Il jazz secondo me

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Gianfranco Nissola

Il Jazz

‌

secondo me!


Gianfranco Nissola ama la musica da sempre, da quando, adolescente, ascoltava le bande suonare nelle piazze, fino alla scoperta del jazz, grazie ai V-disc del primo dopoguerra. Un grande amore che, coltivato con costanza per molti decenni, lo ha portato ad acquisire una vasta conoscenza di questa musica, con frequenti incursioni in generi diversi, ma altrettanto affascinanti, come la musica brasiliana e la bossa nova. Una cultura che, coltivata sui dischi e dal vivo, partecipando a infiniti eventi musicali, da più di un decennio mette a disposizione dell‘Università della Terza Età di Casale Monferrato, tenendo corsi che, di anno in anno, hanno trovato un seguito sempre più vasto. Questa piccola monografia sul jazz, sincera testimonianza di una autentica passione, nasce da una sua lezione introduttiva, tenuta alcuni anni fa.


Introduzione La musica mi piace, mi è piaciuta da … sempre. Nell'adolescenza era un divertimento seguire la banda, ascoltare per ore, sotto il palco, mentre intorno la gente ballava. Musica e ballo, un binomio perfetto. Non si parlava di orchestra, ma di banda, formazioni paesane con suonatori che erano il vicino di casa,il fabbro, il calzolaio, anche il beccamorto. Mio nonno Pinot suonava il clarinetto e suo fratello, l’Ernesto, suonava la cornetta quando, a San Giuseppe del ’46, in piazza Castello, gli è scoppiato il cuore per catturare una nota più alta, più vicina a Dio e lo ha raggiunto in un attimo; era il più giovane di sei tra fratelli e sorelle, lui che di figli ne aveva tre, e non aveva che 47 anni. Erano gli anni del dopoguerra e il desiderio di allegria che facesse dimenticare il buio della tragedia mondiale appena consumata era palpabile. L’apparecchio radio si diffondeva nelle case e, fra coetanei, nelle pause di lunghissime partite a calcio che ti lasciavano senza fiato, si discuteva di tutto, anche di musica. Se ne parlava, più che ascoltarla insieme, ed iniziava anche a circolare una certa libertà musicale. Ascoltavo di tutto, senza sapere nulla di armonia, melodia, ritmo; l’orecchio era l’anticamera del cervello e … non era un filtro, almeno consapevolmente. Così, fino ai primi anni cinquanta: l’inizio delle superiori dove, ovviamente, non si insegnava musica (è così ancora oggi, a oltre cinquant’anni di distanza) e quindi mi limitavo ad ascoltare la radio, non sempre con soddisfazione, anche perché non avevo alcuna guida all’ascolto. Degli amici, solo con un paio continuavo i nostri discorsi musicali precedenti, ma con sempre minore interesse; gli importava di più il ballo. Mi sentivo insoddisfatto, isolato: il ballo poi non mi piaceva gran che, la musica invece sì!! (A quei tempi anche il melodramma e l’operetta). E quindi fu facile rivolgersi a gente più adulta, cercare chi ne sapeva qualcosa di più e con cui poter dialogare, gente che, magari per lavoro, usciva dal nostro guscio … paesano.


