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FUOCO E ACQUA
CAPITOLO 14
FUOCO E ACQUA
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Se adesso, come i nani, volete notizie di Smaug, dovete tornare alla sera in cui distrusse la porta e volò via pieno di collera, due giorni prima. Quella sera gli uomini della Città del Lago, Esgaroth, erano perlopiù in casa, perché il vento veniva dal nero Oriente ed era freddo; alcuni di loro, però, passeggiavano sulle banchine e osservavano, come amavano fare, le stelle che si riflettevano sulla superficie del lago man mano che sbocciavano nel cielo. Dalla loro città, la Montagna Solitaria era perlopiù schermata dalle basse colline sul lato opposto del lago, dove affluiva da nord il Fiume Fluente. Solo la sua alta vetta si poteva vedere quando il cielo era limpido, ed essi la guardavano di rado, perché era minacciosa e cupa perfino alla luce del mattino. Ora era sparita del tutto, inghiottita dal buio. A un tratto riapparve per un attimo alla vista; un bagliore fulmineo la sfiorò e svanì. “Guarda!” disse uno. “Di nuovo le luci! La notte
scorsa le sentinelle le hanno viste apparire e sparire da mezzanotte fino all’alba. Lassù sta succedendo qualcosa.” “Forse il Re sotto la Montagna sta forgiando dell’oro,” disse un altro. “È passato tanto tempo da quando è andato a nord, e sarebbe ora che le canzoni cominciassero a dimostrarsi vere.” “Quale re?” disse un altro con voce rude. “È più probabile che sia il fuoco predatore del drago, l’unico re sotto la Montagna che abbiamo mai conosciuto.” “Non fai altro che predire malanni!” dissero gli altri. “Qualsiasi cosa, dalle alluvioni all’avvelenamento del pesce. Pensa a qualcosa di allegro!” Ma all’improvviso apparve una grande luce in un punto basso delle colline, e l’estremità settentrionale del lago si fece tutta dorata. “Il Re sotto la Montagna!” urlarono. “La sua ricchezza è come il sole, il suo argento come una fontana, i suoi fiumi sono d’oro! Il fiume sta portando l’oro giù dalla Montagna!” gridarono, e dappertutto ci furono finestre che si spalancavano e piedi che correvano. Ancora una volta nella Città del Lago si accesero eccitazione ed entusiasmo. Ma il tizio dalla voce rude si precipitò dal Governatore. “O sta arrivando il drago o io sono pazzo!” gridò. “Tagliate il ponte! All’armi! All’armi!” Allora le trombe suonarono l’allarme ed echeggiarono lungo le rive rocciose. L’allegria cessò e la gioia si mutò in terrore. E così il drago non li trovò del tutto impreparati. Di lì a poco, tanta era la sua velocità, lo videro sfrecciare verso di loro come una palla di fuoco, che diventava sempre più grande e vivida, e neanche il più
sciocco dubitò che le liete profezie fossero errate. Ma gli abitanti di Esgaroth avevano ancora un po’ di tempo. Ogni recipiente in città fu riempito d’acqua, ogni guerriero si armò, vennero approntati i dardi e le frecce, e il ponte che univa alla terraferma venne abbattuto e distrutto, prima che il terribile ruggito dell’appressarsi di Smaug si facesse più forte e il lago si increspasse, rosso come il fuoco, sotto il battito orrendo delle sue ali. Tra gli strilli e le urla degli uomini, Smaug discese su di loro, planò verso il ponte, e rimase di stucco! Il ponte era sparito, e i suoi nemici stavano su un’isola in mezzo all’acqua profonda – troppo profonda, fredda e scura per i suoi gusti. Se vi si fosse tuffato, avrebbe sprigionato vapori e fumi sufficienti a coprire di nebbia tutte le terre per giorni e giorni; ma il lago era più potente di lui, lo avrebbe soffocato prima che fosse riuscito a solcarlo. Ruggendo, Smaug si volse verso la città. Un nugolo di frecce nere si levò in aria e tintinnò spuntandosi sulle sue scaglie e sulle sue gemme, e i dardi ricaddero sul lago incendiati dal suo respiro bruciante e sibilante. Nessun fuoco d’artificio che abbiate mai immaginato avrebbe potuto eguagliare lo spettacolo di quella notte. Con il sibilo delle frecce e lo squillo delle trombe, il furore del drago raggiunse il culmine, fino a renderlo cieco e pazzo. Da tanto tempo nessuno osava muovergli battaglia; né avrebbero osato adesso, se non fosse stato per l’uomo dalla voce rude (Bard era il suo nome), che correva avanti e indietro rincuorando gli arcieri e sollecitando il Governatore a ordinare loro di combattere fino all’ultima freccia. Le fauci del drago sprigionarono fiamme. Per un po’ 319
Smaug volteggiò alto sopra di loro, illuminando tutto il lago; gli alberi sulle sponde risplendevano come rame e come sangue, proiettando tutt’intorno ombre guizzanti. Poi si avventò a capofitto nella tempesta di frecce, reso imprudente dalla collera, senza preoccuparsi di offrire ai nemici solo le parti ricoperte di scaglie, con l’unico intento di incendiare la loro città. A ogni passaggio di Smaug, il fuoco divampava dai tetti di paglia e dalle travi di legno, benché prima del suo arrivo ci si fosse premurati di inzuppare d’acqua tutti gli edifici della città. E altra acqua veniva gettata da centinaia di mani ovunque apparisse una scintilla. Eccolo tornare indietro turbinando. Una sferzata della coda, e il tetto del Municipio si sgretolò rovinando al suolo. Fiamme inestinguibili si levavano alte nella notte. Un’altra picchiata, e un’altra ancora, e un’altra casa e ancora un’altra divamparono e crollarono; e ancora non c’era freccia che avesse intralciato o ferito Smaug più di una mosca delle paludi. Da ogni parte ormai la gente si gettava in acqua. Donne e bambini venivano stipati in barche stracariche nel porticciolo del mercato. Le armi venivano abbandonate a terra. Lamenti e pianti si levavano lì dove solo poco tempo prima si erano cantate per i nani le vecchie canzoni che parlavano della gioia imminente. Adesso la gente malediceva il loro nome. Il Governatore stesso stava avviandosi verso la sua grande barca dorata, cercando di approfittare della confusione per mettersi in salvo. Presto tutta la città sarebbe stata un deserto carbonizzato in mezzo al lago. Era proprio quello che il drago sperava. Per quel che gliene importava, potevano scappare con le barche
tutti quanti. Si sarebbe divertito a dar loro la caccia, oppure potevano starsene lì fino a morire di fame. Se avessero cercato di raggiungere la terra ferma, sarebbe stato pronto ad accoglierli. Presto avrebbe incendiato tutti i campi e i pascoli. Per ora se la spassava a tormentare la città, ed erano anni che non si divertiva tanto. Ma c’era ancora una compagnia di arcieri che resisteva tra le case in fiamme. Il loro capitano era quel Bard dalla voce rude e dalla faccia severa che gli amici avevano accusato di profetizzare alluvioni e pesci avvelenati pur conoscendo il suo valore e il suo coraggio. Era un lontano discendente di Girion, Signore di Conca; sua moglie e suo figlio erano sfuggiti alla rovina lungo il Fiume Fluente tanto tempo prima. Scagliava le frecce col suo grande arco di tasso, e ormai gliene era rimasta soltanto una. Le fiamme lo incalzavano. I compagni lo abbandonavano. Tese l’arco per l’ultima volta. All’improvviso, qualcosa volò fuori dal buio e si posò sulla sua spalla. Bard trasalì – ma era solo un vecchio tordo. L’uccello, chinatosi senza timore sul suo orecchio, gli portava notizie. Meravigliato, Bard scoprì di capire la sua lingua, poiché apparteneva alla stirpe di Conca. “Aspetta! Aspetta!” gli disse il tordo. “Sta levandosi la luna. Mira all’incavo sulla parte sinistra del petto, ora che Smaug viene volando verso di te!” E mentre Bard esitava stupefatto, gli riferì le notizie dalla Montagna e tutto quello che aveva udito. Allora Bard tese l’arco fino all’orecchio. Il drago stava tornando indietro, volando sempre più basso, e, mentre si avvicinava, la luna si levò sopra la riva orientale e inargentò le
sue grandi ali. “Freccia!” disse l’arciere. “Freccia nera! Ti ho lasciata per ultima. Tu non mi hai mai tradito e io ti ho sempre recuperata. Ti ho avuta da mio padre ed egli ti ebbe dai suoi antenati. Se davvero provieni dalla fornace del vero Re sotto la Montagna, va’ dritta al bersaglio, e buona fortuna!” Il drago planò ancora una volta, e, mentre virava e si tuffava giù, il suo ventre brillò di luce bianca per lo scintillio delle gemme sotto la luna, tranne che in un punto. Il grande arco vibrò. La freccia nera schizzò via dalla corda, puntando dritta all’incavo scoperto sulla sinistra del petto, dove la zampa anteriore si era scostata dal corpo. Lì si conficcò e penetrò tutt’intera, punta, asta e piuma, tanto violento era il suo impeto. Con un grido stridente che assordò uomini, abbatté alberi e spaccò pietre, Smaug schizzò schiumante nell’aria, si capovolse e rovinò giù, schiantandosi al suolo. Cadde tutt’intero sulla città. I suoi ultimi spasmi la ridussero a un cumulo di scintille e braci roventi. Il lago la invase ruggendo. Un’enorme massa d’acqua si sollevò, bianca nell’improvviso buio sotto la luna. Ci fu un sibilo, un vortice ribollente, e poi silenzio. E questa fu la fine di Smaug e di Esgaroth, ma non di Bard. La luna crescente si librò sempre più in alto, e il vento si fece più violento e freddo: attorcigliò la bianca nebbia, ne fece colonne oblique e nuvole frementi che trascinò verso ovest, per spargerle a brandelli sulle paludi davanti a Boscotetro. Allora si videro le molte barche che punteggiavano scure la superficie del lago, e il vento portò le voci degli abitanti 322
di Esgaroth che piangevano la perdita della città, dei beni e delle case. In realtà, se avessero riflettuto, avrebbero avuto molte ragioni di essere grati, benché riflettere fosse l’ultima cosa che ci si poteva aspettare da loro in quel momento: tre quarti della popolazione di Esgaroth, infatti, aveva portato in salvo almeno la vita; i boschi, i campi, i pascoli e il bestiame non erano stati danneggiati; e il drago era morto. Ma non si erano ancora resi conto di cosa tutto ciò significasse per loro. Si affollarono mesti sulla sponda occidentale, rabbrividendo nel vento freddo, e il primo bersaglio della loro rabbia e delle loro lagnanze fu il Governatore, che aveva abbandonato la città troppo presto, quando in tanti erano ancora pronti a difenderla. “Avrà anche un certo talento per gli affari, specialmente i suoi,” mormorarono alcuni, “ma non è di alcuna utilità quando succede qualcosa di grave!” E lodarono il coraggio di Bard e il suo ultimo tiro possente. “Se solo non fosse morto,” dissero tutti, “lo faremmo re. Bard, l’Uccisore del Drago, della stirpe di Girion! Ahimè, l’abbiamo perduto!” Udite quelle parole, dall’ombra sbucò un’alta figura d’uomo. Era zuppo d’acqua, i capelli neri gli spiovevano bagnati sul viso e sulle spalle, e una luce intensa brillava nei suoi occhi. “Bard non è perduto!” gridò. “Si era tuffato nel lago dopo aver ucciso il nemico. Io sono Bard, della stirpe di Girion; io sono l’uccisore del drago!” “Bard re! Bard re!” urlarono quelli; ma il Governatore digrignò i denti che fin lì aveva battuto per il freddo e la paura. “Girion era signore di Conca, non re di Esgaroth,”
disse. “Nella Città del Lago abbiamo sempre eletto i Governatori tra i vecchi o i saggi, e non abbiamo mai sostenuto l’autorità di semplici guerrieri. Che ‘Re Bard’ torni al suo regno. Conca è ormai libera grazie al suo valore, e nulla gli impedisce di tornarvi. Chiunque voglia andare con lui può farlo, se preferisce le fredde pietre dell’ombra della Montagna alle verdi sponde del lago. I saggi rimarranno qui con la speranza di ricostruire la nostra città e di godere ancora, tra non molto, della sua pace e delle sue ricchezze.” “Vogliamo Bard come nostro re!” gridarono per tutta risposta i più vicini. “Ne abbiamo abbastanza di vecchi e conta-soldi!” E i più lontani ripresero il grido: “Viva l’Arciere, abbasso Sacco di Denaro!” finché il clamore echeggiò lungo l’intera sponda. “Non sarò certo io a sottovalutare Bard l’Arciere,” disse guardingo il Governatore (poiché adesso Bard era proprio accanto a lui). “Questa notte si è guadagnato un posto eminente nell’elenco dei benefattori della nostra città; ed è degno di molte canzoni imperiture. Ma perché, o Popolo?” – e qui il Governatore si alzò in piedi e parlò con voce molto alta e chiara – “Perché tutto il biasimo tocca a me? Per quale colpa debbo essere deposto dalla mia carica? Consentitemi di chiedere: chi ha destato il drago dal suo sonno? Chi ha ottenuto da noi ricchi doni e ampio aiuto e ci ha fatto credere che le antiche canzoni potessero avverarsi? Chi si è fatto gioco del nostro buon cuore e delle nostre belle illusioni? Che tipo di oro hanno mandato giù per il fiume per compensarci? Fuoco di drago e rovina! Da chi dovremmo pretendere adesso il rimborso dei danni che abbiamo subito, e l’aiuto
per le vedove e gli orfani del nostro popolo?” Come vedete, non per nulla il Governatore aveva conquistato quella carica. Il risultato delle sue parole fu che per il momento il popolo abbandonò l’idea di avere un nuovo re e rivolse la propria ira contro Thorin e la sua Compagnia. Parole aspre e crudeli furono urlate da molte parti; e alcuni di quelli che prima avevano cantato con più forza le antiche canzoni, adesso urlavano con altrettanta forza che i nani avevano deliberatamente aizzato il drago contro di loro! “Sciocchi!” disse Bard. “Perché sprecare parole e rabbia per quegli infelici? Sono stati senz’altro i primi a morire nel fuoco, prima che Smaug venisse da noi.” E lì, proprio mentre stava parlando, nel suo cuore si affacciò il pensiero che il favoloso tesoro della Montagna giaceva senza guardiano né padrone, e allora tacque. Pensò alle parole del Governatore, e a Conca ricostruita e riempita di campane d’oro, se solo fosse riuscito a trovare aiuto. Poi riprese a parlare: “Questo non è il momento di litigare, Governatore, né di decidere grandi cambiamenti. C’è del lavoro da fare. Sono ancora al tuo servizio, anche se è possibile che tra un po’ ripensi alle tue parole e vada a nord, con chiunque voglia seguirmi”. Ciò detto, si avviò senza indugi per aiutare a organizzare gli accampamenti e a prendersi cura dei malati e dei feriti. Ma il Governatore gli lanciò un’occhiata torva mentre si allontanava, e rimase seduto a terra. Pensò molto ma parlò poco, se non per urlare ai suoi uomini di portargli fuoco e cibo. Lasciato il Governatore, Bard si accorse che dovunque andasse sentiva divampare come fiamme i 325
