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Corriere Cdo.net srl - via Melchiorre Gioia, 181 - 20125 Milano - Poste italiane SpA - D.L. 353/2003 (conv. 27/02/2004 L. n°46) art. 1 Comma 1, DCB Milano – House organ dell’Associazione Compagnia delle Opere (contiene allegato)

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Tr i m e s t ra l e d e l l a C o m p a g n i a d e l l e O p e re D i c e m b re 2 0 1 0

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LIBERI DI COSTRUIRE Il non profit, quando può esprimersi liberamente e in un’ottica sussidiaria, rappresenta un’importante risorsa per la società. Come dimostrano le storie raccontate in questo numero del Corriere delle Opere

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editoriale di Monica Poletto presidente Cdo Opere Sociali

Le “truppe” sussidiarie L’Italia vanta una tradizione importante di opere sociali, che hanno costituito e costituiscono una grande parte della nostra storia e della nostra trama di relazioni. Si tratta di realtà caratterizzate dall’assenza di scopo di lucro: non distribuiscono utili e chi vi intraprende vede remunerato esclusivamente il proprio lavoro. Questa caratteristica - questa forma di gratuità inscritta nei loro statuti e dunque intrinseca al loro operato - fa di esse dei paradigmi dell’intrapresa umana, che sempre origina da un desiderio di bene che eccede il puro calcolo. Esse perseguono finalità di pubblica utilità nei modi e nei campi più diversi. Come potremo leggere nelle prossime pagine, la tensione ad abbracciare e a dare risposta ai bisogni incontrati ha originato opere che si occupano quasi di tutto: dai giovani in difficoltà con il proprio percorso scolastico, o che non riescono a imparare un mestiere, ai carcerati che - ingaggiati in una esperienza di lavoro vero e umano - tornano a scoprirsi uomini; oppure realtà che si occupano di persone incappate in dipendenze, esperienze caritative di accompagnamento e sollievo di poveri, persone senza lavoro, famiglie in difficoltà. E ancora centri per disabili fisici e psichici, cooperative che danno lavoro a svantaggiati, banchi che raccolgono cibo, farmaci, strumenti informatici/medici e tecnologici oppure materiali che residuano a fine cantiere. Le risposte sono spesso delle vere e proprie “invenzioni” di forme o modalità nuove, tipiche di quell’imprenditoria che non si rassegna alla considerazione che “non si può”, fino a che non le ha provate proprio tutte. Perché «tutti noi avvertiamo che i problemi sono la stoffa delle nostre ore e delle nostre giornate, problemi grandi e piccoli. E se c’è un impeto che segna ogni vita, è l’impeto a risolverli» (Luigi Giussani, Perché la Chiesa, pag. 201). Queste realtà in molti casi sono imprese a tutti gli effetti;

imprese in cui la non lucratività detta metodi, disegna processi, impregna la trama di relazioni “aziendali”. In molti altri casi sono realtà associative che si avvalgono del lavoro gratuito di persone che vi dedicano parti grandi o piccole della propria vita, mosse da quella gratuità che viene educata mentre la si esercita. Attualmente il nostro sistema del Welfare sta mostrando la propria inadeguatezza a rispondere alle nuove sfide e ciò - spesso - a discapito di queste opere, e dunque delle persone che traggono beneficio dalla loro azione. Mi ha colpito un recente intervento fatto dal cardinal Bagnasco all’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. In questo intervento il cardinale ricordava la matrice bellica del termine sussidiarietà: esso deriva dal latino “subsidium” e si riferisce alle truppe di riserva. Applicato alla società il termine sussidiarietà indica dunque «l’intervento ausiliario e compensativo dello Stato a favore dei gruppi sociali più piccoli nonché dei singoli. La sussidiarietà esprime, quindi, in prima battuta, l’idea dell’aiuto, del sostegno, dell’intervento di rinforzo o di riserva supplementare». Tale idea di società implica il fatto che lo Stato intervenga solo laddove la libera iniziativa delle persone - singole o aggregate - non riesce a rispondere. Noi ci troviamo, invece, spesso di fronte a situazioni in cui il principio di sussidiarietà è applicato al contrario: sono le realtà sociali a dover essere sussidiarie alla pubblica amministrazione; sono esse a dover fungere da esercito di rinforzo. E osserviamo come la qualità del servizio reso, la soddisfazione di chi ne beneficia, il reale grado di risposta al bisogno o all’emergenza sociale non siano messi adeguatamente a tema. Mentre ci sembra che questo sia proprio il primo compito che lo Stato dovrebbe sentire proprio: vigilare che le risposte date siano adeguate, stabilire regole certe, intervenire laddove l’impegno della società si mostri insufficiente. Il mondo delle opere sociali storicamente è nato insieme alle realtà imprenditoriali. Oggi uno strano manicheismo che divide i “buoni” - le realtà non profit - dai “cattivi” le realtà profit oriented - rende più difficile il dialogo. Le imprese profit sono spinte a considerare il non profit come qualcosa da sostenere economicamente quando si può e non come un insieme di soggetti con cui costruire qualcosa di stabile, da cui imparare un modo nuovo e diverso di fare impresa, a cui insegnare il mestiere. Anche questa è una sfida importante, e questo numero del Corriere delle Opere vuole essere un invito al mondo delle imprese a scoprire queste realtà sociali. Serve da parte di tutti un cambiamento culturale, che è innanzitutto un cambiamento di sguardo, che decida di voler conoscere e non arginare per difendere spazi “propri”. Uno sguardo curioso di scoprire quello che c’è e opera; di incontrare realtà diverse dalle nostre, per poter imparare, insegnare, magari lavorare insieme. n N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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sommario editoriale zoom MATCHING. Scholz: «Un aiuto per il sistema Paese»

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COMUNI. Chiamparino: «Il non profit è essenziale»

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SACCONI. Una nuova visione del lavoro IN-PRESA. Un aiuto per i giovani “pericolanti” COMETA. Accogliere per educare CEUR. «L’eccellenza è il nostro fiore all’occhiello»

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SCENARI SAPELLI. Adottiamo la Big Society Anno XXV - n. 4 - dicembre 2010 Registrazione Tribunale di Milano n. 505 del 27 settembre 1986 Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione n. 7521 Direttore responsabile Dario Vascellaro Redazione Bettina Gamba, Carmelo Greco Uffici Via Legnone 20, 20158 Milano Tel. +39 02 673961 - fax +39 02 67396230 Editore Cdo.net srl - via Melchiorre Gioia, 181 - 20125 Milano Pubblicità Evidentia Communication srl Via Legnone 20 - 20158 Milano - Tel. +39 02 67396218 anna.venturini@evidentiacommunication.it Stampa Centro Stampa Editoriale - Via del Lavoro 18 36040 Grisignano di Zocco, Vicenza Progetto grafico Curious Design Impaginazione Francesca Minniti Distribuzione e confezionamento Comp Editoriale Veneta srl - Via Cappelletto 12 30173 Mestre (Ve) L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli associati Cdo e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Cdo.net srl - via Melchiorre Gioia, 181 - 20125 Milano. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli associati Cdo la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 675/96 - tutela dati personali). Il numero è stato chiuso in redazione il 15 dicembre 2010. La percentuale di pubblicità di questo numero, comprensiva di inserti e allegati, è del 24%.

www.cdo.org

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GIOVANI

socio-sanitaRIO

CHIESA. La sfida del “prendersi cura” DISABILITÀ. Uno sguardo alla natura del bisogno FATE. Gli amici dei “trapiantati”

fondazioni

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FEDERSOLIDARIETÀ. Al servizio del bene comune TREU. Serve il family mainstreaming COOPERATIVE. Quando profit e non profit si incontrano

Un concorso per valorizzare la conciliazione famiglia-lavoro

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GERINI. Terzo settore, ricchezza per l’Italia e l’Europa ASSOCIAZIONI. Amicizia, non assistenza COLLETTA. Un gesto di carità che apre il cuore di tutti

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BORGOMEO. Risorsa per crescere SICILIA. Costruire luoghi per ricostruire la società IL BAGLIO. Una compagnia dentro il lavoro

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FUND RAISING. Enel accende la solidarietà UNICREDIT FOUNDATION. Una società che si muove

WELFARE

volontariato SUD

periferie LA STRADA. Arcipelaghi di accoglienza

CULTURA

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MEETING. Comunicare l’ideale CMC. Per passione non per mestiere

libreria indirizzi

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I tre relatori dell’Assemblea generale Cdo: da sinistra, Julián Carrón, presidente Fraternità di Comunione e Liberazione; Bernhard Scholz, presidente Compagnia delle Opere; Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la sussidiarietà

ASSEMBLEA generale CDO una storia che si rinnova Domenica 21 novembre 2010, al Palasharp di Milano, si è tenuta l’Assemblea generale di Compagnia delle Opere dal titolo “Una responsabilità che cresce con la forza dell’origine”. L’incontro è stato aperto dal presidente Cdo, Bernhard Scholz, al quale sono seguiti i contributi di Julián Carrón, presidente Fraternità di Comunione e Liberazione, Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la sussidiarietà e, in collegamento video, Marcos Zerbini, deputato dello Stato di San Paolo del Brasile. Scholz, nel suo intervento conclusivo, ha affermato: «La storia della Cdo è un continuo rinnovarsi e approfondirsi dell’esperienza che abbiamo ripercorso grazie ai nostri amici e maestri intervenuti oggi e che dà vita a tutte le nostre iniziative volte a valorizzare e a sostenere la dignità e la libertà della persona in ogni contesto lavorativo e sociale. Esempio ne è il Matching, uno spazio a disposizione delle imprese per incrementare il livello di conoscenza dei mercati, dei prodotti e dei metodi di lavoro, condizione di base per cogliere le opportunità di ripresa economica solida e duratura. Quanto alla situazione italiana - ha aggiunto - la vita sociale è fatta di migliaia di imprese profit e non profit che lottano quotidianamente per affermarsi sui mercati nazionali e internazionali, facendo sforzi immani per non licenziare. C’è ancora un popolo vivo, impegnato con ideali che provengono dalla cultura cattolica, socialista e liberale. Ma proprio per questo il Paese ha bisogno di un governo autorevole e coeso e di un’opposizione propositiva e costruttiva. Urgenti sono le riforme che favoriscano lavoro e imprese, sostengano la famiglia e rendano il fisco più giusto e meno oppressivo. Bisogna introdurre la sussidiarietà come base del federalismo, in modo da favorire la responsabilità di chi governa, e del Welfare, per valorizzare le iniziative private senza le quali è destinato a crollare». n

dall’inizio dell’anno a novembre cassa integrazione da record Dall’inizio dell’anno a novembre sono state circa 1,2 miliardi le ore di cassa integrazione autorizzate, con un impatto complessivo sulle buste paga di quasi 4 miliardi di euro, pari a circa 7.516 euro per ogni singolo lavoratore. Se al posto del numero delle ore ci si riferisce a quello dei lavoratori, sono grosso modo 600 mila quelli coinvolti ancora a fine novembre. I dati sono il risultato delle elaborazioni fatte dall’Osservatorio Cig della Cgil sulle rilevazioni Inps. Dagli stessi emerge che, dopo aver registrato nell’ottobre 2010 il superamento del miliardo di ore, la Cig ha segnato verso fine anno un nuovo record negativo. Nel complesso a novembre è calata la richiesta di ore, pari a 90.705.038 (-10% su base congiunturale), ma da inizio anno l’incremento sullo stesso periodo del 2009 è stato del 37,8%, per un totale di ore pari a 1.117.184.693. Sul totale delle ore si registra una progressiva diminuzione degli strumenti ordinari, mentre la cassa in deroga (Cigd) copre una fetta rilevante del totale monte ore.

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Nel confronto fra il 2009 e il 2010 la cassa integrazione è cresciuta del 37,8%, per un totale di ore pari a 1.117.184.693. A fine novembre sono ancora 600 mila i lavoratori interessati


Al via la campagna tende avsi La raccolta fondi natalizia “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo” è il titolo dato dalla Fondazione Avsi alle Tende 2010-2011, la tradizionale campagna di raccolta fondi e di sensibilizzazione che ogni anno si svolge intorno a Natale e nei mesi successivi. L’ultima campagna ha contato oltre 600 eventi che migliaia di volontari hanno organizzato in Italia e in alcuni Paesi nel mondo. Per questa edizione le Tende vogliono sostenere sei importanti iniziative: un centro educativo in Haiti per bambini e le loro famiglie; una scuola secondaria in Kenya per far crescere una generazione; la riqualificazione delle acque in Libano per dare futuro agli agricoltori; la ricostruzione di una scuola in Cile crollata col terremoto; una università in Sud Sudan per insegnare a diventare maestri; il sostegno a distanza per adolescenti in scuole secondarie e professionali di Uganda e Kenya per investire nel futuro dei giovani. n

Due appuntamenti in sicilia Per il presidente scholz

Monica Poletto e Bernhard Scholz, insieme al presidente di Cdo Palermo Francesco Castiglione (al centro), sono stati i protagonisti di un dibattito che si è svolto ad Alcamo

I Paesi ai quali andranno i fondi raccolti dalla campagna Tende 2010-2011 sono: Haiti, Kenya, Libano, Cile, Sudan, Uganda

Il presidente Cdo Bernhard Scholz ha partecipato, il 17 e il 18 novembre, a due eventi in Sicilia, nei luoghi in cui la Compagnia delle Opere ha avuto origine. Introdotto dal presidente di Cdo Palermo Francesco Castiglione, Scholz ha dibattuto il 17 ad Alcamo, insieme al presidente di Cdo Opere Sociali Monica Poletto, sul tema “La dignità del lavoro”. Di fronte al lavoro che non c’è (soprattutto al Sud), o che si precarizza, Scholz ha esortato i presenti a non scoraggiarsi e a evitare il rischio della solitudine. La conseguenza peggiore di ogni crisi, infatti, è che le persone tendono a chiudersi in se stesse. Per evitare questo, ha ricordato il presidente, la Cdo vuole essere un’amicizia che sostiene. Per superare la crisi, però, ha aggiunto Scholz, non è sufficiente mettersi insieme e fare rete. Bisogna ridare dignità al lavoro manuale oggi snobbato a favore delle professioni intellettuali. Rivalutare gli istituti tecnici e la formazione professionale permetterebbe ai giovani di cogliere opportunità lavorative che ci sono pur nell’attuale crisi del mercato del lavoro (Scholz ha ricordato che oggi in Italia non si riescono a trovare 110 mila tecnici). Il viaggio del presidente Cdo ha avuto, il giorno seguente, un’altra tappa a Trapani dove, in un cinema colmo di giovani, ha incontrato le ultime classi del Liceo scientifico “V. Fardella” e del Liceo classico “L. Ximenes”. Titolo dell’incontro, la frase di Giovanni Paolo II “La vita è solo la realizzazione del sogno della giovinezza”. In una terra piena di difficoltà e con un’alta disoccupazione giovanile, Scholz ha esortato i suoi giovani ascoltatori ad andare a studiare all’estero, ma per tornare nella loro terra con un bagaglio di esperienza e conoscenza da mettere a frutto nei propri luoghi d’origine. n N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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Una Piazza dell’innovazione In piemonte per competere

Il bene di tutti, la mostra Del meeting sbarca a milano

Si è svolta il 4 dicembre 2010 a Torino, nella sede di Piazza dei Mestieri, l’iniziativa intitolata “Piazza dell’innovazione”. L’appuntamento è nato dal desiderio di approfondire le ragioni per cui si innova nell’impresa. «Si innova per vivere e scoprire - hanno sottolineato gli organizzatori -: dal gestire i collaboratori, dal decidere le proprie letture, dallo scegliere i finanziamenti, dall’individuare dove investire e le persone da cui farsi aiutare per la scelta delle tecnologie». In una parola, si innova per competere. È questa la sfida lanciata da Cdo Piemonte con lo scopo di creare un momento di incontro che sancisca un metodo quotidiano di confronto tra imprenditori, istituzioni, enti di ricerca. L’obiettivo è favorire un dialogo vero, operativo, tra questi soggetti che devono abituarsi a collaborare insieme. Durante la giornata sono intervenuti: Dario Odifreddi, presidente Compagnia delle Opere Piemonte; Massimo Giordano, assessore allo Sviluppo economico, Ricerca e Innovazione della Regione Piemonte; Ida Vana, assessore alle Attività produttive e ai Progetti europei della Provincia di Torino; Massimo Feira, presidente Finpiemonte spa; Guido Bolatto, segretario generale Camera di Commercio di Torino; Francesco Profumo, rettore Politecnico di Torino; Salvatore Coluccia, vicerettore Università degli Studi di Torino; Cristina Galbusera, responsabile commerciale Business Bnl Gruppo Bnp Paribas. n

Dal 5 novembre al 24 dicembre la Cdo di Milano ha ospitato, nella sede Wjc Square di viale Achille Papa 30, la mostra “Il bene di tutti”, proposta nel corso del Meeting di Rimini 2010 dalla Compagnia delle Opere. L’esposizione, collocata in occasione del Meeting nel padiglione Cdo, rappresenta un percorso sugli affreschi del Buon Governo del Palazzo Pubblico di Siena, opera del 1338-1339 di Ambrogio Lorenzetti. Le allegorie del Buon Governo e del Malgoverno e dei loro effetti si incardinano perfettamente nel discorso sul bene comune iniziato da tempo da Cdo e ne evidenziano le ragioni. Cdo Milano ha deciso di portare la mostra nella propria sede per contribuire al dibattito sul bene comune e per offrire ai milanesi e ai lombardi l’opportunità di visitarla. L’inaugurazione è avvenuta il 5 novembre alla presenza del sindaco di Milano Letizia Moratti e della curatrice Mariella Carlotti. n In alto, la locandina della mostra sul bene comune che è stata ospitata dal 5 novembre al 24 dicembre presso la sede della Compagnia delle Opere di Milano

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Una proposta di Cdo Piemonte che il 4 dicembre scorso ha coinvolto personalità del mondo industriale, dell’università e della ricerca sul tema dell’innovazione



Forum cdo agroalimentare A gennaio l’Ottava edizione

Un momento della premiazione del concorso “Prodotto innovativo e sostenibilità agroalimentare” che il presidente di Cdo Agroalimentare Camillo Gardini (a destra) ha inaugurato all’ultimo Matching

Dal 28 al 29 gennaio si terrà a Milano Marittima, nella sede del Palace Hotel, l’ottavo Forum della Cdo Agroalimentare. L’appuntamento ogni anno raccoglie molti tra i principali attori dell’intera filiera agroalimentare nazionale: agricoltori, dirigenti degli organi di rappresentanza, imprenditori e manager della grande distribuzione, amministratori pubblici e ricercatori universitari. Il tema scelto per questa edizione è “Le reti creano conoscenza. La conoscenza produce sviluppo”. Il programma prevede testimonianze positive di imprenditori agroalimentari, piccoli o grandi che siano, approfondimenti accademici come quello di Enzo Rullani della Venice International University, le conversazioni con gli attori della politica italiana come Andrea Prato, assessore all’Agricoltura Regione Sardegna, e Mario Mauro, parlamentare europeo. L’evento è un’occasione importante per gli imprenditori che, nell’occasione, non saranno semplici ascoltatori attenti alle relazioni degli ospiti, ma saranno essi stessi relatori grazie all’importanza che nella due giorni verrà data ai loro interventi e al confronto tra i diversi soggetti. n

i cambiamenti che introduce Il nuovo collegato Lavoro Il cosiddetto “collegato lavoro”, legge 183 del 4 novembre 2010, ridisegna i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. Tra i punti chiave, che hanno richiesto due anni per essere chiariti prima dell’approvazione definitiva, rientrano la disciplina della causa arbitrale e i termini per l’impugnazione dei contratti a tempo determinato o dei contratti di collaborazione. Nella versione attuale la scelta di ricorrere al collegio arbitrale va effettuata prima, e non al momento di eventuali contenziosi. La firma della clausola compromissoria sull’arbitrato sarà volontaria e potrà avvenire solo al termine del periodo di prova oppure dopo trenta giorni dall’assunzione. Ma non si parla solo di arbitrato nel testo normativo. L’attuale versione è un provvedimento omnibus composto da una cinquantina di articoli e da più di 140 commi. Fra le maggiori novità introdotte sono da segnale: apprendistato già a 15 anni, che potrà sostituire l’ultimo anno di scuola dell’obbligo con un anno in azienda; curricula online degli studenti che le università inseriranno nella Borsa nazionale del lavoro per i 12 mesi successivi alla laurea; pensione anticipata per i lavori usuranti (minimo 57 anni di età e 35 di contributi), materia su cui il Governo è delegato ad adottare un’apposita disciplina; accorciamento dei tempi di ricorso per i licenziamenti da cinque anni a 60 giorni validi per l’impugnazione; stretta ai permessi per i familiari dei disabili e giro di vite per congedi e part-time; maggiori opportunità di mobilità e di aspettative non retribuite senza vincoli.

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Expandere, a foggia secondo appuntamento Il 1° dicembre 2010 si è svolta a Foggia, presso il Grand Hotel Vigna Nocelli, la seconda edizione di Expandere, l’appuntamento organizzato da Cdo Foggia per favorire il business tra gli associati. La giornata, oltre a consentire l’incontro mirato dei partecipanti fra di loro, ha dato spazio ad argomenti di grande rilevanza per le imprese. Un workshop, infatti, è stato dedicato alla gestione delle risorse umane nelle pmi, un altro si è concentrato sulle questioni energetiche, mentre un terzo ha affrontato la comunicazione via web. Non sono mancati, inoltre, gli approfondimenti sull’estero e sulla finanza. Ha concluso i lavori, con una conversazione finale, il presidente Bernhard Scholz introdotto da Luigi Angelillis, presidente di Cdo Foggia. n

Come va L’innovazione Nelle imprese italiane? L’Istat ha diffuso, per il triennio 2006-2008, i principali risultati della rilevazione sull’innovazione nelle imprese industriali e del terziario (Community Innovation Survey). La rilevazione, condotta con frequenza biennale, è inserita in un quadro normativo europeo (Regolamento Ce n. 1450/2004 del 13/08/2004) che ne stabilisce l’obbligatorietà per gli Stati membri. Nel triennio 2006-2008 le imprese italiane con 10 o più addetti che hanno svolto attività di innovazione sono state 69.017, pari al 33,1% dell’universo considerato. La maggior parte di esse (il 30,7%), quelle a cui si riferisce l’analisi, ha introdotto sul mercato o nel proprio processo produttivo almeno un’innovazione (imprese innovatrici); il rimanente 2,4%, invece, è costituito da imprese con attività di innovazione che non si sono tradotte in nuovi prodotti, servizi o processi alla fine del 2008. Rispetto al triennio 20042006 il numero di imprese innovatrici è aumentato di oltre tre punti percentuali.

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A destra, la location in cui si sono svolte le due edizioni di Expandere, il Grand Hotel Vigna Nocelli di Foggia; sotto, la home page del portale con tutte le notizie relative alla manifestazione



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Scholz: «Un aiuto per il sistema

Successo oltre le aspettative del grande evento per il business di Compagnia delle Opere. Il presidente Scholz: «Questa edizione ha dimostrato che la creazione di reti tra imprese è la strada maestra per accrescere la competitività delle pmi italiane nel mondo»

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umeri da record per la sesta edizione di Matching “Conoscere per crescere - To Know, To Grow”, il grande evento per il business di Compagnia delle Opere, svoltosi nei padiglioni di Fieramilano, a Rho, dal 22 al 24 novembre. Le 2.300 imprese partecipanti hanno dato vita a oltre 43.000 incontri di business che hanno coinvolto tutte le filiere presenti a Matching, tra cui le principali sono agroalimentare, edilizia, energia e ambiente, innovazione, meccanica, sanità. Significativa, anche in termini numerici, la dimensione internazionale dell’evento Cdo, con la partecipazione di 300 tra imprese e operatori esteri. Grande successo per i 57 workshop di approfondimento, il question time con gli ospiti istituzionali, la conversazione imprenditoriale, le tavole

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rotonde e i convegni, che evidenziano l’unicità di questa manifestazione nel panorama fieristico internazionale.

La politica al matching

Al question time dedicato alla “Politica che serve”, hanno partecipato Roberto Formigoni, presidente Regione Lombardia, Paolo Romani, ministro dello Sviluppo Economico e Antonio Tajani, vice presidente Commissione europea. «Dobbiamo applaudire questa edizione di Matching - ha dichiarato Formigoni - perché mettendo al centro il tema della conoscenza affronta una delle questioni più importanti di oggi per l’impresa: il capitale umano. Un tema che ci sta molto a cuore e che è all’origine del sistema delle

Il question time dedidato alla “Politica che serve”, tenutosi durante la prima giornata del Matching. Nella foto, da sinistra, Roberto Formigoni, Paolo Romani, Bernhard Scholz e Antonio Tajani


paese»

“doti” che abbiamo introdotto in Lombardia. La forza del made in Italy - ha aggiunto il governatore -, di cui il made in Lombardy è una parte importante, sta nella sua capacità manifatturiera. Il manifatturiero italiano infatti è ancora un settore trainante. Pochissimi Paesi al mondo esportano all’estero come noi». «Una manifestazione come il Matching alla quale partecipano 2.300 aziende da tutto il mondo - ha sottolineato Romani - è un’occasione importante per favorire il confronto e lo sviluppo delle nostre pmi. Come sottolinea il tema di questa sesta edizione, “Conoscere per crescere”, una ripresa economica strutturale è possibile solo se c’è uno sforzo comune nell’affrontare le nuove sfide dei mercati internazionali. La politica può e deve favorire queste iniziative, assumendo decisioni tempestive e adeguate per difendere e rilanciare il ruolo delle imprese italiane». Tajani ha contestualizzato le azioni a favore delle pmi in ambito europeo: «Per l’Unione europea l’uscita dalla crisi e il sostegno alla crescita economica e all’occupazione costituiscono la priorità d’azione, come indicato dalla nuova strategia “Europa 2020”, approvata quest’anno. Il punto cruciale è trovare il giusto equilibrio tra le esigenze, da una parte, di stabilità economica e finanziaria necessaria a evitare il ripetersi di crisi come quella appena vissuta e a rafforzare il ruolo dell’euro, e dall’altra di una crescita che sia intelligente, cioè basata su conoscenza e innovazione, sostenibile dal punto di vista ambientale e inclusiva da quello sociale. Per questo un evento come Matching, che evidenzia il legame tra la conoscenza e la crescita, mi fornisce una grande opportunità per ribadire il ruolo dell’Europa a sostegno dell’innovazione e della ricerca come basi per una ritrovata competitività delle imprese e dei lavoratori. Di recente, la Commissione ha presentato importanti strategie d’azione, come l’Unione per l’innovazione o per una nuova politica in-

dustriale. In Europa dobbiamo sfruttare tutte le opportunità del mondo aperto di oggi, comprese quelle dell’internazionalizzazione e quelle della green economy: innovazione e conoscenza sono aspetti essenziali di questo sforzo». In conclusione dell’incontro, Scholz ha dichiarato: «La concretezza degli interventi dei rappresentanti delle istituzioni che abbiamo ascoltato nel question time è in sintonia con il clima positivo che si è respirato al Matching. Un clima di fiducia, distante anni luce dalla cultura del lamento, ma caratterizzato, al contrario, dalla voglia di costruire e dall’operosità da parte delle 2.300 imprese presenti».

La strada per competere

Alla fine dei tre giorni di Matching il presidente di Compagnia delle Opere ha ribadito l’importanza dell’evento b2b: «L’edizione 2010 di Matching ha confermato con forza che la strada per competere, anche sui mercati internazionali, sta in primo luogo nella capacità di lavorare insieme. E questi tre giorni, attraverso la straordinaria ricchezza degli incontri avvenuti tra i soggetti imprenditoriali presenti, hanno dimostrato che ciò è possibile». «Lo strumento in grado di favorire questo approccio - ha proseguito Scholz - è la realizzazione di reti: il primo passo in questo percorso, sulla scia di Matching, è favorire la nascita di nuovi modelli di condivisione delle conoscenze che poi potranno dare vita, a seconda delle reali esigenze di lavoro, ad aggregazioni più strutturate con adeguati sistemi di governance». «Per la qualità e quantità degli incontri avvenuti ha concluso Scholz - questa edizione di Matching rappresenta un contributo reale all’economia del Paese e invita tutti a compiere una svolta copernicana nei rapporti imprenditoriali: dalla diffidenza allo sviluppo di alleanze tra imprese complementari». n

giannangeli: «appuntamento al 2011» «Matching 2010 ha avuto un grande successo di partecipazione - riscontra con soddisfazione Antonello Giannangeli, direttore del Matching -. Tale risultato è il frutto del lavoro svolto durante l’anno dalle 40 sedi italiane della Cdo e dalle 17 sedi estere. Quest’anno abbiamo fornito ai partecipanti nuovi strumenti con i quali analizzare al meglio le esigenze di ciascuna azienda e preparare gli incontri svolti durante la manifestazione. Per il 2011 vogliamo proseguire in questa direzione, supportando ancor di più le imprese partecipanti. Invitiamo tutte le imprese associate e non associate alla Cdo a partecipare a Matching 2011 portando il proprio entusiasmo e il proprio desiderio di sviluppare la propria impresa, in un momento in cui “creare rete” può fare la differenza». N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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scenari

G i u l i o S a p e l l i ci dice cosa p e n s a d e l l ’ a mbizioso proget t o p o l i t i c o v o lto a ridisegnare i c o n f i n i t r a p ubblico e privato, d e l e g a n d o p o teri e responsabi l i t à d a l c e n t r o alla periferia e d a l l a p u b b l i c a amministrazione a i c o r p i i n t e r medi della società

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Adottiamo l a Big Society

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on il suo discorso del 19 luglio scorso a Liverpool il nuovo premier britannico David Cameron ha lanciato una sfida ambiziosa: che lo Stato si faccia da parte per lasciar spazio alla cosiddetta Big Society: «Si tratta di un grande cambiamento culturale, in cui le persone, nella vita di tutti i giorni, nelle loro case, nei quartieri, nei posti di lavoro, cessano di rivolgersi a funzionari, autorità locali o governi centrali per trovare le risposte ai problemi che incontrano, e sono invece abbastanza forti e libere da aiutare loro stesse e le loro comunità...». Sulla rivoluzione della Big Society, in cui semplici cittadini si uniscono tra di loro e attraverso organizzazioni civiche cercano di creare un nuovo tipo di società fondata sul perseguimento del bene comune e del soccorso reciproco, abbiamo discusso con Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica alla Statale di Milano. Secondo lei la Big Society può essere considerata il nuovo paradigma della politica europea? «L’idea di Big Society che Cameron ha lanciato in effetti non propone niente di nuovo, ma ha una lunga tradizione. Elaborata dal Partito laburista

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Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università di Milano. Nato a Torino nel 1947, laureato in Storia economica ha conseguito successivamente la specializzazione in Ergonomia. Ha insegnato e svolto attività di ricerca in molte università e imprese italiane e straniere

australiano, negli anni Settanta venne importata in America dall’Australia. Questo modello, non a caso affermatosi in una società common law e non a ordinamento romano-germanico come quella europea continentale, pone l’accento sul principio di associazione e sulla prevalenza della società sullo Stato, il contrario di quanto è avvenuto nell’Europa continentale (soprattutto nell’Europa del Sud) e in Asia dove lo Stato ha prevalso sulla società». La proposta del leader conservatore inglese, dun-


scenari que, non è particolarmente innovativa. «Cameron ha recuperato l’idea di “grande società” elaborata dal laburismo australiano e poi da quello anglosassone. Ma la stessa idea, in fondo, era contenuta nel principio della sussidiarietà, rampollato dal funzionalismo sociologico della scuola di Durkheim. La singolarità della proposta sta nel fatto che il modello di Big Society, ideato dalla cultura laburista riformatrice, è diventato la bandiera del Partito conservatore, a riprova di quanto ormai le idee di destra e di sinistra non possano più essere catalogate come tali. L’altro fatto singolare è che questa idea venga fuori quando è in atto un’ondata di nazionalizzazione e di statalizzazione: in Inghilterra e Irlanda hanno nazionalizzato le banche; altrove non sono state nazionalizzate ma sostenute dallo Stato, come è successo in Italia con i Tremonti-bond; non parliamo di quanto è accaduto in Islanda; la tanto celebrata green energy tedesca è interamente sostenuta dallo Stato. La formula della Big Society, dunque, sembrerebbe essere un po’ fuori moda. Io credo, invece, che sia proprio questo il momento per lanciare il cuore oltre l’ostacolo e per capire che si può uscire dalla crisi solo ricorrendo al self help e all’associazionismo». Alla sussidiarietà, insomma. «È stato il cardinal Bagnasco a ricordare da cosa deriva il termine sussidiarietà: dalle truppe sussidiarie che intervenivano all’ultimo momento quando le coorti romane erano in difficoltà. Allo stesso modo, nel modello sussidiario, quando la società non ce la fa interviene lo Stato, e solo in questo caso. È da anni che sostengo che questa sia la ricetta giusta: basta con il Welfare State e avanti con la Welfare Society». Per funzionare veramente, la Big Society non dovrebbe limitarsi a essere una revisione in senso liberale di un modello economico, ma dovrebbe essere anche una ridefinizione politicofilosofica dei rapporti tra individui, società e Stato che implica una certa idea di uomo. «Non c’è dubbio. Innanzitutto perché l’economia liberale non ha niente a che vedere con la Big Society visto che il liberalismo ha sempre propugnato, come l’economia neoclassica, l’individualismo, mentre la Big Society si fonda su un comunitarismo in un’economia di mercato, dove però il principio dell’associazione e della solidarietà tempera la natura selvaggia del mercato e il suo modo irrazionale di allocare le risorse. La Big So-

ciety è il terreno del neo comunitarismo e del neo personalismo cristiano. Oggi l’economia deve riscoprire un legame con la morale così come la morale deve riscoprire un legame con l’economia. La via è quella di leggere pensatori come Mounier, Marcel, Maritain». Che concezione di uomo deve essere alla base di questo progetto politico? «Un uomo frutto di un’antropologia positiva. Bisognerebbe, cioè, porre al centro non l’individuo dell’utilitarismo neoclassico, ma la persona dell’economia morale». Da parte di alcuni si paventa che propugnare adesso la Big Society sia soltanto un modo per mascherare i tagli al Welfare. Lei cosa ne pensa? «Sono obiezioni frutto di un’inveterata abitudine ad avere visioni complottistiche. Per creare una Welfare State Society bisogna fare come gli operai delle società di mutuo soccorso nell’800 i quali donavano una parte dei loro salari alla società mutualistica. Fare la Big Society vuole dire autoridursi il reddito in funzione di un impegno comune. Tale idea viene oggi negata come testimonia il passaggio da un sistema pensionistico a ripartizione a un sistema contributivo che ha distrutto una grande architettura di solidarietà intragenerazionale. Abbiamo distrutto anche quello di buono che c’era nello statalismo: il fatto che una persona debba avere come pensione solo quello che da sola riesce ad accantonare è una barbarie. La Big Society non è il trionfo della sfrenatezza. La Big Society è una società di doveri che si fonda sulla solidarietà e sul mutuo aiuto, non sull’individualismo». Adottare questo nuovo modello sulla spinta della carenza di risorse da parte dello Stato non potrebbe portare a una visione “utilitaristica” da parte del pubblico nei confronti del non profit (mi costa meno e quindi me ne avvalgo)? «Certo che sì. Io, ad esempio, sono fautore della scuola cooperativa che troviamo in Sudamerica e in altre parti del mondo, ma che in Italia è solo appannaggio di Cl. Non si possono, però, scaricare i costi dell’istruzione solo sul non profit, facendo lavorare le cooperative sociali per risparmiare, perché questo vorrebbe dire legalizzare lo sfruttamento e lo schiavismo. La Big Society riduce il ruolo dello Stato ma non lo elimina, anzi lo rafforza. Quel tanto di ruolo che esso deve continuare a svolgere deve essere svolto nel modo migliore». Per evitare questo rischio che ruolo dovrebbe ritagliarsi lo Stato? «Deve fare tutto ciò che la società non riesce a fare da sola. Si tratta di un approccio inverso ri-

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scenari ➤ spetto a quello, ad esempio, che ha portato a pensare che il ruolo dell’Antitrust europeo fosse quello di limitare dall’alto il ruolo del mercato. Se si leggessero Williamson e la scuola americana dell’Antitrust si capirebbe che questo dovrebbe eliminare le barriere alle entrate e favorire la libera competizione. Quello che sarà il mercato verrà fuori dalla lotta competitiva. E la stessa cosa vale per la Big Society: deve esserci una lotta competitiva tra società e Stato, uno Stato che deve avere confini mobili e che non si può definire ora, ma che non può abdicare al suo ruolo. Se ci sono dei malati e la società è debole, non li posso far morire: lo Stato deve intervenire e curarli». Secondo gli estimatori della Big Society, bisognerebbe delegare parte del sistema di Welfare a realtà non profit, tra l’altro, perché conoscono il territorio meglio del burocrate statale. Ad esempio, dicono i fautori del nuovo progetto di società, se le madri single in un quartiere si uniscono in un’associazione e prendono il controllo dei sussidi, difficilmente anche un solo centesimo andrà sprecato. Predicare il localismo in un mondo sempre più globalizzato non le sembra utopico? «No. Se nella Bolivia del sud si regala una pompa per l’acqua ai minifondisti che non sanno organizzarsi e muoiono di fame e si insegna loro a crescere le capre da cui poi trarre il formaggio per venderlo, c’è la globalizzazione, ma l’intervento locale non perde nessun valore». Quali sono i provvedimenti più urgenti che bisognerebbe attuare per introdurre un modello sussidiario nel nostro Paese? Il disegno di riforma dello Stato in senso federalista delineato dal nostro Parlamento le sembra adatto? «Io preferirei che lo Stato non facesse nessuna riforma. Meno la politica partitica e parlamentaristica interviene meglio è. Bisogna solo stare attenti che lo Stato non faccia nulla che danneggi il crescere dell’attività sociale. Meno leggi si fanno più il non profit cresce, più si delegifera meglio è». Quindi anche il ridisegno della forma dello Stato in senso federalista non è auspicabile? «Certo che sì, ma il federalismo risponde a un altro bisogno, non certo a quello di creare una Big Society. Il federalismo nasce per rispondere alla crisi fiscale dello Stato e al dualismo territoriale e della crescita che il popolo italiano non sopporta più come non lo sta più sopportando il popolo europeo. Sono cose diverse. Federalismo e Big Society hanno una cosa in comune però: creano un aumento del senso di responsabilità. Le parole chiave tanto del federalismo quanto della Big

