Braviautori n 001

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Editoriale

Un nuovo giornale per voi... Massimo Baglione

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così, ci siamo tuffati anche in questa nuova avventura editoriale. Quando nacque il sito visual-letterario "BraviAutori.it" ero intimorito dalla possibilità che tale progetto diventasse semplicemente uno dei tanti, creati certamente con tanta passione e dedizione, ma comunque uno dei tanti. Sin dagli inizi, nella primavera del 2007, mi fu chiesto (in relazione al nome scelto per il sito) in che modo ci potessimo permettere la libertà di stabilire chi fosse bravo e chi no. La mia pronta risposta è stata la stessa che fornirei oggi se mi interrogassero nuovamente su quel punto, ovvero: "Bravi" non vuol dire solo "capaci di fare", ma è anche e soprattutto sinonimo di "coraggio", ed è a questa seconda accezione del termine che puntiamo: incentiviamo la voglia di lavorare, di imparare, di migliorare, di interagire in gruppi di lavoro, a sfidarsi in gare letterarie, a pubblicare, a leggere, a scolpire, a disegnare e a scrivere, sempre, anche quando non se ne ha voglia. Sempre! E ci vuole "coraggio" per farlo. E bisogna essere proprio "bravi" per riuscirci. E magari "bravi", nella prima accezione del termine, lo si potrà anche diventare, ma non saremo certo noi a stabilirlo: ci penseranno i nostri amici visitatori a decretare la qualità dei lavori pubblicati. I possibili termini contrari di "bravo" sono: irrequieto, disonesto, cattivo, vile, codardo, pauroso, timido, ignorante, incompetente, inefficiente, incapace, inesperto, impreparato, inattivo, insicuro, scadente... ovvero tutte caratteristiche che BraviAutori punta a eliminare o migliorare (nel proprio tessuto) e a far

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migliorare (negli artisti). Talvolta, tuttavia, accade che un potenziale BravoAutore voglia consciamente restare confinato in una o più di queste ultime definizioni e, come Madre Natura insegna, alla fine si autoseleziona. Fortunatamente sono poche queste teste matte, il che ci fa sospettare che il nostro lavoro stia seguendo il giusto sentiero. La rivista "BraviAutori - Il Foglio letterario" che i n qu es t o m o m en t o s t ri n get e orgogliosamente nelle mani... ah no, scusate: avevo dimenticato che i primi numeri saranno d i s t r i b u i t i t r a m i t e ebook. Poco male, vorrà dire che sarò costretto a usare questo editoriale anche per il primo numero che sarà affettivamente stampato su carta, e così mi risparmierò un paio d'ore di lavoro. Allora, stavo dicendo? Ah sì, certo. Allora: la rivista "BraviAutori - Il Foglio letterario" che in questo momento viene visualizzata nel monitor di fronte a voi, nasce in primo luogo grazie alle battenti ed estenuanti pressioni psicologiche di "Alessandro Napolitano", orgoglioso collaboratore di BraviAutori, consigliere e amico. Riuscito a estorcermi con la forza l'indispensabile "OK" a procedere, Alessandro si è messo in contatto con "Gordiano Lupi", direttore de "Il Foglio letterario". I due, dopo aver confabulato tra loro, si sono accordati per dar vita a questa interessante iniziativa letteraria. Il Foglio letterario ci ha praticamente dato carta bianca e questo fatto, dal nostro punto di vista, è un enorme segno di fiducia, rispetto e amicizia che tenteremo con tutte le nostre forze di mantenere ai massimi livelli. Ringrazio quindi Gordiano Lupi e tutto il suo


In questo numero (Continua da pagina 2)

