....padre Giovanni Vannucci....
padre Giovanni l'evangelista che visse, soffrì e pagò il suo desiderio di scomporre il messaggio del Cristo per arrivare sino alle molecole della comprensione dell'Umano in Dio e del Divino nell'Uomo.
N.B.: chi è INTERESSATO AI TESTI di Padre Vannucci può richiederli al seguente indirizzo http://www.servitiun.it
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/vannucci.htm
La preghiera cosmica di Giovanni Vannucci (Roberto Taioli) “Io mi corico e piglio sonno Al risveglio sarò nella sua mano” Salmi, Libro primo, 3
“Negli alberi, nel vento, nell’acqua perenne, nella terra, nella luce, nella roccia inflessibile” Giovanni Vannucci
Tutta la vita e l’opera di Giovanni Vannucci e la sua testimonianza sono una ricerca della preghiera, delle sue sorgenti e delle sue forme. Un pellegrinaggio lungo le tracce dell’Assoluto, un transito al mistero. La via che essa assume nel suo dispiegarsi e apparire agli uomini si riveste di volti diversi, di mutevoli icone. I linguaggi trasformano la materia grezza, il dilatarsi dell'uomo, i suoi silenzi e le sue parole, ma non nascondono il respiro eterno da cui si dipartono e a cui ritornano come ad un ancoraggio primordiale. L’uomo è posto in questa erranza che permane e si prolunga in ogni epoca come deposito ontologico del suo essere, anche se mascherata, nell’era della tecnica, dalla presunta onnipotenza degli apparati, dal sofisticato comando multimediale. In un mondo che tende all’imposizione del dis-umano e dell’artificiale, la preghiera mantiene intatta la sua valenza di appello, di convocazione estrema che supera d’un balzo i confini della costrizione e della volizione, richiamandoci ad una sorgente, ad una rupe. Lungo i tornanti di questa erranza Vannucci ha camminato, cosicchè tutta la sua opera potrebbe essere vista come un itinerarium in cui la sorgente e la foce del flusso coincidono e si incontrano e alla fine riconosciamo il luoghi da cui ci siamo mossi e a cui siamo giunti. La radice della preghiera ricade in quel dire essenziale, in quei vocaboli essenziali (1) che delimitano il suo orizzonte, la sua regione precategoriale: il tempo, lo spazio, l’Uno. Al di là delle forme storiche di volta in volta assunte, nella
preghiera, come nella poesia, avviene una metamorfosi del linguaggio, i termini che usiamo nella vita quotidiana e che appartengono al mondo fenomenico, decadono dalla loro veste ordinaria e assumono un altro codice espressivo e indicativo. Si spogliano della cornice mettendo a nudo l’essenza della loro vita, la carne nuda. Opera nella preghiera un movimento refrattario all’ordine del discorso comunicativo che ne esalta la natura trascendentale, propria di ciò che si pone nella disposizione per intercettare un altro piano, di sporgersi verso un’altra regione. Questa tensione è presente in Vannucci anche quando della preghiera esplora i continenti più nascosti e coglie gli echi che risuonano nelle forme delle varie religioni, i richiami sotterranei, le confinanze più segrete, fino a comporre Il libro della preghiera universale (3), opera straordinaria nella quale, come in un concerto, si compongono le parti, si annullano le differenze per far emergere e risuonare il timbro profondo, la varietà riversata nell’unità. Ma questo libro è per Vannucci, ancor prima che una raccolta di testi, l’accorgersi del risuonare in ogni preghiera dell’eco di tutte le altre, fungenti in quella che di volta in volta affiora alle nostre labbra e trema al nostro sguardo. La prima struttura precategoriale che si svela nella esperienza della preghiera è il tempo. Ma un tempo che non sia solo finito e causale. La problematica del tempo, che da sempre ha affascinato Vannucci, ci pone davanti al suo complesso volto: esso è processo lineare, avanzamento, progressione, ma anche ciclico, ritornante su di sé, avvolto come in una spirale. E’ quantità ma anche qualità, profondità, mistero. La ragione che opera nel tempo quantitativo, “trasforma il movimento dell’Iddio vivente in figure statiche, immutabili, eternizza un momento della rivelazione”(4), mentre il tempo qualitativo che è intrinsecamente dilatato, inesteso, infrange queste figure che sono andate concretandosi, rimettendo in cammino l’eterno respiro del Dio vivente, creatore e trasfiguratore del creato (5). La stasi del movimento (il tempo assunto come continuo e anonimo avanzare che dà luogo ad una metafisica della processualità) si spezza quando immettiamo in esso la dinamica delle figure, la forza avvolgente di un conoscere per simboli, per metafore. Metafore e figure connotano il tempo, ma anche lo destrutturano, attraversandolo per via verticale. Una fenomenologia delle figure si rende possibile quando in essa descriviamo l’apparire di volta in volta (ma talora anche simultaneamente) di forme storiche parzialmente svelatrici dell’impianto dell’essere, di figure che assorbono uno degli infiniti volti del mistero. La figura è così la formulazione razionale di una fase del movimento che, se assolutizzata e irrigidita, dà luogo a nodi e incrostazioni capaci di frenarne il libero flusso. L’accadere temporale subisce come una scossa, un cortocircuito che destabilizza
la linearità divorante, aprendosi ad altre modalità e forme dell’incontrarsi. La figura, la metafora e il simbolo, nel loro collocarsi in trasversale sull’asse della temporalità, evocano i profili del chiasma e la dimensione della reversibilità di ogni forma nell'altra, del mutamento di ogni grumo della rappresentazione (6). La percezione del tempo qualitativo porta Vannucci a riformulare e riproporre la tripartizione profetica di Gioacchino da Fiore; anche Vannucci parla del tempo del Padre, anteriore al cristianesimo, del tempo del Figlio, e del tempo dello Spirito, il nostro tempo, ma che ancora deve compiersi, per raggiungere ciò che ancora non è. Quando Gesù dice “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (Lc, 12, 51), apre radicalmente allo scaturire della cifra qualitativa del tempo, ponendosi come principio di contraddizione e lotta tra gli opposti; disarticola e distrugge, perché nel contrasto affiori una nuova nascita, una nuova vita. Ogni figura è sempre una sporgenza, tendente a spezzarsi e trasformarsi, ma non a scomparire. Nel suo illanguidirsi ed esaurirsi nel calendario del tempo, consegnandosi e ritornando all’eterno flusso, lascia di sé residui di vitalità destinati a riaccendersi in altre figure e a vivere in altre forme o, come dice Vannucci, in nuove qualità. Una fenomenologia delle figure sarà quindi una descrizione degli strati delle permanenze nascosti nei nuovi contorni, giacenti nei nuovi profili e viventi nelle nuove configurazioni qualitative. Nella condizione del tempo ciclico opera il dis-divenire, pensiero che Vannucci riprende da Meister Eckhart; ent-werden è il dis-fare, è il movimento che ritorna al punto iniziale, che si riavvolge su di sé, come una tela che riconsegna la sua ampiezza all’intimità del gomitolo da cui è partita (7). Ent-werden è il sempre nuovo, la tensione che spezza il muro dell’abitudine e che riapre il tempo oltre i margini della sua finitezza: “La tua tenda è sempre oltre, sempre oltre, / il tuo infinito cammino sia il nostro, o Signore”(8). In questo infinito accamparsi della concretezza vivente che disloca sempre più avanti la sua domanda di radicamento e di senso, sta il significato della preghiera. Essa ci sorprende e ci raccoglie sulla soglia estrema del nostro esistere, sulla sporgenza che noi stessi siamo. Forse solo nella preghiera e nella poesia il tempo qualitativo, incrociando lo spazio storico e geografico, emerge nella sua natura contemporaneamente di distruzione e costruzione. Tutto il tempo è eternamente presente, scrive Eliot in Burnt Norton, il primo dei Quattro quartetti. Le forme dell’accidentale, dice Vannucci, si sciolgono, “vengono abolite in un punto in cui tutti i tempi e tutti gli spazi sono presenti”(9), in una contemporaneità e comspazialità che sfuggono alle maglie della ragione categorica. Questa percezione profonda dell’indistinzione e della indivisione (entro cui avvengono simultaneamente i due movimenti, secondo un ritmo di azione e controreazione, di avvolgimento e svolgimento) ) appartiene alla
sfera universale della preghiera, oltre le forme storiche territorialmente determinate. Il lessico poetico delle preghiere di Vannucci rifrange questa condizione: ogni parola è una resurrezione dal sonno profondo, il poeta è l’uomo che prega e infrange nel suo dilatarsi la nicchia anche linguistica entro cui è rinserrato, come timoroso del risveglio. L’uomo è in cammino, dall’oscurità della zolla, dalla durezza della pietra e della terra verso una meta, un porto tuttavia sempre sfuggente. Pervaso da una profonda inquietudine, egli condivide e partecipa al sogno di Dio. Dio sogna il suo sogno dapprima nel cuore della dura pietra e la pietra nuda acquista vita, nella sua singola forma, nella sua particolare epifania. Come attraverso una irradiazione, il sogno di Dio chiama alla vita la terra che, risvegliata dal torpore, dà i suoi frutti. Poi il sogno raggiunge il cuore degli esseri, là dove si fa più pieno e la pienezza più intensa. Ma Dio non ha dimora, il suo sogno si riproduce e si riaccende. La tenda è sempre spostata oltre. Il transito dell’uomo è in questa sequela del sogno di Dio. Questa immagine dell’oltre ricorre frequentemente nella scrittura e parola di Vannucci, come una costante posta a chiamare l’uomo a risvegliarsi, a riemergere dal sonno e dall’abitudine per incominciare e continuare il viaggio. Ma l’uomo è il punto di arrivo, l’approdo più alto di una vicenda cosmica che lo precede. Nascosto e contenuto nella forme precedenti dell’evoluzione, il telos si è incarnato e depositato nell’uomo, nel suo trascendersi, nel suo negarsi, “nel cuore della dura pietra” e “nel cuore del ramo morto / che tanta linfa aveva in sé”(10). C’è una scala, di cui parla anche il poeta arabo Rûmî, posta davanti all’essere, il cui destino è trasformarsi, intraprendere una ascensione dalla forme inferiori a quelle superiori: ”Da quando tu venisti in questo mondo d’esseri / davanti ti fu messa, a salvarti, una scala . / Fosti dapprima sasso, poi divenisti pianta, / e ancora poi animale: come ciò t’è nascosto? / poi divenisti Uomo con scienza, mente e fede: / guarda come ora è un Tutto quel corpo, già Parte di terra!”(11). L’uomo è un arrivo ma anche sempre l’inizio, il punto di partenza di una nuova ascensione. La sua forma si spezza, ma in un frantumarsi che non è l’annientamento e l’annichilimento: ogni rinascita è una scaturigine che tiene conto e ricapitola in sé l’uomo precedente, le sue grandezze e i suoi errori. Il tempo è un impasto, vitale e fecondo perché stimolato dal futuro. E’ l’Uno vivente che riplasma sempre daccapo la materia, il nocciolo crudo e grezzo, rimodellando il cammino umano; la preghiera lacerante e sommessa annuncia la gloria di quest’opera incessante che chiama a contemplarla in ogni manifestazione: “Tu sei la sorgente unica del creato*, tu sei la fonte gioiosa della materia. Tu hai assunto la nostra carne umana*, carne vivente che riassume l’universo”(12). E’ la tonalità poetica che trasporta il senso del messaggio. In