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Society possono essere “responsabilità e doveri”: non più una società dei diritti, ma una società dei doveri che si fonda sulla responsabilità. Il federalismo fiscale o crea una società dei doveri o non esiste. È come per la questione dei rifiuti: se non si parte dalla raccolta differenziata non si risolve mai il problema. Bisogna sentire il dovere di fare la raccolta differenziata. Si tratta di una cosa prepolitica, antropologica». Ritiene che il modello della “Big Society” possa promuovere quello spirito di intrapresa che da sempre contraddistingue la nostra piccola imprenditorialità e che si caratterizza per una forte richiesta di libertà responsabile, l’unica capace di costruire il bene comune? «Sì, purché non si distrugga nei giovani l’idea che si può essere anche imprenditori di se stessi perché siamo persone morali anche facendo il tranviere, il medico e l’insegnante. La convinzione che tutti debbano essere imprenditori è l’ideologia più perversa che sia venuta fuori. Dobbiamo crescere la persona, anche se non fa l’imprenditore». Come giudica il mondo del non profit? Quale livello di maturazione ha raggiunto? «È meraviglioso. In una società piena di egoismo e dove il male è sempre presente (sono un seguace di Paolo VI) è meraviglioso che ci sia gente che fa del bene. Il non profit è la presenza del divino nella società. È un miracolo che in un mondo devastato ci siano persone meravigliose e semplici che fanno il non profit. Quando vedo i volontari del Banco alimentare mi viene da piangere dalla felicità. Per quali difetti possano avere, sono un dono divino. Il non profit rappresenta la presenza del divino nella società. Meno male che ci sono queste persone meravigliose, semplici, che fanno il non profit. Vedendo questa realtà io sono pieno di fiducia e di speranza». n

Il primo ministro inglese Cameron, lo scorso 19 luglio, in un discorso tenuto a Liverpool (foto sopra) ha presentato il pezzo forte della sua politica, la Big Society, ovvero la ridistribuzione del potere dal Governo centrale verso le entità locali con l’obiettivo di migliorare l’efficienza di uffici postali, biblioteche, servizi di trasporto ed edilizia popolare



scenari

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di Carmelo Greco

Il presidente dell’Anci, nonché sindaco di Torino, nel lamentare la diminuzione di risorse per i Comuni, esemplifica alcuni casi efficaci di rete tra associazionismo e istituzioni

Chiamparino: «il non profit è essenziale» «I

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l Governo propaganda l’importanza delle politiche sociali, ma non ha idea di cosa siano e invece di proporre soluzioni, fa la cosa più semplice e dannosa, e cioè taglia i fondi». Sono parole dure, quelle del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, al quale abbiamo rivolto alcune domande nella sua veste di presidente dell’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani. Presidente, l’Anci ha espresso forte preoccupazione per gli ulteriori tagli previsti al Fondo nazionale per le politiche sociali e al Fondo per la non autosufficienza. È una preoccupazione che col tempo si sta attenuando o che sta aumentando? «Non direi che si sta attenuando, non ci sono i presupposti per essere rassicurati e basta pensare a quello che succede in questi giorni: il Governo convoca la Conferenza della famiglia e taglia i fondi alle famiglie». Non è un giudizio troppo severo? «Mi limito a citare le preoccupazioni del Coordinamento del Forum del Terzo Settore che ha parlato di veri e propri azzeramenti di molti capitoli di bilancio dedicati agli interventi sociali. Secondo una prima lettura del Bilancio 2011 il Fondo Politiche per la famiglia viene ridotto a meno di un quinto rispetto al 2008, passando dai 276 milioni di euro del 2008 a soli 52 milioni e vengono drammaticamente ridotte anche le risorse per il Fondo nazionale delle politiche sociali, il Fondo per le attività sociali per le Regioni, il Fondo non autosufficienze, il Fondo per le politiche giovanili, il Fondo diritto al lavoro dei disabili, il Fondo inclusione dei migranti. Non vedo come i sindaci potranno sostenere i bisogni sociali, con questi presupposti». L’impatto sulle casse dei Comuni sarà meno

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dannoso rispetto ai tagli che subiranno le associazioni e le organizzazioni non profit che contribuiscono in maniera determinante alle politiche di Welfare locale. La scarsità di risorse, nel penalizzare i Comuni, penalizza forse ancora di più chi offre servizi sociosanitari in convenzione. Che cosa dovrebbero fare, a suo parere, queste organizzazioni per continuare nelle loro attività? «Le organizzazioni non profit sono essenziali

Per Sergio Chiamparino, visti i tagli ai fondi per le famiglie effettuati dal Governo, per i Comuni sarà difficile riuscire a sostenere i bisogni sociali


scenari

Che cos’è l’anci Sono 7.133 i municipi che aderiscono all’Anci, l’Associazione dei Comuni italiani che rappresentano il 90% della popolazione. Dal 2009 presidente dell’associazione è Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. L’Anci ha come suo obiettivo quello di tutelare e rappresentare gli interessi dei Comuni di fronte a Parlamento, Governo, Regioni, organi della pubblica amministrazione, organismi comunitari, Comitato delle Regioni e ogni altra istituzione che eserciti funzioni pubbliche di interesse locale.

all’assolvimento di una serie di esigenze sociali che sono aumentate negli anni, di bisogni espressi dai cittadini e non assimilabili tra loro, sempre più capillari e specifici. È difficile immaginare soluzioni diverse da quelle proposte da una rete di associazionismo e volontariato che, ad esempio a Torino, è molto sviluppata e radicata nei quartieri». Qualche esempio? «A Torino sono ormai molto numerosi i proget-

una collaborazione improntata al principio di sussidiarietà. La strada che porta al federalismo fiscale passa dal federalismo municipale. Come ritiene si debba conciliare il federalismo dei Comuni con il principio di sussidiarietà che vede protagonisti gli enti del privato sociale? «Il federalismo e il principio della sussidiarietà sono cose diverse anche se collegate. Mi spiego meglio. Potremmo definire, in termini molto semplici, la sussidiarietà come un principio regolatore che afferma che ogni iniziativa possibile deve essere condotta e sviluppata dai cittadini e che ciò che il cittadino da solo non può fare deve essere risolto dall’ente a lui più vicino». E il federalismo, invece? «La riforma federale, se e quando sarà in funzione, afferma il principio di respon-

«Le organizzazioni non profit sono essenziali all’assolvimento di una serie di esigenze sociali che sono aumentate negli anni... È difficile immaginare soluzioni diverse da quelle proposte da una rete di associazionismo e volontariato» ti sviluppati in quest’ottica. Penso al progetto “Micronidi”, ad “Accompagnamento solidale”, “Vicini solidali”, o a “Motore di Ricerca” nato a partire da un’esigenza rappresentata dalle famiglie di ragazzi disabili. Anche il progetto “Rifugio diffuso” merita una considerazione particolare perché è riuscito a promuovere l’accoglienza da parte delle famiglie, e così pure il progetto “Protesi dentaria gratuita” che ha saputo garantire anche a soggetti molto fragili un servizio prezioso a loro inaccessibile. Particolarmente significativo è però il progetto Piazza dei Mestieri, che nasce da un concorso fra istituzioni, Compagnia delle Opere, fondazioni bancarie, un processo virtuoso che ha consentito di reinserire professionalmente giovani che erano esclusi dal circuito del lavoro e di sviluppare attività che offrono occupazione e che hanno un mercato». I casi da lei citati sono esemplificativi di

sabilità da parte delle singole comunità, quindi avvicina i centri decisionali ai cittadini e perciò dovrebbe rendere complementari i due principi». n

PIAZZA DEI MESTIERI La Fondazione Piazza dei Mestieri svolge le proprie attività a Torino utilizzando uno stabile di circa 7000 mq al cui interno propone una serie di attività tra cui: inserimento in percorsi di alternanza, formazione tecnico-professionale, sostegno al percorso scolastico, attività culturali, sportive e ricreative. Scopo della fondazione è quello di favorire la preparazione e l’avviamento dei giovani al lavoro, migliorando e innovando i servizi educativi, ponendo attenzione particolare alle politiche di inclusione sociale e alla prevenzione delle diverse forme di disagio giovanile e ai fenomeni di dispersione scolastica.

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giovani

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d i D a r i o Va s c e l l a r o

Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, spiega quanto si è fatto e quanto ancora resta da fare per dare una migliore prospettiva occupazionale ai giovani, anche grazie al ruolo del Terzo settore

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una nuova visione del lavoro l

a disoccupazione giovanile, nei Paesi Ocse, ha raggiunto tassi tra il 20 e il 25% (del 42% in Spagna). Tutti i Paesi avanzati, dunque, sono impegnati a elaborare programmi di scolarizzazione, formazione e tirocini per preparare le giovani generazioni alle sfide degli anni a venire. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile a ottobre è diminuito passando dal 26,5% al 26,2%. L’Italia resta però ampiamente al di sopra della media europea per questa fascia d’età: 20,1%. Con Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, abbiamo cercato di delineare quali sono le politiche da adottare per agevolare l’occupazione giovanile. Nel nostro Paese si registra un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa. Bisogna ricordare, però, da dove si partiva. La disoccupazione giovanile, attestata attorno al 24 per cento nel 1977, era poi cresciuta spaventosamente nel decennio successivo, giungendo a toccare quota 35,5 per cento nel 1987. Anche grazie al Pacchetto Treu e successivamente alla Legge Biagi, la disoccupazione giovanile è dunque calata in modo rilevante negli ultimi anni. Qual è il suo giudizio, oggi, sulla situazione occupazionale dei giovani italiani, visto anche il ritardo con cui essi entrano nel mercato del lavoro? «In Italia così come in Europa i giovani rappresentano la ricchezza e la speranza dello sviluppo futuro ma allo stesso tempo sono oggi i soggetti a maggior rischio di disoccupazione. L’evidenza dei numeri, nella fase di crisi economica che stiamo attraversando, ci impone di inserire tra le nostre priorità l’analisi profonda dei motivi di tali debolezze e di mettere in campo strategie di recupero. All’inizio della crisi abbiamo dovuto fare una scelta di indirizzo sulle categorie da

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sostenere in via prioritaria per quanto riguarda innanzitutto il sostegno al reddito. Alla luce della nostra struttura sociale ci siamo orientati sui padri di famiglia, persone mediamente sopra i 40 anni e con famiglia a carico. Osservando i risultati in termini di tassi di disoccupazione e coesione sociale crediamo di aver preso la decisione più giusta anche se ora dobbiamo affrontare le difficoltà dei lavoratori più giovani che allora non siamo riusciti a sostenere come avremmo sperato. Certamente i nostri ragazzi scontano difficili defezioni del sistema scolastico, sordo alle richieste del mercato del lavoro. Lavoro e istruzione sono considerati due mondi separati e non i pilastri di un unico modello educativo.

Maurizio Sacconi, oltre che ministro della Repubblica, è anche docente a contratto di Economia del lavoro presso la facoltà di Economia della Università degli studi di Roma a Tor Vergata


giovani La scuola invece dovrebbe accompagnare i giovani verso l’occupazione ed evitare fenomeni di disorientamento o ancor peggio di disadattamento scolastico. I ragazzi vanno orientati rispetto alle prospettive occupazionali dei percorsi scolastici che stanno per intraprendere e formati in funzione dei bisogni effettivi del mercato. Per questo motivo abbiamo incoraggiato la creazione di uffici di placement nelle scuole e nelle università, abbiamo formalizzato l’obbligo per gli atenei di rendere pubblici i curricula dei laureati e di recente abbiamo attivato il portale istituzionale www.cliclavoro. gov.it che consente a cittadini e imprese di pubblicare candidature e offerte di lavoro. Il ritardo con cui i giovani entrano nel mercato del lavoro, ancor più penalizzante considerando la concorrenza spesso globale che contraddistingue ormai molti settori, è dovuta a scelte sbagliate, alla mancanza di un aiuto per i ragazzi e le famiglie negli snodi cruciali della carriera scolastica.

Anche dall’annuale rilevazione del Censis emerge un disallineamento tra le competenze che i giovani hanno acquisito e quelle che richiede il mercato del lavoro

Per tale motivo le istituzioni devono promuovere trasparenza e informazione sui corsi scolastici, sulle prospettive professionali, costruendo un nuovo sistema di educazione fondato sulle com-


giovani ➤ petenze e non formalistico come è oggi». Il recente accordo tra Governo, Regioni, Province autonome e parti sociali per il rilancio del contratto di apprendistato dà nuova forza a uno strumento estremamente importante per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Si tratta di uno strumento ampiamente sperimentato nei Paesi più virtuosi e che bene si concilia con le logiche del nuovo paradigma economico che ha definitivamente rotto la barriera tra scuola e impresa. Può spiegarci quali saranno le ricadute positive che lei si aspetta da tale strumento? «L’apprendistato rappresenta il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, secondo percorsi di qualità utili a valorizzare e accrescere le competenze delle persone e sostenere la produttività del lavoro. La piena attuazione delle tre tipologie di apprendistato offre un ampio ventaglio di percorsi per i giovani, rafforzandone l’occupabilità a seconda delle differenti condizioni di partenza. Siamo chiamati a riscoprire, come diceva Don Bosco, che per molti “il talento sta nelle mani”. L’apprendistato è occasione per avvicinarsi a un mestiere, per sfruttare la propria creatività manuale, per scoprire talenti nuovi. Per esempio, la nostra grande tradizione manifatturiera non deve andare dispersa: oggi molti settori artigianali non riescono a coprire tutta la richiesta di lavoro e si ricorre a lavoratori stranieri che sono maggiormente pronti a “mettersi a bottega”. Paghiamo purtroppo un mentalità figlia degli anni 70, per la quale il lavoro manuale era meno dignitoso di quello intellettuale, quando ancora il lavoro era luogo di lotta di classe e scontro sociale. Oggi per fortuna abbiamo relazioni industriali maggiormente collaborative, grazie a sindacalisti riformisti come Bonanni e Angeletti che hanno saputo prendersi sulle spalle decisioni di grande responsabilità per il bene di tutto il Paese. I tempi sono maturi per recuperare una visione del lavoro che trovi la propria dignità innanzitutto nella libertà con il quale è compiuto». Quale ruolo vede per il Terzo settore, sia in chiave di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, sia come bacino occupazionale in crescita? «La crisi attuale pone al centro del dibattito politico l’equilibrio tra Stato, mercato e società civile. Il nostro sistema di Welfare, comprensivo delle politiche al lavoro, deve essere ripensato tenendo conto di alcune grandi determinanti che si sono imposte: prima fra tutte, la fine

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dell’impunità del debito pubblico come leva di finanziamento della spesa pubblica. In tal senso parliamo di “meno Stato e più società”, laddove “meno Stato” non significa “minor Stato” ma “Stato migliore”, più efficiente, meno invasivo perché concentrato sulle funzioni di indirizzo e controllo. Solo così crescerà la società civile e la sua capacità di rispondere - in sussidiarietà - ai bisogni sociali emergenti, non solo a un minor costo ma soprattutto con una maggior qualità di servizio. Anche nei servizi al lavoro il Terzo settore - oggi organizzato spesso in maniera informale - può aiutare a innovare il nostro sistema di intermediazione. Per non parlare della sua capacità occupazionale: mi ha colpito registrare come il settore delle imprese sociali sia stato tra i pochi in crescita nei mesi della crisi. Pensando ai servizi alla persona, lavoro compreso, il Terzo settore dovrà crescere e pensare a nuovi servizi, secondo una impostazione culturale segnata da una “antropologia positiva”, che tenga la persona al centro, con quella sua unica capacità di flessibilità e intensità di relazione umana della quale lo Stato è certamente meno capace». n

Maurizio Sacconi ha spiegato che l’andamento del mercato del lavoro tra i giovani è fortemente condizionato anche dalla poca disponibilità ad accettare lavori diversi rispetto a quelli sognati, in particolare per i lavori manuali



giovani

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di Stefano Giorgi direttore di In-Presa

un aiuto per i giovani “pericolanti” Dall’impegno e dalla passione educativa di Emilia Vergani è nata in Brianza l’esperienza di In-Presa, cooperativa sociale che si occupa di affido diurno, formazione e inserimento lavorativo di ragazzi in situazione di difficoltà sociale, scolastica e lavorativa

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a vita è la realizzazione del sogno della giovinezza», con questa frase di Papa Giovanni XXIII venivano accolte nel chiostro dell’Università Cattolica di Milano le matricole dell’anno accademico 1978/79. L’invito a essere giovani che, avvertivamo al tempo, coincide proprio con quello slancio realizzativo e costruttivo che rende sopportabile, anzi addirittura quasi ricercata, ogni fatica. Era la mattina del 12 ottobre 2010 quando la capsula Fenix (quella specie di Apollo 11 lanciata non nello spazio ma a più di 600 metri sotto terra) ha tirato fuori Florencio Avalos, 31 anni, con un paio di occhiali scuri e un elmetto in testa, che ha abbracciato la moglie e il giovane figlio in lacrime. Florencio, il primo dei minatori cileni usciti dalla terra che li aveva inghiottiti ben 68 giorni prima.

Che emozione, che grida di gioia…

Ma non occorre andare in Cile per trovare minatori intrappolati: ci sono tanti giovani che hanno perso il desiderio di costruire qualcosa nella propria esistenza, giovani che, per le più svariate ragioni, hanno deciso di assentarsi per un determinato periodo da ogni impegno verso la realtà e verso se stessi. Quei giovani che a In-Presa - cooperativa sociale - abbiamo imparato - grazie all’intuizione significativa del grande amico Silvio Cattarina dell’Imprevisto di Pesaro - a chiamare “pericolanti”: coloro che sono in pericolo di perdere definiti-

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giovani vamente ogni possibilità di positività dell’esistenza. Noi vediamo che tanti giovani sono nella condizione dell’abbandono: avere una famiglia senza mai averla avuta, avere dei genitori senza che questo sia una famiglia. Abbandono che porta a non percepire più la vita come promessa. Alcuni si sentono delle nullità, vivono come se nulla avesse senso o come se nessuno potesse riporre in loro la benché minima fiducia. È come se si trovassero a 700 metri intrappolati sotto terra come i trentatré minatori cileni.

Un luogo di formazione

In-Presa ha avuto origine da Emilia Vergani (assistente sociale a Carate Brianza) che ha generato un luogo di formazione in cui ragazzi con poche speranze potessero trovare il proprio posto positivo nel mondo: poter dire «il mondo, attraverso quello che sono e so fare, è più bello e corrispondente a quello che io e tutti desideriamo». In-Presa è un’opera di accoglienza per quei giovani “pericolanti”. Nell’accoglienza, attraverso percorsi di orientamento e aiuto allo studio, formazione professionale e accompagnamento al lavoro la scoperta di questi ragazzi e ragazze è che il limite, pur riconosciuto, non costituisce l’ultima parola sulla propria persona. È iniziato tutto da Emilia che, circa 15 anni fa, vide che per i ragazzi la vita ha i suoi contraccolpi: talvolta si portano dietro una rabbia inconfessata, dei dolori mai consolati, incomprensioni familiari o situazioni veramente gravi. In queste condizioni lo studio diventa difficile e il lavoro impossibile. Al fondo rimangono sempre quelle domande che lasciano come feriti: «Che ci faccio io qui? A che cosa servono le cose con cui dovrei impegnarmi?». Emilia faceva i conti tutti i giorni con questo bisogno infinito e ha deciso di aprire la sua casa nell’esperienza dell’affido e di coinvolgere i suoi amici (famiglie e imprenditori brianzoli) per dar vita a un centro (il Centro In-Presa) che si occu-

In-Presa partecipa da alcuni anni ad Artigiano in Fiera con il Ristorante Brianzolo, allestito nel padiglione della Lombardia. Nella foto, gli alunni delle classi del triennale aiuto-cuoco alla scorsa edizione di AF

passe di ragazze e ragazzi così: un luogo dove offrire loro, attraverso il lavoro, la strada per scoprire che la vita ha un senso e che la realtà è positiva. Raccontava lei stessa a un convegno sul disagio giovanile a San Marino nell’aprile del 2000: «I ragazzi con i quali abbiamo a che fare noi hanno situazioni in genere molto pesanti di esperienze di famiglie a cui si aggiungono esperienze negative con la scuola, per cui hanno

Nelle foto in questa pagina, il logo della cooperativa e i ragazzi di InPresa impegnati nei settori gastronomico ed elettrico

La storia di In-presa In-Presa ha origine dall’iniziativa di Emilia Vergani che, a partire dal 1994, decide di coinvolgere alcune famiglie a lei legate da profonda amicizia in esperienze di affido diurno per ragazzi in situazione di difficoltà. Dalla passione educativa per i ragazzi a lei affidati e dal suo impeto a ricercare con tenacia e coraggio il volto buono del Mistero che fa e sostiene tutte le cose, Emilia fonda, nel novembre del 1997, il Centro In-Presa: luogo dove offrire ai giovani, attraverso il lavoro, la strada per scoprire che la vita ha un senso e che la realtà è positiva. Successivamente, nel gennaio 1999 costituisce l’Associazione In-Presa onlus, che dal novembre 2000, in seguito alla sua prematura scomparsa, prende il nome di Associazione In-Presa di Emilia Vergani onlus. Ora è cooperativa sociale, ente accreditato presso la Regione Lombardia per tutte le attività di formazione e di orientamento da questa riconosciute.

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giovani ➤ un sentimento di sé rasoterra, con una capacità di aggancio alla realtà e di positività molto precarie. […] La prima condizione, sempre e comunque, è che davanti a una persona che deve fare un passo [perché avvenga un cammino di integrazione], ci vuole un adulto che dica: “Vieni dietro a me”. Il metodo per cui tutto questo è possibile è che qualcuno gli dica “guardami, appoggiati a me”. […] Io ho avuto dei ragazzi in affido e mi ricordo soprattutto il primo che era di un’agitazione e di un’ansia… per cui l’unica possibilità che c’era di aiutarlo era dirgli: “Stai tranquillo, la tua ansia non mi manda in crisi, io sono salda qui, in un terreno più saldo di quello dove sei tu, se ti attacchi ti tiro dalla mia parte”. Quando un ragazzo sente questa sicurezza è come se cominciasse a mettere in azione quel minimo di energia che ha - che noi chiamiamo libertà -, per cui la capacità di cominciare

A fianco, un momento di festa a In-Presa. Grazie alla consapevolezza maturata in seguito a una esperienza di affido, Emilia Vergani decise di creare, coinvolgendo amici e imprenditori della Brianza, un luogo e un’associazione che si facessero carico di tanti adolescenti che rifiutavano la scuola o che dalla scuola erano rifiutati. Inserendoli in un percorso in cui fossero affidati a dei maestri di bottega, Emilia rese possibili a tanti “pericolanti” di sperimentare - come lei diceva “la bellezza della vita”

l’impresa come luogo educativo: tre testimonianze reali Di seguito riportiamo tre brevi testimonianze di imprenditori che raccontano come abbiano scoperto che il luogo di lavoro può diventare un luogo educativo. E la scoperta è arrivata grazie alla loro disponibilità a prendere con sé dei ragazzi di In-Presa. I testi riportati sono tratti dal libro di Emanuele Boffi Emilia e i suoi ragazzi (vedi box), appena pubblicato e disponibile nelle migliori librerie.

come faccio ad aiutarli tutti? Con alcuni proprio non si riesce. Mi viene solo da dire che “io ci sono sempre”. Se non gli sto a fianco io, chi si occuperà di loro? Oramai mi sono così affezionato a In-Presa che abbandonarli mi spiacerebbe. Non so come risolvere il fallimento dei ragazzi, ma certamente se non mi mandassero più nessuno di loro sarebbe il mio fallimento».

BRAIDA, CARROZZIERE Nel corso degli anni dalla sua officina ne sono passati una ventina. «Se avessi dovuto guardare solo il bilancio, non l’avrei mai fatto - spiega Braida -. Che senso ha inserire un improduttivo nel ciclo produttivo? Chi te lo fa fare di mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio?» Già, chi te lo fa fare? «Ci penso spesso. Il valore di In-Presa sta proprio nel fatto che costringe un piccolo imprenditore come me a pensare qual è lo scopo del suo mestiere. Ragazzi del genere ti obbligano a riconsiderare di continuo la dimensione umana del lavoro, a un’idea di produttività che è diversa. In-Presa è un pungiglione nel piede del leone. Alla fine, accetto perché mi fido di chi mi propone di tenerli qui in prova, è una ragione più forte che non il negare il mio aiuto. InPresa mi ha insegnato a comportarmi in officina come un padre che dà sempre ai propri figli la possibilità di realizzarsi».

VERDUCI, DITTA DI IMPIANTI ELETTRICI «Se non ci fossero i ragazzi, potrei sottrarmi a questa responsabilità. Sarebbe una perdita, per me e per la mia azienda.» Spiega Verduci che, grazie a questi ragazzi un po’ discoli, ha capito che alla base della produttività stanno l’accoglienza e l’indicazione di uno scopo: «Devi sempre spiegare loro il motivo per cui porti a termine qualcosa, anche se riguarda un dettaglio apparentemente insignificante. E poi devi far loro capire che ci tieni. Io lo ripeto sempre: “Lavorate bene perché c’è qualcuno che vi guarda”».

GATTI, PROPRIETARIO DI UN NEGOZIO DI GASTRONOMIA Parlando dei ragazzi: «Il fattore comune a tutti è che ti stravolgono il modo di lavorare, a partire dall’orario, e ti costringono a diventare un educatore, perché non puoi limitarti a comportarti come il padrone con il dipendente.» All’inizio Gatti pensò che sarebbe bastato fare «un po’». Qualche buona azione, una mancia a fine mese, una parola di incoraggiamento, «ma poi ti accorgi che devi dare tutto. E, a volte, non basta nemmeno dare, dare, dare. Il mio cruccio è proprio questo:

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Accanto, la copertina del volume di Emanuele Boffi Emilia e i suoi ragazzi (i Libri di Tempi, Lindau, 184 pp., 16 euro), in libreria dal 2 dicembre, che narra la storia del Centro In-Presa di Carate Brianza, nato dalla passione educativa di Emilia Vergani (1949 - 2000). È un racconto composto dalle testimonianze di chi la conobbe e collaborò con lei: dal marito Giancarlo Cesana, ai figli, al Patriarca di Venezia Angelo Scola, a Giorgio Vittadini, ai primi adolescenti coinvolti


giovani a essere positivo nel costruire, gli permette di fare un’esperienza di cammino educativo». La forma di questo “vieni dietro a me” è, innanzitutto, un’accoglienza senza condizioni: “Conosco il tuo limite, e anche il mio, coraggio possiamo ripartire!”.

Percorsi personalizzati

Così quella “mano salda” ha preso il volto degli educatori, degli insegnanti, dei tutor del Centro InPresa; quella mano salda si è fatta, nel tempo, aiuto allo studio per ragazzini delle medie inferiori in difficoltà; percorsi personalizzati attraverso laboratori e momenti di scolarizzazione per sostenere l’esame di terza media; corsi di orientamento per quegli studenti delle superiori che non si trovano nella strada iniziata; corsi triennali di formazione professionale per chi, finita la terza media, vuole intraprendere la professione del cuoco; corsi sperimentali di formazione in alternanza scuola/lavoro per quei ragazzi che hanno sperimentato la scuola come luogo non adeguato al fiorire della propria personalità; percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro: una sorta di capsula Fenix per giovani pericolanti, cioè una strada per risalire,

una strada fatta di mani sicure - tutor e maestri/ bottega - offerte per imparare e capire che “io valgo a qualcosa”. Come racconta uno di loro: «Cara Emilia, volevo dirle che grazie a lei ho ritrovato uno spiraglio nella mia vita, dopo la bocciatura dell’anno scorso. Avevo perso le speranze, poi ho scoperto In-Presa. Qui mi è stata data la possibilità di iniziare a imparare un mestiere. Se non ci fosse stata lei io ora sarei in mezzo alla strada a non fare nulla». Quella “mano salda” ha reso In-Presa un luogo dove il nome di chiunque vi entra risuona in un modo speciale, come, in fondo in fondo, in una casa, quel luogo di relazioni positive che sole, come ha recentemente ricordato il cardinale Scola al Centro culturale di Milano, aprono ai ragazzi «tutta la vita come fenomeno ad-ventura, avventuroso di promessa, […] La relazione è ciò che fa fiorire quell’unicum che è l’io». In-Presa è potuta divenire quel luogo di relazioni e di accoglienza senza condizioni che fa scoprire il proprio posto nel mondo e permette, nell’iniziare a dire io, a dire “mio” di quello che si ha davanti e che prima si rifuggiva: la fatica, la scuola, il lavoro. n


giovani A l e s s a n d r o M ele, direttore di Cometa, ci racconta origine e metodo di una r e a l t à c h e a c c o g l i e bambini e ragazzi attraverso la condivisione quotidiana di tutti i l o r o b i s o g n i , d a l l ’ affido familiare allo studio fino alla formazione professionale, n e l s eg n o d e l l a b e l l ezza come esperienza possibile

A

d i D a r i o Va s c e l l a r o

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Accogliere p e r educare

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giovani rappresentano una risorsa indispensabile per la società, perché ne rappresentano l’energia, il cambiamento, la concretezza, i valori. Il terzo settore, in un momento di crisi delle altre istituzioni preposte alla cura ed educazione della gioventù, è uno strumento indispensabile per porre l’attenzione sul rapporto tra i giovani e il loro ruolo attuale. Ce lo spiega, nell’intervista che segue (corredata da sintetici box che presentano altre realtà non profit che si occupano di giovani) Alessandro Mele, direttore di Cometa, realtà che offre servizi d’accoglienza e proposte socio-educative per i minori e le loro famiglie. Può spiegarci qual è, dal suo punto di vista pri-

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vilegiato, la situazione del mondo giovanile? «I ragazzi vivono oggi in un mondo affascinante e tutto da scoprire, che ha moltiplicato straordinariamente le loro possibilità; basti pensare alle opportunità di conoscenza, di relazione, di interazione, di espressione e di costruzione di percorsi. I giovani di fronte a tutto questo vivono una condizione di solitudine, generata da un contesto culturale che vuole eliminare ogni punto di riferimento. Dopo aver distrutto, per una falsa libertà,

Grazie all’entusiasmo delle persone che costituiscono Cometa, attraverso la loro creatività nella risposta ai bisogni incontrati negli anni, sono nate una serie di iniziative che hanno permesso lo sviluppo di molte attività di significativo valore educativo e di notevole rilevanza sociale (a sinistra, la casa di Cometa; sopra, le quattro comunità familiari) CORRIERE DELLE OPERE N. 4 Dicembre 2010


giovani la figura del padre, ha proseguito con le istituzioni (Chiesa, famiglia, Stato) generando una demolizione fine a se stessa. La cultura dominante, incapace di una proposizione ideale, condanna a una vita narcisista insufficiente, che tenta di afferrare l’apparente per un appagamento immediato. Un carpe diem illusorio che affoga in un nichilismo tragico. Occorre ripensare da parte degli adulti una proposta educativa che a partire dalla bellezza susciti il desiderio, unico motore di azione, crescita e sviluppo». L’esperienza di Cometa è, presumo, nata in risposta ad alcune mancanze (della famiglia, della società). Può spiegarci quali sono queste “mancanze” alle quali avete cercato di porre rimedio? In particolare, in cosa consiste l’emergenza educativa alla quale avete dato risposta con le vostre attività? «L’esperienza di Cometa nasce da una gratitudine che ha generato una gratuità, è solo un’esperienza di soddisfazione che accetta di portare anche le difficoltà della vita. L’uomo cresce per un’immedesimazione, la mancanza di modelli di riferimento consistenti continua a generare una profonda crisi d’identità nei giovani e una fragilità nel rapporto con la realtà amplificata dall’incertezza in cui sono immersi. La nostra società individualista, in conflitto con la natura relazionale della persona, spinge innaturalmente l’uomo a una impossibile autosufficienza. Il vero grande problema dell’educazione di oggi è la mancanza di adulti capaci di educare, di vivere le cose per quello che sono. In questa emergenza educativa Cometa è cresciuta da incontro a incontro diventando un luogo di condivisione di una semplice quotidianità tra adulti, che hanno accolto centinaia di ragazzi e famiglie nei loro bisogni quotidiani». Qual è il percorso seguito da Cometa? «Cometa è innanzitutto un’esperienza di comunione tra gli adulti che è diventata accoglienza. Le attività sono cresciute con i ragazzi e le famiglie in una paternità tenace che instancabilmente cerca soluzioni perché ognuno possa essere aiutato a diventare se stesso. L’accoglienza dei bambini in affido è stata da subito preoccupazione educativa, creando occasioni di accompagnamento nello studio e nel tempo libero anche attraverso lo sport. La casa è diventata abitata da bambini e ragazzi in affido diurno. Alcuni di questi ragazzi fuoriusciti dai percorsi scolastici tradizionali avevano come unica chance quella di imparare un mestiere, ed è così che è iniziata l’avventura della formazione professionale. La crisi e le difficoltà dei ragazzi

per l’apprendimento e l’inserimento nel mondo del lavoro, hanno poi generato le esperienze di accompagnamento e di lavoro con i ragazzi». Come avete modulato la vostra offerta per venire incontro alle esigenze dei giovani? «Cometa è guidata dalla convinzione che “chiunque è educabile”, non secondo uno schema predefinito per tutti, ma ognuno secondo le sue esigenze, i suoi bisogni e i suoi desideri. L’atten-

Sopra, nella foto grande, Erasmo Figini che, insieme al fratello Innocente, ha dato vita alla Cometa; nella foto piccola, un’aula della Scuola Oliver Twist inaugurata lo scorso settembre

cometa Cometa è una realtà di famiglie impegnate nell’accoglienza, nell’educazione e formazione di ragazzi e nel sostegno alle loro famiglie. Un luogo in cui i bambini e i ragazzi sono accompagnati alla conoscenza della realtà, sono educati a cogliere il senso e la bellezza della vita nella condivisione della semplice quotidianità e dove le famiglie sono aiutate e sostenute nel loro cammino educativo. Nata per iniziativa di Innocente Figini, che fa l’oculista, ed Erasmo, stilista d’arredamento, tutto è cresciuto da incontro a incontro. Nel tempo l’accoglienza si è notevolmente ampliata sviluppando una rete di famiglie e amici, che nel 2000 si è costituita in associazione di famiglie. La realtà di Cometa (di cui quest’anno ricorre il decennale) oggi accoglie, oltre ai 14 figli naturali, 24 bambini in affido nelle 4 Comunità Familiari e coinvolge circa 60 famiglie anch’esse impegnate nell’esperienza dell’accoglienza.

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giovani ➤ zione alla persona e alla sua storia è il criterio che guida la realizzazione dei percorsi formativi della Scuola Oliver Twist. Esempio significativo è la proposta del Liceo del Lavoro, con percorsi di alternanza scuola lavoro continuamente riprogettati a seconda dell’evoluzione formativa del ragazzo e degli obiettivi raggiunti e da raggiungere. Questo modello sta generando innovazione perché non si tratta di un modello applicato deduttivamente, ma di un tentativo a partire dall’esperienza concreta che può diventare modello per tutti». Qual è il concetto di educazione (al lavoro e alla vita) dal quale siete partiti? «È solo un’attrattiva che muove la persona. Occorre partire sempre da un’ipotesi positiva; per rischiare nel rapporto con chiunque è necessario scommettere sul cuore di ciascuno - quel fascio di

il gruppo edimar Il Gruppo Edimar è un’opera orientata al sostegno di giovani in difficoltà e delle loro famiglie. È un luogo di accoglienza, formazione e incontro presente a Padova dal 1997 attraverso quattro enti: - Associazione di volontariato Edimar; - Cooperativa Sociale “La Dimora”; - Fondazione Opera Edimar; - Associazione Calcio 4-U. Le attività educative del Gruppo Edimar a Padova si svolgono in tre “dimore”: - Ca’ Edimar, struttura polivalente destinata alla accoglienza, alla formazione e alle attività ludicoricreative per adolescenti e giovani (in via Due Palazzi 43); - il Centro regionale per le difficoltà di apprendimento (in via Delle Cave 15); il Centro 2-You che svolge attività educativa per studenti delle superiori a rischio di abbandono (in via Pierobon 19).