discorsi sull’enorme tesoro ormai incustodito. La gente discuteva della ricompensa che avrebbe ricavato dal tesoro per i danni che aveva subito, sostenendo che ne sarebbe derivata una gran ricchezza con cui tutti sarebbero andati a sud per fare acquisti sfarzosi; ed erano discussioni che li rasserenavano in quel momento di sconforto. Era proprio quel che ci voleva, perché la notte sarebbe stata lunga e penosa. Fu possibile trovare un riparo solo ad alcuni (col Governatore tra questi) e il cibo era poco (nemmeno il Governatore ne ebbe a sufficienza). Tra coloro che erano scampati incolumi alla rovina della città, molti quella notte si ammalarono per il freddo, l’umidità e l’affanno, e alcuni morirono; e nei giorni successivi ci furono molte malattie e tanta fame. Nel frattempo Bard prese il comando e ordinò quello che voleva, pur sempre in nome del Governatore, ed ebbe il difficile compito di governare il popolo e di dirigere i preparativi per dare una casa e una difesa a tutti. Sarebbero stati in molti a morire per i rigori dell’inverno incombente, se non si fosse trovato qualcuno che li aiutasse. Ma gli aiuti giunsero rapidamente, poiché Bard aveva subito spedito veloci messaggeri su per il fiume, col compito di recarsi nella foresta e chiedere soccorso al Re degli Elfi Silvani, e i messaggeri lo avevano trovato già in marcia, benché a quel punto fossero trascorsi appena tre giorni dalla caduta di Smaug. Il Re degli Elfi aveva ricevuto notizie dai suoi messaggeri personali e dagli uccelli che amavano la sua gente, e sapeva già molto di quanto era successo. L’emozione fra le creature alate che dimoravano al confine della Desolazione del Drago era davvero enor-
me. L’aria pullulava di stormi volteggianti, e i loro messaggeri più veloci volavano avanti e indietro nel cielo. Sul limitare della foresta si bisbigliava, gridava, cinguettava. La notizia si sparse anche molto al di là di Boscotetro: “Smaug è morto!” Le foglie fremettero e orecchie stupefatte si rizzarono. Ancor prima che il Re degli Elfi si mettesse in cammino, la notizia si sparse a Occidente fino ai boschi di pini delle Montagne Nebbiose; Beorn la udì nella sua casa di legno, e gli orchi tennero concilio nelle loro caverne. “Temo che non sentiremo più parlare di Thorin Scudodiquercia,” disse il Re degli Elfi. “Avrebbe fatto meglio a rimanere mio ospite. Ma è comunque una brutta faccenda,” aggiunse, “che non porta bene a nessuno.” Neanche lui, infatti, aveva dimenticato la leggenda della ricchezza di Thror. Fu così che i messaggeri di Bard lo trovarono in marcia con molti fanti e arcieri; e sopra di lui si addensavano le cornacchie, convinte che stesse per scoppiare una guerra come non se ne vedevano da tempo in quella regione. Ma il re, ricevute le richieste di Bard, si mosse a compassione, perché era il signore di un popolo buono e gentile; perciò, cambiando rotta alla sua marcia, che dapprima aveva diretto verso la Montagna, si affrettò a costeggiare il fiume verso Lago Lungo. Non aveva abbastanza barche o zattere per le sue truppe, che quindi furono costrette a marciare, rallentando l’avanzata; però si premurò di mandare avanti una gran quantità di provviste via fiume. Ma gli elfi hanno il piede leggero, e, sebbene a quei tempi non fossero molto abituati alle paludi e alle terre insidiose tra la foresta e il lago, il loro cammino fu abbastanza
spedito. Appena cinque giorni dopo la morte del drago raggiunsero il lago e videro le rovine della città. Ricevettero un benvenuto caloroso, com’era prevedibile, e tanto il popolo quanto il Governatore si dichiararono disposti a stringere qualsiasi patto per il futuro in cambio dell’aiuto offerto dal Re degli Elfi. Il piano fu presto fatto. Il Governatore rimase lì insieme alle donne e ai bambini, ai vecchi e ai malati; con loro restarono alcuni bravi artigiani e molti elfi ingegnosi, che si dedicarono ad abbattere alberi e a radunare il legname inviato dalla foresta. Poi si accinsero a costruire lungo la sponda molte capanne che offrissero riparo dall’inverno imminente; inoltre, sotto la direzione del Governatore, cominciarono a progettare una nuova città, destinata a essere perfino più bella e più grande di prima, ma non nello stesso posto. Si spostarono più a nord lungo la sponda; perché da allora ebbero paura dell’acqua dove giaceva il drago. Smaug non sarebbe mai tornato al suo giaciglio d’oro, ma il suo corpo sarebbe rimasto comunque lì, stecchito e freddo come la pietra, contorto sul fondo delle acque basse. Lì, nelle giornate di cielo sereno, le sue enormi ossa avrebbero fatto capolino tra le macerie della vecchia città. Pochi avrebbero osato attraversare quel punto maledetto, e nessuno si sarebbe azzardato a tuffarsi in quell’acqua torbida per recuperare le gemme cadute dalla sua carcassa putrefatta. Ma tutti gli uomini ancora in grado di combattere e la maggior parte dei soldati del Re degli elfi si prepararono a marciare a nord verso la Montagna. Fu così che, undici giorni dopo la rovina della città, l’avanguardia delle loro schiere passò i valichi delle rocce all’estremità del lago e giunse nelle Terre Desolate.
CAPITOLO 15
LE NUBI SI ADDENSANO
E adesso torniamo a Bilbo e ai nani. Avevano fatto la guardia a turno per tutta la notte, ma giunse il mattino senza che avessero udito o visto alcun segno di pericolo. Eppure gli uccelli andavano ammassandosi sempre più fitti. Giungevano in volo da sud, a stormi compatti; e i corvi che ancora vivevano intorno alla Montagna continuavano a volteggiare e a berciare sopra di loro. “Sta accadendo qualcosa di strano,” disse Thorin. “Il tempo delle migrazioni autunnali è finito; e questi sono comunque uccelli stanziali: vedo sciami di fringuelli e di storni; e laggiù, più lontani di tutti, ci sono nugoli di avvoltoi, come se fosse in corso una battaglia!” D’un tratto Bilbo indicò qualcosa: “C’è ancora quel vecchio tordo!” esclamò. “Dev’essersi salvato quando Smaug ha distrutto il fianco della Montagna, ma immagino che le chiocciole non abbiano fatto altrettanto!”
E in effetti il vecchio tordo era lì, e, quando Bilbo lo indicò, volò verso di loro e si appollaiò su una pietra lì accanto. Poi sbatté le ali e cantò; poi piegò il capo di lato, come per ascoltare; e daccapo cantò, e daccapo ascoltò. “Credo che stia cercando di dirci qualcosa,” disse Balin. “Ma non riesco a seguire l’idioma di questi uccelli; è troppo complicato e veloce. Tu ci capisci qualcosa, Baggins?” “Non molto,” rispose Bilbo (in realtà non ci capiva assolutamente niente), “ma il nostro amico sembra molto eccitato.” “Quanto vorrei che fosse un corvo imperiale!” disse Balin. “Credevo che non ti piacessero! Sembravi alquanto infastidito dalla loro presenza, la prima volta che siamo venuti da queste parti.” “Ma quelli erano corvi! Creature sinistre e odiose, e per giunta villane. Avrai sentito anche tu le parolacce che ci gridavano dietro. I corvi imperiali sono tutt’altra cosa. C’era una grande amicizia tra loro e il popolo di Thror: spesso ci portavano notizie segrete, e venivano ricompensati con oggetti luccicanti che amavano nascondere nelle loro dimore. “Vivono molto a lungo, hanno memoria di cose antiche e tramandano la propria saggezza ai figli. Conoscevo molti corvi imperiali della Montagna quando ero ancora un giovane nano. Un tempo questa stessa altura si chiamava Collecorvo, perché una saggia e stimata coppia di corvi imperiali, il vecchio Carc e sua moglie, viveva qui, sopra la guardiola. Ma penso che ormai nessun esemplare di quell’antica razza abiti ancora qui.”
Aveva appena finito di parlare, quando il vecchio tordo emise un trillo acuto e volò via. “Noi possiamo anche non capirlo, ma sono certo che quel vecchio uccello capisce noi,” disse Balin. “Adesso teniamo gli occhi aperti e vediamo cosa succede.” Di lì a poco ci fu un frullo d’ali, ed ecco tornare il tordo; con lui c’era un altro uccello, molto anziano. Era quasi cieco, volava a stento e aveva la sommità del capo calva. Era un vecchio corvo imperiale di grandi dimensioni. Si posò a terra davanti a loro, raccolse lentamente le ali e saltellò verso Thorin. “O Thorin, figlio di Thrain, e Balin figlio di Fundin,” gracchiò (e Bilbo poté capire quello che diceva, poiché usava la lingua corrente e non l’idioma degli uccelli). “Io sono Roäc, figlio di Carc. Carc è morto, ma un tempo voi nani lo conoscevate bene. Sono passati centocinquantatré anni e mezzo da quando sono uscito dall’uovo, ma non ho mai dimenticato gli insegnamenti di mio padre. Adesso sono il capo dei grandi corvi imperiali della Montagna. Siamo in pochi, ma ricordiamo ancora il re del tempo antico. Molti di noi si sono allontanati perché a sud ci sono grandi novità – alcune vi riempiranno di gioia, altre non vi parranno tanto buone. “Ascoltatemi bene! Gli uccelli stanno tornando da sud e da est e da ovest verso Conca e la Montagna, perché si è diffusa la voce che Smaug è morto!” “Morto? Morto?” urlarono i nani. “Morto? Allora ci siamo spaventati inutilmente – e il tesoro è nostro!” Balzarono tutti in piedi e cominciarono a far capriole di gioia. “Sì, morto,” disse Roäc. “Il tordo (che le sue pen-
ne non cadano mai!) l’ha visto morire, e possiamo credere alle sue parole. L’ha visto cadere durante la battaglia contro gli uomini di Esgaroth, tre notti fa al sorgere della luna.” Ci volle un bel po’ prima che Thorin riuscisse a convincere i nani a star zitti e ascoltare le notizie del corvo imperiale. Questi, dopo aver raccontato come si era svolta la battaglia, continuò: “Questo per quanto riguarda la gioia, Thorin Scudodiquercia. Potete tornare alle vostre sale senza alcun timore: il tesoro è tutto vostro – per il momento. Ma molti stanno accorrendo qui, a parte gli uccelli. La notizia della morte del guardiano si è già sparsa in lungo e in largo, e la leggenda della ricchezza di Thror è più viva che mai grazie ai racconti che se ne sono fatti in tanti anni; sono in tanti a bramare una parte del bottino. Una schiera di elfi è già in marcia, e gli avvoltoi li seguono sperando che ci siano battaglia e carneficina. Sul lago, gli uomini mormorano che le loro pene sono dovute ai nani, poiché non hanno più una casa, molti di loro sono morti, e Smaug ha distrutto la loro città. Anch’essi pensano di risarcirsi col vostro tesoro, che voi siate vivi o morti. “Spetta solo alla vostra saggezza decidere il da farsi; ma tredici è un piccolo avanzo del gran popolo di Durin che un tempo dimorava qui e che ora è disperso lontano. Se volete seguire il mio consiglio, non fidatevi del Governatore degli Uomini del Lago, e fidatevi piuttosto di colui che ha ucciso il drago con il suo arco. Il suo nome è Bard, della stirpe di Conca, discendente di Girion; è un uomo rude ma sincero. Ci piacerebbe veder tornare la pace tra nani, uomini ed elfi dopo la lunga desolazione; ma potrebbe co-
starvi molto oro. Non ho altro da dire.” Allora Thorin sbottò, furibondo: “Ti ringraziamo, Roäc, figlio di Carc. Tu e il tuo popolo non sarete dimenticati. Ma finché siamo vivi, il nostro oro non ci verrà tolto né col furto né con la violenza. Se vuoi meritare ancor di più la nostra gratitudine, portaci notizie di chiunque si avvicini. Inoltre ti pregherei, se alcuni di voi sono ancora giovani e hanno ali possenti, di mandare messaggeri ai nani delle montagne settentrionali, sia a ovest sia a est di qui, e di informarli della nostra situazione. Ma, soprattutto, manda qualcuno da mio cugino Dain nei Colli Ferrosi: ha molti sudditi bene armati, ed essendo il più vicino può raggiungerci prima di chiunque altro. Ordinagli di affrettarsi!” “Non dirò se questa decisione è buona o cattiva,” gracchiò Roäc, “ma farò ciò che sarà possibile fare.” E volò via, sbattendo stentatamente le ali. “Adesso torniamo sulla Montagna!” gridò Thorin. “Non c’è tempo da perdere!” “Né cibo da rodere!” esclamò Bilbo, sempre pratico riguardo a quell’argomento. D’altra parte, lo hobbit era convinto che la sua avventura, a rigor di logica, fosse finita con la morte del drago – sul che si sbagliava di grosso – e avrebbe rinunciato a gran parte della sua ricompensa in cambio di una composizione pacifica di quelle controversie. “Torniamo sulla Montagna!” gridarono i nani, come se non lo avessero udito; perciò gli toccò tornare con loro. Poiché siete già al corrente di parte dell’accaduto, vi è chiaro che i nani avevano ancora alcuni giorni davanti a sé. Esplorarono daccapo le caverne, e, come
si aspettavano, trovarono che solo la Porta Principale era rimasta aperta; tutti gli altri accessi (eccetto, ovviamente, la porticina segreta) erano stati distrutti e ostruiti da Smaug tanto tempo prima, e non ne restava traccia. Perciò si misero freneticamente all’opera per fortificare l’entrata principale e per costruire un nuovo sentiero che partisse da lì. Fu facile per loro reperire una gran quantità di attrezzi usati dai minatori, cavapietre e muratori del passato; e i nani erano ancora abilissimi a fare quel tipo di lavoro. Mentre lavoravano, i corvi imperiali li rifornivano costantemente di notizie. Così appresero che il Re degli Elfi aveva cambiato strada, dirigendosi verso il lago, e che avevano ancora tempo per rifiatare. Meglio ancora, seppero che tre dei loro pony erano scampati e vagavano allo stato brado lungo la riva del Fiume Fluente, non lontano da dove avevano lasciato il resto delle provviste. Così, mentre gli altri procedevano col lavoro, Fili e Kili, con la guida di un corvo imperiale, furono mandati a cercare i pony e a riportare indietro tutto quel che potevano. Trascorsi quattro giorni, vennero a sapere che le schiere riunite degli Uomini del Lago e degli elfi stavano marciando a tappe forzate verso la Montagna. Ma adesso le loro speranze si erano irrobustite: con un po’ di attenzione, infatti, il cibo che avevano sarebbe bastato per qualche settimana (si trattava perlopiù di cram, ovviamente, e ne erano nauseati; ma anche il cram è meglio di niente) e la Porta era già bloccata da un muro molto spesso e alto, formato da pietre squadrate che avevano poggiato l’una sull’altra per ostruire completamente il passaggio. Nel muro avevano poi scavato alcuni fori attraverso i quali si
poteva guardar fuori (o lanciare frecce) ma non si poteva passare. Entravano e uscivano servendosi di scale a pioli, e issavano i materiali tramite corde. Per permettere il deflusso del fiume, avevano progettato un basso archetto sotto il nuovo muro; ma vicino allo sbocco avevano alterato il suo letto angusto fino a creare una pozza larga e profonda, che si estendeva dal fianco della Montagna all’inizio della cascata con cui il fiume scendeva verso Conca. Adesso l’accesso alla Porta era possibile solo a nuoto o lungo una stretta cornice rocciosa, sulla destra guardando la valle. Avevano portato i pony fino ai primi gradini sopra il vecchio ponte, e lì, dopo averli scaricati, avevano ordinato loro di tornare dai loro padroni e li avevano rimandati a sud senza nessuno in groppa.