Staff per aver creduto alle frottole che gli avrà abilmente rifilato il nostro Alessandro. Ora vi starete chiedendo: "D'accordo, bla bla bla e ancora bla bla bla, ma BraviAutori, cos'è?" Vi dico subito che il nome "BraviAutori" l'ha inventato mio fratello Claudio, associandolo all'affetto che provo per il sito www.nuoviautori.org (di Carlo Trotta), grazie al quale sono cresciuto in questo ambiente. Originariamente l'intero progetto doveva svilupparsi con loro, ma poi abbiamo deciso di tenere le cose separate e restare comunque ottimi amici e reciproci collaboratori. Quindi, durante una delle nostre abituali camminate in montagna, mentre ragionavamo sul nome, Claudio (con la bava alla bocca per lo sforzo di riuscire a seguirmi) schiumò la parola "BraviAutori". Mi piacque subito e gli concessi dieci minuti di riposo sotto una quercia, congratulandomi per l'idea. BraviAutori, escluso il suo forum, è un portale interamente fatto a mano, con tanta calma, tanti errori prontamente corretti, tanta fantasia e moltissima pazienza da parte dei primi eroici collaboratori che hanno avuto l'insana voglia di credere in questo mio progetto. Col passare dei mesi il portale si è ampliato, cresce tuttora, si fa conoscere e punta a fare sempre meglio, proprio per onorare la parola "Bravi" che lo marchia a fuoco e ne condizionerà per sempre il cammino. BraviAutori non è solo un contenitore di opere online, ma è un punto d'incontro dove gli utenti e gli autori possono interagire per conoscersi e imparare. Il forum è diventato il crocevia di tutte le nostre iniziative, per esempio: (Continua a pagina 12)

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Editoriale: Un nuovo giornale per voi

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Rodesia Vichi - intervista e recensione

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Ci vediamo tutti su Anobii!

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365 Storie Cattive… Ovvero?

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Epicuro, il piacere e il consumismo

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Storia Rinascimentale - disegno

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Francesco Barbi - intervista e recensione

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C’è un Bernini magico-esoterico?

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Sotto falso nome - racconto

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Sergio Martino, regista - intervista

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Un poeta lontano dalla patria

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Tutti i colori del buio - recensione

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Fantascienza: Philip Josè Farmer

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Una piccola peste - racconto

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La giunzione PN

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Lo stile del Campione

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Le vie per l’energia (pulita) sono infinite

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Who let the dogs out?

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Mosaico alchemico

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Venezia 67

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Fantastico e Altri Orrori

e tante altre notizie dal sito web www.ilfoglioletterario.it

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Rodesia Vichi Pia Barletta

Chi è Rodesia Vichi e quando è iniziata la voglia di scrivere? “Chi sono? Ora come ora non lo so. Un giorno lo scoprirò o forse no. Di certo giammai sarò ciò che il mondo pretende che io sia”. Parole di Mavi, l’eroina del mio primo romanzo, che si adattano perfettamente anche a me. Sono una persona riservata e solitaria, molto curiosa, attratta da tutto ciò che non si vede… come la psiche umana, un affascinante mistero che resterà tale per sempre. Per una solitaria come me i libri sono da sempre una preziosa e gradita compagnia. La mia attività di scrittura è iniziata una decina di anni fa: dopo tante letture, il passaggio è stato quasi inevitabile.

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L’erotico fa ancora molto discutere, come mai l’approccio proprio a questo genere? Proprio perché fa discutere! Ma non solo per questo, ovviamente. Penso che la sessualità sia la sola e vera essenza della vita oltre che l’origine – fino a prova contraria ognuno di noi è la conseguenza di un atto sessuale – pertanto scrivere di eros e di passione equivale a scrivere della vita stessa. Esiste

Le interviste di Bravi Autori Intervista a Rodesia Vichi, autrice del romanzo erotico ”Esibizionista a pagamento”

forse qualcosa di più bello? Si dice che ci siano più donne che uomini a occuparsi di scrittura erotica, sei d’accordo e per quale ragione? Sì, sono d’accordo, più donne che uomini. Per quale ragione? Semplice: la donna è molto più brava e l’uomo, quando se n’è accorto, ha pensato bene di battere in ritirata per non uscire sconfitto dal confronto. Battute a parte, la donna sta lottando da decenni per riappropriarsi del diritto alla sessualità, un diritto che in passato le è stato indebitamente sottratto. Scrivere di sesso (o parlarne pubblicamente) fa parte di quest’ampia battaglia. E spero che altre donne si uniscano presto al gruppo perché la vittoria, checché se ne dica, è ancora ben lontana. Quel cambiamento che spesso ci appare immenso, in realtà è piccolo piccolo, soltanto epidermico e a macchia di leopardo. Come dico sempre, non si cancellano millenni con un colpo di spugna. Esiste una tipologia di lettore di questo genere? Stando alla mia esperienza personale, questo genere piace soprattutto alle