La Bottega Scuola di Cometa rappresenta un innovativo modello di integrazione tra attività produttive, formative, culturali e di commercializzazione, dell’artigianato. Essa costituisce un luogo dove ciascun ragazzo può giocare le proprie attitudini ed essere introdotto nel mondo del lavoro attraverso un adeguato accompagnamento sia per l’inserimento lavorativo che per l’autoimprenditorialità mediante le attività di decoro, design, falegnameria, restauro e tappezzeria (nelle foto, ragazzi di Cometa)

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giovani ➤ evidenze ed esigenze originali di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità - più che disperare dei suoi limiti. Il cuore dell’uomo desidera la bellezza, come ha recentemente ricordato Benedetto XVI all’omelia della Messa per la Dedicazione della Chiesa della Sagrada Familia a Barcellona: “La bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza.” L’educazione è ridare una prospettiva all’altezza dei propri desideri, lavoro e vita non sono due opposti da conciliare, ma il lavoro come espressione dell’essere diventa innanzitutto la modalità con cui l’uomo prende iniziativa con la realtà e la possibilità perché scopra il suo vero volto». Come, nella vostra attività, avete tenuto sempre come riferimento l’unicità della persona e del talento? E cosa significa questo concretamente? «Occorre innanzitutto investire su un presente, su qualcosa che c’è, non su ciò che manca, su un’assenza. Questa partenza da ciò che di positivo è in ognuno, permette di costruire sul desiderio, di guardare la persona senza misurarla per i suoi errori, ma guardandola come una possibilità infinita. Da questo un’educazione che introduca alla vita e permetta di acquisire un metodo attraverso cui ciascuno sia portato alla scoperta della propria strada, facendo emergere il proprio talento». Avete realizzato quella che è stata definita una “città nella città”. Come avete evitato, nel far ciò, il rischio della ghettizzazione? «La ghettizzazione non è un rischio eventuale, ma un errore di concezione che si annida nell’origine, che nasce dalla concezione di un luogo di positività come un’alternativa al resto, alla realtà. In forza di un’esperienza positiva che trascini anche gli altri, invece, è possibile creare un luogo che rilanci ciascuno verso il mondo, senza il problema della ghettizzazione. Cometa non risponde a un problema sociale da risolvere, ma partendo da un’esperienza positiva, la propone a tutti». Può raccontarci l’esperienza della Contrada

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degli artigiani? «Con alcuni ragazzi usciti dalla scuola di Cometa e che erano in difficoltà nel trovare lavoro, anche qui per una serie di circostanze e incontri imprevisti, abbiamo creato un piccolo distretto artigianale. Questa realtà oggi ha al suo interno cinque botteghe: falegnameria, decorazione, restauro, tappezzeria e design. Contrada degli

Cooperativa sociale L’imprevisto La cooperativa sociale L’Imprevisto di Pesaro opera dal 1990 nel settore della devianza e tossicodipendenza tramite un sistema di accoglienza che è cresciuto negli anni e che presenta tre principali strutture: comunità maschile “L’imprevisto”; comunità femminile “Tingolo per tutti”; centro diurno “Lucignolo”. La cooperativa risponde al bisogno educativo e terapeutico di ragazzi devianti e/o tossicodipendenti, minorenni e maggiorenni di entrambi i sessi. Il personale della comunità, formato da psicologi, sociologi ed educatori, cerca di offrire ai propri ospiti un ambiente di confronto che dia loro la possibilità di identificarsi con figure adulte e significative. I ragazzi sono accettati e accolti in stretta collaborazione con i servizi sociali dei Comuni, delle Aziende sanitarie locali, con i servizi sociali del ministero della Giustizia e con i Tribunali dei minorenni. Mediamente sono ospitati, stabilmente, 30 ragazzi. Inoltre nella comunità femminile “Tingolo per tutti”, che ha iniziato la sua attività il 20 gennaio 1997, sono ospitate 15 ragazze.



giovani

LA FONDAZIONE NOVELLA SCARDOVI

borghese, rifiutano il sacrificio e partono dall’idea La Fondazione Novella Scardovi nasce nel 2002 con lo scopo di custodire e che il lavoro sia un prezzo comprendere in sé tutte le realtà di accoglienza nate dal carisma di Novella da pagare per poter poi fiScardovi: l’Associazione San Giuseppe e Santa Rita, la Cooperativa Educare nalmente vivere nel tempo Insieme e la Cooperativa Botteghe e Mestieri; una rete territoriale funzionale libero. Grazie all’investia dare risposta alle varie esigenze di accoglienza, educazione e relazioni mento educativo e al luogo, umane significative emerse negli anni. in Cometa abbiamo iniziato La Fondazione promuove opere di accoglienza e solidarietà a favore di: minori con risultati sorprendenti a e giovani donne con situazioni di disagio familiare e/o psicologico, nuclei riorientare ragazzi senza un mamma-bambino; giovani e adulti con disturbi psichiatrici in condizioni progetto di vita verso lavori di emarginazione sociale; giovani che necessitano di un percorso di sempre più necessari e riavvicinamento al lavoro attraverso percorsi di formazione. Negli anni l’opera chiesti. Le imprese con le iniziata da Novella si è dilatata per rispondere ai nuovi bisogni incontrati, istituzioni si sono coinvolte tentando di creare luoghi per la persona a seconda delle necessità di ognuno: in una logica di partenariaCasa d’accoglienza San Giuseppe e Santa Rita, Casa Novella, Casa Fabio to, come sta avvenendo per Minguzzi, Centro diurno Il Fienile, Il Battello - punto d’incontro per ragazzi. la costruzione degli edifici del progetto “La città nella città” che vede il coinvolgi➤ mento di amministrazioni artigiani è un luogo in cui i ragazzi, apprendisti, pubbliche, profit e non profit. Lester Salomon, imparano un lavoro sotto la guida di uno stili- per questo motivo, ha riconosciuto Cometa come sta insieme ai maestri artigiani, creando prodotti un esempio tra i più significativi di new goverd’eccellenza: mobili su misura, decorazione e nance, quale risposta efficace ai cambiamenti del restauro di mobili antichi o destinati alla dismis- Welfare. Il rapporto con le imprese arriva anche sione, design tessile ed elementi d’arredo. Con al partenariato educativo: 400 imprese del territol’obiettivo di recuperare un patrimonio di com- rio hanno preso almeno uno dei nostri ragazzi in petenze in estinzione (quelle artigianali) e di pre- tirocinio e sono seguite dai nostri tutor. Cometa venire il fenomeno della dispersione scolastica, rappresenta un’impresa innanzitutto nel senso Contrada rappresenta un’esemplificazione vivida dell’intraprendenza di uomini responsabili che hanno accettato di assumersi del valore educativo del lavoro». In un momento in cui i fondi per la scuola e il rischio di educare centinala formazione sembrano scarseggiare, quella ia di ragazzi all’anno. Sono di Cometa è una risposta “virtuosa” anche dal circa 100 le persone che lapunto di vista economico. Perché? vorano a tempo pieno in Co«Il sistema di istruzione e formazione lombardo meta, 150 i collaboratori e i ha raggiunto risultati non solo efficaci, ma an- professionisti e più di 200 i che economicamente efficienti. Il sistema risulta volontari». n molto più economico del sistema educativo della scuola di Stato e probabilmente il più efficiente anche tra i sistemi di istruzione e formazione professionale regionali. L’esperienza di Cometa si inserisce quindi in un sistema formativo già efficiente, e inoltre, a parità di costo all’interno del sistema regionale, si fa carico di una serie di problematiche sociali come le attività di contrasto alla dispersione scolastica». Qual è il rapporto della vostra realtà con le imprese del territorio? Come e perché anche Cometa può essere definita, a ragione, una “impresa”? «Le aziende oggi sono in difficoltà a trovare apprendisti, gli artigiani non riescono a trasmettere il loro mestiere. I giovani, figli di una società

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Con il progetto “La città nella città”, Cometa vuole ampliare e potenziare le sue attività realizzando nuovi spazi per l’accoglienza, l’educazione, il sostegno, la formazione e il lavoro (nelle foto sotto, le strutture già esistenti: la cascina e la Scuola Oliver Twist)


LLLa Llavoro dote

a crisi economica internazionale che ha inevitabilmente colpito anche la Lombardia, regione più industrializzata d’Italia, ha accelerato il processo di trasformazione del mercato del lavoro, in atto già da alcuni anni, e oggi sempre più caratterizzato da dinamicità e cambiamento, flessibilità e ricerca di nuove opportunità. Da questo processo, che sta modificando in profondità non solo le forme di accesso ma anche le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, emerge l’urgenza di intervenire sui modelli delle politiche per il lavoro, per creare una più puntuale ed efficace risposta ai bisogni primari delle persone e delle imprese. Proprio questa è la strada intrapresa da Regione Lombardia che, per una realtà particolarmente attiva e dinamica come la nostra, ha messo in campo politiche del lavoro finalizzate ad accompagnare il passaggio nei momenti di cambiamento della persona, in particolare nelle situazioni di crisi, nella perdita del lavoro, nella necessità di riconvertirsi professionalmente.

publiredazionale

Scommettere sulle persone

Oggi per essere realmente al fianco dei lavoratori (e dei cittadini in generale) non bastano gli interventi puramente assistenzialisti, ma bisogna scommettere sulle potenzialità delle persone, sulla loro libertà e responsabilità. Anche e soprattutto di quei lavoratori che la crisi ha messo in ginocchio.

A og g i sono circ a 30 mil a le p er sone che h anno b enef ici ato delle r i sor se me s se a di sp osizione d all a Reg ione L omb ardi a e de st in ate a chi non h a un’occup azione o r i schi a di p erdere il p osto di l avoro Non è più sufficiente supportare le persone con il semplice sussidio (politiche passive). A esso deve affiancarsi un percorso di riqualificazione professionale (politiche attive) mirato all’occupazione dell’individuo. Solo così si rimette in moto lo sviluppo. Per questo è nata la Dote Lavoro, che accompagna la persona nell’inserimento e nel reinserimento lavorativo o nella riqualificazione professionale, permettendole di accedere a servizi di formazione e fornendo nel contempo un sostegno economico. Per questo è nata la Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali, rivolta ai lavoratori di aziende in crisi che non hanno diritto agli ammortizzatori sociali ordinari. I numeri che testimoniano il nostro impegno sono importanti: a oggi 29.500 persone senza occupazione e senza alcuna tutela hanno beneficiato della Dote Lavoro, per un valore complessivo (dote+indennità) di oltre 106 milioni di euro; 106.000 lavoratori in cassa integrazione hanno richiesto la Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali, per un investimento che supera già i 70 milioni di euro. La Dote Lavoro ha avuto successo non solo perché ha liberato risorse, ma perché ha permesso ai cittadini lombardi di trasformare un evento infausto come la perdita dell’impiego o la cassa integrazione in un’opportunità di formazione. Ora si tratta di fare i conti con la razionalizzazione delle risorse economiche cui dobbiamo fare fronte. Sarà essenziale il coinvolgimento delle province nelle politiche del lavoro, nonché una sinergia forte con i livelli territoriali, parti sociali, datori di lavoro. n

La Dote Lavoro punta a favorire l’occupazione e accompagnare la persona nell’inserimento e nel reinserimento lavorativo o nella riqualificazione professionale. Permette, infatti, alla persona di accedere a servizi di formazione e inserimento lavorativo finalizzati all’ingresso o al rientro nel mercato del lavoro

Gianni Rossoni, vicepresidente e assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia Gianni Rossoni, assessore Istruzione, Formazione e Lavoro di Regione Lombardia


giovani

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Da vent’anni la Fondazione Ceur si occupa della formazione di studenti in tutta Italia. Ne parla l’amministratore delegato Maurizio Carvelli

«L’eccellenza è il nostro fiore all’occhiello»

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La Fondazione Ceur è nata nel 1990 dall’iniziativa di professori universitari, imprenditori e professionisti ed è un’istituzione finalizzata alla formazione e alla cultura che si propone di offrire ai giovani universitari le migliori condizioni per essere protagonisti della costruzione del proprio futuro

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a vent’anni, attraverso una rete di collegi di eccellenza, che selezionano gli studenti universitari sulla base del merito, la Fondazione Ceur garantisce una preparazione di alto livello. Attraverso la creazione di una rete italiana fra i suoi collegi e uno strumento come il carrier service, l’ente, milanese di nascita ma italiano per antonomasia, riesce a mettere in contatto diretto il mondo del lavoro e l’accademia, proponendo alle imprese profili altamente qualificati. Maurizio Carvelli, amministratore delegato di Ceur, ci presenta la realtà in cui opera e ce ne illustra le peculiarità. Cos’è fondazione Ceur, quando è nata, dove opera e a chi si rivolge? «Fondazione Ceur nasce nel 1991 a Milano da un gruppo di professori e imprenditori che hanno fondato questo ente con l’idea di occuparsi della formazione degli studenti universitari attraverso la forma del residenziale, quindi dei collegi, e del sostegno ai ricercatori che intendono poi fermarsi in università. L’intento è formativo ed educativo e si inserisce all’interno della tradizione dei collegi universitari legalmente riconosciuti, collegi d’eccellenza italiani che oggi fanno parte di una rete (chiamata Camplus) di 14 fondazioni e 45 residenze universitarie in tutta Italia, tutte di eccellenza, dove lo scopo è quello di occuparsi dei talenti, delle persone che hanno capacità e merito particolari. La nostra attenzione si rivolge quindi a questa tipologia di persone. Nei nostri collegi entrano studenti con una media non inferiore al 24, media che devono poi mantenere. Oltre a ciò ci sono borse di studio per persone che non abbiano possibilità economiche, ma che siano meritevoli». Cosa caratterizza le vostre strutture? «Innanzi tutto bisogna dire che abbiamo il mar-

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di Francesca Glanzer

chio Camplus con cui vengono connotati i nostri collegi: sono sette in tutta Italia tra Catania, Bologna, dove ci sono due collegi ed è in costruzione un terzo, Milano, dove ci sono tre strutture, e Torino, per un totale di circa 700 studenti. Prossimamente contiamo di aprire due nuovi collegi, uno a Roma e uno a Palermo». Cosa si fa all’interno delle vostre strutture? «Gli studenti vengono supportati da un tutor e da un direttore che li accompagnano nel corso degli studi. Hanno quindi sempre una persona adulta sulla quale puntare per trovare un aiuto. All’interno dei collegi vengono poi organizzate delle attività culturali e formative che hanno come scopo l’apertura alla realtà in maniera interdisciplinare. Questo è il secondo tronco di attività. Il terzo è costituito dall’orientamento al lavoro che all’inizio è solo un accenno, ma nel corso degli anni diventa un vero percorso formativo che sbocca poi in un contatto diretto con il mondo delle imprese, attraverso stage ed esperienze lavorative. Questo percorso viene fatto per tutti ed è integrativo rispetto agli studi». La richiesta di entrare nei vostri collegi è molto alta. Come possiamo interpretare questo fenomeno soprattutto in un momento come quello attuale? «Credo che sia molto importante riflettere su questo fenomeno. Nonostante ci si trovi a vivere un momento di forte crisi economica, in cui le famiglie cercano di risparmiare, la richiesta di accedere ai nostri collegi è in crescita. Ciò denota, a mio avviso, che l’esigenza formativa è avvertita come prioritaria. Si investe sull’educazione perché la si vede come un punto fondamentale per la crescita e per il futuro dei nostri ragazzi». Che conseguenze avranno sulle vostre strutture i tagli che il Governo ha deciso di apportare? «Innanzi tutto c’è da dire che la riforma univer-


giovani sitaria è ed era un passo necessario da fare. Purtroppo ci troviamo però di fronte a una situazione che prevede tagli che ricadono soprattutto sui collegi universitari e sulle borse di studio, per studenti che siano meritevoli, ma non abbiano le possibilità economiche per mantenersi Maurizio Carvelli, amministratore delegato di Ceur negli studi. Il taglio della spesa pubblica ancora una volta si è dimostrato un taglio effettivo degli investimenti privati ed è l’ennesimo esempio di come il Governo si muova creando un danno notevole a strutture come le nostre». La riforma universitaria introduce però il tema del merito che voi ponete alla base della vostra mission... «La riforma universitaria ha il grande pregio di identificare un percorso sulla valutazione dell’università e sul merito. Apre quindi un capitolo nuovo del diritto al merito perché introduce un iter innovativo che prevede, sia nei collegi sia negli istituti universitari, che accanto al diritto allo studio e al sostegno di chi ne ha più bisogno ci sia un crescente interesse a una maggiore qualificazione degli studenti. Purtroppo la riforma da sola non basterà, perché per cambiare il sistema universitario bisognerebbe cambiare le condizioni di base dell’università, ma in Italia fare un passo così radicale sarebbe impossibile e inconcepibile. Bisogna quindi accontentarsi di quello che c’è cercando di creare all’interno del sistema universitario le condizioni per dar vita a università qualitativamente più elevate. Con i collegi noi possiamo contribuire a questo cambiamento e miglioramento». Come si declinano nel vostro settore i temi dell’internazionalizzazione e dell’innovazione? «L’internazionalizzazione ci tocca direttamente perché il 13% dei nostri studenti proviene dall’estero, specialmente da Inghilterra e America. Gli studenti scelgono la forma del Camplus perché grazie a essa hanno un inserimento immediato nella nostra realtà culturale e perché in essa avviene uno scambio reale. Per quanto riguarda invece l’internazionalizzazione citerei in primis il nostro Consorzio Nova Universitas, un consorzio tra università dove c’è un elemento coordinatore operativo che si occupa della formazione dei dottorandi, dei dottorati e dei ricercatori e dedica a questa categoria di soggetti una formazione in-

terdisciplinare di eccellenza. In secondo luogo ci stiamo impegnando nell’approfondire il collegamento col mondo del lavoro. Stiamo mettendo a punto un sistema di contatto diretto tra mondo del lavoro e accademia che ci permetterà di formare talenti che siano preparati in modo adeguato alle necessità delle aziende». Come siete entrati in contatto col mondo del lavoro? «Nel 1994 abbiamo realizzato il primo carrier service italiano, un centro d’orientamento al lavoro delle università europee, che ho importato come modello dall’Inghilterra. Questo sistema ci ha permesso in dieci anni di approfondire il rapporto con importanti aziende, rapporto che abbiamo poi trasferito in Camplus. A Bologna, ad esempio, ci sono 600 aziende, sia grandi che piccole, che passano in carrier service perché hanno bisogno di selezionare persone capaci e preparate. Per questo abbiamo creato una rete tra alunni ed ex alunni a cui attingiamo per selezionare i profili più adatti alle richieste delle imprese. Tale rete coinvolge tutte le nostre strutture, da Catania a Milano». Quali sono i vostri progetti per il futuro? «Sicuramente il nostro principale progetto è quello di completare la rete con i collegi che andremo a costruire a Roma e Palermo, grazie ai quali arriveremo alla soglia dei 1000 studenti, numero minimo per poter avere dei servizi che possano essere sostenuti sufficientemente. Altro obiettivo è far sì che lo Stato e i ministeri possano, nella direzione del merito, lavorare sui talenti perché c’è un grande bisogno di persone brave e preparate. Bisogna quindi investire sull’eccellenza». n

L’opera del Maestro Francesco Contrafatto, una scultura in bronzo alta quattro metri e raffigurante l’Albero del Sapere e collocata nell’abside dell’auditorium del Collegio d’Aragona, a Catania

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SOCIO SANITARIO d i D a r i o Va s c e l l a r o

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l principio della centralità della persona costituisce uno dei cardini dell’ordinamento costituzionale italiano e il diritto alla tutela della salute ne realizza un elemento fondamentale. In un’epoca storica in cui l’uomo, grazie alle nuove tecniche, sta diventando capace di modificare fisicamente se stesso, è urgente richiamare tutti, scienziati, medici e operatori sanitari, a una nuova corresponsabilità. La centralità del soggetto umano deve assumere un rilievo forte e concreto, capace di incidere sul crescente potere bio-tecnologico che l’umanità sta acquistando, per orientare questo potere a favore dell’uomo, considerato in ogni singola persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. Ne abbiamo parlato con don Andrea Manto, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Sanità della Cei. Come si può riconoscere la centralità della persona in sanità? «Oggi non è affatto scontata e riconoscerla è diventata una sfida importante. La sanità nasce come attenzione alla persona, che poi si è progressivamente smarrita. Ciò non è avvenuto per un’esplicita volontà, ma perché pian piano la crescita della complessità degli interventi che si potevano mettere in atto, le esigenze di sempre maggiore specializzazione e l’attenzione ai conti economici hanno determinato un distacco tra il sistema e la persona. La prima cosa da fare, quindi, è identificare le cause prime che stanno a monte del distacco». E quali sono queste cause prime? «Senz’altro il modello positivista di medicina, che non ha messo più la persona al centro della cura e ha concentrato l’attenzione solo sulla dimensione biologica e tecnico-scientifica, e il concetto di salute utilitarista e utopico che è alla base della definizione di salute dell’Organizzazione mondiale della sanità. Attraverso di essi si fa strada una visione riduzionista che guarda all’uomo come se fosse solo un corpo da studiare, un fattore di costo o un cliente di cui soddisfare un desiderio o al quale fornire una prestazione. Tutti questi aspetti sono reali, ma non vanno mai scissi e assolutizzati, pena il perdere di vista la persona nella sua totalità e la possibilità di metterla al centro nei servizi sanitari. Bisogna, invece, guardare la persona

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La sfida del “Pren

nella sua unitotalità di “spirito incarnato”». La battaglia per la difesa della vita che la Chiesa sta portando avanti è coerente con questa visione. «I temi della vita e dell’educazione, che sono al centro dell’attenzione del Papa e dell’episcopato italiano, sono l’antidoto al riduzionismo. Quando la Chiesa parla di vita e di educazione è veramente a fianco dei malati, è attenta alle loro necessità e dà voce alla loro richiesta di non essere lasciati soli. Oggi molti vogliono far passare l’immagine di una Chiesa ancorata a principi obsoleti, che non facilitano il dialogo con la modernità e le sue istanze “laiche”. È il contrario! La visione antropologica della Chiesa è pienamente attuale perché è vera. È la verità sull’uomo che ci chiama a tutelare e promuovere la sua vita e a prendercene cura; da lì passa ogni vera innovazione e capacità di futuro».

Don Andrea Manto, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Sanità della Cei, spiega come si può recuperare la centralità della persona in sanità, anche grazie alla ricchezza di esperienze portate avanti dalle opere sociali, soprattutto da quelle nate dalla visione antropologica del cristianesimo


SOCIO-SANITARIO

dersi cura” Come si possono concretamente mettere in pratica questi principi nell’attività giornaliera di cura alla persona? «Un primo modo è quello della formazione del personale sanitario, medici, infermieri e quanti sono a contatto con il malato, perché acquisiscano una più profonda consapevolezza del senso del loro sapere e del loro operare. È necessario ricordare che lo statuto epistemologico principale della medicina è il curare e non la pretesa prometeica di guarire tutti, come se si potesse liberare l’uomo dal limite della sua fragilità e della tendenza ad ammalarsi e a invecchiare. La medicina deve recuperare il suo essere missione e il suo cuore nobile che è il prendersi cura. Bisogna, poi, progettare l’assistenza in modo che metta al centro la persona facendo dialogare le strutture e i tipi di servizi tra loro per creare reti e realizzare percorsi di presa in carico globale e non solo l’erogazione di singole prestazioni. Si devono anche valutare i sistemi terapeutici e diagnostici, ad esempio con l’health technology assessment, per capire come utilizzare le risorse in maniera efficace. Anche in sanità bisogna realizzare uno sviluppo sostenibile e capire se l’attuale modello di sviluppo tutela la vita e realizza il vero bene della persona. La Caritas in Veritate di Benedetto XVI va applicata al mondo della sanità». Mi può sintetizzare che cosa vuol dire “prendersi cura”? «Vuol dire aiutare in maniera responsabile e

premurosa chi è affidato a noi per qualunque motivo e in qualunque tipo di relazione. Potremmo dire che è un modo di essere e di porsi verso l’altro, uno stile di presenza e di umiltà, di cui c’è bisogno in tutti gli ambiti, ma che si impara bene proprio al letto del malato. In particolare, per le persone malate, curare vuol dire dar loro assistenza e non lasciarle mai sole nel decorso della malattia, fargli percepire chiaramente che la loro vita e la situazione che affrontano ci stanno a cuore. È un accompagnamento personale che fa sentire il paziente non un numero, ma un uomo che sta vivendo un’esperienza cruciale nella propria biografia. È sostenere l’altro nella ricerca di una speranza affidabile e di un senso che egli può trovare solo se è con-solato e mai se è de-solato, cioè abbandonato. L’operatore sanitario deve imparare a capire quali sono le domande profonde e le attese che ha nel cuore la persona dinanzi a lui. Chi lavora in sanità deve formarsi all’ascolto e alla relazione di cura sviluppando livelli di empatia e di condivisione e umanizzando tutti i processi e i percorsi. Quando si parla di aziendalizzazione in sanità, il modello organizzativo non può essere solo quello burocratico o dell’azienda manifatturiera. Operare in sanità vuol dire creare relazioni tra persone con lo stile di una famiglia che accoglie, con un’alleanza tra medico e paziente e uno “spirito di squadra” tra tutti coloro che sono a servizio del malato». Cosa potrebbe portare il federalismo al mondo della sanità? «Sono convinto che nella produzione del “fattore salute” sia molto importante il rapporto tra persone - soprattutto quelle più fragili: ammalati, anziani, emarginati per qualunque causa - e comunità. Trovo l’espressione territorio riduttiva, perché in esso prevale l’idea di giurisdizione o di amministrazione di una determinata estensione geografica. Preferisco, invece, parlare di comunità vista come un’entità ben più ricca di relazioni e di potenzialità rispetto a ciò che è un territorio, anche ben amministrato. Per comunità intendo non solo la famiglia, che pure è il luogo naturale della cura (sin da quando si è neonati si ha bisogno di cura) e va sempre sostenuta e tenuta al centro delle politiche di Welfare. Intendo anche quartieri, zone, aggregazioni di comuni che vanno pensati come comunità e aiutati a diventare tali.

Don Andrea Manto, sacerdote, medico specialista in geriatria e direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Sanità della Cei, la Conferenza episcopale italiana

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SOCIO-SANITARIO ➤ Se federalismo significa valorizzazione delle comunità, condivisione dei percorsi di cura in chiave sussidiaria, miglior controllo sull’utilizzo delle risorse in sanità, in un’ottica di trasparenza e di progettualità, allora può essere molto positivo. Se invece è solo un’alchimia di bilancio o un premio per chi è più virtuoso, il federalismo può esasperare contraddizioni già presenti nella sanità e nel Paese e rivelarsi un’occasione mancata di far crescere la comunione e la forza dell’intero sistema-Paese. In alcune regioni d’Italia la sanità è sicuramente in una situazione migliore per quanto riguarda i parametri di bilancio e l’organizzazione dei servizi erogati, ma tutti siamo chiamati a fare dei significativi passi avanti nell’umanizzazione, nel prenderci cura, nella sostenibilità della spesa sanitaria. Potremmo cominciare studiando e replicando su scala nazionale i modelli che funzionano». Quali sono le sfide che nel prossimo futuro dovranno affrontare le opere sociali in campo sanitario? «L’evolversi continuo delle tecnologie bio-mediche e informatiche, la crisi economica e la popolazione che invecchia dicono che innovazione, sostenibilità e presa in carico sono certamente tra le priorità. Queste sfide, nella misura in cui appartengono al mondo sanitario, valgono per tutti, quindi anche per le opere sociali. Con una differenza importante, però: le opere sociali che nascono dalla visione antropologica del cristianesimo sono sfidate anche a declinare la loro identità nel nuovo contesto pluralista dove si va dissolvendo il tessuto condiviso dei valori cristiani. Ciò è nel contempo una minaccia e un’opportunità. Se esse, investite per tanti aspetti dalla crisi attuale, annulleranno la loro identità, saranno costrette a sparire. Se invece sapranno far emergere il dinamismo che è nel loro Dna e rimettere in moto prassi efficaci a partire dai loro valori originari, possono diventare laboratori e modelli per superare la crisi. Con la luce del Vangelo esse colgono l’uomo malato e chi si prende cura di lui nella loro realtà e hanno capacità di innovazione sostenibile. Bisogna crederci e coniugare la forza della tradizione con l’innovazione della carità, cioè avere un cuore che vede e che pensa». Ha qualche esempio di opere sociali che esemplificano bene quello che ha appena detto? «Non vorrei fare torto a nessuno. Ci sono realtà molto diverse, piccole e grandi, con secoli di storia oppure assai recenti. La maggior parte di esse sono veri e propri “miracoli”. Ne cito una per tutte, a titolo esemplificativo. A Brescia l’Irccs

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“Centro San Giovanni di Dio - Fatebenefratelli” assicura un’assistenza di ottimo livello a persone con disabilità psichica e fa buona ricerca in neuropsichiatria nella direzione del “prendersi cura”. Ho voluto citare questa realtà perché oggi la malattia mentale ha un’incidenza crescente che esprime un disagio globale della società, e tuttavia è rimossa, dimenticata, trascurata. Ci sono eccellenze a tanti livelli, nella disabilità, nella cura dei bambini, nell’ospedale per acuti. Le cooperative e le opere sociali non profit nate dalla sensibilità dei cattolici in Italia svolgono un servizio straordinario per gli anziani, per i malati oncologici in fase terminale e nell’assistenza domiciliare. La tradizione del “prendersi cura”, d’altronde, è nel Vangelo. La missione che Gesù affida ai discepoli di predicare il Vangelo e curare i malati è una missione unitaria. Li invia nel mondo ad annunciare la Parola e curare i malati, perché il Vangelo è “parola che cura, che sana e che salva”. “Cura” perché è Parola incarnata, che si fa vicina e apre i cuori alla relazione, alla fraternità, al servizio. “Salva” nel senso più pieno perché è misericordia che perdona e verità che sana l’anima e il corpo; salus in latino vuol dire sia “salute” che “salvezza”». Grazie anche all’apporto del Terzo settore si potranno superare le attuali difficoltà del sistema sanitario? «Ne sono assolutamente convinto. Lo Stato da solo non può farsi carico della sanità. Ci vuole una sana sussidiarietà, sia dal punto di vista della riflessione antropologica e dei contenuti valoriali, sia dal punto di vista delle dinamiche economiche e della progettualità assistenziale. Il non profit esprime le migliori energie e le motivazioni più autentiche che spingono a prendersi cura e a produrre valore sociale ed è una strada maestra per uscire dall’attuale impasse». n



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d i D a r i o Va s c e l l a r o

Uno sguardo alla natura del Bisogno

Antonello Bolis, direttore della Cooperativa Cura e Riabilitazione di Milano, e Domenico Pietrantonio, presidente di Solidarietà e Servizi, ci illustrano la realtà delle imprese sociali che si occupano di persone disabili

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n occasione del compleanno di Vito, un disabile di 50 anni, i ragazzi gli hanno organizzato una festa facendogli un bel regalo e dedicandogli una filastrocca. Vito ha passato venti minuti a ripetere: “È per me? La festa è per me?”. Sembrava davvero incredulo. Dopo la consegna del regalo e la dedica della filastrocca, Vito ha esclamato: “E la cattiveria? E il mio difetto?”. Tutti gli hanno risposto: “Fa niente Vito, noi ti vogliamo così”. Il festeggiato ha continuato a ripetere le sue domande sorridendo stupito e poi si è commosso. Qualche giorno dopo, gli ho chiesto come mai non aveva indossato il maglione che gli avevamo regalato e portava ancora il suo vecchio maglione, tutto conciato. Vito mi ha detto che l’aveva lasciato a casa. Allora gli ho domandato: “E quando lo metterai?”. Lui ha risposto: “A Natale”. Direi che quest’uomo è proprio... un uomo!». In questa lettera che un’educatrice ha inviato ad Antonello Bolis, direttore della Cooperativa Cura e Riabilitazione di Milano, sta tutta l’attenzione all’irriducibilità della persona che il mondo del

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non profit sa mettere in pratica assistendo le persone disabili. Per capire come le realtà non profit riescono oggi a venire incontro al bisogno della fetta di popolazione colpita da disabilità, abbiamo chiesto aiuto a due “guide” esperte: lo stesso Bolis già citato e Domenico Pietrantonio, presidente di Solidarietà e Servizi, cooperativa sociale che gestisce una serie di strutture in provincia di Varese, Milano e Como. Tutte le considerazioni che seguono sono frutto di una lunga chiacchierata svolta con loro.

Attenzione alla persona

Per capire il metodo applicato da realtà come quelle di Cura e Riabilitazione e Solidarietà e Servizi, bisogna tornare alla frase con la quale abbiamo aperto questo articolo. Essa, infatti, descrive bene l’esperienza che accade in quelle realtà non profit, dove l’umanità degli “utenti”, un’umanità ferita, complicata, in certi casi senz’altro malata, proprio in forza di questa drammaticità rende più evidente il bisogno, il desiderio vero che c’è dietro di sentirsi accolti, accettati, voluti bene. All’inter-


SOCIO-SANITARIO no di una condizione di normalità misera, sentire qualcuno che ti abbraccia per quello che sei rompe uno schema e apre uno squarcio, un orizzonte imprevisto che sorprende. L’umanità degli utenti viene fuori in maniera sorprendente nonostante i gravi handicap e costringe gli educatori a fare i conti con l’irriducibilità che mette in moto l’esperienza dell’educatore stesso, costringendolo a farsi interrogare da un’umanità che inaspettatamente si palesa davanti ai suoi occhi. Se pensano alla loro esperienza nel mondo della disabilità, i due manager delle opere non profit concordano sul fatto che il terzo settore ha portato a questa realtà dolorosa non tanto un metodo, quanto uno sguardo al bisogno e in particolare alla natura dello stesso. Tutto ciò che succede nelle loro opere, infatti, è l’esito non tanto di una capacità professionale (organizzazione, gestione, attenzione alle risorse), ma dell’impegno a guardare in un certo modo la persona disabile, di metterla veramente al centro senza considerarla come definita dal suo limite. È grazie a questo sguardo che un educatore può affermare con sicurezza che anche un disabile costretto in carrozzina e con un forte ritardo cognitivo “ha i suoi talenti”, anche se riesce solo ad aprire e chiudere gli occhi per

chiedere da bere. Nell’approcciarsi al mondo della disabilità il non profit ha fatto suo ciò che dice il Papa nell’enciclica Deus Caritas Est: per accogliere e condividere il bisogno dei sofferenti non basta la competenza professionale, ma è necessaria anche l’attenzione del cuore.

La presenza del non profit

Antonello Bolis, direttore della cooperativa Cura e Riabilitazione di Milano

Il non profit in campo socio-sanitario offre oggi una risposta importante dal punto di vista della qualità professionale e dei numeri. Su tutto il territorio nazionale sono numerose le realtà non profit significative, basta pensare alla Sacra Famiglia, al Don Gnocchi, all’Aias, al Cottolengo, a La Nostra Famiglia, all’Anffas, tutte realtà che hanno origine nel solco della sussidiarietà: associazioni, famiglie, operatori si sono messi insieme per rispondere a un bisogno. Il non profit, dunque, è una presenza capillare, distribuita sul territorio, con un’offerta la cui qualità è aumentata nel tempo, grazie anche all’impegno in formazione e nella ricerca fondi. Oggi non si può più parlare di non profit inteso in senso limitativo come volontariato, ma abbiamo a che fare con un’impresa a tutti gli effetti, anche se “sociale”, che ha la capacità di rispondere al bisogno di tipo riabilitativo, assi-

Cura e riabilitazione Nata nel 1993, la cooperativa “Cura e Riabilitazione” (già “Anaconda 2” dall’89), dà “forma giuridica” a un’amicizia generata da una forte dimensione ideale e da un’autentica passione educativa. In un’ottica di sussidiarietà e nel solco della dottrina sociale cattolica, la cooperativa ha investito in prima persona, sorretta dall’aiuto di volontari, soci, professionisti, amici che hanno creduto in questa iniziativa e tuttora continuano a sostenerla in diversa misura. «Di fronte all’handicap - dichiara Antonello Bolis, direttore della cooperativa prevale comunemente la rassegnazione (camuffata a volte da assistenzialismo o da tecnicismo); noi riteniamo invece che per tutte le persone, anche per quelle più gravemente compromesse, sia possibile investire in senso educativo». La filosofia di Cura e Riabilitazione trova il suo fondamento nel valore intrinseco della persona e nella stima circa la sua stessa possibilità di realizzazione, qualunque ne sia la condizione esistenziale. La cooperativa inizia la sua storia in Via Terruggia 22, nel quartiere di Niguarda a Milano, dove ancor oggi ha la sua sede principale. A quest’indirizzo, nell’ala di una prestigiosa villa settecentesca, viene realizzato il Centro Cardinale Colombo, primo dei servizi attuati e prima risposta concreta della cooperativa al bisogno quotidiano di persone disabili e delle loro famiglie. Il Centro conquista da subito la fiducia dell’ente pubblico grazie alla sua originalità metodologica e alla capacità innovativa, fino a giungere a realizzare - nel 1994 - la convenzione con il Comune di Milano introducendovi elementi fino ad allora non previsti e non standardizzati. L’avventura umana e imprenditoriale del Centro dimostra

fin dall’inizio la sua propensione non solo alla collaborazione, ma anche alla propositività e all’innovazione nei confronti di tutte le realtà sociali (enti pubblici e privati), conseguenze, per così dire naturali, di una posizione di apertura e ricerca continua. La storia prosegue: alcune delle persone accolte hanno l’evidente bisogno di un’implicazione fattiva con la realtà, desiderano e possono (forse) lavorare. Nasce il Servizio di orientamento al lavoro e si avviano vari progetti di inserimento lavorativo. Nel 2002 la cooperativa allarga il suo raggio d’azione e inaugura a Vanzago (Rho) la Residenza Temporanea Enrico Beltrami, dedicata a uno dei suoi primi volontari: un ingegnere che si dedicò anche alle mansioni più spicciole con la massima professionalità. Lo scopo è quello di rispondere a un bisogno di cui molte persone disabili con le loro famiglie vanno prendendo sempre maggiore consapevolezza: la formazione all’autonomia sociale e residenziale. È l’inizio di una nuova avventura dagli esiti inaspettati. Nel 2006 l’incontro con la Fondazione Ferrario di Vanzago dà un ulteriore slancio all’attività nel rhodense. La Fondazione mette a disposizione della cooperativa uno stabile nel centro di Vanzago nel quale viene trasferita la Residenza e sono avviate nuove attività. Nasce così il Centro servizi per l’autonomia delle persone disabili Enrico Beltrami, un complesso di servizi integrati che agevolano la massima personalizzazione degli interventi, obiettivo sempre perseguito dalla cooperativa. Intanto continuano, accanto alle attività principali, i progetti, le collaborazioni, gli studi, in un’ottica di impegno continuo, appassionato e libero da schemi precostituiti.