Venne poi una notte in cui un brulichio di luci, come di falò e torce, comparve all’improvviso nella valle di Conca. “Sono arrivati!” gridò Balin. “E il loro accampamento è enorme. Devono essere arrivati nella valle col favore del crepuscolo, risalendo entrambe le rive del fiume.” Quella notte i nani dormirono poco. Il mattino era ancora pallido quando videro avvicinarsi un plotone in avanscoperta. Da dietro al muro osservarono i nuovi venuti risalire la vallata e cominciare lentamente la scalata. Quando furono abbastanza vicini, videro che tra loro c’erano sia Uomini del Lago armati come per una guerra sia arcieri elfici. Di lì a poco, i soldati scalarono le rocce e apparvero in cima alla cascata; ed enorme fu la loro sorpresa nel vedersi davanti la pozza e la Porta bloccata da un muro di
pietre squadrate di fresco. Mentre indugiavano indicando la Porta e parlando tra loro, Thorin li interpellò. “Chi siete,” gridò a gran voce, “voi che venite come in guerra alle porte di Thorin figlio di Thrain, Re sotto la Montagna, e cosa volete?” Ma essi non risposero. Alcuni tornarono subito indietro; gli altri, dopo esser rimasti per un po’ a scrutare la Porta e le sue difese, li seguirono di lì a poco. Quel giorno l’accampamento fu spostato a est del fiume, proprio in mezzo ai bracci della Montagna. Le rocce echeggiarono di voci e canti come non avveniva da tempo. Si udì anche il suono di arpe elfiche e dolci melodie; e quando l’eco lo portò in alto verso di loro, fu come se il freddo dell’aria si scaldasse e li avvolgesse in una vaga fragranza di fiori di bosco sbocciati in primavera. Allora Bilbo sentì il desiderio di scappare da quella scura fortezza per unirsi all’allegria e ai festeggiamenti intorno ai fuochi. Anche alcuni dei nani più giovani si sentirono toccare il cuore, e brontolarono che avrebbero voluto trovarsi in ben altra situazione, per poter accogliere quella gente in amicizia. Ma Thorin si accigliò. Allora anche i nani tirarono fuori le arpe e gli strumenti recuperati dal tesoro, e cominciarono a far musica per addolcire l’umore di Thorin; ma il loro canto non era un canto elfico, ed era molto simile alla canzone che avevano intonato tanto tempo prima nella piccola casa di Bilbo.
Sotto il monte alto e abbuiato, il Re nella sua sala è ritornato.
Morto è il nemico, Verme del Terrore, e gli altri come lui avran lo stesso fato.
La lunga lancia e una spada accorta, la freccia lesta e la robusta porta, l’ardito cuore di chi all’oro bada saran dei nani l’invincibil scorta.
Facean i nani un dì grandiose gesta, battendo mazze qual campane a festa dove dorme laggiù tetro un mistero negli antri sotto la rocciosa cresta.
Trapuntavan di stelle le collane, i serti con baglior di drago immane e da un ritorto fil traevan dall’arpe di melodiose note voci arcane.
Del monte il trono liberato abbiamo! Odi, disperso popolo, il richiamo! Attraverso le lande qui accorrete! Amici chiede il Re: non lo lasciamo.
Giungan di là dai monti i nostri appelli. “Tornate nei vostri antichi ostelli!” Alle porte c’è il Re ch’ora vi aspetta con mani colme d’oro e di gioielli!
Il Re nella sua sala è ritornato, giù sotto il monte alto e abbuiato, il Verme del Terrore è sgominato, gli altri nemici avran lo stesso fato.
Quella canzone sembrò piacere a Thorin, che tornò a sorridere allegramente e si mise a calcolare la distanza che li separava dai Colli Ferrosi e il tempo che sarebbe servito a Dain per raggiungere la Montagna Solitaria, se fosse partito appena il messaggio lo avesse raggiunto. Bilbo, invece, si sentì gelare il sangue sia per la canzone sia per le parole di Thorin: sapevano troppo di guerra. L’indomani mattina, di buon’ora, una compagnia di lancieri fu vista attraversare il fiume e risalire la vallata. Portavano con sé il grande stendardo del Re degli Elfi e l’azzurro stendardo del lago, e avanzarono fino a fermarsi davanti al muro della Porta. Di nuovo Thorin li interpellò a gran voce: “Chi siete voi che venite armati da guerra alle porte di Thorin, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna?” Questa volta gli fu risposto. Si fece avanti un uomo alto, scuro di capelli e buio in volto, e gridò: “Salute a te, Thorin! Perché ti barrichi come un ladro nel suo covo? Non siamo ancora nemici, e ci rallegriamo che siate vivi, al di là di ogni nostra speranza. Eravamo venuti con la convinzione di non trovare nessuno; tuttavia, ora che ci siamo incontrati, abbiamo alcune questioni su cui parlamentare”. “Chi sei tu e di cosa vorresti parlamentare?” “Io sono Bard, e per mano mia il drago fu ucciso e il vostro tesoro salvato. Non è forse una questione che ti riguarda? Inoltre, sono per diritto ereditario il successore di Girion di Conca, e nel tuo tesoro è mischiata gran parte delle ricchezze della sua città e dei suoi palazzi, depredati a suo tempo da Smaug. Non è forse una questione di cui potremmo parlare?
Inoltre, nella sua ultima battaglia, Smaug ha distrutto le dimore degli uomini di Esgaroth, e io sono ancora al servizio del loro Governatore. Vorrei parlare in suo nome e chiederti se non ti sfiori il pensiero del dolore e della sventura del suo popolo. Quella gente ti ha soccorso quando eri in pericolo, e tu finora le hai portato in cambio solo rovina, anche se non l’hai fatto certo apposta.” Erano parole leali e veritiere, anche se pronunciate con fiera asprezza; e Bilbo pensò che Thorin non avrebbe indugiato a riconoscerne la legittimità. Beninteso, lo hobbit non si aspettava che qualcuno ricordasse che era stato lui da solo a scoprire il punto debole del drago; e faceva bene, visto che nessuno vi accennò. Ma non faceva i conti né con il potere dell’oro lungamente covato da un drago né con il cuore dei nani. Nei giorni precedenti, Thorin aveva passato lunghe ore nella sala del tesoro, ed era oppresso dalla brama di possederlo. Pur cercando soprattutto l’Arkengemma, aveva messo gli occhi su tante altre meraviglie ammassate laggiù, splendidi oggetti che suscitavano in lui antichi ricordi delle fatiche e dei dolori della sua stirpe. “Presenti per ultima la tua istanza peggiore, e col maggior rilievo,” rispose Thorin. “Sul tesoro del mio popolo nessuno può vantare diritti sol perché sia stato privato della vita o della casa dallo stesso drago che ha privato noi dell’oro. Il tesoro non era di Smaug, dunque le sue scelleratezze non vanno risarcite con una parte di quel bottino. Il prezzo delle merci e dell’assistenza che abbiamo ricevuto dagli Uomini del Lago verrà generosamente ripagato – a tempo debito. Ma non daremo niente, neanche il va-
lore di una pagnotta, sotto la minaccia della forza. Finché una schiera armata starà davanti alle nostre porte, vi considereremo ladri e nemici. “Vorrei anche chiedere quale parte della loro eredità avreste riconosciuto ai nostri parenti se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi.” “Domanda appropriata,” replicò Bard. “Ma voi non siete morti e noi non siamo ladri. Inoltre, i ricchi possono trattare con più generosità del dovuto i bisognosi che li abbiano trattati da amici quando erano alle strette. E le altre mie richieste non hanno ancora avuto risposta.” “Come ho detto, non parlamenterò con uomini armati alla mia porta. E tantomeno parlamenterò con il popolo del Re degli Elfi, di cui conservo un ricordo spiacevole. In questa discussione loro non c’entrano affatto. Adesso vattene, prima che fischino le nostre frecce! E se vorrai parlarmi di nuovo, prima rimanda le truppe degli elfi nei boschi cui appartengono, e poi torna, ma deponi le armi prima di avvicinarti alla soglia.” “Il Re degli Elfi è mio amico e ha soccorso gli Uomini del Lago nel momento del bisogno, pur non avendo nei loro confronti alcun dovere oltre quello dell’amicizia,” replicò Bard. “Ti daremo tempo per pentirti delle tue parole. Fa’ appello al buon senso prima del nostro ritorno!” Poi si voltò e ridiscese verso l’accampamento. Prima che fossero trascorse molte ore, gli ambasciatori tornarono, i trombettieri si fecero avanti e si annunciarono con uno squillo. “In nome di Esgaroth e della foresta,” gridò uno dei messi, “parliamo a Thorin Scudodiquercia figlio di 340
Thrain, che chiama se stesso Re sotto la Montagna, e gli intimiamo di considerare seriamente le richieste che sono state avanzate, altrimenti verrà dichiarato nostro nemico. Dovrà consegnare almeno un dodicesimo del tesoro a Bard, in quanto uccisore del drago ed erede di Girion. Con quella porzione, Bard contribuirà egli stesso ad aiutare Esgaroth; ma se Thorin vorrà avere l’amicizia e il rispetto delle terre qui intorno, come l’avevano nel passato i suoi antenati, dovrà aggiungere qualcosa di suo per soccorrere gli Uomini del Lago.” Allora Thorin tese un arco di corno e scoccò una freccia contro il messo. La freccia colpì il suo scudo e vi rimase conficcata, vibrando. “Giacché questa è la tua risposta,” gridò di rimando il messo, “dichiaro sotto assedio la Montagna. Non ve ne andrete da qui finché non ci chiederete una tregua e un parlamento. Non prenderemo le armi contro di voi, ma vi lasciamo al vostro oro. Mangiate quello, se volete!” Detto questo, i messaggeri si allontanarono velocemente, e i nani furono lasciati a meditare sulla loro situazione. Thorin si era talmente inasprito che, se anche avessero voluto, gli altri nani non avrebbero osato criticarlo; in realtà, sembrava che la maggior parte di loro condividesse la sua opinione, tranne forse il vecchio grasso Bombur, Fili e Kili. Bilbo, ovviamente, non era d’accordo sulla piega che aveva preso la faccenda. Ormai non ne poteva più della Montagna, e l’idea di essere assediato lì dentro non era affatto di suo gusto. ‘Questo posto puzza ancora di drago,’ brontolò tra sé e sé, ‘e mi fa venire la nausea. E il cram non riesco
neanche più a inghiottirlo.’
