" (pp. 285-287). In questa parte del libro si colloca la splendida ricostruzione realistica offerta da Barbiero (sulla base di un evento analogo raccontato da Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, V, 2, 4), del famoso episodio della caduta delle mura di Gerico. Un altro dei tanti "miracoli" attribuiti a un temibile Dio protettore, che per l'occasione aveva assunto però i panni di una squadra di "genieri", i quali, mentre "l'intero esercito, coi sacerdoti in testa, si dava da fare per distrarre gli abitanti della città, sfilando intorno alle mura per sei giorni consecutivi", scavavano e puntellavano sotto le fondamenta di un tratto di muro. La galleria veniva riempita di legna spalmata di pece e bitume, e, al momento opportuno, fiato alle trombe e via al fuoco. I puntelli consunti dal fuoco crollavano, e la galleria rovinava con il tratto di muro soprastante: "Gli Ebrei si precipitarono in massa nella breccia, prima che gli esterrefatti difensori potessero accorrere, e la città fu presa. Fu una carneficina orrenda. Tolta una famiglia di 'collaborazionisti' (Gs. 6,25), non venne lasciato vivo nemmeno un animale. La citta' fu saccheggiata e rasa al suolo". Tralasciamo altri simili esempi di efferatezza, particolare anche per quei tempi selvaggi e feroci, limitandoci ad informare il lettore del commento che offre Barbiero di quel modo impietoso di procedere (e che ha reso sempre numerosi passi dell'Antico Testamento di lettura poco piacevole per le coscienze più sensibili di intere generazioni di cristiani), pure perché importante allo scopo di fugare alcune perplessità che potrebbero sorgere nei confronti della ricostruzione fin qui delineata. "Durante la conquista della Palestina e subito dopo accaddero cose strane, che apparentemente sfuggono ad una spiegazione logica [...] Mosè aveva stabilito (Dt. 20,16), e Giosuè puntualmente eseguito, che le popolazioni di queste città fossero sterminate completamente, fino all'ultimo neonato. Non era una prassi normale; nemmeno in quei tempi feroci. La norma era di uccidere, sì, gli uomini d'arme; ma tutti gli altri, servi, donne e bambini, venivano risparmiati e fatti schiavi [...] Uccidere donne e bambini era un assurdo scempio, oltre che un'inutile crudeltà. Mosè doveva avere i suoi buoni motivi [...] Non va dimenticato che al momento della conquista la Palestina era ancora a tutti gli effetti una "provincia" egizia e il popolo d'Israele era da due secoli una componente dell'impero. Non è neppure pensabile che Mosè intendesse muovere guerra all'Egitto per strappargli una parte di territorio, o che volesse affrancare il popolo ebreo dalla sudditanza all'impero. Quello a cui poteva aspirare era recuperare gli antichi territori palestinesi di Israele, ma sempre nell'ambito e sotto


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l'autorità dell'impero egizio [...] Il nuovo faraone, non appena in grado di occuparsi delle faccende dell'impero, sarebbe stato ammansito con il pagamento di un fortissimo tributo e con le più ampie e sviscerate assicurazioni di fedeltà e sottomissione. Perché questo progetto potesse realizzarsi era necessario che la conquista fosse fulminea e che le popolazioni presenti nei territori conquistati fossero completamente sterminate. Da un lato per procurarsi le ricchezze con cui calmare il sovrano (e corrompere generali e funzionari), dall'altro per evitare che torme di profughi provocassero disordini a catena nel resto del paese e che postulanti a corte inducessero il sovrano a intervenire per ristabilire l'ordine precedente. Trovandosi invece di fronte al fatto compiuto, senza nessuno che protestava e con il suo bel tornaconto, il neofaraone non avrebbe mosso un dito" (pp. 342-345). 4-6 La redazione e la lingua della Bibbia La "storia" estratta da Barbiero dalle pagine della Bibbia sta per volgere al termine. Gli Ebrei ritornati nella tanto a lungo agognata Terra Promessa riprendono i loro vecchi costumi. Giosuè non si fa nominare re, non fonda una capitale, non crea una burocrazia, un esercito permanente, tutte iniziative che avrebbero potuto mettere in allarme l'autorità egiziana, ma spartisce prudentemente "il territorio conquistato in tante piccole parti, con confini ben delimitati, e assegna una parte a ciascuna tribù, insediandovela libera e sovrana. Scioglie l'esercito. Disperde i Leviti, la classe dirigente del popolo ebreo, suddividendoli in piccoli gruppi presso le altre dodici tribù" (pp. 342-343). Quanto alla sua medesima persona, si ritira a vita privata, "nella città che si era riservata come feudo personale. Non si sentirà mai più parlare di lui, né di suoi discendenti" (p. 346). L'epopea del popolo eletto naturalmente prosegue, ancora documentata dalle pagine della Bibbia, ma dovranno passare un paio di secoli prima di arrivare all'epoca dei Re, di Saul e di David, di Salomone, e della costruzione del tempio di Gerusalemme, a modello di quello che Mosè aveva voluto fosse edificato nel deserto, sotto una tenda. Barbiero lascia gradatamente, quasi con riservatezza, il popolo ebreo alle sue successive vicende, ma non può non farne qualche cenno per ciò che concerne uno degli interrogativi fondamentali che l'intera sua ricerca solleva: "Alla luce della ricostruzione effettuata nei capitoli precedenti, il Pentateuco si è rivelato una cronaca storica straordinariamente precisa e attendibile. Sorge legittima una curiosità: chi l'ha scritto e quando?" (p. 315).


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Anche qui si tratta di una domanda non banale, che in genere gli studiosi moderni complicano terribilmente, inseguendo diversi autori, redazioni, tradizioni, sorte intorno a numerosi "santuari", e molteplici famiglie sacerdotali. Barbiero, ancora una volta, ci stupisce nella semplicità della sua risposta, nel coraggio di sciogliere il nodo di Gordio dell'erudizione. "Mosè conosceva la scrittura; mise per iscritto le sue leggi; teneva un 'diario' (Nm. 33,2). Non può essersi voluto separare dalle sue 'carte', dopo morto" (p. 309), e verosimilmente l'apertura della sua tomba, oltre che un'ingente ricchezza materiale, rivelerà questo tesoro ben più prezioso! E' chiaro che la ricostruzione della redazione del testo biblico (avvenuta ovviamente per gradi), offerta da Barbiero nelle sue pagine conclusive, è maggiormente complessa, a partire dalle carte che Mosè dettava con ogni evidenza al suo segretario e scriba Giosuè ("Giosuè risulterebbe essere il principale autore dei primi sei libri della Bibbia, scritti quasi interamente di suo pugno, vuoi sotto dettatura di Mosè, vuoi in modo autonomo [...] Lui consegnò a Ghersom [figlio di Mosè, "titolare" del santuario di Silo] l'archivio di stato prima di ritirarsi a vita privata", p. 409), per passare poi alle primitive versioni scritte unitarie di quei documenti ad opera di qualche immediato discendente della sua stessa famiglia, verosimilmente nel santuario appena citato, l'unico vero centro di culto dell'intero popolo ebreo, prima che il suo primato venisse contestato da altri simili "luoghi sacri", ed infine assunto da Gerusalemme. Tali documenti diventano presto l'archivio di stato del popolo di Israele, la sua memoria storica, il libro sacro, la sorgente di ogni legittimità, politica e religiosa, di ogni diritto di proprietà e di nobiltà, sicché non c'è da stupirsi che intorno ad essi ci sia stata parecchia "agitazione". Resta il fatto che, almeno da un certo punto in poi, "L'intervento del redattore sul 'materiale' di cui e' formata l'opera [siamo due generazioni circa dopo Mosè], [...] deve essere stato, tutto sommato, abbastanza trascurabile; ma fu comunque di estrema rilevanza perché, rimescolando involontariamente le varie carte e con piccolissimi interventi, riuscì a trasformare un testo di cronaca storica in un libro sacro, comprensibile soltanto alla luce della fede" (pp. 363-364). Successivamente, "Zadok fu l'ultimo ad avere in mano quei documenti, prima che Davide li trasportasse a Gerusalemme, rendendoli sacri e inviolabili. Come pontefice di Saul non è da escludere che abbia avuto dal re l'incarico di curare una "edizione" ufficiale del Libro della Legge. Saul [...] fu indubbiamente un grande sovrano, abile e avveduto; doveva essersi reso conto dell'importanza di avere un testo scritto che legittimasse la religione e le leggi di stato e conseguentemente il potere regale" (p. 358).


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Fu subito dopo i primi re, ai tempi di Giosafat, che cominciarono a circolare "copie" del Libro della Legge a fini divulgativi, e quindi verosimilmente tradotte nella lingua parlata dal popolo, e cioè l'ebraico (7). Versioni che, avendo fini didattico-politici, è probabile fossero "addomesticat[e] e purgat[e] da quelle parti che, a giudizio dei sacerdoti dell'epoca, non era opportuno venissero rese di pubblico dominio, in quanto avrebbero potuto sollevare interrogativi imbarazzanti; pur senza che ci fosse una deliberata intenzione di falsificare l'originale, che rimaneva comunque sacro e inviolabile nel Sancta Sanctorum del tempio" (p. 365). Eventuali censure furono dovute, secondo Barbiero, dopo la scissione del regno, alla necessità di esaltare il primato religioso di Gerusalemme, e del regno di Giuda dove la città era situata, nei confronti delle analoghe pretese di superiorità del regno di Israele a nord, cui apparteneva Silo, e dove si trovavano ancora i santuari di Betel e di Dan (pp. 364 e segg.). Scomparsi i fogli originali conservati nell'Arca, probabilmente ai tempi di Manasse [re di Giuda, figlio di Ezechia, ca. 690/630 A.C.], sopravvissero soltanto tali esemplari "didattici", e soltanto uno di questi (redatto di conseguenza in ebraico) capitò nelle mani di Esdra, al tempo dell'esilio babilonese (VI secolo). Quando il "libro sacro" viene elaborato dal sacerdote (che pure non osò, secondo l'interpretazione di Barbiero, apportarvi variazioni significative, che erano state quindi tutte già effettuate nella copia in suo possesso), ecco che ne fu infine data la versione in aramaico, la lingua allora parlata correntemente dagli Ebrei (pp. 320 e 366). Se la detta ricostruzione smitizza alquanto già da sola l'intera questione della cosiddetta "lingua sacra" (sarebbe il cananeo, ovvero l'ebraico, oppure l'aramaico?, ancorché si trattasse di lingue "vicine", non coincidono strettamente)(8), resta l'interessante domanda costituita dal chiedersi quale fosse la lingua originale in cui furono redatti i primi libri della Bibbia. Ancora una volta, Barbiero è molto deciso nella sua risposta, e con essa chiudiamo quest'ampia presentazione del suo lavoro, prima di passare ad alcune riflessioni finali. "Mosè era nato e cresciuto in Egitto ed era stato educato in casa egizia. Qui aveva imparato a leggere e scrivere; non sappiamo che lingua parlasse con gli Ebrei, ma certamente quando doveva mettere qualcosa per iscritto lo faceva con gli stessi caratteri e la stessa lingua usata dai suoi educatori. Può anche darsi che gli Ebrei d'Egitto parlassero una lingua propria che ignoriamo; ma è certo che dovevano comprendere perfettamente la lingua del Paese in cui vivevano da cento anni. Non c'è ragione, quindi, di


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pensare che Mosè e Giosuè abbiano impiegato una lingua diversa dall'egizio nello scrivere i loro documenti. Sebuel [figlio di Ghersom, figlio di Mosè] visse in una Palestina che faceva ancora parte, almeno nominalmente, dell'impero egizio; aveva imparato a leggere e scrivere da Mosè e Giosuè: è presumibile che abbia continuato a scrivere nella stessa lingua. Per quanto riguarda Eli [figlio di Sebuel, e quindi pronipote di Mosè], Samuele e gli altri non possiamo dire molto, se non che a quell'epoca la lingua corrente fra il popolo doveva essere ormai il cananeo, indicato poi come 'ebraico'. Per la massa del popolo la lingua in cui erano scritti i documenti dell'archivio di Eli doveva essere diventata incomprensibile. Ma certamente i sacerdoti avevano conservato la conoscenza di quella che ormai era una lingua 'sacra' e continuavano a scrivere nello stesso modo" (pp. 364-365). Ecco dunque risolto l'arcano: lingua sacra potrebbe essere considerata soltanto l'egizio, e dalla tomba di Mosè ed Aronne, situata nell'attuale Negev israeliano, nel cuore del deserto di Paran, presso l'altura di Har Karkom ("monte dello zafferano"), c'è da aspettarsi che escano fuori i veri rotoli della Bibbia originale, redatti in caratteri geroglifici, e risalenti ad oltre mille anni prima dei manoscritti di Qumran, il cui rinvenimento ha pure fatto tanto scalpore. 5 - Conclusione Immagino si comprenda bene, adesso, perché il libro di Barbiero sia stato tanto fieramente avversato (al punto che ne è stata forse deliberatamente sabotata la diffusione?!). Comunque la si pensi in materia, è chiaro però che esso avanza un'ipotesi degna di essere ulteriormente vagliata, con tutti i mezzi (storici, archeologici, ma anche "logici") che la ricerca mette atualmente a disposizione. In attesa dei risultati della campagna di scavi ad Har Karkom, non si può certo sostenere che quella esposta nel libro sia più di una congettura, la quale appare comunque a priori oggetto di anatema da parte di chi tiene a preservare intatte le radici storiche del "sacro" nella civiltà occidentale, e le considerazioni di natura etica (e quindi pure sociopolitica?!) che ad esse si accompagnano (si sono accompagnate). Siffatte preoccupazioni hanno indubbiamente un fondamento, ma bisognerebbe pure riflettere sui possibili risvolti negativi che possono conseguire dall'associazione di un'etica accettabile - perché probabilmente conforme ai dettati di un'intuizione universale - con una metafisica "incerta". Tanto per dire, non ci sarebbe più nulla di buono nei valori cosiddetti "cristiani", se essi non fossero autorevolmente avallati dall'essere il loro proponente


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un Dio? Come non si può trovare una contraddizione tra alcuni feroci passi dell'Antico Testamento(9), e appunto quei valori, quali vengono da secoli comunemente concepiti? Si è così abituati peraltro a leggere le stesse pagine, o altre successive ad esse collegate, caricandole di una quantità di significati allegorici "aggiunti", che in effetti tale "paradosso" sembra superabile, almeno per talune sensibilità. Vista la grande importanza del tema, lasciamo però spazio ad ulteriori commenti… NOTE (1) Si potrebbe aggiungere che un curioso e inaspettato "banco di prova" per l'interpretazione testè offerta è costituito da una classica questione aritmetica (problema di Frobenius), relativa allo studio di quali numeri interi positivi possano esprimersi come somma di altri numeri fissati della stessa natura (per esempio, a partire dal 7 e dal 13, si ottengono 7, 13, e poi 14, 20, 26, 27, etc. - si può trovare un cenno a tale questione nel punto 6 della pagina dedicata ai Fondamenti della Matematica nel sito web http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci). Come dire che sarebbe una circostanza non banale, confermante il discorso di Barbiero, se ogni numero del tipo citato nella Bibbia si potesse davvero scomporre negli addendi in parola, vale a dire 3, 7, 40, 70, 400. (2) A questo punto il pensiero non può non riandare alle incessanti discussioni sul probabile aspetto fisico del Cristo (per esempio quello che ci è stato costantemente tramandato dall'iconografia sacra). La questione del rutilismo presso gli Ebrei è ampiamente trattata in: Claudine Fabre-Vassas, La bête singulière, Gallimard, Paris, 1994. (3) Questo episodio è rimasto indelebilmente associato nella cultura occidentale alla "degenerazione" degli abitanti di quella città, la cui unica colpa fu invece probabilmente solo quella di aver voluto rifiutare la circoncisione, "un'usanza egizia", imponendo la quale il nuovo Faraone Amenofi II voleva concretamente "egizianizzare" gli abitanti del suo impero (p. 105). Abramo si affrettò ad ubbidire, ma non tutti gli interessati furono dello stesso avviso. Il famoso tentativo di intercessione di Abramo a favore degli abitanti di Sodoma si spiega con la presenza nella città, condannata a perire sotto zolfo e pece in fiamme, del nipote Lot. (4) Siffatte gratuite crudeltà degli uomini (e dei ragazzi) si ripetono purtroppo di generazione in generazione sempre uguali, se non talora peggiori. Nel romanzo di Mario Puccini, Dove è il peccato è Dio (Campitelli, Foligno, 1922; unica riedizione, Fondazione Rosellini per la Letteratura Popolare, Senigallia, 1999), una donna dice alla figlia, a sua volta madre, parlando del nipote: "Questo ragazzo è di pasta frolla, come te [...] moccioso com'è, e timido [...] dove lo metti? A una scuola pubblica? Lo divoreranno di canzonature!". Ho potuto purtroppo verificare sia in prima persona, sia come padre, che tali "pratiche persecutorie" (senza neppure piena consapevolezza del


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male che esse arrecano da parte degli stessi tormentatori) sono ben lungi dall'essere cessate (od ostacolate dagli "educatori", che tendono ad ignorarle). (5) Ecco all'opera (per la prima volta nella storia?!) la tecnica del "falso avversario", che gli studiosi sembrano ancora non aver ben individuato all'opera in diversi momenti fondamentali della storia (per un rarissimo caso contrario, vedi: Paolo Ermani e Anna Fanton, Dall'accordo Saddam Hussein-Bush ad una nuova teoria della guerra - Il nemico artificiale, Libreria Anomalia, Roma, 1992). Ad essa si aggiungerà, con il passare degli anni, un'interessante variazione sul tema, quella dell'aiuto fornito a un reale avversario perché riesca a "vincere", e ad offrire successivamente un pretesto di intervento. Ci si potrebbe chiedere per esempio se, dietro ai famosi mercanti dei films western, quelli che vendevano armi agli indiani, non si celasse un piano ben organizzato, ed occulto, da parte del governo yankee, per poter avere poi una scusa per distruggere meglio gli sventurati primitivi abitanti del Nuovo Mondo (almeno nella parte settentrionale). Bisognerebbe indagare seriamente al riguardo, e non è detto che non si avrebbero delle sorprese! (6) Questa società segreta, la "congregazione di Jahweh", è alla base delle future insolite speculazioni dell'autore sulle origini della massoneria, un cenno alle quali si può trovare nel sito web già citato nella precedente nota 1 (vedi i documenti 1 e 2 allegati al punto C/4 della pagina dedicata all'Attualità). Si spera che prossimamente il discorso possa essere affrontato anche su Episteme. (7) Gli Ebrei - pur certamente conservando, almeno fino a Giacobbe, qualche conoscenza di una delle lingue urrite, che doveva essere stata la loro originale adottarono "una lingua diffusa in Palestina assai prima che vi giungesse Abramo; più precisamente [...] la lingua parlata dai Cananei" (p. 62), e questa viene definita oggi ebraico. "Quale lingua parlassero al tempo della residenza in Egitto non è dato sapere, ma tornarono certo al cananeo dopo il ritorno in Palestina, per adottare infine l'aramaico durante l'esilio babilonese" (p. 409). Ciò che è curioso sottolineare, per i meno esperti di tali questioni, è che: "Col nome di 'semiti' vengono attualmente indicate un certo numero di popolazioni, distribuite dalla Mesopotamia all'Etiopia, il cui denominatore comune è costituito dall'affinità con l'ebraico delle loro lingue" (p. 62). Vale a dire che l'affinità è quindi soltanto di natura linguistica, e non razziale, con una peculiare conseguenza. Infatti, l'ebraico coincidendo appunto con il cananeo, bisognerebbe piuttosto parlare allora di camiti, visto che i Cananei, al pari di "tutti i popoli che abitavano la Palestina prima dell'arrivo di Abramo", vengono detti chiaramente dalla Bibbia stessa discendenti di Cam: "se vogliamo utilizzare in modo preciso le indicazioni della Bibbia, dobbiamo concludere che l'ebraico attuale è una lingua camita, non semita" (ibidem). E il bello, a distruggere ulteriormente la base della terminologia corrente a proposito di semitismo ed anti-semitismo, è che Abramo era verosimilmente, come già asserito, un ariano (vedi sezione 2-1)! (8) Tralasciamo naturalmente la più radicale considerazione che non può esistere alcuna lingua sacra perché non può esistere alcun libro sacro!