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SOCIO-SANITARIO ➤ stenziale, sanitario. In realtà come Cura e Riabilitazione e Solidarietà e Servizi si pone la massima attenzione agli aspetti organizzativi e gestionali, alla formazione manageriale dei coordinatori. Il non profit, però, ha anche una mission specifica. Per l’origine da cui nascono, per le ragioni che li muovono, per la loro vicinanza al bisogno, per la loro capillarità, i servizi promossi dal non profit nel campo della disabilità hanno una qualità relazionale alta: la relazione tra operatore e ospite, tra operatore e operatore, tra operatore e familiare è il bene supremo da salvaguardare.

rischi da evitare

Il non profit ha come sua specificità quella di non poter trarre profitto dalla propria attività. Per questa sua caratteristica si corre il rischio di relegarlo a una dimensione residuale perché esso non ha la possibilità di investire in termini di risorse economiche e finanziarie. Il non profit, invece, nella forma della cooperativa sociale, dell’associazione o della fondazione, deve stare sul mercato, deve portare i propri bilanci a pareggio, deve soddisfare la domanda di un territorio. Rispondendo a queste logiche imprenditoriali, però, avvertono Bolis e Pietrantonio, il non profit non deve snaturare la propria identità, ma deve mantenere l’origine che ha fatto nascere quella forma, quell’iniziativa. Coniugare i due aspetti, quello ideale e quello imprenditoriale, senza appiattirsi su un livello organizzativo, è il lavoro che aspetta il mondo del terzo settore. Tale coniugazione, poi, deve avvenire all’origine dell’opera, non può essere realizzata dopo e deve essere anche frutto di una negoziazione con gli interlocutori dell’opera stessa, compresi i “clienti” delle cooperative sociali di tipo B. Un altro rischio che il mondo del non profit corre è relativo al suo rapporto sussidiario con il mondo delle istituzioni. In questi anni, infatti, abbiamo assistito al venir meno di risorse economiche che hanno “costretto” le istituzioni a rivolgersi al mondo del non profit. Da una parte, dunque, ciò ha senz’altro favorito il dialogo tra pubblico e privato sociale; dall’altra parte, invece, si corre il rischio che vi sia una visione utilitaristica da parte del pubblico nel rapportarsi al non profit: mi costa meno e quindi me ne avvalgo. È un dato oggettivo che la gestione diretta da parte del pubblico di certi servizi, come quelli rivolti ai disabili, costa molto di più rispetto a quella del non profit, ma questo può scatenare una gara al risparmio da parte del pubblico, con il rischio di innescare un meccanismo che penalizzerebbe la qualità del servizio. Nel rapporto tra pubblico e privato sociale, in-

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Le statistiche sulla disabilità in Italia Si stima che in Italia vi siano circa 2 milioni 824 mila disabili, di cui 960 mila uomini e 1 milione 864 mila donne. Il numero di disabili (di 6 anni o più) che vive in famiglia è di circa 2 milioni 615 mila unità, pari al 4,85% della popolazione. Di questi il 33% (894 mila persone, il 3,4% della popolazione) è rappresentato dal sesso maschile e il restante 67% (1 milione 721 mila, il 6,2% della popolazione) da quello femminile. La disabilità riguarda prevalentemente le persone di 60 anni e più: risulta disabile il 17% degli ultrasessantenni (2 milioni 57 mila individui) e il 37,7% delle persone di 75 anni e più. I disabili di età inferiore ai 60 anni sono 620 mila, in particolare 188 mila hanno fino a 14 anni. somma, ampi sono i margini di miglioramento. Bisogna soprattutto superare la logica per cui l’impresa sociale dovrebbe attuare ciò che è stato deciso dal pubblico, mentre non potrebbe, con la creatività e le capacità che ha, mettere in campo modalità innovative o nuovi servizi e nuove modalità gestionali. Il pubblico (Comuni, Asl, distretti di Comuni...) ha il compito di pianificare, programmare e controllare, mentre il privato sociale può e deve progettare e gestire.

Le trasformazioni nei servizi per i disabili

Entrambi i nostri interlocutori hanno sottolineato quante differenze ci siano tra le prime esperienze “pionieristiche” di servizi ai disabili e le attuali offerte delle imprese sociali. Negli anni 80 e 90, infatti, venivano offerte al bisogno dei disabili risposte indifferenziate, si tendeva soprattutto ad “accogliere” e ad “accudire” la persona disabile. Negli ultimi anni, grazie al percorso professionalizzante avvenuto all’interno delle imprese sociali, è avvenuto un passaggio culturale che ha permesso di personalizzare gli interventi, superando una logica molto riduttiva che vedeva i disabili come una categoria. Anche dal punto di vista terminologico si è passati dalla definizione di “handicap” a quella di “persona con disabilità”, ponendo l’accento sull’individuo. Si è dunque assistito a una differenziazione e personalizzazione dell’intervento: non più un contenitore generico per tutti, ma servizi rivolti a persone con disabilità in età evolutiva, autistiche, con problemi di tipo motorio, cognitivo ecc. Soprattutto in Lombardia, dove operano le due realtà guidate da Bolis e Pietrantonio, si è cercato di costruire la risposta al

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SOCIO-SANITARIO ➤ bisogno modulandola sulla domanda, distinguendo tra domanda sanitaria e domanda socio-assistenziale, tra domanda diurna e residenziale, tra domanda riabilitativa e di inserimento lavorativo, cercando di rispondere anche a bisogni “di nicchia” uscendo dalla logica del “basta trovargli un parcheggio”. Rimane, comunque, per i prossimi anni la sfida di una necessaria e non più rinviabile integrazione tra sociale e sanitario.

Il rapporto tra profit e non profit

Nel processo di maturazione delle imprese sociali che si occupano di servizi ai disabili ha giocato un ruolo fondamentale il rapporto con il mondo profit. Pietrantonio racconta che, tra le realtà da lui seguite, vi è una cooperativa di tipo B (la cooperativa sociale di tipo A è quella che accoglie, attraverso servizi vari, disabili, minori, anziani, mentre la cooperativa sociale di tipo B inserisce al lavoro persone disabili o svantaggiate). Una realtà di questo tipo deve inserire persone disabili nel proprio organico: la legge dice che almeno il trenta per cento dei dipendenti devono essere persone disabili. Per raggiungere questo risultato la cooperativa seguita da

Pietrantonio ha avviato un rapporto pluriennale con un imprenditore che è leader mondiale nella produzione di guarnizioni. Questo rapporto, nato nell’ambito della Compagnia delle Opere Altomilanese, ha aiutato la cooperativa ad accrescere la propria professionalità, grazie alla necessità di rispettare standard e tempi di produzione. È stata accettata fino in fondo la sfida di fare l’imprenditore che esegue nel migliore dei modi lavorazioni meccaniche, non dimenticando che il vero scopo della cooperativa è l’inserimento lavorativo delle persone disabili e svantaggiate. Il rapporto dell’impresa sociale con il mondo del profit aiuta a ripensare la governance delle realtà non profit facendole diventare imprese a tutti gli effetti, aiutandole nel contempo a verificare il perseguimento del proprio scopo e a sfumare il legame esclusivo con il pubblico che potrebbe avere impatti negativi.

Esperienze di rete

Anche il non profit può correre il rischio di peccare di autoreferenzialità. La singola realtà, per efficiente che sia, non può pensare di esaurire la

La divina commedia recitata dai disabili

Una compagnia teatrale (in alto), composta da 37 attori, 25 dei quali disabili, ha messo in scena la Divina Commedia (qui sopra, una scena dello spettacolo)

I limiti della persona non devono essere camuffati da “diversa abilità”, ma accettati da tutti, a partire dalla persona stessa, e valorizzati. Il metodo scelto da tre cooperative sociali di Busto, Milano e Varese per fare tutto questo è uno spettacolo teatrale: La Divina Commedia, che ha mietuto successi in tutti i teatri dove è stato rappresentato. Lo spettacolo teatrale nasce dalla collaborazione ormai consolidata fra tre cooperative sociali che si occupano di assistenza alle persone disabili: Solidarietà e Servizi di Busto Arsizio, Cura e Riabilitazione di Milano e L’Anaconda di Varese. Si tratta di uno degli esiti di un più ampio progetto a carattere regionale che ha portato anche alla realizzazione delle Avventure di Gianburrasca. Il progetto, affidato alla regia di Luisa Oneto, «si fonda - ha sottolineato Antonello Bolis, direttore di Cura e Riabilitazione - su un metodo educativo che consiste nell’incontro con l’altro per quello che è, valorizzando ciò che sa fare». 37 attori, di cui 25 disabili psicofisici mettono in scena il capolavoro dantesco dimostrando che i limiti personali possono essere valorizzati attraverso l’aiuto della “maschera teatrale”, diventando così elemento che genera simpatia e profonda relazione umana. Senza dimenticare il contributo che la compagnia teatrale fornisce alla diffusione della conoscenza di un’opera di altissimo valore culturale qual è La Divina Commedia, che, grazie all’accostamento al problema del limite della persona umana, assume un’ancor più accentuata potenzialità comunicativa dei valori spirituali in essa espressi. I 25 attori disabili sono sostenuti e coordinati in scena da diversi amici educatori e volontari. Nello spettacolo trovano posto improvvisazioni musicali, coreografie e danze. Il copione è composto dai canti danteschi più conosciuti e drammatizzabili. Oltre alla scrupolosa attenzione ad avvalersi con esattezza del linguaggio del Poeta, sono state prese in considerazione le stesse note riguardanti l’ambientazione, l’atmosfera, le percezioni uditive e visive, la cosiddetta “didascalia dantesca”.



SOCIO-SANITARIO ➤ risposta al bisogno di chi ha davanti, tanto che spesso non riesce a rispondere ma deve “limitarsi” a condividere. Le necessità delle persone disabili sono così grandi (dal bisogno diurno a quello residenziale, dal bisogno di assistenza all’inserimento lavorativo) che non tutte le realtà sono attrezzate per farvi fronte. Ecco perché la rete di imprese sociali è diventata una strumento necessario per condividere i bisogni e progettare insieme le risposte più adeguate. È così che è nato il progetto Polinrete, un network tra 23 servizi rivolti a persone disabili, che ha “movimentato” oltre 170 disabili e 100 operatori di 11 cooperative afferenti alla Cdo Opere Sociali e al Consorzio Gino Mattarelli. È nata così anche l’esaltante esperienza della Divina Commedia. Le cooperative hanno collaborato insieme aprendo servizi di altre realtà ai propri ospiti, senza commettere l’errore di volerli copiare, reinventare. Sia Bolis che Pietrantonio ricordano che nel settore della disabilità è attivo il Tavolo disabili posto come punto di riferimento nazionale per le realtà aderenti a Cdo Opere Sociali che si occupano di questo settore (circa 140). Il Tavolo è un ambito di lavoro molto proficuo all’inter-

L’associazione nazionale tumori L’Ant, Associazione nazionale tumori, è stata fondata nel 1978 e si è trasformata in Fondazione nel 2002. Il “Credo” dell’associazione è l’Eubiosia (dal greco antico, “buona vita”): la vita dal primo minuto all’ultimo respiro deve essere vissuta con dignità. Durante la malattia spesso è difficile ottenere quelle assistenze giuste per affrontare il dolore e la sofferenza. È per questo che la Fondazione Ant dal 1978 si propone di far fronte alle esigenze fisiche, emotive, e spirituali dei sofferenti di tumore. Un’assistenza domiciliare gratuita nata prima in Emilia Romagna, e oggi presente in quasi tutte le regioni dell’Italia. L’Ant si propone di affrontare la malattia a casa con i propri affetti e familiari e avendo le cure professionali necessarie. Oggi inoltre sono attivi importanti progetti di prevenzione, formazione, ricerca. L’ultima iniziativa della Fondazione è un ambulatorio mobile attrezzato che consentirà alla attività di prevenzione di diventare itinerante, permettendo così ad Ant di svolgere il proprio impegno nel campo della prevenzione oncologica vicini ai cittadini nelle zone dove maggiormente è percepito il disagio economico e sociale, e in armonia con le attività di prevenzione messe in atto dalla Sanità pubblica. Sul Bus della Solidarietà, questo il nome dell’ambulatorio mobile attrezzato della Fondazione Ant, è installato anche un mammografo digitale di ultima generazione, strumento in grado di rilevare dettagli minimi e assolutamente importanti ai fini della diagnosi. Grazie al Bus della Solidarietà sarà quindi possibile intervenire positivamente in quelle realtà dove la Sanità pubblica non è in grado di garantire tempi accettabili per le mammografie, contribuendo così, in maniera solidale e sussidiaria, a ridurre i tempi di attesa.

fondazione maddalena grassi e nuova sair Fondazione Maddalena Grassi 80.000 ore di assistenza sanitaria domiciliare ogni anno a 800 pazienti ogni mese, 85 letti di degenza nell’area della malattia psichiatrica, neurodegenerativa e infettiva, partecipazione a due dipartimenti oncologici per la gestione di hospice e la cura al domicilio, formazione universitaria. L’esperienza della Fondazione Maddalena Grassi, ente senza scopo di lucro che da 19 anni opera nel campo dell’assistenza sanitaria domiciliare, con due case di accoglienza per malati di Aids, due strutture per malati psichiatrici e una per pazienti neurologici, è nata da un desiderio di compimento per la propria professione che ha unito operatori sanitari in una compagnia guidata e si è evoluta in una struttura organica, riconosciuta a norma di legge, che esprime interventi sanitari specialistici per le persone con malattie croniche che richiedono assistenza specifica prolungata. La Fondazione Maddalena Grassi riceve circa 100 chiamate al giorno e i nuovi pazienti, presi in carico entro le 24 ore dalla prima chiamata, ai quali viene poi riservata una linea telefonica dedicata, sono circa 800 al mese, 2.600 malati all’anno assistiti a domicilio. In pratica, un grande ospedale come il Niguarda che si sposta in Milano e Provincia e va a casa del malato con personale altamente

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specializzato: medici, infermieri professionali, fisioterapisti, ausiliari sanitari. Nuova Sair Nuova Sair è una cooperativa sociale specializzata nella gestione di servizi sanitari e sociali. Nata nel 1991 dall’idea di alcuni operatori del settore, Nuova Sair si è rapidamente affermata perché ha creduto che il coinvolgimento del privato sociale nel sistema sociosanitario nazionale fosse un fattore di riqualificazione e arricchimento. Da tale convinzione sono nate le prime sperimentazioni di gestione di servizi infermieristici all’interno di interi reparti di strutture sanitarie private. Ma anche l’assistenza domiciliare integrata a persone affette da Aids nel Comune di Roma, in partnership con altri operatori del settore. A distanza di anni i membri della cooperativa possono essere orgogliosi: oggi il coinvolgimento del privato sociale è parte integrante di ogni percorso assistenziale e ne sta migliorando l’efficienza, l’efficacia e l’appropriatezza grazie ad aziende come Nuova Sair. Oggi Nuova Sair, la cui presenza territoriale nel Centro Italia è estesa e radicata, impiega più di 850 operatori, con un fatturato, per il 2006, di 20 milioni di euro.


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Sopra, Domenico Pietrantonio, presidente di Solidarietà e Servizi

no del quale cooperative e associazioni che si occupano di disabilità fisica e psichica si sono confrontate costantemente nell’identificare particolari problematiche, metodologie, esigenze consulenziali e nell’approfondire la normativa specifica di settore. Il successo dell’esperienza del Tavolo dimostra che è proprio della natura del lavoro svolto dalle imprese sociali che si occupano di disabilità che sia aperto e che si sostanzi in concreta collaborazione con le altre realtà dello stesso settore.

l’educatore al centro della proposta

Lavorando nelle imprese sociali, il rischio che si corre spesso è quello di dimenticare di non guardare soltanto agli utenti, ma anche agli ope-

ratori. Le attività svolte dalle realtà che forniscono servizi ai disabili non possono dipendere solo da quello che gli utenti amano fare, ma anche da quello per cui prova interesse e desidera fare l’educatore. È come in una famiglia: la condizione dell’educazione del figlio non è tanto e solo il desiderio del figlio, ma è la presenza e il desiderio del padre e della madre. Mettere al centro l’utente, allora, vuol dire mettere al centro l’operatore, l’educatore. Si può dire in fondo che è l’educatore, con la sua umanità e la sua competenza, al centro della proposta. Al soggetto è chiesto, nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi desideri, di mettersi in gioco gradualmente nella relazione, fino a un moto di iniziativa personale verso l’altro. n

Solidarietà e servizi Solidarietà e Servizi è una cooperativa sociale fondata a Busto Arsizio nel 1979, come proposta di una compagnia e di un aiuto per tutti coloro che, a partire dal proprio bisogno di lavoro, vogliono scoprire e vivere in pienezza la loro umanità, in particolare condividendo il bisogno delle persone disabili e svantaggiate. Per esprimere al meglio la propria natura e le proprie finalità, nel 1994 la cooperativa ha assunto la forma giuridica di cooperativa sociale di tipo A, ricevendo nell’ottobre 2000 il riconoscimento quale prima cooperativa del settore sociale costituita in provincia di Varese. A partire dal 2003 Solidarietà e Servizi si è impegnata in un progetto di sviluppo e riorganizzazione, concretizzatosi - nel dicembre 2004 - nella partecipazione come socio fondatore al Consorzio Servizi Sociali che ha sede a Busto Arsizio e di cui fanno parte altre quattro cooperative sociali. Scopo del Consorzio è contribuire allo sviluppo delle singole cooperative attraverso l’offerta di servizi specializzati. A oggi Solidarietà e Servizi, per la quale lavorano oltre 300 persone, progetta e gestisce: • Servizi diurni: Centri diurni per disabili, Centri socio educativi, Servizi di formazione all’autonomia, Servizi di assistenza domiciliare, Servizio di supporto e sostegno alle persone fragili; • Servizi residenziali: Comunità alloggio e “Dopo di noi”; • Servizi d’inserimento lavorativo. In questi anni la cooperativa è cresciuta secondo uno sviluppo omogeneo che ha saputo, con fantasia e coraggio, sviluppare sempre nuovi tentativi. Il metodo seguito rappresenta una concreta applicazione del principio di sussidiarietà, sia nel rapporto con gli enti pubblici che nei confronti degli utenti, ai quali la cooperativa si rivolge con progetti individualizzati che esaltano la loro capacità di agire e la responsabilità delle famiglie. L’approccio professionale è caratterizzato dai seguenti aspetti:  lavorare insieme, attraverso modalità e strumenti che favoriscono la relazione professionale, quali per esempio il coaching (incontro periodico tra responsabile e collaboratore) e l’area manager (incontro periodico tra tutti i responsabili della

cooperativa con il presidente/direttore generale);  prestare attenzione agli aspetti organizzativi e gestionali, secondo l’approccio imprenditoriale di una vera e propria impresa sociale;  educare operatori e responsabili attraverso incontri e momenti generali sugli aspetti “fondativi” e di concezione (il valore della persona, l’approccio educativo, la natura del bisogno della persona…);  favorire la crescita umana e professionale della persona, anche attraverso percorsi formativi di gruppo e personalizzati. Solidarietà e Servizi ha imparato in questi anni che non bastano competenze, professionalità e neppure una efficiente organizzazione. Come dice Papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas Est: «Gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore». Un cuore attento coglie l’unicità e la bellezza della persona e ne scopre il mistero, l’irriducibilità. La speranza è in questo Mistero buono che costituisce e definisce ogni persona e che in ogni persona è possibile amare e servire.

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SOCIO-SANITARIO

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d i D a r i o Va s c e l l a r o

Gli amici d e i “trapiantati” I

l trapianto di organi rappresenta per molti pazienti l’unica possibilità di vita, consentendo una durata e una qualità di vita che nessun’altra terapia è in grado di garantire. Il percorso del trapianto è composto di tanti e delicati momenti che coinvolgono, oltre al paziente, anche i suoi familiari. Gran parte delle malattie epatiche giunte allo stadio terminale possono beneficiare del trapianto. Tuttavia la complessità dell’intervento chirurgico, ancor oggi gravato di una mortalità perioperatoria dell’ordine del 5-10%, e il rischio di recidiva della malattia di base, sono elementi da tenere ben presenti al momento di porre l’indicazione all’intervento. Difficile è poi il riconoscimento del momento adatto o timing per il trapianto. Tale decisione deve infatti soppesare da una parte la qualità della vita e il rischio di morte legato alla storia naturale della malattia epatica e dall’altra considerare i rischi di mortalità e morbilità del trapianto. In Italia un fattore limitante per una corretta valutazione del timing al trapianto è rappresentato dalla scarsa disponibilità di organi da trapiantare. Questo fa sì che i pazienti debbano spesso aspettare molti mesi in lista di attesa con conseguente progressione della malattia epatica, aggravamento delle condizioni generali e soprattutto aumento dei rischi perioperatori. Da tali premesse risulta evidente come l’aspetto sanitario non possa e non debba rappresentare l’unica prospettiva da contemplare per chi opera in questo complesso settore.

Il dipartimento del niguarda

Il Dipartimento di Chirurgia 2 e dei Trapianti di Niguarda (Milano) è un esempio di alto livello sanitario-clinico e di forte sostegno psicologico e umano al paziente. Il primo trapianto di fegato da vivente è stato eseguito a Niguarda nel 2001. A fine 2008 il numero dei trapianti di fegato realizzati a Niguarda ha toccato quota mille. Il Dipartimento è attivo in Italia da ormai 40 anni

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Nel quadro Il buon Samaritano, tela dell’inizio del XVIII secolo di Niccolò Malinconico, è racchiuso lo spirito sintetizzato dallo slogan dell’associazione Fate: la solidarietà ci unisce e ci aiuta a crescere e a credere nella vita di ogni giorno

e ha consolidato la pratica del trapianto di fegato, rendendo perciò possibile il passaggio di questo delicato e complesso intervento da pratica sperimentale a una vera e propria terapia di chirurgia maggiore. L’orgoglio del Centro è sempre stata la volontà di porre al centro della propria attenzione, delle proprie cure e del proprio impegno il paziente, affinché fosse possibile rispondere a ogni necessità clinica, assistenziale e medica del trapiantato, non solo nel momento dell’intervento, ma anche in quello precedente (il grave percorso dell’attesa) e in quello successivo. Le risorse professionali del Dipartimento sono costantemente dirette allo sforzo continuo di miglioramento della qualità dell’offerta medica, ma anche della vicinanza umana ai pazienti, che rappresenta una tensione e una considerazione irrinunciabile per un’équipe di qualit. Ecco perché il Centro è riconosciuto come un’eccellenza sia a livello nazionale che internazionale.

l’associazione fate

L’associazione Fate (Amici trapianto epatico), di cui l’imprenditrice Antonella Beretta è presidente, è nata nel 2007 e opera presso l’Ospedale Niguarda in grande e stretta sinergia e collaborazione con l’équipe del professor Luciano De Carlis, responsabile dell’unità operativa dei trapianti di fegato dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda. L’associazione si propone di: prestare attenzione al paziente in iter di pre-impianto, dando sostegno soprattutto psicologico; di sostenere il trapiantato nel post-trapianto soprattutto se disagiato dalla lontananza da casa; di sostenere la famiglia del trapiantato. Fate opera inoltre una forte attivi-

Luciano De Carlis, responsabile dell’unità operativa dei trapianti di fegato dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda, ha eseguito oltre tremila interventi di chirurgia maggiore


SOCIO-SANITARIO

tà di sensibilizzazione riguardo la donazione di organi, tema di delicatissimo impatto etico, promuovendo la cultura della donazione. e favorire lo sviluppo delle attività nel campo dei trapianti di fegato e della chirurgia correlata promosse dall’Ospedale Niguarda di Milano.

Una grande famiglia

Dal momento della sua costituzione, non è mai mancato, da parte dell’associazione, l’impegno e la vicinanza nei confronti dei pazienti e delle loro famiglie. Così il Antonella Beretta descrive la realtà da lei presieduta: «Siamo la famiglia dei “trapiantati di fegato”. Membri di diritto sono i donatori che “continuano a vivere” ai quali va, in ogni istante, il pensiero e il ringraziamento di tutti noi. Seguono l’équipe della sala operatoria e il personale di corsia, compresi i reparti che non intervengono direttamente nel trapianto ma che sono sempre disponibili a supporto per i necessari controlli. Nostri amici sono i numerosi in lista d’attesa e tutti coloro che sono affetti da cirrosi, epatite B, epatite C o altre malattie epatiche che necessitano di aiuto o più semplicemente di trovarsi fra amici per comunicare le loro esperienze e per trarre conforto dall’esperienza di altri.

Amici sono infine tutte le famiglie di cui fanno parte le persone sopra indicate che, a vario titolo, soffrono, gioiscono e vivono il cammino di ogni giorno». «L’associazione - continua il presidente - vuole testimoniare che la scienza progredisce ogni giorno e, con l’aiuto di ognuno di noi, è sempre più in grado di rispondere ai quesiti vecchi o nuovi che prima o poi ognuno, nella vita, si trova a dover affrontare. È necessario essere positivi, aperti, fiduciosi e confidenti che la malattia oggi può essere gestita e spesso sconfitta». A breve Fate diventerà Fondazione, per cercare di rispondere con qualità e vicinanza alle molto esigenze espresse dai pazienti. n

L’Italia è seconda in Europa per numero di trapianti effettuati e la qualità degli interventi risulta tra le migliori del mondo. Tuttavia esiste ancora una forte disparità tra il numero di pazienti in lista di attesa e i trapianti realizzati. Una cifra per tutte: il 15% dei pazienti in lista di attesa può morire prima di ricevere il trapianto

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FONDAZIONI

Gli allievi della Fondazione “Villaggio dei Ragazzi - don Salvatore d’Angelo”, un Ente morale ed Ente di diritto pubblico di assistenza e beneficenza (Ipab) nato a Maddaloni (Ce) alla fine della Seconda Guerra Mondiale per aiutare, in quella fase storica, l’infanzia abbandonata e priva di tutto, ringraziano Enel Cuore che ha realizzato tre diversi laboratori per esercitazioni di automazione, automazione impianti elettrici e telecontrollo impianti, destinati alla formazione professionale degli studenti ospiti della fondazione

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d i D a r i o Va s c e l l a r o

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enel accende l a solidarietà

Enel Cuore onlus è una struttura autonoma senza scopo di lucro, nata il 3 ottobre 2003, per esprimere l’impegno di Enel nella solidarietà sociale a favore della comunità, secondo un ideale di cooperazione che mette al centro la persona

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nel Cuore è la onlus costituita da Enel nel 2003 per coordinare e gestire i fondi destinati alla beneficenza e alla solidarietà dell’azienda la quale, nel rispetto dei valori espressi all’interno del suo codice etico, sviluppa la cooperazione con le persone, le associazioni e le istituzioni; per questo, ha deciso di destinare alla onlus, ogni anno, una parte dei suoi utili destinati a sostenere progetti concreti che

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Gianluca Comin, direttore delle Relazioni esterne di Enel e consigliere della onlus Enel Cuore

manifestano necessità, urgenza e gravità. Enel Cuore promuove interventi mirati, i cui benefici vanno direttamente a favore di coloro che vivono in condizioni svantaggiate, in particolare verso l’infanzia e l’adolescenza, la terza età, le persone malate e quelle disabili, in Italia e all’estero. Delle attività di Enel Cuore abbiamo parlato con Gianluca Comin, direttore delle Relazioni esterne di Enel e consigliere della onlus. Cosa è Enel Cuore? «Enel Cuore è la onlus di Enel nata ormai quasi sette anni fa con l’intuizione di dare concretezza alla nostra missione di essere vicini alla comunità. Cercavamo qualcosa di concreto e che non si confondesse con la nostra missione di business e per questo abbiamo scelto la via della onlus e la missione di impegnarci nella solidarietà sociale a favore dei più deboli, in particolare dei bambini, degli anziani, delle persone malate e con disabilità, in Italia e nel


FONDAZIONI mondo». Ritiene che realtà come quella di Enel Cuore possano essere una valida risposta, di tipo sussidiario, per rispondere alle domande (di assistenza, di servizi) che il vecchio Welfare State rischia di lasciare inevase? «È chiaro che l’impresa non può e non deve sostituirsi allo Stato e alle sue politiche sociali. Quello che però possono fare realtà come Enel Cuore onlus è dare un contributo su alcuni progetti concreti e che rispondano a bisogni reali della comunità. Per questo, prima di tutto cerchiamo di capire quali sono i bisogni delle comunità, quali sono le loro attese e problematiche. Lo facciamo in un dialogo continuo con le molte associazioni impegnate nella solidarietà e spesso con le istituzioni. Solo in un secondo momento, conosciuto il problema, decidiamo di dare risposte mirate ed efficaci». Siete contenti dei progetti che avete finanziato? Mi racconta quello che l’ha colpita di più? «A oggi abbiamo destinato trentacinque milioni di euro per dar vita a trecentosettanta iniziative in Italia e all’estero: un risultato più che soddisfacente, se pensiamo che il nostro impegno è andato a interventi di tipo strutturale, come l’adeguamento e la ristrutturazione degli spazi in cui le associazioni svolgono i loro servizi, o all’acquisto di beni strumentali, come pulmini per trasportare gli anziani o strumenti come le risonanze magnetiche in ambito ospedaliero. Ogni richiesta di contributo viene seguita personalmente da me e dallo staff di Enel Cuore con cura e attenzione, passando attraverso incontri, visite sul campo, discussioni su come migliorare la progettazione in termini di efficienza ed efficacia. Tutto questo crea una relazione con l’ente beneficiario che diventa così partner della nostra associazione e viene accompagnato fino al completamento dell’iter. Non c’è quindi un’iniziativa che mi ha colpito di più, ma posso farle qualche esempio di progetti particolarmente ben riusciti: qualche settimana fa trentacinquemila ragazzi disabili sono scesi in tredici piazze italiane per la quinta edizione della Giornata Paralimpica; ogni giorno, grazie anche al nostro contributo, gli operatori e i volontari dell’Ostello Caritas e del Centro Diurno Binario 95 di Roma assistono i senza fissa dimora; nel quartiere napoletano di Scampia e a San Luca, nella Locride, stiamo contribuendo a combattere la devianza minorile e l’abbandono scolastico con due ludoteche dove i bambini si sentono accolti e “liberi” di giocare e apprendere». Dall’idea alla realizzazione di un progetto: in che modo Enel si coinvolge nel lavoro delle realtà che vengono finanziate?

«Il ruolo del territorio è fondamentale nello La recente campagna di Enel svolgimento delle attività: dalla fase di primo Cuore a sostegno del Comitato paralimpico italiano. Testimocontatto con gli enti, alla definizione del pronial della campagna è Cecilia getto, fino al momento dell’inaugurazione, lo Camellini, non vedente e camstaff di Enel Cuore lavora in squadra anche pionessa mondiale di nuoto con i colleghi di Enel che mettono in campo la conoscenza approfondita del territorio e i rapporti con tutti i potenziali stakeholder che possono essere coinvolti nell’iniziativa. All’estero la collaborazione dei country manager è ancora più stretta e indispensabile per la valutazione dei progetti in rapporto al contesto ambientale e sociale: pensiamo alla Russia, per esempio, e alla complessità in termini di tessuto associativo e organizzazione dei servizi. Poi c’è lo staff di Enel Cuore che è formato e specializzato nelle cosiddette attività del terzo settore». Questo aiuto come viene considerato da voi? È un obbligo? Un gesto di carità tanto per dare qualcosa? Oppure avete potuto incontrare realtà che nel fare la loro opera hanno cambiato anche il vostro modo di lavorare? «L’aiuto e la solidarietà verso le fasce più deboli, i valori di Enel Cuore onlus, rientrano nel concetto di responsabilità sociale di impresa, da sempre molto caro a Enel come azienda impegnata a seguire uno sviluppo sostenibile. Un’azienda socialmente responsabile deve integrare le sue attività di business con la dimensione sociale dei territori in cui opera. I nostri non sono quindi gesti di carità fine a se stessi, ma azioni concrete, che sollevano dal disagio e dalla sofferenza la persona, la famiglia e la comunità. Oggi, anche grazie alle belle collaborazioni che sono nate in questi ultimi tre anni, cito ad esempio il progetto “Un Cuore in Stazione”, realizzato insieme a Ferrovie dello Stato per far fronte alle

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FONDAZIONI ➤

emergenze dei senza fissa dimora, abbiamo più che mai L’inaugurazione, la consapevolezza che vince avvenuta a Roma Termini lo scorla rete, la messa in campo di so dicembre, del più risorse aziendali, la coeCentro polifunziorenza con il contesto imprennale per i senza ditoriale. A questo proposidimora, primo dei quindici interventi to, lo sviluppo di Enel nei del progetto nazioPaesi dell’America Latina nale “Un Cuore in porta con sé un impegno sul Stazione”, ideato fronte della filantropia che dalla Onlus Enel Cuore e da Fernei prossimi anni sarà semrovie dello Stato. pre più complesso e in sinerScopo del nuovo gia con la Corporate social Centro integrato, responsibility dell’azienda». gestito da “Binario 95”, è quello di dare sollievo alle persoCrede che la sua esperienne senza fissa dimora che vivono nei pressi za professionale possa esdelle stazioni ferroviarie. Presente all’inausere di aiuto anche per una gurazione l’amministratore delegato di Enel realtà non profit? nonché presidente di Enel Cuore onlus Fulvio Conti (secondo da sinistra) insieme a «L’approccio manageriale Mauro Moretti, ad Ferrovie dello Stato premia sempre, perché consente di affrontare le questioni anche più complicate in un’ottica di attenzione al risultato e all’efficacia dell’intervento. Le cosiddette associazioni del terzo settore sono cresciute moltissimo negli ultimi anni nella professionalità e nella managerialità. In alcuni casi, soprattutto per le associazioni più piccole o nuove, il contributo professionale che viene dalla nostra collaborazione fa fare loro un salto di qualità dimensionale. È anche questo un nostro obiettivo. Vogliamo contribuire, nel nostro piccolo, a rendere il non profit sempre più qualificato ed efficace. Poi c’è l’esperienza dei singoli. Sulla comunicazione, ad esempio, i mezzi si moltiplicano, i social network aprono nuovi canali di divulgazione e partecipazione, più veloci e meno formali. Credo quindi che nuove idee e nuove strategie di comunicazione che vengono “studiate” all’interno delle aziende possano in qualche modo essere valide anche nel settore del non profit: pensiamo a come le ong e le associazioni hanno ben accolto le opportunità del Web e hanno fatto leva anche sui social media per promuovere l’attività di fund raising». Enel Cuore ha avuto modo di aiutare anche alcune realtà della Compagnia delle Opere, come il Banco alimentare. Com’è avvenuto l’incontro con le realtà Cdo e qual è il rapporto che ne è scaturito? «In questi sette anni, Enel Cuore è stata a fianco di Compagnia delle Opere su diversi progetti, in particolare a sostegno della formazione dei giovani: Ca’ Edimar a Padova, inaugurata quest’anno, il

Centro In-Presa di Emilia Vergani a cui abbiamo destinato un contributo per la realizzazione delle nuove aule; e infine il sostegno all’attività del Banco alimentare, che ci ha visto partner per due anni nello sviluppo della logistica e della gestione dello stoccaggio dei prodotti. È stato prima di tutto un incontro personale di grande emozione. Ho voluto in molti casi visitare, incontrare e toccare

«Vogliamo contribuire, nel nostro piccolo, a rendere il non profit sempre più qualificato ed efficace»

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con mano la forza con la quale operano le molte persone impegnate in questi progetti. E rimango sempre stupito nel vedere persone all’opera che cambiano, innanzitutto loro stesse, mentre fanno questa attività e della professionalità con la quale affrontano tutte le giornate, quelle belle e quelle difficili. Ho imparato molto e penso di aver trovato anche molti nuovi amici. Non credo sia difficile credere che quando riesco a dedicare una giornata a queste esperienze ne esco arricchito come persona e sollevato come cittadino: c’è molto di buono ancora nella nostra società. Purtroppo non finisce nelle cronache dei giornali». Ha avuto modo di osservare delle particolarità nelle opere della Cdo con le quali avete collaborato e che vi hanno spinto a sostenerle? «Compagnia delle Opere è per noi sinonimo di serietà, concretezza e soprattutto di comunità: la capacità di dialogo, lo spirito di condivisione, l’andare incontro ai bisogni della società. Ma sempre con grande realismo e capacità di capire l’altro. Tutto questo si sposa perfettamente con la dimensione valoriale della nostra onlus». n



FONDAZIONI

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una società che si muove d i D a r i o Va s c e l l a r o

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niCredit Foundation è la fondazione d’impresa costituita nel 2003 al fine di contribuire allo sviluppo della solidarietà e della filantropia nelle comunità e nei territori in cui opera, prioritariamente nelle aree geografiche in cui è presente UniCredit (22 Paesi, tra Europa e Centro Asia). Attraverso il trasferimento di risorse economiche e di competenze gestionali tipiche dell’impresa, UniCredit Foundation sostiene progetti significativi per impatto sociale e innovazione, realizzati da organizzazioni non profit locali.