donne. Giovani e meno giovani. Secondo i dati di una nota casa editrice specializzata in narrativa erotica, le lettrici sono donne di livello culturale medio-alto, impiegate, insegnanti, dirigenti, professioniste con reddito spesso al di sopra della media nazionale. Donne colte e ricche, in sintesi. Di solito nella stesura di un libro ci si documenta su tante cose, tu l’hai fatto e, se sì, in che modo? Eccome se l’ho fatto! Consultando testi scientifici e di psicologia. Ascoltando con molta attenzione le confidenze piccanti degli amici. Chiedendo pareri a esperti e sessuologi, quando capitava l’occasione. Andando a visionare di persona certi luoghi dei quali mi avevano parlato e alle cui “particolarità” proprio non credevo. In “Esibizionista a pagamento” hai ben descritto le perversioni umane entrando nella psicologia dei personaggi, quanto secondo te è labile il confine tra sesso e perversione? Cosa fa la differenza tra le due cose? Non esiste alcun confine. O meglio, esiste, ma lo abbiamo inventato noi e varia da luogo a luogo e da un’epoca all’altra. Tanto per fare un esempio, nell’antica Grecia

l’amore tra adulti e fanciulli era assolutamente lecito, veniva celebrato nei riti, nella letteratura, e riconosciuto come forma pedagogicaeducativa. I genitori affidavano con gioia i loro figlioletti alle “cure” di certi grandi maestri. Noi oggi grideremmo all’orrore e linceremmo i mostri in pubblica piazza. E’ una questione culturale. Nel sesso non c’è giusto o sbagliato, sano o insano. Tutto è ammesso, purché non rechi danno al prossimo. Tuttavia non credo a quelle che comunemente definiamo perversioni. Sono solo un rifugio: faccio questo perché quello mi fa paura, faccio questo perché non mi sento in grado di fare quello. Aurora, la protagonista del romanzo, imbocca quella strada perché rifiuta il proprio amore per Oleksandr. Un rifugio. In parte anche una moda: se ne parla e se ne parla e, inevitabilmente, curiosità e voglia di provare attecchiscono. Poi il tutto diventa un’abitudine collosa. Come il fumo. O l’alcol. Nel tuo primo libro, “Mio re dagli occhi belli”, la protagonista, Mavi, è una giovane ragazza innamorata, che vediamo crescere alla perenne ricerca dell’amore vero. Ma in realtà la vena, nemmeno tanto sottile, poetica è rintracciabile in

entrambi i libri: infatti anche Aurora è innamorata del suo uomo. Cosa ha ispirato i tuoi romanzi? Il bisogno di amore che serpeggia ovunque. Muto, mascherato, rinnegato ma lo si trova in ogni angolo. E chi sa guardare di là dell’apparenza lo vede bene. Tra i due personaggi, Mavi e Aurora, qual è quello in cui ti potresti riconoscere? Senza dubbio Mavi, sognatrice, idealista, ma anche disubbidiente, anticonformista e ‘scomoda’. Aurora assolutamente no: è troppo succube dei dettami del nostro tempo. Le tue capacità descrittive sono davvero stupefacenti, sia per le scene che per i personaggi, quali letture hanno condizionato il tuo stile? Forse i classici della letteratura italiana, i miei preferiti. E i più letti. Erotico. Un genere di nicchia, tanti lo leggono e pochi lo ammettono, qual è stato il tuo impatto con le case editrici? Pessimo. Solo un numero esiguo di case editrici prende in considerazione questo genere. E con i lettori? Hai avuto riscontri favorevoli?

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Sì, con i lettori è andata più che bene. In tutta sincerità, mi aspettavo molto meno. E sarei stata già contenta. Ti ritieni soddisfatta del lavoro di promozione operato dalla casa editrice? Be’, io non sono certo stata con le mani in mano! Hai altri progetti per il tuo futuro? Intanto vorrei pubbli-

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care il mio terzo lavoro terminato da poco, anch’esso un erotico con un interessante tema di fondo. Poi vorrei cimentarmi con qualcosa di diverso. Tra non molto comincerò a pensarci. Hai da poco ricevuto un bellissimo e prestigioso riconoscimento: il premio “Dolcetta d’oro”, credi che questo potrà agevolarti nella pubblicazione del prossimo libro? Spero di sì ma non

m’illudo, la pubblicazione è sempre difficile per un autore emergente. Di certo mi aiuterà molto far tesoro dei consigli illuminanti ricevuti a Fiuggi il giorno della premiazione, in particolare dall’ideatore e organizzatore del Premio, il Dr Pino Pelloni che ringrazio pubblicamente.