Vannucci la preghiera si pone come disarticolazione della ragione discorsiva, invenzione di nuove forme. Grande conoscitore del patrimonio storico della preghiera universale di ogni continente e spiritualità, è tuttavia nella esperienza viva della preghiera sorgente, gesto individuale ma che diventa corale e interseca l’universale, che Vannucci avverte e sente il muoversi delle forze cosmiche, il farsi di Dio in noi. Questa percezione può essere detta solo paradossalmente con il silenzio, l’afasia o con l’umiltà estrema della parola: “L’uomo interiore è Dio in noi. Non sono i testi sacri che illuminano l’uomo interiore, ma l’universo: è l’uomo interiore che illumina i testi sacri”(13); la lettera, per Vannucci, da sola non basta, se non trascesa incessantemente nella parola. Ricercare l’Uno nel molteplice, vederlo rifranto nel divenire, nel superamento della dualità, è così ritornare al precategoriale, all’infinito, all’invisibile. Là dove la ragione categorica si arena (ma Vannucci non disconosce affatto il paradigma della mente, delle sue conquiste e dei suoi risultati) (14), si apre il potenziale immenso della creatività dello spirito verso il quale ci si dirige più che con l’educazione e la preparazione interiore, nel dilatarsi di sé, l’aprirsi a quelle onde che vengono dall’alto. Ma è necessaria la sosta, il prender distanza, come anche nell’esperienza poetica, dal “caos del mondo meccanico”(15), dall’apparato del mondo che soffoca il vero mondo sottostante, occultato dalle costruzioni della ragione strumentale. La preghiera poetica di Vannucci è così un ritornare alla casa originaria, alla Urdoxa che è il sapere semplice, primigenio, radicato nel mondo della vita. Tolta all’uomo “la speranza del ritorno a casa, allora non ci sarà più alcuna distinzione tra lui e la macchina”(16), perché la macchina, anche la più perfetta e sofisticata, non potrà mai avvertire il richiamo del ritorno, l’anelito a ricongiungersi alla dimora dell’uomo. La preghiera è la via verso la dimora, il nostos, il sentiero che Plotino definiva solus ad solum, cammino unico e solitario, verso la pienezza. Questo transito compare in tutte le religioni, anche se detto in altre lingue e consegnato a diverse icone; l’Uno, l’invisibile in noi, l’alterità che non siamo più: il Tat tvam asi ( “E tu non sei che quello”) nel buddhismo della Chandoya-Upanisad, e la formula evangelica dell’inserzione nell’unità (“Tu, Padre, in me, ed io in Te; perché anch’essi in noi siam tutt’uno”, Gv, 17, 21). Anche il canto di Vannucci strappa l’uomo dalla nicchia della ripetizione dislocandolo su un altro piano, sul quale tuttavia non si senta straniero e disorientato. L’io tende all’Uno, come il molteplice cerca sempre un alveo entro cui incanalarsi. La preghiera, che sempre nasce dalla percezione dell’io lacerato e separato, è tensione verso l’unità, verso la composizione di ciò che è frantumato e disperso. Sorta da una condizione di mancanza e bisogno, di dubbio estremo e solitudine, la preghiera intercetta i fili misteriosi del cosmo, connette la
microvicenda umana alla macrostoria del cosmo. “Dio si è unito all’umana natura, / la parte si annienta nel Tutto,* / il finito nell’infinito, il tempo nell’eternità” (17). Una lunga e laboriosa sedimentazione culturale e antropologica fa da sfondo alla preghiera poetica di Vannucci, alla vicenda della sua stessa scrittura. La parola è simile ad un tessuto composito, ad un ordito complicato. Nel suo porgersi, nella preghiera e nella poesia, attua una rottura ontologica (18) rispetto all’asse consuetudinario entro cui si consuma la normale prassi del linguaggio. Essa si manifesta per eccesso, per un sovrappiù semantico, secondo una logica di infinitazione del senso sfuggente alla comunicazione, che sempre richiede un ordine, un codice di legalità. Così in Vannucci il gesto spirituale e poetico (ove preghiera e poesia si incontrano e si fondono) riflette nelle sue umbratili impronte l’archetipo del pellegrinaggio, di un cammino che richiede una forte adesione e una forte ascensione. Il principio verso cui ci muoviamo non è definibile, non è nominabile (19). L’apprensione del mondo s’arresta. Il nascosto appare solo per qualche attimo pur restando costitutivamente inaccessibile, inafferrabile. La prensione del mondo mi sfugge, l’universo si raccoglie nella sua filamentatura estrema, nella sua recitazione primordiale. Raccogliersi e distendersi sono i due movimenti opposti ma complementari della poesia e della preghiera. Poeta e mistico praticano la via del ritorno, del riandare all’essenza, con un habitus e uno stile che Cristina Campo chiamò la sprezzatura (20), che prevede l’oblio del mondano e che Husserl indicò nell’esercizio filosofico della riduzione fenomenologica. Un lessico essenziale e un reticolo di parole scarne, come scolpite nel cuore della roccia, disegnano l’altissimo canto a Maria, segno di una avarizia e radicalità della lingua interiore che muove dai grandi e attornianti continenti del silenzio: “O immacolata! / Tu che sei oltre le stelle, oltre le grandi gerarchie, / oltre la vita, oltre la morte, / oltre l’infinita teoria delle forme, oltre … / risplendi tu nelle nostre coscienze / e guidale là dove tutto l’effimero si cancella, / là dove tutto in umiltà fiorisce, / là dove è solo silenzio” (21). La percezione del silenzio, dimensione alla quale Vannucci presta grande attenzione, non si manifesta per via intellectualis, la quale tende a solidificare il dualismo corpo-mente, ma nell’abbandono allo Spirito come tempo in cui avviene la ricomposizione della vita divisa e lacerata e la riappropriazione della nostra viva identità. Viviamo un’esistenza frammentaria, come spogliati e derubati, in preda ad uno stordimento che ci pare ovvio, normale. L’esercizio del silenzio, di cui la preghiera si nutre, riapre le vie chiuse dell’essere e ci riporta su quella soglia di consapevole connaturalità e comunione profonda che l’esistenza ordinaria rimuove e annulla, a quella voce che non sentiamo più. Questa nuova e più alta dislocazione disegna l’ordine di un altro mondo di cui, imprigionati nell’abitudine e nella vita
meccanica, non avvertivamo più la presenza, nascosta e misteriosa, ma operante entro di noi. Il silenzio ci coglie in quella condizione di intreccio e di incrocio con la terra e il cielo, ove noi siamo solo un punto di quell’infinito intersecarsi: “Nel silenzio immutabile dell’eternità / io sono in te, Signore, / immobile beatitudine; / voglio sparire nella tua coscienza suprema / e vederti nelle particelle raggianti del mio essere/. Per il momento questa è la pienezza /della tua vita e della tua illuminazione. / Io ti vedo, io sono in te, io sono te. / Fra questi due estremi / il mio amore intenso aspira te. / e così sia”(22). L’intenzionalità ci porta ad aprirci, a lasciar entrare e al contempo liberare le forze vive che sono in noi e fuori di noi. Non siamo mai al centro, ma abitiamo sempre le periferie dell’essere, decentrando continuamente la nostra collocazione. Questo status periferico dell’uomo rispetto al sistema dell’universo e al mare dell’infinità (rieccheggiante riflessioni che furono della filosofia di Giordano Bruno), configura in Vannucci quella poetica della tenda e della erranza, sempre in movimento oltre l’ultima sosta, che attraversa la sua preghiera. La forza di questo incessante spostarsi, procedere, accamparsi è la bellezza, impulso spirituale e telos non rappresentabili e visibili mediante un’estetica della descrizione. La bellezza è un’idea, un simbolo, non coincidente in una sensibile morfologia, e proprio in quanto mai definita e conclusa in una forma, ancor più seducente e struggente nel nostro desiderio: “il nostro destino è l’Infinito, dobbiamo dare un corpo allo Spirito per renderlo reale”(23). Il volto invisibile della bellezza si esprime nel policentrismo dell’Uno, nella sua inafferrabilità ed evanescenza, nel suo indefinito proporsi e ritrarsi: “La bellezza naturale è reale, benchè fragile”(24), scrive Endokìmov, anche quando pare concentrarsi nelle forme di un’icona o catturata nel cuore di una parola. Nel suo apparente solidificarsi e concretarsi essa è già altrove. La comparsa della bellezza accanto a noi è così fragile ed insicura da indurci a camminare oltre, al di là della stazione ove essa è apparsa, come ad inseguirla. La vera bellezza è così nella mancanza, nel vuoto, che ci fa chiamare, invocare, desiderare. Quel volto sfuggente è già più avanti di noi. Ancora è per Vannucci la figura del viandante che sposta sempre oltre la sua tenda, la cifra rivelatrice del mistero. L’infinito tempo e l’infinito spazio diventano la nostra vera casa (25). L’avvertimento della finitezza umana è colto nella sua più cruda evidenza, nella sua disperante angoscia, chiusi come siamo nella rete dei giorni, di un tempo breve e inesorabile: “Breve è il giorno, / perché ricolmarlo di pene, riempirlo di cruccio? / Effimeri siamo, chiusi tra l’aurora e il tramonto, /abbiamo appena poche ore per vivere“(26). Ed è proprio dalla misura dell’estrema contingenza dell’evento umano, che s’apre il canto invocante, risuonante su un altro piano, dove l’irriducibile caducità
del singolo si lega e si salda a più ampie sporgenze, al tempo largo dell’attesa, il kairòs, il tempo propizio, il varco e l’apertura che si offrono all’uomo anche con il volto della fatica e del male: “O via, verità e vita, accogli noi viandanti, noi cercatori*, noi che vogliamo vivere sempre”(27). Non un vitalismo ubriacante è la via, ma un tempo disteso e dilatato, dove i frammenti non perdono mai la speranza di ritrovare l’Unità e il respiro eterno.
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G. Vannucci, Respiro eterno, Introduzione. La via della preghiera, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1999, p. 5. D’ora in poi riportato con la sigla RE. L’asterisco (*) che talora accompagna i versetti di alcune preghiere, compare nell’edizione sopra citata e come tale lo riportiamo. Ivi, p. 5. G. Vannucci, Il libro della preghiera universale, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1978. A proposito di questo libro, Fabio Cuniberto parla di una “grandiosa orazione polifonica”, scandita sui ritmi e le alternanze della “concordia discors”; (cfr. F. Cuniberto, Ecumenismo e nuova era. Riflessioni sul paradigma planetario, in “Filosofia e teologia”, 1993, pp. 397-413). RE, p. 8. G. Vannucci, Mistero del tempo, presentazione di A. Andriotto, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1996. La tonalità prevalente nel libro è la descrizione speculativa e storica del tempo qualitativo, il cui movimento si situa, pur non combaciandovi mai, nel tempo quantitativo. “La storia religiosa dell’umanità ci attesta, nelle sue numerose figure, che il cammino dell’uomo è una continua successione di qualità che nascono, crescono, muoiono dopo aver dato i loro frutti, lasciando il posto a una nuova qualità che completa la precedente e la porta alla sua perfezione” (pp.13-14). M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Note di lavoro, ed. italiana a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 1969. Scrive il fenomenologo francese sulla reversibilità: “Solamente grazie ad essa c’è passaggio dal ‘Per Sé’ al Per Altri – In realtà né io né l’altro siamo dati come positivi, come soggettività positive. Si tratta di due antri, di due aperture, di due scene in cui accadrà qualcosa – e che appartengono entrambi allo stesso mondo, alla scena dell’Essere” (p.297).