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(9) Oltre a tutti gli episodi precedentemente ricordati, ce n'è uno dal II libro di Samuele (21,8 e segg.) che ha sempre colpito lo scrivente in maniera particolare, rendendogli impossibile provare ammirazione per certi personaggi, certi libri, e le culture che li hanno espressi (che non sembrano estranee neppure ad altre successive "barbarie", del tipo di quelle che il lettore ha avuto modo di notare per esempio nell'articolo di Stevan Dedijer). In esso si racconta come Davide distrusse (quasi) totalmente il seme di Saul: "Il re prese i due figliuoli che Ritspa figliuola d'Aiah avea partoriti a Saul [...] e i cinque figliuoli che Merab, figliuola di Saul, avea partoriti ad Adriel [...] e li consegnò ai Gabaoniti, che li appiccarono sul monte, dinanzi all'Eterno. Tutti e sette perirono assieme; furon messi a morte nei primi giorni della messe, quando si principiava a mietere l'orzo". Segue un dettaglio estremamente commovente, che rende tale storia diversa dalle ordinarie vicende di vendetta e di sopraffazione: "Ritspa, figliuola di Aiah, prese un cilicio, se lo stese sulla roccia, e stette là dal principio della messe fino a che l'acqua non cadde dal cielo sui cadaveri; e impedì agli uccelli del cielo di posarsi su di essi di giorno, e alle fiere dei campi d'accostarsi di notte". Val forse la pena notare che Davide non osservò nel caso in oggetto la prescrizione perentoria: "E quand'uno avrà commesso un delitto degno di morte, e tu l'avrai fatto morire e appiccato a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai senza fallo lo stesso giorno" (Deut. 21,22-23). Si potrebbe anche aggiungere che Davide appare due volte biasimevole (a tener conto solo di questo evento!), sia perché i figli e i nipoti di Saul non si erano macchiati di alcun "delitto degno di morte", sia perché probabilmente il re di Israele si sente esonerato dalla prescrizione letterale della Legge, in quanto fa commettere l'orrenda esecuzione ai Gabaoniti, in modo da poter sostenere di non esserne un responsabile diretto. In conclusione, sembra difficile non ritenere che chi ha sofferto di più sia stata la sventurata madre delle vittime: che sia possibile perdonare tutti coloro che hanno sparso tanto sangue, dolore e lacrime nel corso dell'intera storia dell'uomo, questa creatura così ineffabilmente crudele…

(UB)

Stele di Hammurabi: Il dio Shamash consegna il codice delle leggi ad Hammurabi (da Giuseppe Ricciotti, La Bibbia e le scoperte moderne, Sansoni, Firenze, 1957)


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[Prima di passare ad altri interventi sullo stesso argomento, pubblichiamo un appassionato contributo di Luciano Tansini, a (ovviamente parziale) conferma di quanto si è cercato di dire nelle "Conclusioni" della precedente recensione. Esso dimostra infatti come certi testi, e le loro successive elaborazioni, siano in grado di suscitare una sempre maggiore consapevolezza etica. Lo facciamo precedere dalla lettera con la quale lo stesso autore l'ha presentato ad Episteme, sicuri di fare cosa utile, perché Tansini, oltre che pensatore intelligente, altamente apprezzabile nelle sue riflessioni, è anche un poeta..] ----Carissimo Umberto, [...] sono contento per la franchezza con cui mi parli. La tua radicata ricerca della verità la condivido. Non se ne può più di idoli, di libri idoli che incatenano, mascherati da tanta finta pietà. Tante volte avrei voluto o sono stato tentato di prendere la Bibbia e altri libri cosiddetti sacri e gettarli via dalla finestra. Ma quando stavo per farlo, o lo dicevo per scaramanzia, mi succedeva qualcosa. E poi il mito di Perseo mi ammoniva: ogni inganno nasconde verità: taglia la testa alla Medusa, la cui vista pietrifica, e ne uscirà Pegaso, il cavallo alato dell'Anima, su cui anche tu potrai volare. Aiuta la Medusa orribile (Dio) a trasformarsi in cavallo alato, in farfalla di libertà. Trai da veleno medicina! E poi non si tratta solo di un libro, o di pochi libri, si tratta di fonti che vanno oltre la scrittura, si tratta dell'anima di innumerevoli popoli, ebrei, mussulmani, cristiani. Come lasciare tutta questa memoria in mano dei miei peggiori nemici? E così anche con Ernst Bloch, ateo comunista ebreo, grande combattente di libertà, mi dicevo che: "Scopo di queste ricerche minuziose dovrebbe essere dunque quello di mettere in luce la qualità più positiva, attraverso la quale, […] poter operare il riconoscimento e la salvezza del "plebeo" sepolto. Che esso sia sepolto solo in parte lo dimostra il fatto che altrimenti la Bibbia avrebbe solo la funzione di qualsiasi altro libro religioso, organo della superiore classe sociale e della signoria divinizzata, invece di rappresentare il libro religioso più rivoluzionario che, comunque, è impossibile sopprimere" [Ateismo nel cristianesimo, Ed. Feltrinelli, Milano, 1971, p. 107]. Hai ricevuto il mio libro Ascolta Israele? Nelle prime pagine do il taglio della ricerca, e affronto Mosè e Gesù sia sul piano mitico che sul piano della loro pedagogia storico-politico-etica. E poi mi dicevo: Luciano,


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sospendi il giudizio, e pensa alla Bibbia nel suo aspetto completo, nella sua opera, lascia parlare la Bibbia alla Bibbia. E se la incontri come Medusa, rivolta lo sguardo glaciale del mostro su se stesso. E attraverso questa tecnica vedevo uscire Pegaso liberato, e vedevo i monopolizzatori del sacro annientati dal loro stesso trono: la Bibbia e il Vangelo e gli Atti e le Lettere degli Apostoli. Come affronto Mosè e i personaggi biblici? Li affronto non separati gli uni dagli altri, ma come organi vivi di una creatura autonoma e dipendente e in divenire, che chiamo "Bibbia", cosicché la Torah o la parte di destra della Bibbia la congiungo con la parte sinistra della Bibbia, così la parte del rigore e della violenza della Torah cerco di controbilanciarla con quella della misericordia della Torah, e di tutta la Bibbia tradizionalmente interpretata dai maestri ebrei, compresi Talmud, Midrashim. Cioè, per una esigenza di equilibrio, di completezza e di unità cerco di prendere la Bibbia nella sua unione maschile e femminile, per comunicare con lei come se fosse una creatura vivente. L'ascolto, la interrogo, lotto con lei, faccio un patto di amicizia con lei se vedo ciò utile, non la vedo come un semplice libro o documento, ma la vedo come un cuore palpitante dove confluiscono, si incontrano e si scontrano una infinità di cuori. Così Mosè cerco di vederlo sia come entità fisica e storica e materiale, sia come entità di sogno e di divenire, tutt'ora vivente nella vivente Bibbia, vista come qualunque creatura con la sua storia, e il suo sogno di divenire. E allora, per restare nell'esempio Mosè, Mosè nella Bibbia, nella sua unità maschile e femminile, mi appare essere l'iniziatore della vocazione all'Esodo di un popolo, egli stesso si fa popolo in un popolo di oppressi. Non credo alla possibilità che un popolo si possa creare a tavolino, dalla volontà di un leader, "carismatico" quanto possa essere. E poi, anche se storicamente non si fosse verificato il fatto dell'Esodo, con la nascita di Mosè dalle "acque", e con le uccisioni degli innocenti ad opera del faraone, non per questo la vitalità iniziatica alla libertà di un Mosè o di un Esodo di libertà, perderebbero la loro grande forza. E se anche si sviluppasse un conflitto tra la pedagogia del Mosè storico con quello biblico dell'Esodo, ne prenderei atto per vitalizzare ancora di più il Mosè dell'Esodo antiimperiale e internazionalista: "muoia il faraone Erode e tutti i figli e servi di cotale autorità". In Ascolta Israele ho sottolineato che il tempio voluto da "dio", dall'Unità senza volto di fissità, non poteva essere il tempio storico degli ebrei, creato dalla monarchia solo per dividere e non per unire, cioè contro l'Unità, contro l'Eterno "Elohim Adonai". Così il Davide e il Salomone verso cui si rivolge l'Eterno, ossia l'unità biblica, non sono gli ottusi e violenti Davide e Salomone della storia...


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Ho conforto in quello che dico da insegnamenti "nascosti" di grandi iniziati kabalistici ebrei e non ebrei. Ed allora se l'amico Barbiero scopre un Mosè storico, l'unico vissuto realmente, che è come Hitler o peggio di Hitler, io ne prendo atto con lui, ma l'altro mitico Mosè, il vero Mosè, organo della creatura Bibbia, riceverà ancora di più vitalità: il Mosè dell'Esodo, il Mosè dei profeti, il Mosè di Dio, dell'orfano, della vedova e dello straniero, si contrapporrà ancora di più a quel Mosè storico. Come è solito dire Isaia, il vero culto è spezzare le cause delle catene, ed è questo il Mosè del massacro contro tutto ciò che sa di stato e di Erode, e di faraone maligno, e di impero, e di signoria divinizzata, il Mosè collettivo prodotto dal desiderio di libertà degli innocenti. Il tema è troppo tremendo per liquidarlo una volta per tutte, lasciando per giunta nelle mani dei nostri peggiori nemici, i ricchi con i loro preti [...] Vorrei dirti tante altre cose della visione che mi anima, suscitatami dall'insegnamento profetico, cerco di sintetizzarle con due poesie che scrissi molto tempo fa, ma che amo ripetere: Sì, si giudicherà Dio Sì, si giudicheranno gli angeli e gli dei Sì, si giudicheranno gli elevati, i mistici, chi non dubitò mai Sì si giudicheranno i dèmoni, amanti delle lacrime e del sangue altrui Sì, si giudicheranno tutte le forze degli inferi Sì, si giudicheranno i tiranni della terra Sì, si giudicheranno tutti i loro servi Sì, il sogno della giustizia giudicherà ogni essere Sì, questa nostra nullità giudicherà ogni vita, e prenderà per primogenito ogni abbandonato pianto E avrà come figlio ogni abbandonato dolore E avrà pietà della vita così impotente di fronte all'inganno E il desiderio di vita sarà il tempio della vita Per sempre per sempre. Abbiamo voluto giustizia per Cristo, Cristo ci amerà Abbiamo reso giustizia ai profeti, i profeti con tutto se stessi ci ameranno Pure alle streghe abbiamo reso luce d'amore, luce di giustizia Esse perdutamente ci ameranno.

Mi piacerebbe incontrarti di nuovo, e farti vedere sistematicamente l'opera che sto sviluppando, sperando che tutto questo mio andare non sia vanità come tante volte sento, eppure mi illudo che non sarà tutto così. Sarò contento se tu mi pubblicherai qualcosa, con tutte le riserve che hai sul mio modo di procedere, sapendo che "un avversario leale è più di un


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amico" (Lao Tze). Ma c'è un "ma" a cui cerco di rispondere da sempre. Come mai l'Impero da sempre cerca di distruggere il popolo ebreo, con le buone o con le cattive? (oggi con le buone) E come mai il popolo ebreo è l'unico popolo soggetto all'impero romano a non essere stato assoggettato, e distrutto completamente da Roma? Un augurio di libertà e di razionalità, cuore e cervello uniti, Bologna, ottobre 2000

tuo Luciano

Luciano Tansini, via Orfeo, 3 - 40124 Bologna -----

Il nodo dei nodi nella Bibbia: la schiavitù Lo si sciolga "per rendere abitabile e felice ogni paese" (Isaia 5,8). A volte vorrei essere Nessuno Nulla avere guardare come non ho guardato mai. (il nido non si trasformi mai in tomba, mai!) "Il sonno della ragione genera Mostri (Goja). "L'ultimo nodo", il "nodo dei nodi", è stato sciolto: lode all'Eterno di libertà che spezza le catene dovunque… "Lo stesso albero non è lo stesso albero se visto con occhi di saggezza o con occhi di stoltezza". [proverbio cinese] "A occhi storti anche la verità appare un mostro". [proverbio inglese] "Anche dal veleno si colga la medicina. Dal piombo, l'oro, vera operazione alchemica". [massima buddista]


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La Bibbia è come una giungla, come un labirinto senza via d'uscita, è come un'intricatissima selva dove vi sono luoghi bellissimi, ma vi si incontrano luoghi tenebrosissimi e difficilissimi da valicare o da viverci. Ma lo spirito libero e liberante, che scaturisce dalla stessa Bibbia concepita in unità, ma lo stesso spirito di libertà, di verità, vede in quegli stessi luoghi tenebrosi l'insegnamento alla libertà. E, con l'unità del bene "Tutto è buono, tutto diventa Buono-bello come nell'Eden". Se vince il "Tutto è buono", anche ciò che separatamente è cattivo, diventa più buono del buono, e il "Buono" è così onorato e realizzato; e il "Bene" è contento, così l'opera è completa, è compiuta per l'eternità. Ma se vince il male (la divisione), volendo stare su due staffe opposte e nemiche irriducibili e impossibili a stare insieme, allora la catastrofe dei mondi e del mondo è completa, e tutto, anche il bene, diventa cattivo (il che non sia mai!), e il "sale", che nasce per salare, diventa insipido e diventa buono altro che ad essere calpestato dagli uomini. Non si renda insipido il sale della saggezza; non si renda insipida la Bibbia, e noi con lei. …Attenzione a non usare la Bibbia o il sacro o la scienza o la propria bellezza come la matrigna di Biancaneve usava il suo specchio… (La coscienza). Si vinca questa tentazione! Si distrugga ogni forma di primato, si potrà allora "far rifiorire l'albero secco che è in noi", così insegna la stessa Bibbia. "E verità, o Adonai, è la tua legge" (Salmo 118,142). Ed ora, "premesso ciò", affrontiamo il "nodo dei nodi": sciogliamolo! Si legge nella Bibbia: "Se uno percuote con il bastone il proprio schiavo o la propria schiava, producendogli la morte, questi dovrà essere vendicato. Però se lo schiavo percosso sopravvivesse almeno un giorno o due, non sarà vendicato perché si considera proprietà del padrone". [Esodo 21,2021]. Di contro Isaia 58, profeta, "Parola di Dio", dice: "Il vero culto a Dio è spezzare il giogo posto sul collo degli oppressi, dare libertà agli schiavi, spezzare ogni forma di giogo". La Bibbia corregge la Bibbia?! La Bibbia parlando alla Bibbia, parla a noi e ci dice: "Io Uno", non mi contraddico, non posso non essere non fedele a me stesso, all'Unità Senza Confine che sono. - Abolite ogni forma di schiavitù, abolite la schiavitù, perché altrimenti io non potrò essere "Uno" e voi non potrete essere mio popolo e io ve lo


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dimostro non solo con le leggi buone che vi do, ma anche con le leggi "non buone" che vi do - ["E detti persino leggi non buone con le quali non potevano vivere", Ezechiele profeta: 20,25. "…In verità io non parlai, né diedi norme riguardo a sacrifici e olocausti quando vi trassi fuori dall'Egitto", Geremia profeta, 7,22. "Io non voglio sacrifici, ma misericordia, dice l'Eterno", Amos profeta con tutti i profeti]. Io, l'"Uno senza volto", ve lo dimostro "per assurdo", anche con le leggi non buone che vi do [e con i profeti che vi do: "legge e profeti" vanno accomunati]; ve lo dimostro con le leggi non buone che vi do, le quali non possono farvi vivere in unità di uguaglianza universale; ma ve le do per "scaramanzia", perché prendo su di me parte della vostra pazzia, della vostra schizofrenia e perché voi capiate l'assurdo. E ve lo dimostro nella stessa Bibbia la quale non può insegnare la pazzia e la schizofrenia: non è forse follia affermare una cosa e subito poi affermare proprio l'opposto come si legge in Esodo 21,20-21? "Se colpendo lo schiavo non sopravvive nel giorno, tu stesso sei colpevole di omicidio, ma se sopravvive 'un giorno' eppoi muore subito dopo (un giorno? o "due giorni"? quale assurdo!) tu non sei colpevole di omicidio perché è solo il tuo denaro che perdi" (quale santo cinismo! dove va l'unità dell'Eterno di Unità?)!!… Il commento ufficiale di questo passo, manifestamente schizofrenico, peggiora lo stesso contenuto paradossale della norma, trasformandolo in barzelletta da ridere, se non da piangere. Infatti, al riguardo, la nota della Bibbia ebraica in italiano laconicamente dice: "cioè, il padrone è sufficiente punito con la perdita dello schiavo" (edizione a cura dell'Assemblea dei rabbini d'Italia 1976, Il Pentateuco, pag. 127, nota 4); cioè la punizione del padrone sarebbe quella di aver distrutto una sua "cosa" di valore (non una persona)… Il padrone è stato veramente scemo, questo gli servirà da lezione; se invece gli muore lo schiavo nel giorno delle percosse allora il padrone dovrà essere punito con la stessa morte: "vita contro vita, questa è la legge"! Tutto ciò è inammissibile. Lo Spirito di questa norma, la sua ratio, non può essere quella che si desume dalla sua lettera, staccata da tutto il contesto interpretativo, specie dei profeti, stranamente dimenticati dal "rabbinato ufficiale". Una stessa norma, nella stessa norma, afferma due cose che si escludono a vicenda: prima si afferma che lo schiavo è persona, cioè non è schiavo per la Torah, eppoi si afferma tutto il contrario: che lo schiavo è semplice cosa per la Torah, e come tale chi lo uccide non è considerato assassino. Che cosa vuole affermare l'Eterno con questa norma "non norma"? Qui, con Abraham, si dovrebbe aprire un giudizio all'Eterno e dire all'Eterno: "Tu non puoi far perire il giusto con l'empio" [Genesi 18 e Esodo 23]… Ma tu, dio degli


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innocenti, considererai innocente chi non è manifestamente innocente? Tu, Eterno, di Unità, non puoi dare che frutti di Unità". Non certo l'Eterno di Unità vuole affermare che egli non è l'Eterno di Unità. E allora che cosa vuole affermare con norme di divisione? Si può affermare che l'Unità insegni la schizofrenia? L'Unità insegnerà sempre la vera Unità. E allora la norma di Esodo 21, 20-21 si spiega mettendoci in guardia e ci avvisa che l'istituzionalizzazione della schiavitù fa impazzire e uccidere la stessa Legge celeste, la sua giustizia, la sua logica di Unità. Essa, la "norma cattiva", ci dice che non è possibile applicare la legge di schiavitù e nel contempo dare onore all'"Eterno Uno, Senza Volto di fissità", "Ehyeh Asher Ehyeh". Ogni normativa, che esprime qualunque forma di schiavitù, ci dice Esodo 21,20-21: "non è possibile applicarla", perché rende pazza o ipocrita o ingiusta o illogica la Legge, il che è impossibile. Non è possibile considerare legge, la normativa che prevede la schiavitù; questo è il dettato di saggezza della norma "priva di saggezza" di Esodo 21, 20-21; questo è il suo senso e la sua ratio eternamente parlando. Questo ci insegna l'Unità della Torah, che non può essere che unità. Allora lo spirito della Torah pone nella Torah la legge "cattiva", perché insegni tutto l'opposto, perché altrimenti si metterebbe in crisi tutta la legge, il che non sia mai. Ed essa così, legge "cattiva", manifestando il suo bisogno di rettitudine, di scomparire tra le leggi buone, ci dice a maggior ragione: "Guai a voi se non eliminate la schiavitù! Vedete cosa comporta lo sfruttamento istituzionalizzato? Comporta la pazzia, comporta crudeltà e capriccio. Comporta sopruso persino nel cuore della giustizia". Proprio tutto il contrario di quello per cui nasce la legge: la legge nasce per abbattere ogni forma di disuguaglianza, viceversa l'antilegge, lo 'Stato", nasce per codificare le disuguaglianze, le divisioni di gerarchia di valore. Tutti sono figli dell'Eterno, ci dice l'Eterno, specie i più bisognosi: "Io, Adonai, sono pane degli affamati; liberazione degli incatenati ("gli schiavi"), tribunale dei calpestati; io sono l'Eterno" [Salmo 146,7-9]. Comportatevi e insegnate a fare voi stessi così e allora siete figli dell'Eterno, in caso contrario io non vi ho mai creato; io non vi conosco". Distruggete le cause che creano schiavitù e schiavi amanti della loro stessa schiavitù e schiavi che odiano altri schiavi loro fratelli: spezzate ogni forma di giogo!… [Isaia 58] Tutto ciò è vera magia di libertà particolare e universale. La schiavitù non è solo mentale, ma è anche quella fisica: le pene restrittive corporali le quali ottundono la coscienza di chi è oggettivamente servo e di chi subisce il ruolo di padrone (mettete un cane alla catena e vedrete!). Spezzate ogni forma di Idolo, di giogo, e la libertà vi rigenererà e voi "non morrete più". Abbatti la tirannide dovunque, come