urora è emancipata, spregiudicata e disincantata. Il sesso le piace ma aborrisce ogni forma di legame che possa minare la cosa a cui tiene di Pia Barletta più: l’indipendenza. Tuttavia una sera accade l’imprevisto: qualcuno apre una falla nel suo meccanismo di difesa così attentamente costruito. Un uomo dal corpo statuario e dai modi insoliti che cambia la sua vita in maniera inaspettata, un uomo che riesce a procurarle intensi brividi di piacere, un amante eccezionale. Suo malgrado Aurora non riesce a prenderne le distanze e, quando si presenta un problema economico contingente, decide di procurarsi soldi facili e immediati. Inizia quindi un percorso nel mondo della prostituzione. Un passo via l’altro, con dovizia di particolari, l’autrice ci accompagna nel viaggio passando dagli approcci al primo appuntamento, descrivendo le titubanze iniziali subito represse di Aurora da una frase tanto ricorrente da diventare quasi un mantra: “Non è come prostituirsi, ma solo fare sesso in presenza di qualcuno che per questo dovrà essere molto generoso”. Esibirsi dunque, mostrarsi in un gioco erotico con il suo compagno, ma a pagaEsibizionista mento. a pagamento Quella che sembra una facile e temporanea soluzione diventa qualcosa che le sfugge di mano e le porte di un mondo insospettato, il mondo nascosto di un Rodesia Vichi campionario di incredibili perversioni, si spalancano in maniera impietosa. Robin Edizioni Dopo un po’ cambia il mantra ma non il gioco, la frase ricorrente diventa “Ancora una volta e poi basta”. Aurora invece non riesce a fermarsi, spinta in un vortice di libidine in bilico tra la ragione e le forti emozioni; con la mente offuscata si spinge sempre un po’ oltre, fino al limite. Ma qual è il limite per l’essere umano? È la domanda che ci fa porre l’autrice con questo romanzo definito erotico ma che in realtà è un viaggio nella parte più recondita della psiche umana, un viaggio raccontato in maniera cruda, senza lesinare sui dettagli, descrivendo la più piccola sfumatura. Le scene di sesso si susseguono con ritmo sempre più incalzante, senza sosta, e ognuna sempre diversa dall’altra pur se con un denominatore comune. La potenza narrativa di Rodesia Vichi fa sì che un lettore attento, pur se non avvezzo al genere, riesca a leggere tra le righe il substrato poetico e una storia tanto tormentata quanto appassionata che fa da contraltare, tenendolo incollato al libro fino all’ultima pagina rimanendone letteralmente conquistato.

Recensione di

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Ci vediamo tutti su Anobii!

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a mia amica Pia e io scriviamo recensioni. In realtà, io ho cominciato da poco: ho fatto la prima un paio di mesi fa. Alla fine l’ho pubblicata sul portale di BraviAutori ma questo a Pia non è bastato (“valla a mettere su Anobii!”). Dato che la mia ragionevole giustificazione (“ma io non sono iscritta su Anobii”) è stata bellamente ignorata (“non fare la Yle: iscriviti e pubblica la recensione!”) non ho avuto altra scelta che obbedire. Ecco come sono arrivata nel più grande ritrovo di lettori in rete. Sicuramente si tratta di uno strumento assai versatile: c’è chi lo usa solo per aggiornare la libreria, chi sguazza tra i gruppi, chi cerca nuove letture e chi tenta di promuovere se stesso… insomma, c’è un po’ di tutto. Infatti, su ogni libro c’è almeno un parere straentusiasta e almeno una mega-stroncatura (de gustibus ecc ecc) e ognuno di noi cerca di orientarsi in base alla compatibilità con l’autore dell’elogio o della stroncatura. Se adesso vi sentite un po’ spiazzati, non avete mai provato Anobii e la vostra situazione è identica alla mia di un mese e mezzo fa. Se invece siete dei frequentatori abituali, forse potrebbe interessarvi l’idea di farvi quattro risate ascoltando le disavventure di una “niubba”. Ecco la mia esperienza. Mi chiamo Ylenia e sono un’anobiana. All’inizio la cosa che mi ha esaltata di più è stato inserire tutti i libri che avevo letto nella mia pagina. Ho smontato la libreria, prendendo tutti i romanzi che mi capitavano sotto tiro e identificando l’amato/odiato ISBN: da leggere, finiti, abbandonati, in lettura. Mettere le stelline mi esaltava. Mi sentivo felice di comunicare al mondo le mie letture e le mie opinioni su di esse. Quando ho cominciato a dedicarmi alle recensioni… ero già irrimediabilmente caduta nel tunnel. Poi sono arrivati i contatti. Prima gli amici di Facebook, aggiunti automaticamente in massa. Poi, dalle loro librerie, guardando i commenti ne-