G. Vannucci. Magnificat, in D.M.Turoldo-G.Vannucci, Santa Maria, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1996, p. 89. Scrive Vannucci, in un esplicito richiamo ad Eckhart: “Meister Eckhart descrive questa necessaria operazione con un termine intraducibile nella nostra lingua, ma che cercheremo di capire. Egli dice che la mente, passando il limite che separa il mondo profano dal mondo sacro, deve ent-werden: werden è il divenire e, con il prefisso ent, può tradursi ‘contro-divenire’, ‘ dis-disvenire’”. 8 RE, p.55. Su questo tema dell’oltre, essenziale nella meditazione vannucciana, si veda anche in RE, cit., p. 93 e, diversa nell’impianto linguistico ma omogenea nella tonalità tematica, la preghiera riportata alla nota 36, in G. Vannucci, Ogni uomo è una zolla di terra, prefazione di A.M. Camici, Borla, Roma, 1999, pp. 200-201. 9 RE, p. 10. 10 p. 130. 11 Rumi, Evoluzione, in Poesie mistiche, introduzione, traduzione, antologia critica e note di A. Bausani, Rizzoli, Milano, 1980, p. 55. 12 RE, p. 80. L’apertura cosmica, l’attenzione al creato in tutte le sue forme viventi ed esistenti, è centrale nella riflessione e nella scrittura di Vannucci. Anche le sue preghiere sono tensione verso l’universale, ricomprensione di ogni figura, anche inorganica, in cui si è depositata la vita; si veda nelle sue parole la ricorrenza e l’insistenza di termini appartenenti al mondo geologico, vegetale e animale, alla natura anche extraumana, come nel testo di apertura a RE, cit., dedicato alla presenza creatrice, canto nel quale vengono convocate e viene dato un nome a tutte le forme del creato (“Nominammo le stagioni e abbiamo considerato / le piante di tutte la terra,*/ secondo il tuo comando. / Le erbe più minute e i semi:* / a tutti abbiamo /dato un nome, perché fosse ordine sulla terra” (p.50). La coralità e polifonia dell’universo, “l’infinita varietà delle cose” (RE, p.53) , “l’universo fervente di vita” ( ivi, p.55), “i profondi segreti della materia” (ivi, p. 50), sono fonti di meraviglia e stupore, di continuo incanto e ringraziamento e suscitano rispetto e responsabilità verso il Tutto. L’io umano non è separabile da quella concertazione di forze e di forme con le quali interagisce e in cui si specchia: “Io sono le stelle del cielo, / gli abissi del mare, / le zolle delle pianure /, le spighe del raccolto, / le acque sorgive …” ( ivi, p. 63). Riguardo al nesso umano- nonumano, si vedano anche le feconde considerazioni di Sandro Mancini miranti a stabilire, in base al principio della correlazione universale, un equilibrio e una osmosi, un circuito di relazionalità tra ogni forma di vita: “L’identificazione primordiale, mediante cui l’uomo si scopre tutt’uno con la globalità dei viventi, disocculta nessi orizzontali e circolari, che rivelano l’uomo stesso partecipe di una 7
correlazione universale, di cui egli non è che uno degli infiniti nodi, nessuno dei quali può ergersi a centro privilegiato di senso” (S. Mancini, Umano e nonumano tra vita e storia, Mimesis, Milano, 1996, p. 17). 13 G. Vannucci, Preghiere alle Stinche, Edizioni CENS, Milano, 1987, p. 67. 14 G. Vannucci, Invito alla preghiera, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1979; “Il nostro pensiero è sempre qualcosa di aggiunto al nostro io interiore. La mente è lo strumento che ci serve per il dominio dell’universo, per la scoperta delle leggi dell’esistenza …” (p. 16). L’uomo è quindi, per Vannucci, più grande ed esteso del sistema mentale di cui è attrezzato e del quale conosciamo solo una parte del funzionamento. Il legame dell’umano col mentale si configura così in Vannucci come inerenza del tutto alla parte, escludendosi una stretta gerarchizzazione dell’uno all’altra. E tuttavia l’opera di Vannucci, nel suo riscoprire il contenuto sapienziale dell’umanità consegnatosi nelle forme delle religioni, configura una critica alle degenerazioni e agli eccessi dello scientismo occidentale, di cui la nostra civiltà sta subendo le conseguenze, destinate a ripercuotersi, se non interverranno profonde correzioni di paradigma, sulle generazioni future; (su questo argomento vedasi l’ampia discussione di F. Cuniberto, nell’articolo citato nella nota 3 e alla quale si rimanda). 15 Ivi, p. 15. 16 p. 31. 17 RE, p. 107. 18 G. Vannucci, Pellegrino dell’Assoluto, Edizioni CENS, Milano, 1990, p. 187. Vannucci dedica non poche pagine alla riflessione sul tema della parola accostando sapientemente parola sacra e parola poetica nel comune destino di tendere ad una significanza pura. La condizione della purezza di cuore è la via verso l’Invisibile, l’Inaudibile, l’Inesprimibile (cfr. Mt, 5, 8 , “Beati quelli che sono puri di cuore: essi vedranno Dio”). 19 Ivi, pp. 125-126. Vannucci scrive che “nel principio esiste una coscienza senza nome, senza limiti, sorgente della vita, luce non polarizzata, amore illimitato e illimitabile; le creature nel loro indefinito numero, nelle loro innumerevoli forme, sono come una limitazione, un frazionamento dell’unità assoluta del principio. Essendo la forma di ogni essere creato una misura e una quantità”. Proprio in quanto giacenti nel frazionamento e nella limitazione, le creature nella preghiera tendono a ritrovare l’unità spezzata, di cui avvertono, nella dispersione, la nostalgia. 20 C. Campo, Con lievi mani, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 100. Scrive la Campo della sprezzatura: “Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai
beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto”. All’amicizia e frequentazione che ci fu tra Cristina Campo e Giovanni Vannucci fanno rapido cenno alcune lettere della poetessa all’amica Margherita Pieracci Harwell, raccolte nel volume Lettere a Mita (Adelphi, Milano, 1999; vedansi in particolare la n.115, p.129 e la n.144, p.158, nonché la nota esplicativa della Pieracci, curatrice del volume, a p. 346). 21 RE, p. 110. 22 p. 69. 23 G. Vannucci, Dal silenzio delle Stinche, Edizioni CENS, Milano, 1995, p. 38. 24 P.V. Endokìmov, Teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1990, p. 62. “La bellezza naturale è reale, benchè fragile. Per questo al vertice dell’essere sta la bellezza personalizzata in un santo che diviene il centro ipostatizzato della natura quale ‘microcosmo’ e ‘microtheòs’”. 25 G. Vannucci, Lo spazio di Cristo, in Ogni uomo è una zolla di terra, cit., p. 202 ; “lo spazio di Cristo è l’infinito tempo, l’infinito orizzonte, è il sempre oltre”. Questa radicalità assoluta spinge continuamente Vannucci a guardare oltre le forme di una peraltro ineludibile temporalità e dell’involucro storico diacronicamente assunto dalla parola; così ancora, “Gesù Cristo è il nontempo, l’inesprimibile, il non-nominabile che le figure storiche cristiane hanno tradotto nel tempo, nelle ideologie, nelle morali, nelle istituzioni, dandogli delle espressioni e dei nomi”, “la crisi religiosa odierna investe tutte le densificazioni che il tempo ha creato attorno alla realtà non-temporale di Cristo”, (G. Vannucci, L’era dello spirito, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1999, p. 107). 26 RE, p. 116. 27 p. 83.
Padre Turoldo era un grande amico di padre Giovanni, ed anche questa sua poesia è grande!
Per il mattino di Pasqua I Io vorrei donare una cosa al Signore, ma non so che cosa. Andrò in giro per le strade zufolando, così, fino a che gli altri dicano: è pazzo! E mi fermerò soprattutto coi bambini a giocare in periferia, e poi lascerò un fiore ad ogni finestra dei poveri e saluterò chiunque incontrerò per via inchinandomi fino a terra. E poi suonerò con le mie mani le campane sulla torre a più riprese finché non sarò esausto. E a chiunque venga - anche al ricco – dirò: siedi pure alla mia mensa, (anche il ricco è un povero uomo). E dirò a tutti: avete visto il Signore? Ma lo dirò in silenzio e solo con un sorriso. II Io vorrei donare una cosa al Signore, ma non so che cosa. Tutto è suo dono eccetto il nostro peccato. Ecco, gli darò un’icona
di David Maria Turoldo
dove lui – bambino – guarda agli occhi di sua madre: così dimenticherà ogni cosa. Gli raccoglierò dal prato una goccia di rugiada è già primavera ancora primavera una cosa insperata non meritata una cosa che non ha parole; e poi gli dirò d’indovinare se sia una lacrima o una perla di sole o una goccia di rugiada. E dirò alla gente: avete visto il Signore? Ma lo dirò in silenzio e solo con un sorriso. III Io vorrei donare una cosa al Signore, ma non so che cosa. Non credo più nemmeno alle mie lacrime, e queste gioie sono tutte povere: metterò un garofano rosso sul balcone canterò una canzone tutta per lui solo. Andrò nel bosco questa notte e abbraccerò gli alberi e starò in ascolto dell’usignolo, quell’usignolo che canta sempre solo da mezzanotte all’alba. E poi andrò a lavarmi nel fiume e all’alba passerò sulle porte di tutti i miei fratelli e dirò a ogni casa: "pace!" e poi cospargerò la terra d’acqua benedetta in direzione dei quattro punti dell’universo,
poi non lascerò mai morire la lampada dell’altare e ogni domenica mi vestirò di bianco. IV Io vorrei donare una cosa al Signore, ma non so che cosa. E non piangerò più non piangerò più inutilmente: dirò solo: avete visto il Signore? Ma lo dirò in silenzio e solo con un sorriso poi non dirò più niente.
.. erano le 13 e 10 di Lunedì 19 aprile del 1976
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FRAMMENTI tratti da “Meditazioni Cristiane” di
padre Giovanni Vannucci *****
L’uomo non avrà altro Dio se non il solo Dio che in lui ha preso la carne umana. Da quel momento in poi l’alzare gli occhi verso un aldilà o un al di sopra per cercarvi la vita e la luce, sarà un gesto privo di senso. La vita e la luce sono discese, illuminano ed animano chiunque venga all’esistenza. *****
Perché siamo tanto titubanti nell'accettare la nostalgia del ritorno all'Unità, il sogno di un amore senza disillusioni, come componente essenziale del nostro essere uomini? Perché i sentieri della terra separata sono più allettanti, e li ricalchiamo anche quando ci hanno lasciato con le mani vuote ed il cuore devastato? Il flauto geme, sognando il canneto da cui fu reciso, il suo suono è nostalgia del canto dell'acqua dov'è cresciuto, del vento che dolcemente e fortemente giocava con lui, del sole che cangiava in oro la sua veste. La carne, sognando lo Spirito che l'ha animata, ne implora appassionatamente il bacio, bramando l'estasi suprema.
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IL PANE
Nessun simbolo meglio del pane avrebbe potuto indicare la natura essenziale di Gesù Cristo. Il pane frutto dell'incontro del cielo, della terra e del lavoro umano. …… È il simbolo di Gesù Cristo, uomo-Dio, persona umana che si annulla nell'immensità divina, persona divina che si consuma nel cuore dell'uomo per dargli la forza di ascendere nella pienezza della vita. Consumando il pane e bevendo il vino, carne e sangue del Figlio di Dio, l'uomo si appropria di quell'energia divina che lo trasmuterà nell'amore-passione cristiano, fino a renderlo pane nutriente sulla mensa delle creature. Trasmutarsi in pane, significa trasfigurare il nostro piccolo io" in quello universale di Gesù Cristo, cosicché il mistero di Cristo perpetuandosi nella ripetizione del gesto: "Mangiate, questo è il mio corpo", si attua nella trasformazione del cristiano che, frangendo il suo essere, diventa pane che sfama l'altrui fame. Per divenire pane, è necessario il superamento degli innumerevoli desideri, dei limiti costruiti dal nostro "io" separato e separante, e costruire la nostra dimora nell'immensità della coscienza dei figli di Dio. Molteplici sono le forme del desiderio, da quelle più dense come la bramosia delle ricchezze, dei piaceri, del successo, a quelle più sottili come la realizzazione delle nostre speranze, sogni, ideali, fino al più insidioso, il desiderio della santità.
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PERDERE E SALVARE LA VITA Esiste una società soddisfatta, ordinata, senza un domani, priva di slancio, noiosa. È la società delle anime morte. Esiste un cattolicesimo soddisfatto del suo ordine, delle posizioni raggiunte: qualche pratica di pietà, qualche sacramento, l’olio santo alla fine dei giorni e la vita eterna assicurata! E il gettare allo sbaraglio la propria anima? E la necessità di salire la Croce? Viviamo in un tempo segnato da un nuovo cammino di Dio. Un mondo tramonta, Dio sta portandoci verso una novità più vasta ed intensa. Tempo di lotte, di crocefissioni. I custodi di una divinità che non è più, innalzano croci e aprono nuovi sentieri per più numerosi calvari. Se in noi c’è l’apertura verso la novità di Dio, non avremo paura di gettare l’anima allo sbaraglio.
Se in noi prevale la nozione di un cristianesimo comodo, quieto, uniforme, non ci muoveremo nella direzione di Dio e perderemo la vita volendola conservare.
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LE DUE COMPONENTI DEL CRISTIANESIMO STORICO Nella simbolica cristiana si hanno due figure che rivelano le due possibili derivazioni del fatto cristiano: Giovanni, la ragione illuminata e fecondata dalla Presenza del Risorto, e Pietro, la ragione concretizzante, ma incerta e dubbiosa e nella continua tentazione di seguire più "le cose degli uomini che quelle di Dio" (Mc 8, 33). Giovanni segue Cristo sul Calvario, Pietro rinnega Cristo e lo abbandona nel momento in cui gli era domandata la fedeltà semplice ed assoluta. Ora possiamo comprendere le ultime parole della pagina del Vangelo riportate dianzi: "Quando eri giovane ti mettevi da te la cintura ed andavi ove volevi, quando sarai vecchio brancolerai con le mani protese, un altro ti metterà la cintura e ti condurrà dove non vorrai". Questo il Signore disse per indicare di qual morte sarebbe morto Pietro". Viviamo nel tempo della morte di Pietro, della fine del mito della gerarchia e del dommatismo, e nel tempo della realizzazione cristiana nella nuova èra dello Spirito. Possiamo constatare quanto la "politica", la "ragione dommatica" abbiano legato Pietro, ormai trascinato dalle sue opere ad andare dove non vorrebbe!