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io per natura abbatto i tiranni dovunque, e "immagina e immagina e medita e medita" a fare così. Sii perfetto come sono perfetto io nella unità di libertà; sii degno figlio del tuo degno padre "senza volto di fissità", di Stato"… e così "morendo vincerete anche la morte"… E se vi dico anche cose manifestamente assurde è perché tu cresca e tu stesso sii libero e capace di trovare, pure nell'"assurdo del divino", la logica del divino che è in te, come fa Abraham e Giobbe e Zippora, sposa di Mosè, che salva Mosè dalla "assurda" ira dell'Eterno (Esodo 4, 24-26). E anche quando sembra che ti imponga, nulla ti impongo, perché ogni imposizione, "tu devi", genera un inconfessato bisogno inconscio alla trasgressione. Al posto del "tu devi", poni "tu puoi", "tu vuoi", "tu conosci"; io posso, io voglio, io conosco, io amo, io libero… così sono liberato. Io "ti faccio a mia immagine e a mia somiglianza", perché pure tu mi faccia a tua immagine e somiglianza di bellezza. Fammi dunque bello, libero e liberante, così lo sarai pure tu; fammi schizofrenico, punitivo, arrogante, monarca assoluto, crudele, così lo sarai pure tu, specie con chi dici di amare di più… (quale inferno, ti creeresti!). Non trasformare la Bibbia in un pasto di porci! Ma tutto sia fatto con intelligenza, con ricerca, con conoscenza, con culto alla bellezza e alla bontà-giustizia, alla verità. Non divinizzare i ricchi e la loro classe, nel nome di Dio. Dunque, la lettera schizofrenica del dettato della norma, Esodo 21,20-21, ci porta allo Spirito di Unità della norma stessa dettata dall'Eterno, dettata sempre a "Mosè", medium altissimo, ma pur sempre imperfetto" (e noi con lui…). E, se anche Mosè fosse perfetto, noi, sicuramente siamo ben lontano dalla perfezione, perché "abbiamo occhi e non vediamo"… anche quando "vedono"… Dunque non è possibile applicare la normativa della schiavitù, anche quando è sancita ufficialmente nella legge: la "pazzia" della legge, che non può impazzire, te lo dimostra in modo incontrovertibile. E se apparentemente concedo la schiavitù a voi che siete così confusi tra schiavitù e libertà, lo faccio non per rendervi più confusi di quanto voi lo siate (e contro la confusione vi mando profeti che voi perseguitate e fate fatica a riconoscere), ma lo faccio per educarvi gradualmente a eliminare dovunque la schiavitù, contro lo stesso amore alla schiavitù che ha lo stesso schiavo inculcata dentro di sé… Dunque non posso sradicare immediatamente il male, per non dover distruggere lo stesso bene che spesso è così inestricabilmente intrecciato col male… ma nel frattempo opero e chiamo a operare e insegno a operare; e quando tutto sarà maturo, quando il tempo sarà compiuto, allora potrò senza tema di distruggere il bene, potrò distruggere ogni forma di male e io "sarò finalmente Uno" [e voi potrete vivere insieme come Unico essere", Isaia,


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25,4-5, Zaccaria 14,9: "In quel giorno l'Eterno sarà l'unico e "Uno" sarà il suo nome" (quando l'Eterno sarà "Re" di tutta la terra)] e tu sarai Uno con Me e con te stesso e gli altri, e sarai finalmente nella terra promessa di pace e di giustizia senza confini, e in te saranno benedette tutte le creature della terra, passate, presenti, future. Allora, se ti permetto la schiavitù, a rischio di impazzire, è perché tu, con me, possa eliminarla dovunque e perché la stessa mentalità di schiavo si vergogni e capisca l'assurdo e la contaminazione della schiavitù, del possesso, e capisca che tra legge e schiavitù c'è un odio mortale, tra Divino e schiavitù non vi può essere unità di amicizia e ve lo dimostro con le stesse leggi non buone, schizofreniche, che vi do per "regolare", controllare la schiavitù… Ma Isaia e tutti i profeti, mia parola, sono chiari al riguardo: "spezza ogni forma di giogo"… e allora ricercami in Unità, spezzando le cause delle catene, troverai la tua unità e non impazzirai e curerai la tua pazzia e curerai l'altrui pazzia… e vedrai la luce e la luce ti amerà e la luce sarà la luce… ["Thus a human individual aids God to behold God", "Kabbalah". Tradition of hidden knowledge, Levi ben Shimon Halevi, p. 93] [così un semplice individuo umano aiuta Dio a vedere Dio]. Ma si continui a meditare sull'abisso dell'assurdo: Se lo uccidi "subito", ti chiederò il conto del sangue; se lo uccidi "subito dopo", non ti chiederò conto del sangue, perché è solo il tuo denaro che perdi… e lui, lo schiavo, non è più di mia proprietà, non è più mia creatura [certo, ti insegno a contenere la rabbia… "però" quanta schizofrenia e ipocrisia, quanta beffa e odio verso l'Unità c'è in tutto questo assurdo modo di procedere, tanto più è assurdo per "l'unità", "Ehad"…]. "Prima" la creatura è "proprietà di Dio, è difesa dalla legge; eppoi, se passa "un po' di tempo", diventa cosa, proprietà della classe e normativa padrone, passa al dominio dello Stato, al culto del "Super Io"… Tutto ciò è talmente manifestamente contro l'Unità dell'Eterno, che l'Eterno non può avere messa questa "norma cattiva", norma statuale, perché sia applicata, ma perché "non sia applicata", ma perché i suoi frutti di divisione non siano mangiati, come non dovevano essere mangiati i frutti di divisione dell'albero di divisione della "conoscenza" del "vali di più e del vali di meno", del "bene e del male", perché nell'Eden dell'Eterno "tutto è bene", "tutto è buono", non ci possono essere frutti più buoni e frutti meno buoni… questo è il grande insegnamento; e l'insegnamento è: "non puoi uccidere", "non puoi disprezzare l'altro", rendendolo schiavo, uccidendolo, separandolo traumaticamente da te stesso. Se fai ciò, tu stesso morrai, perché l'altro da te ucciso, da te considerato debole e male e schiavo, non è altro che te stesso. E allora vivi, e dai vita eternamente vita. "Non puoi tenere schiavi e


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padroni di schiavi, perché essi come schiavitù istituzionalizzata, essi i padroni con i loro schiavi fedeli, sono la causa della divisione e dell'omicidio e di tutte le malattie e… della pazzia e mutismo di "Dio" (il che non sia mai). Non puoi tenere schiavi e Re proprietari di schiavi, e te lo insegna proprio la "norma cattiva". Apri bene il tuo cuore: distruggi ogni causa di giogo, ogni causa "soldato", ogni causa di prigione, di Stato, maledici in ogni momento, odia il faraone maligno, erode, caino, polifemo, Amalek, il Primato, odialo con tutto il tuo cuore mente, anima corpo e divinità. "Ascolta Israele: io sono l'Unico l'Uno e non mi posso contraddire (anche quando "sembra" che mi contraddica). Tu, se vuoi essere Uno, come io sono "essere completo", essere portatore di pace di Shalom, tu non puoi non maledire la schiavitù e le sue faraoniche cause, né puoi tenere schiavi, né per debiti, né per conquista, né per acquisto, né per trovamento, né per giuramento al divino e all'umano, né per disciplina, né per produzione o per consumo o per scienza o per tecnica o per scuola o per caserma. E non puoi farti schiavo con il classico matrimonio che è giuramento e acquisto reciproco di schiavitù, di acquisto di schiavi l'uno per l'altro… il marito si vende tutto o in parte schiavo alla moglie, ma ancora di più la moglie si vende schiava al marito. No! Tu sei nato libero. No! Tu sei sorto dalla lotta contro ogni forma di schiavitù. No! Tu non puoi credere nella schiavitù e nel contempo nell'amore e nella conoscenza di libertà. Spezza ogni catena (specie sul sesso e sui sentimenti e sulla scuola e sul lavoro e sul sacro), l'amore ti amerà; spezza il giogo posto su ogni forma soldato. (Chi più schiavo del soldato in "pace", ma soprattutto in guerra? Altro è il "cavaliere-guerrigliero"… altro è chi porta Excalibur… chi legge intenda, altro è la spada di Melkisedek e di Abraham uniti dall'eternità… chi legge intenda…). No! non puoi, non vuoi, non hai interesse ad avere schiavi, essi portano sul mondo e su di te la maledizione, specie su quanti ami, e fanno di me un mostro, un Dio impotente che è dalla parte dei potenti, e fanno di me una orrida pazzia, Medusa - generalizzata… La "Signoria Divinizzata", il vitello d'oro - faraone divinizzato, lo Stato e la sua coorte divinizzati, e te lo dimostro sia nella storia, sia con queste "norme cattive", albero di morte dell'Eden, che fanno di me, Dio, un pazzo e a maggior conto fanno di te un crudele schizofrenico sadico-masochista, ipocrita, sepolcro imbiancato, lupo travestito di agnello, un diviso a tua stessa insaputa; fanno di te una maledizione per tutti, un cancro per te e per l'umanità tutta, il che non sia mai. La Bibbia è un Nido per volare "Oltre" e per vederla come "Oltre". Non trasformare il nido in tomba, in Stato, in tomba faraonica culto della morte e della pietrificazione, medusa, culto dello Stato, culto del capo, del


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più forte, "Non dare un volto a Dio", Non crearti schiavi, né padroni, né in Terra né tanto meno in Cielo… Se fai questo morrai, cioè sarai causa di morte specie per coloro che dici di amare di più e che vorresti amare di più… Saresti causa di morte persino per il tuo "Dio" che tu dici di amare. Ascolta Israele la Torah, ascolta il tuo Dio senza volto di fissità, di Stato. Tu non incarnerai il faraone maligno per alcuno, anzi tu incarnerai Mosè, il liberatore, per tutti! … fai questo e vivrai. Vivi! vivi! Non morire! È vietato morire! Vivi, dai vita eterna felice vita. Tu potrai pure usare il culto del faraone per esaltare me, ma lo farai per distruggere il culto del faraone dentro di te, su di te. E tu potrai usare pure la schiavitù "sopra di me", ma solo per distruggere le cause della schiavitù che impediscono alla viva felicità di vivere. Tutto ciò è perché vi sia vaccino eterno contro la schiavitù dovunque e tu stesso sia vaccino eterno contro la schiavitù dovunque: spezza i gioghi (Isaia 58) "Dio non è un uomo da potersi ingannare, pentire, né è figlio di uomo da potersi smentire" (vaticinio di Balam Numeri 23-19). Ma tu vedi, e osserva bene: di fronte alla schiavitù io stesso mi contraddico manifestamente ("uomo avvisato è mezzo salvato"), figuriamoci te che sei schiavo del tuo super-io. Ma tutto ciò, "legge non buona", non è altro che scaramanzia, non è altro che una dimostrazione per assurdo secondo cui la schiavitù è la stessa morte; tutto ciò non è altro che la prescrizione del sintomo della malattia: da veleno, medicina, se preso "omeopaticamente", perché in me tutto è buono tutto è libertà tutto è bellezza tutto è gioia per l'eternità, perché tu possa essere tutto questo per l'eternità: "liberami e sarai liberato", distruggi la medusa, come Perseo, e troverai Pegaso la tua anima libera che non può essere ostacolata dovunque, e vola e vola come scarabeo di risurrezione di libertà. Tutto ciò è terra promessa da cui nasci e da cui fai nascere i tuoi figli, amici, amanti, creature tutte quanti. Non rimanere frustrato di fronte alle mie apparenti contraddizioni". No, io non mi contraddico e sulla mia strada c'è la uccisione di ogni contraddizione. Gioisci dunque con me, non avere paura di me. Io sono con te, sempre il patto dell'amore di libertà di conoscenza. La medusa che sono io, in realtà sono Pegaso, il cavallo alato bellissimo della libertà. Però uccidi la medusa che è in te che tu proietti in ogni dove pure in me, e allora vedrai che tutto è Pegaso e tu sei Perseo, il liberatore totale amato da tutti gli Dei di giustizia, amato da "Elohim". Se tu vuoi vivere e far vivere coloro che ami, guarda e leggi e ricerca, in Unità: anche l'inganno, l'enigma, nasconde una importante verità, altrimenti non sarebbe inganno o enigma. Vinci il male col bene. Poni il male al posto che gli compete, riconoscilo come tale, e lo stesso male ti benedirà e sarà


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immensamente bene per te e per tutti. Altrimenti ti negheresti in Unità e uccideresti la stessa ragione di essere della Legge, la sua Unità, la sua-tua uguaglianza, la sua-tua fedeltà, la sua-tua completezza-pace-giustizialibertà. Tutti i profeti, e il profeta, che soffre in te, chi più e chi meno, testimoniano la legge, la Parola che fa, "la legge del cielo che abbassa ciò che è alto e innalza ciò che è basso", che spezza ogni rapporto riccopovero-servo-padrone, vera causa di schiavitù. Non si può amare se non nella legge del cielo che "abbatte il tiranno e esalta l'umile". Già la stessa legge del taglione "occhio per occhio dente per dente" [non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te] nasconde l'aspetto positivo dell'ama il "prossimo tuo come te stesso", cioè nasconde da un lato un limite alla vendetta e dall'altro lato un dettato di riconoscenza: se ti è stato dato un occhio, anche tu, potendo, darai il "tuo occhio" al tuo benefattore che sta nel bisogno. Tu: difendi il debole con intelligenza con tutto te stesso, ma il debole difeso, e amato, non potrà non amarti e non benedirti. Certo uno non agisce per avere riconoscenza, ma la legge insegna di amare il benefattore, il prossimo come se stessi, e tu non potrai non accettare e non benedire il suo amore per te. Cioè, già la cosiddetta legge del taglione è unità e non contrasta con la legge dell'amore pure al nemico; l'amore al nemico consiste: nell'andare alla ricerca delle cause che producono l'inimicizia e nel distruggerle, in ciò consiste l'amore, la verità, la conoscenza al nemico. Ossia distruggi ogni forma di giogo ricco-poveroschiavo-padrone causa di inimicizia e allora potrai amare anche il nemico e il mondo intero ti amerà, perché tu sei il suo benefattore e solo in questo spirito opera "l'offrir l'altra guancia", come sta scritto nel proverbio biblico: "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; ha sete, dagli da bere, e avrai così creato carboni accesi sul suo capo e l'Eterno ti benedirà" (Prov. 25, 21). Cioè se non ti riconosce suo prossimo, suo benefattore, dopo che tu lo hai tanto aiutato, "abbilo come pubblicano e peccatore" (dal Vangelo), cioè allontanalo con "anatema" da te, perché la legge lo condanna; egli, che è ingrato, non merita il tuo amore d'intimità, merita la tua condanna: "non si buttano le perle ai porci", altro noto detto evangelico. L'offri l'altra guancia e l'amore al nemico non sono così semplicistici come i ricchi e i servi dei ricchi vorrebbero che fossero e così essi si sentirebbero giustificati nello loro empietà e anzi pretenderebbero per legge d'amore persino l'amore delle loro stesse vittime. Così la norma buona (altro che norma cattiva) si trasforma nella peggiore, ma ciò non sia: se il sale diventa insipido, non ha motivo di esistere più. Così si fa del sacro e dell'insegnamento dei giusti, un cappio al collo al piccolo aggiungendo gioghi a gioghi in nome dell'amore… Così si dà scandalo alle


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coscienze: "ma il seminatore di scandalo è bene prenderlo e buttarlo con una macina da mulino legata al collo, nel più profondo del mare" questo dice il "mite" Gesù e altro ancora. Guai a rendere il sacro e la sua logica schizofrenica e giustificatrice dello status quo di oppressione. La maledizione sia su tutti coloro che così pensano e operano e insegnano al più piccolo ad amare il proprio carnefice per far meglio accettare nel mondo l'impostura e l'inganno. Ma non sia mai… Dunque già la legge del taglione è unità e va applicata in tutta la sua dimensione: chi uccide, sarà ucciso [ma chi veramente è causa di assassinio? Ma dove si nasconde la causa che fa sì che si diventi assassini? Quella causa che uccide sia uccisa!]. Chi uccide potrà essere ucciso, perché se uno uccide, egli non fa altro che uccidere se stesso, perché l'altro è lui stesso. Ma se dai vita, e sei misericordioso, tu stesso riceverai vita e riceverai misericordia (perché lo stesso salvato da te, sei tu). "La generosità libera dalla morte" [Prov. 10,2], "Chiodo schiaccia chiodo" [proverbio italiano]. Ma tutto questo lo si faccia nel nome dell'universale di Unità di Uguaglianza che innalza ciò che è basso e abbassa ciò che è alto, che rende gli essere completi, Esseri shalom; ma tutto questo lo si faccia nella ricerca dovunque dell'"Unità Senza Volto", il cui volto sono i poveri oppressi, gli innocenti uccisi, sempre uccisi e mai risorti. Occorre allora leggere, meditare, vedere la Bibbia (e ogni cosa) in "Unità Senza Volto", col volto di coloro che non hanno volto: gli oppressi. "Rianimare i vinti della storia" (Walter Benjamin). Ora l'Eterno Adonai, non può essere in quella norma dell'Esodo 21, 20-21 così evidentemente e luminosamente assurda, "buco nero della luce"; l'Eterno può esserci in quella norma solo come avviso scaramantico della dissociazione in noi dell'Eterno, che produce l'accettazione della schiavitù e di qualsiasi forma di oppressione. Tutte le creature, persino la terra e le pietre sono dell'Eterno. L'uomo non può possedere alcunché (così non sarà posseduto da alcunché) né può sostituirsi all'Eterno. Il vero uomo dello Spirito non vuole possedere, né essere posseduto, né vuole che vi siano possidenti e posseduti a dividere. Tutto quello che sto dicendo ce lo dice la profezia, ce lo dice il profeta, parola, sensi, corpo di Dio: "il vero culto di Dio, la Unità, è liberare gli schiavi, spezzare ogni causa di catena, distruggere ogni istituzione di schiavitù, ogni anima e linguaggio di dipendenza. Solo così avrai l'Unità, la natura di figlio di Dio, avrai la conoscenza del "Nome", avrai l'Esodo, la pasqua di risurrezione di Mosè, la terra promessa ad Abraham e a tutta la sua discendenza. Abituati a spezzare le catene, così nessuna catena potrà essere posta al tuo amore. Libera e sii libero, sarai liberato e non stancarti mai: unisci ogni cosa all'Uno "Senza Volto", la cui


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immagine sono le creature libere e liberanti (Genesi 1-27). Dai onore alla Bibbia di Unità senza Stato di fissità, come dice Isaia e come dice Ezechiele 20, 25 e Geremia 7, 22 e come dicono tutti i profeti e ogni profeta, "parola di Dio", "luce di Dio", vista di Dio. La Bibbia ha in sé l'enigma di Unità (che potenzia ogni diversità di unione), contro qualsiasi interpretazione di lei stessa in odio all'Unità. Rendi sempre più la legge e la stessa lettera e storia della legge sempre più conformi allo Spirito di Unità della legge. Scopri in ogni dove l'intelligenza della Torah d'Unità Senza Volto, senza fissità: spezza ogni forma, ogni pensiero, ogni azione giogo, ogni respiro che non è conforme alla Unità. "Una sola legge avrete, uguali saranno il forestiero e l'indigeno" (Levitico 26-22) cioè in voi non vi sarà privilegiato alcuno, non vi saranno cittadini e stranieri, né cittadini di genere A e di genere B, né schiavi o padroni di schiavi ma vi saranno fra voi solo figli perché Io sono l'Uno "Senza Volto di fissità" e sempre sarò l'Uno Padre senza volto di Stato. Ascolta o Israele, il tuo Dio è Uno, "Ehad" (Deuteronomio 6,4) è unione di amore. Liberati dal rischio di vedere le cose sante come realtà schizofreniche, divise, che dividono, diventerai schizofrenico tu stesso. Guarda l'Unità di te stesso dovunque e sii anche tu padre di Unità per tutte le creature. Questo è il mio e tuo nome: Dai vita, sii creatore di libera vita: fai rifiorire l'albero secco (salmo). "Scopri nuovi sentieri, sii riparatore di brecce, restauratore di abitazioni per rendere felice e abitabile il paese", cioè il corpo, la materia, per rendere uno la Bibbia e tu con le creature, come io, Adonai, sono uno e creatore padre di esseri completi, di esseri shalom. Dunque, dal come mi cogli, tu cogli te stesso. Fai in modo di cogliere te stesso in Unità e non in schizofrenia. Ora e sempre stai attento nel non confondere la vittima e il carnefice, il giusto dall'ingiusto, il carnefice dal liberatore. Se avrai in te questa confusione non ci sarà paradiso o eden o iniziazione o yoga o perdono a salvarti… nessun potente Dio ti potrà salvare, perché lo invocherai sempre sadicamente e masochisticamente. E se mi contraddico così palesemente, dice Adonai, è perché tu non ti contraddica più, e che tu, amante della morte, amante della schiavitù, possa capire che non è possibile giustificare la schiavitù, la divisione tra innocenti, in ogni sua forma palese e occulta. Se amerai occultamente, anche a tua insaputa, la schiavitù, ogni luce sarà distrutta e renderai la luce più oscura delle tenebre. E creare confusione con la luce è peggiore di creare oscurità, è peggiore di chi, da sempre, è nato nell'oscurità. Tu sii fonte di luce e dai amore alla luce, ossia a te stesso; tu figlio di luce, tu padre e madre e amante e amico della luce, conoscenza-amore-libertà.