DI WEB IN WEB Ylenia Zanghi gli shoutbox, gli amici comuni. Poi anche quelli che scrivevano cose su cui ero d’accordo. È stato allora che ho notato la compatibilità. Chi aveva letto i miei stessi libri (soprattutto se li aveva valutati in modo analogo) aveva una buona compatibilità, ma ce n'erano anche di “molto alte” e “straordinarie”. Dovevo essere aggiornata sulle nuove letture di quelle persone! E c’era un modo per riuscirci, “vicinizzarle”. Eccomi partita alla ricerca di compatibilità straordinarie da monitorare 24 ore su 24! Poi una dei vicinizzati mi dice “anche tu ami la scrittrice Taldeitali? Raggiungici sul gruppo a lei dedicato!”: è l’inizio della fine. Eccomi coinvolta nel vortice dei gruppi, sempre di più, sempre più diversi, sempre più attivi. Ecco le discussioni, “indovina la citazione”, “letture di agosto”, “libri da leggere obbligatoriamente”… solo scambi e commercio mi sono risparmiata, finora. In effetti, la cosa non è casuale: è che sono stata colpita dalla mania delle temibili CATENE DI LETTURA!!! Libri mai sentiti di autori misconosciuti, a me! Scherzi a parte (i libri per cui mi sono prenotata promettono molto bene) la cosa rasenta il patologico: in meno di 20 minuti mi ero iscritta a ben 6 catene di lettura. Sei! Se anche voi volete mettervi in cerchio a raccontare le vostre vicende, amici anobiani anonimi, non abbiate timore: contattatemi. La via per la guarigione, passa attraverso… aspetta un attimo… e chi vuole guarire?! Non so voi ma io su Anobii ho trovato il mio ambiente ideale! Ma se volete raccontarmi la vostra esperienza di anobiiers navigati, o di pivelli inesperti, fatevi avanti (destinazione contributi: nasfer44minorchiocciolayahoo.it). Chissà che non riesca a raccogliere materiale per un altro articolo. Io sono una scansafatiche, quindi lo apprezzerei molto. Sul serio, eh? Altrimenti… ci vediamo (tutti!) su Anobii.

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365 Storie Cattive… Ovvero? Alessandro Napolitano

Questo è il tormentone estivo degli scrittori italiani, conosciuti o meno. Tutti inclusi. Noi della redazione di BraviAutori abbiamo pensato di approfondire questo progetto e abbiamo incontrato il suo ideatore, Paolo Franchini. Ciao Paolo, veniamo subito al dunque, dove nasce l'idea per 365 storie cattive? Mi piace definirla una sana follia, una delle tante che – spesso – mi rapiscono. Come spiego nelle note di presentazione del Progetto, mio nipote Lorenzo è una delle (quasi) 500 persone al mondo a cui è stata diagnosticata l’Emiplegia Alternante, una malattia neurologica infantile molto rara, le cui cause sono ancora del tutto sconosciute e per la quale, purtroppo, non esiste una cura risolutiva. Per contribuire in modo concreto alle attività della A.I.S.EA Onlus (www. aiseaonlus.org), l'associazione che si occupa della lotta a questa grave malattia, ho pensato di trasformare la cattiveria in bontà, chiamando a raccolta chi ama scrivere racconti neri per un pro completamente benefico. Una sfida nella sfida, una prova resa ancora più difficile dalla lunghezza

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Le interviste di Bravi Autori