Il nuovo manager

Da qualche mese la gestione della Fondazione è passata nelle mani di Maurizio Carrara, manager bergamasco da sempre attivo nel settore non profit e della cooperazione internazionale. Ha fondato, nel 1985, il Cesvi insieme a Paolo Caroli e ad altri quindici amici e ne è stato il presidente fino al 2005. Nel 2000 è diventato membro del Cda della Società editoriale Vita, editrice del settimanale Vita non profit, e due anni dopo è diventato responsabile Sviluppo e Marketing. Dal 2005 al 2010 ha assunto il ruolo di consigliere delegato di Società editoriale Vita e amministratore unico di Vitaconsulting srl. Ora che “è passato dall’altra parte della scrivania”, la sua pluriennale esperienza di fund raiser e di ideatore di campagne di raccolta fondi e di sensibilizzazione originali e innovative, è destinata ad arricchire l’attività della Fondazione di UniCredit. «La prima regola che mi sono dato una volta arrivato a UniCredit Foundation - racconta Carrara - è di parlare con tutti quelli che vengono qui per chiedere qualcosa. Ho provato, infatti, l’amarezza di non essere mai ricevuti». Sotto la guida di Carrara, dunque, la Fondazione è sempre più impegnata nella promozione di una moderna filantropia d’impresa, così come della cultura dell’impegno civile, della donazione e del volontariato, ponendosi, inoltre, quale ponte tra i dipendenti di UniCredit - interessati e desiderosi di indirizzare le proprie energie e le proprie competenze verso l’impegno in prima persona - e i bisogni delle comunità di riferimento.

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UniCredit Foundation promuove la cultura del volontariato e della donazione attraverso iniziative dedicate alla comunità dei dipendenti volte a favorire la loro partecipazione ad attività e progetti sociali

Il gift matching program

Proposto per la prima volta nel 2003, anno di costituzione di UniCredit Foundation, il Gift Matching Program è l’iniziativa attraverso cui la Fondazione sostiene i dipendenti nel loro approccio alla filantropia, seguendo la tradizione delle maggiori Fondazioni corporate anglosassoni. Il meccanismo è semplice: gruppi di dipendenti effettuano una donazione a favore di un’organizzazione non profit a loro scelta. UniCredit Foundation, compatibilmente con i fondi allocati per il progetto (2,5 milioni di euro dei 7,5 milioni annualmente a disposizione della Fondazione), integra tali donazioni con una cifra pari all’ammontare destinato dai dipendenti stessi. Si tratta di un programma teso a valorizzare l’impegno in prima persona e l’iniziativa dei dipendenti, che in questo modo possono attivamente contribuire a progetti di solidarietà da loro stessi proposti. Per uno come Carrara, che dichiara di avere una cultura “popolareggiante” e di amare le iniziative che coinvolgono le persone in maniera diffusa, il Gift Matching Program è il progetto ideale. La partecipazione, infatti, è la chiave di volta del Gift Matching Program. Dal 2003 al 2009, ogni anno circa seimila dipendenti del Gruppo sono stati coinvolti dall’iniziativa che ha raccolto la bellezza di 17,5 milioni di euro tra donazioni dei dipendenti e integrazione della Fondazione. Nell’ambito dell’evento “Premio Universo non Profit”, tenutosi a Roma lo scorso 14 ottobre 2010, è stato presentato il volume In Prima Persona: una pubblicazione di UniCredit Foundation che racconta l’esperienza dei primi

Maurizio Carrara, manager bergamasco, è il presidente di UniCredit Foundation. È uno dei rari casi in cui un manager del non profit è stato scelto da una fondazione d’impresa


FONDAZIONI sette anni del Gift Matching Program in Italia. Oltre 500 schede presentano i progetti sostenuti dal Gift Matching Program. Per ogni progetto sono indicati l’ammontare delle donazioni del gruppo di dipendenti e dell’integrazione da parte di UniCredit Foudation. Il vulcanico Carrara, lungi dall’accontentarsi dei già lusinghieri risultati raggiunti, si propone di pubblicare ogni anno un libretto con i dati del Gift Matching Program. Visto che l’impegno della Fondazione è di coinvolgere in maniera sempre crescente i dipendenti extra-italiani di UniCredit, dal prossimo anno il libretto uscirà in una doppia versione italiano-inglese. Per accrescere il coinvolgimento dei dipendenti, infine, Carrara, oltre ad aver istituito un premio (consegnato quest’anno in una cerimonia alla presenza di 900 dipendenti del Gruppo) per il dipendente che ha raccolto più fondi, per quello che ha coinvolto il maggior numero di colleghi e per quello che ha realizzato il maggior numero di iniziative nel corso di questi anni, vuole portare i dipendenti a votare per scegliere i progetti da sostenere.

Meriti e bisogni

La Fondazione, sotto la nuova gestione Carrara, ha intenzione di impegnarsi di più sul territorio italiano, ma vuole farlo con un approccio innovativo. Nella sua azione la corporate foundation di UniCredit seguirà due stelle polari: i meriti (che di solito sono appannaggio del Nord) e i bisogni (che emergono soprattutto al Sud). «I meriti - spiega Carrara - sono quelli che permettono a una persona, una comunità di farcela, di sviluppare le proprie potenzialità, se hanno gli strumenti adeguati: una legge giusta, un regolamento adeguato, un certo quantitativo di denaro. I bisogni sono quelli di chi, a prescindere dai propri meriti, non può più entrare nella competizione sociale. Un bisognoso rimane tale anche se lo porti nella migliore università». Se questa suddivisione è abbastanza tipica, Carrara ha deciso, però, di rovesciarla: la UniCredit Foundation, infatti, si occuperà di meriti al Sud e di bisogni al Nord. «Ci siamo chiesti - racconta Carrara - dove avremmo potuto trovare giovani meritevoli al Sud. Abbiamo pensato, allora, a quelle realtà che recuperano i beni confiscati alle mafie. Stiamo finanziando per un milione di euro una cooperativa di tipo B che appartiene alla rete di Libera e si trova a Partinico e un’altra cooperativa di tipo B di Reggio Calabria. I bisognosi del Nord, invece, li abbiamo individuati negli anziani, soprattutto nel momento in cui perdono l’autosufficienza e si trovano a fare i conti con problemi

economici, di assistenza (data la disgregazione familiare presente nelle città del Nord)».

Progetti in corso

Maurizio Carrara definisce il Gift Matching Program «un bellissimo meccanismo di una società che si muove». Il successo dell’iniziativa, secondo il manager, è dovuto al fatto, prima di tutto, che nell’organizzarla si è pensato di avere a che fare con persone che dedicano parte del proprio tempo libero al volontariato: il coinvolgimento su temi non solo lavorativi, ma anche di solidarietà è, infatti, un elemento molto importante per sentirsi parte di un gruppo basato su elementi etici e valoriali condivisi. Questo elemento, che ha determinato la riuscita del Gift Matching Program, servirà per rilanciare anche gli altri progetti della Fondazione, come il microcredito, lo sviluppo dell’imprenditoria sociale in Est Europa o il Migrations Program, che ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza e l’informazione sul fenomeno delle migrazioni. Soprattutto, l’esperienza accumulata in questi anni nel campo della cooperazione internazionale permetterà sempre di più a UniCredit Foundation di porsi come centro di competenza all’interno di UniCredit, supportando la volontà di altre aziende del Gruppo di sostenere iniziative di solidarietà. La Fondazione, infine, rispettando il suo valore fondante che è la partnership, potrà aiutare i buoni progetti, oltre che elargendo denaro, anche trasmettendo know Uno dei principali obiettivi di UniCredit Foundation è la promozione e la diffusione della cultura del non how, mobilitando risorprofit e del volontariato fra i dipendenti del Gruppo se interne al Gruppo o UniCredit. esterne. Spiega, infatti, Il Gift Matching Program è una delle principali Carrara: «Se una realtà iniziative dedicate ai colleghi di UniCredit in questo non profit è carente dal contesto. Attraverso il Gift Matching Program la punto di vista della coFondazione integra le donazioni effettuate da gruppi municazione, potremmo di dipendenti UniCredit a favore di organizzazioni affiancarla con qualcuno non profit da loro selezionate. In funzione dei fondi dello Iulm; se un’altra disponibili, la Fondazione corrisponde una somma realtà avesse problemi possibilmente uguale a quella donata dai colleghi. gestionali potremmo farla aiutare da qualcuno della Bocconi; se ci fosse bisogno di una mano per la contabilità potremmo ricorrere a un nostro collega di UniCredit». Insomma, i programmi di UniCredit Foundation sono ambiziosi nella convinzione che, come ricorda Carrara, «non c’è capitalismo senza filantropia». n

in prima persona

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WELFARE

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Il presidente di Federsolidarietà illustra le sfide di fronte alle quali, nel quadro di un ridisegno del Welfare, si trova il mondo della cooperazione sociale, con particolare riferimento alla fondamentale attività dell’inserimento lavorativo

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d i G i u s e p p e G u e r i n i p r e s i d e n t e Fe d e r s o l i d a r i e t à C o n f c o o p e r a t i v e

Al servizio del bene comune N

el panorama del Terzo settore, la coopera- accrescere il capitale sociale del territorio e per zione sociale ha caratterizzato la sua mis- promuovere nuove forme di cittadinanza attiva. sione nella promozione di nuove forme di Imprese sociali che, anche grazie all’assenza di partecipazione diretta dei cittadini all’economia ogni scopo di lucro e a una base sociale multie allo sviluppo della comunità locale. La coo- stakeholder formata da soci diversi - lavoratoperazione sociale nasce spontaneamente negli ri, volontari, fruitori e finanziatori - realizzano anni 70 con iniziative autopromosse e organiz- l’interesse generale della comunità alla promozate dai cittadini che, volontariamente, hanno zione umana e all’integrazione sociale dei cittatrovato nello strumento cooperativo una valida dini, loro vero scopo e finalità (art. 1 della legge risposta ai bisogni, nuovi o scoperti, emergenti 381/91). nelle fasce più deboli della popolazione. Questa prospettiva ci fa ritenere che, assumenNella visione di Federsolidarietà, per una coo- do questa funzione, la cooperativa sociale e in perativa sociale la persona deve essere il centro particolare la cooperativa sociale d’inserimento lavorativo, nel suo radicarsi d’interesse, la principale priorinel territorio, diviene soggetto tà, ma anche il moto propulsivo di pubblica utilità; partner dei che muove l’azione imprenditotradizionali soggetti pubblici riale e sociale. La cooperativa deputati al sistema di Welfare sociale deve essere quindi uno e strumento di innovazione per strumento attraverso il quale si nuove forme di partecipazione assume una funzione che interdei cittadini all’impegno sopreta l’economia nel suo valore ciale. Un modo di fare impresa originario: al servizio del bene dove giovani, anziani, disabicomune, realizzando anche attili, ex detenuti, immigrati, non vità produttive di beni e servizi Giuseppe Guerini, presidente finalizzate a favorire l’inserisono solo persone destinatarie di Federsolidarietà, l’organizmento lavorativo e sociale di di servizi, ma attori protagonizazione di rappresentanza polidisabili e persone in situazioni sti con i quali costruire occatico-sindacale delle cooperative sociali e imprese sociali aderendi svantaggio. Sono imprese sioni di partecipazione diretta ti a Confcooperative democratiche, solidali e aperall’economia e ai processi di te, che agiscono per produrre cambiamento delle comunità benessere nelle comunità, per locali.

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WELFARE La civilizzazione dell’economia

La rispondenza della cooperazione sociale alle istanze di qualificazione della democrazia e della partecipazione alle dinamiche economiche ha consentito di coinvolgere in questi anni le nuove generazioni, ha moltiplicato le esperienze nei territori, ha cercato di coniugare l’azione sociale con l’economia. Le cooperative sociali hanno contribuito a infrastrutturare il Welfare locale e hanno dimostrato come possano esistere vere imprese, realmente sociali, votate ad agire per l’interesse generale. In un certo senso le cooperative sociali hanno cercato di realizzare quella “civilizzazione dell’economia” richiamata da Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate: «carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso». Ora si aggiungono sfide ancora più grandi, dobbiamo cercare di mantenere un sistema di Welfare in una dimensione di responsabilità e sussidiarietà, in un contesto di bisogni che crescono e di risorse (di finanza pubblica) che diminuiscono. Se tra

il 1980 e il 2000 l’ossimoro dell’impresa sociale è stato quello intorno al quale abbiamo edificato il sistema di Welfare territoriale, l’ossimoro dei prossimi decenni dovrà essere crescere con meno finanza. Crescere in qualità e coinvolgimento, in sussidiarietà e responsabilità, in partecipazione e impegno: sapendo che le risorse che potranno arrivare dalla finanza pubblica sono in costante diminuzione.

La realtà di federsolidarietà

Oggi Federsolidarietà - Confcooperative associa oltre 5.500 cooperative sociali e consorzi che contavano, nel 2009, 208.000 soci, di cui 22.000 volontari, circa 200.000 lavoratori e un fatturato aggregato di oltre cinque miliardi di euro. Per i due terzi si tratta di cooperative operanti nell’ambito dei servizi socio-sanitari ed educativi, per un terzo di cooperative che inseriscono al lavoro persone svantaggiate. Si contano 258 consorzi che aggregano le cooperative a livello territoriale. La sfida che si è cercato di delineare si rinnova continuamente, a partire dal contesto economico generale e dai bisogni che emergono. Oggi la crisi che l’Italia sta vivendo, e in particolare le ricadute sul versante occupazionale, hanno por-


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➤ tato Federsolidarietà a cercare nuovi mezzi per rispondere appieno alla propria vocazione di organizzazione votata alla sussidiarietà e assumerne a pieno l’impegno. Questo ci rilancia a nuovi impegni e alla responsabilità di mantenere saldo e dove necessario innovare l’impegno per l’inserimento lavorativo.

Il libro verde

Per questo abbiamo redatto il Libro Verde “La cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo”. Un documento che contiene un’analisi sulle tematiche relative all’inclusione attraverso il lavoro di persone con particolari difficoltà occupazionali. Sul modello dei documenti di riflessione pubblicati dalla Commissione europea, che illustrano lo stato di un determinato settore per rilanciarne le potenzialità e che sono destinati a tutti coloro che partecipano al processo di consultazione e di dibattito, Federsolidarietà con il Libro Verde vuole alimentare il dibattito sulle potenzialità che le cooperative sociali possono mettere in campo per l’occupazione di soggetti svantaggiati attraverso un’accurata analisi del settore e delle politiche pubbliche. Il documento si conclude infatti con una serie di proposte a livello europeo, nazionale e locale relative agli strumenti necessari per raggiungere gli obiettivi. Le proposte riguardano sia l’allargamento delle categorie di soggetti svantaggiati previsti oggi dalla legge 381/91 sia proposte finalizzate a favorire l’inserimento dei lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro aperto al termine del loro periodo di formazione in cooperativa. In questi anni, si è assistito a una crescita delle

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cooperative sociali di inserimento lavorativo, sia in ordine al numero sia per il numero di occupati. Le cooperative sociali di inserimento lavorativo aderenti a Federsolidarietà - Confcooperative sono oltre 1.700. Il 55% di queste imprese non ha più di 10 anni di vita. Negli ultimi sei anni il numero di cooperative di inserimento lavorativo nel Mezzogiorno è cresciuto del 94%. Al 2009, il fatturato aggregato supera 1,1 miliardi di euro. Sono circa 50.000 i soci (il 3,4% sono persone giuridiche). E nel 55% delle cooperative sono presenti soci volontari. Sono oltre 41.000 gli addetti, e sono inseriti circa 13.800 lavoratori in condizioni di svantaggio di cui circa la metà sono persone portatrici di disabilità fisiche, psichiche e sensoriali. A questi si deve aggiungere un’ulteriore Secondo il presidente di Fequota del 25% sul totale degli addetti, di dersolidarietà, bisogna cercare di mantenere un sistema persone provenienti da situazioni di disocdi Welfare in una dimensione cupazione di lungo periodo, lavoratori andi responsabilità e sussidiaziani, madri sole con figli, immigrati ecc. rietà, in un contesto di bisogni Questi risultati ci portano a difendere con che crescono e di risorse (di finanza pubblica) che dimiforza la validità del modello della coopenuiscono rativa sociale di inserimento lavorativo come strumento intrinsecamente efficace per realizzare politiche attive del lavoro per l’inclusione sociale. Ma per esser efficace questo modello ha bisogno dell’ossigeno delle alleanze e del consenso continuo delle istituzioni e delle parti sociali; un consenso che in questi ultimi tempi subisce qualche allentamento dovuto all’affermarsi di culture amministrative che per eccesso di premura verso i principi di concorrenza rischiano di subordinare l’interesse pubblico della coesione sociale o dell’inserimento lavorativo a quello dell’applicazione ferrea del principio di competizione tra le parti; oppure l’esigenza di tutelare una categoria di lavoratori rischia di negare la possibilità a lavoratori più deboli di accedere al mercato del lavoro. Per questo chiediamo alle istituzioni e agli enti locali, al mondo della politica, agli istituti di ricerca e alle organizzazioni del Terzo settore di contribuire a questa fase di consultazione per la predisposizione di un Libro Bianco di proposte condivise con gli attori istituzionali, politici e sociali. Nelle prossime settimane il dibattito sarà animato da una serie di eventi nazionali e territoriali e, inoltre, è anche on line il blog (http:// libroverdefedersolidarieta.wordpress.com) come luogo di scambio di opinioni, proposte ed esperienze aperto a tutti. n



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«D

i fronte alle difficoltà attuali della famiglia è grave, anzi insultante, continuare con la retorica. E non basta limitarsi a preparare documenti anche ben scritti e proposte che restano nei cassetti. In Parlamento ne sono stati presentati molti, in parte anche bipartisan, ma sono rimasti lettera morta, con il motivo che mancano le risorse, oppure semplicemente per poca attenzione. La famiglia ha funzioni di bene comune troppo importanti per essere usata per proclami di lotta politica o per guerre ideologiche

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Le politiche familiari devono coinvolgere in modo coordinato sia la società civile sia le istituzioni pubbliche, quelle centrali e quelle l o c a l i , d i c e i l s e n a t o r e T i z i a n o Tr e u . N o n b a stano iniziative settoriali, ma occorre predisporre un quadro di insieme e una visione che unifichi le varie politiche

d i D a r i o Va s c e l l a r o

Serve il family mainstreaming

di definizioni. Così si perde di vista l’obiettivo essenziale, che è quello di dare aiuto alle famiglie tenendo conto del numero dei componenti e delle loro condizioni economiche». Sono parole pronunciate dal senatore Tiziano Treu durante la recente Conferenza nazionale della famiglia. Più volte ministro della Repubblica, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università Cattolica di Milano, Treu oggi ha il compito di coordinare il Forum sulla famiglia del Partito democratico. Ecco perché lo abbiamo scelto come interlocutore per discutere di come dovrebbe cambiare il Welfare familiare nel nostro Paese. Perché ha iniziato a occuparsi di famiglia? Che cosa la interessa del tema? «Ho iniziato a occuparmi di famiglia partendo dai miei interessi per il lavoro, soprattutto intorno al tema della conciliazione, cioè il modo in cui rendere possibile a tutti i membri della famiglia, in particolare alle donne, una scelta libera tra il lavoro e la vita familiare e la cura dei figli. In Italia le politiche di conciliazione sono ancora arretrate rispetto al resto dell’Europa. Oltre al tema della conciliazione, poi, mi sono occupato in generale del Welfare che, secondo me, non deve essere più concentrato sulle categorie storiche dei lavoratori, maschi adulti, prevedendo soprattutto interventi di carattere indennitario, per risarcire gli individui dei danni e dei rischi del lavoro, ma deve invece occuparsi delle persone, di tutte le persone, e deve valorizzare le loro relazioni, a cominciare da

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quelle familiari, in tutte le fasi della vita personale e familiare, dalla nascita, alla vita adulta, fino alla vecchiaia». Quali sono i principali nodi che una legislazione sulla famiglia a suo avviso deve affrontare? «Anzitutto penso che la legislazione sia importante,

La famiglia - secondo Tiziano Treu - non ha bisogno di politiche assistenziali, ma di interventi promozionali. Questo tipo di Welfare aiuta la crescita delle famiglie e più in generale di una società della cura


WELFARE sicurezza per la famiglia). Il però occorre anche cambiare Le politiche familiari - afferma Tiziano Treu - hanno ricevuto in Welfare, infine, va ripensato la mentalità. Finché si pensa Italia attenzione insufficiente, minore che in tutti i Paesi vicini. Questa è una carenza di tutti, delle varie forze politiche; ma negli alla luce della conciliazione e che la famiglia sia un comodo ultimi anni la situazione è peggiorata. I fondi stanziati dal precedella condivisione dei diverrifugio su cui si può scaricare dente Governo di centro sinistra per sostegni alle famiglie nei vari si ruoli familiari, fra donne tutto ciò che altre istituzioaspetti (comprese le pari opportunità, la non autosufficienza, le e uomini. Il ripensamento è ni non sono in grado di fare, agevolazioni per gli affitti, i servizi all’infanzia e le politiche giovanili) sono stati drasticamente ridotti, addirittura a un decimo, necessario per riequilibrare i oppure che sia un costo, se da 400 milioni del 2006 a 40. E il complesso dei fondi di carattere ruoli e riconoscere maggiore non c’è una nuova percezione sociale è crollato da 2520 milioni di euro del 2008 a 349 per il libertà di scelta alle donne dell’importanza sociale, per2011 e diminuirà ancora a 271,6 nel 2013 fra lavoro e vita personale e sonale e anche economica delfamiliare. È necessario anche la famiglia, è difficile poi che per sostenere la natalità, il la legislazione funzioni. La decui drammatico calo condibole attenzione legislativa nei ziona tutto il nostro futuro. confronti della famiglia deriva Le esperienze di Paesi vicini da questa lacuna culturale che mostrano che buone politiche ha portato a sopravvalutare la di conciliazione e di condivicapacità della famiglia di fare sione servono ad allargare le da sola. Ciò era forse possipossibilità di scelta per la nabile in passato, ma non certo talità; esse non contrastano, oggi che la famiglia è caricaanzi aumentano, l’occupaziota da pesanti responsabilità di cura. Le politiche familiari ne femminile». Perché la famiglia è guardadevono coinvolgere in modo ta come un costo e non come coordinato sia la società civiun guadagno sociale (è evile sia le istituzioni pubbliche, dente, infatti, che una sociequelle centrali e quelle locali, tà senza contesti familiari che hanno ormai competenze stabili, oltre a mille altri rilevanti specie per l’area deproblemi, è costosissima)? cisiva dei servizi. Non bastano iniziative settoriali, anche lodevoli. Occorre pre«Semplicemente è un fenomeno di miopia polidisporre un quadro di insieme e una visione che tica e sociale. Si pensa, a torto, che le leggi sul unifichi le varie politiche. Lo ha rilevato anche Welfare familiare, sul fisco familiare, sull’asseil Parlamento europeo indicando la necessità di gno per i figli, vogliono dire solo costi. In realtà è adottare l’approccio del family mainstreaming (a un guadagno sociale, perché se deperisce la famiintegrazione del gender mainstreaming)». glia, se la si rende instabile, se non viene aiutata Detto questo, quali sono le priorità da affrona stare insieme è un disastro, non solo personale tare? e morale, ma anche economico. Basti vedere che «Una priorità richiamata da (quasi) tutti riguarla mancanza di politiche familiari è uno degli eleda gli aiuti economici alle famiglie, urgente anmenti alla base della bassa natalità in Italia: un che nella impostazione delle politiche tariffarie. Paese che non recupera, che non ha una nataliPiù in generale occorre affrontare finalmente la tà corrispondente ai desideri, cioè maggiore di riforma del fisco per costruirlo a misura di famiquella attuale, è un Paese che muore anche ecoglia. Una seconda linea di intervento riguarda i ➤ servizi alle persone, da potenziare e organizzare in modo da tenere conto delle diverse situazioni della vita familiare, da quella dei bambini all’età adulta. È nei servizi di cura che si esprimono soprattutto le attività del Welfare comunitario e La politica di family mainstreaming consiste nell’integrare le politiche di occupazione femminile e pari opportunità (la cosiddetta “strategia sussidiario. Una importanza centrale va data alla di Lisbona”, o gender mainstreaming) con politiche che tengono conto e cura dei bambini e degli anziani e all’aiuto da sostengono le relazioni familiari, cioè i rapporti di reciprocità fra i sessi dare ai giovani per renderli autonomi dalla fae fra le generazioni, in tutti gli ambiti di vita e di lavoro. miglia (le politiche per l’occupazione hanno un ruolo importante per il benessere della famiglia: senza lavoro non c’è autonomia per i giovani né

Cos’è il family mainstreaming

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WELFARE ➤ nomicamente. Va contrastato, dunque, il luogo comune che le politiche familiari siano costi (da ridurre come gli altri) e non invece investimenti necessari per il futuro del Paese». Oggi nel nostro Paese vi è una complessiva “invisibilità fiscale” della famiglia. Con quali provvedimenti si potrebbe ovviare a questa mancanza? «Occorre affrontare finalmente la riforma del fisco per costruirlo a misura di famiglia. Su questo punto il dibattito recente ha chiarito alcuni obiettivi e ha avvicinato alcune posizioni nel mondo politico e delle parti sociali, superando le criticità delle ipotesi di quoziente familiare. La considerazione del fattore famiglia come proposto dal Forum delle associazioni familiari, permette di disegnare una riforma fiscale che riconosca il valore sociale della famiglia e ridimensioni il carico fiscale in funzione dei carichi familiari (e tenendo conto dei bisogni e dei redditi). Bisognerebbe anche adottare tariffe amiche della famiglia. Ci sono molte amministrazioni locali (Parma e Trento, ad esempio) che hanno già

(associazionismo, volontariato, cooperative e la stessa famiglia). Lo Stato deve riconoscere il valore originario della società civile organizzata e non solo deve lasciarle spazi, ma anche aiutarne le attività con misure fiscali». Il Terzo settore, secondo lei, rappresenta una risorsa per ovviare alle esigenze delle famiglie che lo stato sociale non sarà più in grado di soddisfare? «Il non profit è importante in diversi settori, soprattutto nell’area dei servizi di cura (servizi alla persona, agli anziani, ai bambini, educazione). Il capitolo pensionistico, invece, sarà coperto in parte dallo Stato con le pensioni pubbliche e da banche e assicurazioni che gestiranno le pensioni integrative. Nell’area dei servizi alla persona il Terzo settore può fare moltissimo, ma deve assumersi una grande responsabilità perché passare dalle attività caritative sporadiche a un sistema di Welfare sussidiario implica che le organizzazioni della società civile dovranno essere molto più organizzate e professionalizzate». n

«Lo Stato deve riconoscere il valore originario della società civile organizzata e non solo deve lasciarle spazi, ma anche aiutarne le attività con misure fiscali» preso provvedimenti di questo tipo, cambiando i sistemi Isee per renderli più adeguati ai bisogni e ai costi delle famiglie». Pur ritenendo doverosa una scrupolosa tenuta dei conti e fermo restando che, almeno nel medio termine, lo Stato non avrà molto da spendere per interventi sociali, quale nuovo progetto di società e quale nuovo modello di Welfare potranno rispondere alle esigenze sociali, soprattutto delle famiglie? «Lo Stato non può esimersi dal sostenere con regole e con risorse adeguate gli attori e le funzioni del Welfare comunitario. Non bisogna, dunque, tagliare le risorse pubbliche, ma riallocarle meglio anche in capo agli attori sociali. Ad esempio, il capitolo pensionistico ha assorbito e assorbe troppe risorse, mentre ne diamo poche alle politiche familiari. Il Welfare non deve essere solo statale, ma sussidiario, comunitario. Bisogna decidere quali sono i compiti che lo Stato deve continuare a svolgere e le funzioni che lo Stato non può e non deve fare e che possono essere svolte meglio dalla società organizzata

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di Carmelo Greco

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Quando profit e non profit

L’ e s p e r i e n z a di Solidarietà e L a v o r o , c o o p erativa sociale in p r o v i n c i a d i Varese che offre o c cu p a z i o n e a persone in dif f i c o l t à , r a p p resenta un modo d i v e r s o d i r i s pondere alla crisi. C h e h a q u a l cosa da insegnare a l s i s t e m a p r oduttivo italiano

d

iversificazione, approccio manageriale, centralità del capitale umano. Potrebbero sembrare espressioni ricavate da un prontuario per imprenditori. E invece sono la descrizione, non esaustiva, delle scelte fatte dalla Solidarietà e Lavoro di Busto Arsizio, in provincia di Varese. La sua storia è emblematica e ne sintetizza, con le dovute differenze, tante altre, alcune delle quali citiamo brevemente nei box di queste pagine. Nata nel 1995 come cooperativa sociale di tipo B per rispondere

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all’esigenza di un utente di Solidarietà e Servizi - cooperativa sociale di tipo A - desideroso di avere un’occupazione vera, ha lo scopo di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate quali disabili fisici e psichici ed ex detenuti. «Nel ’95 le prime com-

Lavoro & Accoglienza La cooperativa sociale di tipo B ha al suo carico 115 dipendenti suddivisi nei tre stabilimenti di Bresso, Triuggio e Vedano Olona. Le principali attività riguardano la vendita di toner e di cartucce originali compatibili, la raccolta di materiali pericolosi e di toner esausti, la vendita di cancelleria e di prodotti per ufficio, i servizi di stampa (modulistica, brochure, agende), l’attività di assemblaggio meccanico leggero ed elettromeccanico (cablaggi semplici e complessi, quadri elettrici, lavorazioni di saldatura su schede elettroniche ecc.). Rientrano fra i suoi clienti aziende elettromeccaniche, di automazione, di quadristica, aziende automotive, enti pubblici e aziende ospedaliere, studi notarili, di commercialisti e studi professionali, grande distribuzione.


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La mission della cooperativa Solidarietà e Lavoro (nella foto in alto) è quella di scoprire il talento della persona e di valorizzarlo

si incontrano messe - racconta il presidente e direttore generale Francesco Luoni - sono arrivate grazie alla collaborazione con gli associati della Compagnia delle Opere Alto Milanese, perciò di amici che avevano contribuito a fondare la cooperativa. In una zona molto ricca di piccole e medie industrie come la nostra, si trattava prevalentemente di assemblare manualmente sia bocchette per le vasche e per le docce idromassaggio sia resistenze elettriche. La prima attività con gli anni è andata scemando, anche a causa della crisi, mentre la seconda continua ancora oggi seppure in maniera minore in termini di volume d’affari rispetto a quello del ’95». Dai nove dipendenti dell’inizio, di cui due normodotati, si è passati agli attuali trenta, 21 dei quali svantaggiati, con prevalenza di disabili psichici nelle due unità operative storiche, assemblaggi e lavorazioni meccaniche. Chi ha, invece, una invalidità di tipo fisico lavora nel call center e nei servizi informatici. Il salto è avvenuto alla fine del 2003, con l’ingresso nella cooperativa di una figura in grado di seguire soprattutto il versante commerciale, trovando nuovi clienti, e di organizzare al meglio le unità operative. Nello stesso anno Solidarietà e Lavoro entra a far parte del Consorzio servizi sociali (se ne parla nell’articolo pubblicato sul numero 2 del Corriere delle Opere di luglio 2010, pagg.

112-113). Nel 2004 si apre una rilevante opportunità con un cliente, attualmente uno dei principali della cooperativa, leader allora in Italia e oggi nel mondo nella distribuzione di guarnizioni. Fino al 2008 è stato quello da cui è arrivato gran parte del lavoro.

Diversificare (e non solo)

«Nel 2008 - continua Luoni -, in anticipo sulla crisi, abbiamo capito che il rischio di essere mono commessa, cioè di dipendere da un unico cliente, ci esponeva alle incognite dell’an-

Federazione Centri di solidarietà La Federazione Centri di Solidarietà è una associazione di promozione sociale che supporta, tramite progetti e iniziative, le attività dei singoli Centri di Solidarietà (Cds) presenti in tutta Italia, attività che spaziano dalla risposta a situazioni di disagio e marginalità all’accompagnamento educativo e lavorativo. Fanno parte della Federazione più di 100 Cds, per un totale di 98 mila associati, che gestiscono: 71 sportelli finalizzati all’orientamento e all’accompagnamento al lavoro; 21 circolini dove si svolgono attività educative, culturali e ricreative; 25 punti convenzioni per beni e servizi alla persona; 6 patronati per l’assistenza fiscale e previdenziale.

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damento del mercato di riferimento del cliente stesso. Per cui abbiamo diversificato l’attività e, nell’ambito del settore assemblaggio, abbiamo contattato nuovi clienti, intercettandone uno in particolare, socio della Cdo Alto Milanese». La collaborazione è stata avviata sulla rigenesi, cioè sul ricondizionamento di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Sempre nell’ottica della diversificazione, tra il 2007 e il 2008, è stata costituita l’unità operativa dei servizi informatici, inizialmente come attività di inserimento dati per conto di un Comune della zona e poi come call center. In questo modo si è aggiunto un terzo cliente importante, un’azienda nel ramo della telefonia che, insieme ad altri due, contribuisce a coprire circa l’85% dei ricavi della cooperativa: 800 mila euro nel 2010. L’anno precedente si è chiuso negativamente, ma grazie alla diversificazione non è stato un “bagno di sangue” ed è stato possibile non licenziare o dover ricorrere alla cassa integrazione. Una scelta, col senno di poi, oculata visto che nel momento della ripresa soprattutto le persone con difficoltà di tipo psichico avrebbero avuto gravi problemi di reinserimento se fossero rimaste a casa. Una scelta che scaturisce dallo scopo stesso della cooperativa. «La nostra mission - dice il presidente - è duplice: da una parte, scoprire che cosa la persona è in grado di fare, qual è il suo talento, e valorizzarla rispetto a questo; dall’altra, produrre beni e servizi di qualità e con prezzi che il mercato possa sostenere: i nostri clienti infatti non ci pagano di più perché

Il Carro

Gli Amici de il Piccolo Principe Gli Amici de Il Piccolo Principe è un’associazione onlus costituitasi ad Ancona nel 2000. Il suo obiettivo è promuovere attività socio-educative, rivolte all’infanzia e all’adolescenza. Dal 2004 a oggi sono stati realizzati vari campi estivi, denominati Arianuova, per giovani ragazzi portatori di handicap. Le attività di Arianuova, oltre al campo estivo, comprendono momenti di svago per le famiglie e una serie di incontri pubblici, sulla disabilità. Il progetto nasce dal desiderio di alcuni genitori di proporre un’esperienza valida per sé e per i propri figli dove approfondire un’amicizia significativa per la crescita della persona. Centro del progetto sono i giovani ragazzi con disabilità che ne usufruiscono. I vari campi estivi e i momenti di incontro proposti hanno reso ancora più evidente che ognuno di questi ragazzi cerca una compagnia che li sostenga e che cammini con loro. Per introdurre l’esperienza del lavoro nella disabilità, l’associazione ha avviato un laboratorio del vino presso l’Azienda Vinicola Accattoli, dove viene prodotto il vino Arianuova con l’uva raccolta e pigiata dai ragazzi (sotto, un momento di relax dei giovani “viticoltori”).

Trentacinque anni fa il parroco di Paullo, un paese di diecimila abitanti in provincia di Milano, chiese a un gruppo di studenti di fare compagnia ad alcuni ragazzi disabili per permettere ai loro genitori, la domenica mattina, di andare a Messa. Questo primo impegno, con il tempo, si è ampliato, fino a diventare una compagnia per l’intero weekend e contemplare il periodo delle vacanze. È nata da qui l’associazione Il Carro che è all’origine dell’omonima cooperativa sociale di tipo B. Attualmente lavorano nella cooperativa 35 persone di cui 16 svantaggiate (undici con disagio psichico, tre fisico e due detenuti). A queste vanno aggiunti dieci tirocinanti e dieci volontari. I quattro ambiti nei quali è specializzata sono: lavorazione artigianale come affresco, , bomboniere ecc., lavorazione conto terzi, servizi convenzionati con gli enti pubblici, gestione e realizzazione giardini (a fianco e nelle pagine seguenti, alcune immagini delle attività svolte dalla cooperativa).

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La nuova iride La Nuova Iride, nata nel 1982 a Monza da un gruppo di persone educate dall’esperienza cristiana nella Chiesa a riconoscere il Mistero presente in ogni persona, è una cooperativa di lavoro non “per” ma “con” disabili. Si occupa dell’addestramento, la formazione e l’avviamento al lavoro di persone svantaggiate tramite la realizzazione delle seguenti attività: un laboratorio di assemblaggi meccanici; un centro di riparazione, personalizzazione e noleggio di carrozzine e ausili per disabili; un laboratorio di falegnameria per la produzione di giocattoli in legno.