Ed ecco una prima svolta: i V DISC, i dischi della Vittoria, e soprattutto nomi nuovi: Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington, Benny Goodman, Stan Kenton. E poi ancora Bing Crosby, Perry Como e Frank Sinatra, ma anche Arthur Rubinstein e Arturo Toscanini con la NBC Orchestra. Erano dischi a 78 giri, ma da 30 cm., che erano stati dati ai soldati americani del fronte europeo e che poi erano finiti nei mercatini, come quello celeberrimo di Tombolo, vicino a Livorno … ed ebbi la fortuna di poterne ascoltare qualcuno. Sinceramente, rispetto a quanto fino a quel momento udito via radio, era tutta un’altra musica. “Senti quello come “svisa”...” era il commento spontaneo! Quei musicisti “svisavano”, cioè facevano dello swing, “quel bilanciamento tra ritmo e melodia che ti dava la sensazione, fisica e psichica, di vigore e di abbandono contemporaneamente” (cit.G.C.T.). E lo sentivi sia che suonasse l’orchestra al completo oppure un solista; ah!! la scoperta dell’ “assolo”; chi è?? E giù a discutere, perché fra le quattro trombe, o i tre tromboni, della sezione degli ottoni, cercavamo di indovinare chi era il solista. Nella sezione “ance” era molto più facile perché, al di là del fraseggio, distinguevi benissimo se era un sax baritono o un contralto, discussione invece per il sax tenore perché a tratti oltre al titolare lo suonava anche il primo clarino, sul quale non avevi dubbi, anche perché il secondo era un clarino basso, che normalmente è suonato da chi suona il sax baritono, ovviamente per questioni di scala tonale; sembrava di ascoltare dei critici esperti ed invece non conoscevamo una sola nota musicale. Ignoranti ed autodidatti, ma con una grande passione che ci accomunava, facendoci fare le ore piccole, a volte.


ERA il JAZZ!! E’ il JAZZ!!

Una parola strana: chissà cosa vorrà dire?!? Boh!! La musica però è bella, trascinante, e la cosa più curiosa è che ti viene voglia di riascoltarla in continuazione, perché, di volta in volta, ci trovi sempre qualcosa di nuovo. E senti il desiderio di saperne di più, di conoscere perché questi musicisti suonano così? E’ musica scritta oppure è improvvisata?! E poi: non ti sembra che stonino in certi passaggi. E perché certi canti sono gioiosi ed altri tristi, addirittura lamentosi. E così incominci ad imparare parole come spiritual, blues, ragtime (tempo stracciato) che sono poi i cardini della Musica Jazz. Sì, la musica è americana, o meglio è suonata in America, ma ha le radici in Africa: è musica negra!!! Ed allora vieni a sapere che gli schiavi ne diedero vita, con la voce durante il duro lavoro nei campi, oppure con il suono del violino nei giorni di festa o in rari momenti di riposo, al buio, prima di essere vinti dal sonno ristoratore che deve ricaricarti per una nuova, durissima giornata. No!! Il tamburo non lo puoi suonare Tom perché tu ne comprendi il linguaggio ed io no; e poi il suo suono “robusto” si propaga lontano e da lontano possono comunicare con te, e se con i tuoi “amici” organizzi una ribellione il cotone nei campi chi lo raccoglierà; io forse?!? Vai Joe se vuoi cantare canta! Canta pure! Per suonare, beh! Puoi … anche con qualcun altro, ma solamente in alcuni giorni di festa, per rivolgerti a Dio, oppure anche per ballare, ma non tanto eh!


Puoi suonare quanto vuoi quando accompagni un familiare, o un amico all’ultima dimora; ma poi non ti sbronzare! Eh sì! Questa musica ha anche un’importanza sociale, ma solo da un certo punto di vista. Caro Tom (si fa per dire) se canti e suoni magari non ti passano certi grilli per la testa!! Ti ricorderai delle tue radici, ma solo ai fini della tua musica, che puoi praticare con una certa libertà, e magari ti fa anche dimenticare la tua condizione di schiavo!! Ha le radici in Africa il jazz e non può essere considerata Musica “colta”, si sviluppa nel profondo sud degli States a New Orleans, ma viene confinata in bar malfamati, o nei bordelli del quartiere “a luci rosse” di Storyville, dove viene suonata per intrattenimento ed esce in strada nei giorni in cui impazza il Carnevale, oppure durante e dopo un funerale: ma questa musica è anche un lamento, è anche espressione di dolore, di rabbia per la propria condizione umana, desiderio di rivolta, ma anche consolazione e gioia in rari momenti. Ma nel 1917 di Storyville non se ne può più; via tutti, si chiude per ordine del Comando della Marina Militare. Da oltre un lustro Buddy Bolden, che per anni era stato il re, The King, è chiuso in manicomio: non suona più. E’ ormai un mito: il suono della sua cornetta, così potente che si udiva da un lato all’altro della città, non si udrà mai più; la sua musica non è mai stata registrata e incisa. Sarà solo leggenda.