Incontro con l’ideatore del tormentone estivo degli scrittori italiani. (dalla brevità, anzi) dei tanti racconti che voglio diano vita all'antologia: 365 storie da 365 parole al massimo. Diamo qualche indicazione ai nostri lettori, come sarà possibile aiutare l'A.I.S.EA Onlus ed acquistare l'antologia? Il volume, che vorrei rendere disponibile a partire dalla metà di novembre, sarà reperibile su Internet tramite i consueti canali di vendita, ma si potrà acquistare 'normalmente' anche in tutte le Feltrinelli d'Italia. Al momento di questa intervista (22 Agosto 2010), gli autori selezionati sono già 221. Di questo passo, non sarà un problema arrivare ai fatidici 365. Ti aspettavi tutto questo successo? Mi auguravo - come mi auguro tuttora di raggiungere i 365 racconti entro la fine di ottobre, ma non pensavo di arrivare al "giro di boa" già dopo una quindicina di giorni dal lancio dell'iniziativa. La risposta è stata più che positiva sia da parte dei tanti esordienti (e dei numerosi sconosciuti), sia da parte degli scrittori già affermati che hanno


deciso di regalare 365 parole al volume. L'antologia potrà vantare, infatti, anche nomi da milioni di copie, con pseudonimo o senza: uno per tutti, quello di Marco Buticchi, un eccezionale autore - edito da Longanesi insieme a Wilbur Smith e Clive Cussler che viene tradotto, letto e apprezzato in mezzo mondo. Pensi sia possibile ripetere l'esperimento? Sarebbe davvero molto bello, soprattutto per l'Associazione. Prima di ringraziarti e congedarci da te, vorremmo che tu ci raccontassi qualcosa del Paolo scrittore. Posso dire che scrivo da molti anni, ma che sono edito solo dal 2007. Sino a oggi ho firmato tre romanzi, diversi racconti, il testo di qualche canzone, il soggetto e la sceneggiatura di un cortometraggio... Cerco di darmi da fare, ecco tutto, nell'ambito del giallo e di noir, ma non solo. Per conoscermi meglio, comunque, venite a trovarmi su www.paolofranchini.tk . Ne vedrete delle belle, garantito.

Epicuro, il piacere e il consumismo Josephine Ebner

La ricerca della felicità secondo Epicuro

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iù di 2200 anni fa, Epicuro scriveva al suo corrispondente e amico Meneceo sull’importanza, sulla ricerca e sul raggiungimento della felicità, temi che tanti altri filosofi e pensatori hanno trattato, ma di cui nessuno è mai riuscito a parlare in modo così semplice, diretto, basandosi solo sulla vita terrena e sui desideri e le inclinazioni dell’animo umano, tanto da dimostrarsi ancora attuale. La ricerca della felicità è incondizionata da luoghi o epoche, tanto che la “Lettera a Meneceo” potrebbe benissimo essere stata scritta da un filosofo contemporaneo, senza che se ne dovesse, anche solo minimamente, alterare il pensiero, tanto questo è profondo e senza

tempo. Secondo Epicuro, la felicità è il benessere, la serenità del nostro animo ed è quindi fortemente legata a come affrontiamo la vita, ai nostri comportamenti, alle nostre paure, ai nostri desideri. Essere felici significa vivere bene, liberi da timori o rimorsi, perché “quand’essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla”: felicità è assenza di sofferenza, sofferenza è mancanza, bisogno di piacere e piacere non è altro che soddisfazione dei nostri desideri, ma è proprio qui che Epicuro mostra la saggezza del suo pensiero. Se soddisfacessimo ogni nostro desiderio proveremmo dei rimorsi che ci procurerebbero dolore, ostacolando, così, il raggiungimento della felicità: è

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per questo che Epicuro, tra i desideri umani distingue quelli inutili – che vanno evitati perché procurerebbero solo un danno – e quelli naturali, ma anche tra questi ultimi egli distingue quelli veramente necessari, che tengono in salute il corpo e la mente. Il piacere, quindi, può essere in sé un male, se reca con sé più dispiaceri che piaceri, o un bene, “quando aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno”. Legato al tema dei desideri e dei piaceri c’è quello dei bisogni terreni e l’importanza dell’indipendenza da essi: bisogna accontentarsi del poco per godere anche di questo quando non si ha molto e per apprezzare meglio la ricchezza quando la si possiede perché “in fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile”. Su

questo concetto è molto importante fermarsi a riflettere, soprattutto nell’epoca contemporanea. “Ciò che veramente serve” è il soddisfacimento dei desideri necessari: essere felici, quindi, non è difficile, non necessita di strumenti o di capacità “difficili a trovarsi”. Questa breve affermazione basta in sé a mostrare l’inutilità del consumismo alla base della società odierna. L’uomo moderno sente continua-

mente il bisogno di comprare, possedere e consumare beni materiali che lo possono illudere per un momento, ma ciò che viene desiderato inutilmente non aiuta ad essere realmente felici: secondo Epicuro è “il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto”, di ogni nostra azione di ogni nostro bisogno la chiave che porta al raggiungimento della felicità.