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Tu cibati di luce, di Unità, e sii fonte di luce eterna come io sono, Adonai "tribunale dei calpestati, pane degli affamati, liberazione degli incatenati"; io sono l'Eterno: "Per colui che è puro tutto diventa puro, per colui che è impuro tutto è puro". Io, libertà, sono libertà specie per chi non ha libertà ed è schiacciato da tutti. Sciogli i nodi: distruggi le cause della stregoneria e avrai veramente ucciso la "strega", cioè la schiavitù, l'ignoranza, il pregiudizio, la paura, la crudeltà, l'indifferenza, la rimozione, il " non ricordo". Ciò che avrai sciolto dalla terra, sulla terra, sarà sciolto in cielo, ciò che tu avrai legato sulla terra sarà legato in cielo (vangelo). In quello che avrai sciolto, tu sarai sciolto, in ciò che avrai legato, tu sarai legato, per l'eternità: allora viva l'unione d'amore lo yoga particolare e universale Amen (unione). Si spezzino e si maledicano ogni forma di possesso, ogni forma di catena, di dipendenza, di giuramento (vedasi vangelo), di spirito soldato, di paura e di amore alla paura e solo così l'amore ti amerà e tu sarai Amore vivo, cosciente Eros per l'eternità. Che l'eternità che ama ti ami e ti liberi eternamente. Rendi luminoso lo specchio del tuo occhio del tuo modo di vedere, della tua coscienza, o terzo occhio, sarai tutto nella luce e la luce ti amerà per sempre. Ed ora parti e non indugiare più. Non puoi amare se non maledici, con tutto te stesso, il dominio! Bologna 4 agosto 1999 Che significato avrà sullo Spirito e sulla materia questo modo di intendere, e questo modo di andare? Se e come e quando potrà avere un significato operativo? Come fare perché lo schiavo che è in noi, non si consideri più schiavo, ma spezzando le catene, diventi "figlio" e fonte di libertà? Come convincerci alla lotta della ricerca, altrimenti non ci sarà altro che morte e morte, anche quando crederemo di essere nella vita? Non si perdano di vista i frutti delle nostre azioni e si comprenda che la terra promessa (la si chiami pure Graal) altro non è che "la Sua Stessa Ricerca". Il "Graal" non appare essere altro che l'oltre dell'oltre della sua ricerca… Ma è un oltre che sempre si richiama al tempo dell'origine di sogno mitico di tutte le creature. Tempo del Sarà Messianico. Tutto ciò ci insegna di non avere barriere per il nuovo. Allora non si abbia posto dove potersi dire contenti di "riposare". Perché chi si fa della sua vittoria e sicurezza, del suo luogo di benessere, uno "Stato", si pietrifica


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inevitabilmente e fa perire inesorabilmente il suo Dio di Novità. Giammai si trasformi in Stato la propria forza e bellezza e il proprio luogo di bellezza, se lo si ha. Giammai ci si faccia Stato di fissità, si perirebbe nell'abbondanza, senza apprezzare l'abbondanza, il che è peggiore del morire nella scarsità. A maggior ragione non si faccia del proprio stato di dolore e di indigenza e di ignoranza, uno stato di rassegnazione, di dipendenza. Si lotti contro lo "stato" dovunque e si ami l'Esodo della Legge, la legge dell'Esodo, dovunque la si ami. In ciò sta il timore e l'obbedienza e l'amore dell'Eterno di cui parla la Bibbia: "il timore all'Eterno è odiare il male" (proverbio biblico 8,13). Chiunque si chiude al nuovo, allo "straniero", trasforma il nido in tomba, si impedisce il movimento del volo, si è perduti. Dovunque c'è dogmatizzazione, senza capacità critica e autocritica, senza capacità di nuova ricerca, si è perduti. "Chiunque vuole possedere o vuole, per amore di sicurezza, essere posseduto, è perduto. Chiunque vuole il culto al padrone, a ogni forma di primato, rende Stato la divinità della vita, fa morire ogni slancio bambino dell'anima, egli diventa strumento, schiavo di se stesso e degli altri, schiavo al culto della ricchezza in poche mani. Egli allora vivrà, odiando la vita, pensando di fare tutto il contrario… il che non sia mai. Allora ci si abitui a considerare l'eterno movimento come un eterno riposo di contemplazione e l'eterno riposo lo si percepisca come un eterno movimento aperto a ogni forma di nuovo, come fu insegnato a Abraham il benedetto: "parti Abraham, abbandona le cose di tuo padre, fuggi dal tuo parentado, lascia la terra dove sei nato e vai nella terra che ti mostrerò e lì ti benedirò e lì tu sarai fonte di benedizione e lì renderò il tuo nome senza confini e lì benedirò chi ti benedirà e maledirò chi ti maledirà e lì tu sarai una benedizione per tutti i popoli della terra e per tutte le creature dell'universo… e Abraham partì". Così è anche per noi con lui, Abraham per l'eternità, dall'eternità ci si risveglia all'esodo di verità. Finalmente dopo aver sciolto il nodo dei nodi posso, voglio, amo, è bello dirmi ebreo tra gli ebrei. Finalmente sono contento di vivere da ebreo con gli ebrei e con gli uomini tutti. Finalmente posso vivere, da ebreo e da uomo, l'oltre di me stesso e di ogni creatura, con ogni creatura e popolo; finalmente capisco il dettato dell'Eterno: io l'Eterno "vengo per unire, tutti i popoli di tutte le lingue e anche da loro da sempre prendo e prenderò sacerdoti e leviti" (Isaia 66) cioè "io, l'Eterno, vengo per unire Israele a tutti i popoli del mondo e vengo a unire tutti i popoli del mondo a Israele perché vi sono i leviti e i sacerdoti anche in tutti gli altri popoli, perché vi sia un solo ovile e un solo unico essere: tutti per uno, ognuno per tutti nella legge infinita del cielo".


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"Aprimi la porta della Giustizia (della verità, della verità) io vi entrerò" (salmo 118-19). Così cantavano I Khassidim mentre li condicevano alle camere a gas. "TU SEI EBREO PER IL DYBBUK" cioè "per le anime nostre che sono entrate in te". "TU APPARTIENI AL NOSTRO POPOLO"! Una moltitudine nostra è entrata dentro di te: tu hai raccolto in te, come un vaso, il sangue del cuore del nostro popolo". "Apriteci le porte, o Amici di Gerusalemme, Noi in Voi entreremo" (salmo 118-19 o Dibbuk dell'Eterno e salmo 8). "Sì, in virtù del Sangue Innocente, voi mi avete eletto, "tu" mi hai eletto Maestro in Israele! in virtù del dybbuk. Questo ora io so. In virtù delle anime degli innocenti ebrei che sono entrate in me, "tu" mi hai eletto ebreo. Sì, "Tu" sangue innocente mi hai dato il nome "Treblinka" fin da fanciullo. Sì, "tu" hai eletto me, il nulla del nulla, un "senza valore", un essere vano come sono a maestro in Israele". Io non ho nessun merito, voi mi avete chiamato e mi avete dato la forza e la coscienza per realizzare e per capire questo; voi siete il mio popolo, I miei maestri, I miei benefattori; voi siete il mio prossimo che non posso non amare con tutto me stesso. La mia scartata vita è la storia di una iniziazione; rendere vive davanti a tutti, specie ai poveri e ai fanciulli, ma anche davanti ai più dotti, renderle vive, le parole dei profeti e della Bibbia. Farle risorgere in tutta la loro armonia, bellezza e sofferenza davanti a tutti, rendere la vita più feconda con loro. Sono un "cavaliere della parola, Senza Nome"… Altro non so… Sì, "tu" mi hai eletto maestro in Israele". Il mio corpo è pieno delle voci degli innocenti di Israele… P.S. La Bibbia mi appare storicamente essere fatta come una mandorla. Occorre rompere la sua dura scorza per potere gustare il suo frutto nascosto. La Bibbia mi appare come un labirinto, come un rompi capo, come il labirinto dell'Isola di Creta dove al suo centro si era nascosta la malvagità impersonificata dal minotauro; occorreva "Teseo", aiutato dal filo d'arianna, per potere liberare il labirinto della coscienza e trasformarlo in giardino bellissimo e protettivo.


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La Bibbia mi appare essere come una miniera d'oro, il cui filone a volte risplende purissimo in superficie e a volte è celato in profondità, coperto da spessi strati di dura roccia e mescolato a cose senza valore. La Bibbia mi appare essere come la Medusa, del mito greco, il cui sguardo diretto pietrifica, ma, con l'aiuto di Perseo, una volta mozzatale la testa, come fece Perseo, sorge dal suo stesso corpo mostruoso e mutilato la meravigliosa creatura di libertà senza confini, sorge Pegaso, Cavallo Alato; sorge la nostra stessa anima di libertà, la quale può finalmente volare nell'oltre e portarci là dove non pensavamo più di andare… Altre volte la Bibbia mi appare nella storia come un enigma di mostruosità, come una creatura nata da due bambini strettamente incatenati l'uno all'altro. Uno dei bambini è morto mentre l'altro è bellissimo è vivo, ma resta eternamente crocifisso al cadavere dell'altro bambino. Se i due bambini fossero morti, entrambi, sarebbe la visione meno mostruosa. E sembra che a livello inconscio per la maggior parte della gente, specie per quella più devota, vi sia palesemente operante questa mostruosa visione, mentre a livello conscio apparirebbe, si vedrebbe, tutto il contrario. Da qui nascerebbe il tremendo odio inconscio che molta gente ha per gli ebrei e che gli stessi ebrei avrebbero contro se stessi, anche se mascherato da ammirazione e rispetto. L'inconscio li accuserebbe di essere i creatori di quella visione con tutto ciò che se ne può dedurre in terribili conseguenze. Questa ipotesi la divulga, e me la suggerisce, Freud in Mosè e il monoteismo, dove Freud cercò di spiegare il risentimento che il mondo influenzato dal cristianesimo storicamente istituzionalizzatosi, ha sempre, di fatto, avuto contro gli ebrei. Secondo Freud, dal come sono state, con la forza e con l'astuzia, le popolazioni convertite al cristianesimo, esse hanno celato dentro di sé un profondo risentimento contro se stesse e contro gli ebrei perché, volenti o nolenti, dagli ebrei si è spirato lo storico cristianesimo dei cristiani. I popoli cristiani avrebbero subito un inimmaginabile trauma dovuto alle loro conversioni imposte e forzate durante i secoli; di qui, dal loro inconscio sarebbero mossi, specie i più agguerriti cristiani, da un grande desiderio alla trasgressione e di distruzione contro tutto ciò che sa di cristianesimo, ossia di ebraismo in quanto radice del cristianesimo stesso, così forzatamente e paurosamente, nel passato e nel presente e "nel futuro", vissuto… La visione così inculcataci sarebbe terribile: un bambino vivo bellissimo e pieno di vita è legato al cadavere in decomposizione di un altro bambino ucciso, per cui il bambino vivo è terrorizzato e soffre immensamente e sta per impazzire. Così l'uomo cosiddetto civilizzato o "cristianizzato" a livello inconscio vivrebbe un odio abissale inconfessato verso se stesso e per la stessa natura


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e per la cultura Indios così radicata alla natura. Infatti anche la natura gli appare avere due facce in uno stesso viso, ora bellissima, ora bruttissima e piena di infermità e di crudeltà e di morte e di indifferenza e di divisioni: la una specie contro le altre: tipo "pesce grosso mangia pesce piccolo". Come combattere la stessa medusa che si cela dentro nel più intimo di noi? Come scoprirla e vomitarla fuori di noi e trasformarla in Pegaso? È possibile tutto ciò? Come trovare in ogni dove l'unità perduta e liberare così il pensiero e la natura dall'aspetto di morte e di terrore che sembra inscindibilmente legato in noi con quello di bellezza e di armonia? Possa il Perseo, nascosto in noi, possa uccidere la medusa, nascosta in ogni dove, e tagliarle la testa. E dopo di che, possa, il segreto della medusa cioè la sua anima, essere svelata e possa correre libera, donando libertà infinita a ogni liberatore, o ricercatore instancabile di verità. Oggi il sistema imperiale canta vittoria dovunque. Finalmente non esiste più alcun ostacolo al suo operare. Finalmente ogni organizzazione di lavoratori che gli precludeva il cammino, è stata storicamente definitivamente debellata. Premio ai vittoriosi di sempre; la legge del "pesce grosso, il migliore, impone la sua volontà al pesce piccolo" è cantata dovunque, è eseguita con criterio dovunque: il capitale e il fascismo hanno vinto in tutto, hanno eserciti di servi adoranti. Ogni parte del mondo e delle creature è diventata "provincia" dell'Impero, ogni reale oppositore è ormai diventato radicalmente "Nessuno", "Senza Volto, Né Nome, Né Parola", "un mai esistito che mai esisterà". Solo l'Impero Esiste; chi capisce questo è vivo, altrimenti è più morto dei morti. Non c'è più spazio solare o lunare che non sia controllato dall'Impero. Tutto è ormai una statualizzazione totale mascherata da libertà totale. Lo stesso popolo di Israele subisce una assimilazione costante tramite il culto al "primato" che si canta e si visualizza dovunque. Israele ha superato tante persecuzioni, ma ora non supererà l'ultima: "la sua assimilazione come 'primo della classe' al servizio dell'Impero". Così gioisce e pensa il Sistema. Ora il suo frutto è finalmente maturo. Israele diviene un primo della classe nel dominio scientifico Tecnico Imperiale. L'impero premia Israele con uno Stato sempre più forte. Lo premia perché Israele ha saputo sopravvivere contro l'Impero (per darsi poi all'impero?). Lo premia perché ha saputo accettare intelligentemente un ruolo di potere nel mondo imperiale e lo sta volgendo sempre più bene… Alla tentazione del potere nessuno resiste… solo gli stupidi e i malati osano non venire a patti col potere… Ma come può l'Impero, che ha sempre tentato di distruggere quel popolo, divenire protettore di quel popolo? "Ora ci troviamo veramente alla fine


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dei tempi; tutto è stato assimilato e sta per essere defecato dall'Impero. Ogni creatura crede di vivere, ma in realtà sconta inevitabilmente, direbbe Nostradamus, la fine del mondo. Forse, senza forse, siamo già morti, già resi servo meccanismi e crediamo di essere tutto il contrario. In tal modo non c'è più una via di salvezza… ed è questa la fine del mondo tanto profetizzata?! Ora, e non poteva non essere così, le divisioni razziali, di casta, di religione, di censo, hanno vinto su tutti i fronti. Erode ha vinto. Il denaro canta vittoria su tutto… e recupera dal passato, quando gli conviene, ogni inimmaginabile bruttura padronale e servile; e Hitler e soci cantano le loro canzoni in ogni luogo. Essi hanno vinto, onore ai vincitori! Il Guatemala e il Messico ce lo stanno a indicare, l'Argentina pure, il Cile pure, il San Salvador pure, l'Africa pure, l'Europa e la Russia pure, l'Asia e le sue crisi pure… Tutto il sangue dei popoli ora è stato sparso invano da qui all'eternità; sta "chiuso" in una "cassa di zinco" ed è sotterrato per l'eternità… e chi vorrà continuare così a lottare e vorrà così insegnare a lottare anche lui nella cassa di zinco avrà la stessa sorte in eterno (da Bertolt Brecht, La cassa di zinco), lui lo stupido sovversivo, testa calda delinquente…Tutti ora piegano, chi più, chi meno, le ginocchia all'Impero. Restano degli insignificanti focolai di resistenza tra gli Indios Maya che non accettano di diventare semplici "zingari", accattoni o semplici braccianti. Ma anche per loro è venuto il momento decisivo della fine. L'Impero ha pazientato troppo: ora basta! L'operazione "crociata contro i Catari", sterminio di tutti gli Indios, di chi ha l'anima fanciullo Indios, è scattata; Dio e il mondo civile, come sempre, benedicono l'Impero. L'unità è ripristinata per sempre dovunque. Il "Cristo", la sua croce e la sua spada, ha trionfato definitivamente sull'impero del diavolo e sulle sue streghe, animiste Indios: finalmente il regno di Dio è stabile sulla terra e noi con lui. Non vi sarà più movimento rivoluzionario in eterno! Noi abbiamo ristabilito l'ordine; al di fuori della legge dell'impero c'è solo il caos e la barbarie. Viva i ricchi! Essi sono i primi e come tali sono i più meritevoli di aiuto, a loro il comando, la lode, la gloria e il regno nei secoli dei secoli così sia. Chi va contro il loro ordine è invidioso, e pieno di risentimento e attenta all'ordine giusto delle cose; e, come delinquente della peggior specie, va trattato. Tutte le lotte contro l'Impero sono state vane e l'Impero ve lo dimostra ora definitivamente. E allora non c'è più niente da fare: non esiste creatura sulla terra che voglia essere libera e liberata… sulla terra non c'è più possibilità di vita. E allora dove andrà la restante vita se non nel sogno delle anime fanciullo Indios? "Y aposentada en los sueños, sigo y sigo viviendo, porqué en los sueños es