➤ facciamo lavorare le persone svantaggiate». È su questo realismo che la cooperativa basa anche il suo metodo: i responsabili delle unità operative non sono educatori professionali, ma hanno competenze nel ramo in cui lavorano, perché «ciascuno di noi è un educatore. Non abbiamo deciso a tavolino di utilizzare esclusivamente personale con competenze tecniche. L’abbiamo deciso guardando la realtà. Tra di noi c’era chi aveva certe competenze e cercava un lavoro. La nostra cooperativa è un’opportunità occupazionale per tutti, normodotati o disabili che siano. Con il vantaggio che, dovendo favorire le persone più deboli, aumentiamo i

livelli di qualità ed efficienza della produzione, perché inseriamo sensori, sistemi di controllo e ottimizzazione dei processi che, nel venire incontro alle persone svantaggiate, diventano un beneficio per tutti».

Imprese responsabili

La prossima tappa della cooperativa Solidarietà e Lavoro sarà quella di condividere con un’azienda cliente un capannone per le lavorazioni meccaniche. A partire dalla seconda metà del 2011, infatti, pur rimanendo nettamente distinte le due realtà dal punto di vista giuridico, economico e produttivo, condivideranno un unico spazio al fine di perseguire meglio ciascuna il proprio scopo: per l’azienda profit,

Cooperativa Giotto La Giotto è una cooperativa sociale di tipo B nata negli anni Ottanta a Padova. Opera nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. Le attività spaziano dalla progettazione, realizzazione e manutenzione del verde alla gestione di parcheggi, dalle pulizie civili e industriali al settore dei rifiuti, dalla gestione dei servizi museali alla produzione di prodotti artigianali e alla ristorazione. Lavora in particolare per le amministrazioni pubbliche (aziende sanitarie, Comuni, Province, aziende municipalizzate, consorzi di bonifica), le imprese e i privati, prevalentemente nel territorio della Regione Veneto, grazie alla presenza delle due sedi principali a Padova e Chioggia.

vendere e mettere sul mercato i propri beni, concentrandosi sulla commercializzazione nonché sullo studio di prodotti e materiali; per la cooperativa, alla quale sarà demandata l’attività prettamente industriale, procedere nell’inserimento lavorativo realizzando come contoterzista i manufatti per conto dell’azienda. È un’esperienza unica finora, una sinergia dalla quale ci si aspetta una reciproca convenienza. Ma è anche la strada maestra che sempre di più dovranno seguire le relazioni tra il mondo dell’impresa in senso stretto e quello del non profit. Proprio per fare dialogare maggiormente questi due mondi è stato realizzato, a cura della Cdo Opere Sociali, il catalogo delle coo-

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Men at work Men at Work è una società cooperativa costituita a Roma nel 1998. Ne fanno parte 45 soci (33 svantaggiati), alcuni dei quali lavorano in qualità di tutor, altri direttamente nelle attività produttive. Tra i suoi ambiti di intervento rientrano: inserimento dati al computer, prenotazioni e , , , servizi di ristorazione, servizi ambientali (manutenzione del verde, pulizia, raccolta e smaltimento di rifiuti), informazione turistica e gestione percorsi guidati, gestione strutture alberghiere e servizi di ospitalità turistica, trasporto di persone e cose, gestione di parcheggi e servizi accessori, ricerche socio-economiche, gestione immobili e gestione di attività commerciali al dettaglio.

Sotto, la copertina del catalogo che raccoglie una quarantina di cooperative di inserimento lavorativo associate alla Cdo Opere Sociali. Il catalogo è stato presentato ufficialmente in occasione dell’ultimo Matching

perative sociali di tipo B. Al suo interno una quarantina di esse presentano i rispettivi beni e servizi. Il catalogo, intitolato Imprese responsabili, è stato illustrato durante l’ultimo Matching ed è stato distribuito nelle varie sedi locali Cdo. È disponibile, inoltre, in formato pdf sul portale della Compagnia delle Opere, nella sezione Opere Sociali. È una delle iniziative sorte nel contesto del Tavolo delle cooperative di tipo B, appuntamento mensile, di cui responsabile è Francesco Luoni, promosso dalla Cdo Opere Sociali. «Il catalogo sottolinea Luoni - ha l’obiettivo di far conoscere al mondo profit la nostra esistenza facendo vedere la ricchezza di un’esperienza che va dalla produzione di marmellate alla realizzazione di milioni di guarnizioni». Una finestra su alcune imprese sociali che non soltanto danno lavoro a persone che altrimenti non ne avrebbero, ma che competono sul mercato con una qualità di offerta talvolta superiore a quella delle aziende cosiddette “normali”. n

Pinocchio Group Nel 1986 viene costituita la cooperativa Comunità Nuova che prende in gestione una piccola azienda agricola a Brescia. Nel 2004 il nome della cooperativa diventa Pinocchio Group, con riferimento al famoso burattino come metafora del cammino riabilitativo delle persone accolte. Oggi il Gruppo rappresenta una rete di comunità residenziali e di imprese sociali che realizzano percorsi riabilitativi per tossicodipendenti, malati psichici e persone adulte in grave stato di emarginazione e disagio. La cooperativa opera soprattutto in due settori: il “verde”, con la progettazione, realizzazione e manutenzione del verde privato esterno nonché di impianti di irrigazione; il settore agricolo con la coltivazione di ortaggi e frutta e la trasformazione di prodotti agricoli.

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di Francesca Glanzer

Un concorso

Il nido aziendale premiato l’anno scorso nell’ambito del concorso FamigliaLavoro di Regione Lombardia, per le politiche di conciliazione lavoro-famiglia

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per valorizzare la conciliazione

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alorizzare e mettere in luce le migliori esperienze e i migliori programmi in tema di conciliazione famiglia-lavoro. Questo è lo scopo che si prefigge la terza edizione del Premio FamigliaLavoro indetto da Regione Lombardia in collaborazione con Altis, Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Asag - Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli e con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia, oltre che con un nutrito gruppo di esperti. La partecipazione al concorso, completamente gratuita, si rivolge a realtà lombarde o che abbiano almeno una sede operativa in Lombardia. Il bando di concorso, aperto dal 5 novembre 2010 al 21 gennaio 2011, è scaricabile dal sito della Regione Lombardia www.premiofamiglialavoro.regione.lombardia.it. Alla terza edizione del concorso potranno presentarsi e partecipare: imprese - nelle tre categorie di pmi, grandi imprese e multinazionali -, Pubbliche amministrazioni, tra cui enti locali, aziende sanitarie locali, aziende ospedaliere e di servizi alla persona, aziende speciali e società di capitali a prevalente capitale pubblico locale, solo se segnalate dagli Enti locali, e organizzazioni non profit, nello specifico organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative sociali, fondazioni di diritto civile, d’impresa e di origine bancaria, organizzazioni non governative, istituti religiosi, università ed enti di formazione.

Le finalità del premio

Quattro le finalità che il Premio si prefigge: valorizzare realtà lombarde che si sono distinte per aver ideato e attuato iniziative e programmi a favore delle proprie risorse umane e della con-

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famiglia-lavoro Regione Lombardia e Università Cattolica da tre anni indicono il Premio FamigliaLavoro

ciliazione famiglia-lavoro; coinvolgere le realtà interessate in un percorso di sensibilizzazione, formativo e di approfondimento su queste tematiche; accompagnarle in un processo di crescita verso una progettualità più consapevole e di alto livello e incentivare pratiche e politiche di conciliazione famiglia-lavoro in Lombardia.

COME PARTECIPARE La partecipazione al concorso è gratuita. Partecipare è semplice: basta scaricare la scheda programma dal sito web FamigliaLavoro sul portale di Regione Lombardia www.premiofamiglialavoro.regione. lombardia.it, compilarla e spedirla via e-mail entro e non oltre le ore 18 di venerdì 21 gennaio 2011. È inoltre necessario inviare, alla segreteria del concorso, il materiale illustrativo di approfondimento (cartaceo e multimediale, brochure, fotografie, video ecc.) delle iniziative e dei programmi partecipanti al concorso.



WELFARE ➤

giuria e criteri di valutazione

Una giuria composta da docenti, esperti del settore e figure istituzionali di rilievo valuterà le esperienze considerate più interessanti e le approfondirà con una visita in sede da parte del team di FamigliaLavoro. E tale giuria si avvarrà dell’uso di cinque criteri di valutazione: la coerenza del programma con i bisogni emersi dal personale aziendale e le criticità da risolvere; il coinvolgimento e il ruolo attivo dei dipendenti nelle varie fasi di progettazione e sviluppo; l’efficacia, il contenuto innovativo e il valore delle iniziative e infine i risultati ottenuti grazie ai programmi di conciliazione all’interno dell’azienda.

categorie di concorso

Le categorie di concorso previste saranno le seguenti: miglior sistema integrato di conciliazione; miglior progetto dedicato ai figli e ai familiari anziani dei dipendenti; miglior rete di partnership per la conciliazione; miglior programma di coinvolgimento dei dipendenti nel progetto e miglior progetto realizzato da una piccola realtà.

premiazione

Le realtà vincitrici saranno premiate nel corso di un grande evento pubblico, che si terrà in una delle prestigiose sedi di Regione Lombardia a Milano, nei primi mesi del 2011. Il premio previsto per le realtà vincitrici è un percorso di alta formazione per Manager Family Friendly, sviluppato dall’Università Cattolica - Altis, oltre alla possibilità di entrare a far parte di un gruppo pilota sulla conciliazione famiglialavoro in Lombardia. Grazie all’elaborazione di un Quaderno di ricerca “FamigliaLavoro in Lombardia” i progetti vincitori otterranno anche un’ampia visibilità. Per le imprese profit che non partecipano al concorso, vuoi per scelta vuoi per mancanza di requisiti, sono aperte diverse modalità di partnership e collaborazione sul Premio FamigliaLavoro. n

Organizzazioni Non profit - Come partecipare Nella categoria Organizzazioni non profit (Onp) della Terza edizione del Premio FamigliaLavoro, sono ammesse Onp lombarde, o con almeno una sede operativa in Lombardia: n Organizzazioni di volontariato (Odv); n Associazioni di promozione sociale; n Cooperative sociali; n Fondazioni di diritto civile, d’impresa, di origine bancaria; n Organizzazioni non governative (Ong); n Istituti religiosi; n Università ed enti di formazione. Possono partecipare presentando le proprie iniziative e programmi di conciliazione famiglia-lavoro, work-life balance e valorizzazione delle proprie persone, rivolti ai dipendenti, ma anche sviluppati come servizio alla collettività. Categorie di concorso: n Miglior sistema integrato di conciliazione; n Miglior progetto dedicato ai figli e ai familiari anziani dei dipendenti; n Miglior rete di partnership per la conciliazione; n Miglior programma di coinvolgimento dei dipendenti nel progetto; n Miglior progetto realizzato da una piccola realtà. Verranno inoltre assegnate alcune menzioni speciali.

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volontariato

T L di Carmelo Greco

Intervista a 360 gradi a Marina Gerini, che guida la Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali del ministero del Welfare

Terzo settore, ricchezza per l’Italia e l’Europa

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arina Gerini è responsabile della Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali, uno degli uffici dirigenziali che fanno parte del ministero del Welfare. In questa intervista risponde ad alcune domande che riguardano i temi principali del settore. Il 2011 è stato dichiarato Anno europeo del volontariato. Quale sarà il ruolo dell’Italia all’interno dell’iniziativa? «L’Italia è stata tra i primi promotori del processo che ha portato alla decisione 2010/37/CE del Consiglio dell’Unione europea. La nostra consolidata tradizione nella valorizzazione delle molteplici espressioni del volontariato ci rafforza nell’idea di essere in grado di dare un concreto contributo al raggiungimento degli obiettivi dell’Anno». Che tipo di contributo? «Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, in particolare la Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali, è stato nominato Organismo nazionale di coordinamento (Onc), con il compito di organizzare la partecipazione dell’Italia all’evento. In poche parole si tratta, a livello internazionale, di interagire con gli Onc degli altri Paesi interessati e, a livello nazionale, di essere punto di riferimento cooperando con un’ampia pluralità di stakeholder: dalle organizzazioni di Terzo settore e della società civile alle amministrazioni centrali, regionali e locali, coinvolgendo anche mondi un tempo distanti quali, ad esempio, la finanza, l’università, l’economia». Quante risorse sono previste per il nostro Paese?

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«Su una dotazione totale pari a 8 milioni di euro - ripartiti Il prossimo anno, sostiene Marina Gerini (nella foto), tra gli Stati membri avremo l’opportunità di fare conoscere agli altri Paesi della Comunità euUe la nostra ricchezza associativa ropea in proporzione al dato numerico della popolazione - all’Italia sono stati destinati 320 mila euro. È vero, le risorse non sono molte. Perciò non escludiamo la possibilità di attivare sinergie con tutti i soggetti che intendono contribuire ottimizzando le proprie singole iniziative in un’ottica di sistema. In qualità di Onc abbiamo presentato il Piano Italia 2011, già approvato dalla Comunità europea: è il quadro, in continua evoluzione, delle attività che verranno poste in essere». Ci può anticipare qualche contenuto? «Il 2011 sarà un anno all’insegna della comunicazione, perché mai come oggi è importante diffondere e promuovere la cultura del volontariato e valorizzarne i messaggi positivi. Un anno all’insegna del dialogo e dello scambio: dialogo con e tra istituzioni e realtà del volonta-


volontariato riato, scambio di esperienze positive e di buone prassi. Un anno di ricerca, osservazione e analisi sull’impatto sociale delle attività di volontariato, per migliorare e/o creare infrastrutture - fisiche, culturali, politiche, normative - che ne favoriscano crescita e operatività. Un anno ricco di progetti ed eventi, molti dei quali vedranno protagonisti i giovani: un vero e proprio investimento sul futuro». Veniamo alle questioni di “casa nostra”. Oggi la normativa regolamenta gran parte delle realtà del Terzo settore: associazioni, cooperative, fondazioni, ong. Come si fa a mettere ordine? A che punto è la riforma del Libro I del Codice civile più volte rimandata? «Varietà e ricchezza delle realtà del Terzo settore sono peculiarità del nostro Paese e la normativa ne tiene giustamente conto. Purtroppo i tempi per un riordino non sono così brevi, sia per la complessità della materia, sia perché una corretta revisione può partire solo dalla legge gerarchicamente superiore, il Codice civile, per poi incidere a cascata sulla normativa specifica. Una bozza di modifica del Libro I del Codice civile è attualmente presso la Presidenza del Consiglio dei ministri per un ultimo passaggio politico». E la disciplina dell’impresa sociale, che ha inteso distinguere le attività di volontariato da quelle di impresa? «Il modello dell’impresa sociale più che distinguere vorrebbe interconnettere impresa e volontariato, realizzando tra i principi fondanti delle stesse, profit e non profit, una sinergia che abbia come risultato il coinvolgimento maggiore e più responsabile del lavoratore nel perseguire obiettivi di bene comune. Certi della positività di tale modello, in collaborazione con Agenzia per le Onlus, Unioncamere, ministero per lo Sviluppo economico e Agenzia delle Entrate, stiamo portando avanti un ragionamento complessivo sia sulla normativa sia sui soggetti che possono avvalersi di questa qualifica, per mettere a punto strategie e strumenti che ne rimuovano gli ostacoli alla diffusione».

Volontariato in senso stretto e Terzo settore spesso vengono messi dentro lo stesso “calderone” dai media e dall’opinione pubblica. Secondo lei, qual è il ruolo, correttamente inteso, dell’uno e dell’altro? «All’interno del variegato mondo del Terzo settore, la legislazione italiana ha individuato varie forme organizzative. Disciplinato dalla Legge quadro n. 266/1991, che ne esalta le peculiarità quale attività prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, il volontariato è tra queste.

«Il 2011 sarà un anno all’insegna della comunicazione, perché mai come oggi è importante diffondere e promuovere la cultura del volontariato e valorizzarne i messaggi positivi. un anno all’insegna del dialogo e dello scambio: dialogo con e tra istituzioni e realtà del volontariato, scambio di esperienze positive e buone prassi» L’Anno europeo 2011 sarà un’occasione formidabile per far conoscere ai cittadini italiani ed europei la ricchezza del non profit italiano e, in particolare, la specificità delle piccole e grandi organizzazioni regolamentate da tale legge».

un popolo in crescita Secondo il rapporto Eurispes 2010 sono circa un milione e 100 mila le persone che oggi fanno volontariato in Italia. Più o meno lo stesso dato della rilevazione Feo-Fivol del 2006, che censiva un milione e 123 mila volontari per oltre 35 mila organizzazioni di volontariato. A questi numeri vanno aggiunti i quattro milioni di italiani che operano individualmente o in qualsiasi tipo di organizzazione e istituzione, in modo non continuativo. Un vero esercito che, se si considera l’Europa, arriva a contare più di 100 milioni di europei di tutte le età, convinzioni e nazionalità. In base alle ultime stime della Commissione europea, il settore rappresenta il 5% del Pil delle economie nazionali dell’Unione.

35mila

oltre

organizzazioni N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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volontariato ➤ Il 5 per mille, come ogni anno, sarà “concesso” nella Legge di stabilità (sperando, fra l’altro, che l’Esecutivo faccia un passo indietro sulla decisione di ridurre il tetto da 400 a 100 milioni). A quando la promulgazione di un provvedimento che lo stabilizzi? «Sicuramente c’è una volontà diffusa, direi “bipartisan”, di stabilizzare il 5 per mille, esempio emblematico dell’applicazione del principio di sussidiarietà - fiscale, in questo caso - sancito dalla nostra Costituzione. Trovo, tuttavia, molto realista il pen-

siero del ministro Sacconi quando, nell’agosto scorso, ha affermato che è indispensabile creare “buone regole”. A questo proposito, l’impegno congiunto della mia Direzione generale e dell’Agenzia delle Entrate ha stabilizzato modelli procedurali e amministrativi che già da tre anni consentono alle organizzazioni beneficiarie di ricevere regolarmente il contributo ancorché non relativo all’annualità in corso». È una volontà per adesso poco visibile, a giudicare anche dai tagli delle risorse destinate alle politiche sociali, di cui il non profit ormai è indiscusso protagonista. A motivo di questi tagli le associazioni e le cooperative che collaborano con il pubblico saranno coinvolte - e di fatto già lo sono - nella spirale delle gare di appalto al “massimo ribasso”. Come si può ovviare a questo problema? «È inevitabile che nel rapporto con la pubblica amministrazione il non profit risenta dei tagli e della contrazione di risorse che le istituzioni

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hanno subito a causa della crisi. Bisognerebbe ripartire da un rapporto più partecipativo, basato su patti di collaborazione tra istituzioni locali e organizzazioni, che superino questa competizione “falsata” delle gare al massimo ribasso. Si potrebbe anche introdurre nei bandi di appalto la valorizzazione del contributo umano, relazionale e sociale che le organizzazioni non profit possono offrire, predisponendo appositi indicatori. A questo proposito è preziosa l’indagine degli Osservatori nazionali - del Volontariato e dell’Associazionismo - sugli esempi positivi, per promuovere, disseminare e diffondere le buone prassi». Buone prassi la cui diffusione si può dire che rispecchi quella del tessuto produttivo: più fitta al Nord e meno concentrata al Sud. Su che cosa bisogna puntare per incentivare la crescita dell’associazionismo e della cittadinanza attiva anche dove hanno poca vitalità? «Credo che non basti “esportare” dal Nord al Sud i modelli e le esperienze positive: una vera crescita deve essere favorita e incentivata da un contesto politico e culturale adeguato. Punterei senz’altro sulla promozione della cittadinanza attiva e responsabile, specie tra i giovani, e sulla diffusione della cultura della sussidiarietà, valore e veicolo di crescita culturale, sociale ed economica». n



volontariato Cilla, Incontro e Presenza, Banco alimentare, Portofranco. Che cosa hanno in comune queste ed altre esperienze associative? Un metodo in base al quale, nell’occuparsi di un’esigenza specifica, ci si fa carico di tutta la persona

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el 2011 la legge quadro sul volontariato, la 266 del 1991, compirà vent’anni. Dal momento della sua promulgazione sono cambiate tante cose, a cominciare dal panorama complessivo delle associazioni italiane che si è arricchito enormemente. Molti degli organismi disciplinati dalla legge, a meno che siano scomparsi nel frattempo, si sono ingranditi e strutturati per rispondere con maggiore efficacia a quei bisogni che li avevano fatti sorgere all’inizio. Basti pensare all’associazione Cilla che trent’anni fa nacque per accogliere i malati e i loro congiunti,

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di Carmelo Greco

costretti a spostarsi dalle proprie città per essere curati in centri ospedalieri ad alta specializzazione. Oggi sono 25 le case in Italia e 450 i volontari. Nel 2009 sono state accolte più di diecimila persone e circa seimila sono passate da uno dei cinque sportelli informativi che si trovano all’interno delle strutture sanitarie. All’associazione è stata affiancata un’omonima fondazione per sostenerne le attività e gestire il patrimonio immobiliare costituito da alcune (non tutte) delle case di proprietà. Nonostante una tale complessità «non ci siamo ancora rassegnati a cambiare l’aspetto giuridico - afferma il direttore generale Claudio Sandrini -, perché riteniamo che il volontariato sia ancora il “vestito” migliore, quello che spiega meglio ciò che siamo». Sandrini non nasconde qualche aspetto lasciato irrisolto dalla normativa: «Siamo un’associazione nazionale, ma non esiste un albo nazionale del volontariato. Esistono solo quelli regionali. Sul territorio non sempre è facile far riconoscere le nostre sedi

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Amicizia, n o n assistenza

Nella foto piccola, la mostra su Cilla al Meeting di Rimini del 2005; a sinistra, la casa dell’associazione a Torino

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operative, perché ogni regione applica dei criteri di interpretazione differenti. L’unica soluzione sarebbe quella di creare un’associazione ad hoc in ciascuna regione, ma comporterebbe uno snaturamento della nostra identità, oltre che un eccessivo impegno burocratico e di gestione». Senza contare che a un ente non riconosciuto, sia pure la sede distaccata dalla casa madre, è preclusa la possibilità di attingere ai fondi gestiti dai Centri servizi per il volontariato. «Certo, spesso i nostri progetti sono troppo onerosi per essere finanziati dai Csv - aggiunge Sandrini -, ma i costi da coprire non riguardano soltanto la ristrutturazione o la costruzione di residenze con budget che, per edifici da 30 o 60 posti, possono variare dai 500 mila al milione di euro. Ci sono anche le bollette da pagare e le piccole spese ordinarie».

Condivisione e cultura

“Una condivisione che diviene cultura”. È que-


volontariato sto lo slogan dell’associazione Cilla, che si documenta, ad esempio, nel chiamare “case”, e non strutture ricettive, i luoghi in cui le persone trascorrono il periodo della malattia, quasi a voler ricostruire quell’ambiente familiare che si è stati costretti ad abbandonare. E non sempre per brevi intervalli. Talvolta per mesi se non addirittura anni, nel caso di particolari patologie che richiedono la prossimità del paziente ai luoghi di cura. Ma non basta usare la parola “casa” per trasformare quattro mura in un focolare domestico. «Noi offriamo ai nostri ospiti una semplice ma concreta compagnia umana» dice ancora Claudio Sandrini. Una compagnia che non si limita a trovare l’alloggio. Può capitare, ad esempio, che una famiglia sia obbligata a stare lontana dalla propria regione per seguire

«Noi offriamo ai nostri ospiti una semplice ma concreta compagnia umana» il figlio al Gaslini di Genova. Se uno dei genitori resta senza lavoro, diventano fondamentali i contatti con il Centro di solidarietà del posto. Alcune case di Cilla sono enti fruitori del Banco alimentare o collaborano con i Banchi di solidarietà per dare un sostegno sistematico alle famiglie più disagiate. Questo modo di procedere a raggiera, che parte cioè da un bisogno particolare per poi allargarsi alle varie esigenze che emergono nel rapporto con le persone, è testimoniato anche dall’esperienza di Incontro e Presenza. Fondata a Milano nel 1986 dall’allora consigliere comunale Mirella Bocchini, che tuttora la presiede, l’associazione è diretta al reinserimento lavorativo e sociale di detenuti ed ex detenuti di San Vittore, Monza, Opera, Bollate e del minorile Beccaria. «Il nostro metodo è già nel nome - chiarisce

➤ In alto, cena tra volontari e ospiti nella casa di Cilla a Bologna; sopra e a fianco, immagini della Casa circondariale di Bollate (entrambe di Stefania Malapelle) dove opera Incontro e Presenza

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volontariato

“I banchi”

➤ Emanuele Pedrolli, consigliere delegato dell’associazione -. Quello che ci interessa, nell’entrare in carcere, innanzitutto è un incontro, non tanto con il detenuto, ma anzitutto per noi come volontari. Non siamo mossi da forme di buonismo. Se l’incontro è vero, genera quasi sempre, inevitabilmente, una presenza che permane nel tempo. Può durare pochi istanti e non avere seguito, come avviene talvolta a San Vittore che, essendo una Casa circondariale, è soggetta a un elevato turnover dei reclusi. Ma può durare anche tutta la vita».

In principio fu il Banco alimentare. Approdato in Italia nel 1989, grazie all’incontro tra Danilo Fossati, fondatore della Star, e don Luigi Giussani, oggi la sua rete è presente in tutte le regioni. Una rete che si fonda sul lavoro di 86 dipendenti e l’impegno di 1.244 volontari stabili. Oltre al recupero di derrate dai circuiti della produzione, dell’industria e della grande distribuzione, raccoglie alimenti in occasione della Giornata nazionale della Colletta alimentare (vedi articolo a pag. 90). Nel 2009 un totale di 78.270 tonnellate di alimenti è stato distribuito gratuitamente a 7.711 associazioni ed enti caritativi che assistono circa 1.300.000 poveri ed emarginati. A imitazione del Banco Alimentare, nel 2000 è stato costituito il Banco farmaceutico che ogni anno organizza a febbraio la Giornata nazionale di Raccolta del farmaco. Nell’ultima, che ha coinvolto 3.048 farmacie, sono stati donati 351 mila farmaci, per un controvalore di 2.290.000 euro. I medicinali sono stati donati ai 1.312 enti convenzionati che danno assistenza quotidiana a oltre 420 mila persone indigenti. Nel 2003 un gruppo di dirigenti ha dato vita al Banco informatico e tecnologico, che poi è diventato anche biomedico. Il Biteb recupera apparecchiature hardware e dispositivi biomedicali per donarli a organizzazioni non profit in Italia e all’estero. Recentemente, dalla cooperazione con Techsoup Italia, partner italiano di Techsoup Global, e insieme ad aziende quali Microsoft, Cisco e Sap, è stato avviato un programma che permette alle associazioni di dotarsi quasi gratuitamente di software all’avanguardia. Ultimo nato, nel 2008, è stato il Banco building che ha lo scopo di raccogliere da un lato le richieste di opere di carità e missionarie, dall’altro di cercare aziende e privati disposti a donare materiale edile, arredamento e complementi d’arredo, prodotti tessili, giocattoli, cartoleria, mezzi di trasporto ecc.

L’umana dimora L’Umana Dimora, nata all’interno della Compagnia delle Opere, è un’associazione, con sedi in tutta Italia, di protezione ambientale riconosciuta ai sensi della legge 349 del 1986. Promuove lo studio dell’ambiente - attraverso attività, iniziative e progetti - in funzione di un uso ragionevole e razionale dell’agricoltura, delle forme di allevamento, agriturismo, pianificazione del territorio. L’associazione si distingue, nel panorama della cultura ambientalista, per la centralità data alla presenza dell’uomo nella natura. La passione e l’attenzione per la tutela delle risorse naturali, per l’educazione dei giovani al rispetto dell’ecosistema e per la promozione di uno sviluppo sostenibile, nascono dalla consapevolezza che la terra è la casa dell’uomo, l’umana dimora, appunto.

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In questa e nelle pagine successive, foto scattate a San Vittore per la mostra “Libertà va cercando ch’è sì cara. Vigilando redimere” realizzata al Meeting del 2008

Non solo cibo e vestiti

Le stesse iniziative promosse dall’associazione sono dettate dagli “incontri” con la popolazione carceraria. Iniziative come il progetto “Dignità” che ha lo scopo di far fronte alle ristrettezze economiche di moltissimi detenuti, ex detenuti e loro familiari, con una distribuzione di vestiario usato, articoli igienici e biancheria intima nuova. Il progetto, oggi parte integrante dei servizi socio sa-



volontariato

Portofranco Portofranco è un centro di aiuto allo studio rivolto agli studenti delle scuole medie superiori che vengono accompagnati nello svolgimento dei compiti, nel recupero dei debiti formativi e delle conoscenze disciplinari. Nasce a Milano nel novembre 2000 da un gruppo di insegnanti che decidono di rispondere in prima persona al problema dell’insuccesso scolastico di molti loro alunni. Attorno a questo primo nucleo, nel corso degli anni si sono aggregati ulteriori docenti, studenti universitari, pensionati e tanti altri spinti da una comune passione educativa. Il numero dei ragazzi che frequentano il doposcuola è passato dai 130 iscritti del 2000 ai 1.200 del 2008. Anche le istituzioni pubbliche hanno riconosciuto l’utilità sociale di Portofranco: nel 2004 è stato riconosciuto come Centro di aggregazione giovanile dal Comune di Milano; dal febbraio 2005 è stato iscritto al registro regionale delle associazioni di solidarietà familiare; dal febbraio 2006 è stato inserito nel Registro regionale generale del volontariato acquisendo la qualifica di onlus; sempre nel 2006 ha ottenuto l’accreditamento dalla Regione Lombardia e il riconoscimento di operatore per la fornitura di servizi formativo-orientativi.

➤ nitari di San Vittore, è organizzato da un gruppo di volontari che recuperano il materiale stoccandolo e selezionandolo in un piccolo magazzino nel Comune di Bresso. In un anno vengono consegnati all’incirca 30 mila capi. Oltre che con la fornitura di abbigliamento, l’associazione sostiene, in alcuni casi, i familiari dei carcerati intervenendo in situazioni di solitudine, disperazione e grave indigenza. Ad esempio, i progetti “Famiglia e popolo” ed “Esistere”, realizzati anche grazie al Banco alimentare, permettono

una regolare fornitura di prodotti di prima necessità. Alla Colletta alimentare (vedi articolo successivo) del 27 novembre hanno aderito anche i detenuti di Opera, Monza e San Vittore, riempiendo un totale di 150 scatoloni. Pettorina gialla e tanto entusiasmo, con un volontario d’eccezione come Franco Baresi, i carcerati hanno fatto la spesa ordinando una settimana prima i generi alimentari tramite il sopravitto, la modalità utilizzata in prigione da chi

famiglie per l’accoglienza e associazione fraternità Non solo aiuto a persone malate e ai loro congiunti, assistenza ai carcerati e agli indigenti, accompagnamento nello studio, tutela dell’ambiente. Anche l’ospitalità a minori e persone in difficoltà è un’altra delle esperienze a cui si è dato forma per rispondere a determinati bisogni. È il caso di Famiglie per l’accoglienza, associazione di promozione sociale nata a Milano nel 1982 da nuclei familiari che avevano aperto la loro casa, temporaneamente o definitivamente, a una o più persone. Attualmente ne fanno parte 3.900 famiglie, per un totale di quasi ottomila soci affiliati, che si occupano di affidamento, adozione, ospitalità di adulti in difficoltà, accoglienza di anziani

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e di figli disabili. Una mission analoga è quella dell’Associazione Fraternità di Crema che si propone di rispondere - attraverso l’accoglienza, il collocamento e l’affido - ai problemi dell’abbandono e del disagio psico-sociale di minori, giovani e madri nubili. La sua attività comprende l’accoglienza nelle Comunità Alloggio Familiare e nelle singole famiglie associate (Case Famiglia) nonché la promozione di un rapporto continuativo con le famiglie d’origine in collaborazione con i servizi sociali. Dall’84, anno della fondazione, a oggi i minori ospitati sono stati oltre 600.


volontariato può permettersi l’acquisto di provviste in aggiunta a quelle fornite dall’amministrazione penitenziaria. Incontro e Presenza gestisce anche alcuni appartamenti che mette a disposizione di ex detenuti o detenuti in permesso premio. «Recentemente - racconta Pedrolli - ci è capitato di ospitare un intero nucleo familiare, nonni compresi, che venivano a visitare il loro congiunto che usciva per la prima volta dopo venti anni di carcere. Deve essere chiaro, però, che noi non offriamo servizi. Ci interessa proprio il rapporto. È come quando un amico si ritrova disoccupato. Fai di tutto per aiutarlo e ti muovi anche per cercargli lavoro. Perché le persone che incontri in carcere diventano talvolta degli amici». Come è avvenuto con Karina, moglie di un detenuto di Bollate. Prima la si è andata a trovare per portarle il “pacco” del Banco di solidarietà e poi sono stati mobilitati amici e conoscenti che vivono nella sua zona. Con alcuni di loro è andata in vacanza, mentre il figlio si è iscritto al coro della parrocchia. Oggi Karina fa la volontaria a Portofranco, il centro milanese di aiuto allo studio rivolto a ragazzi delle superiori. Al marito è come se fossero stati condonati dieci anni di galera: sapere che la moglie fuori non era da sola, l’ha fatto ringiovanire. Per un amico, questo e altro. n


volontariato

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di Francesca Glanzer

Un gesto di carità che apre il

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ngelo e Mihao sono due ragazzi cinesi che vivono a Prato da più di dieci anni, Amira è musulmana e da due anni partecipa alla Colletta, Rosario, Francesco, Sergio e Fabiano sono quattro detenuti, Emanuela è una veterana che partecipa all’evento da 14 anni, Roberto è un pensionato, Barbara è una ragazzina di soli 12 anni ma con tanta voglia di fare, Cristina è una maestra, Alberto è un imprenditore. Sono i mille volti della Colletta. Un fenomeno che travalica i confini nazionali, che supera le diversità di pelle, lingua e religione, che colpisce i giovani come gli anziani. Che “contagia” e cresce di anno in anno. E l’edizione del 2010 è da considerarsi da record, visti i numeri e la quantità di cibo che sono stati raggiunti. Sono oltre 8000 i supermercati che sono stati coinvolti, sparsi su tutto il territorio nazionale, più di 110.000 i volontari che hanno prestato il loro aiuto nella giornata di sabato 27 novembre, 9.400 le tonnellate di prodotti alimentari che sono state raccolte, con una crescita del 9% rispetto all’edizione del 2009. Il cibo raccolto sarà distribuito alle oltre 8.000 strutture caritative convenzionate con la Rete Banco alimentare che assistono un milione e mezzo di persone ogni giorno. Monsignor Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco alimentare, contento dei risultati raggiunti e fortemente colpito dalla crescente partecipazione di persone diverse per età, estrazione

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cuore di tutti COS ’È IL BANCO ALIMENTARE

A novembre si è tenuta la XIV edizione della Colletta alimentare con grandi risultati rispetto al 2009

La Fondazione Banco alimentare nasce a Milano nel 1989 per iniziativa di don Giussani e di Danilo Fossati, all’epoca patron dell’azienda alimentare Star, ed è presieduta da don Mauro Inzoli. È una onlus a carattere nazionale che si occupa della raccolta e della distribuzione da enti pubblici e privati delle eccedenze alimentari. Tali eccedenze vengono affidate agli enti caritativi sparsi sul territorio che supportano un’attività assistenziale verso le persone più indigenti che, secondo le statistiche del 2009, hanno raggiunto solo in Italia quasi gli otto milioni di unità. Basata sul concetto di dono e condivisione, l’attività del Banco alimentare - di cui esistono esperienze analoghe in Francia, Portogallo, Polonia, Belgio, Ungheria, Lussemburgo, Spagna, Lettonia, Grecia, Svizzera, Ucraina e Irlanda e anche negli Stati Uniti, in Canada, Brasile, Argentina, Cile e Paraguay - si estrinseca nella raccolta delle eccedenze di produzione alimentare agricola e industriale (preferibilmente e prevalentemente riso, pasta, olio d’oliva e latte). Tali eccedenze vengono poi redistribuite agli enti caritativi, associazioni di recupero dalle tossicodipendenze, famiglie bisognose e persone in difficoltà. Tra le iniziative più importanti della Fondazione bisogna annoverare la Colletta alimentare, un gesto che da 14 anni coinvolge volontari e cittadini nell’aiuto ai più bisognosi. Sul sito www.bancoalimentare.it è possibile trovare le testimonianze e i racconti di chi ha partecipato all’edizione 2010.


volontariato e provenienza ha dichiarato: «Siamo cambiati noi. La Colletta è la stessa, ma noi no. Abbiamo partecipato, commossi, allo spettacolo della condivisione gratuita del destino dei nostri fratelli uomini. Il cuore di milioni di persone, piccoli e grandi, lavoratori e pensionati, imprenditori e carcerati - molti dei quali provati dalla crisi economica e da calamità naturali - è stato mosso dalla carità a una nuova responsabilità personale e sociale, desiderosa di costruire un bene per tutti». La Colletta si è dimostrata, quindi, anche in un anno di forte crisi economica, in cui molte famiglie sono state duramente colpite e hanno contratto le spese, un appuntamento capace di aprire i cuori e mettere in primo piano la carità. Un appuntamento annuale che si affianca all’attività quotidiana del Banco alimentare nel recupero delle eccedenze alimentari da destinare ai più poveri del nostro Paese. Un evento che dal 1997 è diventato un momento importante che coinvolge e sensibilizza la società civile al problema della povertà. Durante la giornata della Colletta alimentare, infatti, ciascuno può donare parte della propria spesa per rispondere al bisogno di quanti vivono nella povertà. «Il povero è un uomo solo - dice don

Mauro Inzoli - condividere gratuitamente questo dramma risveglia il vero desiderio che è nel cuore di ciascuno: essere amato».