CAPITOLO 16
UN LADRO NELLA NOTTE
I giorni seguenti furono lenti e faticosi. I nani passavano gran parte del tempo a vagliare il tesoro e a metterlo in ordine; e a un certo punto Thorin parlò loro dell’Arkengemma di Thrain, ordinando di cercarla in ogni angolo. “Perché l’Arkengemma di mio padre,” disse, “vale più di un fiume tutto d’oro, e per me non ha prezzo. Dell’intero tesoro reclamo come mia soltanto quella pietra, e mi vendicherò di chiunque la trovi e la tenga per sé.” Bilbo udì quelle parole e si spaventò, chiedendosi cosa sarebbe successo se avessero trovato la pietra – avvoltolata nel fardello di cianfrusaglie scompagnate che usava come cuscino. Tuttavia non disse niente, poiché, tra le crescenti fatiche di quei giorni, nella sua piccola testa aveva cominciato a formarsi un piano. Le cose procedevano così già da un po’, quando i corvi portarono la notizia che Dain, con oltre cin-
quecento nani, partito di gran carriera dai Colli Ferrosi, si trovava ormai a un paio di giorni di marcia da Conca, proveniente da nord-est. “Ma non possono raggiungere la Montagna senza essere visti,” disse Roäc, “e temo che ci sarà battaglia nella vallata. Non credo che sia un evento auspicabile. Pur essendo di una razza tenace, è improbabile che Dain e i suoi abbiano la meglio sull’esercito che vi assedia! E anche se ci riuscissero, cosa ne guadagnereste? L’inverno e la neve incalzano dietro di loro. Come fareste a nutrirvi senza l’amicizia e la benevolenza di chi abita queste contrade? Il tesoro sarebbe la vostra morte, anche se il drago Smaug non c’è più!” Ma Thorin non si intenerì. “L’inverno e la neve morderanno sia gli uomini sia gli elfi,” disse, “e le loro truppe rischiano di trovare insopportabile la permanenza in quella vallata. Con i miei amici alle spalle e l’inverno addosso, forse saranno di umore più mite quando verranno a parlamentare.” Quella notte, Bilbo prese una decisione. Il cielo era nero e senza luna. Appena il buio fu completo, raggiunse l’angolo di una stanza interna proprio dietro l’ingresso, e tirò fuori dal suo fardello una corda e l’Arkengemma avvolta in uno straccio. Poi si arrampicò in cima al muro. C’era solo Bombur, perché era il suo turno di guardia e i nani tenevano solo una sentinella per volta. “Fa proprio freddo!” disse Bombur. “Quanto mi piacerebbe se avessimo anche qui un falò come quelli dell’accampamento!” “Dentro fa abbastanza caldo,” disse Bilbo. “Vorrei ben dire! Ma io sono costretto a stare qui
fino a mezzanotte,” brontolò il grasso nano. “È una gran seccatura. Non che mi azzardi a criticare Thorin, che la sua barba diventi sempre più lunga! Ma è sempre stato un nano molto rigido nelle sue decisioni.” “Meno rigido delle mie gambe,” disse Bilbo. “Sono stufo di scale e passaggi di pietra. Non so quanto darei per sentirmi l’erba sotto i piedi.” “Io non so quanto darei per sentirmi un liquore forte nella gola e per avere un letto soffice dopo una buona cena!” “Queste cose non posso dartele, finché dura l’assedio. Ma è passato tanto tempo dall’ultima volta che sono stato di guardia, e, se ti fa piacere, finirò il turno al posto tuo. Stanotte non ho nessuna voglia di dormire.” “Sei una brava persona, signor Baggins: accetto volentieri la tua offerta. Se ci fosse qualcosa da segnalare, svegliami per primo, mi raccomando! Andrò a sdraiarmi nella stanza più interna sulla sinistra, non lontano da qui.” “Vai pure!” disse Bilbo. “Ti sveglierò a mezzanotte, così potrai svegliare la prossima sentinella.” Appena Bombur se ne fu andato, Bilbo si infilò l’anello, annodò la corda, scavalcò il muro e si calò giù. Aveva circa cinque ore davanti a sé. Bombur avrebbe dormito (riusciva ad addormentarsi in qualsiasi momento, e dopo l’avventura nella foresta cercava sempre di riacchiappare i magnifici sogni che aveva fatto allora); e gli altri erano tutti affaccendati con Thorin. Era improbabile che qualcuno, sia pur Fili o Kili, uscisse sul muro finché non fosse arrivato il suo turno.
Il buio era fitto, e Bilbo, dopo aver lasciato il nuovo sentiero, scendendo verso il corso inferiore del fiume faticava a orientarsi in quel percorso sconosciuto. Infine raggiunse l’ansa da cui era possibile passare sull’altra riva, per poi recarsi all’accampamento come aveva intenzione di fare. Lì il letto del fiume era basso ma già largo, e guadarlo al buio non fu facile per il piccolo hobbit. Era quasi arrivato dall’altra parte, quando scivolò su una pietra rotonda e cadde con un tonfo nell’acqua fredda. Riuscì ad arrampicarsi sulla sponda, rabbrividendo e sputacchiando, quand’ecco alcuni elfi emergere dal buio e alzare le lanterne cercando la causa di quel rumore. “Non può essere un pesce!” disse uno. “Dev’esserci una spia qui intorno. Nascondete le luci! Aiuteranno più lui che noi, se è quella strana creatura che dicono sia il servo dei nani.” ‘Servo un corno!’ fremette Bilbo; e a metà del fremito fece un violento starnuto, e subito gli elfi corsero verso di lui. “Fate luce!” disse lo hobbit. “Eccomi qua, se mi volete!” e, toltosi l’anello, sbucò da dietro una roccia. Gli elfi lo afferrarono prontamente, nonostante la sorpresa. “Chi sei? Sei lo hobbit dei nani? Cosa stai facendo? Come hai fatto ad arrivare fin qui, eludendo le nostre sentinelle?” chiesero uno dopo l’altro. “Sono il signor Bilbo Baggins,” rispose lui, “compagno di Thorin, se proprio volete saperlo. Conosco di vista il vostro re, anche se forse lui non sa come sono fatto. Ma Bard si ricorderà di me, ed è proprio Bard che voglio vedere.” “Ma guarda un po’!” dissero loro. “E quali sarebbero i tuoi affari?”
“Quali che siano, sono affari miei, cari elfi. Ma se desiderate tornare ai vostri boschi da questo posto triste e freddo,” continuò lo hobbit rabbrividendo, “portatemi di corsa vicino a un bel fuoco, dove possa asciugarmi, e fatemi parlare al più presto con i vostri capi. Ho soltanto un’ora o due a disposizione.”
E fu così che, circa due ore dopo la fuga dalla Porta, Bilbo si ritrovò seduto accanto a un fuoco caldo davanti a una larga tenda, e con lui sedevano, fissandolo con curiosità, sia il Re degli Elfi sia Bard. Per loro era una novità vedere uno hobbit con l’armatura elfica, parzialmente avvolto in una vecchia coperta. “Dovete sapere,” stava dicendo Bilbo con il suo stile più persuasivo, “che la situazione si è fatta insostenibile. Per quanto mi riguarda, sono stufo dell’intera faccenda. Vorrei tanto essere di nuovo a ovest, a casa mia, dove la gente è più ragionevole. Ma ho un certo interesse in quest’affare – un quattordicesimo, per essere precisi, secondo una lettera che, per fortuna, credo di aver conservato.” E tirò fuori da una tasca della sua vecchia giacchetta (che indossava ancora sopra la cotta di maglia), sgualcita e più volte ripiegata, la lettera di Thorin che a maggio era stata messa sotto l’orologio sulla mensola del suo camino! “Parlo di una mera parte dei profitti, badate bene,” continuò. “Ne sono consapevole. Per quanto mi riguarda, sono disposto a considerare con attenzione tutte le vostre rivendicazioni e a detrarre dal totale quanto è giusto, prima di avanzare le mie richieste. Comunque, voi non conoscete Thorin Scudodiquercia quanto lo conosco io. Vi assicuro che è pronto a star seduto sul suo mucchio d’oro per tutto il tempo
che voi starete seduti qui, a costo di morire di fame.” “Ebbene, lo faccia!” disse Bard. “Uno sciocco del genere non merita che di morir di fame.” “Certo, certo” disse Bilbo. “Capisco il tuo punto di vista. Ma l’inverno incalza a gran velocità. Tra non molto avrete la neve e chissà cos’altro, e i rifornimenti saranno difficili – anche per gli elfi, immagino. E ci saranno altre difficoltà. Non avete sentito parlare di Dain e dei nani dei Colli Ferrosi?” “Sì, molto tempo fa; ma cos’hanno a che fare con noi?” domandò il re. “È proprio come pensavo. A quanto pare sono in possesso di informazioni che a voi mancano. Posso dirvi che Dain è a meno di due giorni di marcia da qui e ha con sé almeno cinquecento nani agguerriti – molti di loro sono veterani della terribile guerra degli orchi e dei nani, di cui avrete senz’altro sentito parlare. Quando arriveranno, ci saranno guai grossi.” “Perché ci dici queste cose? Intendi tradire i tuoi amici, o intendi minacciare noi?” domandò Bard aspramente. “Mio caro Bard!” squittì Bilbo. “Non essere così avventato! Non avevo mai incontrato gente tanto sospettosa! Sto solo cercando di evitare guai a tutti gli interessati. Ora vi farò un’offerta!” “Siamo pronti a sentirla!” dissero. “Siate pronti a vederla!” disse lo hobbit. “Eccola qua!” e tirò fuori l’Arkengemma, liberandola dallo straccio che la ricopriva. Il Re degli Elfi, benché i suoi occhi fossero abituati alle cose più belle e straordinarie, balzò in piedi stupefatto. Perfino Bard la fissò incantato, in silenzio. Era come se un globo fosse stato riempito di luce
lunare e appeso davanti a loro in una rete intessuta col bagliore delle gelide stelle. “Questa è l’Arkengemma di Thrain,” disse Bilbo, “il Cuore della Montagna; ed è anche il cuore di Thorin. Egli la valuta più di un fiume d’oro. Io la dò a voi. Vi sarà d’aiuto nelle vostre trattative”. Detto questo, Bilbo, non senza un fremito, non senza un’occhiata di intenso desiderio, porse la pietra meravigliosa a Bard, che la tenne in mano quasi abbagliato. “Ma con quale diritto ce la dài?” egli domandò infine, con uno sforzo. “Oh, be’!” disse lo hobbit con un certo imbarazzo, “diritti veri e propri non ne ho; ma, be’… sono disposto a darvela in cambio di ciò che vi ho chiesto, ecco. Posso anche essere uno scassinatore – o così dicono loro; personalmente non mi sono mai considerato tale – ma sono uno scassinatore onesto, spero, più o meno. Comunque, adesso tornerò indietro e i nani potranno farmi quello che vogliono. Spero che l’Arkengemma vi sia utile.” Il Re degli Elfi guardò Bilbo con nuovo stupore. “Bilbo Baggins!” disse. “Tu sei degno di indossare quell’armatura da principe elfico più di tanti che l’hanno portata con maggior grazia. Ma mi chiedo se Thorin Scudodiquercia la penserà così. La mia conoscenza della razza dei nani è forse più vasta della tua. Ti consiglio di rimanere con noi, e qui sarai onorato e tre volte benvenuto.” “Grazie infinite, ne sono sicuro,” disse Bilbo con un inchino. “Ma sarebbe ingiusto abbandonare così i miei amici, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. E poi ho promesso di svegliare il vecchio Bombur a mezzanotte! Devo proprio andarmene, e
in fretta.” Nonostante le insistenze, non riuscirono a trattenerlo; perciò gli assegnarono una scorta e, quando se ne andò, sia il re sia Bard lo salutarono con grande rispetto. Mentre Bilbo e i due elfi che lo scortavano attraversavano il campo, un vecchio avvolto in un mantello scuro si alzò dalla soglia di una tenda dov’era seduto e si avvicinò. “Ben fatto, signor Baggins!” disse il vecchio, dando a Bilbo una pacca sulle spalle. “Come al solito, sei più in gamba di quanto si possa immaginare!” Era Gandalf. Per la prima volta dopo tanti giorni, Bilbo fu davvero felice. Ma non c’era tempo per tutte le domande che voleva fargli. “Ogni cosa a suo tempo!” disse Gandalf. “La vicenda volge al termine, se non mi sbaglio di grosso. State per affrontare un brutto momento; ma non scoraggiatevi! Probabilmente riuscirete a cavarvela. Succederà qualcosa di cui neanche i corvi hanno sentito parlare. Buona notte!” Perplesso ma rinfrancato, Bilbo corse via. Fu accompagnato a un guado sicuro e raggiunse l’altra riva senza bagnarsi; poi salutò gli elfi e iniziò a inerpicarsi verso la Porta, badando a non fare rumore. Cominciava a sentirsi terribilmente stanco, ma la mezzanotte era ancora lontana quando scalò il muro arrampicandosi sulla corda – era ancora dove l’aveva lasciata. Giunto in cima, la slegò e la nascose, poi si sedette sul muro chiedendosi ansiosamente cosa sarebbe successo. A mezzanotte svegliò Bombur, poi si raggomitolò nel suo angoletto senza badare ai ringraziamenti del
vecchio nano (aveva la sensazione di non esserseli meritati). Di lì a poco si addormentò, dimenticando ogni preoccupazione fino al mattino. Per la precisione, sognò uova e pancetta.