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el unico lugar en donde realmente existimos" (Rigoberta Menchu, La nieta del los Mayas, p. 338). Chi ama ancora la luna, la regina dei sogni e del ricordo incontaminato e del desiderio di libertà infinita? Che cosa ci rimane se non il sogno e la sua iniziazione nel mondo del segreto innocente? La sua piccola porta è socchiusa e ci aspetta ancora. Non indugiamo su cose vane, non possiamo portare cose con noi. Dunque si salga l'arca alata del sogno; occhi ben aperti: si parte! Esodo! Esodo! Esodo!… si parte: Pegaso è la nostra arca di salvezza di libertà: tutto è compiuto! L'insegnamento del mito dell'"oro del reno" è fondamentale non lo dimentichiamo: "per scegliere la strada dell'amore occorre maledire il dominio dovunque". "Tutto l'opposto è quando si sceglie la strada del dominio" (vedasi Luca 16,12). "Splendete rossi nel cielo sfrecciate per le stelle infinite e che la vostra fiamma Rossa non si spenga mai!" ("Ai fulmini", di Myrice Tansini, scritta a 7 anni) "Hai combattuto bene contro gli uomini e contro Dio (che erano separati e li hai uniti) di qui la tua benedizione sorge e hai vinto", "il tuo nome non è più Giacobbe ma Israele" (cioè colei - nome Israele femminile - che lotta contro Dio e lo vince) (da Genesi, 32,24). Che questo nome canti potentemente in noi come nome di libertà contro ogni forma di primato umano e "divino". "Noi vogliamo vivere non vogliamo vuoti nelle nostre file il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore vogliamo fare qualcosa è vietato morire!" [Eva Pikova, uccisa a 13 anni perché ebrea] Abbiamo voluto giustizia per il Cristo Cristo ci amerà Amiamo Abraham-Mosè-Israele con tutte le nostre forze. I semiti, con tutto se stessi, ci ameranno. non può non essere che così. Pure alle "streghe" demonizzate in odio al femminile, abbiamo reso luce d'amore luce di Giustizia. Esse, perdutamente, ci ameranno. [da Animismo o Barbarie, 1983]


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"Ed ecco venire sulla nuvola del cielo uno simile a un figlio di uomo e si avvicina all'antico dei tempi, e ne prende potere, gloria, regno… il suo potere è un potere eterno che non passerà e il suo regno è regno che non potrà essere distrutto". [Daniele 7,13-14] "Metto la mia parola sulla tua bocca e ti proteggo sotto l'ombra delle mie mani per stabilire i cieli e fondare la terra, dice l'Eterno". [Isaia 51,16] "La Legge" non buona "della Torah, nel complesso della Torah", è la legge più buona della Torah. Si sciolga l'enigma. Onore all'anima del popolo ebraico: i profeti, il profetismo, il "messia"… e il suo comportamento cuore di tutti i popoli. "Quando si spogli il giudaesimo dei profeti da ogni aggiunta successiva, in particolare il clero (giusto l'insegnamento di Cristo), ciò che rimane è una dottrina capace di curare tutte le malattie sociali dell'umanità. È dovere di ogni uomo di buona volontà, nella misura in cui gli è concesso, rendere viva codesta dottrina di pura umanità. Che egli compia ciò senza lasciarsi intimorire e opprimere dai suoi contemporanei e potrà considerarsi felice lui e la comunità a cui appartiene". [Albert Einstein, dal suo diario La mia vita] "Il vero culto a Dio è spezzare il giogo posto sul collo dell'oppresso, dare libertà agli schiavi, … allora chiamerai e l'Eterno risponderà: Eccomi!. … Allora la tua ferità guarirà… e tu sarai chiamato 'Guaritore', 'liberatore', riparatore di brecce, scopritore di sentieri per rendere abitabile e felice il paese…". [Isaia 58] "Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell'avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in Unità ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore di casualità. 'Redimere' coloro che sono passati e trasformare il fu di ogni cosa in 'un volli che fosse' [in Unità]. Solo questo può essere per me redenzione [può essere per me risurrezione!]". F. Nietzsche: anche questo grande poeta è un "enigma", ma, se lo si scopre nella sua unità, si scorgerà in lui un messaggero di alta messianicità, e non un imperialista e antifemminista come alcuni da destra e da sinistra amano presentarlo (vedasi il mio lavoro Stato e Messia, Pendragon, Bologna, 1995). "Preparate la lotta! Fate sorgere i prodi! Riunite i generosi! Si uniscano, si muovano tutti gli uomini che sanno lottare, che sanno utilizzare la spada! Fabbricate spade con i vostri vomeri,


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e le vostre falci convertitele in lance! Dica il debole: Io sono forte! [...] Chi ha sparso sangue innocente non resterà impunito" [Gioele 4,9-10; 4,21]

Guerra alle guerre! ----Luciano Tansini è nato a Bologna nel 1937. Assistente di Politica Economica e professore incaricato di Economia Istituzionale presso l'Università degli Studi della sua città natale, ha tenuto corsi di insegnamento anche presso l'Università somala di Mogadiscio, e l'Università de Los Andes, Merida, Venezuela. In numerosi viaggi (Africa, India, America Latina), ha ricercato la cultura animista e profetica dei miti, e dei riti. Per le sue particolari opinioni in tema di filosofia economica, è stato man mano emarginato dagli ambienti della didattica e della ricerca istituzionali. Oggi si muove sempre più solitario, al di fuori di ogni istituzione e organizzazione sociale e culturale. Teso verso le radici della memoria e del divenire, la sua Università è la "strada". Le sue armi vogliono essere semplici gesti, richiami, parole, verso chi non può manifestare "parola", per liberare il linguaggio e il sacro, ovvero la coscienza, dal monopolio di chi ne ha fatto proprietà assoluta, dalle classi dominanti che, quando hanno interesse, si impossessano dei processi di liberazione per bloccarli e distruggerli, gestendoli in prima persona perché nulla cambi. Tra le sue opere più significative: Aspetti del problema politico-economico del valore (1968); Rapporto tra etica dei profeti e sviluppo e sottosviluppo - Tempo e Valore: problemi di logica dialettica (1970); Controquestascienza (1976, pubblicato con lo pseudonimo "chinonhanome"); Animismo o Barbarie - verso il profetismo: Animismo-Nomade-Comunista (1983, pubblicato con lo pseudonimo "Oudeis Recab"); Profetismo e Chiesa Imperiale (1990); Stato o Messia (1995); Ascolta Israele (1997).


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VERO O AUTENTICO? In questo numero di EPISTEME appare, a firma del Prof. Bartocci, una positiva recensione de LA BIBBIA SENZA SEGRETI di Flavio Barbiero (Rusconi, Milano, 1988); opera di singolarmente difficile reperimento ma che, con una certa fortuna, sono riuscito a procurarmi mentre, per chi non avesse le mie stesse chances, l'articolo di Bartocci è tanto analitico da riuscire a rendere, egualmente e molto bene, contenuti e senso dell'opera: questa mia nota non sarà pertanto una seconda recensione ma si limiterà ad esaminare il metodo col quale l'Autore affronta la lettura e l'interpretazione del Pentateuco. È noto l'approccio che, dal XVIII sec., gli "spiriti forti" hanno con il testo biblico; occasione spesso di derisione per le apparenti incongruenze narrative o le impossibilità fisiche, che risaltano ove sola s'impieghi un'ottica ignara dell'effettiva natura e delle specifiche caratteristiche di un epifenomeno del sacro qual è appunto il genere, assolutamente non letterario, d'appartenenza. Il Barbiero, ancorché l'atteggiamento di fondo sia prossimo a questi noti, storici precedenti, non cade in tali abusate soluzioni ma egli, non so quanto poi davvero conscio della scelta, percorre due strade, le quali avrebbero illustri antefatti esegetici: la prima è quella di affrontare l'interpretazione senza uscire dalla narrazione, facendo in modo che il testo trovi in se stesso le soluzioni ai problemi posti dal racconto all'attento lettore, 1 la seconda è invece quella del letteralismo teologico che assevera, sin nei particolari di essi, l'autenticità degli eventi trattati. 2 Nel caso del Nostro, non c'è però, ad elaborare i principi di questa composita esegesi, alcuna ermeneutica tradizionale:3 lo studio in argomento, affrontando brutalmente, alla lettera, alcuni libri della Bibbia,4 non volge volterrianamente in ridicolo alcunché ma, prendendo tutto terribilmente sul serio, con un abile collage ed una serie di rimandi incrociati, ricostruisce un racconto altro da quello, a suo parere disaggregato, della versione nota. Il montaggio che ne risulta è, come in un film dove quest'indispensabile operazione sia condotta da un buon regista, di notevole coerenza narrativa ed è attraverso questo disvelarsi che dovrebbe apparire il "segreto" nascosto dalle vesti mitiche della narrazione. Inutile dire come dominino la scena trucchi ed imbrogli, i quali spaziano dal repertorio del prestigiatore a quello dell'arruffapopoli di genio; il personaggio, destinato a fare le spese di quest'operazione "ricostruttiva" è soprattutto Mosè, la cui figura si erge infine quale quella di uno dei grandi criminali della storia, capace di forgiare, con assoluta


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mancanza di scrupoli e per pura sete di potere, da un ammasso di sciocchi ignorantissimi e creduloni un popolo temibile. Confesso di non avere alcun interesse per questo tipo d'avvicinamento ai problemi d'ordine tradizionale ma che, avendo constatata l'enormità della deriva da un percorso di corretto intendimento di tutte queste tematiche e riscontrandone, al fondo, la prima responsabilità nell'insistenza su quel letteralismo teologico al quale facevo cenno più sopra, penso non sia superfluo affrontare e cercare di chiarire il non facile problema posto dal rapporto tra verità ed autenticità.5 È nota la classificazione medievale dei sensi reperibili nelle scritture;6 di fatto, la struttura di questo tipo di testi ci mette di fronte ad un'ampia molteplicità di significati la cui individuazione non è semplice, non disponendosi questa secondo una stratificazione di tipo geologico ma intersecandosi secondo modalità non lineari. Avviene pertanto che, l'autentico fatto storico, in particolare quello attinente la storia sacra, traduca, a suo modo, verità d'ordine superiore: esso sarebbe, per così dire, proprio in virtù della legge di corrispondenza tra gli stati dell'essere, la proiezione di eventi che si verificano in cœlo. Inoltre, per l'ordinamento esistente negli stessi stati tra loro; la storia sacra, nella sua formulazione orale o scritturale che sia, viene in primis a rispecchiare quanto attiene alla dimensione mitica dell'episodio ed è per questo che, in epoca pre-moderna, poco ci si preoccupava d'indagare sull'aspetto concreto di quanto narrato anche perché, il giusto apprezzamento della relazione tra i due livelli del reale, avrebbe comportato l'accesso a strumenti intellettuali e conoscenze dottrinarie allora riservate all'élite. È quindi per questo che, l'attuale, peculiare accezione secondo la quale è intesa la storia, si definisce ed assume la sua massima importanza soltanto dal sec. XIX in avanti, fino a poi svolgere un ruolo centrale con l'idealismo. Le riserve del passato, trovavano una loro giustificazione sociologica nella consapevolezza che, mettere alla portata di tutti le eventuali differenze tra i due piani evenemenziali avrebbe procurato la sicura incomprensione delle masse 7 come, in effetti, ha poi suscitato la divulgazione degli esiti della critica storica, intrinsecamente desacralizzante - ma, ribadisco, non sempre, necessariamente, autentica nei risultati - quand'è stata applicata alla lettera dei testi sacri. Paradossalmente, la falsariga, sottesa a questi metodi è nient'altro che il risultato della secolarizzazione del suddetto, chiuso atteggiamento teologico, prevalente in ambito ecclesiale dopo il Concilio tridentino: dalla deprimente riduzione a devozionali infantilismi, siamo ora arrivati ad una totale spoliazione, che lascia le Scritture prive di ogni spessore e ne


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stravolge, ove esistente, la stessa effettiva corrispondenza ai fatti ed il Barbiero, nel suo lavoro, porta alle estreme conseguenze tutti questi comportamenti. Quindi, mentre è dalle stesse Scritture che, nei mondi ebraico e cristiano, dovremmo giungere alla conoscenza dei principi d'ordine universale che sottendono il reale, 8 attraverso i metodi messi in atto dal Barbiero, si procede esattamente all'inverso, con risultati di specializzazione investigativa e d'angustia cronachistica, tali da stravolgere oltremisura non solo il concetto originario di storia ma anche la sua precitata e già molto limitata accezione contemporanea. Nel suo valore originario, ιστορια nasce dalla stessa √ƒιδ, che ha poi prodotto ιδειν ed il lt. video ma è questo un tema comune a tutte le lingue indoeuropee, ritrovandosi nel skr. veda (i quattro VEDA sono le scritture di quella tradizione) e nel td. wissen, tutti correlati al concetto di conoscenza. Pertanto le "storie", i racconti della Bibbia 9 sono, media che veicolano la dottrina tradizionale fino ad includere le realtà trascendenti il piano sensibile; il loro aspetto letterale (formale) può, qualche volta, narrare anche fatti autenticamente accaduti ma essi possono intersecarsi con eventi, i quali, pur sempre storici, sono però di portata più ampia, sia nel senso cronologico, sia in quello della geografia; tale portata viene spesso in luce soltanto con l'adozione di un'ottica evemeristica ovvero effettuando, nella lettura, un ribaltamento del punto di vista. Ha mai pensato il Barbiero che è possibile riscontrare un <<singolare parallelismo tra il primo Sumera 10>>11 … <<appellativo attribuito ai primi imperatori del Giappone>>12 …. <<Jimmu Tenno di stirpe solare - il quale, dopo aver guidato il suo popolo in una lunga trasmigrazione, morì a 127 anni e fu sepolto nei dintorni del Mt. Unebi (NIHONGI, III. 35; il suo corpo non è mai stato trovato) - e la figura di Mosè, trasportato da bimbo in una cesta come un Sole neonato e, dopo le note vicende, morto a 120 anni e sepolto nell'area del Mt. Nebo, dove il suo corpo non è mai stato trovato (Dt. 34. 17)>>13? Come la concezione del tempo può essere altra, anche lo spazio ermeneutico, s'articola in modi percepibili soltanto ad una visione interiore; tra essi, esemplifico con uno dei più facilmente intuibili: l'"esodo" sarà allora per l'anima il passaggio che la condurrà dalla schiavitù dell'"esilio in Egitto" ovvero dalla gnostica prigione cosmica, sino al riscatto rappresentato dal suo ritorno alla patria celeste o "terra promessa". È questo il senso primo, la verità per la quale sono stati redatti tutti questi scritti, compresi anche gli innumerevoli ed analoghi esistenti fuori dalle tre tradizioni abraminiche; tutte opere di teurgia volutamente composte elaborando sì alcuni elementi autentici di base ma


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spesso - e già lo ho accennato con il richiamo ad Evemero - il fatto si nasconde anche in un evento dalle apparenze esclusivamente mitiche. Prendendo pertanto tutto, pedissequamente, alla lettera; quasi fosse una cronaca dei nostri quotidiani, si ricava una narrazione la cui apparente, fattuale coerenza è costruita, letteralmente, in cœlo; il che, per il Nostro, dovrebbe essere veramente il colmo. Tante storie e brani biblici hanno poi, in virtù del νοµος, che regge le scienze tradizionali, una funzione di descrizione e classificazione delle tipologie dell'esperienza secondo l'accezione delle aristoteliche "Περι τα ζωα ιστοριαι". Accezione, per la quale, ancor oggi, si può parlare di <<storia naturale>> ovvero di una scienza eminentemente descrittiva, la quale, è noto, non molto concede alle divagazioni della fantasia o delle umane cronache. Non si tratta quindi di abolire le apparentiæ reales ma superarne il velo; starà quindi nel grado di trasparenza così ottenuto, la possibilità di penetrare la molteplicità di significati. Molteplicità, che non si estende soltanto dal piano del mondo sensibile a quelli d'ordine superiore ma anche, rimanendo all'interno del primo, bisogna tenere conto di come le virtualità del narrato non siano, in alcun modo, univoche. Qualsiasi avvenimento può risvegliare le nostre superiori e latenti facoltà d'intuizione intellettuale: il nostro compito di uomini, nella visione tradizionale è, infatti, quello di prendere a supporto di meditazione gli eventi narrati dalla storia sacra per vedere oltre essi e, parimenti, oltre i fatti della nostra vita individuale proprio perché la luce può scaturire ovunque. Per arrivare al punto cui è giunto il Barbiero, è stato necessario che, prima, a livello teologico, con la storicizzazione dei fondamenti della fede, si siano portate alle estreme conseguenze alcune possibilità insite nel concetto d'unione ipostatica e questo fino a quando, gli eventi evangelici si sono trasformati in meri fatti storici, cosicché fosse la stessa affermazione d'autenticità a decretarne la verità. Sono state queste le fondamenta sulle quali è potuta sorgere la moderna coscienza storica come è da qui che si giunge, in ambiente rimasto cattolico, ad una visione fortemente sociologica della stessa fede ed ancor più della missione della Chiesa nel mondo.14 NOTE 1

Siamo qui in un ambito di lettura ebraico e, per comprendere quanto voglio dire, è necessario fare alcune premesse: la Thorah (lett. insegnamento; è il Pentateuco) è chiamata anche "T. scritta" per distinguerla da quella "orale". La seconda è però solo un modo d'interpretare la prima; i seguaci quindi della "T. orale" possono farlo


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Con il testo a fronte, secondo uno stile chiamato "alla maniera di Mosè" e ne traggono la Haggadah ovvero ciò che "si deve essere". Questa variante è costituita dai Midrashim, che sono insegnamenti parabolistici, più intesi ad orientare l'atteggiamento interiore che interessati alla precettistica in sé.

Oppure Senza il testo a fronte, svolgendosi gran parte del lavoro sulla precettistica (Mizvoh). I risultati sono raccolti nella Mishnah la cui esegesi autorevole è la Ghemara. Questa corrente è più tarda, sorgendo con Esdra, al ritorno dalla cattività babilonese. Da tutto questo, se ne trae, nella sua analitica minuzia, la Halachah ovvero "come si cammina" ed i suoi testi riassuntivi (Ghemara + Mishnah + Midrashim) sono i due Talmud (di Babilonia e di Gerusalemme). Ci sono infine i fedeli tout court della "T. scritta" e sono i Samaritani ed i Caraiti mentre, per il passato, apparteneva ad essi il "gruppo" di Qumrân. Per questi ultimi tre, le possibilità interpretative debbono essere tratte dal testo stesso, in breve, essi non accettano quell'estensione della precettistica, implicita nelle metodologie degli "oralisti". È per questa vaga rassomiglianza formale che ho azzardato una qualche analogia con il modus agendi messo in atto da Barbiero: cfr. infra n. 3. •

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Suppongo sia anche per la formazione dell'Autore che qui appaia abbastanza evidente il riflesso dell'influsso catechistico cattolico; sempre teso, nella sua didattica, a sottolineare, estendendolo oltremisura, il concetto che la rivelazione di Dio fosse stata pienamente storica; avvenuta cioè in questo tempo ed in questo spazio, sicché tali modalità si siano poi, puntualmente, concretizzate nei fatti che sono da considerare la struttura portante delle Scritture. 3

È caratteristico però, a riprova di quanto i modi nei quali trovano applicazione le dottrine tradizionali, talmente corrispondano ad archetipi radicati nel più intimo della costituzione dell'uomo, che, anche chi se ne voglia totalmente distaccare, finisce per agire secondo quegli schemi. Sul piano della prassi, la differenza tra esegesi e ermeneutica è approssimativamente questa: la prima esamina la lettera del testo secondo le regole della lingua e secondo tutti i possibili i riferimenti storici e giuridici, la seconda dovrebbe essere in grado di ricondurre ogni "storia" alla sua verità metastorica indipendentemente dall'autenticità del fatto; anzi, quest'ultima non è per niente necessaria. 4

Gn., Es., Lv., Nm., Dt., Gs., Gdc., 1Sam., 2Sam., Rt., 1Re, 2Re, 1Cr., 2Cr., Esd., Ne., Ger., Sal., ed in un caso anche il NT. con Mt. 5

Nella fattispecie: • Appartiene alla verità quel dominio concettuale, eterno e necessario (per un cristiano s'identifica col Verbo divino), cui si perviene per intuizione intellettuale ed attraverso l'intrinseca coerenza dei procedimenti ermeneutici applicati agli eventi narrati ed ai brani che compongono il testo sacro. • L'autenticità è la rispondenza degli eventi narrati con fatti storici concretamente verificatisi.