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LA NOSTRA RESURREZIONE "Più piccolo delle cose piccole, più grande delle cose grandi, il Sé è nascosto nel cuore delle creature. Chi non è agitato dal desiderio, libero dal dolore e con tranquilla mente, lo vede."
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IL REGNO Questa gioiosa apertura a Cristo-Vita, ci prepara all'unione con lui. Non un fiore che ci offra la sua bellezza, non un canto di uccello che ci renda sognanti, non un'alba od un tramonto, non uno sguardo d'amore ci trovino muti nel ringraziare. Quando il Regno sarà in noi, con danza gioiosa entreremo in cosciente armonia con l'universo, e più viva sarà la forza di dedizione e di offerta in noi. Vivrà in noi Dio. La nostra vita sarà eucaristia, gioia cioè della nostra transustanziazione nel Pane della Vita.
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LA PREGHIERA "Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà in terra così come nel cielo". ---------La terra, è la dimensione della coscienza creata, lo spazio ove fermentano le forze oscure della vita. In essa esiste una duplice possibilità, quella di chiudersi in se stessa, nella sua esistenza, di tagliarsi fuori dall'essenza, di trincerarsi dentro il baluardo delle cose possedute, e quella di dischiudersi alla presenza del Padre che è, per scoprire in sé le forze creatrici del divino. In questa apertura, finisce la finitezza; il senso dell?avere, del possesso vien travolto dall'onda dell'essere; le barriere dell'egoismo abolite; il regno della terra si spegne nel Regno divino. Tutto diviene immenso, la piccola vita ordinaria perde il suo aspetto insignificante, il tedio del vivere quotidiano dileguato nella gioia dell'Essere. Niente viene mutato nelle umili e ordinarie contingenze dell'esistenza, ma tutto è cambiato dalla percezione intima della miracolosa realtà del Regno di Dio in noi. Non è più alterata dai piccoli calcoli, dalle paure dell'oggi e dai domani, dai dubbi, dalla sfiducia, non essendo più ormai divisa da forze in contrasto, ma unificata dalla presenza della vita indistruttibile.
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LA SPOGLIAZIONE DELLE FALSE LUCI
Domandiamoci: cos'è la fede? Per rispondere, mettiamo da parte le definizioni apprese dal catechismo, dalle istruzioni, dallo studio. Esse sono delle pure formule di linguaggio, ma non sono la fede.La fede nasce dal raggiungimento della totale spogliazione: divenire mendicante e cieco. Mendicante senza sostegno alcuno; cieco per spegnimento delle pupille alle luci terrene. Disancorarsi da tutti i porti terreni: ricchezze, teorie, visioni e interpretazioni del mondo, sentimenti : non per puro disprezzo ascetico, ma per scoprire la luce di Cristo e ritrovarli nella loro verità essenziale, assoluta. Egli poserà sui nostri occhi ciechi la mano e vedremo la sua luce e nella sua luce tutte le creature, le realtà dalle quali ci siamo allontanati e appariranno nuove, più viventi, in una chiarezza e in una libertà che inattese rivestiranno il nostro essere. Incontrare Cristo significa essere illuminati dalla sua luce, resi vivi dalla sua vita. In questo stato libero da ogni forma, è la realtà del rivolgimento cristiano, la realtà della preghiera che non è mendicare ma intensificare le forze della vita."E il cieco poté vedere e si mise a seguire Gesù".
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LA VITA E LA LEGGE Le opere dell'osservanza religiosa non sono forse un meccanismo di difesa del nostro "io" contro l'angoscia di affrontare, con cuore libero, il mistero di Dio? Questa è la domanda che Gesù rivolge a tutte le forme del fariseismo. E l'incontro di Dio con la coscienza del Pubblicano ci rivela che il compimento dei doveri non costituisce la fede; questa erompe da un'interiorità libera da ogni sovrastruttura ed è il dono offerto al cuore umile e pronto.
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IL DESERTO Cosa sia il deserto geografico più o meno lo sappiamo, cosa sia lo spazio deserto dove ci è concesso l'incontro con il Santo dei santi non lo sapremo se non intraprendendo con le nostre mani il lavoro per edificarlo in noi, se non iniziando quell'opera di distruzione che ci permetta di trovarci nella solitudine totale dove potremo contemplare il volto dell'Invisibile e ascoltarne la voce.
Cos'è questo deserto, questa solitudine, quest'annullamento di tutte le forme, questospegnimento di tutte le bramosie che costituisce il punto dell'incontro con Dio? Chi haavuto la grazia ed il coraggio di approdarvi, o tace rivelando il sorriso di colui che sa l'esperienza estrema vissuta, o, se parla, le sue parole sono talmente differenti da essere comprese solo da chi ha orecchie capaci d'intenderle. Il deserto è la dimensione ove tutte le forme sono abolite, ove l'uomo può finalmente vivere spoglio di tutte le vesti della cultura e sentire la parola che risuona al di là di tutti i linguaggi, vibrare insieme alla verità che è oltre le false verità, divenire voce che comunica il messaggio di Colui che vive nel silenzio. Com'è difficile entrare nel deserto! Il deserto è il duro, intransigente, direi selvaggio spogliamento di noi stessi: delle nostre vesti, dei nostri possessi, dei nostri amori, dei nostri sentimenti, della nostra cultura, delle nostre vedute, è riconoscere con terrore che tutto quello in cui umanamente crediamo è falso. Affrontando la notte dell'amara rinuncia a tutto dal nostro io a quello che amiamo, dalle nostre accarezzate idealità al successo delle nostre iniziative. "Appianare la via del Signore " è provocare l'abbandono di tutte le cose, di ogni essere creato e rimanere soli in attento silenzio per cogliere la Parola che risuona nel deserto.
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I VIRTUOSI E L'ADULTERA Perché il bacio di Dio si posi sulle labbra del pellegrino assetato di assoluto, è richiesto che l'"io individuale" non abbia più dove posare il capo, bruci impetuosamente ogni sostegno che lo tiene legato a se stesso, muoia come entità separata e sia solamente vita nell'immensità della vita divina. Certo, non sono gli impeccabili virtuosi che incontrano Gesù, ma Zaccheo, il peccatore, cosciente della sua indegnità, o la donna adultera, che nell'incontro con Gesù ritrova il senso e la direzione delle sue capacità di amare. Il miracolo della Grazia si compie in chiunque realizza nell'umiltà il proprio nulla, e, non osando chiedere nulla e nulla più attendendo, offre la possibilità interiore a ricever tutto.Questo è la cruna d'ago nella quale i dotti e le anime belle non entrano e non lasciano entrare.
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LE TENTAZIONI Satana è la subdola presenza che lusinga la coscienza umana a rimanere chiusa in tutte le costruzioni individuali e sociali, dove l'"io" vive una tranquilla e indisturbata quiete. Lo Spirito, invece, è la presenza creatrice che, distruggendo i comodi ripari, spinge l'uomo a perdere la propria vita per ritrovarla centuplicata in più vasti spazi di coscienza.
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I MAGI La religiosità, nella sua essenza, è l'incontro della coscienza umana con la coscienza infinita del divino. Una religione è una rivelazione particolare, limitata ad un particolare momento dello sviluppo, del divenire redentivo della coscienza umana. La prima rimane incommensurabile alla seconda, come il contenuto alla forma. Gli spiriti religiosi sono sempre aperti a seguire le nuove manifestazioni del divino che stimolano in loro una più vasta dilatazione della coscienza.Quando la religiosità si trasforma in religione storica, si complica in dottrine, in precettistiche, in riti, in caste sacerdotali autoritarie, e viene a perdere la potenza mistica della rivelazione iniziale. La Rivelazione continua il suo cammino di redenzione oltre le costruzioni che, per un tempo, l'hanno accolta e trasmessa. Il pensiero umano e i suoi edifici sono un processo di continuità nella durata, per questo non è loro possibile fissare per sempre la Rivelazione vivente sempre nuova. Le religioni storiche sono strutturazioni della Rivelazione, la religiosità è il germe che si sviluppa nell'intimo dell'uomo. L'ideale sarebbe il permanente incontro delle strutture e del germe: avremmo delle religioni viventi. L'oro, la luce minerale, evoca il sole: fecondità, regalità, ricchezza, calore, amore-dono, irradiamento di conoscenza e di vita. "Se vi lascerete fecondare dall'amore che ho ricevuto dal Padre, sarete insieme trasformati nell'onda feconda dell'amore... Vi comando di rimanere uniti nell'amore che vi ho affidato" (parafrasi di Gv 15, 12-17), dirà un giorno Gesù. La regalità del Fanciullo è una grandezza senza potere, un'autorità capovolta, l'autorità del Fanciullo, dell'inerme, del debole che domanda amore e risveglia l'amore. Una regalità che non appartiene al mondo della potenza e della violenza.
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LA SPOGLIAZIONE DELLA VITA Dare la vita per conoscere ed essere conosciuti, è il rovesciamento cristiano di tutte le possibili impostazioni di vita. La forma di esistenza pagana ritiene per sé, come avido possesso, la vita; la forma di esistenza cristiana dona la sua vita per gli altri, stabilendo così una conoscenza reciproca, quale scambio e comunione. Dare la vita, non un insegnamento. Quando consumiamo il pane, ci dà energia di vita e in tal modo ci conosce. Il pane non ci impone la sua forma, si distrugge come ritmo e forma peculiare nel nostro ritmo e forma. Anche noi dobbiamo dare la vita, demolire le strutture del nostro egoismo, metterci su una base che renda più vivo e saldo il nostro vivere. Conosce veramente Cristo chiunque ha la coscienza aperta verso gli altri. Si è tentato di liberare l'uomo dal suo egoismo e farlo vivere per la comunità da parte delle forme comunitarie della Chiesa come dei movimenti comunisti, umanitari, fascisti, nazionalisti. Sono tutti caduti, perché la costrizione non può vincere l'egoismo.
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LA VITA E IL PECCATO Ricordo da giovanetto lo sconvolgimento che ebbero le mie convinzioni bibliche quando assistei al doloroso parto di una mucca! La maledizione biblica sul parto doloroso, punizione del peccato di Adamo, si era forse estesa anche ai regni della natura, innocenti per costituzione? Oppure le giustificazioni, teoricamente plausibili, erano un velo tranquillizzante steso su problemi più profondi? Rinnovati dal sangue di Cristo ad una vita diversa, dobbiamo muoverci con quella gioia e con quella fiducia che nella cristianità si sono andate perdendo, via via che la parola evangelica si concretava in precettistiche morali e in prescrizioni canoniche. Oggi fra i cristiani una cosa è quasi universalmente ignorata: la letizia.
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IL NOSTRO DESERTO
Gesù non è commensurabile con nessuna civiltà, chiesa, popolo di Dio. Egli costruisce il suo corpo stimolando ogni cuore verso una vita più vera, un amore più vasto, una libertà più matura e cosciente. Egli non è il limite della vita, dell’amore, della libertà, ma il fondamento della vita immensa, dell’amore sconfinato, della libertà assoluta. ……… Egli è il cuore, l’anima, l’ardore più intenso di tutta la realtà vivente. Egli è nei sogni di pace, di bellezza, di una sempre più vasta verità. ……… Egli è nell’aspirazione alla vita di qualunque soldato che in questo momento muore, ucciso dalle assurde guerre di oggi e di ogni tempo. Egli è nel grido vittorioso del bimbo che nasce al mondo.
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IL RISORTO Il Risorto ha liberato l'uomo dalle tre forze antidivine che sono: il peccato, la legge, la morte. Il peccato, come movimento dello spirito creato che sradica il suo agire da Dio. La legge, come norma che protegge e afferma istinti di avidità e di potenza. La morte, come perpetuazione di forme, sistemi, costumi che arrestano il libero maturare, nella dignità di figli di Dio, degli uomini. Cosa siamo? Un pensare, un sentire, un volere. Perché? Per sviluppare nella comunione attiva e passiva col cosmo la forza del nostro pensare, sentire, volere; e trasmutare, transustanziare il mondo in cui siamo immersi. Quindi veniamo da mondi invisibili e li portiamo con noi; viviamo di essi, con essi nel mondo visibile, per assumerli nella gioia e nel dolore. Camminiamo per le vie visibili della terra verso le realtà invisibili a portarvi ciò che abbiamo assunto e fiorirvi per le ricchezze acquistate. Il seme della vita gettato sulla terra deve svilupparsi con la forza cosciente. E l'uomo è ancora, come forza cosciente, in uno stato embrionale; in lui, più che la coscienza, vibrano, ardono forze che devono essere assunte, armonizzate, elevate.