Se ne vanno tutti da Storyville, che in un giorno è stata ridotta ad un cumulo di fumanti rovine. Non c’è più Basin Street, St. Louis Street, Franklin e Bienville; il quartiere è un fantasma senza vita, muto, deserto! Baristi e musicisti, ladri e puttane hanno fatto le valigie e se ne sono andati al nord, a Chicago, e poi a Kansas City a Detroit e su su fino a New York. E così il jazz che è musica dei neri d’America, suonata però anche dai bianchi, si diffonde e cambia “pelle”, cambia stile; è difficile farne la storia in poche righe, in poche pagine. Meglio soffermarci sugli strumenti che danno vita alla nostra musica, prima ancora che sui musicisti che ne hanno fatto la storia, e sono tanti. Non tutti sono dei compositori, alcuni addirittura non sanno leggere la musica, ma ciascuno di essi lascia la propria impronta personale nello suonarla, con lo stato d’animo del momento, con l’improvvisazione.


Gli strumenti del Jazz

Facciamo subito una netta distinzione: all’inizio il jazz si suonava con gli strumenti della banda o fanfara e cioè: cornetta, clarino, trombone, basso tuba e batteria. Poi entrano nell’organico anche il banjo (o la chitarra) ed il piano, quest’ultimo però, per ragioni pratiche, veniva escluso dalle parate e dalle funzioni itineranti. La cornetta (in Fa), dai toni dolci, viene ben presto sostituita dalla tromba (in Si bemolle), dal suono più secco e brillante, a volte perfino stridente, ambedue però con una estensione notevole verso gli acuti (oltre due ottave, dal Fa sotto il Do centrale, con la possibilità della terza per i più abili). Il trombone, prima a pistoni e poi a coulisse, è più difficile da padroneggiare, perché ogni musicista deve crearsi il proprio tono (come per gli strumenti a corde che devono essere accordati prima e spesso anche durante l’esecuzione). Anche qui l’estensione è notevole, ovviamente verso il grave, e gioca l’abilità di labbra sul bocchino ed anche di dita sulla coulisse (da un’ottava sotto la tromba in Fa fino al Sol sopra il Do centrale). La tuba, con funzione di accompagnamento, praticamente ha la stessa estensione del contrabbasso, il più esteso della famiglia dei violini (A salire dal Mi due ottave + una sesta sotto il Do centrale). Il clarino (in Si bemolle), primo legno ad entrare nel Jazz ed oggi praticamente abbandonato, vanta pochi ma notevoli solisti (Barney Bigard e Edmond Hall e poi Benny Goodman e Artie Shaw fino a Tony Scott). La sua estensione va dal Re sotto il Do centrale sino al Do due ottave sopra. Il banjo, strumento a quattro corde (Sol, Re, La, Mi) teneva il classico ritmo in tempo di 4/4, venne ben presto sostituito dalla chitarra, strumento a sei corde (Mi,La,Re,Sol,Si,Mi) che parte un’ottava più su del contrabbasso e giunge al Mi sopra il Do centrale. Oggi non entra più nelle sezioni ritmiche ma ha una decisa importanza solistica, sia essa acustica o elettrificata.


Dopo la diaspora da New Orleans avviene un importante cambiamento nelle formazioni anche per l’utilizzo, per gradi, dei saxofoni che, uno per uno, fanno il loro ingresso nel jazz. (Strumento inventato nel 1840 dal belga Adolphe Sax,). Si va dal contralto, al tenore, al baritono, i più utilizzati, (poco il soprano o il basso) ed è lo strumento più vicino, per intensità, umore e coloriture, alla voce umana. E’, nel jazz, lo strumento che ha dato la possibilità all’individuo di mostrarsi per quello che è, in tutte le sfumature della sua personalità, oppure non è, in momenti diversi. Strumento basilare per l’improvvisazione. (Classico John Coltrane nel modale, vero Miles D.??).


Vi sono poi altri strumenti che sono piÚ che altro utilizzati da veri e propri virtuosi: il violino, lo xilofono (lamine di legno) ed il vibrafono (lamine di metallo), gli archi, l’organo, la fisarmonica ed anche il corno francese ed il flauto, nei fiati.