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Il reale, anche se su piani diversi, comprende entrambe le categorie ed esse hanno molteplici gradi, e interpretativi, e applicativi: la loro non è un'opposizione ma un rapporto. 6

La tecnica dei quattro sensi era riassunta dalla formula: <<littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quid speres anagogia>>. Pur con i suoi limiti, caratteristici della visione exoterica (il simbolismo trascende radicalmente l'allegoria) e con i risultati a volte oziosi di un certo procedere, la complessità del problema era all'epoca perfettamente percepita. 7

Ho qui in mente, in maniera particolare, le differenze assolutamente rilevanti tra l'autentica storia delle origini cristiane - sempre celate da barriere pressoché insuperabili - e le verità teologico-mitiche della costruzione teurgica paolina, la cui importanza pel sorgere della civiltà occidentale è fondamentale. Il quadro che va oggi delineandosi, in specie dopo la scoperta del Qumrân, era, a mio parere, già noto all'interno di gruppi ristretti della Cristianità medievale ed è stato forse questo uno dei motivi pei quali, in quest'ambito di civiltà, i contrasti anche sanguinosi che sempre sono esistiti tra esoterismo e exoterismo non trovano, a livello mondiale, per l'intensità che li ha contraddistinti, rispondenza in nessun altro analogo contesto. Per l'analisi di tali tematiche vd. i ns. EFFICERE DEOS e DE VERBO MYRIFICO. 8

Nell'Ebraismo, l'aspetto più profondo della conoscenza, si sviluppa nella Cabala, i cui indirizzi potrebbero essere, sommariamente, polarizzati nei momenti teosofico e teurgico. È volto il primo a sviluppare gli aspetti riguardanti gli stati superiori dell'essere e ad estrapolarne, delineandola, la complessa struttura del cosmo nonché ad esporre il rapporto di questo col Divino. Il secondo prevede un insieme di attività rituali destinate ad agire su questi stessi stati nonché a influenzarne e determinarne la relazione con il mondo dell'uomo come - ad es. - è avvenuto nel caso della "costruzione" paolina citata alla nota precedente. Tali pratiche, compreso l'uso della lingua ebraica (unica lingua sacra ovvero lingua della Rivelazione anche per i Cristiani), non erano estranee all'esoterismo cristiano ma lo sviluppo di quest'argomento porterebbe troppo lontani dal tema. 9

Anche se è scontato, sembra il caso di ricordare come le Scritture non siano fatte solo di storie e ciò che rimane dei testi sacri niente ha però a che vedere con "letteratura" e "poesia", essendo questi generi oggi interpretati nel senso di mere elaborazioni individuali: quindi, quali prodotti ottenuti soltanto da un esteticamente abile ed efficace impiego di fantasia e di sentimento. Questo, ossia il concetto di "belle lettere", è uno dei tanti limiti che, per la degradazione del linguaggio, rendono oggi difficile l'uso della corrente terminologia con riferimento a realtà pre-moderne. 10

Per dare un'idea della complessità dei testi sacri e di tutto quest'ordine di problemi, sulla quale insisto a fronte del riduzionismo metodologico del Barbiero, è evidente come questo titolo regale richiami il nome dei Sumeri; nome a sua volta del tutto confrontabile con il skr. sumera, composto da sú-, corresponding in sense to Gk. ευ− e da -meru, name of a fabulous mountain, regarded as the Olympus of Hindû mythology and said to form the central point of Jambu-dvîpa; all the planets revolve round it … è,


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in effetti, la montagna polare, per la quale passa l'asse terrestre ed è espressamente indicata dall'Induismo come la sede della Tradizione Primordiale. È perciò significativo che sumera, sia in skr. proprio il nome dell'Artico, con ciò testimoniando di cosa fu sede quella regione (cfr. B.G. Tilak, THE ARCTIC HOME IN THE VEDAS, Poona, 1905); potremmo, infatti, anche tradurre e con maggior precisione, "beata sede iperborea". Un tal nome nel contesto generale che ho delineato - applicato sia al titolo di un mitico re primordiale, sia ad un antico popolo fa riflettere. L' ebr. ShMR [ ], keep, watch, preserve, e l'ar. SaMaRa, [ζ° ], stay awake, trasmettono un'idea di vigilanza, di conservazione e - di fatto - con ShMR, si designa infine la Samaria, per la quale, stante, nel particolare ambito culturale mediorientale, il ruolo storico di assoluto conservatorismo religioso dei Samaritani rispetto al rimanente Ebraismo, resta asseverato per il termine in argomento - andando quindi anche oltre la divisione tra lingue semitiche ed indoeuropee - un ampio significato sottintendente un ruolo primordiale connesso alla custodia di un legato tradizionale. 11

F.Vinci, OMERO NEL BALTICO, Palombi, Roma, 1998; p. 398.

12

Ibidem.

13

Ibid. Tutto questo mi fa fortemente dubitare, non che Barbiero nella sua campagna di scavi trovi qualcosa ma che, trovi la tomba di Mosè come invece egli s'attende. 14

Debbo però rendere atto che, nella sua polemica "qumrânica" con Carsten P. Thiede (EYEWITNESS TO JESUS, ed. it. TESTIMONE OCULARE DI GESÙ, Piemme, Casale M., 1996), apparsa all'epoca su l'inserto culturale de IL SOLE 24 ORE, Mons. Gianfranco Ravasi, espresse, pur in un contesto strettamente cattolico, posizioni comparabili a quelle qui esposte. Segno evidente che i settori più avvertiti della Chiesa, ben si rendono conto dell'angustia ed al fondo dei rischi connessi con l'atteggiamento tuttora maggioritario. Per completezza, aggiungo che so, come lo stesso Mons. Ravasi abbia anche criticato, alla sua uscita, il libro del Barbiero ma non sono mai riuscito a conoscere i contenuti di tale presa di posizione.

(BdAB)


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[Proponiamo adesso due articoli del noto giornalista Antonio Socci dedicati alle ricerche dell'Amm. Barbiero; essi sono apparsi su Panorama e Il Giornale, testate che, insieme all'autore, ringraziamo vivamente per avere autorizzato la loro riproduzione] ----da Panorama, N. 9 (1767), 2 marzo 2000 Scoperte - La Bibbia alla prova della storia

Abramo e Sara erano ariani? Religiosi e laici vedono nell'Antico Testamento "leggende" storicamente poco attendibili. Ma gli studi recenti dicono: non è così. E anche sul primo dei patriarchi rivelano che…

Il papa sulle tracce di Abramo e di Mosè. Si rileggono quelle narrazioni bibliche che rappresentano la radice culturale e spirituale di tanta parte dell'umanità. Con il razionalismo moderno quelle storie sono state sempre più relegate nel leggendario, nella mitologia. Come fossero un'epica immaginaria che il popolo ebreo si sarebbe costruito per darsi un'identità e legittimare il suo diritto alla terra di Canaan. Perfino nella Chiesa ha fatto breccia la demitizzazione. Nell'Introduzione generale alla Bibbia, il primo volume del "Corso di studi biblici" (Elle di ci) su cui studiano seminaristi e preti, si afferma che "l'Antico Testamento non ci fornisce dati storicamente attendibili per l'epoca pre-monarchica, in cui si forma l'entità etnico-nazionale di Israele", dunque si sottolinea la "per lo meno discussa attendibilità storica" degli scritti biblici. Ma le scoperte degli ultimi anni ribaltano questa convinzione. Inoltre emergono anche ipotesi originali sui patriarchi, come quella di Flavio Barbiero, uno studioso laico, collaboratore del grande Emmanuel Anati, colui che ha scoperto nel massiccio di Har Karkom la vera montagna sacra di Mosè (ma di questo parleremo dopo). L'area palestinese in cui si svolgono le vicende che vanno da Abramo a Mosè - secondo Barbiero a partire dal XV secolo a.C. - è il territorio di confronto di tre grandi potenze, l'Egitto, l'impero Mitanni (in


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Mesopotamia) e il regno degli Hittiti. Barbiero ha dunque cercato tracce dei patriarchi biblici nei documenti relativi ai rapporti politici fra quegli stati, avanzando ipotesi sorprendenti già in un suo libro di alcuni anni fa (Bibbia senza segreti, Rusconi). Chi era Abramo e da dove veniva? "La Ur dei Caldei dove doveva recarsi il Papa, sulle rive del Golfo Persico, è in realtà l'antica Ur dei Sumeri e non ha niente a che fare con Abramo" spiega Barbiero. "Ur dei Caldei è una regione ed è collocata altrove. Abramo è nato (attorno al 1480 a.C.) a Nahor che doveva essere nell'area dell'attuale Diyarbekir, in Turchia". L'antico patriarca viene di solito considerato un beduino. Ma - dice Barbiero "questo è un luogo comune da sfatare. Non c'è alcun riscontro. Chi apparteneva alla categoria sashu era disprezzato dalle popolazioni residenti. Invece dal Genesi risulta che Abramo viene trattato come una personalità di rango. Gli ittiti di Ebron - per esempio - si rivolgono a lui chiamandolo 'gran principe'. Lo fa pensare anche il suo nome, come quello di sua moglie-sorella Sara che vuol dire 'principessa'. Abramo è inoltre molto ricco, arriva in terra di Canaan con una quantità di beni e servi. Anche i suoi costumi matrimoniali - ha sposato Sara che è anche sua sorella - sono quelli delle famiglie allora regnanti nel medioriente". Dunque sarebbe figlio di un re mesopotamico? "La Bibbia" spiega Barbiero "c'informa che suo padre discendeva addirittura in linea diretta da Noè. Era dunque capo di antica e nobile stirpe. Sappiamo inoltre che egli lascia la città natale di Nahor col figlio Abramo e il nipote Lot e si trasferisce ad Harran. Alcuni anni dopo troviamo Labano, nipote di Abramo, qualificato come 'signore di Harran'. Ma questa terra - dai documenti storici - risulta essere una provincia dell'impero Mitanni, il cui sovrano in quell'epoca era il grande SaushshaTar". E' lui il padre di Abramo? "Vive nello stesso periodo, è nato nello stesso Paese, regna sulla stessa vasta regione che comprende Nahor e Harran, ha grandi quantità di bestiame, ha le stesse consuetudini e perfino lo stesso nome, infatti la Bibbia chiama il padre di Abramo: Tare (Saushsha significa qualcosa come "il gran re"). Insomma" conclude Barbiero "non è ipotesi troppo ardita supporre che si tratti della stessa persona".


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Abramo sarebbe così un principe della grande dinastia Mitanni, un'aristocrazia proveniente dall'Iran che attorno al 1500 a.C. fondò il suo impero nella Mesopotamia settentrionale regnando sulle popolazioni urrite. "I Mitanni sono di etnia aria" dice Barbiero e se la sua ipotesi fosse giusta la discendenza di Abramo e Sara, sua consanguinea, cioè la nazione ebrea, sarebbe di origine ariana (il che conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto cretini fossero i deliri razzisti e nazisti sulle "razze", su ariani e semiti). Ma resta da capire perché un principe come Abramo lascia il suo regno per stabilirsi come un esule in un territorio dominato dall'Egitto. La Bibbia è scritta alcuni secoli dopo gli eventi in base ad antiche tradizioni orali. Ritenendo che tutto sia dovuto al disegno di Dio spiega che fu Lui a chiamare Abramo fuori della terra di suo padre, promettendogli una grande discendenza. Barbiero - da laico - avanza un'ipotesi per spiegare i motivi storici di quello strano esilio. La figura dominante di quegli anni è il faraone egiziano Tutmosi III che usava siglare trattati di pace lasciando sul trono i re battuti, ma facendosi consegnare in ostaggio figli e fratelli che potevano poi vivere liberamente nel suo impero. La storia di quegli anni registra una guerra proprio fra Tutmosi III e Saushsha-Tar. A vincere è il faraone ed è ovvio che anche per questo trattato di pace il faraone abbia preteso la consegna di familiari del re Tar. Questo spiegherebbe perché a trasferirsi in Palestina non è solo il secondogenito del re, Abramo, ma anche suo nipote Lot e spiega perché i due - una volta arrivati in Canaan - si sono dovuti separare. Spiega pure l'origine del nome "ebreo" che gli studiosi fanno risalire ad "apiru". Gli "apiru" sono una categoria di persone, gli "ostaggi" dati in garanzia della non belligeranza. Con il tempo rimasero nel territorio del faraone solo gli apiru di origine Mitanni e il termine finì per identificarsi con la tribù d'Israele. Abramo, personaggio leale e di grande levatura, secondo Barbiero ha rapporti sempre più stretti con il faraone fino a diventare un suo fedele principe nella regione. Sarebbe dunque il faraone a farlo venire in Canaan promettendogli lì terra e protezione per la sua discendenza. A Tutmosi III (e poi ai successori) Abramo si sarebbe rivolto con devozione religiosa perché il faraone era considerato una divinità. Gli "incontri" che il testo biblico legge in chiave soprannaturale, secondo Barbiero, sarebbero incontri di Abramo con ambasciatori del faraone o con lui in persona (da qui deriva la diversità di nomi usati per la divinità).


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Alcuni di questi episodi sarebbero addirittura storicamente verificabili. Un esempio? "Per quanto possa sembrare incredibile dagli Annali di Karnak si può stabilire con certezza che nel quarantunesimo anno Tutmosi III si fermò a Ebron, il villaggio di Abramo, e ricevette tributi dai signori della regione. Uno di questi signori è un possidente di bestiame che - fra l'altro - offre al faraone diciotto zanne d'elefante, a quel tempo un regalo da re e certamente proveniente dal territorio di Mitanni. Dati che si attagliano perfettamente ad Abramo". In questa chiave andrebbero letti - per Barbiero - l'episodio del sacrifico di Isacco (una prova di fedeltà voluta dal nuovo faraone), il cambiamento del nome di Abramo e Sara e l'obbligo della circoncisione (entrambi costumi egiziani e dunque prove di sottomissione). Così come la distruzione di Sodoma, rea non di peccati sessuali, ma di essersi ribellata al faraone addirittura tentando un affronto - questo sì sessuale - contro i suoi ambasciatori. Nell'ipotesi di Barbiero ci sarebbero anche altri clamorosi riscontri storici. "Fra le lettere di Amarna c'è quella che un certo Suwardata scrive al faraone Akenaton. Egli si qualifica come 'principe di Ebron'. E' una notizia stupefacente perché in quell'epoca - secondo i miei calcoli - 'principe di Ebron' non può essere che Esaù, il figlio di Isacco e fratello di Giacobbe. In effetti Suwardata, è un nome di chiara origine ariana, si scrive 'Sw-rdt ed equivale, nella trascrizione ebraica, a Esaù,'Sw, detto "il rosso" (rdt significa "rosso"). Emblematica anche l'espressione che usa: 'le terre che mi ha dato il dio del re, mio signore' ". Qui si pone il problema della religione di Abramo e dei suoi eredi. Oggi molti storici ritengono che non si possa parlare ancora di monoteismo in senso moderno. Egli probabilmente restò fedele alle tradizioni della sua famiglia. In particolare sappiamo che era devoto a El, che in seguito, dall'autore biblico, verrà assimilato a Jhwh. Sappiamo che anche i suoi discendenti furono devoti a vari dei. Insomma l'idea di Abramo come padre dei "tre monoteismi" parrebbe impropria. E' Mosè che rivela al suo popolo Jhwh e lo proclama Dio d'Israele. Per un po' di tempo il popolo adora anche altri dei stranieri. Sarà con i profeti che in Israele prende forma quel che oggi definiamo monoteismo.


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Per la verità anche su Mosè si è abbattuta la scure della demitizzazione. Eppure questo personaggio gigantesco della storia umana ha lasciato tracce, anche archeologiche, inequivocabili. Le conferme più impressionanti vengono dalle scoperte di Emmanuel Anati sul monte Har Karkom (specialmente dai graffiti). Se "alcuni teologi e biblisti ritengono che il Pentateuco sia una raccolta di testi con significato metaforico" scrive Anati nel suo ultimo libro - invece le descrizioni bibliche sui siti menzionati e la loro topografia appaiono, applicati ad Har Karkom, straordinariamente riscontrabili. Le ricerche archeologiche su Har Karkom proseguono e nel Duemila potrebbero riservare scoperte ancor più clamorose. Magari documenti scritti. Ma non solo. "Stando al secondo libro dei Maccabei" spiega Barbiero "il profeta Geremia, al tempo di Nabucodonosor, andò a nascondere l'arredo del Tempio e l'Arca dell'Alleanza sulla montagna sacra di Mosè, la cui memoria era stata tramandata per secoli dalle famiglie sacerdotali di Gerusalemme e fu perduta durante l'esilio babilonese". Insomma dalle prossime ricerche, Har Karkom, il vero Sinai, potrebbe svelare definitivamente i suoi antichi segreti. E i racconti biblici potrebbero trovare clamorose conferme storiche perfino con la mitica "Arca perduta". ----da Il Giornale, 25 febbraio 2000, p. 34

Sulle orme di Mosè Con Egeria sul "vero" Sinai Una storia vera. Fatta di strade polverose nel deserto, carri, nemici, cieli azzurri, rocce, pozzi d'acqua, volti di uomini. Il racconto della Bibbia su Mosè - che narra come Dio entra nella storia umana - non ha nulla a che fare con i miti degli altri popoli, ma è fatto di vivida quotidianità. Ancor più dettagliate sono le vicende di Gesù - Dio fatto uomo riferite dai Vangeli. Proprio "per riscoprire le tracce della presenza amorosa di Dio accanto all'uomo", il papa è oggi pellegrino sul Sinai e a marzo andrà fra i paesi, le strade e le città dove ha vissuto il Salvatore. Per la verità molta teologia cattolica di oggi ha fatto proprie, in modo più o meno sfumato, le tesi del vecchio razionalismo. "Sul Mosè


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storico" recita un manuale su cui si formano seminaristi e preti "non si è in grado di raggiungere una certezza storica verificata" e dunque "esodo, cammino nel deserto, Sinai e conquista della terra non sono 'dimostrabili' come storicamente attendibili". Il papa - con il suo pellegrinaggio - afferma che però la Bibbia non è un mito. Adesso anche le più moderne ricerche archeologiche danno ragione a lui e alla tradizione, pure per quanto riguarda Mosè. Proprio sulla penisola del Sinai si sono scoperte infatti testimonianze archeologiche impressionanti sugli eventi narrati dall'Esodo. Tuttavia non sul monte Jebel Musa, dove sorge il monastero di Santa Caterina che viene ora visitato dal papa. Si identificò lì il monte santo di Mosè in epoca bizantina (IV-V secolo d.C.). Ma è dislocato troppo a sud e c'è una tradizione più antica e più fondata. L'ha riscoperta Emmanuel Anati che ormai da decenni guida le ricerche sul massiccio di Har Karkom, più a nord, in territorio israeliano. Se la zona del Santa Caterina non ha nulla che corrisponda alle descrizioni topografiche contenute nell'Esodo, questa invece corrisponde alla perfezione. Anati lo ripete nel suo ultimo libro Har Karkom. Venti anni di ricerche archeologiche (Edizioni del Centro studi camuni), dove ha riprodotto i più impressionanti graffiti scoperti nell'area. Sono datati all'epoca di Mosè ed evocano chiaramente le vicende bibliche: uno raffigura due tavole divise in dieci quadri, un altro la verga che diventa serpente, poi l'occhio di Dio, l'uomo orante. Ai piedi della montagna, rimasta deserta e intatta per millenni, sono stati ritrovati - spiega Anati perfino "dodici cippi che fronteggiano una piattaforma di pietra. Ciò richiama il passo dell'Esodo (24,4): 'E Mosè levatosi per tempo eresse ai piedi del monte un altare e dodici cippi, per le dodici tribù d'Israele'". Adesso Il Giornale può anticipare un'altra scoperta che conferma l'antichità dell'identificazione di Har Karkom con il monte di Mosè. La propone Flavio Barbiero, ricercatore dell'équipe di Anati. Barbiero ha studiato il "Diario di viaggio" scritto nel IV secolo da una pellegrina cristiana di nome Egeria. E' un documento che fu scoperto in un manoscritto dell'XI secolo ritrovato ad Arezzo in un codice proveniente dall'Abbazia di Montecassino. Sono note di una donna intelligente, colta e coraggiosa, che fra il 381 e il 383 d.C. (sono gli anni in cui la cristianità ha personaggi del calibro di Agostino, Ambrogio, Girolamo), dalla Spagna volle andare in pellegrinaggio fino alla Terra Santa, spinta dal desiderio di "vedere" i