Credere nella Resurrezione di Cristo è affermazione della vita sulla morte; dello Spirito sulla Legge; della Grazia che è verità, bellezza; amore, sul Peccato che è chiusura, immeschinimento, bruttura.
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LE APPARIZIONI DEL RISORTO Ti ringraziamo, Signore Gesù, di averci mostrato l'inutilità delle discussioni per conoscerti, e indicato il silenzioso gesto della frazione del pane come segno che ti manifesta. Ti chiediamo lo slancio dell'anima per esprimere sempre la tua presenza con la frazione del tuo e del nostro pane. Signore Gesù, togli dal nostro animo il ripiegamento sentimentale e puerile che ci spinge ad invocare la tua presenza quando invece sei presente. Liberaci da ogni forma di invocazione sentimentale. Vogliamo sentirti "presente", "vicino sempre" a ogni alba e a ogni calar della sera.
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http://it.wikiquote.org/wiki/Giovanni_Vannucci
Lo spirito d'avarizia Cristo, prendendo l'occasione dall'avida richiesta di un suo ascoltatore che vedeva in Lui l'autorevole Maestro capace di convincere suo fratello a dividere un'eredità, attacca energicamente lo spirito d'avarizia: «Guardatevi dall'avarizia» (Lc 12, 15), ed enuncia la parabola del ricco stolto: «La campagna di un certo ricco fruttò copiosamente, ed egli cominciò a ragionare così: "Fabbricherò dei granai più vasti, vi riporrò tutto il mio grano e poi dirò all'anima mia: anima, tu hai molti beni riposti per molto tempo, riposati, mangia, bevi, godi". Dio gli disse: "Stolto, questa notte l'anima ti verrà richiesta. Quello che hai messo da parte, di chi sarà?" Così accade a chi accumula tesori per sé e non è ricco di fronte a Dio» (Lc 12, 16-21). La terra ricca di beni aumenta sproporzionatamente le ricchezze di quest'uomo che, logicamente, vede, in questa crescita, una fonte di preoccupazioni. Ha più beni che spazio per riporli; lo spirito d'avarizia gli suggerisce di allargare i granai, di estirparvi le eccedenze dei prodotti, di vivere tranquillo riposando sugli averi i molti anni che sperava di avere. Ma chi l'assicura di poter vivere ancora per lungo tempo? L'avarizia è, tra le passioni, la più stolta e quella che rende sterili, soffoca l'intelligenza naturale e offusca la ragione. L'avaro si crede eterno ed è ossessionato dalla paura dell'avvenire, paventa lo spettro della vecchiaia e lo esorcizza affannandosi ad accumulare beni che pensa di consumare da vecchio. Poi, quando è avanti negli anni e la morte già incombe, continua ad ammassare dei beni che non potrà godere. Morto, i suoi beni saranno dispersi e non otterrà neppure un gesto di gratitudine da chi, senza merito, ne entrerà in possesso. L'avarizia non solo è la più stolta delle passioni, ma anche la più dispotica, investe ogni aspetto dell'anima, distrugge ogni fondamentale ragione di vita spirituale. L'avarizia crea i più irresistibili legami con il contingente e l'effimero. Cristo la sferza risolutamente: «Stolto, questa notte ti sarà ridomandata l'anima tua, e quel che hai riserbato di chi sarà?» (Lc 12, 20). La volontà di potenza, l'egoismo innalzato a sistema, il narcisismo mentale sono le radici sottili e inconsce dello spirito di avarizia. L'avaro vuole dominare il mondo delle forme, vuole divenire padrone dei suoi fratelli schiacciandoli con il peso delle sue ricchezze. Per questo egli accumula con passione le
ricchezze – non vi è cosa che non farebbe per aumentarle – e pensa che il denaro sia tutto, che la potenza economica tenga il posto di ogni altra cosa. Quanto più sarà ricco, tanto più potrà dominare, ma come farà a sapere di essere ricco? L'avaro non lo saprà mai, vedrà se stesso sempre povero, non dirà mai basta all'ingorda fame, e così la volontà di potenza che l'ha sedotto, alla fine lo beffa, muore e il suo tesoro viene disperso. L'avarizia così offusca il lume della ragione e la conoscenza della grazia: più sarai ricco e più avrai potenza. L'accumulare diventa una mania: l'avaro non vede che il possesso, non vive che per possedere, il possesso è per lui il fine supremo. Il possesso, da schiavo, è divenuto padrone e selvaggiamente trionfa. L'avaro non riconosce di esserlo, afferma di essere sobrio, parsimonioso, economo, di dover fare delle privazioni per non mancare ai suoi doveri, di non poter essere generoso perché altrimenti lui stesso dovrebbe mendicare, trova continuamente nuove economie e se ne vanta come di un pregio. Non vi è nulla di più spaventoso della buona fede dell'avaro, ed è questa buona fede che gli uccide l'anima. Gli schiavi di altre passioni finiscono presto o tardi a sentirsi a disagio, le conseguenze delle loro passioni prima o poi li fanno meditare o vergognarsi; la possibilità di riconoscere il proprio peccato è una piccola via di salvezza loro offerta. Ma l'avaro di che cosa può pentirsi o vergognarsi? Frugale per non spendere, casto per economizzare, sobrio per non sprecare, convinto di sacrificarsi per il bene dei lontani eredi, si crea, a maggiore tranquillità, la visione di opere buone cui lascerà, morendo, tutto il suo. Allora si sente un eroe, un santo, un martire. Cristo è spietato con l'avarizia, la perseguita ovunque la trovi, la indica anche nelle forme più innocenti. Egli dice: «Perché siete in ansiosa sollecitudine per il superfluo? Considerate i gigli come crescono, non filano e non tessono: eppure vi dico che Salomone stesso, in tutto il suo fasto, non fu vestito come uno di loro. A cosa ti serve conquistare il mondo se poi perdi l'anima tua? Non pensare al domani, ogni giorno ha la sua pena, soffri quella! Chi può dire di essere padrone del domani? Certamente non lo sei tu; allora perché ti affanni e ti preoccupi? Accumula un tesoro in cielo, dove la tignola non corrode e il ladro non ruba. Cerca il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto ti sarà dato in aggiunta. Il Padre che è nei cieli sa di cosa hai bisogno: sii sollecito di piacere a Lui» (Lc 12, 22-32). (pp. 166-168)
http://www.franoi.net/preghiere/Adorazioni/misteroeucaristia1.htm
MOSTRATI SIGNORE Mostrati, Signore; a tutti i pellegrini dell'assoluto, vieni incontro, Signore; con quanti si mettono in cammino e non sanno dove andare cammina, Signore; affiancati e cammina con tutti i disperati sulle strade di Emmaus; e non offenderti se essi non sanno che sei tu ad andare con loro, tu che li rendi inquieti e incendi i loro cuori; non sanno che ti portano dentro: con loro fermati poiché si fa sera e la notte è buia e lunga, Signore. (David Maria Turoldo)
I DISCEPOLI DI EMMAUS In quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto». Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E
cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Dall’Enciclica ecclesia de eucharistia LA CHIESA VIVE DELL’EUCARESTIA. Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della*Chiesa. Con gioia essa sperimenta in molteplici forme il continuo avverarsi della promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20); ma nella sacra eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa gioisce di questa presenza con un’intensitàunica. Da quando, con la Pentecoste, la Chiesa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza. Giustamente il Concilio Vaticano II ha proclamato che il Sacrificio eucaristico è “fonte e apice di tutta la vita cristiana”. “Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua è pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini”. Perciò lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del suo immenso amore. Nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000 mi fu dato di celebrare l’Eucaristia nel Cenacolo di Gerusalemme, là dove, secondo ?a tradizione, essa fu realizzata per la prima volta da Cristo stesso. Il Cenacolo è il luogo dell’istituzione di questo santissimo Sacramento. E’ lì che Cristo prese nelle sue mani il pane, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Poi prese nelle sue mani il calice del vino e disse loro: “Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. Sono grato al Signore Gesù che mi ha permesso di ripetere nello stesso luogo, obbedendo al suo comando: “Fate questo in memoria di me”, le parole da Lui pronunciate duemila anni fa.
Gli Apostoli che presero parte all’Ultima Cena capirono il significato delle parole uscite dalle labbra di Cristo? Forse no. Quelle parole si sarebbero chiarite pienamente soltanto al termine del Triduo sacro, del periodo cioè che va dalla sera del Giovedì fino alla mattina della Domenica. In quei giorni si inscrive il mistero pasquale; in essi si inscrive anche il mistero eucaristico. b Dal mistero pasquale nasce la Chiesa. Proprio per questo l’Eucaristia, che del mistero pasquale è il sacramento per eccellenza, si pone al centro della vita ecclesiale. Lo si vede fin dalle prime immagini della Chiesa, che ci offrono gli Atti degli Apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (2,42). Nella “frazione del pane” è evocata l’Eucaristia. Dopo duemila anni continuiamo a realizzare quell’immagine primigenia della Chiesa. E mentre lo facciamo nella Celebrazione eucaristica, gli occhi dell’anima sono ricondotti al Triduo pasquale: a ciò che si svolse la sera del Giovedì Santo, durante l’Ultima Cena, e dopo di essa. L’istituzione dell’Eucaristia infatti anticiðava sacramentalmente gli eventi che di lì a poco si sarebbero realizzati, a partire dall’agonia del Getzemani. Rivediamo Gesù che esce dal Cenacolo, scende con i discepoli per attraversare il torrente Cedron e giungere all’orto degli Ulivi. In%quell’Orto vi sono ancor oggi alcuni alberi di ulivo molto antichi. Forse furono testimoni di quanto avvenne alla loro ombra quella sera, quando Cristo in preghiera provò un’angoscia mortale “e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc 2*,44). Il sangue, che aveva poco prima consegnato alla Chiesa come bevanda di salvezza nel Sacramento eucaristico, cominciava ad essere versato; per la sua effusione si sarebbå poi compiuta sul Golgota, divenendo lo strumento della nostra redenzione: “Cristo [...] venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, [...], entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna” (Eb 9,11-12)» Nell’ora della nostra redenzione, fu immensamente provato, Gesù non fugge davanti alla sua “ora: “E che˜devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27). Egli desidera che i discepoli gli facciano compagnia, e deve invece sperimentare la solitudine e l’abbandono: “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (26,40-41). Solo Giovanni rimarrà sotto la Croce, accanto a Maria e alle pie donne. L’agonia nel Getsemani è stata l’introduzione all’agonia della Croce del Venerdì Santo. L’ora santa, l’ora della redenzione del mondo. Quando Si celebra l’Eucaristia presso la tomba di Gesù, a Gerusalemme, si torna in modo quasi tangibile alla sua "ora", l’ora della croce e della glorificazione. A quel luogo e a quell’ora si riporta spiritualmente ogni presbitero che celebra la Santa Messa, insieme con la comunità cristiana che vi partecipa. “Fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte”. Alle parole della professione di fede fanno eco le parole della contemplazione e della proclamazione: “Ecco il legno della croce, in cui era
appesa la salute del mondo. Venite adoriamo”. E’ l’invito che la Chiesa rivolge a tutti nelle ore pomeridiane del Venerdì Santo. Essa riprenderà poi il suo canto durante il tempo pasquale per proclamare: “E’ Risorto dal sepolcro il Signore che per noi è stato crocifisso. Alleluia”.
