Sogno, dunque penso

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Sogno, dunque penso. di Yves Bonnefoy



Desidero definire ciò che intendo per immaginazione e immaginario metafisico, in quanto queste due nozioni, insieme alle osservazioni che da esse possono derivare mi sembrano utili a chiarire la nature e la funzione della poesia. Ma prima di arrivare al problema dell’immaginazione metafisica propriamente detta mi soffermerò, se esiste, sull’immaginazione non metafisica, chiamiamola immaginazione ordinaria, e ne proporrò una definizione. L’immaginazione è la nostra facoltà di rappresentare delle immagini, in altre parole, delle forme o delle figure la cui esistenza è puramente mentale. Ma è anche l’atto durante il quale ci avvaliamo di questa facoltà immaginativa per sostituire a una situazione reale, quella in cui ci troviamo al momento, una situazione diversa, reale solo nella nostra mente. A questo fine facciamo appello alle nostre capacità di ideazione, anticipazione e memoria e se ci imponiamo questo sforzo è perché spesso il risultato di questa sostituzione ci fa piacere. Essa ci consente di realizzare, sia pure solo in forma di sogno, e spesso senza alcuna conseguenza diretta sulla nostra esistenza reale, un desiderio che non siamo in grado di soddisfare nella situazione in cui ci troviamo. Queste mie parole possono indurre a pensare che io mi riferisca al sogno così come esso viene inteso in psicoanalisi, quindi il sogno atto a soddisfare simbolicamente un desiderio. Ma non sono queste le mie intenzioni. Il sogno del pensiero freudiano, il sogno che si forma durante il sonno, è generato da quei desideri che l’essere cosciente non confessa a se stesso. Nel lavoro dell’immaginazione, però, il processo ha luogo in modo diverso. In questo caso, infatti, chi immagina è totalmente cosciente del proprio desiderio, che, ancora frustrato, cerca, attraverso l’immaginazione, di creare i presupposti necessari alla sua soddisfazione. Diciamo che io stia camminando per la strada, e soffra nel vedermi circondato da edifici brutti e tetri, e allora immagino palazzi bellissimi, colonnati, fontane, imponenti montagne blu che si stagliano all’orizzonte, tutto ciò che un quadro di Poussin mi può già avere dato l’occasione di sognare. E anche se la mia nostalgia di bellezza architettonica viene inconsciamente amplificata da un desiderio nascosto, censurato addirittura, uno di quei desideri. che solo la psicoanalisi riesce a


individuare, è pur sempre un fatto che tale nostalgia esista, che sia essa a farmi immaginare un luogo diverso da quello reale. È di questa nostalgia, del suo operare che desidero parlare. In altre parole, mi atterrò all’immaginazione dell’essere cosciente, l’immaginazione che non fa mistero dei suoi desideri né della soddisfazione che essi ricercano. L’immaginazione che si manifesta non nel labirinto notturno, dove l’inconscio è l’incontrastato signore dei sogni, ma nelle fantasticherie che amiamo fare quando siamo perfettamente svegli. Mi sembra, e lo dico per inciso, che lo studio del fantasticare consapevole sia stato trascurato troppo a lungo, a vantaggio dello studio delle leggi che regolano il sogno inconscio, e sono chiaramente molto diverse. Ciò che a mio parere è il carattere essenziale di questa immaginazione, che si sviluppa lucidamente tra la situazione reale e la struttura mentale con la quale essa cerca di sostituire la realtà: questo carattere essenziale è da ricercarsi nella capacità di questo tipo di immaginazione di compiere in quello che può sembrare un atto unitario, due operazioni in realtà molto diverse tra loro. Riprendiamo l’esempio già citato la città che la mia immaginazione va a sostituire alla strada nella quale mi trovo nella realtà. Tra questi due oggetti della mia immaginazione, il sostituente e il sostituito, c’è indubbiamente un’opposizione fondamentale: una delle due città è reale, vi sto effettivamente camminando, l’altra è solo una rappresentazione della mente. Ma, a parte questa riserva, ci si può convincere che esse appartengono allo stesso mondo. Una è costruita in marmo e arenaria rossa, l’altra solo gesso grigio e calcare che si sgretola; una ha facciate a doppie volute e statue sui parapetti dei terrazzi, l’altra ha solo dei tetti diritti che delimitano mansarde; ma l’arenaria e il gesso, le volute e le mansarde, esisto tutte nella realtà. Niente impedirebbe infatti, con gli opportuni lavori, di sostituire la città reale con la città del sogno - niente, se non l’immensità del lavoro necessario; prendere atto di tali proporzioni, comprendere come esse si spingano ben oltre quanto può essere considerato necessario in questo nostro mondo, significa una volta di più accomunare il sostituente e il sostituito in un unico campo del reale. In questo senso, sento di poter affermare che l’immaginazione crea una scena per soddisfare un desiderio, senza però interrogarsi sulla qualità