Un discorso a parte meritano il pianoforte, il contrabbasso e la batteria. Costituiscono la cosiddetta sezione ritmica, essenziale nel sostegno ritmico -armonico, ed ha un ruolo strutturale in qualsiasi tipo di formazione. Dei tre strumenti anzidetti il solo contrabbasso può riassumerne le funzioni e non, come normalmente si crede, la batteria. Ma tutti e tre hanno la possibilità di sospendere, durante l’esecuzione, la loro funzione ritmico-armonica, e possono esporre, negli “assolo”, una linea melodica. Specialmente il pianoforte oggi nel jazz ha un’importanza melodica del tutto paritetica a quella nel concerto classico. La tecnica del pianista jazz è identica a quella del pianista classico; a volte hanno fatto gli stessi studi e poi, per loro tendenza estetica hanno imboccato vie diverse di espressione. A volte il jazzista è più secco e deciso rispetto al pianista classico, più delicato; diciamo che il primo è forte mentre il secondo è piano, ma entrambi quando lo desiderano, oppure è necessario, sono in grado di invertire le loro parti e, credetemi, lo fanno.


Concludiamo la disamina degli strumenti con la batteria. Ai tempi di New Orleans molto schematicamente si trattava di piatti e di grancassa che davano la scansione del tempo in modo ripetitivo, addirittura monotono a volte. Poi lo strumento si è arricchito, evoluto e, senza considerare le varianti squisitamente etniche (tam-tam, bongos, conga, gong) è principalmente costituito da: 2 piatti o cimbali, l’hi-hat o charleston (piatti a pedale X piede sinistro), 2 tom tom, il rullante, la grancassa (a pedale X piede destro) e un tom tom a terra. La percussione avviene con bacchette in legno, a spazzola di metallo oppure con tampone in feltro. Il batterista, oltre a possedere una spiccata sensibilità musicale, deve essere dotato di agilità e resistenza; inoltre deve possedere la padronanza di movimento indipendente di tutti e quattro gli arti, che sono impegnati, con diversa intensità e tempismo, in contemporanea.


E’ tempo, a questo punto, di lasciare le parole e passare all’ascolto di alcuni brani sperando che siano accolti con lo stesso interesse con cui avete seguito finora. Per il momento tralascio volutamente il discorso sulle varie scuole (o se si vuole stili del jazz) che potranno essere argomento di futuri incontri se vi interesserà. Mi limito ad enunciare, e poi passiamo all’ascolto, quali sono gli elementi del jazz: • l’improvvisazione • il beat (il tempo, la pulsazione base) • lo swing (quel bilanciamento tra ritmo e melodia che ti dava la sensazione, fisica e psichica, di vigore e di abbandono contemporaneamente) • il timbro (la qualità personale del suono) • l’entusiasmo • l’ironia Serve conoscerli ma non sono necessari per un buon ascolto; basta sensibilità musicale e disposizione ad accettare qualcosa di nuovo o di non conosciuto.


D I S C O G RA F I A Iniziamo il nostro percorso con un brano vocale; è un gospel per la voce di Mahalia Jackson dal titolo Nobody Knows The Trouble I ‘ve Seen, registrato nel 1953. Coro e batteria sono sconosciuti, la pianista è Mildred Falls. (2’38”) Il secondo brano è Tin Roof Blues eseguito dalla cornetta di Muggsy Spanier and his V Disc Dixielanders. Muggsy Spanier, cornetta Lou Mc Garity, trombone Peanuts Hucko, clarinetto Bud Freeman, sax tenore Dave Bowman, pianoforte Hy White, chitarra Trigger Alpert, contrabbasso George Wettling, batteria.

New York City, 22-10-1945. (2’56”). Abbiamo adesso due brani del grande Louis Armstrong: il primo è un ragtime il celebre Tiger Rag di Nick La Rocca (2’29”) mentre il secondo brano, in tempo più lento, dal titolo I’m Confessin’ That I Love You (3’20”) eseguito da L.A. And His V Disc All Stars. Louis Armstrong, tromba e voce Bobby Hackett, tromba Jack Teagarden, trombone Ernie Caceres, clarinetto Nick Caiazza, sax tenore Johnny Guarnieri, pianoforte Herb Ellis, chitarra Al Hall, contrabbasso Cozy Cole, batteria. New York City, 17 Dicembre 1944.