CAPITOLO 17
SCOPPIA LA TEMEPESTA
Il giorno dopo, nell’accampamento le trombe squillarono di buon mattino. Di lì a poco si vide una staffetta affrettarsi su per lo stretto sentiero. A una certa distanza si fermò, li salutò e domandò se Thorin avrebbe dato ascolto a un’altra ambasciata, poiché incombevano grandi novità e le cose erano cambiate. “Sarà Dain!” disse Thorin quando udì quelle parole. “Avranno avuto sentore del suo arrivo. Sapevo che questo avrebbe cambiato il loro atteggiamento!” Poi si rivolse alla staffetta: “Di’ loro di venire in pochi e disarmati e io li ascolterò!” Verso mezzogiorno, si videro avanzare di nuovo gli stendardi della Foresta e del Lago. Era un drappello di venti persone. All’inizio del sentiero, posarono a terra spade e lance e proseguirono verso la Porta. Stupiti, i nani videro che tra loro c’erano sia Bard sia il Re degli elfi, preceduti da un vecchio avvolto in mantello e cappuccio, che portava uno scrigno di legno fasciato di ferro.
“Salute, Thorin!” disse Bard. “Sei sempre dello stesso parere?” “Io non cambio parere con l’alba e il tramonto di qualche sole,” rispose Thorin. “Siete venuti a farmi domande oziose? L’esercito degli elfi non è ancora andato via, come avevo intimato! Fino ad allora, inutilmente venite a trattare con me!” “Non c’è nulla per cui cederesti un po’ del tuo oro?” “Nulla che tu o i tuoi amici abbiate da offrire.” “E se fosse l’Arkengemma di Thrain?” disse Bard, e nello stesso istante il vecchio aprì lo scrigno e sollevò la gemma. La luce filtrò dalla sua mano, vivida e bianca nel mattino. Thorin trasecolò, stupefatto e confuso. Per un lungo momento nessuno parlò. Infine Thorin ruppe il silenzio, e la sua voce fremeva di collera. “Quella pietra era di mio padre e appartiene a me,” disse. “Perché dovrei comprare ciò che è mio?” Tuttavia, non resistendo allo stupore, aggiunse: “Come avete fatto a impadronirvi di quel cimelio della mia famiglia – ammesso che ci sia bisogno di fare una domanda simile a dei ladri?” “Noi non siamo ladri,” rispose Bard. “Ciò che è tuo ti verrà restituito in cambio di ciò che è nostro.” “Come avete fatto a impadronirvene?” urlò Thorin in un crescendo di collera. “Gliel’ho data io!” squittì Bilbo, facendo capolino da sopra il muro, ormai spaventato da morire. “Tu! Tu!” strillò Thorin, voltandosi verso di lui e afferrandolo con entrambe le mani. “Miserabile hobbit! Scassinatore di mezza tacca!” urlò, e scosse il povero Bilbo come un coniglio. “Per la barba di Durin! Quanto vorrei che Gandalf
fosse qui! Sia maledetto per averti scelto! Possa cadergli la barba! Quanto a te, ti getterò sulle rocce!” strillò, e alzò Bilbo tra le braccia. “Fermo! Il tuo desiderio è esaudito!” disse una voce. Il vecchio con lo scrigno si tolse il cappuccio e il mantello. “Ecco qua Gandalf! E giusto in tempo, a quel che vedo! Se non ti piace il mio scassinatore, per favore non rovinarlo. Mettilo giù e ascolta prima cosa ha da dire!” “Allora siete in combutta!” disse Thorin, lasciando cadere Bilbo sul ciglio del muro. “Non voglio mai più avere niente a che fare con uno stregone o con i suoi amici. Cos’hai da dire tu, brutto ratto figlio di ratti?” “Povero me! Povero me!” disse Bilbo. “Tutto questo è molto spiacevole. Ricordi di avermi detto che avrei potuto scegliere la mia quattordicesima parte? Forse ti ho preso troppo alla lettera – mi è stato detto che a volte i nani sono più generosi a parole che a fatti. Tuttavia c’è stato un tempo in cui sembravi convinto che vi fossi stato di un certo aiuto. Figlio di ratti, eh? È questo il rispetto che mi hai promesso a nome tuo e della tua famiglia, Thorin? Considera che ho disposto a piacer mio della mia parte e lascia perdere!” “Lo farò!” disse bruscamente Thorin. “E lascerò perdere anche te – e il cielo voglia che non ci incontriamo mai più!” Poi si voltò e parlò dall’alto del muro. “Sono stato tradito,” disse. “Era giusto immaginare che non avrei rinunciato a riscattare l’Arkengemma, il tesoro della mia casata. In cambio darò la quattordicesima parte del tesoro in oro e argento, escludendo le gemme; ma tutto ciò verrà calcolato come la parte promessa a questo traditore, che con
tale ricompensa se ne andrà, e potrete dividervela come vi pare. A lui non toccherà granché, ne sono certo. Prendetevelo, se volete che viva; e la mia amicizia non lo accompagna. “E adesso va’ dai tuoi amici!” disse a Bilbo. “O ti butto giù io.” “E l’oro e l’argento?” domandò Bilbo. “Verranno dopo, nel modo che stabiliremo,” disse Thorin. “Va’ via!” “Fino ad allora terremo noi la pietra,” gridò Bard. “Non stai facendo una gran figura come Re sotto la Montagna,” disse Gandalf. “Ma le cose possono ancora cambiare.” “Possono eccome,” disse Thorin. E il fascino che il tesoro esercitava su di lui era così forte, che stava già chiedendosi se con l’aiuto di Dain non potesse riprendersi l’Arkengemma e trattenere la quota del riscatto. E così Bilbo fu calato dal muro, e andò via senza ricevere niente in cambio della pena che si era dato, a parte l’armatura che Thorin gli aveva regalato. Nel vederlo andare via, molti nani provarono vergogna e dispiacere. “Addio!” gridò loro lo hobbit. “Spero che un giorno ci rivedremo da amici.” “Vattene!” urlò Thorin. “Indossi un’armatura forgiata dalla mia gente, e non ne sei degno. Le frecce non possono scalfirla; ma se non ti sbrighi, ti bucherò quei miserabili piedi. Perciò spicciati!” “Senza tanta fretta!” disse Bard. “Ti diamo tempo fino a domani. A mezzogiorno torneremo a vedere se hai prelevato dal tesoro la porzione da barattare con la pietra. Se sarà fatto senza inganni, andremo
via e l’esercito degli elfi tornerà nella foresta. Nel frattempo, addio!” Detto ciò, tornarono all’accampamento; ma Thorin inviò a Dain i messaggeri di Roäc per informarlo dell’accaduto e ordinargli di avanzare con cautela ma in fretta. Passò il giorno e passò la notte. L’indomani, il vento prese a soffiare da ovest; l’aria era scura e tetra. Il mattino era ancora acerbo quando nell’accampamento si udì un grido. Alcune staffette vennero a riferire che un esercito di nani era apparso dietro lo sperone orientale della Montagna e avanzava spedito verso la valle. Dain era arrivato. Aveva forzato la marcia durante la notte e piombava su di loro prima di quanto si aspettassero. I nani del suo esercito indossavano un ausbergo di maglia d’acciaio che arrivava fino alle ginocchia, e le gambe erano protette da schinieri fatti di una lega metallica fine e flessibile, il cui segreto era noto solo al popolo di Dain. I nani sono eccezionalmente forti per la loro statura, ma quelli di Dain erano perfino più forti degli altri nani. In battaglia brandivano a due mani pesanti gravine; ma ciascuno di loro aveva al fianco anche una spada corta e larga, e uno scudo rotondo gli pendeva sulla schiena. Portavano la barba divisa in due, intrecciata e infilata nella cintura. Avevano elmi di ferro, scarpe ferrate e facce truci. Le trombe chiamarono alle armi uomini ed elfi. Di lì a poco si videro i nani risalire la vallata a passo spedito. Si fermarono tra il fiume e lo sperone orientale; ma alcuni continuarono ad avanzare e, attraversato il fiume, si avvicinarono all’accampamento; lì deposero le armi e alzarono le mani in segno di pace. Bard
andò loro incontro, e Bilbo lo seguì. “Ci manda Dain figlio di Nain,” dissero quando furono interrogati. “Dobbiamo raggiungere in fretta i nostri fratelli sulla Montagna, poiché abbiamo saputo che l’antico regno è risorto. Ma chi siete voi che state acquartierati in questa pianura come nemici di fronte a mura ostili?” Questo, nel linguaggio formale e antiquato che si usava in tali occasioni, significava semplicemente: “Qui non avete niente da fare. Noi andiamo avanti, dunque toglietevi di mezzo o vi facciamo guerra!” Avevano in animo di inoltrarsi tra la Montagna e l’ansa del fiume, ritenendo che quella stretta striscia di terra non fosse abbastanza protetta. Bard, ovviamente, rifiutò di permettere ai nani l’accesso alla Montagna. Voleva trattenerli finché l’oro e l’argento non gli fossero stati consegnati in cambio dell’Arkengemma; pensava infatti che il passaggio non sarebbe avvenuto se la fortezza fosse stata difesa da rinforzi così numerosi e agguerriti. Avevano portato con sé una grande scorta di provviste; i nani riescono a caricarsi sulle spalle pesi ingenti, e quasi tutti i soldati di Dain, nonostante la rapida marcia, trasportavano grossi fagotti, oltre alle armi. Avrebbero resistito a settimane di assedio, e nel frattempo altri nani sarebbero potuti arrivare, e altri ancora, poiché Thorin aveva molti parenti. Inoltre sarebbero riusciti a riaprire e difendere qualche altro accesso, e così gli assedianti avrebbero dovuto circondare l’intera Montagna; ma loro non erano abbastanza numerosi per farlo. In effetti quelli erano proprio i piani dei nani (poiché i corvi-staffetta avevano fatto un gran viavai fra Thorin e Dain); ma per il momento la via era sbar-
rata, perciò, dopo aver proferito qualche parola minacciosa, i messi di Dain si ritirarono bofonchiando sotto le barbe. Allora Bard inviò subito i suoi messi alla Porta, dove però non trovarono né oro né argento. Vennero investiti dalle frecce appena furono a tiro, e di corsa tornarono indietro scornati. L’accampamento era ormai in gran fermento, come se la battaglia fosse imminente; i nani di Dain, infatti, stavano avanzando lungo la riva orientale. “Sciocchi!” rise Bard. “Avvicinarsi così al contrafforte della Montagna! Qualunque cosa sappiano di battaglie nelle miniere, non capiscono niente di guerra in campo aperto. Ho fatto appostare molti arcieri e lancieri tra le rocce sul loro fianco destro. Le armature nanesche saranno anche buone, ma presto verranno messe a dura prova. Attacchiamoli subito da entrambi i lati, prima che si siano riposati!” Ma il Re degli Elfi disse: “Indugerò a lungo prima di dare inizio a questa guerra per l’oro. I nani possono farcela soltanto col nostro benestare, o per un caso che non dipenda dalla nostra volontà. Conviene continuare a sperare che qualcosa porti alla riconciliazione. E se alla fine si rivelerà inevitabile il malaugurato ricorso alle armi, la nostra superiorità numerica sarà sufficiente”. Ma faceva i conti senza i nani. Sapere che l’Arkengemma era in mano agli assedianti non gli dava pace; e così, intuendo l’esitazione di Bard e dei suoi amici, decisero di attaccare mentre loro discutevano. All’improvviso, senza alcun segnale, balzarono silenziosamente in avanti per sferrare l’attacco. Gli archi si tesero, le frecce sibilarono: la battaglia stava per cominciare.
Ma, ancor più all’improvviso, una fitta oscurità scese in un baleno! Un’immensa nuvola nera invase il cielo. Una tempesta d’inverno, sospinta da un vento fortissimo, si avventò tuonando contro la Montagna, e la vetta sfolgorò di fulmini. E sotto la nuvola si vide avanzare vorticando un altro ammasso nero; ma non veniva col vento, veniva da nord, un’immensa nube di uccelli, così fitta che tra le loro ali non passava neanche un filo di luce. “Fermi!” gridò Gandalf, che apparve a un tratto e si stagliò, con le braccia levate, fra i nani che avanzavano e le schiere che li aspettavano. “Fermi!” gridò con voce tonante, e dal suo bastone si sprigionò un bagliore simile a un fulmine. “Il terrore piomba su tutti voi! Ahimè! È arrivato prima di quanto immaginassi. Incombono gli orchi! O Dain, dal nord sta arrivando Bolg, figlio di colui che uccidesti a Moria! Guardate! I pipistrelli accompagnano il suo esercito come una marea di locuste. Orchi a cavallo di lupi, coi Mannari al seguito!” Tutti erano in preda a sgomento e confusione. Il buio si era fatto più fitto mentre Gandalf parlava. I nani si erano fermati e guardavano il cielo. Gli elfi urlavano con gran clamore. “Venite!” disse Gandalf. “C’è ancora tempo per un consiglio. Mandate subito da noi Dain figlio di Nain!” Cominciò dunque una battaglia che nessuno si aspettava; venne chiamata Battaglia dei Cinque Eserciti, e fu tremenda. Da un lato, Orchi e Lupi Selvaggi; dall’altro, Elfi, Uomini e Nani. Ecco com’era maturata. Quando era caduto il Grande Orco delle Montagne Nebbiose, l’odio della sua razza nei con-
fronti dei nani si era riacceso più violento che mai. Messaggeri avevano fatto la spola fra tutte le città, le colonie e le roccaforti degli orchi, che avevano infine deciso di assicurarsi il dominio del nord. Avevano raccolto informazioni in gran segreto, mentre sui monti forgiavano armi e si preparavano allo scontro. Poi si erano messi in marcia scendendo per valli e colline, confluendo da ogni dove e avanzando sempre sotto terra o al buio, finché, ai piedi della Grande Montagna di Gundabad a nord, dov’era la loro capitale, non avevano radunato un vasto esercito pronto a riversarsi a sud, di sorpresa, durante una tempesta. Poi avevano saputo della morte di Smaug, e i loro cuori si erano riempiti di gioia; a marce forzate, notte dopo notte, avevano superato le montagne per poi arrivare, all’improvviso, proprio alle calcagna di Dain. Neanche i corvi si erano accorti del loro arrivo finché non li avevano visti sbucare nelle terre desolate tra la Montagna Solitaria e le colline alle sue spalle. È impossibile dire cosa ne sapesse Gandalf, ma è chiaro che non si aspettava un attacco così improvviso. Ed ecco il piano che egli elaborò in consiglio con il Re degli Elfi e Bard; e anche con Dain, giacché il signore dei nani aveva deciso di unirsi a loro: gli orchi erano nemici di tutti, e il loro arrivo aveva fatto dimenticare ogni altro dissidio. L’unica speranza che avessero era quella di attirare gli orchi nella vallata tra i contrafforti della Montagna, e di riuscire a occupare i grandi speroni che sporgevano a sud e a est. C’era il rischio che gli orchi fossero così numerosi da poter invadere la Montagna stessa, attaccandoli così anche da dietro e dall’alto: ma non c’era più tempo per fare un altro piano, né per chiedere aiuto.