della realtà - ordinaria o di essenza superiore, sovraterrestre - degli elementi che compongono questa scena nel luogo a loro proprio, quello che definirei il loro stato ontologico. Il loro stato ontologico? Questo è un concetto sul quale desidero soffermarmi per chiarire meglio il mio pensiero. Per «ontologico», innanzitutto, intendo ciò che attiene all’essere e non alla natura di una cosa (avvenimento o persona). La natura di una mela, ad esempio, è data dalla somma delle sue caratteristiche fisiche che fanno sì che per noi, che ritroviamo tali caratteristiche catalogate nella nostra mente, la mela abbia la propria forma, la propria quiddità, per usare un termine del passato, che fa di essa una mela e non una pera. Il suo essere è anch’esso reale, seppur non si situa sullo stesso piano delle caratteristiche sensibili, è ciò per cui questa mela esiste, alla portata della mia mano, mentre, con aspetto identico e identica natura, essa potrebbe essere la semplice rappresentazione creata dalla mia mente, esattamente come avviene quando immagino. Una cosa, un avvenimento, una persona, possono esistere quanto non esistere, senza che questo influisca minimamente sull’idea che io mi faccio di queste realtà. Ciò è chiaramente dimostrato dalla fotografia, che perpetua nel tempo l’idea delle cose anche quando la loro materialità è ormai distrutta. Tuttavia, l’essenza di una cosa o di una persona non è riconducibile alla pura esistenza materiale di quella cosa o di quella persona. Poiché niente mi impedisce, ahimè, al contrario tutto mi suggerisce, di chiedermi se questa mela, la mela che tengo in mano, sia di per sé reale, e non sia, dopo tutto, un illusione. Certo, essa ha una compattezza che posso percepire, il suo aspetto, le sue proprietà fisiche, il suo sapore, costituiscono un tutto che iscrive questa mela tra le esistenze che compongono l’universo. Ma, al di sotto di queste percezioni, proprie solo all’essere parlante, creatore e testimone del luogo terrestre, non c’è solamente il gioco delle forze della materia, totalmente ignare di ciò che noi, nel nostro mondo, chiamiamo cosa, tanto che, a livello più profondo, ciò che ci sembra reale, non è che un’immagine senza essere, una figura illusoria, il cui nulla ci deve far comprendere che, anche noi, che prendiamo quest’immagine sul serio, non siamo che «vane forme della materia». Questo interrogativo sull’essere della cosa, il suo essere ultimo, ha carattere metafisico. Esso riguarda dunque l’Es, non l’lo, per


riprendere i termini usati dalla scolastica. Si potrebbe obiettare che si tratta di un interrogativo vano, un semplice miraggio dello spirito, che nella buona filosofia positiva sarebbe meglio non sollevare. Ma nulla può impedire che nutriamo dei desideri, e, tra tutti i desideri, ce n’è uno che tende precisamente verso questo assoluto, immaginato sotto l’apparenza sensibile della cosa o della persona, un desiderio che potrei definire il desiderio di essere. Questo desiderio non vuole vedere negli oggetti della sua esperienza illusioni a cui dovrà rinunciare, abbandonando completamente, allo stesso tempo, la fede nell’essere della persona. Al contrario, auspica che essa si radichi in una realtà trascendente, per la Grazia di Dio, per esempio, Dio che sarebbe, in modo tanto indubitabile quanto impenetrabile per le categorie del nostro pensiero, e delegherebbe l’essere a lui proprio alle sue creature, come attraverso scintille generate dal suo grande fuoco… Per Grazia di Dio o in qualsiasi altro modo, poco importa, l’essenziale, dal mio punto di vista attuale, non è la teologia esplicativa ma il desiderio esigente. Mi preme ricordare questo desiderio che sogna esseri che hanno «dell’essere», al di sotto della fugacità dei fenomeni, malgrado la morte, e che a questo desiderio si affianca un’angoscia ben specifica, quella che nasce dal timore che il desiderio non possa essere soddisfatto. Questo è quanto intendo per stato ontologico dell’oggetto, desiderio di essere. E ora posso soffermarmi su quelle due operazioni che, come ho detto precedentemente, hanno luogo durante l’atto immaginativo. Che cosa accade di fatto quando si immagina? Posso immaginare in nome di un autentico e puro desiderio di ciò di cui formo un’immagine nella mia mente, per esempio la città di grande bellezza che ho evocato. In questo caso la mia immaginazione non fa altro che anticipare una realizzazione che, se avesse effettivamente luogo, mi manterrebbe nell’ambito della mia esistenza ordinaria, in altre parole nel mondo reale. Meglio ancora, immaginando un oggetto più soddisfacente di quello di cui dispongo nella realtà contingente, ma che, a parte la qualità, non è dissimile da quest’ultimo e altrettanto praticabile nel mondo reale, sembra che io confidi nel valore proprio di tale oggetto, che non dubiti di potervi trovare soddisfazione, come se non lasciassi spazio dentro di me, o non provassi, l’inquietudine metafisica. Da questo punto di vista