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luoghi di Gesù. Poi da Gerusalemme, dove si stabilì per qualche anno, volle visitare anche i luoghi dei patriarchi biblici. Il diario è una testimonianza entusiasta scritta per le sue amiche (o consorelle) rimaste a casa. Integra è la parte che riferisce il pellegrinaggio sul monte santo di Mosè, fatto nel dicembre 383, dal sabato 16 fino al lunedì 18, con due pernottamenti sul posto. Si tratta di un diario commovente - per la fede di Egeria - e straordinariamente particolareggiato. "A quell'epoca" spiega Barbiero "esisteva già da tempo, sul Jebel Musa, nel sud del Sinai, una comunità di monaci cristiani, che identificavano quello come il monte di Dio. Egeria era cristiana e quindi avrebbe dovuto recarsi laggiù, al monastero di santa Caterina. In effetti gli esegeti dell'opera credono che quello sia stato il suo pellegrinaggio. Ma in realtà fra le sue pagine e quella zona non c'è alcuna corrispondenza. Non corrispondono né le descrizioni dei luoghi, né i tempi di percorrenza, né i manufatti che illustra". Dunque dove si recò Egeria? A quale località corrisponde il suo racconto? Barbiero ha avanzato l'ipotesi che si tratti proprio di Har Karkom. Così, durante una delle tante campagne archeologiche su questo monte, ha preso il diario di Egeria e ha provato a usarlo come "guida". Il risultato è stato sbalorditivo. Perfino nei particolari, come l'esistenza a valle di un'ottantina di tombe ("i sepolcri dell'ingordigia"). I tempi di percorrenza dei vari tratti, i panorami descritti, le dimensioni delle valli corrispondono in tutto. Egeria trova sul posto anche comunità di monaci, un prete e una chiesina (ci sono ancora i resti), dice perfino che gli asceti le donarono delle mele che crescevano sul monte e in effetti sono stati trovati piccoli terrazzamenti agricoli. "Corrisponde in tutto", conclude Barbiero. Questa scoperta apre un interrogativo: perché - sia fra i cristiani che fra gli ebrei - si è persa la memoria del vero monte santo di Mosè? Perché l'ufficialità imperiale volle accreditare il monte del Santa Caterina? Il Diario di Egeria (oggi ripubblicato dalle Paoline) potrebbe anche sciogliere un enigma. Nei primi secoli cristiani si parlava di due monti sacri, uno di fronte all'altro: quello dove Mosè ricevette le tavole della Legge e l'Horeb su cui era salito il profeta Elia. In effetti anche Egeria parla dei due monti distinti e vicini. Nella Bibbia sono però la stessa cosa. "Ebbene proprio nell'area di Har Karkom" spiega Barbiero "è chiaramente testimoniata sullo stesso massiccio l'esistenza di due vette, entrambe con caratteri sacri". Questo spiega l'equivoco. Ma l'ipotesi dei


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due monti sacri potrebbe avere clamorose conferme dalle prossime campagne di scavi. ----Antonio Socci è nato a Siena, nel 1959. Giornalista, è stato inviato del settimanale Il Sabato, direttore della rivista internazionale 30 Giorni e scrive attualmente per Il Giornale, Panorama e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni più importanti, una monografia sul regista russo Andrey Tarkovskij, Obiettivo Tarkovskij (Edit, Milano 1987), poi La società dell'allegria - Il partito piemontese contro la chiesa di Don Bosco (Sugarco, Milano, 1989), quindi C'era una volta il sacro (Bompiani, Milano 1994).

Stele del faraone Merneptah che menziona "Israele"


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(da Giuseppe Ricciotti, La Bibbia e le scoperte moderne, Sansoni, Firenze, 1957)


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Se Dio vuole ... (e Chiesa acconsente...) SAN CRISTOFORO COLOMBO Figlio del Papa genovese Innocenzo VIII e uomo mandato dalla Chiesa (Italo Orbegiani) Solo qualche anno fa ricorreva il V centenario della scoperta dell'America, e l'industria della "cultura" non si è ovviamente lasciata sfuggire l'occasione, celebrandola con una serie di mostre, iniziative editoriali, etc.. Nonostante siffatta interessata attenzione, la "questione colombiana" è rimasta sostanzialmente nello stato in cui si trovava all'inizio dei festeggiamenti, il paradigma interpretativo corrente non ha subito scosse, e tutto ha continuato ad essere come era prima. Passata la festa, il carrozzone degli accademici si è subito rivolto alla successiva commemorazione, e Colombo e la sua impresa sono ripiombati nell'oblio, in attesa forse della ripresa dell'agitazione per il 2006, cinquecentenario della morte del grande navigatore. Pure, una "questione colombiana" sussisteva, e tuttora sussiste, troppi sono i "misteri", le contraddizioni, che affollano la storia di una spedizione che in fondo ha donato alla colonizzazione europea un Nuovo Mondo, e non a caso è stata prescelta come data di inizio della "modernità". Tra i pochi contributi del 1992 volti a rischiarare un poco i contorni più oscuri della vicenda bisogna annoverare quello di Ruggero Marino, che ha fatto notare il ruolo fondamentale ricoperto addirittura da un Papa nel sostegno a Colombo, e al suo "pazzesco" progetto (Cristoforo Colombo e il papa tradito, Newton Compton, Roma, 1991; seconda edizione aggiornata ed ampliata, RTM, Roma, 1997). Anche il massimo colombista italiano, Paolo Emilio Taviani, ha riconosciuto il valore della ricerca del giornalista romano, dal momento che, alla p. 268 del Volume II della Nuova Raccolta Colombiana (Cristoforo Colombo Relazioni e Lettere sul secondo, terzo, e quarto viaggio, a cura di Paolo Emilio Taviani, Consuelo Varela, Juan Gil, Marina Conti, Roma, 1988), si legge esplicitamente: "E' doveroso dare atto al giornalista del Tempo di Roma, dottor Ruggero Marino, di essere stato il primo a rilevare come i vari argomenti esposti si colleghino con la strana richiesta ai Re della Lettera I del Libro Copiador e abbia così riaperto e rivalutato il tema della partecipazione di Innocenzo VIII alla vicenda colombiana, che per troppo tempo era stata erroneamente confinata dalla


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bibliografia scientifica fra le leggende", ma non si può non sottolineare come sia comunque "strano" che un simile importante contributo a una corretta interpretazione dei retroscena della "prima" traversata oceanica da parte di un europeo sia venuto da un non professionista, tirato dentro a questa storia, come lui stesso racconta, un po' per caso... A distanza di otto anni, eccoci di fronte a un nuovo lavoro che si pone sulla medesima scia di quello di Marino, anch'esso proveniente da un non professionista: vi si riprende il tema del ruolo più che attivo di Innocenzo VIII nella scoperta dell'America, spingendo in questo caso il rapporto tra i due fino a congetturare addirittura che Colombo sia stato un figlio del Papa! Sarebbe stato questo il doloroso "segreto" sulle circostanze della sua nascita che Colombo tenne celato a tutti, perfino ai suoi stessi figli, e che già rilevato in un precedente studio dell'autore delle presenti righe (America: una rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana, Della Lisca, Milano, 1995), si era creduto poter risolvere, sulla base di alcune fonti, in altro modo (Colombo sarebbe stato invece figlio illegittimo di un nobile Perestrello). Il quadro interpretativo nel quale si muove Orbegiani nel condurre l'analisi della fondatezza della sua suggestiva congettura (che resta comunque alquanto discutibile, ma certo non impossibile - e neppure incoerente con la soluzione precedentemente accennata, visto che Colombo potrebbe essere stato tanto figlio del Papa, al secolo Giovanni Battista Cybo, quanto di UNA Perestrello, anziché di UN Perestrello!) è sostanzialmente lo stesso che quello del libro di Marino, e di un altro testo, ingiustamente trascurato, ad esso coevo, un numero esclusivo dell'Annuario Francescano Secolare d'Italia dedicato a Colombo (Roma, 1992). Secondo l'autore (questi autori) si sarebbe trattato di un'impresa tutta nel segno della cattolicità, e dell'italianità, di un sentimento di "crociata" nel nome della fede, come è evidente fin dal titolo, che si può in effetti trovare un po' azzardato, del libro: San Cristoforo Colombo ... Uomo mandato dalla Chiesa! Se una siffatta ricostruzione (che si basa soprattutto su notizie divulgate nel predetto Annuario) può lasciare alquanto perplessi gli studiosi ufficiali, e lo scrivente - che resta tuttora persuaso che ben diversi siano gli autentici retroscena della vicenda: Portogallo anziché Italia, ebrei anziché cattolici, vera e propria nascente "scienza", anziché caso, ardimento, predestinazione, o possesso di "informazioni segrete", e che gli stessi argomenti usati a favore di una tesi possono essere benissimo riconvertiti a sostegno dell'altra - pure bisogna riconoscere che la stringente logica


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indiziaria dell'autore è di quelle che tengono avvinti, che il libro si legge tutto d'un fiato, e che si rimane in desiderosa attesa del promesso II volume. Un testo "provocatorio", dunque, che richiede maggiore attenzione di quanto i frettolosi "professori" di sempre non vorrebbero concedere, i quali, affezionati al dogma della casualità della scoperta da parte di un popolano di scarsa cultura, mostrano di ben meritare il commento di Benedetto Croce, quando rileva tristemente che: "La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita; da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi mettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell'intelletto." Per tornare al testo che stiamo presentando, se non tutto è andato esattamente come l'autore sostiene - animato da una "fede" che può apparire talora, a chi ne è al di fuori, eccessivamente candida, senza le maliziose interpretazioni di un approccio strettamente "razionalista" (non si può non ritenere tale per esempio l'attenzione prestata alle pretese facoltà "extrasensoriali" di Colombo, mentre è forse ancora tale inclinazione fideistica la responsabile di una certa indulgenza nel dar credito a voci di carattere più leggendario che non storico, la cui fondatezza andrebbe invece severamente vagliata: tra queste, la assai vexata quaestio delle cosiddette "carte impossibili", come quella di Piri Reis, e del gran numero di resoconti di viaggi precedenti quello di Colombo, classificabili sotto la voce generica predescubrimiento) - è certo in ogni caso che i fatti non si sono svolti nel modo descritto dalla fiacca vulgata corrente (ne è stato recente pessimo esempio la trasmissione di Piero Angela - "Speciale Super Quark - Cristoforo Colombo, storia di un incredibile viaggio", andata in onda sulla prima rete della RAI nello scorso mese di marzo - che si giovava, appunto, della collaborazione dei "veri" esperti), e che gran parte degli elementi indispensabili per un chiarimento del giallo si trovano raccolti in questo libro. Essi formano una galleria di "indizi" a volte assai poco noti, o notati, che lasciano in effetti pensare. Segnaliamo, tra gli altri: l'evidenza di una falsificazione commessa dalla corona spagnola, al fine di attribuirsi meriti inesistenti nel finanziamento della spedizione; una possibile motivazione per la "fuga" di Colombo dal Portogallo nel 1484 (che sarebbe stata causa, e non effetto, dell'assassinio da parte del re Giovanni II del Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Cristo), e per l'approdo a Lisbona, anziché in terra spagnola, al termine del suo primo viaggio; una spiegazione completa del famoso "crittogramma"


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con cui Colombo usava firmare, che appare, tra le numerose fino ad oggi avanzate, assai convincente (anche se non originale, essendo stata già proposta da Aldo Agosto, "Una nuova interpretazione delle sigle della firma di Cristoforo Colombo", in La storia dei genovesi, vol. VIII, Genova, 1988), etc.. In definitiva, un contributo stimolante verso il dipanamento di un'imbrogliata matassa, che alcune "forze" (a prescindere da quelle stolide o accidiose degli "accademici" del tipo dianzi accennato), sembrano non avere alcun desiderio venga finalmente chiarita, nonostante i non pochi secoli che ormai ci separano da quegli eventi. Come scrive bene Orbegiani, quasi alla fine del suo lavoro: "Il tempo delle analisi maniacali e puntigliose, ciò che doveva rendere l'ha già reso. Questo è piuttosto il tempo delle sintesi, delle ricerche comparate della storia colombiana tradizionale con quella della Chiesa, dei collegamenti trasversali", ed è con questo invito - che andrebbe rivolto ai ricercatori in molti altri campi, tanto della storia quanto della scienza - che chiudiamo la presentazione del libro, esortando come al solito il lettore più critico ed autonomo a voler giudicare da sé, con la sola sua testa... (UB)

Un'immagine di Colombo, accompagnata dalla sua enigmatica firma…


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[Aggiungiamo al precedente uno spiritoso commento di Pier Costanzo Brio, un singolare studioso "indipendente", autore tra l'altro di una notevole ancora inedita Identità di Christoforo Colombo Scandalosamente Vera, Torino, 1993 - picobeta@ipsnet.it] LE BALLE DI COLOMBO Leggendo questo libro, per poco non mi veniva un infarto! Ma come si fa ad affermare che è chiuso il tempo delle ricerche, e poi prendere per oro colato le sciocchezze moderne o peggio romantiche del Caddeo? Nella bibliografia non vedo un solo riferimento coevo! Pazzesco, e più pazzesco ancora il fatto che si ignori un fatto basilare: all'epoca il concetto di Italia era completamente diverso, sia geograficamente che culturalmente. Il funereo nazionalismo che distrusse popoli e culture si stava definendo con la nascita delle nazioni Spagna, Francia, Inghilterra, lasciando pochi resti al termine solo geografico di Italia. Ancora nel 1458 nel Sud Italia la cultura era Occitana, lo si può provare con documenti originali incontestabili. Circa 20 anni prima della scoperta Colombo dimorava nella sua villa di Madeira quale marito della sorella del Governatore dell'isola stessa, imparentato quindi con la famiglia Reale. Nel contempo il futuro Ammiraglio disponeva di una ricca dimora in Lisbona ove era la sua ricchissima biblioteca, poi accresciuta dal secondogenito. Non vi è quindi alcuna attinenza fra il futuro Ammiraglio ed il Colombo degli atti Genovesi. Questo è certo. Il Colombo Ammiraglio non faceva certo mistero di essere stato un nobile Corsaro Angioino. Certo sarebbe bello avere un Santo Corsaro, con tanto di cicatrice di guerra, spadone (lo pretese al suo fianco anche in punto di morte) ed orecchino! Ma procediamo con ordine. Cristoforo Colombo, figlio di Domenico, nasce nel 1451, entro le mura di Genova, in una casa del Carrogio diritto di Ponticello, a sinistra di chi scende dalla porta di S. Andrea, a poca distanza da questa (Staglieno). A coloro che, peccando di soverchia critica, facessero inutilmente notare come detta casa si trovava fuori le mura, ricordo ancora le parole di un grande purista: non si discute; qualsiasi atto, provante il contrario della nostra tesi, è fuori dal nostro ambito di interesse, quindi non degno di nota (l'acutissima ed emerita mente scientifica dell'Harrisse). Questo povero Cristoforo, viene subito messo ad imparare il mestiere di tessitore; comunque studia, pochissimo: in una scoletta della


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città, giusto giusto le basi (Caddeo). Infatti nel '400, come è notorio, tutti i vil mecanici, ed in particolare i tessitori o cardatori di lana, sapevano leggere e scrivere in latino, italiano, spagnolo, portoghese od altra lingua straniera a scelta. Ripeto, solo nel '400, poi di meno, oggi niente. Questi tessitori, non solo sapevano far di conto, ma conoscevano la trigonometria, la geometria, la cosmografia, l'astronomia, ed il disegno tecnico, quindi erano ottimi cartografi. Ma sopratutto si distinguevano per la loro cultura ecclesiastica. Tutto questo alle scolette elementari delle associazioni, gratuite, organizzate dai bravi genitori, analfabeti, ovviamente. Non ci sono più le belle elementari di una volta. (sic). Ad 1116 anni erano in bottega quali allievi garzoni, a tempo pieno, davanti ad un telaio da mane a sera. Alcuni esagitati affermano che Colombo abbia studiato in Pavia. La cosa è assolutamente impossibile, per un plebeo, "Infatti Cristoforo e Bartolomeo nella loro puerizia aiutavano il padre a campar la vita coll'esercizio d'una professione meccanica" (Sanguineti). Mentre Cristoforo lavorava, pensava, ed alla sera si istruiva, senza mai comunque superare la soglia della mediocrità, anzi della quasi ignoranza; questo è, e rimane, un principio purista. Non gli rimaneva comunque molto tempo per lo studio, infatti era trascinato di continuo dai notai, per la nota passione del padre di far redigere atti. Forse per questo, a 23 anni suonati, decide di cambiare vita, e si dà all'arte navigatoria. Questa prima grande idea è del 1473. La data è un principio sancito dagli atti puristi, ma stranamente, l'oratore ufficiale Anton Giulio Barrili declama: "È una triste famiglia popolana, non che del medio Evo, di tutti i tempi, pur troppo. Il primogenito dura poco in quella lotta umile e dolorosa di miseri lanaiuoli: quattordicenne appena, ha già presa la via del mare.". Come la mettiamo? E non mi riferisco ad una posizione del Kamasutra. Notoriamente tutti i genovesi ed in particolare i lanaioli erano dei navigatori, nel sangue, di istinto. A dire il vero, all'inizio, più che il navigante, Colombo fà il guardone, infatti guarda oggi, osserva domani, ti ruba il mestiere al capitano. Se avete insani dubbi, vi risponde il purista Rinaldo Caddeo: "Costoro hanno l'aria di domandare che si presenti per Colombo una patente di navigazione di lungo corso! Essi dimenticano che allora (bei tempi, n.d.a.) si poteva acquistare la pratica e la perizia della navigazione anche senza fare il mestiere di marinaio," Di certo era più indicato come mestiere, per imparare la navigazione, il tessitore, ed il nostro Cristoforo aveva ben vent'anni di pratica e perizia in panni, di lana." e si diventava