BENEDICIAMO LA TERRA
In quest'ora del tramonto, ricolma, Signore, di pace il cuore che attende, la mano verso di te protesa. Benediciamo, fratelli, la terra, dove siamo vivi, come alberi forti, dove riposeremo, liberati dal male. Benediciamo la terra per il pane che dona, per i balsami pietosi, per la dolcezza dei lunghi riposi. Benediciamo, o uomini, la terra, mentre passa l'angelo di Dio, annunzia giorni di luce nuova e redenta. Un giorno l'angelo dirà al tramonto della luce terrena: più non tramonta, né sorge il sole, la vita si è fermata a contemplarsi in Dio! Benediciamo, o uomini, la terra, mentre fra stella e stella passa l'angelo della vita e della morte e annunzia che Cristo è risorto, luce senza tramonto. (Giovanni Vannucci)
Il Diavolo Nel « deserto » Cristo e con lui noi uomini incontriamo il Diavolo. Etimologicamente significa quella potenza misteriosa che attraversa il cammino verso Dio. Nella tentazione del deserto l'anima umana viene posta davanti a un bivio: o aderire tenacemente alla permanenza delle forme rifiutandone la distruzione, o accettare quest'ultima per avanzare in nuovi orizzonti vitali. Il Diavolo è il missus dominicus che accompagna la nostra vita, per mettere alla prova la nostra volontà di andare sempre oltre le forme. Quando in esse ci chiudiamo, diveniamo i servi del Diavolo. L'opera del Diavolo è essenzialmente un'opera di vessazione, di disturbo. Le vie attraverso le quali compie la sua vessazione sono quelle mentali: la fantasia sbrigliata; l'immaginazione non sorretta da una profondità e rettitudine morale; la memoria tesa a rivangare o ad abbellire il .passato; l'ansia del domani che è una forma assunta dall'immaginazione. Sottili e multiformi sono le sue vessazioni. Può presentarsi all'immaginazione con le vesti della bontà, della virtù, della giustizia. Uno che lavora accanitamente per accumulare denaro, si rassicura che lo fa per provvedere al domani, alla malattia, alla vecchiaia, e non pensa che è mosso dall'avarizia. Uno lotta per la giustizia, per i princìpi morali, convinto di lavorare per gli alti ideali umani, e non riflette che obbedisce al suo istinto di potere. Uno si sente impegnato a propagare .la fede e non si accorge di lavorare per l'affermazione di se stesso o delle sue ideologie. Tutto ciò che lega l'uomo a un interesse terreno, distraendolo dal suo vero destino umano, è vessazione diabolica. Si potrebbe dire che il Diavolo è il risultato della malvagia volontà di tutte le cose, il risultato del non voler guardare con occhio sereno e libero l'ombra che accompagna ogni nostra intellezione e volontà di fare. Cristo ci esorta a essere svegli, con gli occhi ben aperti, a pregare per non cadere in tentazione, a non aver paura di chi può uccidere il corpo, a temere chi può distruggerci l'anima. Nei nostri tempi, la vessazione diabolica concerne più la vita sociale che la sfera del singolo, è un modo di vivere, è la società che vive il Diavolo. L'uomo
è disturbato, ossessionato, distratto dalla preoccupazione dei beni terreni, dalla paura di perderli, dall'angoscia che non siano sufficienti. Un'altra azione sottile del Diavolo consiste nel convincere gli uomini che l'impermanente è permanente, che il tempo sia l'eternità. L'uomo così sedotto pensa che le forme siano perenni, che la sua personalità e le sue opere sfidino i secoli. Mentre, per una mente non sedotta la permanenza è irreale, impermanente è la vita, impermanente è la morte, impermanente il pensiero, impermanenti i sentimenti. Prendendo coscienza di questa particolare vessazione del missus dominicus si evita di vegetare nelle forme costituite, si risveglia in noi la scintilla divina che ci ripete: sempre oltre, sempre oltre è la tua dimora. Il Diavolo dice: « Dimora tranquillo nel tuo guscio, riposa sereno nelle tue virtù ». Gesù, il pellegrino senza dimore costruite da mano d'uomo, dice: « Io sono la vita in ogni morte, la morte in ogni vita ». È necessario riconoscere il Diavolo come apportatore di menzogne nell'esistenza, nelle forme, nelle apparenze, in ciò che riteniamo necessario ed è invece inutile. Il Diavolo diventa così il missus dominicus, la pietra di paragone della vita: piccole anime, piccole tentazioni; grandi anime, grandi tentazioni. Senza le tentazioni l'uomo si addormenterebbe; tentato, è spronato ad andare avanti.
I TRE VOLTI DELL’ANTICRISTO Giovanni Vannucci, «I tre volti dell’anticristo», 33a domenica del tempo ordinario. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 222-225.
II brano evangelico di Lc 21, 5-19 non ci annuncia ne una novità, né una scoperta: il mondo va male, ore tragiche incombono sull’umanità. Quasi due millenni or sono Cristo disse: «Del Tempio e dei Templi costruiti dalla mano dell’uomo non rimarrà pietra su pietra [...]. Vedrete popoli scagliarsi contro popoli, incontrerete opposizioni e persecuzioni, sorgeranno dei falsi profeti [...]. Non vi turbate della desolazione che vi circonderà, non pensate neppure alle parole da dire in vostra difesa; non un capello della vostra testa cadrà, vincerete con la vostra perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 5-19). Due millenni hanno confermato ora per ora, istante per istante, la verità di queste parole; esse sono sospese minacciosamente nei cieli, e oggi le viviamo. Segni appaiono nei cieli, segni appaiono sulla terra, gente contro gente, cristiani contro cristiani, fratelli musulmani contro fratelli musulmani, compagni contro compagni, e la desolazione di una terra che va inaridendosi. Di questo stato di cose l’uomo è responsabile e ognuno di noi ha parte in questa responsabilità. Il cristianesimo è milizia, il cristianesimo è una chiara presa di posizione nell’esistenza di fronte ai «molti che verranno in nome mio dicendo: sono io l’atteso, il tempo è giunto, ma voi non seguiteli» (Lc 21, 8). Questi molti Anticristi possono, nel nostro tempo, esser sintetizzati in tre forme, in tre nomi. Uno è l’edonismo: bramosia del benessere e del piacere, avidità del guadagno e della ricchezza, desiderio del quieto vivere, del pingue pascere, del tranquillo dormire. A esso dobbiamo contrapporre la certezza che l’uomo non è solo carne, che non è un bruto, ma che è anima, spirito, coscienza, intelletto e che non può acquietarsi nel pascolare il fango della terra. L’altro nome è la paura: paura dell’uomo, dell’aria che respiriamo, dei poteri terreni, della persecuzione, della morte. Il Maestro ci dice: «Non temete coloro che hanno il potere di uccidere il corpo, temete colui che uccidendo il corpo ha il potere di funestare la parte più vera del vostro essere, l’anima» (cfr Lc 12, 4-5; Mt 10, 28).
Il terzo volto dell’Anticristo, il più atroce e il più inguaribile, è il fanatismo religioso. Quando gli uomini si scaglieranno contro gli uomini in nome di Dio che a tutti è Padre, quando la mano dei sacerdoti si alzerà a benedire le armi omicide, allora è segno che l’abominazione ultima è entrata nel Santuario. Ognuno di noi potrà considerare in se stesso a quale di questi volti appartiene, di quale è schiavo; allora ognuno potrà liberare se stesso, e liberando se stesso libererà coloro che lo circondano. Se siamo schiavi delle ricchezze, ricordiamoci che esse sono pula che il vento spazza. Distribuiamo quanto abbiamo, procuriamo di far sorridere intorno a noi, finché sorridere si può, siamo generosi, divinamente prodighi: «Da’ a chi ti chiede, non domandare il tuo a chi te lo toglie!» (Lc 6, 30), dice il Maestro. Contro la cieca avidità del denaro, contro la folle e cieca cupidigia che muta i figli di Dio in lupi intenti a strapparsi un osso, facciamo della nostra ricchezza, del nostro benessere, un’arma per vincere la battaglia della luce. Se siamo angosciati dalla paura, dalla paura di morire, dalla paura per i nostri figli, dalla paura per i nostri vecchi, ripetiamoci: qual male massimo può recarci l’uomo se non la morte? Ma cos’è la morte se non il volo verso la verità inconcussa, verso la giustizia senza violazione? Non lasciamoci spaventare da niente e da nessuno. Se nel nostro cuore divampa lo spirito del fanatismo, diciamoci che la fede non è un segno di separazione e di discordia, che Dio è l’unione e la concordia dei cuori e delle menti. Qualunque sia la nostra religione, qualunque sia la nostra idea politica, esse valgono la religione e le idee politiche dei nostri fratelli. Guardiamoci dallo spirito fanatico, dallo spirito di violenza che ci fa guardare una parte dell’umanità come nemica di Dio. Dio non ha nemici, e nessuno potrà esserci nemico se guardiamo a tutti gli uomini con gli occhi del Padre. Questi tre aspetti dell’Anticristo dei nostri tempi vanno affrontati con perseverante pazienza. Affrontati e superati prima di tutto nell’ambito della nostra personale esperienza. La lotta nello spirito di Cristo è prima di tutto intima, completa, assoluta e ha per base il riconoscimento dell’unità spirituale dell’umanità. I falsi profeti, i nemici del padrone della messe seminano il loglio nel buon grano, acciocché classe sia nemica a classe, uomo sia lupo all’uomo. L’acquisizione della coscienza cristiana invece rende spontaneo l’atteggiamento che ci fa dire: quello che è mio non è mio, ma di chi ha bisogno; quello che io so, non lo so per me ma per comunicarlo a chi non sa; quello che possiedo lo possiedo per distribuirlo, perché io sono l’altro, perché io non conto ma conta il fratello. Nell’opposizione avviene la divisione tra classe e classe, uomo e uomo, e infallibilmente ci si incammina per la strada che conduce alla distruzione.
Con la perseverante pazienza impariamo a rinunciare a noi stessi per trasfonderci nell’altro: apprenderemo ad agire secondo coscienza, in ogni uomo ci sarà volontà d’amore, l’uomo non sarà più costretto ad aver paura del fratello che gli dorme accanto, nessuno avrà torto perché nessuno avrà ragione. In quest’ora, che è una delle più tragiche della storia dell’umanità, ognuno è chiamato personalmente ad affrontare le tre forme dell’Anticristo con perseverante e ferma pazienza. «Siate svegli, non temete nessuno, nessuno potrà nuocervi se camminerete verso la verità con perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 19). Queste parole sono rivolte a quegli uomini che non cercano una soluzione spinti da paura, ma che, coraggiosi e forti, bruciati dal desiderio di superare se stessi, conservano nel cuore la speranza di una via d’uscita, la fiducia in una soluzione che nasca nelle menti non inquinate dalle tre forme dell’Anticristo. Questi saranno capaci di portare la loro forza per la costruzione del Tempio in se stessi; a loro la luce divina concederà ciò che bramano.
ACCRESCI LA NOSTRA FEDE ! Nel brano evangelico di Lc 17, 5-10 il legame logico delle parole di Gesù ai discepoli, che l’avevano interrogato sulla fede, non è subito evidente. Nella prima frase Gesù descrive il potere miracoloso di un granellino di fede: può comandare a un gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 5-6). Negli altri due periodi indica la necessità di non aver pretese: il servo, compiuto il proprio dovere, è sempre un servo inutile (cfr. Lc 17, 710). Tenendo conto che il motivo centrale della conversazione fra Gesù e i discepoli è la fede, possiamo trovare il nesso delle sue varie frasi. Descritto il miracoloso potere della fede, il Maestro indica, realisticamente, la condizione e i doveri di chiunque cerchi la fede. Chi cerca la fede si senta come il servo che ha la mansione di lavorare un campo, o di custodire un gregge; il campo e il gregge sono la metafora della concreta realtà di ognuno; la fede dà la padronanza della vita, per raggiungerla dobbiamo prima esserne i servi. Quando ogni particella della porzione di vita affidataci sarà feconda; quando tutto il terreno, consegnato al nostro personale lavoro, sarà immacolato da istinti e passioni, allora potremo, in libertà assoluta, comandare alla vita, ordinare al gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 6). La fede, la sua ricerca, accelera il processo di trasformazione della terra che ci è stata consegnata, e quando la trasformazione sarà compiuta i miracoli accadranno perché la vita verrà dominata. La trasformazione non sarà che il risultato della consapevole obbedienza a Colui che ci ha affidato il lavoro del campo, la custodia del gregge (cfr. Lc 17, 7). Ordinariamente, nella comune esperienza, confondiamo la fede con la pratica religiosa, con la religione stessa, con l’espressione ideologica di una religione storica. Di qui l’uso di parlare di fede politica, scientifica, filosofica per indicare un’accettazione religiosa di un dato atteggiamento di pensiero. Questa confusione ci può far vivere in pieno meriggio e non veder la luce perché si è ciechi; si può essere immersi nelle pratiche religiose e non aver fede; si può inventare una religione e inculcarla senza aver fede, oppure formulare un sistema di valutazione filosofico-religioso sempre senza fede. Si può credere e non aver fede, poiché la fede non è la credenza. La fede è un delicatissimo senso animico che rivela all’uomo la realtà trascendente nell’immanenza di ogni cosa; senso che rivela alla coscienza il segreto significato della manifestazione e le permette di equilibrare il richiamo che viene dal silenzio del passato e da quello del futuro.