La colletta in carcere

E a questo desiderio hanno risposto in molti e in molti hanno voluto lasciare la loro testimonianza per raccontare come una giornata normale può trasformarsi in una giornata speciale. «Potrà sembrare strano che dei detenuti come noi - raccontano Sergio, Francesco, Rosario e Fabiano - abbiano scelto di partecipare alla Colletta alimentare. Abbiamo deciso di fare la nostra parte raccogliendo dei generi di prima necessità nello spaccio del carcere per donarli alle persone che si trovano in libertà e sono in una situazione di indigenza. Un’iniziativa in qualche modo originale, se si pensa che una cella non è certo un luogo confortevole e che non navighiamo nell’oro. Partecipare alla Colletta è per noi un modo di renderci partecipi della povertà di altre persone». A sostenere l’evento oltre all’esercito, che ha messo a disposizione i mezzi per il trasporto nei magazzini del Banco degli alimenti raccolti nei supermercati, sono scesi in campo il ministero del Lavoro, aziende come le Poste che hanno fornito i mezzi di trasporto, le Ferrovie dello Stato, che con i loro Help center all’interno delle stazioni effettuano ogni anno 136.000 interventi assistendo 13.500 persone, e Comieco che ha fornito i cartoni per la raccolta degli alimenti. E come dice Emanuela, una volontaria che opera nell’hinterland milanese, «Gesù si è fatto presente carnalmente più che mai con tutti questi volti che mi chiamano a starci fino in fondo. Non è spettacolare?». n

John Elkann (secondo da sinistra), insieme alla moglie Lavinia e ai due figli, Leone e Oceano, ha partecipato alla Colletta alimentare facendo la spesa nel centro di eccellenze alimentari di Eataly al Lingotto. Il presidente della Fiat è stato accompagnato da don Mauro Inzoli (primo da sinistra), presidente della Fondazione Banco alimentare

Immagini dell’ultima edizione della Colletta alimentare che, nonostante la crisi, anche quest’anno è stata un grande successo

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d i D a r i o Va s c e l l a r o

a Fondazione per il Sud è un soggetto privato nato il 22 novembre 2006 dall’alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo settore e del volontariato per promuovere l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno. La Fondazione si propone di promuovere e potenziare le strutture immateriali per lo sviluppo sociale, civile ed economico del Meridione, in particolare Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia, attuando forme di collaborazione e di sinergia con le diverse espressioni delle realtà locali, in un contesto di sussidiarietà e di responsabilità sociale. Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione, è dunque la persona giusta per riflettere sulle condizioni del nostro Mezzogiorno e sul ruolo che il non profit può giocare per il rilancio di questa parte del Paese. Se dovesse sintetizzare in poche parole lo stato odierno del Mezzogiorno d’Italia, cosa direbbe? «Direi cose ovvie: cioè che la crisi, nonostante una visione un po’ estemporanea, secondo cui il Sud sarebbe più capace di “arrangiarsi”, ha duramente colpito un sistema produttivo insufficiente con grandi aree di fragilità; che ha aumentato il ricorso al lavoro nero; che ha sguarnito molte fasce di popolazione di servizi sociali essenziali. Ma direi anche che le vere, grandi questioni del nostro Sud, sono più lunghe della crisi: il capitale umano che si indebolisce; la pubblica amministrazione molto debole; una presenza di economia sommersa patologicamente estesa; zone fortemente oppresse dalla criminalità e anche la mancanza di un progetto politico e culturale che immagini un possibile riscatto. Lavorare sulle eccellenze e sulle cose che vanno è importantissimo, ma non basta. Come pure non è del tutto giusto pensare che molte aree del Sud possano emanciparsi e quindi lavorare su quelle. Intere aree metropolitane e parti significative di regioni condizionano l’intera aerea e, forse, l’intero Paese. Io penso che bisogna fare due cose fon-

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Risorsa per crescere

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È questo che, secondo Carlo Borgomeo, pres i d e nte della Fondazione per il Sud, può rappres e n t are il non profit per rilanciare lo sviluppo so c i a l e , civile ed economico del nostro Mezzogiorn o damentali: smetterla con il ping-pong delle responsabilità, che accentua solo una pericolosa spaccatura Nord- Sud, il cui esito è ovviamente a danno del Sud, e impostare le politiche locali e nazionali concentrandosi su meccanismi che premino le responsabilità locali e sviluppino la coesione sociale che, ormai è noto a tutti, salvo a chi disegna le politiche, non è una conseguenza, ma una premessa dello sviluppo». La Fondazione per il Sud è un’iniziativa unica: la prima per il Mezzogiorno realizzata con capitali interamente privati. È il segnale di un privato sociale che non sfugge le responsabilità e, soprattutto, non delega interamente allo Stato la soluzione della questione meridionale. Anzi si mette pienamente in gioco, dando un vero esempio di mutualismo tra soggetti diversi. Dalle prime esperienze avute in questi anni, come giudica l’operato della Fondazione e la risposta della società meridionale all’iniziativa? Tra i 124 progetti finora realizzati, quali sono quelli di cui va maggiormente fiero?

Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione per il Sud, nata quale frutto principale di un protocollo d’intesa per la realizzazione di un piano di infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno firmato nel 2005 dal Forum del Terzo settore e dall’Acri, in rappresentanza delle fondazioni di origine bancaria


sud «La Fondazione ha un bacino di riferimento di circa 18 milioni di persone e deve colmare il noto divario tra risorse delle Fondazioni bancarie fortemente concentrate nel Centro-Nord. La visibilità della Fondazione è in crescita sui territori, ma è certamente ancora insufficiente. I progetti che approviamo sono definiti “esemplari” proprio perché abbiamo l’ambizione che essi costituiscano un punto di riferimento per altre esperienze. Difficile scegliere tra i progetti: alcuni si segnalano per la capacità di aver realizzato momenti forti di coesione sul territorio, altri per gli effetti sul lavoro, altri ancora perché

mo». Fino a qualche tempo fa, nelle regioni meridionali si poteva notare un minor radicamento territoriale delle organizzazioni del volontariato e della cooperazione sociale. La situazione sta cambiando? «Sì. Si rafforza la cooperazione sociale e si rafforza, anche quantitativamente, il volontariato. È una gran bella notizia». In attesa di un federalismo solidale che dovrebbe favorire una volta per tutte il ricambio della classe dirigente del Sud d’Italia, nella parte più ricca ed efficiente del Paese

«penso che bisogna fare due cose fondamentali: smetterla con il ping-pong delle responsabilità che accentua solo una pericolosa spaccatura Nord-Sud, il cui esito è ovviamente a danno del Sud; e impostare le politiche locali e nazionali concentrandosi su meccanismi che premino le responsabilità locali e sviluppino la coesione sociale» hanno consentito di mettere a frutto beni collettivi. Fare graduatorie sarebbe, da parte mia, inopportuno». La Fondazione per il Sud sostiene e incoraggia la creazione di “fondazioni di comunità” nelle regioni del Sud Italia, cioè enti non profit che, graz ie alla capacità di raccolta delle risorse e il loro impiego a fini sociali sul territorio di riferimento, rappresentano uno straordinario strumento di sussidiarietà. Ci sono state risposte significative in tal senso? Crede che il tessuto economico meridionale consenta la creazione di tali enti? «Ne abbiamo avviate tre a Salerno, Napoli, Messina. È costituito il Comitato promotore a Crotone; vi sono gruppi ben avviati nella Locride e a Caserta. Si tratta di una sfida importantissima per il Sud; sfida importantissima e difficile. Non tanto perché il Sud è più povero, ma perché la prassi e la cultura del dono, già abbastanza deboli nell’intero Paese, sono più difficili in un’area educata ad aspettare che i soldi vengano dati dallo Stato e a pensare che lo sviluppo arrivi da “altrove”. Ma ce la fare-

si avverte un senso di fastidio sulla questione meridionale. «Certamente sì. Si tratta di abituarci a pensare - e a operare concretamente in tale direzione - che accanto al pubblico, e al privato, c’è un enorme spazio, inesplorato, di privato-sociale. Sarà dura, ma gli esempi si moltiplicano, anche se vi sono importanti questioni per le quali siamo all’anno zero, come quella dei servizi pubblici locali». Il Nord ha ancora voglia di aiutare il Sud? «Penso di no, almeno secondo gli schemi tradizionali. La vera novità è il livello di contrapposizione, mai così radicato: metà del Paese pensa che i soldi destinati al Sud siano buttati via; l’altra metà che siano troppo pochi. Così non si va da nessuna parte. E il pallino sta ai meridionali che devono

Un cartello “ricorda” la Cassa per il Mezzogiorno che, creata ai tempi del Governo De Gasperi, partorita dalla fervida mente del meridionalista Pasquale Saraceno, operò dal 1951 al 1992, finanziando complessivamente opere per circa 140 miliardi di euro

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sud ➤ La Fondazione per il Sud vuole superare la storica arretratezza del Meridione non intervenendo direttamente sui bisogni immediati, ma stimolando le energie del territorio a produrre risposte alle esigenze locali, promuovendo la crescita delle reti di solidarietà, sostenendo idee e progetti esemplari capaci di favorire lo sviluppo locale

spezzare questo schema, senza perdere tempo a schierarsi su colpe e inadempienze, che pure ci sono, ma impegnandosi in una gigantesca opera di assunzione di responsabilità». A proposito di federalismo, la riforma dello Stato voluta dalla Lega e sostenuta dal Governo, al Sud è percepita con una forte vena di mancanza di solidarietà. Lei cosa ne pensa? Il ridisegno federalista dello Stato può essere un’opportunità anche per rilanciare il non profit al Sud? «Sì, ma penso anche che per adesso sul federalismo c’è solo un agitarsi di bandiere, di proclami, di ideologismi: esattamente il contrario di quello che serve per ragionarne seriamente». n

l’esperienza del rione sanità di napoli A dimostrazione di quanto, come dice il presidente Borgomeo nell’intervista pubblicata nelle pagine precedenti, il non profit possa fare per il nostro Sud, incidendo nella reale vita delle popolazioni meridonali, sta l’esperienza del rione Sanità di Napoli, uno dei quartieri più poveri di Napoli. In quella realtà difficile un Centro di solidarietà, prima, e una cooperativa, poi, hanno ridato speranza e prospettive di un futuro migliore ai giovani del quartiere.

Il Centro Il Centro di solidarietà del rione Sanità nasce nel 1992. Oltre a uno studentato, alla sede del Banco alimentare, a un Centro sociale - La casa delle famiglie - a un consultorio, organizza un doposcuola. Nato quasi per caso per la richiesta della direttrice della scuola di un ragazzino che, dopo alcuni tentativi di recupero andati a vuoto e non sapendo più che cosa fare, lo affidò al Centro, aiuta oggi una quarantina di ragazzi e ragazze del rione, di età dai sei ai diciassette anni. I ragazzi non sono aiutati solo nello studio, ma anche nelle attività ludiche, nell’imparare

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l’italiano - alcuni parlano solo in dialetto - nell’imparare a giudicare, evitando di essere coinvolti in episodi di microdelinquenza. Collegata al centro è la Fondazione Romano Guardini, che opera nel Vomero, uno dei quartieri più ricchi della città. Gestisce scuole dall’asilo al liceo, e sostiene molti ragazzi del Centro provenienti da situazioni povere. Un pomeriggio la settimana i ragazzi del doposcuola del rione Sanità si recano nella sede dell’Istituto Sacro Cuore, gestito dalla Fondazione, e possono usufruire dei servizi educativi, sportivi e culturali offerti dalla scuola con grande giovamento per la loro formazione ed educazione. La cooperativa Nell’edizione 2005 del Meeting per l’amicizia fra i popoli, era presente a Rimini tra gli stand delle opere di carità una mostra che documentava, con foto, testimonianze e filmati, la presenza del Centro di solidarietà di Napoli. Tra i numerosi visitatori la cooperativa ha potuto conoscere Giuseppe Angelico, amministratore delegato della Ceccato spa di Milano con il quale sono nate una simpatia e una amicizia che hanno poi portato alla nascita del progetto. Angelico e la moglie Rosa, alcuni mesi dopo, si sono recati a Napoli per vedere di persona l’opera educativa che l’aveva così tanto colpito e il contesto in cui agiva. Da questa amicizia è nata l’idea di costituire un’impresa con denominazione Cooperativa Rione Sanità - Cds Napoli. La cooperativa Rionesanità nasce, così, da un’idea imprenditoriale che ha lo scopo di valorizzare, attraverso la promozione del proprio marchio, tutte le attività artigianali e turistiche, che sono proprie di Napoli e in particolare del quartiere Sanità. I settori di attività già operativi sono: artigianato , sartoria, servizi turistici, servizi per la ristorazione. L’impresa accoglie ragazzi desiderosi di competenze, abilità e soprattutto passione per il lavoro. In questa ottica la cooperativa, devolvendo il 50% dei suoi utili, collabora con il Centro di solidarietà.



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ulla “questione meridionale” si sono versati fiumi d’inchiostro, senza che il gap tra il Nord e il Sud del Paese si riducesse. Negli ultimi anni, semmai, la separazione tra la parte ricca e sviluppata del nostro Paese e il Meridione tende ad accentuarsi. Se le varie ricette economiche hanno fin qui fallito, la speranza per il nostro Mezzogiorno forse risiede in coloro i quali hanno preso l’impegno di “costruire luoghi per ricostruire il Sud”. In un tessuto sociale disgregato e carico di secolari arretratezze, infatti, molti meridionali hanno il coraggio di rimboccarsi le maniche e, senza pietire contributi statali, costruiscono opere che vanno incontro al bisogno della collettività. In questo articolo vi raccontiamo due storie di opere che incidono nella realtà e che sono da esempio per tutti coloro i quali credono che vi sia una speranza di riscatto per il Sud.

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Costruire luoghi per ricostrui l’associazione servizio e promozione umana

Una di queste opere è “Servizio e Promozione Umana”, nata come associazione di volontariato nel 1985. Ne facevano parte ragazzi appartenenti a diverse realtà ecclesiali e parrocchie del territorio di Alcamo, impegnati in attività caritative con minori a rischio, anziani e handicappati. Si organizzavano momenti ricreativi e di doposcuola per i giovani, mentre si aiutavano anziani e handicappati nelle incombenze domestiche e nelle necessità contingenti. Si era pure dato vita a un campo estivo, a cui partecipavano handicappati fisici e mentali e minori a rischio, tutti assieme, ogni pomeriggio al mare a condividere giochi e bagni. Il tutto fatto esclusivamente per volontariato, con qualche raro contributo comunale per le gite fuori porta. Alla fine degli anni 80 lo stato di abbandono degli anziani era un problema molto concreto, drammaticamente sentito da amministrazione locale e Chiesa, costretti a un turn over continuo per

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re la società d i D a r i o Va s c e l l a r o

tenere testa a tutte le richieste di aiuto che piovevano da ogni parte. L’associazione fu invitata a una riunione in cui i sacerdoti alcamesi chiedevano esplicitamente ai laici di fare qualcosa per cercare di risolvere, o quanto meno tamponare, il dilagare della solitudine della terza età. Il rappresentante dell’associazione presente a quella assemblea diede subito la disponibilità a nome dell’ente. Ma fu subito chiaro che né la Chiesa né le amministrazioni avrebbero sostenuto, per mancanza di fondi, coloro che si sarebbero fatti carico della patata bollente. Ai membri dell’associazione fu subito chiaro che, qualora si fosse deciso di rispondere di sì alla proposta che arrivava dai parroci, non si sarebbe più potuto agire da semplici volontari: occorreva che la loro risposta divenisse luogo in cui impegnare la vita, un lavoro. Erano tutti molto giovani, alcuni avevano appena trovato lavoro, altri lavoravano da un po’, qualcuno era invece disoccupato. L’intera comunità alcamese diede la sua disponibilità a sostenere l’associazione in tutti i modi e un piccolo gruppo di persone diedero la disponi-

bilità a fare di questa avventura il proprio lavoro. Venne trovato un locale che aveva già ospitato una casa di riposo e fu preso in affitto. Le risorse erano praticamente inesistenti e così l’intera comunità approntò capitali monetari e umani per l’inizio: chi già lavorava prestò soldi per l’affitto e per l’arredo, altri misero a disposizione le loro professionalità e così muratori, elettricisti, tubisti, imbianchini, tutti lavorarono gratuitamente per realizzare quella che da tutti era concepita come un’opera di tutti, un’opera comune. Venne inaugurata la prima Comunità alloggio (Agape) nel maggio del 1990, con una sola anziana e tanta voglia di servire e di imparare. La prima ospite insegnò agli inesperti responsabili della Comunità alloggio a fare il proprio mestiere, con una pazienza da vecchia saggia, guidandoli alle sue necessità. «Capimmo subito che occorreva imparare un metodo per fare bene il nostro lavoro - ricorda Liborio Evola, presidente dell’associazione -: prendemmo contatto con case di riposo nate dall’esperienza del nostro movimento in giro per l’Italia e alcuni di noi si recarono in una di queste per imparare direttamente in loco. Imparavamo un mestiere, ma anche una capacità di guardare all’altro, di accogliere l’altro in tutti i suoi bisogni, non solo in quello contingente della malattia o dell’età. Il metodo non era diverso da quello che noi stessi avevamo vissuto sulla nostra pelle, lo sguardo che noi avevamo sentito sulla nostra umanità nell’incontro con Cristo dentro il movimento, era lo stesso che, adesso, potevamo offrire ai nostri ospiti: uno sguardo appassionato all’umanità dell’altro, che non fa fuori nulla dell’altro e lo accoglie interamente senza censurare nulla». La prima ospite rimase da sola per pochissimo tempo, nel giro di qualche mese iniziarono ad arrivare sempre più richieste. Per scelta l’associazione aveva deciso di non pubblicizzare la Comunità alloggio, ma di voce in voce crebbe la il buon nome della struttura, tanto che le richieste crebbero al punto da non potere ospitare tutti coloro che chiedevano di entrare. Insieme alle richieste dei privati iniziarono ad arrivare le segnalazioni da parte dei servizi sociali del Comune di Alcamo e da parte delle parrocchie (alcune delle quali si fecero carico delle rette di ricovero di alcuni anziani completamente soli e con difficoltà socio economiche insostenibili). Nel 1991 i membri dell’associazione decisero di prendere in affitto anche il secondo piano della struttura che li ospitava, per aprire una seconda Comunità e far fronte alla crescente domanda. A ruota nacquero

Ad Alcamo c’è una realtà che è punto di curiosità e stupore per tutto il territorio: una struttura in cui convivono una Comunità alloggio per adulti inabili e una Casa di riposo per anziani, gestite dall’associazione Servizio e Promozione Umana nata nel 1985 da un gruppo di amici che condividevano l’esperienza della caritativa con disabili e minori a rischio di devianza (in queste pagine e in quella successiva, alcune immagini di Servizio e Promozione Umana e della struttura gestita dall’associazione)

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sud ➤ le Comunità “Cilla”, “Arcobaleno” e “Arca”: nel 1994 l’associazione aveva già preso in affitto tutti i quattro piani dello stabile, aveva 14 dipendenti e le richieste continuavano a giungere da ogni dove. «Sin dall’inizio - racconta Evola - abbiamo deciso di non escludere talune patologie, di accogliere tutti, proprio per non tradire l’origine della nostra opera, ma man mano che accoglievamo nuovi anziani ci accorgevamo che occorreva che la nostra professionalità fosse adeguata alle richieste contingenti, a patologie di cui non sapevamo neppure l’esistenza. E poi sono arrivati i primi adulti inabili psichici ed è divenuto evidente che non bastava più la nostra capacità di accoglienza, ma che il nostro sguardo per accogliere veramente occorreva che divenisse anche competente. Ci siamo rimessi a studiare, fatto corsi universitari e corsi di specializzazione professionale e ampliato il nostro servizio a quelle figure che avrebbero potuto aiutarci a rendere più competente e completo il nostro lavoro. In questo ci ha aiutato anche il fatto di essere “in rete” con realtà della Cdo simili alla nostra e, soprattutto, la Scuola per Opere di carità che è uno strumento fondamentale. Dalla Cdo riceviamo compagnia e accompagnamento». «Nel 1997 - continua Liborio - l’associazione è diventata una onlus e abbiamo iniziato a pensare a una stabilità per noi e per la gente che a poco a poco si era aggiunta a quel piccolo nucleo iniziale. Abbiamo iniziato a investire i nostri utili acquistando un terreno alla periferia di Alcamo, su cui abbiamo deciso di costruire una struttura nostra, adeguata alle necessità dei nostri ospiti. Non abbiamo fatto progetti per accaparrarci fondi pubblici, abbiamo puntato esclusivamente sulle nostre forze. Abbiamo utilizzato il nostro tempo libero per collaborare con i carpentieri e i vari professionisti che hanno messo su la struttura, in modo da risparmiare un po’ sulla mano d’opera, ricordandoci di come abbiamo iniziato. Alla fine del 2006 ci siamo trasferiti nella struttura di nostra proprietà: quattro piani residenziali (di cui tre occupati dalla Casa di Riposo “Sacchini”, per 36 ospiti, e uno occupato dalla Comunità per inabili psichici “Agape”, per 10 ospiti), un seminterrato per attività ludico-ricreative e per il magazzino e una terrazza semicoperta adibita a lavanderia-stireria. Nella struttura sono presenti anche una infermeria, una piccola palestra e un centro di fisioterapia, nonché gli uffici dell’associazione. Alla fine del 2008 ci si è accorti che il territorio, con le sue Agenzie, ci chiedeva sempre

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più posti per inabili psichici (alcuni dei quali, per ora, ospitati - su indicazione dei servizi sociali del Comune - nella Casa di riposo): si è iniziato a cercare di capire in quale modo potere rispondere a tale crescente domanda. Si è presa in affitto una villetta limitrofa alla struttura, la si è adeguata agli standard normativi e, dopo aver ottenuto tutte le autorizzazioni del caso, la si è inaugurata nel novembre del 2009». A oggi, quindi, la piccola iniziativa di un gruppo di amici che ha risposto - e continua a rispondere - alle sollecitazioni della realtà, conta una struttura valutata due milioni e mezzo di euro, in cui sono ospitati 36 anziani (di cui 20 in convenzione con il Comune di Alcamo e uno con contribuzione del Comune di Roma) e 10 inabili (tutti convenzionati con il Comune di Alcamo), una casa in affitto con disponibilità di 10 posti per inabili, 30 dipendenti - di cui due amministrativi - e in cantiere alcuni progetti per la nascita di una nuova Comunità di proprietà per inabili, in cui svolgere attività di terapia occupazionale volte a rendere economicamente autosufficienti struttura e ospiti. Per tutti i membri dell’associazione è chiaro l’inizio: l’incontro con una compagnia affascinante e intuita subito per la vita, il cominciare a guardare a se stessi con l’incapacità di accontentarsi, l’urgenza del lavoro che si china a guardare alla realtà per partire da essa, l’obbedienza a circostanze che chiedono soltanto il sì dell’io, la condivisione con una intera comunità che mette a disposizione capitali e professionalità. Per Liborio «tutto si gioca in quel sì detto all’inizio, quello stesso sì che si ripete ogni giorno e che permette di continuare a dire io nel rapporto con i colleghi, gli ospiti, le persone che si incontrano quotidianamente». L’associazione è diventata anche il luogo in cui si incontrano, informalmente, domanda e offerta di lavoro anche esterne alla struttura, il luogo in cui 70 famiglie ricevono assistenza tramite Banco di



sud solidarietà. Si ha l’impressione che quella possibilità di guardare così come loro erano stati guardati si stia allargando a macchia d’olio su tutta intera la realtà alcamese.

La cooperativa parsifal

Parsifal non era il cavaliere più prestigioso della Tavola Rotonda, anzi era il meno dotato fra tutti. Eppure egli, diversamente dagli altri, accetta di giocare tutta la sua vita nella ricerca del Sacro Graal: diventerà così il simbolo dell’uomo vero, dove vero non significa capace di coerenza personale, ma disposto a riconoscere che la sua vita appartiene ad un Altro, respira ed è vive di un Altro. A questo personaggio e alla canzone di Claudio Chieffo hanno attinto per darle un nome i fonda-

La cooperativa Parsifal nasce dal desiderio di un gruppo di giovani di condividere la passione per l’educazione. Gestisce, presso i propri centri recupero e sostegno scolastico, laboratori ludicoricreativi, laboratori storico-culturali e laboratori “degli interessi”, volti a valorizzare gli interessi dei ragazzi (in questa pagina e nella successiva, alcuni momenti delle attività della cooperativa)

tori della cooperativa sociale Parsifal di Palermo. I componenti della cooperativa avevano già avviato, dal 1998, delle collaborazioni con i servizi sociali della città di Palermo e con l’associazione Edimar di Padova, per l’accoglienza di aolescenti sottoposti a provvedimenti giudiziari che prevedevano il temporaneo allontanamento dai nuclei familiari di origine. Da quella primigenia esperienza è nata l’idea di rendere l’attività caritativa un lavoro vero e proprio diventando imprenditori del sociale in una città dove regna il mito del “posto fisso”. La cooperativa, costituitasi nell’aprile 2001, nasce dal desiderio di un gruppo di amici di condividere la passione per l’educazione, passione nata da esperienze di volontariato svolte durante il periodo universitario in vari quartieri a rischio della città di Palermo realizzando laboratori di recupero scolastico, animazione ricreativa e sportiva (gite, tornei sportivi, feste di quartiere).

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Attualmente i soci della cooperativa sono nove, di cui sei insegnanti abilitate, una psicologa, un architetto e un ragioniere. La cooperativa opera all’interno dei quartieri San Filippo Neri (ex Zen) e Zisa di Palermo, grazie alla collaborazione di parrocchie, scuole e associazioni del territorio, che le consentono l’utilizzo degli spazi necessari allo svolgimento delle attività. Parsifal svolge servizio di sostegno scolastico rivolto a ragazzi della scuola media ed elementare anche diversamente abili, laboratorio di sostegno e recupero scolastico rivolto a ragazzi delle scuole medie ed elementari del quartiere Zisa di Palermo, laboratorio di sostegno e recupero scolastico rivolto a ragazzi di scuole elementari, medie e superiori del quartiere San Filippo neri (ex Zen). In quartieri dove le percentuali di dispersioni scolastica sono ancora alte e i ragazzi che scelgono di continuare a frequentare la scuola superiore ancora pochi, un luogo di incontro pomeridiano dove i ragazzi si sentano accolti come persone diventa una risorsa importantissima, poiché ha spazi, regole e tempi diversi da quelli della scuola che rendono possibile la personalizzazione degli interventi, utilizzando in modo creativo strumenti diversi, permettendo così il rafforzarsi della relazione

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sud ➤ educativa che diventa fonte di motivazione allo studio. «I ragazzi - spiega Elisa Barraco, responsabile gestionale della cooperativa - iniziano a frequentare, almeno in un primo momento, i nostri centri per “fare i compiti”, mandati dagli insegnanti o dalla loro famiglia o dalla parrocchia o perché un loro amico li ha invitati, successivamente lo riconoscono come punto di riferimento del loro quotidiano. In questi anni abbiamo realizzato anche parecchi momenti ludico-ricreativi, quali gite, tornei di calcetto, cinema, bowling, laboratori musicali, teatrali e manipolativi, spinti dal desiderio corrisposto di condividere con i ragazzi anche il tempo libero , approfondendo e valorizzando i loro interessi». Nel quartiere S. Filippo Neri, per favorire lo studio di qualche mamma e sollecitati dalla richiesta delle insegnanti di due scuole medie di aiutare due ragazze che, a causa di difficoltà familiari o di gravidanza precoce, si erano ritirate dalla scuola, dallo scorso ottobre, la cooperativa ha iniziato un percorso mattutino di preparazione agli esami di licenza media. Le richieste in tal senso sono ancora tante sia da parte delle scuole che da parte delle persone che entrano in rapporto con Parsifal. Nel quartiere , infatti, sono tante le ragazze prive della licenza media e per questo penalizzate per l’accesso al mondo della formazione professionale e del lavoro.

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«In questa difficile realtà - ci racconta Elisa Barraco - ci ha aiutato il fatto di essere presenti in parrocchia. La nostra dedizione al lavoro, la serietà e la passione hanno fatto il resto. Siamo partiti dalla scuola per poi incontrare le famiglie e valorizzare i desideri e gli interessi dei ragazzi. Il nostro obiettivo è quello di far gustare ai ragazzi ciò che la realtà offre. Li vogliamo rendere coraggiosi e audaci prendendo sul serio i loro desideri». «Lo studio - continua Elisa - è lo strumento attraverso cui accompagniamo i nostri ragazzi alla scoperta e alla riscoperta della bellezza della realtà. Rimotivare allo studio vuol dire suscitare nei ragazzi il desiderio di conoscere il mondo e di diventare protagonisti della propria vita attraverso una nuova consapevolezza. Il nostro continuo obiettivo è aprire i loro orizzonti di esperienza: contatti con altre realtà, gite nella nostra città o altrove, letture ecc. caratterizzano la nostra attività educativa. A ciò si accompagnano i rapporti con le altre agenzie educative (famiglie, scuole...)». Nonostante i rapporti non sempre facili con le istituzioni locali, i membri della cooperativa non si sono scoraggiati, intercettando risorse economiche messe a disposizione dalle fondazioni (con la Fondazione per il Sud, in particolare, si è iniziato un lavoro per il quartiere Zen), partecipando al progetto P.O.T.T.E.R. della Cdo Opere Sociali («il rapporto con la Cdo - dice Elisa Barraco - è stato il modo per aprirci al mondo a 360 gradi, di metterci in discussione per dare un risvolto al nostro lavoro») e costituendo “reti” con altre realtà siciliane similari. Insomma, le “ragazze di Parsifal” non hanno paura di mettersi in gioco. Il loro esempio sia di sprone per tutti quelli che vogliono che il Sud cambi. n



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di Dario vascellaro

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Una compagnia dentro il lavoro

Bernhard Scholz visita il LabORAtorio di Arti e Architettura de Il Baglio al Meeting di Rimini 2010

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Associazione Il Baglio promuove l’amicizia e la collaborazione fra architetti, artisti, artigiani e in generale fra chi lavora nelle varie forme dell’espressione artistica. Gli associati sono oggi 179. Essi vivono e lavorano in quasi tutte le regioni d’Italia e anche in Austria, Argentina, Brasile, Francia, Svizzera, Spagna e Venezuela. Inoltre sono circa 500 gli artisti che vivono e operano in varie parti del mondo e che si considerano amici del Baglio. Questa compagnia è nata a Palermo, nella bottega artigiana di Roberto Alabiso e Calogero Zuppardo dove, collaborando con vari artisti tra i quali il pittore fiorentino Americo Mazzotta, dal 1984 si progettano e si realizzano vetrate e oggetti in vetro per chiese e per l’arredamento domestico. Qui si fa esperienza che lavorare in compagnia è bello, conveniente, favorisce la creatività e migliora la qualità delle opere. Per il desiderio che questa bellezza potesse diventare più grande, quei tre amici hanno cominciato

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a cogliere, nella quotidianità del loro lavoro, tante occasioni di condivisione con altri con i quali capitava loro di lavorare: il falegname, l’architetto, il muratore, il pittore, il tappezziere, il committente ecc. Almeno una volta l’anno, dal 1988, tutti venivano invitati in un luogo di lavoro per conoscersi e scambiarsi l’esperienza in una conversazione conviviale. Questi incontri si sono ripetuti fino al 1993 e, riferendosi alla Cdo, sono stati denominati “Una compagnia dentro il nostro lavoro”. Nell’estate del 1993, dopo una bellissima giornata passata insieme alle Cave di Cusa (singolare sito archeologico del trapanese dove venivano estratti e intagliati gli elementi architettonici per i templi greci di Selinunte) circa trenta artisti e artigiani hanno deciso che bisognava dare una maggiore continuità e una veste giuridica a quella compagnia. Così il 2 febbraio del 1994, nello studio del notaio Du Chaliot che si affaccia sui tetti del Teatro Massimo,

L’associazione Il Baglio nasce a Palermo nel 1994 da un gruppo di operatori delle arti visive, della musica e dell’artigianato artistico che sperimenta la possibilità di realizzare prodotti che, per la loro bellezza, aiutano a mantenere viva la tensione verso la verità e la pace


sud straordinaria sintesi di collaborazione fra le arti del raffinato e fiorente Liberty palermitano, è stata costituita l’associazione che ha preso il nome de Il Baglio (un baglio è in Sicilia un complesso di case, spesso botteghe di artigiani, che si affacciano su una corte comune, un luogo quindi dove si lavora in compagnia, come quello costruito tra il 1642 e il 1767 dai Gesuiti a Camporeale).

LE VACANZE-STUDIO

Con la costituzione sono aumentate le occasioni di incontro. Fra queste una settimana di vacanzastudio-laboratorio denominata “Corso di Arte e di Architettura per la Chiesa” che ha affrontato, con l’aiuto di teologi, liturgisti, studiosi di arte e soprattutto vescovi, il complesso tema dell’architettura e dell’iconografia per la liturgia. Un percorso che, seguendo gli insegnamenti di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI, si è sviluppato andando a cercare maestri da seguire in autorevoli personalità ecclesiali e in cardinali come Christoph Schönborn, Angelo Scola e Mauro Piacenza. Questo percorso, del quale è in preparazione la XVII edizione, ha avuto come sedi: Cefalù, San Martino delle Scale, Roma, Vienna, Venezia, Casamari, Loreto, Assisi e Rimini. Sono stati inoltre incontrati maestri che hanno aderito al Baglio come gli architetti Bruno Bozzini, Sandro Benedetti, Angelo Molfetta, Francesco Baldi e Maurizio Bellucci; musicisti come Filippo M. Caramazza; scrittori come Roberto Filippetti; argentieri come Pietro Accardi; pittori come Claudio Pastro; fotografi come Angela Governatori e Giovanni Chiaramonte; scultori

come Elena Ortica; restauratori come Vilma Di Luigi; organari come Antonio Bovelacci; grafici come Giuseppe Mazzotti e Isabella Manucci.