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pilota, comito, capitano di nave senza frequentare nessun istituto nautico che rilasciasse le relative patenti!" Subito ufficiali! Che bello! E che rapida carriera! Certo, non esistevano i moderni istituti nautici a far perdere del tempo prezioso. Tutti i marinai, ma che dico, i passeggeri, di vista buona, potevano rubare il mestiere, e trovavano subito frotte di armatori ansiosi di affidar loro le navi, come ufficiali di rotta (piloti) e capitani. "...apprendendo quasi senza avvedersene a disporre le vele, a governare le gomene, e il timone, a conoscere l'uso della bussola, dell'astrolabio, della toleta de martelojo (??), a puntare le carte, a far la stima del percorso, a interrogare le stelle, a sentire il regime dei venti, la direzione delle correnti, l'insidia degli scogli, l'invito dei porti tranquilli, i pericoli delle lunghe calme e dei repentini fortunali." Perdindirindina! Lo voglio anch'io! A me, a me! Come? Sono altri tempi. Tutto finito, non ci sono più i maghi di una volta. Peccato! Lasciamo perdere la faccenda delle vele e delle gomene, che mi suona molto faticoso. Ma il resto! Mi proporrei come arma segreta, altro che radar, sonar e cavolate del genere! Ma sono nato con mezzo millennio di ritardo. Prosegue il Caddeo: "Chi non tiene conto di questo non comprenderà mai il segreto dei grandi capitani di mare." Se non altro il Caddeo aveva idee democratiche e chiare. Il segreto di cui parla era forse quello di essere il più ignorante possibile? Fare i tessitori? Non essere assolutamente marinai? Rubare il mestiere? Non avere la patente? Essere guardoni? Questo o qualcosa di analogo è possibile chiamarlo segreto, altrimenti ci vuole mago Merlino, o l 'intervento diretto del Padreterno, ed in questo caso è miracolo, e non segreto. Mi ritengo fustigato per mancanza di fede, scusatemi. Cristoforo è un Dromomane (Elena Longhi), non può stare solo a guardare; quindi, in attesa di diventare capitano di marina, si contenta di diventare capitano di guerra, tanto per menar le mani. Ma certamente! Non è forse noto che i tessitor di panni erano tutti maestri d'Armi? Questo sempre nel '400, è chiaro. Ricordiamoci che papà Domenico è stato anche Taverniere, ed il figlio Cristoforo è un acuto osservatore, e non gli sarà certo sfuggito il modo con cui il padre manovrava lo spiedo. Qualche pignolo storce il naso? Ignora, e si convince d'essere ignorante. Nel '400 facevano tutti Ufficiali, mica come adesso che ci vogliono le patenti. Lo speciale diritto di sangue a diventare Ufficiali, non era dei nobili, come erroneamente si crede, ma dei lanaioli. Forse sulle navi non vi erano notai, perchè di un Cristoforo Colombo lanaiolo manco l'ombra, mentre vi era


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una vera invasione di Cristoforo Colombo corsari. Il Muratori, nei suoi annali, riporta una lamentela del Re aragonese di Napoli indirizzata al Re di Francia, al fine di farsi restituire alcune navi che gli erano state prese da un Cristoforo Colombo, famoso corsaro. Era Lui? Era un parente? Ma nemmeno pensarlo! Di marina, come detto, Cristoforo non era gran che, anzi chiariamo subito che non ne sapeva proprio nulla: con le basi che si ritrovava! È principio non contestabile, che i lanaioli, non venissero mai registrati sulle navi. Mica erano indispensabili (Asciuti). Ecco spiegato perchè non si sono trovate le prove dei viaggi che sappiamo aver fatto il nostro Colombo. Sono tutte emerite cavolate le favole che vogliono Colombo istruitissimo, nobile ed espertissimo capitano. Solo per orgoglio spagnolesco hanno mentito lo stesso Cristoforo Colombo, il figlio Fernando, gli amici Las Casas, Michele da Cuneo, e quanti altri lo conoscevano di persona. Sentiamo piuttosto i marinai analfabeti che hanno deposto al processo della Corona per screditare Colombo! Quelli sì che sapevano tutto ed erano affidabili! E poi vi sono gli atti notarili, tanti sono andati persi, ma ne rimane sempre una quantità impressionante, una marea, grazie all'hobby di papà Domenico. Avvenne, nel 1476, che Colombo navigasse come capitano di una nave della flotta di un Corsaro famoso, suo parente, a caccia di ricche navi veneziane, al largo di Lisbona. Ma che dico, era solo un corsaro, di passaggio. A ben pensarci Colombo non era con lui, ma non poteva neppure essere sulle navi Veneziane, (chi la beve?). Ecco la geniale soluzione: le navi non erano Veneziane, ma Genovesi (Harrisse). Lo storico inquisitivo ovvero scientifico non dubita mai di quanto già provato e scritto, ma dubita di nuove tesi o fonti che contraddicono quanto provato o scritto (citazione purista d.o.c.). Dal momento che abbiamo rintracciato notizie di una battaglia avvenuta nel 1476 fra un corsaro detto Colombo il Vecchio (al posto di Colombo il Giovane) ed alcune navi genovesi, questa senza alcun ragionevole dubbio è la battaglia in questione, e diviene un principio purista. Come? La data non corrisponde, il luogo della battaglia non è fra Lisbona e capo S. Vincenzo, ed il corsaro non è quello? Non si criticano i principii. Si è combattuto da mane a sera, ed i genovesi furono dei Leoni, infatti se i lanaioli erano maestri d'armi, immaginiamo i guerrieri di professione: qualcuno doveva pur esserci. Dalla riva, distante oltre 2 leghe antiche, ovvero oltre 12 chilometri, i testimoni si godevano lo spettacolo. Videro tutto e riferirono del coraggio dei Genovesi. Ma certamente! Nel '400 i testimoni avevano, notoriamente, una vista


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telescopica, infatti il cannocchiale non esisteva, e la natura provvedeva in merito. Dal momento poi che il giovane Colombo non aveva ancora scoperto l'America, la terra era ancora piatta, e si poteva vedere lontano a piacere, senza il limite dell'orizzonte. Bei Tempi, quando la terra era ancora piatta. Colombo dopo aver combattuto come una tigre per dieci ore filate, al comando degli scardassieri di lana, e dei mercanti, ma forse semplice spettatore (diciamolo piano, pare brutto), vede che la nave gli brucia sotto i piedi: si butta a mare con un remo e raggiunge la riva. Non si accettano critiche dei soliti dilettanti incompetenti. Tutti i lanaioli erano campioni di nuoto, e poi il mare (oceano) era tutto un brulicare di barchette (?), che raccattavano i superstiti del bello spettacolo (Caddeo), tranne Colombo, che se la cavava bene. Non fa a tempo a raggiungere la riva, che una nobile Cavaliera di Lisbona, Donna Felipa Muñiz Perestrello, figlia del primo governatore di Porto Santo sorella del Governatore di Madera Perestrello II, imparentata con la casa Reale, se lo sposa. Così andava il mondo a quel tempo favoloso, non vi erano barriere sociali, ed in particolare gli scardassieri di lana, specie se figli di tavernieri, col loro fare distinto, erano reputatissimi e ricercati, per maritar nobili pulzelle. Combinazione chi ti vede Cristoforo a Lisbona? Ma il fratello Bartolomeo! Quello che era nato nel 1461. Lo provano gli atti, quali atti? Ma quelli notarili del buon papà Domenico! Bartolomeo aveva 15 anni, e da bravo lanaiolo, andava per il mondo a disegnar le carte geografiche. Bartolomeo aveva messo su casa a Lisbona, qualche anno prima (la butto: a 10 anni?), quindi vi si era stabilito forse con la sua balia. Ripeto: siamo seri. Chi ride è uno sprovveduto ipercritico. Il fratello Bartolomeo alloggiò Cristoforo, e conoscendo la proverbiale e nota ignoranza di principio del fratello maggiore, si mise, grazie alla sua cultura ed esperienza, della quale tutti noi immaginiamo la vastità, ad insegnargli la cosmografia e la tecnica del navigare, quel tanto che poteva bastare. Quindi dubbio non v'è che Cristoforo sotto la buona e saggia guida del fratello adolescente, progredisse negli studi ed imparasse a disegnar carte di navigazione. Veramente qualche dubbio lo ebbe il (purista) Caddeo: "ma poichè è assodato che Bartolomeo nacque dieci anni dopo del fratello maggiore, e che Cristoforo giunse a Lisbona nel 1476, non si vede proprio come un giovinetto di quindici anni avesse potuto abbandonare la patria in così giovine età, nè tanto meno come potesse insegnare al fratello di venticinque anni scienze così astruse come quelle ricordate."


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Per questo grave peccato di presunzione, nell'uso smodato della intelligenza, il Caddeo non giunse mai alle vette auliche del Sanguineti. Ma torniamo al nostro Cristoforo, che disegnava, per campare, carte da gioco, almanacchi e cartoline di Natale (?), essendo del tutto negato per le scienze nautiche e per il disegno. Lo sappiamo tutti che i libri (codici ed incunaboli) erano rari e carissimi, gli almanacchi (effemeridi) pure, e le cartoline non esistevano, ma una corrente di puristi ha, come principio, quanto prima detto, ed i principii non si discutono. Poverissimo, straccione più che mai e mantenuto sia dalla suocera che dal fratellino, Colombo si scocciò ed ebbe uno dei suoi lampi di genio: gettati gli stracci e vestiti gli abiti nobiliari che gli competevano, decise di frequentare la Corte, e venne subito ricevuto, a braccia aperte, dal Re in persona. Poi si trasferì con la famiglia, nella casa che possedeva all'isola di Madera. Dalla moglie, ha il figlio Diego. Ovviamente Cristoforo si guarda bene dal notificare al padre il suo avvenuto matrimonio con la nobilissima Cavaliera Donna Felipa. Te la immagini la fragile cavaliera nelle mani dello sbrigativo Domenico? La poveretta si sarebbe ritrovata, come minimo, a servire vino al bancone della taverna del suocero, fra le urla degli avventori, oppure in giro per Genova, con in testa la cesta dei formaggi grondanti siero, i nobili capelli impregnati e nauseabondi. No, meglio di no. E gli venne una meravigliosa idea. Tutti per andare a destra, vanno a destra; per andare a sinistra, vanno a sinistra; per andare a levante, buscano il levante; per andare al ponente, buscano il ponente. Finiamola una buona volta, si disse, da oggi si deve buscar il levante per il ponente; - ovvero per andare a destra, si prende la sinistra. Chiaro e semplice. A tutti i lanaioli, venivano di queste idee. Non ci voleva poi una grande scienza, bastava la oscura scoletta di Genova (ma esisteva veramente?), ed un maestro, meglio se adolescente, come il buon Bartolomeo. Tutti ad esempio, quando prendono una botta in testa beccano il levante per il ponente. Verificare questa prova altamente scientifica. Quelli erano bei tempi, non mi stancherò mai di ripeterlo, ed i lanaioli, che avevano di queste idee, erano subito ricevuti a corte, ed i Re erano onorati di parlare loro, tanto che in breve divenivano loro amici. Così Cristoforo espone al suo amico, il re del Portogallo Giovanni II, la sua grande idea. Tra amici sono leciti dei tiri burloni, quindi il re Giovanni II, detto "il Perfetto", pensa di utilizzare i dati che ha avuto, in buona fede, dal suo amico particolare Cristoforo Colomo (sono parole sue), per tentare da solo la scoperta, inviando un altro capitano, che stranamente fallisce. Giovanni II era detto anche "il Giusto", oltre che il Perfetto, quindi un così


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grande sovrano è al di sopra di ogni sospetto. Se poi questo Giusto e Perfetto aveva personalmente sgozzato un giovanetto, se aveva fatto pugnalare qualche rivale, non significava nulla: faceva tutto parte del colore di quel tempo. Colombo decide di stabilirsi in Spagna. Date le sue non comuni referenze di plebeo ignorante ed insolvente (mecanico, scardassiere, figlio di un taverniere, formaggiaio, tessitore), viene subito accolto dai Re alla nuova Corte. A Cordova si trova un'amante, Beatrice, "con il beneplacito dei di lei parenti, che lo aiutarono moltissimo". Pedro de Arana, felice che Colombo abbia ingravidato la sorella Beatrice, ovviamente senza sposarla, diviene addirittura il suo braccio destro. Tutti all'epoca sapevano della reale forma sferica terrestre, persino i bottegai. Non era un mistero. Ma le obiezioni dei dotti? La famosa terra a cupola di Sant'Agostino, la sfera galleggiante sull'acqua? E per coperta il cielo? Le navi che non possono risalire il mondo? L'eresia degli antipodi? L 'enorme globo, 5 volte il vero? Le cinque zone, ecc. ecc. ? Tutta colpa di Colombo, che era ignorante e per questo non sapeva sostenere un discorso all'altezza dei suoi istruitissimi e saggi interlocutori. A lui spettava di farsi capire, "senza tutti quei ridicoli segreti, ed il parlare da occulto paesanotto; un vile plebeo davanti a tanti nobili signori, doveva fidarsi, senza tante storie" (J. Parry). Ovviamente, lo presero per loco, per pazzo, e giustamente lo deridevano, dal momento che nessuno capiva quello che diceva. Alcuni allampanati, con acqua fresca nel cervello, affermano che il progetto era troppo complesso, e venne respinto perchè neppure i più grandi matematici di Salamanca furono in grado di recepirlo. Stupidaggini, ci vuole più rispetto per quegli insigni dotti che non capivano nulla, ma che essendo, per definizione sapienti, non potevano peccare di incapacità ed ignoranza. Poi, a ben pensarci, mica erano dei dotti matematici, erano dei teologi, massimamente inquisitori, e facevano il loro dovere. Come dice il chiarissimo docente di storia oceanica J. H. Parry, della Università di Harvard: "Colombo era un autodidatta....aveva scarsa cultura....Se fosse stato un Principe, invece che il figlio di un tessitore genovese, la sua convinzione sarebbe stata probabilmente confermata da un oroscopo ufficiale". Mi ero sempre domandato cosa mancasse a Colombo, povero laniero di scarsa cultura: l'Oroscopo, ufficiale, ecco la risposta. Senza un oroscopo ufficiale, come poteva mai sperare di essere preso sul serio?


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Quindi Cristoforo, senza oroscopo ufficiale, ridotto in estrema miseria, coperto di stracci e con la testa rapata (?), si rimette a vendere di porta in porta i libri stampati e gli almanacchi con le carte geografiche da lui realizzate (Caddeo). Tutte cose dal costo molto elevato e che la popolazione dell'epoca, notoriamente in gran parte analfabeta, apprezzava moltissimo e si beava di possedere. La povertà di Colombo era accresciuta dai numerosi sussidi e concessioni reali. Una di tali concessioni lo abilitava ad alloggiare gratuitamente, lui ed il suo seguito, in tutte le città, borghi e villaggi. Colombo aveva dunque un seguito? Ma certamente, almeno i servi ed il maggiordomo, altrimenti che povero sarebbe stato; e poi qualcuno doveva ben portare i libri, pesanti come sono. Ma ecco il miracolo! Colombo viene convocato urgentemente a corte, dove i Re Cattolici, cambiata improvvisamente idea, accettano di patrocinare la sua impresa. La commissione dei dotti aveva forse cambiato parere? Ma nemmeno per sogno, tutti gli esperti testimoniavano che Colombo era un pazzo visionario che farneticava un progetto del tutto impossibile. Ovviamente Cristoforo, visto che si trova letteralmente alla fame, decide di fare il gioco duro, e pretende: il titolo ereditario regale di Vicerè, di Nobilissimo Signore (Don), esteso ovviamente ai suoi famigliari, il titolo ereditario di Almirante Maggiore con i relativi appannaggi e diritti, il comando assoluto della flotta il dieci per cento su tutti i guadagni, più il diritto di anticipare (infatti era insolvente) il 12,5 per cento delle spese in cambio della pari percentuale del ricavo. Chissà per quale motivo, i Re fanno i capricci e cercano di ottenere qualche sconto. Irremovibile, Colombo non cede di una virgola: poteva ben permetterselo, quindi volta la schiena e si allontana, con passo sicuro e veloce. Ed avviene il secondo miracolo: calpestando il proprio orgoglio, il re e la regina di Spagna inviano un messaggero, che fermato Colombo per strada, lo convince a ritornare indietro, ovviamente dopo molte insistenze. Questa volta non vi sono più obiezioni da parte reale, viene finalmente preso atto del suo stato miserando e di completa insolvibilità, della sua nomea di pazzo furioso, del fatto che nessuno avrebbe scommesso una lira sulla riuscita della sua impresa, ma anche della sua vile origine straniera; quindi per logica conseguenza, gli vengono concessi i relativi privilegi, mediante il soddisfacimento di tutte le sue richieste. Vengono messe a disposizione di Colombo due navi, i relativi uomini e tutto l'occorrente. Essendo poverissimo, come ben sappiamo, il novello Ammiraglio pensa bene di allestire da solo ed a proprie spese, per non


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perdere tempo, una terza nave, ovviamente con uomini e vettovaglie. Non avendo casualmente in tasca i miliardi (attuali) occorrenti, si rivolge a dei banchieri genovesi che sono ben lieti e felici di fornirgli tutto il capitale di cui necessita, rischiando ovviamente di tasca propria, e senza il minimo privilegio sulla eventuale riuscita della rischiosissima impresa. L'unica garanzia che Colombo fornisce è la sua genovesità. Purtroppo i banchieri genovesi di una volta si sono estinti, ormai da tempo immemore, quindi ogni obiezione in merito è rigettata. Il 4 agosto Colombo salpa da Palos con tre navi zeppe di ciurmaglia,avanzi di galera. Visto e considerato che l'Ammiraglio non capiva nulla di navigazione, saranno proprio questi galeotti ad insegnargli la rotta e le malizie del mestiere. "Colombo imparò moltissimo in questo primo viaggio" (Parry), tanto da superare i suoi maestri: infatti, "riusciva sempre a ritrovare un luogo dove era stato". I soliti squinternati, che bevono tutte le frottole, dicono che Colombo, prima di Pigafetta, scopre il modo di trovare le latitudini mediante la differenza d'ascensione diritta degli astri. La vera spiegazione è che Colombo aveva la rosa dei venti in testa (Parry), ed una bussola nel sedere, quindi non doveva fare alcun calcolo, agiva di puro istinto. Ed avvenne il terzo miracolo: Colombo notò la direzione delle correnti Pelagiche e la proprietà degli Alisei, questo indubbiamente per intercessione diretta del Padre Eterno. Ma quali calcoli da vil meccanici!, non gli servivano questi mezzucci: "la superiore intelligenza umanistica, l'istinto dei piccioni viaggiatori, e l'intercessione dello Spirito Santo", ecco cosa veramente lo aiutò. L'attento conte Roselly de Lorgues ci descrive: "De' miracoli del Servo di Dio (Colombo) in vita - Miracoli in terra Battaglia con gl'Indiani - Il miracolo delle frecce - Miracoli in mare - La tempesta predetta - Punizione de' suoi nemici", prosegue con: "Miracoli dopo morte - La Croce miracolosa piantata dal Colombo - Testimonianze dei principali Storici dell'Indie rispetto ai miracoli che essa operava Notorietà di questi miracoli - Perpetuità del culto reso alla medesima". Chissà per quale motivo la causa di beatificazione di Colombo (oramai data per certa) si arenò. Un Santo Corsaro! Che Bello sarebbe stato!!


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Il prossimo numero di Episteme - The next number of Episteme: N. 3 - 21 aprile 2001 Informazioni editoriali/Editorial Policy Presentazione del volume 1 - Bruno d'Ausser Berrau: Efficere Deos - La forma religiosa come volontà e rappresentazione teurgica 2 - Clara Bartocci Tiacci: La colonizzazione delle Americhe, tra mito e storia, scoperta e invenzione 3 - Giulio Santosuosso: América Latina en búsqueda del camino perdido 4 - Luciana Petruccelli: Archeologia proibita: l'enigma delle pietre di Ica 5 - Giovanni Stelli: Note per una fenomenologia del postmoderno 6 - Giorgio Faina: Matematica e Computers - Metodi classici e metodi sperimentali nella ricerca in Geometria Combinatoria 7 - Luca Umena, Voltaire e la fisica newtoniana 8 - Alessandro Moretti: L'universo intellegibile, ovvero, la gravità descritta da Leibniz 9 - Alfonso Bonacina: La costruzione logico-geometrica della tavola degli elementi 10 - Gianfranco Spavieri, Miguel Rodriguez: The effects of the AharonovBohm type as tests of the relativistic interpretation of electrodynamics 11 - Ken H. Seto: The Resurrection of the Light Conducting Medium for Modern Physics Reprints: John Cook: Clavis Naturae, or, the Mystery of Philosophy Unvail'd (The prime and efficient Physical Cause of all the Phaenomena of Nature, and singular Motions in the whole Universe, by which the Knowledge of Natural Philosophy is render'd obvious and easy, and the Sum of the Whole is reduc'd to one single Point) [excerpts] Roberto A. Monti: Albert Einstein and Walther Nernst - Comparative Cosmology Recensioni: Andre K.T. Assis, Relational Mechanics Michael Cremo, Richard L. Thompson: Archeologia proibita - La storia segreta della razza umana Vittorio Giunciuglio, Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo Ludwik Kostro, Einstein and the Ether Presentazione del prossimo numero


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