l’immaginazione si rivolge al luogo della nostra esistenza, che essa esplora, scoprendone le ricchezze. Pur tuttavia si è prodotta una transmutazione, durante l’atto immaginativo, di cui la persona che immagina prende coscienza e si avvale per nutrire i propri sogni. Ecco: l’oggetto creato dall’immaginazione, non è che un’immagine mentale, lo sappiamo, e prima che la realizzazione di un desiderio, se è possibile, ne faccia un domani un oggetto reale nella nostra esistenza effettiva, è, proprio per questa ragione ancor più illusoria di quanto non siano le cose della nostra vita che temiamo siano, ontologicamente parlando, solo ombre. Pertanto, da un altro punto di vista, si può dire che questo oggetto immaginato, semplicemente immaginato, ha «dell’essere», nel senso metafisico a cui accennavo poc’anzi, mentre le componenti del nostro mondo reale sembrano non averne. Perché? Perché ciò che ci fa temere l’assenza di essere anche nelle componenti più tangibili della nostra realtà immediata, è specificatamente il fatto che non ne avvertiamo alcun ordine soggiacente, che le catturi nella rete di un intelligibile trascendente le nostre capacità di lettura. Le specie in natura, animali, vegetali, metalli, sono sicuramente strutturate in base a una grande forma di questo tipo, secondo le grandi leggi di organizzazione individuate dalla scienza. Ma tutto ciò viene meno quando si considerino i singoli esseri, quelli presenti per tempi di durata variabile, all’orizzonte della nostra presenza in un determinato istante e luogo. Là, nel mondo delle esistenze, il caso regna sovrano e nelle sue tenebre vanno a scomparire, ad annientarsi, le persone, le cose, gli stessi luoghi che noi amiamo. Nulla di tutto ciò accade nell’immagine creata dall’immaginazione.

Poiché essa, essendo il frutto di un nostro desiderio, possiede una coerenza che non ritroviamo in ciò che esiste nella realtà, la coerenza garantita dai nostri gusti, dalle esperienze fatte, dai ricordi, nonché dai nostri rifiuti, dal nostro scarso interesse per tutta una serie di aspetti del mondo. E come se essa fosse determinata - in segreto, poiché ciò va oltre le capacità di apprendimento della nostra coscienza - dallo stesso genere di ordine che, apparente nella realtà ordinaria, ne garantisce il sostegno ontologico. Inoltre, le cose e gli esseri dell’immaginario da noi


costituito, non sono per noi semplici oggetti, ma divengono, improvvisamente e completamente, presenze reali, in quanto li abbiamo scelti quali compagni in una vita futura più ricca. Io anticipo la facciata a doppie volute come entità presente alla mia stessa presenza, nella realtà che essa mi aiuta a creare; il mondo immaginato, che è quindi un mondo di esistenze articolate alla nostra, ci dà l’impressione di essere più di quanto non facciano gli oggetti della nostra vita reale. Con questo semplice miraggio, il mondo immaginato risveglia dentro di noi la speranza di radicare il nostro essere nell’assoluto, speranza che la nostra vita quotidiana invece vanifica. In breve, il mondo immaginato ravviva il nostro desiderio di essere.

* (Traduzione di Beatrice Bellini)




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