UN POPOLO TORNA PROTAGONISTA

Grazie all’insegnamento dei maestri e ai lavori realizzati dagli associati, Il Baglio ha sviluppato un’esperienza nell’architettura e nelle arti per la liturgia che è offerta alla Chiesa istituzionale perché possa orientare gli artisti e discernere le loro opere in modo tale che il popolo cristiano torni a essere il protagonista nella costruzione del tempio e non succube di un asfissiante intellettualismo relativista che lo annichilisce. Gran parte dell’elaborazione didattica relativa alle arti per la liturgia, portata avanti dal Baglio sin dal ’94, nel 2007 ha trovato un ordine accademico nel “Master in Architettura, Arte Sacra e Liturgia” istituito presso l’Università Europea Regina Apostolorum di Roma nel quale sono stati coinvolti, come studenti e anche come docenti, diversi associati. Numerose opere d’arte in case private, in edifici e spazi pubblici e in chiese sono state realizzate dagli associati e dal modo come si sono svolti i lavori è evidente che, nel tempo, è cresciuta una consapevolezza e si è precisato un metodo dove la creatività e il lavoro di ciascuno è valorizzato dalla comunione e dall’ubbidienza. Ciò nell’arte è assai raro e desta sorpresa e stupore. Fra queste opere hanno avuto una particolare rilevanza, nella storia del Baglio, tre chiese dove, per la disponibilità degli architetti progettisti e dei committenti, hanno lavorato diversi amici del Baglio: la Chiesa di San Giuseppe Lavoratore ad Oświęcim-Auschwitz (Polonia) progettata dall’arch. Angelo Molfetta, la Chiesa San Paterniano a Villa Verucchio (Rimini) progettata dall’architetto Francesco Baldi; la Chiesa di St. Joseph a Nairobi (Kenia), progettata dall’architetto Luigi Cioppi. Questa modalità di rapportarsi ha provocato in alcune città la crescita di realtà associative che, liberamente e in vario modo, si riferiscono allo spirito del Baglio: come i corsi di disegno organizzati dall’Associazione Di-Segno a Padova, le giornate di Laboratorio organizzate da Paola Ceccarelli a Pietrarubbia (PS) e i corsi di scultura organizzati dalla Tekné snc a Treviso. Inoltre, con un gruppo di artisti viennesi, Il Baglio porta avanti dal 1999 un coordinamento denominato “Imago Unitatis” al quale aderiscono alcune realtà internazionali consapevoli del compito che deriva dalle comuni radici dell’Europa. n N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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di Carmelo Greco

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Arcipelaghi di accoglienza

D a M i l a n o a Napoli, come nascono reti di solidarietà che rispondono a una m i r i a d e d i b i s o g n i p a r tendo da un profondo radicamento territoriale

In apertura, la sede dell’associazione La Strada, nella zona sudest di Milano. A sinistra, l’ingresso del centro Tiama per la tutela di infanzia e adolescenza maltrattata. Nella pagina successiva, in alto, un momento di aggregazione e, in basso, un’immagine della comunità San Genesio, casa alloggio per l’accoglienza di malati di Aids

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orvetto è un quartiere nella zona sudest di Milano. Una periferia lontana dalle luci della moda e del design. Come tutte le periferie delle grandi città, fa i conti con fenomeni di emarginazione, degrado, clandestinità, delinquenza. È qui, in questa sorta di frontiera, che opera da trent’anni La Strada, un insieme di dieci enti non profit che rispondono a vari tipi di necessità. Ne fanno parte, oltre all’associazione che funge da capofila del gruppo informale,


periferie l’omonima cooperativa sociale che organizza e struttura i servizi rivolti a minori e adulti in difficoltà occupandosi di adolescenti a rischio, lotta alla dispersione scolastica, tossicodipendenze e Aids, persone senza fissa dimora, minori vittime di maltrattamenti e abusi, immigrazione. Fondata nel 1981, oggi l’associazione è presieduta da Valter Izzo, che è anche presidente del Centro di solidarietà San Martino e dell’Asilo Mariuccia. La Strada ha attraversato gli anni della “Milano da bere” adattando i propri interventi ai bisogni che man mano bussavano alla sua porta. «Quando sono arrivato nell’85 - racconta Gilberto Sbaraini, presidente della cooperativa - c’era la piaga della tossicodipendenza. Questo problema, così come altri, era facilmente identificabile. Adesso invece si presentano in modo sfaccettato. Basti pensare allo sballo e alla trasgressione giovanile che sono diventati la normalità. Oppure a questa specie di angoscia collettiva che, soprattutto a causa della disoccupazione, sembra dominare tutti». Attualmente questo arcipelago di opere accoglie in modo stabile più di 1.300 persone, di cui 420 immigrati. Nella cooperativa lavorano all’incirca 70 operatori, mentre un’ottantina di volontari gravita intorno al gruppo. Pur non essendo una holding, dall’inizio a oggi La Strada, nata come associazione di volontariato, si è dotata lungo il cammino di forme giu-

«Se sei in un posto, costruisci rapporti con le scuole, i servizi sociali, le parrocchie, le altre associazioni, gli anziani. Innanzitutto con la gente» ridiche che permettessero di gestire attività in convenzione con l’ente pubblico o che consentissero il ricorso a personale retribuito. «Queste due anime - spiega Sbaraini -, quella del volontariato e della gratuità, da una parte, e quella imprenditoriale e organizzativa, dall’altra, convivono di fatto. Sono convinto che il futuro delle realtà non profit in Italia debba valorizzare questa capacità di sintesi. Preferisco parlare di gratuità, invece che di volontariato, perché la gratuità ci può essere anche in chi percepisce

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➤ uno stipendio. Tutto dipende dal rapporto che si ha con le cose, denaro compreso. Per noi “gratuità” non significa soltanto fare il volontario, ma mettere a disposizione qualcosa di proprio: un immobile, uno spazio oppure i soldi».

Mettere radici

La Strada ha scelto di lavorare prevalentemente in zona Corvetto. Ma non è l’unica. Nella stessa area ci sono le “suorine” di Martinengo, le religiose dell’Istituto di Carità dell’Assunzione che hanno aperto la “Casa di Sam o dell’Amicizia” per aiutare minori e famiglie in difficoltà. Pre-

senti in diverse grandi città, tra cui il quartiere Borgo Vittoria di Torino e il cuore partenopeo di Spaccanapoli, le suorine alternano proposte educative all’assistenza domiciliare e ambulatoriale. Intorno a loro sono nate vere e proprie reti di carità per «rifare un popolo a Dio» come diceva uno dei due fondatori, padre Étienne Pernet (l’altro è don Luigi Giussani). La rete, prima di essere una modalità di collaborazione tra soggetti giuridici, è «una cosa quasi “istintiva” e naturale - dice ancora Sbaraini - che si è manifestata nella

la strada Nata come associazione di volontariato nella periferia sudest di Milano trent’anni fa, oggi La Strada è un gruppo di enti non profit in cui operatori e volontari incontrano quotidianamente giovani e adulti in difficoltà nei numerosi centri di accoglienza, aggregazione, formazione e inserimento lavorativo. Il gruppo rappresenta, in collaborazione con le istituzioni, una vera e propria rete di servizi che fa fronte a problemi di scuola, famiglia, casa, lavoro, salute, povertà, carcere, integrazione. La sua mission è il perseguimento dell’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi sociosanitari, assistenziali ed educativi.

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Fra le varie attività, direttamente o grazie alla collaborazione con altri enti non profit, La Strada si occupa di aiuto allo studio (sopra) e di inserimento professionale di giovani a rischio di devianza (sotto)



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le Suore di Carità dell’Assunzione Le suore di Carità dell’Assunzione, spesso indicate con l’appellativo di “suorine”, sono una congregazione religiosa costituita nel 1993 come istituto autonomo distaccato da quello delle Piccole suore dell’Assunzione fondato nel 1865 dal sacerdote francese Étienne Pernet (1824-1899). Il 17 gennaio 2006 don Luigi Giussani è stato riconosciuto dalla Santa Sede fondatore dell’Istituto insieme a padre Pernet. Le suorine sono particolarmente attive nel servizio alle famiglie povere, nell’educazione dei minori (a fianco, il presepe vivente organizzato a Milano dalla comunità di Martinengo nel 2009) e nell’assistenza agli anziani. Dalla loro esperienza è nata a Milano l’associazione L’immagine e la Casa di Sam. La congregazione, che oggi conta un centinaio di religiose, è presente in alcune grandi città italiane come Milano, Torino, Trieste, Roma e Napoli, nonché in Spagna.

In basso, la home page del sito della cooperativa sociale Karibu di Sezze, in provincia di Latina, che risponde al bisogno di accoglienza di donne e bambini provenienti dal Corno d’Africa

prassi di tutti i giorni. Se sei in un posto, costruisci rapporti con le scuole, i servizi sociali, le parrocchie, le altre associazioni, gli anziani. Innanzitutto con la gente. Per questo non ci siamo mai specializzati in qualcosa: quando incontri un bisogno materiale, se ne spalancano tantissimi altri». Fra quelli che caratterizzano gli ultimi anni rientra l’accoglienza a persone immigrate, un’accoglienza che, tramite il Centro di solidarietà San Martino, va dallo sportello lavoro alle consulenze mediche di base fino ai percorsi di integrazione. C’è chi, proveniente da Paesi martoriati da povertà e conflitti, ha trasformato la propria condizione di rifugiato in un’opportunità per connazionali e non solo. È il caso di Marie Therèse, presidente della cooperativa Karibu (parola che in swahili indica un benvenuto cordiale e sincero) che si trova a Sezze Romano, in provincia di Latina. Marie Therèse ha portato la sua testimonianza in occasione dell’ultimo Meeting di Rimini. Giunta in Italia dal Rwanda dilaniato a causa della guerra civile, nel 1996 ha dato vita alla cooperativa, dopo aver lavorato come badante. Oggi Karibu va incontro a tante donne che, come lei, possono richiedere lo status di rifugiate oppure hanno intrapreso l’iter

Cooperativa Karibu

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Il progetto Karibu - che in swahili significa “benvenuto” - nasce nel luglio 2001 per iniziativa di un insieme di soggetti istituzionali: Comune di Sezze, in provincia di Latina, Consiglio italiano per i rifugiati, Anolf (Associazione nazionale oltre le frontiere, la sezione Cisl dedicata agli stranieri) di Sezze. Nel 2004, per favorire il radicamento del progetto nel tessuto sociale, è stata creata una cooperativa sociale con lo stesso nome formata da donne rifugiate. La cooperativa è finalizzata all’accoglienza, tutela e integrazione di donne rifugiate o che richiedono asilo. Si articola in due centri di accoglienza, di cui uno destinato alle donne vittime di tortura. CORRIERE DELLE OPERE N. 4 Dicembre 2010


periferie legale per poterlo ottenere. Offre inoltre prima accoglienza, sostegno e formazione a donne e bambini che arrivano dal Corno d’Africa, oltre a sostenere minori africani che devono superare traumi orribili per cercare di tornare a una vita normale.

Da cosa nasce cosa

Poco più a nord, a Firenze, esiste l’associazione Progetto Sant’Agostino che da più di dieci anni si fa carico di mamme e bambini extracomunitari (si veda Corriere delle Opere n. 1, aprile 2010, pag. 94). Fondata da Irene Lapiccirella, dispone di tre immobili - Casa Santa Lucia, Casa San Felice e Casa Gabriele - aperti a una quarantina di nuclei familiari. Da questa iniziativa, come fisiologica prosecuzione, è venuto fuori l’Aquilone, asilo nido che adesso ospita non soltanto i figli di donne immigrate, ma fa parte a buon diritto dei servizi per la prima infanzia del Comune di Firenze. Del resto, La Strada docet: «Quando incontri un bisogno materiale, se ne spalancano tantissimi altri». Dal primo nucleo originario dell’ente milanese sono scaturite realtà come Galdus (ente di formazione), Centro Tiama (Tutela infanzia e adolescenza maltrattata), Li-

Immagini di vita quotidiana nelle case gestite dall’associazione Progetto Sant’Agostino di Firenze. Da più di dieci anni, l’associazione offre accoglienza a madri e bambini stranieri

Progetto Sant’Agostino L’associazione Progetto Sant’Agostino è stata costituita, più di dieci anni fa, da alcune famiglie fiorentine desiderose di aprire le loro case al bisogno di mamme e bambini stranieri in gravi difficoltà. Sono nate così Casa Santa Lucia, Casa San Felice, Casa Gabriele e l’asilo nido l’Aquilone: dimore, non strutture, in cui la persona è accolta non tanto per il bisogno che esprime, ma per un amore vero alla sua vita che si concretizza nel lavoro quotidiano di operatori e volontari. Gli operatori e i volontari che collaborano nei centri di accoglienza del Progetto Sant’Agostino seguono corsi di formazione permanente che consentono di affrontare adeguatamente la drammaticità dei disagi delle persone accolte o incontrate.

mes (servizi di accoglienza a favore di persone e famiglie in situazione di disagio), Accademia delle opere (realizzazione di eventi musicali e concerti), comunità San Genesio per malati di Aids. Non solo. Nel corso degli anni la rete si è allargata ad altri: Fondazione Asilo Mariuccia, associazione Nocetum, casa famiglia La casetta, parrocchia San Michele e Santa Rita, parrocchia San Galdino, gruppo sportivo Anni verdi, associazione culturale Il cortile, suore Rosminiane, suore di Santo Stefano e Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Se sul fronte delle aggregazioni informali si assiste spesso al fiorire di progetti dall’esito positivo, non sempre questo accade nel rapporto con l’ente pubblico. In un recente articolo del Corriere della Sera veniva quantificata la riduzione del Fondo nazionale per le Politiche della Famiglia dai 346,5 milioni di euro del 2008 ai 52,5 milioni di euro per il 2011. Nello stesso periodo, il Fondo per le Politiche sociali è sceso da 929,3 a 75,3 milioni di euro, mentre quello per il Servizio civile da 299,6 a 113 milioni di euro. Dati che però non spaventano chi come Gilberto Sbaraini deve fare i conti tutti i giorni con meno risorse di provenienza pubblica: «Di fronte a questa situazione - dice -, il momento è propizio per pensare diversamente. Per sviluppare rapporti con il mondo profit. Qualche segnale già si vede: dalla responsabilità sociale d’impresa agli investimenti su attività socialmente utili. Potremmo definirli con uno slogan “diversamente utili”. Noi stessi abbiamo incrementato le relazioni con le fondazioni di origine bancaria e con le fondazioni di impresa. È tempo di entrare in un’ottica diversa rispetto alla classica interlocuzione con l’ente pubblico finanziatore». n

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d i S a n d r o R i c c i , d i r e t t o r e Fo n d a z i o n e M e e t i n g

comunicare l ’ ideale q

ualche mese fa un importante giornale nazionale ha pubblicato un servizio sui festival culturali italiani. Tra questi il Meeting non era nominato; come hanno detto poi gli autori, e credo giustamente, il Meeting non è solo un festival culturale. È qualcosa di più. Nei numeri, nell’esperienza e nella sua storia ormai più che trentennale.

Ogni anno, a Rimini, spettacoli, incontri e s p o r t in quello che è uno dei più importanti e v e n t i culturali a livello mondiale, realizzato a n c h e grazie al lavoro di migliaia di volontari

L’origine

Come molto spesso abbiamo raccontato il Meeting non è nato a tavolino, ma attorno a un tavolino. All’inizio non c’e nessun progetto premeditato. Una sera in pizzeria, alcuni amici, che a Rimini tentavano da qualche tempo di proporre alla città estiva eventi culturali, avevano maturato sempre di più il desiderio di conoscere la realtà, approfondirla e trovare quello che di buono c’era per proporlo a tutti. Da questo desiderio è nato il Meeting, dal desiderio di portare a Rimini il meglio della cultura mondiale, coloro che secondo la loro arte, la loro competenza esprimevano quello che l’uomo è capace di fare di buono e di bello. Come è scritto in un bellissimo inedito di don Giussani presentato al Meeting di quest’anno: «l’amicizia è affrontare “insieme” i bisogni. Ora, qual è l’accento particolare che fa capire la maturità di queste persone? È che, vivendo in una determinata situazione (la Rimini estiva), hanno notato l’assoluta, totale mancanza di presenza dei cristiani. Quanti anni è che Rimini è centro balneare di quel tipo? È bellissimo e tragico che della gente si sia domandata a un certo punto, improvvisamente o finalmente: “Non esiste presenza cristiana qua dentro”». Da un’amicizia curiosa del mondo e desiderosa di bellezza è nato il Meeting. E così nel 1980 si tiene a Rimini la prima edizione. Da allora migliaia sono stati i personaggi che

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Sono oltre 3000, di 20 nazionalità diverse, i volontari che durante i sette giorni della manifestazione portano sulle loro spalle il Meeting

si sono avvicendati sul palco del Meeting tra spettacoli, incontri, mostre ed eventi sportivi: dal Santo Padre Giovanni Paolo II a Chaim Potok, dall’allora cardinale Ratzinger a Madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama a Eugène Ionesco, da Andrei Tarkovskij a Riccardo Muti, fino a François Michelin, da Mario Draghi a Tony Blair; e ancora, politici, imprenditori, scienziati, filosofi, artisti. Il Meeting delle ultime edizioni ha raggiunto numeri che sicuramente lo proiettano tra i grandi eventi del panorama culturale europeo e mondiale: sono una decina le mostre esposte


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per ogni edizione, oltre un centinaio gli incontri, quasi 800.000 le presenze, oltre 30 spettacoli. Ogni anno la fiera di Rimini con i suoi 170.000 mq diventa la grande città del Meeting.

Un ideale per 3000 volontari

Come è possibile tutto questo? Qui si presenta l’aspetto unico del Meeting, che lo fa essere una delle opere sociali più strane e in termini numerici più interessanti. Tutto questo è possibile perché ci sono oltre 3000 volontari, di 20 nazionalità diverse, che durante i sette giorni della manifestazione portano sulle loro spalle il Meeting. Coordinati da un piccolo nucleo di dipendenti, i volontari si occupano di tutto. Dalla ristorazione all’accoglienza degli ospiti, dall’ufficio stampa alla gestione delle sale fino alle pulizie. Una macchina che ha uno start up velocissimo perché tutti arrivano il sabato precedente l’inizio della manifestazione e la domenica si è già tutti al lavoro. A questi vanno aggiunti i quasi 900 che, nelle due settimane precedenti l’inizio, costruiscono il Meeting, pitturano, allestiscono le mostre, lavorano in falegnameria. I volontari non sono solo il braccio operativo del Meeting, ma anche l’anima. È sorprendente vedere ogni anno come la caratteristica tipica di un’opera sociale, che è la grande spinta ideale,

una mission forte e motore di ogni sua azione, si trasmetta e viva non solo nel piccolo nucleo operativo, ma in tutti gli oltre 3000 volontari. Una conferma della bontà di quest’opera. Quanti sono stati in questi anni i giornalisti, i relatori, gli ospiti, o i semplici visitatori che sono rimasti colpiti dai volontari, dal loro gusto per la gratuità e per il lavoro.

Ogni anno, sono circa 800 mila le persone che popolano la fiera di Rimini per assistere a incontri con politici, imprenditori, artisti, scienziati, filosofi

La cultura che si comunica

Molto spesso in questi anni ho sentito un lamento rispetto agli eventi culturali e alla cultura in genere, come se fosse qualcosa di stantio, di vecchio che non interessa i giovani, la gente comune; solo qualcosa di interessante per un’élite. Possiamo dire che il Meeting in questi anni è stato l’esempio di come questo non sia vero. Al Meeting è possibile vedere giovani, famiglie, persone di ogni genere e istruzione che si interessano del grande scienziato esperto del cosmo, che visitano la mostra del grande pensatore russo o partecipano a un incontro con i massimi esperti dell’economia mondiale. Altri esempi sono le mostre del Meeting che durante l’anno diventano itineranti e totalizzano quasi 200 piazze. E ancora le grandi mostre, la prima realizzata nel 1985, che hanno coinvolto in questi anni oltre un milione di visitatori. Non è solo

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cultura un format di successo, ma il successo è del contenuto, della proposta culturale che vive ed è l’esperienza del Meeting. La gente va dove c’è qualcosa che genera interesse.

Da Rimini a tutto il mondo

Un’esperienza che si comunica così tanto e oltretutto a 360 gradi. In questi anni il Meeting ha allacciato rapporti con tutto il mondo: musei come il British Museum di Londra, istituzioni come l’Unesco, a Rimini sono venuti capi di Stato. Il Meeting sin dalla sua nascita ha girato il mondo per raccontare di sé. Solo negli ultimi anni presentazioni sono state realizzate dalla Siberia agli Usa fino all’America Latina e all’Egitto. Sì, forse proprio a ottobre,

al Cairo è accaduto l’avvenimento più impensabile della nostra storia. Alcuni amici musulmani, che da qualche hanno frequentavano il Meeting, ne sono rimasti così colpiti che hanno organizzato un nuovo Meeting al Cairo con una due giorni di incontri, mostre spettacoli, a cui hanno partecipato alla serata inaugurale oltre 1000 persone, con 200 volontari, cristiani e mussulmani che anche lì hanno dato il loro tempo gratuitamente. n

Le mostre organizzate dal Meeting hanno coinvolto in questi anni oltre un milione di visitatori: la dimostrazione del valore della proposta culturale della manifestazione

Un evento reale e vivo Il Meeting Rimini nasce nel 1979 come associazione. Nel 2008 è diventa una Fondazione. I dipendenti sono 14, a cui vanno aggiunti i collaboratori e volontari che dedicano tempo a questa opera tutto l’anno. Il Meeting è organizzato in 14 dipartimenti, a loro volta divisi in 108 settori, alcuni dei quali guidati anche da volontari. Il bilancio dell’edizione 2010 è di 8 milioni di euro. Il 70 per cento di questi derivano da contributi e pubblicità. Infatti in tanti in questi anni si sono accorti che il Meeting, essendo un evento reale e vivo, è una grande occasione di comunicazione per la propria istituzione, per la propria azienda, occasione per incontrare la gente e farsi conoscere. Un clima positivo che favorisce l’incontro. È interessante partecipare a un evento in cui il pubblico ha una curiosità, una capacità di dialogo e di interattività che diventa stimolo per l’azienda a presentarsi in maniera originale.

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Costituito nel 1981, il Centro culturale di Milano è divenuto un luogo vivo e di incontro, un punto di riferimento per la città che cambia. Caratterizzato dall’originalità e dal valore internazionale degli interventi, dall’apertura e dall’amicizia tra le persone, dal dialogo tra culture e popoli

di Camillo Fornasieri direttore Centro culturale di Milano

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Per passione non per mestiere C

he faccia può avere la libertà? Quale può essere il senso di un gruppo di amici che ha come unico desiderio quello di coinvolgere tutte le esperienze esistenti con la propria sete di verità e conoscenza? Che senso ha per una città, per una convivenza complessa questo tentativo? Che cosa consegna di utile e reale? C’è un fenomeno che si sviluppò a partire dagli anni 80, con il nome di Centri culturali, che corrisponde a queste domande e a Milano, proprio 30 anni fa, prese la forma del Centro Culturale di Milano. Che giuridicamente e sociologicamente un’opera come quella di un centro culturale faccia parte del non profit è abbastanza comprensibile, ma non è scontato avere la consapevolezza chiara che quella dimensione della cultura è l’essenza del non profit, come, ad esempio, la carità. È infatti la suprema testimonianza che nell’uomo, in

L’incontro di presentazione di “Milano è una cozza - Storie di trasformazioni”, a cura di Luca Doninelli, Guerini e Associati. “Le nuove meraviglie di Milano” è una collana e un progetto inedito del Centro culturale di Milano che continuerà a raccontare - con cadenza annuale fino all’Expo 2015 - quel rapporto tra città e territorio già individuato con precisione da Bonvesin De La Riva nel 1288 col suo insuperabile libro su Milano. “Milano è una cozza” è il primo volume. Una galleria di storie di trasformazioni del territorio e della vita

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tutti gli uomini, si agita e muove qualcosa che è una sua esigenza strutturale, gratuita, ma che determina tutti i singoli orizzonti e circostanze con le quali egli vive, costruisce, rischia, si esprime. La cultura infatti - in ogni latitudine - è il tentativo insopprimibile e più sintetico di dare forma a tutte le cose a partire da quello che si percepisce come senso e significato intero del vivere. Volenti o nolenti siamo tutti uomini di cultura, abbiamo una cultura, e quello che facciamo o diciamo lo testimonia da tutti i pori, tragicamente. Nel senso che da quello che facciamo trapela che cosa affermiamo, è facilmente smascherabile, si vede. Se in un tempo come quello contemporaneo prevale una certa cultura questo indica un momento storico che evidenzia una certa idea e concezione della vita. L’uomo è come un artista, fa opere, ed esse rivelano chi è. Ma non solo, quelle opere possono essere anche una calamita, un incontro, un punto di fuga che ci introduce in qualcosa di nuovo, in un’esperienza più grande e più vera.

Abbracciare il mondo

Il Centro Culturale di Milano è nato nel 1981 col nome di Centro Culturale San Carlo - si trovava infatti presso la Basilica che portava quel nome, nel centro storico di Milano. Alcuni studenti e giovani professori delle università presero sul serio un desiderio e una proposta di don Luigi Giussani, il quale seguì fino agli ultimi suoi anni quest’opera: abbracciare il mondo scoprendo la fatica e la bellezza dell’esperienza


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umana nella sua ricerca della verità per sperimentare il gusto che nasce dal cristianesimo per l’uomo, mostrando a tutti la pertinenza della fede con la vita. Negli anni 80 l’incontro con Giovanni Testori che tanto segnò anche quest’opera come altre, partecipando con un’intensità oggi rara negli adulti, e con Augusto Del Noce. Da subito grandi artisti, scienziati, filosofi, scrittori, dall’Italia e dal mondo hanno paragonato la loro esperienza con questa novità culturale. Il fiume degli anni 80 dei tanti dissidenti dall’Unione Sovietica e dall’Est con Russia Cristiana e lo svilupparsi del Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli segnano gli inizi del Centro culturale di Milano. Lo stesso fenomeno accade oggi in tante altre città e nel mondo, così come nacque subito il coordinamento con più di 70 centri culturali dando vita presso il CMC all’Associazione italiana Centri Culturali. A Milano, mentre la città si ferma sotto i colpi del “giustizialismo”, nei primi anni 90, il Centro prende nuovo nome e nuova sede, in un antico sito dove, secondo lo studioso milanese Dante Isella, si riunivano i circoli intellettuali di fine settecento. Il CMC allarga i suoi confini: persone, gruppi di persone, dal mondo che si riconoscono e si mettono in rete, passando da Milano. Nasce lo studio e l’attenzione alla vita e ripresa della città di Milano, prende vita, con Luca Doninelli e Giuseppe Pontiggia, la Scuola di Scrittura Flannery O’Connor, la Casa della Poesia, l’incontro sistematico col mondo ebraico, la profetica conoscenza dell’islam e della questione islamica - seguendo una delle tante indicazioni di don Giussani, nel 1994! - la divulgazione della storicità dei Vangeli e dei documenti cristiani, le mostre e i Quaderni di fotografia, il dialogo

con il laici italiani e europei, le nuove frontiere della scienza, le questioni sul Diritto e il suo cambiamento di fonti, la partnership sempre più precisa con istituzioni milanesi, università, case editrici, teatri. Il Centro non sostituisce la scuola, ma fa incontrare ai ragazzi la città, incrocia l’esistenza di adulti, fa scoprire soggetti diversi nel pubblico che la pensano diversamente - ma non basta, questo è ovvio… si chiede dunque: “perché?”. Fa vivere ai docenti un’implicazione esistenziale dell’istruzione non isolando la scuola dalla società.

Sopra, nella foto grande, il pubblico alla testimonianza di un matematico sull’Enciclica di Benedetto XVI; nella foto piccola, Musica in Cattedra, la musica classica raccontata e suonata

Una societas di persone

Il Centro è figlio dell’Università in quanto in essa e in chi studia nasce in quel momento la forza di non lasciare esaurire la parabola del desiderio, di trovare esaustivamente la verità delle cose. È figlio del più umile e meno erudito, ma sapiente, vivo, come lo sono le testimonianze dall’Italia e dal mondo su forme di vita nuove che si chiamano a parlare. A Milano l’esistenza di un luogo come questo è perciò il segno della libertà. Possiamo così chiedere a tutti di sostenere la sua esistenza, come la forma di chi si associa testimonia. Quanti personaggi di storia diversa dalla nostra sono soci benemeriti od ordinari, decidendo di essere la prima societas di persone che sorregge questo “centro”. In una città un luogo che cresce. Un “luogo” come questo può mancare in una città, in una convivenza. È in corso infatti una battaglia, se non ne avessimo consapevolezza sarebbe tutto riducibile alle solite vetrine di eventi, tempo libero, come le saune e i “centri” benessere che invadono le città, musealizzata la sete di verità.

➤ N. 4 Dicembre 2010 CORRIERE DELLE OPERE

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cultura ➤ Viene in mente T. S. Eliot: «Dov’è fislaw Milosz, John Ecnita la saggezza che avete perduto sacles, Andrei Tarkowpendo… mentre la vostra conoscenza skij, Andrei Sinjavsky, è finita nell’informazione». La battaChaim Potok, Anthoglia è questa, come scriveva il grande ny Burgess, Federico Premio Nobel Czeslaw Milosz, che Zeri, Margherita Guarquando venne a Milano c’erano 2000 ducci, Mario Luzi fino persone ad accoglierlo perché gli unia David Grossman, versitari usavano versi come questo Alain Finkielkraut, per i tatze bao: «Chi ama la res publiJean Clair, Joel Meyeca avrà la mano mozzata». rowitz, John PolkingPer la cultura dominante, infatti, la horne, Ugo Amaldi, persona deve rimanere nana, deve Rubbia, John Barrow, sì sentirsi grande, piena di desidePaul Davies, Laurent rio, si può parlare anche di bellezza Lafforgue, Remi Bra(la prima parte del verso di Milosz gue, Joseph Wheiler, diceva appunto «l’uomo pensi pure Aharon Appelfeld, Saad acchiappare le farfalle»). Ma non mir Kahlil, Riccardo deve crescere, non deve giudicare, Muti, Ramin Bahrami non deve costruire una nuova consae i più di 2500 autori/ pevolezza. Deve rassegnarsi ad avere relatori italiani e intergrandi sentimenti ma l’orizzonte deve nazionali. rimanere incerto, perché l’uomo moIl lavoro semplice e derno è quell’uomo disorientato che appassionato di giovafa leva sulle proprie forze e sulla proni studenti universitari pria capacità di compassione per la e professionisti che propria limitata condizione. dedicano gratuitamenQuale bugia! La risposta alle esigenze te un po’ della loro umane infatti deve essere elargita dal vita caratterizza l’esiPotere culturale (anche se è politico, stenza del CMC, così economico, giuridico, e sempre, semcome la collaborazioIl dibattito tra Testori e Moravia nel 1984 pre culturale). Invece gli uomini cerne e rete di associaziocano - come noi che facciamo “questo ni, riviste e istituzioni, centro” - e possono ritrovare le tracce con le quali si intende seguendo le quali si arriva alla fonte. condividere il loro lavoro per portarlo insieme, come Fondazione per Le tracce - una tradizione passata o recente che sia, di qualcosa di consegnato a noi la sussidiarietà, Euresis, Admira, Medicina e Perche non abbiamo saputo fare noi - ci raccontano, sona, Sentieri del Cinema, Teatro Fontana e molte ci descrivono, sono tutta l’espressione del giudialtre di diverse discipline e azioni. zio dell’uomo, della sua sete di conoscenza che La cultura e un luogo per la comunità umana non la storia passata e recente e l’oggi testimoniano. possono che nascere da un gusto del vivere. QueLe tracce sono la cultura, cioè chiedersi la verità sto pensiero di don Giussani ce lo ha sempre rie il significato di quelle tracce; la fonte è un’especordato: «La cultura deve poter offrire agli uomirienza, cioè il luogo per eccellenza dove sgorgani il significato di tutto. L’uomo veramente colto è no le cose grandi. chi è giunto a possedere il nesso che lega una cosa all’altra e tutte le cose fra di loro. Cultura perciò non può essere possesso di nozioni, perché neppure le nozioni derivate dallo studio di migliaia di Una semplice e antica frase può allora sintetizzauomini potrebbero dire una sola parola risolutire la dinamica fattuale del CMC: un luogo dove va riguardo all’interrogativo circa il rapporto che stanno insieme «i grandi che ci sanno parlare e i lega l’uomo a tutte le cose, cioè circa il significato piccoli (noi) che sanno ascoltare». Persone, fatti della sua esistenza. Per questo l’origine di tutto, che diventano collaboratori di un incontro perche è il senso ultimo di ogni cosa, si è rivelata agli manente e che segnano profondamente il nostro uomini». n tempo: von Balthasar, Emmanuel Levinas, Cze-

Incontro permanente

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libreria

QUELLA VILLETTA GIALLA IN CUI ABITA LA SPERANZA

a cura di Carmelo Greco

TORNIAMO A CASA SILVIO CATTARINA 2010 ITACA 208 PAGINE, INSERTO FOTOGRAFICO A COLORI 14 €

DI CHE COSA PARLIAMO SE DICIAMO IMMIGRATI?

Le imprese senza Scopo di lucro A cura di Simone poledrini 2010 Franco angeli 118 pagine 13 €

quando l’Impresa sociale è sinonimo di buona gestione

Come è cambiato il non profit negli ultimi anni? Quanto incidono l’innovazione e lo sviluppo tecnologico nell’organizzazione delle imprese senza scopo di lucro? In che modo si sta evolvendo il rapporto di queste ultime con il mondo delle aziende for profit? Intende rispondere a queste e altre domande il presente volume che raccoglie i risultati del progetto Innesti (Inserimento nella società tramite imprese). Realizzato da Cdo Opere Sociali tra il 2008 e il 2010 con il ministero del Lavoro e della Solidarietà sociale, il progetto si è concentrato nell’analisi di quattro opere: Solidarietà Intrapresa di Forlì, Solidarietà e Lavoro di Busto Arsizio (Varese), Il Mosaico di San Vito al Torre (Udine), As.Fra. di Vedano al Lambro (Monza e Brianza). Le conclusioni a cui giunge la ricerca sfatano alcuni luoghi comuni sulla presunta antitesi fra la parte sociale e quella d’impresa che non solo non sono contrapposte, ma si integrano fino a diventare complementari, perché «la buona gestione e lo sviluppo di sofisticati strumenti manageriali sono di aiuto alla realizzazione della parte sociale».

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La vicenda di Silvio Cattarina e dei “suoi ragazzi”, quelli della cooperativa sociale L’imprevisto di Pesaro. Il libro è uno spaccato di venti anni di attività rivolta all’accoglienza, alla cura e al reinserimento di minorenni e maggiorenni emarginati e tossicodipendenti. È il racconto a più voci di esperienze drammatiche, apparentemente giunte al capolinea, ma che sono investite dalla vittoria di una insperata positività. La villetta gialla che spicca tra gli edifici della statale sul mare che collega Pesaro a Fano fa da cornice a questa sorta di inno alla vita, scritto dall’autore «non per sottolineare i miei meriti, ma per esaltare i miei ragazzi, ciò che loro portano e testimoniano: quello che vivono prima nel male e poi, speriamo, nel bene». Non soltanto una storia edificante, ma anche un punto di riferimento, un modello per i risultati significativi nel contrasto alle dipendenze.

STRANIERI IN CASA NOSTRA FRANCESCO DAVERI 2010 EGEA 171 pagine 20 €

Francesco Daveri, docente di Politica economica all’Università di Parma, ha scritto un libro sull’immigrazione non accademico. Della sua professione ha mantenuto il rigore della documentazione che ha voluto offrire al lettore in veste giornalistica, con ricchezza di aneddoti e attenzione alla cronaca. In questo modo, il fenomeno che vede oggi cinque milioni di stranieri in Italia provenienti da 150 Paesi - vero e proprio «shock demografico e sociale» - viene presentato in tutta la sua complessità. Una complessità di fronte alla quale le posizioni buoniste o intolleranti appaiono inadeguate. Le semplificazioni, infatti, sono spesso figlie dell’ignoranza. Per questo il volume di Daveri è prezioso: perché fa capire di che cosa si parla quando si affronta il tema degli «stranieri in casa nostra».

LA VITA NUOVA CHE PUÒ RINASCERE IN CARCERE

LIBERI IN CARCERE L’INCONTRO NELL’INCONTRO PATRIZIA COLOMBO 2010 ITACA 175 PAGINE 12,50 €

Alberto e Carlo sono reclusi nella Casa circondariale Bassone di Como per motivi diversi. Entrambi incontrano Patrizia Colombo, responsabile del Centro stampa gestito dalla cooperativa sociale Homo Faber all’interno del carcere. Nasce così una conversazione che si snoda lungo i capitoli del volume. Tre storie e tre destini che si intrecciano attraverso la genuinità di colloqui quotidiani che documentano come sia possibile, in qualsiasi contesto, ritrovare la speranza e ricominciare a vivere. Si viene accompagnati, così, in una lettura polifonica che dà voce a chi sovente non ha modo di farsi sentire. Ma, soprattutto, si assiste al miracolo del cambiamento profondo di ciascuno degli autori, un cambiamento reso possibile da incontri che rimandano all’“incontro” fondamentale con Cristo, presenza che permea potentemente le pagine del libro anche quando non viene esplicitamente citata.



I

indirizzi web le realtà citate in questo numero del Corriere delle Opere

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cooperativa Nuova S.a.i.r

gruppo pinocchio

www.nuovasair.it

www.pinocchiogroup.it

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cooperativa parsifal

meeting di rimini

www.cooperativaparsifal.com

www.meetingrimini.org

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cooperativa rione sanità www.rionesanita.com

UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLA SANITÀ

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www.chiesacattolica.it/salute

cooperativa Solidarietà e Lavoro www.solidarietaelavoro.coop ■■■■■■■■■■■■■■■■■■■

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associazione banco farmaceutico

banco building

cooperativa Solidarietà e Servizi

www.bancobuilding.it

www.solidarietaeservizi.it

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centro culturale di milano

Enel Cuore

www.cmc.milano.it

www.enel.it/enelcuore

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www.biteb.org

Compagnia delle opere

famiglie per l’accoglienza

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www.cdo.org

www.famiglieperaccoglienza.it

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www.cilla.it

Cdo agroalimentare

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www.cdoagroalimentare.it

Federazione Nazionale Centri di Solidarietà

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www.federazionecds.org

www.bancofarmaceutico.org ■■■■■■■■■■■■■■■■■■■■

associazione Banco Informatico Tecnologico e Biomedico associazione cilla associazione cometa www.puntocometa.org

Cdo opere sociali

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www.cdo.org/operesociali

federsolidarietà

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www.federsolidarieta.confcooperative.it

associazione fate www.fateonlus.org ■■■■■■■■■■■■■■■■■■■■

Associazione Fraternità

cooperativa Cura e Riabilitazione

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fondazione ant

www.curaeriabilitazione.org

www.antitalia.org

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cooperativa giotto

fondazione banco alimentare

coopgiotto.org

www.bancoalimentare.org

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www.amicipiccoloprincipe.org

cooperativa il carro

fondazione ceur

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www.ilcarro-coop.com

www.ceur.it

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www.ilbaglio.org

cooperativa in-presa

fondazione maddalena grassi

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www.in-presa.it

www.fondazionegrassi.it

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cooperativa karibu

fondazione novella scardovi

www.incontroepresenza.org

cooperativakaribu.com

www.fondazionenovella.it

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associazione l’umana dimora

cooperativa la nuova iride

fondazione per il sud

www.umanadimora.it

www.nuovairide.it

www.fondazioneperilsud.it

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associazione portofranco

cooperativa l’imprevisto

gruppo edimar

www.portofranco.org

www.imprevisto.net

www.operaedimar.org

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associazione progetto sant’agostino

cooperativa men at work

gruppo la strada

www.menatwork.coop

www.lastrada.it

www.associazionefraternita.it ■■■■■■■■■■■■■■■■■■■■

Associazione gli amici del piccolo principe associazione il baglio associazione incontro e presenza

www.progettosantagostino.it

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unicredit foundation www.unicreditfoundation.org




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