Presto la tempesta passò, rotolando verso sud-est; ma la nube di pipistrelli, volando più bassa, giunse sopra il dorso della Montagna, e volteggiò su di loro oscurando il cielo e riempiendoli di terrore. “Alla Montagna!” gridò Bard. “Alla Montagna! Prendiamo posizione finché c’è ancora tempo!” Sullo sperone meridionale, tra le rocce ai suoi piedi e sulle pendici più basse, si disposero gli elfi; sullo sperone orientale si appostarono uomini e nani. Bard e alcuni fra gli elfi e gli uomini più agili, invece, si arrampicarono sulla cresta orientale, per avere una visuale del versante nord. Di lì a poco videro il terreno ai piedi della Montagna farsi nero di truppe nemiche. Ben presto un’avanguardia di orchi aggirò la punta dello sperone e irruppe nella valle. Erano i più veloci tra quelli che cavalcavano i lupi, e già da lontano si udivano le loro urla e gli ululati delle bestie squarciare l’aria. Un intrepido drappello di uomini gli si parò davanti per tentare una resistenza, ma presto fu costretto a ritirarsi e a ripiegare sui lati lasciando sul terreno diversi caduti. Come Gandalf aveva sperato, l’esercito degli orchi si era ammassato dietro l’avanguardia bloccata da quei valorosi, e adesso eccolo riversarsi impetuoso nella valle e sciamare alla spicciolata tra i due contrafforti della Montagna in cerca del nemico. I loro stendardi erano innumerevoli, rossi e neri, e avanzavano come una marea furibonda e disordinata. Fu una battaglia terribile. Per Bilbo fu l’esperienza più spaventosa che avesse mai vissuto, e quella che sul momento sentì di detestare più di ogni altra – vale a dire quella di cui sarebbe stato più fiero per tanti anni a venire, e che avrebbe raccontato con più
piacere, pur avendovi svolto un ruolo del tutto insignificante. In effetti posso dire che il piccolo hobbit si infilò l’anello quasi subito, scomparendo così alla vista se non al pericolo. Gli anelli magici di quel tipo non sono una protezione assoluta durante una carica di orchi, non fermano frecce scoccate né lance scagliate; però ti aiutano a svignartela, ed evitano alla tua testa di essere prescelta da un orco per menare un fendente. Gli elfi furono i primi a caricare. Il loro odio nei confronti degli orchi è freddo e spietato. Nella penombra, dalle loro lance e dalle loro spade guizzava un bagliore di fiamma, tanto era letale l’ira delle mani che le brandivano. Appena le schiere nemiche si infittirono nella vallata, gli elfi scagliarono una pioggia di frecce, le cui punte scintillarono come se fossero intrise di fuoco. Dopo le frecce, mille lancieri balzarono giù dalle rocce e si avventarono verso il nemico. Le urla erano assordanti. Le rocce erano chiazzate di nero dal sangue degli orchi. Mentre questi reagivano all’assalto furioso rintuzzando la carica degli elfi, un ruggito vibrante solcò la valle di Conca. Tra grida di “Moria!” e “Dain, Dain!”, i nani dei Colli Ferrosi sferrarono l’attacco sul fianco opposto brandendo le gravine; e dietro di loro venivano gli Uomini del Lago con le loro lunghe spade. Gli orchi furono presi dal panico; e, mentre si voltavano a fronteggiare quel nuovo attacco, gli elfi tornarono alla carica con altri rinforzi. Già molti orchi fuggivano giù per il fiume per sfuggire alla duplice morsa; e molti dei loro lupi si rivoltavano loro contro e facevano scempio di morti e feriti. La vittoria sem-
brava a portata di mano, quando un grido risuonò sulle alture sovrastanti. Centinaia di orchi avevano scalato la Montagna dall’altro lato, e già in molti avevano raggiunto i pendii sopra la Porta; e altri ancora scendevano a frotte per attaccare gli speroni dall’alto, incuranti delle urla di quelli che cadevano da rupi e precipizi. Ai due speroni si arrivava percorrendo i sentieri che scendevano dal massiccio centrale della Montagna; e i difensori erano troppo pochi per poter resistere a lungo. Ecco dunque svanire ogni speranza di vittoria. Avevano solo arginato il primo assalto furioso della marea nera. Passarono le ore. Gli orchi si raccolsero di nuovo nella valle. Sopraggiunse un branco di Mannari famelici, seguito dalla guardia del corpo di Bolg, enormi orchi dalle scimitarre d’acciaio. Presto il buio si infittì nel cielo tempestoso; i grandi pipistrelli continuavano a vorticare intorno alla testa e alle orecchie degli elfi e degli uomini, o si avventavano sui caduti per succhiarne il sangue. Bard si batteva per difendere lo sperone orientale, ma a poco a poco cedeva terreno; e i nobili elfi erano arroccati con il loro re sullo sperone meridionale, vicino al posto di guardia di Collecorvo. All’improvviso si udì un grido fortissimo, e dalla Porta venne uno squillo di tromba. Avevano dimenticato Thorin! Parte del muro, azionata da leve, si abbatté all’esterno e rovinò nella pozza. Dal varco balzarono fuori il Re sotto la Montagna e i suoi compagni. Cappucci e mantelli erano spariti: indossavano tutti armature luccicanti, e vampe rosse guizzavano dai loro occhi. Il Grande Nano brillava nell’oscurità
come oro in un fuoco morente. Dall’alto, gli orchi rovesciarono su di loro un diluvio di macigni; ma i nani tennero duro, si lanciarono ai piedi della cascata e si avventarono sul nemico. Davanti a loro, lupi e cavalieri stramazzavano o si davano alla fuga. Thorin assestava colpi possenti con la sua ascia, e sembrava invulnerabile. “A me! A me! Elfi e Uomini! A me, miei consanguinei!” gridava, e la sua voce squillava come un corno nella valle. I nani di Dain accorsero in suo aiuto, incuranti dello schieramento. Accorsero anche molti Uomini del Lago, ché Bard non era riuscito a trattenerli; e dall’altro versante arrivarono molti lancieri elfici. Ancora una volta gli orchi furono sopraffatti; e vennero abbattuti in mucchi sempre più alti finché la valle non fu nera e orrida dei loro cadaveri. I Mannari vennero dispersi e Thorin puntò dritto contro le guardie di Bolg. Ma non riuscì a sfondare i loro ranghi. Già dietro di lui, tra gli orchi abbattuti, giacevano in gran quantità uomini e nani, e anche nobili elfi che avrebbero dovuto vivere ancora a lungo e allegramente nei loro boschi. E man mano che la valle si allargava, l’attacco di Thorin si faceva più fiacco. Le sue truppe non erano abbastanza numerose. I suoi fianchi erano sguarniti. Di lì a poco gli attaccanti si ritrovarono attaccati, stretti in un gran cerchio di nemici, fronteggiati da ogni lato, assaliti da orchi e lupi che tornavano alla carica. Le guardie di Bolg vennero avanti ululando, e si avventarono sui loro ranghi come onde su rive di sabbia. I loro amici non potevano aiutarli, poiché l’attacco dalla Montagna era ripreso con raddoppiato vigore, e su entrambi i lati
uomini ed elfi stavano lentamente cedendo. Bilbo assisteva a tutto ciò con grande sconforto. Aveva preso posizione su Collecorvo in mezzo agli elfi – in parte perché da lì le possibilità di fuga erano maggiori, e in parte (la parte più Tuc del suo cervello) perché se avesse dovuto partecipare a una difesa disperata, tutto sommato avrebbe preferito difendere il Re degli Elfi. Va detto che lì c’era anche Gandalf, seduto a terra come per una profonda riflessione, preparando, presumo, un ultimo colpo di magia prima della fine. Fine che non sembrava molto lontana. ‘Ancora poco,’ pensò Bilbo, ‘e gli orchi conquisteranno la Porta, e noi verremo tutti massacrati o inseguiti e catturati. Ce n’è a sufficienza per piangere, dopo tutto quello che abbiamo passato. Sarebbe stato meglio se quel maledetto tesoro fosse rimasto tra le grinfie del vecchio Smaug, così adesso non cadrebbe in mano a questi esseri abominevoli, e il povero Bombur e Balin e Fili e Kili e tutti gli altri non rischierebbero di fare una brutta fine; e con loro Bard e gli Uomini del Lago e gli allegri elfi. Povero me! Ho udito canti di molte battaglie, e ne ho sempre dedotto che anche la sconfitta possa essere gloriosa. Invece ha tutta l’aria di essere spiacevole, per non dire angosciosa. Vorrei proprio lasciarmela alle spalle.’ A un tratto, le nuvole vennero spazzate via dal vento, e un rosso tramonto squarciò l’Occidente. Vedendo quell’improvvisa luce squarciare le tenebre, Bilbo si guardò attorno. Lanciò un grido; aveva visto qualcosa che gli faceva balzare il cuore in petto: su quel chiarore lontano si stagliavano sagome scure, ancora piccole eppur maestose.
“Le aquile! Le aquile!” gridò. “Stanno arrivando le aquile!” Era raro che gli occhi di Bilbo si ingannassero. Le aquile stavano arrivando col vento, a ranghi ravvicinati, ed erano così numerose che dovevano essere accorse da tutti i nidi del Nord. “Le aquile! Le aquile!” gridò Bilbo, ballando e agitando le braccia. Gli elfi non potevano vederlo, però potevano udirlo. Presto ripresero il suo grido, facendolo echeggiare nella valle. Molti occhi stupiti si volsero in alto, sebbene non si potesse vedere ancora niente, tranne dallo sperone meridionale della Montagna. “Le aquile!” gridò di nuovo Bilbo, ma in quell’istante una pietra precipitata dall’alto colpì con forza il suo elmo, e lo hobbit cadde con un tonfo e non sentì più niente.