La fede sviluppa e fa crescere nell’uomo di carne l’uomo dello spirito, fa passare dal battesimo di acqua, che è riordinamento del campo di vita affidato a ognuno, a quello di fuoco, che è confermazione di un’avvenuta trasfigurazione. Per la fede l’essere che in Adamo fu separato viene riunito e con-fuso in Cristo, e assume nella figura della sua carne l’impronta dello Spirito Santo che lo trasforma e, vivificandolo, lo eterna. Nella realizzazione dell’assoluto della fede, fra il credente e Cristo si stabilisce un’unione per cui la vita di Cristo diventa la vita del cristiano, e in Cristo il cristiano si eterna e non conosce morte: «Chi ha fede in me non morirà in eterno» (Gv 11, 26). In questa trasformazione solo l’assoluto della fede ha un senso, le varie «credenze» sono continuamente frustrate dal trionfo della morte alla cui legge ogni carne è sottoposta. L’esteriorizzazione della fede in varie forme religiose è sempre possibile e forse è una necessità, ma essa è sempre limitante. Chi pratica tutti i riti prescritti, non fa male, ma è necessaria la cautela per non confondere le pratiche con la fede: le pratiche possono esprimere la fede, ma non ne sono l’adeguata manifestazione. La fede è una tranquilla e costante sensazione di Dio, per cui l’uomo si muove nella vita con la naturalezza del pesce nell’acqua chiara, e vivendo in questa sensazione opera con sereno equilibrio e non si lascia sopraffare o turbare da cosa alcuna, per cui tutto ciò che è transitorio non occupa l’anima che di passaggio, senza turbarla o distrarla dal suo tranquillo abbandono di servo e di servo inutile. Nello stato di fede non solo tutto è possibile, ma è impossibile che qualcosa non sia possibile. Di qui le parole di Gesù: «Se avrete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso: trapiantati nel mare, e il gelso obbedirà» (Lc 17,6). Chi possiede questo prezioso granello, possiede il segreto dell’anima cosmica, la formula del potere assoluto, mediante la quale tutte le creature sono soggette al Signore e gli Angeli servono gli ordini ricevuti. Niente infatti separa lo spirito singolo dallo Spirito Santo e dalla comunione con la vita; chi possiede la fede, possiede la vita e «fosse anche morto sarebbe risuscitato» (Gv 11, 25). La realtà della fede non è tanto il credere: la fede è un atto di comunicazione con tutto ciò che è alto, bello e santo; la credenza ammette invece solo un determinato aspetto. La credenza è la fede esteriore: per essa si crede in Dio, si raccoglie del materiale e pietra su pietra si innalza un tempio; si costruisce un simulacro e si prega dinanzi a lui giorno e notte. La fede si ha quando l’uomo dice: Io sento in me nobiltà e generosità, sento in me l’anelito a superarmi, sento in me l’eternità, la potenza dell’Essere. Gesù, dicendo: «Se avete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso di trapiantarsi nel mare...», non si riferiva al fatto di credere a questo o a quell’aspetto della Divinità, ma al risveglio di quel senso animico per cui l’uomo vive la vita di Dio. Gli apostoli, dicendo a Gesù:
«Signore, accresci la nostra fede» (Lc 17, 5), non domandano di credere in Gesù, ma di avere qualcosa di più: la fede, la comunione con quella Realtà che era l’unica ragione di essere del Maestro. «Signore! Accresci la nostra fede» implorano gli apostoli! Questa invocazione ci apre degli sterminati orizzonti. Il Signore invocato è il nato dalla Vergine e il concepito per opera dello Spirito Santo, ed è in suo potere dare e accrescere la fede. Poiché Egli è il punto vivente dell’incontro di Dio con la carne, della carne con Dio. In Lui, centro d’incrocio della materia e dello Spirito, scopriamo la nostra spirituale natura, veniamo divinamente istruiti sulla nostra origine, intuiamo la realtà trascendente del nostro compito umano che non è, ne può essere, nella manifestazione creata, ma nell’immanifesto divino. In Lui lo Spirito non è astrazione perché si fa carne, e la carne non è un penoso cammino verso il disfacimento perché supporto di una materia che ascende nello Spirito. Imploriamo anche noi: Signore, accresci la nostra fede! Perché fermamente credendo in Te, possiamo essere in Te assunti e confermati, e per Te ci sia dato di identificarci nel Padre comune!
ALCUNI SEGNI DELLA NATIVITÀ Giovanni Vannucci, «Alcuni segni della Natività» - Natale - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 25-27.
La mangiatoia La grotta Il mistero della notte santa
Gli eventi commemorati nelle solennità dell’anno liturgico vanno meditati con una mente sorretta e dalla fede e dall’attenzione a quei significati che la Chiesa orante vi ha scoperto o inserito, non per obbedire a una curiosità fantastica, ma per fissare l’insieme di evocazioni che il fatto commemorato ha suscitato nell’anima dei fedeli. Gli eventi che costellano l’anno liturgico: Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti che si sono compiuti in un determinato luogo e in un particolare tempo, come momenti salienti della Rivelazione che stabiliscono un legame tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere avvicinati se non da una mente contemplativa che tenga conto della loro realtà storica e soprastorica, terrena e celeste, legata al tempo e allo spazio e insieme trascendente queste due dimensioni. La narrazione della Natività che forma il canovaccio delle ulteriori aggiunte è quella dell’evangelista Luca (capitolo secondo). Maria e Giuseppe furono convocati dall’amministrazione romana a Betlem, per il censimento. Maria, al termine della gestazione, non avendo trovato posto nella locanda della cittadina, diede alla luce il Figlio e lo depose, avvolto nelle fasce, nella mangiatoia. Un Angelo, attorniato da altri spiriti che cantano, annuncia la prodigiosa nascita a dei pastori e li invita ad andare a venerare il nato Salvatore, adagiato in una mangiatoia. I pastori si recarono solleciti sul posto e trovarono Maria, Giuseppe e il neonato posto nella mangiatoia.
La mangiatoia L’immagine consueta del Presepio contiene dei particolari che in Luca non sono menzionati: la grotta, il bue e l’asino. Essi sicuramente sono racchiusi nell’immagine evocata dal vocabolo «mangiatoia», faine in greco: essa designa un bacino, una cavità
ricavata dalla parete della grotta, per deporvi non solo il mangime del bestiame, ma anche il cibo degli operai e dei pastori che vi mettevano il loro pranzo che consumavano insieme. In un resto della Mishnah che risolve alcuni problemi di casistica alimentare, si parla di un sito ove venivano appoggiate le cibarie degli operai e dei pastori: esso è chiamato ebus, mangiatoia, stalla, truogolo. In questa prospettiva, le parole dell’Angelo ai pastori: «Questo sarà il segno», il «segno» rivelatore del mistero del Fanciullo - un neonato è deposto nella mangiatoia, nell’incavo ove siete soliti appoggiare le vostre vivande durante il lavoro -, acquistano un più pertinente significato: il Fanciullo nella mangiatoia è: «II Pane disceso dal cielo. Chi mangia della mia carne, avrà la vita » (Gv 6,51. 54).
La grotta La grotta è un simbolo universale il cui significato fondamentale è quello di costituire il punto di passaggio delle forze che dal cielo scendono sulla terra e dalla terra ascendono, rinnovate e redente, verso il cielo. È il simbolo delle origini e della rinascita; della nascita e dell’iniziazione; del centro ove le forze discese dal cielo invertono la rotta per ritornare alle origini. Gesù è nato in una grotta, e in una grotta fu sepolto, da dove è risorto nella pienezza della Vita. Il simbolo precede e segue il Rivelatore. Come se esso ne fosse parte integrante e come se, senza di esso, l’azione del Rivelatore rimanesse incompleta, senza dare la pienezza della sua ragione alle coscienze in attesa. Il simbolo ferma nel pensiero un aspetto della Rivelazione, altrimenti incomprensibile e inesprimibile. Da millenni l’uomo, abituato a pensare per immagini, porta con sé l’immagine della grotta, del rifugio scavato nella roccia, del tepore della tana nascosta donde emerse lo splendore della sua mente spirituale. La grotta, nella lingua franca della simbologia, segna l’aprirsi di nuovi cicli di umanità. Così Gesù Cristo nasce durante il solstizio invernale, in cui veniva celebrata la nascita del Sole invitto, e nasce in una grotta che è sentita dall’uomo come il centro della rivelazione della Luce spirituale, della nascita della coscienza responsabile. In ogni uomo è la caverna oscura dell’inconscio, la spelonca ove tutti gli atavismi, gli istinti, le forze oscure si dan convegno nella tenebra propizia della volontaria ignoranza dell’Io cosciente e responsabile. In questa caverna nasce il Redentore, Gesù Cristo, la Luce e la vera Coscienza dell’umanità.
Il mistero della notte santa si ripete continuamente per ogni uomo, ogni
grotta ha il suo Fanciullo che vi nasce e la Vergine che lo depone come cibo di vita vera, sulla mensa riservata al pane. Nella grotta umana non esistono solo pulsioni di morte e di distruzione, ma anche l’attesa che qualcuno la scelga a rifugio per una nascita. L’istinto di
Dio che, più forte dello stesso istinto di conservazione, superiore alla stessa sessualità, spinge l’uomo a rinnegare se stesso, a rinunciare alla carne, affinchè in lui Cristo nasca e si faccia carne, e nella caverna umana nasca l’Uomo che sente in Cristo il suo stesso principio e il suo più alto fine. In questa visuale acquistano il loro pieno significato le parole di Angelo Silesio: «Seppure Cristo nasca mille volte a Betlem, ma non in te, tu resti perduto per l’eternità».
La trasfigurazione dell’essere Giovanni Vannucci, Omelia pronunciata domenica 27 maggio 1976 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI); registrata su nastro magnetico e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata in Ogni uomo è una zolla di terra, 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, pag. 54-59.