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Continuiamo nell’illustrazione musicale dello stile New Orleans con due brani di Bix Beiderbecke, (1903-1931) il primo con la sua Gang si intitola At The Jazz Band Ball di Nick La Rocca. (2’50”) Bix Beiderbecke, cornetta Bill Rank, trombone Don Murray, clarinetto Adrian Rollini sax basso Frank Signorelli, pianoforte Chauncey Morehouse, batteria. New York, 5 ottobre 1927. Il secondo brano è un pezzo dello stesso Beiderbecke, eseguito al pianoforte solo. (2’43”) In A Mist è il titolo, registrato a N.Y. il 9-9-1927. Pianista e organista di somma levatura è “FATS” WALLER (1904-1943) che ascoltiamo nel celebre Stardust al piano, (3’12”) N.Y. 11 giugno 1937 e poi in St. Louis Blues all’organo (2’53”) di oltre dieci anni precedente, N.Y. 17 novembre 1926. Oltre che compositore era anche un divertente cantante. Passiamo ora ad un pianista che ha rivoluzionato il modo di suonare il pianoforte, influenzando lo stile di tutti i pianisti jazz seguenti. E’ Art Tatum (1909-1956), che possedeva una tecnica prestigiosa pur essendo pressoché cieco, un virtuosismo brillante ed una inventiva geniale. Ascoltiamo come esegue lui da solista St.Louis Blues (2’29”) Los Angeles 27-07-1940, e poi in trio The Man I Love (Tempo 4’12New York, 1 maggio 1944, con Tiny Grimes alla chitarra e Slam Stewart al contrabbasso, (pizzicato e archetto). Ma il pianismo jazz, nel 1927, era stato caratterizzato da un altro capostipite dello strumento che si rifaceva direttamente al fraseggio della tromba di Armstrong, si tratta di Earl “Fatha” Hines (1903-1983) e del suo famosissimo “Trumpet Piano Style”. Con lui la tastiera si calma e lascia il furore del ragtime. Lo ascoltiamo in un brano di sua composizione intitolato Rosetta (3’50”) registrato a New York il 17 luglio 1950 Cliccando sui titoli dei brani è possibile ascoltarli on line (occorre essere connessi a internet)


Finora ci siamo occupati di singoli strumenti e dei più o meno piccoli “combo” cui davano voce; ma suonavano eccome anche le grandi orchestre, ritornate addirittura dalle tournee europee dopo la grande crisi economica del 1929. A New York dominava “Duke” Ellington (1899-1974), con una formazione, che annoverava dei formidabili solisti, composta da 4-5 trombe, 3 tromboni, 5 ance (cl, 2 as, 2 ts, bs), pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Nei due pezzi che ascoltiamo sono in evidenza il clarino nel primo e la tromba nel secondo: si tratta di Clarinet Lament e Echoes Of Harlem (3’10” + 3’10”) del 1936. I solisti sono Barney Bigard al clarino e “Cootie” Williams alla tromba. Negli stessi anni (1937/1939) altre due grosse formazioni meritano di essere citate e confrontate con quella di Ellington; si tratta delle orchestre di Jimmie Lunceford (1902-1947) e di Count Basie (1904-1984), che danno vita allo stile di Kansas City. Ascoltiamo il primo in Uptown Blues del 1939 (2’52”). Concludiamo in questa prima parte la rassegna di grandi orchestre con Count Basie in Swingin’ The Blues, una sua composizione eseguita qui nel 1937 (3’04”). Ed ora sulle note di Take Five (4’45”) il celebre pezzo di Paul Desmond, colonna del Dave Brubeck Quartet, ci prendiamo qualche minuto di intervallo.