CAPITOLO 18
IL VIAGGIO DI RITORNO
Quando ritrovò i sensi, Bilbo non ritrovò nient’altro. Era disteso sulle piatte rocce di Collecorvo, da solo, senza nessuno attorno. Sopra di lui si stendeva un cielo limpido ma gelido. Tremava e si sentiva freddo come una pietra, ma aveva la testa in fiamme. ‘Cosa sarà successo?’ disse tra sé e sé. ‘A quanto pare non sono tra gli eroi caduti, ma immagino che per questo ci sia ancora tempo!’ Si alzò a sedere, dolorante. Guardando nella vallata non vide traccia di orchi vivi. Di lì a poco, schiaritosi le idee, gli parve di vedere alcuni elfi muoversi tra le rocce ai piedi della Montagna. Si stropicciò gli occhi. Di sicuro c’era ancora un accampamento laggiù nella pianura; e non c’era forse un andirivieni intorno alla Porta? Sembrava che i nani fossero impegnati a rimuovere il muro. Ma tutto era immerso in un silenzio di tomba. Non si udivano grida, né risuonavano canti. L’aria sembrava intrisa di dolore. “Se non capisco male, alla fine abbiamo vinto!” dis-
se, toccandosi la testa indolenzita. “Peccato che la vittoria abbia un aspetto così triste!” All’improvviso, vide un uomo inerpicarsi su per il pendio e avanzare verso di lui. “Ehilà!” gli gridò, con voce tremante. “Ehilà! Che notizie ci sono?” “Che voce è questa che parla tra le pietre?” disse l’uomo, fermandosi e sbirciando attorno, non lontano da dove sedeva Bilbo. Allora Bilbo si ricordò dell’anello! “Santi numi!” disse. “Quest’invisibilità ha anche qualche svantaggio. Altrimenti avrei potuto passare la notte caldo e comodo in un letto! “Sono io, Bilbo Baggins, compagno di Thorin!” gridò, affrettandosi a sfilare l’anello. “Meno male che ti ho trovato!” disse l’uomo, avanzando a grandi passi. “Sei atteso, e ti abbiamo cercato a lungo. Ti avrebbero segnato tra i morti, che sono in gran numero, se lo stregone Gandalf non avesse detto che la tua voce era stata udita per l’ultima volta proprio qui. Mi avevano mandato per questo, in un estremo tentativo di trovarti. Sei conciato male?” “Una brutta botta in testa, credo,” disse Bilbo. “Ma avevo l’elmo e ho la testa dura. Comunque mi sento acciaccato e ho le gambe come due fuscelli.” “Ti porterò all’accampamento laggiù,” disse l’uomo, e lo sollevò senza sforzo. Era un omone agile e robusto. Non gli ci volle molto per raggiungere la valle e deporre Bilbo davanti a una tenda; lì lo hobbit trovò Gandalf, che aveva un braccio appeso al collo. Neanche lo stregone se l’era cavata senza ferite; e in tutto l’esercito erano rimasti
illesi in pochi. Quando Gandalf vide Bilbo, ne fu felice. “Baggins!” esclamò. “Non ci speravo più! Allora sei vivo – sono proprio contento! Cominciavo a chiedermi se la fortuna avesse abbandonato anche te! È stata una battaglia dura, e rischiava di trasformarsi in un disastro. Ma le altre notizie possono aspettare. Vieni!” disse, in tono più mesto. “Sei atteso.” E condusse lo hobbit dentro la tenda. “Salute, Thorin!” disse Gandalf entrando. “Te l’ho portato.” E lì giaceva Thorin Scudodiquercia, ferito da molte ferite; per terra, vicino a lui, c’erano la sua armatura e la sua ascia, ammaccate e inservibili. Quando Bilbo si avvicinò, il vecchio nano alzò gli occhi. “Addio, buon ladro,” disse. “Sto per raggiungere i miei avi, nelle vaste sale dove essi attendono il rigenerarsi del mondo. L’oro e l’argento non hanno alcun valore lì dove vado, pertanto li lascio qui, e voglio separarmi da te in amicizia, ritirando le parole e le offese che ti ho rivolto davanti alla Porta.” Bilbo piegò un ginocchio a terra, con il cuore carico di dolore. “Addio, Re sotto la Montagna!” disse. “Amara è la nostra avventura, se deve finire così; e neppure una montagna d’oro potrebbe rimediare. Tuttavia, sono felice di esserti stato accanto nel pericolo – è un onore che nessun Baggins meriterebbe.” “No!” disse Thorin. “In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura. Se fossero più numerosi tra noi coloro che preferiscono il mangiare, il ridere e il cantare all’accumulare oro, questo mondo sarebbe più lieto. Ma triste o lieto, adesso
debbo lasciarlo. Addio!” Allora Bilbo si voltò e andò a sedersi in disparte, avvolto in una coperta, e, che lo crediate o no, pianse finché i suoi occhi si fecero rossi e la sua voce rauca. Aveva un animo sensibile, e sarebbe passato molto tempo prima che ritrovasse il piacere di scherzare. ‘È stata proprio una fortuna,’ disse infine tra sé e sé, ‘che mi sia svegliato quando l’ho fatto. Vorrei che Thorin fosse ancora vivo, ma sono contento che ci siamo separati in amicizia. Sei uno sciocco, Bilbo Baggins, e hai combinato un bel guaio con quella faccenda della pietra; e c’è stata una battaglia nonostante i tuoi sforzi di ottenere pace e tranquillità, anche se di questo non credo che tu abbia colpa.’ Bilbo apprese solo in seguito cosa fosse successo dopo il suo svenimento; e ne ricavò più dolore che gioia, stanco com’era ormai di quella avventura. Bramava di intraprendere il viaggio di ritorno. Ma il suo viaggio sarebbe iniziato con un certo ritardo, perciò, nel frattempo, vi racconterò una parte di quegli eventi. Da molto tempo le aquile avevano notato con sospetto le manovre degli orchi, i cui movimenti sulle montagne non potevano restare del tutto celati alla loro vista acutissima. Si erano dunque radunate anch’esse in gran numero, al comando della Grande Aquila delle Montagne Nebbiose; e infine, avendo avuto da lontano sentore di battaglia, si erano lanciate in volo sulle ali di un vento impetuoso, ed erano arrivate appena in tempo. Erano state loro a snidare gli orchi dai pendii, scaraventandoli giù per i precipizi, o sollevandoli con gli artigli, urlanti e sconvolti. E in breve avevano liberato la Montagna Solitaria, e così gli elfi e gli uomini arroccati sulle alture erano 370
riusciti a tornare giù nella valle di Conca per portare aiuto ai compagni che ancora vi combattevano. Ma, nonostante l’intervento delle aquile, erano ancora inferiori di numero. Finché, all’ultimo momento, era apparso Beorn in persona – nessuno sapeva né come né da dove. Era arrivato da solo e in forma d’orso; e nella sua furia sembrava aver raggiunto dimensioni gigantesche. Il rombo della sua voce era pari a quello di tamburi e cannoni; e spazzava via dalla sua strada lupi e orchi come se fossero piume e pagliuzze. Piombò sulla retroguardia degli orchi e irruppe come un tuono in mezzo all’accerchiamento. I nani stavano tenendo la posizione intorno ai loro signori, su una bassa collina circondata dagli orchi. Beorn si chinò a sollevare Thorin, che era caduto trafitto dalle lance, e lo portò lontano dalla mischia. Ma subito tornò, con furia raddoppiata, tanto che nulla riusciva a fermarlo e nessun’arma sembrava scalfirlo. Sbaragliò le guardie del corpo, abbatté Bolg e lo calpestò. Allora il terrore piombò nel cuore degli orchi, ed essi si diedero alla fuga in tutte le direzioni. Ma le nuove speranze avevano dissipato la stanchezza dei loro nemici, che cominciarono a incalzarli da vicino, impedendo la fuga alla maggior parte di loro. Ne spinsero molti nel Fiume Fluente, e inseguirono fin nelle paludi intorno al Fiume Selva coloro che scappavano a sud o a ovest; in quelle acque la maggior parte degli ultimi fuggiaschi trovò la morte, e gli altri che stavano per raggiungere il reame degli Elfi Silvani vennero abbattuti lì, o trascinati a morire nelle tenebre fitte e impenetrabili di Boscotetro. Stando a ciò che raccontano le canzoni, quel giorno morirono tre quarti
degli orchi guerrieri del Nord, e le montagne ebbero pace per molti anni. La vittoria venne assicurata prima del calar della notte; ma l’inseguimento era ancora in corso quando Bilbo tornò all’accampamento; e nella vallata erano rimasti in pochi, a parte quelli più gravemente feriti. “Dove sono le aquile?” chiese Bilbo a Gandalf quella sera, mentre giaceva avvolto in calde coperte. “Alcune stanno ancora inseguendo gli orchi,” disse lo stregone, “ma molte sono tornate ai loro nidi. Non volevano restare qui, e sono partite con la prima luce del mattino. Dain ha incoronato d’oro il loro re e gli ha giurato eterna amicizia.” “Peccato. Voglio dire, mi sarebbe piaciuto rivederle,” disse Bilbo, insonnolito, “forse le vedrò sulla via del ritorno. Immagino che andrò a casa presto, vero?” “Quando vuoi,” disse lo stregone. In realtà passarono diversi giorni prima che Bilbo si mettesse davvero in cammino. Seppellirono Thorin nel profondo della Montagna, e Bard depose l’Arkengemma sul suo petto. “Che questa pietra rimanga qui finché la Montagna non cade!” disse. “Possa portare fortuna a tutto il suo popolo, che qui dimorerà in futuro!” Poi il Re degli Elfi depose sulla tomba Orcrist, la spada elfica che era stata tolta a Thorin durante la prigionia. Le canzoni dicono che essa brillasse nel buio all’avvicinarsi di un nemico, impedendo così che la fortezza dei nani venisse attaccata di sorpresa. E lì prese dimora Dain, figlio di Nain, e divenne Re sotto la Montagna, e negli anni molti altri nani si sarebbero raccolti intorno al suo trono nelle antiche sale. Dei dodici compagni di Thorin, ne rimanevano dieci. Fili
e Kili erano caduti difendendolo con lo scudo e col corpo, poiché Thorin era il fratello maggiore della loro madre. Gli altri rimasero con Dain, che si occupò del tesoro con giudizio. Ovviamente non si fece più questione di spartire il bottino secondo le quote previste, a Balin e Dwalin, e Dori e Nori e Ori, e Oin e Gloin, e Bifur e Bofur e Bombur – o a Bilbo. Tuttavia, un quattordicesimo di tutto l’oro e l’argento, lavorato e non lavorato, venne consegnato a Bard; perché Dain disse: “Dobbiamo rispettare la parola di Thorin, che adesso ha l’Arkengemma in sua custodia”. Anche un semplice quattordicesimo era una ricchezza incredibilmente grande, più grande di quella di tanti re mortali. Di quel tesoro, Bard mandò una buona parte in oro al Governatore della Città del Lago; e ricompensò generosamente i suoi seguaci e amici. Al Re degli Elfi, sapendo quanto gli fossero cari, diede gli smeraldi di Girion, che Dain gli aveva restituito. A Bilbo disse: “Questo tesoro è tuo quanto mio; ma gli antichi patti non possono più valere, perché sono in tanti ormai a vantare un diritto su di esso, avendolo conquistato e difeso. Tuttavia, anche se tu fossi disposto a rinunciare a tutti i tuoi diritti, vorrei che le parole di Thorin, di cui si è pentito, non si rivelassero vere, ossia che ti dessimo poco. Intendo ricompensarti più riccamente di tutti”. “Sei molto gentile,” disse Bilbo. “Ma per me è un vero sollievo. Non so come avrei fatto a portarmi a casa tutto quel tesoro senza agguati e scannamenti lungo la strada. E non so cosa me ne sarei fatto una volta tornato a casa. Sono sicuro che starà meglio
nelle tue mani.” Alla fine, Bilbo accettò di prendere solo due cassette, una colma d’argento e l’altra d’oro, quante ne poteva portare un pony robusto. “Sarà più che sufficiente,” disse. Poi venne per lui il momento di salutare gli amici. “Addio, Balin!” disse. “E addio Dwalin, e addio Dori, Nori, Ori, Oin, Gloin, Bifur, Bofur e Bombur! Che le vostre barbe siano sempre folte!” Poi, voltandosi verso la Montagna: “Addio, Thorin Scudodiquercia! E Fili e Kili! Che il vostro ricordo non svanisca mai!” Allora i nani si inchinarono davanti alla loro Porta, ma le parole gli si bloccarono in gola. “Arrivederci e buona fortuna, dovunque tu vada!” disse infine Balin. “Se mai tornerai a visitarci quando le nostre sale saranno tornate belle come un tempo, i festeggiamenti saranno splendidi!” “Se mai passerete dalle mie parti,” disse Bilbo, “non esitate a bussare! Il tè è servito alle quattro; ma tutti voi siete benvenuti a qualsiasi ora!” Poi si voltò e partì. La schiera degli elfi era in marcia; e, benché si fosse tristemente ridotta, molti di loro erano felici, poiché adesso il mondo del Nord sarebbe stato più tranquillo per molti anni. Il drago era morto, e gli orchi erano vinti, e i loro cuori pregustavano una primavera di gioia dopo l’inverno. Gandalf e Bilbo cavalcavano dietro il Re degli Elfi, e accanto a loro camminava a grandi passi Beorn, tornato alla forma umana, e rideva e cantava a gran voce lungo la strada. Così avanzarono finché giunsero sul limitare di Boscotetro, a nord del punto dove ne usciva il Fiume Selva. Lì si fermarono, perché lo
stregone e Bilbo non vollero entrare nel bosco nonostante il re li pregasse di passare qualche giorno nel suo palazzo. Intendevano costeggiare la foresta per poi aggirarla lungo il margine settentrionale, nella distesa desolata che la separava dalle Montagne Grigie. Era un cammino lungo e triste, ma, adesso che gli orchi erano stati debellati, lo stimavano più sicuro degli spaventosi sentieri sotto gli alberi. Inoltre, anche Beorn andava per quella strada. “Addio, o Re degli Elfi!” disse Gandalf. “Lieta sia la selva finché il mondo è ancora giovane! E lieto sia tutto il tuo popolo!” “Addio, o Gandalf!” disse il re. “Che tu possa sempre apparire lì dove sei più necessario e meno atteso! Più spesso apparirai nel mio palazzo, più sarò contento!” “Ti prego,” disse Bilbo balbettando e stando ritto su una gamba sola, “accetta questo dono!” E tirò fuori una collana d’argento e perle che Dain gli aveva dato quando si erano salutati. “Cosa ho fatto per meritare un tale dono, hobbit?” domandò il re. “Be’, ehm, penso che in realtà,” disse Bilbo piuttosto confuso, “la tua, ehm, ospitalità andrebbe ricambiata, ehm, con qualcosa. Anche gli scassinatori hanno una sensibilità, no? E io ho bevuto molto del tuo vino e mangiato molto del tuo pane.” “Accetterò il tuo dono, o Bilbo il Magnifico!” disse solennemente il re. “E ti nomino amico degli elfi e benefattore. Che la tua ombra non dimagrisca mai (o rubare sarebbe troppo facile)! Addio!” Poi gli elfi piegarono verso la foresta, e Bilbo iniziò il suo lungo cammino verso casa.