La solennità di oggi ci porta la grande figura dell’Ascensione di Cristo nel cielo dei cieli e tutte le parole che abbiamo letto nelle letture. Cristo che ascende, gli apostoli che rimangono a guardare il cielo scrutando dove mai sia andato, e i due personaggi vestiti di bianco che dicono loro: “Non guardate il cielo, Cristo tornerà nello stesso modo in cui voi lo avete visto ascendere in cielo”. E poi le parole del Vangelo: andate e annunciate ad ogni creatura l’Evangelo, e il vostro annuncio sarà accompagnato da un rifiorire di vita, i demoni si allontaneranno, il veleno non nuocerà più e i malati riprenderanno a vivere. Come dobbiamo pensare al mistero dell’Ascensione del Signore? Io vi dico quello che io penso e ciascuno di voi spero che, mettendosi davanti a questo grande evento dell’Ascensione del Signore, cerchi di comprenderlo e viverlo secondo la sua sensibilità, secondo le sue capacità di comprensione e di avvicinamento a questo grande mistero. Altre volte abbiamo pensato a questo fatto, che fra noi e i grandi misteri compiutisi nella vita di Cristo o attraverso Cristo, c’è una mediazione, una mediazione di pensieri pensati da altri. Così tra noi e il mistero dell’Ascensione ci sono tutte le spiegazioni e le interpretazioni che gli esegeti e i teologi hanno dato del mistero dell’Ascensione. E noi ci possiamo fermare su questi pensieri e considerare la loro importanza, arricchire la nostra mente, soprattutto la nostra memoria, di sentenze e di interpretazioni. Ma finché ci fermiamo a queste spiegazioni, a questi pensieri pensati da altri, non avvicineremo il mistero dell’Ascensione. Bisogna mettere da parte tutti questi pensieri pensati da altri per poterci immergere nel fatto dell’Ascensione e comprenderlo con la nostra mente, con la nostra capacità di pensiero, con la nostra sensibilità e con le nostre capacità di comprensione e di apprensione del mistero. Allora il mistero dell’Ascensione diventa proprio un fatto religioso che incide profondamente nella trasformazione del nostro essere e, come vi ho detto altre volte, davanti a questi grandi misteri della vita di Cristo, misteri religiosi, noi dobbiamo sostare in silenzio, diventare capaci di ascoltare quanto ci viene comunicato attraverso questi grandi eventi. Come vi dicevo, nelle letture della Messa ci vengono date alcune indicazioni. La prima è quella degli Atti degli Apostoli; gli apostoli vedono Cristo ascendere in cielo e dileguarsi in forma di nube, come se il corpo di Cristo si fosse espanso, espanso e sparito; e i due
personaggi dicono agli apostoli: Egli tornerà nello stesso modo in cui lo avete visto ascendere al cielo. Ritornerà attraverso un’espansione silenziosa e luminosa. Tornerà nello stesso modo in cui è asceso, diventando realtà vibrante e trasformatrice nel cuore di tutti gli uomini. Questo credo che dobbiamo riuscire a comprendere attraverso una riflessione continua e assidua. Giorni fa nella Messa leggevamo le parole di Cristo: “Io sono la vite, voi i tralci; se resterete uniti a me porterete frutti, se invece vi staccherete da me non porterete frutti”. E allora comprendiamo che Cristo è quel germe di vita che con la sua ascensione è penetrato nel profondo della coscienza dell’uomo, non soltanto dell’uomo cristiano o cattolico, ma nella coscienza di tutti gli uomini e nel corso dei secoli porta avanti verso la sua verità, verso la maturazione religiosa, noi uomini. Quando gli apostoli, nella lettura, chiedono a Cristo quando instaurerà il suo regno, Lui dice: io non lo so, è il Padre. Non stabilisce una data, perché lungo il corso dei millenni Cristo è sempre operante nel profondo della coscienza dell’uomo e porta avanti ciascuno di noi, porta avanti ogni uomo, verso la sua verità, verso la pienezza di verità e di realtà, di umanità e di divinità tutti gli esseri umani, se noi rimaniamo uniti a lui che è il ceppo. E questa è l’Ascensione di Cristo. Egli siede alla destra di Dio. Cosa vuol dire? Vuol dire che ovunque c’è Dio c’è Cristo; vuol dire che ovunque nasce nel cuore dell’uomo un’aspirazione verso la verità, verso la bellezza, verso l’amore, verso la giustizia, verso la conoscenza, lì c’è Cristo come energia trasfiguratrice e trasformatrice della coscienza degli uomini e lentamente, lungo il corso dei millenni - perché noi misuriamo il tempo nell’arco della nostra vita, che è niente di fronte ai millenni che l’umanità ha percorso e ai tempi che ancora l’umanità dovrà percorrere -, Cristo opera costantemente e efficacemente alla trasformazione dell’uomo. E allora come tornerà Cristo? Cristo tornerà attraverso la maturazione di tutte le nostre esperienze più grandi, più vere, più nobili, di uomini, di coscienze. E un giorno ci accorgeremo di questo: Cristo è come il cuore del crisantemo verso il quale sono orientati tutti i petali e dal quale tutti i petali traggono la loro forza di vita e la loro bellezza. Per questo a noi cristiani è detto di non giudicare, ma di partecipare intensamente a quel mistero di vita che ci è stato rivelato in Cristo, senza giudicare strade differenti dalle nostre, ma portando il nostro contributo all’accrescimento della coscienza degli uomini, contributo che è legato alla nostra forma personale, alla nostra mentalità, alle nostre figure religiose, alla nostra storia di uomini, storia di popoli, mantenendo fedeltà a questo nucleo, a questo germe vitale che è Cristo. E allora il mistero dell’Ascensione diventa un fatto di vita per noi. Non vi sembra profondamente confortante questa visione che l’uomo nel corso dei millenni si avvicina sempre di più alla verità portata da Cristo, a quelle forze di trasfigurazione della
coscienza umana, dell’opacità umana, che sono state introdotte da Cristo nella nostra realtà umana? Il cammino è lento perché Dio non fa violenza a nessuna coscienza e vuole che l’uomo maturi nel ritmo del tempo, nel corso dei tempi, nel corso dei secoli. E allora, guardando la storia degli uomini da questo punto di vista, abbiamo una grande pace e una grande forza, e non giudicheremo nessuno, ma a tutti daremo quel contributo che viene dalla nostra trasformazione umana nella realtà di Cristo. E vi dicevo in una di queste domeniche che all’uomo è concessa la possibilità di diventare Dio sulla terra, perché noi diciamo che Dio è amore e l’uomo può amare, come Dio ama; diciamo che Dio è libertà e l’uomo può liberarsi da tutte le pesantezze, da tutti gli attaccamenti all’effimero, al tempo, al transitorio, per raggiungere la libertà nell’assoluto. E noi siamo in cammino verso questa divinizzazione della nostra vita. E ognuno di noi deve portare il suo contributo che è quello di essere intransigenti nella nostra fedeltà alle verità religiose che ci sono comunicate e costituiscono l’alimento sovrasostanziale del nostro cammino di uomini, di uomini cristiani. Ma non assumere mai un atteggiamento di separazione verso gli altri, perché nelle diversità di figure religiose, nelle diversità di impostazioni umane, c’è sempre questo germe di vita divina che è il Cristo che porta avanti l’umanità. E allora ci sentiremo pacificati e al tempo stesso ci sentiremo più responsabili di quel mistero religioso che ci è stato affidato e che deve crescere in noi e trasformarci, e più responsabili per l’umanità, perché gli altri uomini hanno bisogno della nostra trasfigurazione, della nostra luce, del nostro cambiamento da figli della terra, da figli della materia, in figli di Dio, in figli dello Spirito. E allora il nostro cammino sarà molto pacifico, molto più sereno e molto più positivo, perché radicato in quella realtà che costituisce l’oggetto centrale della nostra vita religiosa che è Cristo. Daremo agli uomini pacificamente l’annuncio della buona novella; lo daremo agli uomini e a tutte le creature. E noi saremo in mezzo agli uomini come principi illuminanti, principi di pacificazione che libereranno l’uomo veramente dal profondo, perché risveglieranno in lui quei grandi sogni senza i quali l’umanità intristisce, deperisce e diventa folle. Ecco, viviamo così il mistero dell’Ascensione. Sentiamo che Cristo è presente fino alla consumazione dei secoli e la sua Parola è operante nel momento presente come sarà operante fra millenni dopo la nostra esistenza terrena. E l’operosità della parola di Cristo accompagna la trasformazione della coscienza umana che dalla terra è chiamata a vivere nel cielo, che dalla pesantezza della vita terrena è chiamata a dilatarsi nella sconfinata realtà dello Spirito. Dalla realtà terrena ognuno di noi è chiamato, come Cristo, a vivere alla destra di Dio.
Sia così la nostra meditazione sul mistero dell’Ascensione del Signore e in questo giorno, anche se i tempi nostri sono tristi e duri, cerchiamo di ritrovare i motivi della nostra grande speranza e viverla pienamente, muovendoci serenamente in mezzo alle vicende degli uomini, sapendo che qualunque aspetto essi assumano, sono condotti da Cristo, che è la presenza invisibile nel cuore di tutti gli uomini, anche nelle forme di vita che sono più difformi da quello che noi pensiamo, da quello che noi sentiamo e da quello che noi vorremmo. Avere questo spirito di pace, questa apertura ecumenica verso tutti gli uomini, ci permetterà di essere veramente cristiani, cioè cristiani che credono che Cristo è asceso nel cielo dei cieli e è la mano destra di Dio.
CHIAMATA DEI DODICI Giovanni Vannucci, «Chiamata dei Dodici», XIa domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 120-122.
I dodici prescelti erano destinati ad apprendere direttamente l’insegnamento essenziale di una verità destinata a rinnovare il mondo.
dal
Maestro
Il primo di loro fu Simone, che Cristo chiamerà Cefa, Pietra. Pescatore dal cuore generoso e forte, guidato più dal sentimento impetuoso che dalla lucida ragione. Di Andrea, suo fratello, sappiamo molto dalle leggende che si sono formate attorno al suo nome, ma la Scrittura non dice niente. Giacomo, il fratello di Giovanni, è menzionato nei Vangeli, insieme a Pietro e Giovanni, come testimone della risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’agonia nel Giardino del Getsemani (Mc 5,37; 9,2; 14,33). Chiamato insieme a Giovanni col soprannome di Boanerges, figlio del tuono, forse per il carattere impetuoso e ardente. Negli Atti è ricordato il suo martirio per opera di Erode Agrippa, probabilmente l’anno 42 d.C. (At 12,2). Una tradizione che rimonta al secolo VII d.C. afferma che l’Apostolo annunciò il Vangelo in Spagna; il suo corpo sarebbe sepolto a Compostella. Giovanni, il discepolo prediletto, colse l’aspetto segreto del Maestro che seguì con mente aperta e avida, con cuore fermo e fedele. È l’unico discepolo che seguì Cristo sul Calvario. Filippo, folgorato dalla grazia (Gv 1,43), nell’Ultima Cena chiede a Cristo: «Signore, mostraci il Padre, e non avremo bisogno di altro» (Gv 14,8). Bartolomeo è nelle liste dei dodici dei primi tre Vangeli; di lui nulla sappiamo. La tradizione posteriore del quarto secolo lo presenta come annunciatore del Vangelo in varie regioni dell’Asia minore; sarebbe morto martire nell’Armenia, scorticato vivo. Tommaso lotterà tutta la lunga notte della vita con l’angelo del dubbio e ne meriterà all’alba la benedizione. Il suo compito fu di essere il documentatore della Risurrezione del Maestro, tanto più convinto quanto più restio a lasciarsi convincere (Gv 20,24-28). Matteo, l’obbediente che abbandona i suoi traffici per seguire il Maestro (Mt 9, 9). Giacomo figlio d’Alfeo, chiamato Giacomo il Minore, preposto alla Chiesa di Gerusalemme, fu sottoposto al martirio nell’anno 62 d.C. dalle autorità di Gerusalemme. A lui è attribuita la Lettera che porta il suo nome.
Taddeo, chiamato anche Giuda e Lebbeo, designato anche come fratello del Signore (Mt 13,55), e fratello di Giacomo il Minore (Lc 6,16). Alla Cena chiese a Gesù: «Signore, come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?». Il Maestro rispose: «Se uno mi ama, custodisce la mia parola, e il Padre mio l’amerà e verremo a lui e in lui dimoreremo» (Gv 14,22-23). A lui è attribuita l’ultima delle lettere cattoliche. Simone il Cananeo, che vien tradotto «lo zelante». Giuda, il più tragico di tutti gli Apostoli; il suo destino fu di consegnare il Maestro nelle mani dei suoi carnefici. Ai dodici Gesù dà due direttive: «Non andate fra i Gentili e non entrate in nessuna città dei Samaritani» (Mt 10,5). Gli Apostoli, uomini di limitata cultura, non ancora saldi nell’assoluto della fede, sarebbero stati facilmente sconfitti nelle dispute che avrebbero incontrato presso gli abitanti di quelle terre. «Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Annunciate che il Regno dei cieli è vicino. Sanate chi è ammalato, richiamate alla vita i morti, allontanate i demoni. Tutto ciò l’avete ricevuto in dono, datelo anche voi in dono» (Mt 10,6-8). Indubbiamente Gesù ha dato qualcosa di suo ai dodici. Le forze che ha risvegliato in ciascuno di loro sono forze dell’anima, che Lui ha risvegliato con lo stesso suo potere, e che per giungere all’effettuazione richiedono uno stato di tensione continua, di vibrazione appassionata; per questo invia i dodici ai poveri, agli emarginati, a coloro che, non aspettando più nulla, sono pronti ad accogliere il miracoloso annunzio della venuta del Regno. Nelle classi ricche e colte, fra gente raffinata e istruita avrebbero risvegliato una curiosità più o meno benevola, ma nelle classi infime, fra i diseredati avrebbero risvegliato una sopita speranza di salvezza, di miracolo. Chi più degli smarriti, degli emarginati da Israele era pronto ad accogliere la novità della predicazione evangelica? Il potere ricevuto di compiere delle guarigioni, di liberare gli ossessi, di ridare fiducia ai peccatori, vien dato ai dodici, perché offrendolo alla povera gente, questa ritrovasse la fede, la fiducia, l’intensificazione della vita. «Questo potere l’avete ricevuto in dono, come dono non vostro offritelo. Non portate provvisioni di oro, d’argento, di rame nelle vostre cinture, né sacca per il viaggio, né due tuniche, ne calzari o bastoni da viaggio» (Mt 10,8-10).
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Padre nostro Padre nostro che sei nei cieli Santo è il Tuo nome il Tuo Regno viene la Tua volontà si compie nella terra come nel cielo. Tu doni a noi il pane di oggi e di domani. Tu perdoni i nostri debiti nell'istante in cui li perdoniamo ai nostri debitori. Tu non c'induci in tentazione ma nella tentazione Tu ci liberi dal male.
da "Appunti di Viaggio"