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Seconda parte Abbiamo fin qui percorso, musicalmente, almeno quaranta anni di musica jazz, ma non più di dieci anni di registrazioni. Riprendiamo il nostro cammino di ascolto con un balzo temporale di un secolo, per tornare poi alla fine degli anni ’40, confrontando l’esecuzione di un brano LET’S FALL IN LOVE da parte di tre diversi combo. Diana Krall Live a Parigi, nel 2002 (4’34”) Getz/Mulligan nel 1957 [CD 6/1] (6’25”) Benny Goodman nel 1944(45) (3’19”) Anche all’orecchio poco avvezzo a questo genere musicale si evidenziano le notevoli differenze esistenti, oltre che nello stile di esecuzione, anche nell’impiego degli strumenti. E’ però comune la facilità nell’ascolto; il tema è più che riconoscibile e la parte solistica degli strumentisti è molto facile e gradevole. Nel 1941 Charlie Christian con l’adozione della chitarra elettrica rivoluzionava l’uso di questo strumento: ascoltiamolo in Swing To Bop (8’55”). Era stato dal 1939 il chitarrista di Benny Goodman ed in questo brano ci sono già le prime avvisaglie del BEBOP il movimento stilistico che avrà i suoi massimi esponenti in Charlie Parker Dizzy Gillespie, Miles Davis, Thelonius Monk. C.Parker 1945 Now’s The Time (3’14”).

D.Gillespie 1946 Night In Tunisia (3’03“)

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Intanto (1948) Milton Jackson (di Detroit, come i vari Jones) rivoluziona lo stile che aveva Lionel Hampton e suona con i maggiori Boppers. Lo ascoltiamo in Slits. (2’37”). Nel 1952 darà vita al M.J.Q. con John Lewis al piano e Kenny Clarke alla batteria, oltre al bassista Percy Heat. Il grande Duke Ellington, con la sua inossidabile orchestra, nel 1950 continua a far sentire la “sua musica”, come lui chiama il Jazz. Lo ascoltiamo in due magistrali esecuzioni: Solitude un brano composto nel 1934, in soli 13 minuti, seduto per terra in attesa di entrare in sala di incisione, e poi The Tattooed Bride una suite del 1948. (8’15” + 11’40”) Sulla West Coast (California) nell’estate 1952 nasce il celebre sodalizio Gerry Mulligan/Chet Baker, un combo a 4, con basso e batteria ma senza pianoforte. Li ascoltiamo in uno stupendo Stardust inciso nel dicembre 1957 (4’42”). Sulla East Coast (New York) sempre nel 1952, nasce il Modern Jazz Quartet (p, vib, cb, dr) la cui musica venne definita Jazz da Camera; lo ascoltiamo in un brano del leader, il pianista John Lewis dal titolo The Queen’s Fancy (3’15”). Ma lo strumento intramontabile è sempre il pianoforte, vero pilastro del jazz, pur nel volgere di diversi stilemi e formazioni. Ascoltiamo due veri portenti della tastiera Michel Petrucciani e Brad Mehldau. Il primo, inciso nel novembre 1991 è la celeberrima canzone Estate di Bruno Martino (9’25”); il secondo, nel marzo 2000, come solista, in Perugia, sua composizione in omaggio alla città del Festival. (3’50”). No comment di fronte a tanta arte! Cliccando sui titoli dei brani è possibile ascoltarli on line (occorre essere connessi a internet)


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E per concludere la serata, ascoltiamo fin dove è giunto quell’autentico genio che risponde al nome di Duke Ellington. I brani sono l’Ouverture dello Schiaccianoci di Tchaikovsky e Morning Mood dalla prima suite Peer Gynt di Grieg, ovviamente arrangiati da Duke Ellington, per fiati anziché per archi. Gli ultimi due pezzi si riallacciano al brano con cui abbiamo iniziato: vi ricordate il gospel di Mahalia Jackson? Qui invece si tratta di due frammenti del Second Sacred Concert eseguito nella Cathedral Church of St.John the Divine in New York il 19 Gennaio 1968. I brani sono Praise God e T.G.T.T. cioè Too Good To Title (3’06” + 2’20”).


Il Jazz ‌ secondo me!

Impaginazione e design di Giorgio Belletti settembre 2015


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