Bilbo dovette affrontare molte avversità e avventure prima di arrivare a destinazione. Le Terre Selvagge erano ancora le Terre Selvagge, e in quei tempi c’erano molte altre cose oltre gli orchi; ma egli era ben guidato e ben difeso – lo stregone era con lui e anche Beorn rimase con loro per un lungo tratto di strada, e così non si trovò mai più in grave pericolo. Comunque, a metà inverno Gandalf e Bilbo giunsero a casa di Beorn; e lì rimasero entrambi per un po’. Gli ultimi giorni dell’anno furono caldi e allegri; e vennero uomini da ogni dove per festeggiare, invitati da Beorn. Ormai gli orchi delle Montagne Nebbiose erano pochi e terrorizzati, e si nascondevano nelle caverne più profonde che riuscissero a trovare; anche i Mannari erano spariti dai boschi, e così gli uomini potevano uscire senza timore. In seguito Beorn divenne un grande capo in quelle regioni, e governò la contrada selvaggia tra le montagne e il bosco; e si racconta che per molte generazioni gli Uomini della sua stirpe ebbero il potere di assumere l’aspetto di orsi, e alcuni di loro erano rudi e cattivi, ma per la maggior parte somigliavano a Beorn nel cuore, pur essendogli inferiori per statura e forza. In quel periodo, gli ultimi orchi furono cacciati via dalle Montagne Nebbiose e una nuova pace scese al confine delle Terre Selvagge. Venne la primavera, una bella primavera mite e splendente di sole, prima che Bilbo e Gandalf prendessero infine congedo da Beorn, e Bilbo, pur desiderando ardentemente la propria casa, partì con rimpianto, perché in primavera i fiori del giardino di Beorn non erano meno belli che in piena estate. Alla fine risalirono la lunga strada delle montagne e 376
raggiunsero il passo dov’erano stati catturati dagli orchi. Ma vi giunsero di mattina, e, guardando indietro, videro un sole bianco brillare sopra la distesa di terra. Al di là, si vedeva Boscotetro, blu in lontananza, e, nella parte più vicina, verde cupo anche in primavera. E laggiù in fondo, appena visibile, c’era la Montagna Solitaria. Sulla sua vetta più alta brillava pallida la neve non ancora disciolta. “Così dopo il fuoco viene la neve, e perfino i draghi trovano la loro fine!” disse Bilbo, e voltò le spalle alla sua avventura. La parte Tuc stava diventando stanchissima, e quella Baggins ogni giorno più forte. “Adesso vorrei solo starmene nella mia poltrona!” soggiunse.
CAPITOLO 19
L’ULTIMA TAPPA
Era il primo giorno di maggio quando Gandalf e Bilbo arrivarono finalmente sul limitare della valle di Gran Burrone, dove c’era l’Ultima (o la Prima) Casa Accogliente. Era di nuovo sera, i loro pony erano stanchi, soprattutto quello che portava i bagagli; e avevano tutti bisogno di riposare. Mentre cavalcavano giù per il sentiero scosceso, Bilbo udì gli elfi cantare ancora tra gli alberi, come se non avessero mai smesso da quando era partito; e, appena i cavalieri scesero nelle radure più basse del bosco, gli elfi intonarono una canzone molto simile a quella di allora:
Il drago è ormai spacciato, il suo corpo è sbriciolato; il suo dorso è fracassato, lo splendore suo offuscato! E se il brando è arrugginito, se sul trono i re cadranno col poter loro fidato e con l’or che caro hanno
l’erba qui rispunta ancora, l’acqua scorre nella gola, gli elfi cantan ad ogni ora su tornate, trallalà nella valle, tutti qua!
Ogni stella è più lucente delle gemme, immensamente, e la luna è più splendente di ogni argento appariscente: qui la fiamma è incandescente, nel tramonto il focolare più dell’oro è rifulgente: perché allor raminghi andare?
Oh! Tornate, trallallà nella valle, tutti qua! Ora dunque dove andate? A tornar perché tardate? Corre il fiume, orsù, guardate queste stelle inargentate! Dove mai vi trascinate con il cuor mesto e avvilito? Gli elfi con le innamorate a chi torna qui sfinito fan: Tornate, trallallà nella valle, tutti qua! Trallallà tralàlla-là.
Poi gli elfi della valle li raggiunsero, li salutarono e li condussero attraverso il fiume fino alla casa di Elrond. Lì vennero accolti da un caloroso benvenuto,
e quella sera molte avide orecchie vollero ascoltare il racconto delle loro avventure. Fu Gandalf a parlare, poiché Bilbo era piombato in uno stato di taciturna sonnolenza. Conosceva la maggior parte della storia, avendovi partecipato, e a sua volta ne aveva raccontato un po’ allo stregone sulla via del ritorno e a casa di Beorn; ma, di tanto in tanto, apriva un occhio e ascoltava, quando si arrivava a una parte della storia che non conoscesse ancora. Fu così che apprese dov’era stato Gandalf, ascoltando per caso mentre lo raccontava a Elrond. A quanto sembrava, Gandalf si era recato a un grande consiglio di maghi bianchi, maestri di dottrina e magia buona; e tutti insieme erano finalmente riusciti a scacciare il Negromante dalla sua oscura tana a sud di Boscotetro. “Fra non molto,” diceva Gandalf, “la foresta diventerà più sicura. Il Nord sarà liberato da quello scellerato per molti anni, spero. Ma preferirei che venisse bandito dal mondo intero!” “Sarebbe proprio una buona cosa,” disse Elrond, “ma temo che ciò non accadrà in quest’epoca, e neanche in molte di quelle a venire.” Quando la storia del loro peregrinare fu raccontata, ci furono altre storie, storie vecchie, storie nuove, storie senza tempo, finché Bilbo abbassò la testa sul petto e si mise a russare tranquillamente nel suo angolo. Si svegliò in un letto bianco, con la luna che brillava attraverso una finestra aperta. Sotto di essa molti elfi cantavano a voce alta e chiara sulle rive del fiume.
Cantate gioiosi, unitevi in cori!
Il vento sussurra tra alberi e fiori, già sboccian le stelle, la luna è fiorente, la Notte dischiude la torre lucente!
Ballate riuniti! Ballate ben lieti! Il piede è una piuma, e l’erbe tappeti! Son l’ombre svanite, il fiume è d’argento: trovarsi qui a maggio, qual dolce momento!
Cantiam sottovoce, e un sogno lo avvolga! Cullato dal sonno, lasciam che si sciolga. Il ramingo ora dorme su un letto silvano, dormite anche voi, o Salice e Ontano!
All’alba nascente sospira tu, Pino! Tu, Luna, tramonta! Il buio si faccia! Silenzio tu, Quercia! e Frassino, e Spino! Finché non vien l’alba, il fiume si taccia!
“Ebbene, cuorcontenti!” disse Bilbo guardando fuori. “Che ora è, secondo la luna? La vostra ninnananna sveglierebbe un orco ubriaco! Ma vi ringrazio lo stesso!” “E il rumore che fai russando sveglierebbe un drago di pietra… Ma ti ringraziamo lo stesso!” ribatterono gli elfi ridendo. “È quasi l’alba, e hai dormito fin dalle prime ore della notte. Domani, forse, il sonno avrà curato la tua stanchezza.” “Un po’ di sonno è una cura eccellente nella casa di Elrond,” replicò Bilbo, “e io voglio curarmi il più a lungo possibile! Di nuovo buona notte, cari amici!” E con ciò tornò a letto e dormì fino a tardi. In quella casa Bilbo si liberò molto presto della stan-
chezza, e partecipò a svaghi e danze di ogni tipo, mattutini e serali, organizzati dagli elfi della valle. Ma adesso neanche quel posto poteva trattenerlo a lungo, perché pensava sempre a casa sua. Dopo una settimana, perciò, disse addio a Elrond e, dopo avergli offerto qualche dono abbastanza piccolo perché lo accettasse, si rimise in cammino con Gandalf. Mentre lasciavano la valle, il cielo si oscurò a ovest davanti a loro, e il vento e la pioggia gli andarono incontro. “Maggio è proprio un bel mese!” disse Bilbo, mentre la pioggia gli batteva in faccia. “Ma non importa, perché abbiamo voltato le spalle alle leggende e stiamo arrivando a casa. Prendiamo questa pioggia come una specie di benvenuto!” “C’è ancora molta strada da fare,” disse Gandalf. “Ma poi non ce ne sarà altra,” disse Bilbo. Giunsero al fiume che segnava l’estremo limite del confine delle Terre Selvagge, e al guado sotto la riva scoscesa, di cui forse vi ricorderete. Le acque erano gonfie sia per la pioggia insistente sia per lo sciogliersi delle nevi in prossimità dell’estate; ma, sia pure con qualche difficoltà, riuscirono a passare sull’altra riva, e al calar della sera affrontarono senza indugi l’ultima tappa del viaggio. Tutto era più o meno com’era stato all’andata, con l’unica differenza che adesso la comitiva era meno numerosa, e più silenziosa; inoltre, questa volta non c’erano i troll. In ogni tratto di strada Bilbo ricordava eventi e parole di un anno prima – ma gli sembrava che di anni ne fossero passati dieci – e così, ovviamente, riconobbe all’istante il posto dove il pony era caduto nel fiume, e dove avevano cambiato direzione
a causa della disavventura con Maso, Berto e Guglielmo.
A poca distanza dalla strada trovarono l’oro dei troll che avevano seppellito, ancora nascosto e intatto. “Io ne ho abbastanza finché campo,” disse Bilbo quando lo ebbero dissotterrato. “È meglio che questo lo prenda tu, Gandalf. Immagino che saprai bene cosa farne.” “Su questo non c’è dubbio!” disse lo stregone. “Ma sarà meglio spartircelo. Potresti scoprire di averne più bisogno di quanto pensi.” Così misero l’oro dentro alcune borse e le caricarono sui pony, che non ne furono affatto contenti. Da lì la loro andatura si fece più lenta, perché andavano perlopiù a piedi. Ma la landa era verde e c’era abbastanza erba perché lo hobbit vi camminasse tutto contento. Di tanto in tanto si asciugava la faccia con un fazzoletto di seta rossa – no! dei suoi fazzoletti non ne era sopravvissuto neanche uno, quello se l’era fatto prestare da Elrond – perché giugno aveva portato l’estate, e il tempo era di nuovo caldo e sereno. Poiché tutte le cose hanno una fine (persino questa storia), giunse anche il giorno in cui arrivarono nella regione dove Bilbo era nato e cresciuto, dove la forma della terra e degli alberi gli era nota quanto quella delle sue mani e dei suoi piedi. Mentre si inerpicava su un poggio, scorse in lontananza la sua amata Collina, e improvvisamente si fermò e disse:
Vanno le strade, lunghe e infinite nei boschi folti e privi di uscite, passan spelonche che il sole non hanno,
e ciechi fiumi che al mare non vanno; solcano ghiacci e nevi d’inverno, d’estate corrono nel verde eterno, sopra le pietre e la tenera flora, e sotto i monti screziati d’aurora. Vanno le strade, lunghe e infinite
sotto le nubi e le stelle smarrite, ma sempre i piedi che han tanto vagato tornano infine al tetto bramato.
Gli occhi che han visto fuoco e sconquasso e grande spavento in grotte di sasso guardano infine i cari giardini e i campi e i colli di quand’eran piccini.
Gandalf lo guardò. “Mio caro Bilbo!” disse. “C’è qualcosa che non va! Non sei più lo hobbit di un tempo!” E così percorsero il ponte, superarono il mulino sul fiume e si trovarono finalmente davanti alla porta di casa di Bilbo. “Santo cielo! Che sta succedendo?” gridò Bilbo. C’era una gran confusione, e davanti alla porta si accalcava gente d’ogni razza, rispettabile e non, e molti entravano e uscivano – senza neanche pulirsi i piedi sullo zerbino, come Bilbo notò con fastidio. Se lui fu sorpreso, gli altri lo furono ancora di più. Lo hobbit era tornato a casa nel bel mezzo di un’asta! Appeso al cancello c’era un grosso cartello, con scritto in rosso e nero che il ventidue Giugno i Sig.ri Grufola, Grufola & Zappa-scava avrebbero venduto all’asta gli effetti del defunto Ill.mo Bilbo Baggins,
Casa Baggins, Vicolo Cieco, Sottocolle, Hobbiton. La vendita sarebbe iniziata alle dieci in punto. Ormai era quasi ora di pranzo, e la maggior parte delle cose era già stata venduta, per prezzi che andavano da quasi niente a vecchie canzoni (cosa non del tutto insolita in quel tipo di aste). I cugini di Bilbo, i Sackville-Baggins, per esempio, stavano già misurando le stanze per vedere se i loro mobili potessero starci. In breve, Bilbo era “Presunto Morto”, e non tutti, tra quelli che l’avevano dichiarato tale, furono dispiaciuti quando si resero conto di essersi sbagliati. Il ritorno del signor Bilbo Baggins creò un certo scompiglio, sia sotto la Collina sia sopra la Collina, e anche di là dall’Acqua; fu molto più di un fuoco di paglia. Di fatto, le grane legali si trascinarono per anni. Passò molto tempo prima che al signor Baggins fosse concesso di essere di nuovo vivo. La gente che aveva fatto buoni affari in quell’asta ci mise un bel po’ a convincersene; e alla fine, per non perdere altro tempo, Bilbo dovette ricomprare molti suoi mobili. Gran parte dei suoi cucchiaini d’argento era misteriosamente scomparsa, e non si riusciva a saperne nulla. Personalmente, Bilbo sospettava dei Sackville-Baggins. Per contro, loro non riconobbero mai l’autenticità del Baggins ritornato, e non intrattennero mai buoni rapporti con Bilbo. La verità è che ai Sackville-Baggins sarebbe piaciuto moltissimo vivere nel suo grazioso buco-hobbit. A conti fatti, Bilbo scoprì di aver perso più dei cucchiaini: aveva perso la reputazione. È vero che in seguito sarebbe rimasto sempre amico degli elfi, e avrebbe avuto l’onore di ricevere la visita di nani, maghi e simili ogni volta che passassero da quelle
parti; ma non era più rispettabile. Di fatto, veniva considerato dagli hobbit del circondario come uno “stravagante”,