Software autoprodotto di pubblico dominio, in italiano

www.micla.org

dal sito www.foglioletterario.it Alejandro Torreguitart Ruiz continua a raccontare le contraddizioni della società cubana, ma questa volta sceglie la narrativa fantastica elaborando gustosi remakes letterari ispirati alle opere di Robert Louis Stevenson e di Howard Phillips Lovecraft. Mister Hyde all’Avana racconta le vicissitudini di uno scienziato alle prese con un filtro che separa il bene dal male, ma deve fare i conti con il suo perverso lato femminile. L’orrore di Yumurí attualizza nell’oriente cubano, alla foce di un fiume dove un capo indio perse la vita, il noto racconto di Lovecraft ambientato nella fantastica Dunwich. Il cane è ancora ispirato a una storia di Lovecraft, utilizzata in funzione fantapolitica per parlare dei misteri del palo mayombe e dei culti sincretici. In chiusura non poteva mancare un Diario Quotidiano - diretta continuazione di Adiós Fidel (2008) - composto da racconti ispirati all’attualità politica che ironizzano sugli eventi principali della politica cubana avvenuti nel biennio 2008 - 2009.

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(Gordiano Lupi)


Storia Rinascimentale Simone Messeri

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(Continua da pagina 3)

"Libri d'Autore", una sezione del portale dedicata alle recensioni dei libri. È divisa in due segmenti: "Autori famosi", dove chiunque può recensire i libri dei grandi autori (sezione diretta da Alessandro Napolitano), e "Autori esordienti", dove le nostre wonder woman "Pia Barletta" e "Miriam Mastrovito" leggono e recensiscono i libri degli autori esordienti. "Le Gare", ovvero piccoli concorsi letterari mensili dove i nuovi arrivati possono interagire con i veterani, farsi conoscere e mettersi alla prova. Ogni Gara è pubblicata in ebook. Oltre a questa importante interazione con Il Foglio letterario, BraviAutori ha instaurato altre forme di collaborazione. Ne cito velocemente le più importanti: "Autori di Confine", ovvero lo scambio reciproco di opere testuali tra BraviAutori e il sito www.terrediconfine.eu; "Autori TV", dove la TV online www.laweb.tv realizzerà un servizio televisivo per ogni vincitore delle nostre Gare letterarie, con reading dal vivo in prestigiose location artistico-culturali. Con "Parole al passo" (la trasmissione settimanale della web radio RadioImago (www.radioimago.net) spesso organizziamo reading in diretta con nostri autori in studio. BraviAutori, inoltre, possiede alcuni strumenti che difficilmente si possono trovare su altri siti, per esempio: "EdOra", un correttore di testi online che fornisce statistiche sul testo e altre interessanti informazioni; "StoryMaker", un programma online per assistere gli autori nella scrittura collaborativa. Poi abbiamo due chat (una piccola nella homepage e una grande a parte), un forum, la messaggistica privata e immediata, e tante altre cosucce. Come avrete capito, non è sufficiente un singolo articolo per descrivere tutto ciò che è BraviAutori oggi, quindi mi perdonerete se sono stato piuttosto rapido nello snocciolare le principali caratteristiche. Ciò che realmente mi preme non è lo sfoggio tecnico o prestazionale del progetto, ma è riuscire a trasmettervi ciò che BraviAutori rappresenta per gli autori esordienti che non hanno altri mezzi per farsi leggere e conoscere, o per mostrare i propri disegni, quadri e fotografie, e per gli utenti in cerca di una 12 lettura rilassante o divertente, o anche intricata e

impegnata. Questa rivista servirà proprio a questo, sarà una nuova finestra dove chiunque potrà affacciarsi e sbirciare all'interno delle tante stanze del nostro castello incantato. Spesso autori di alto livello vengono a farci visita e si complimentano vivamente per come accogliamo e seguiamo i nuovi iscritti e per come riusciamo ad alimentare le idee e i progetti di chi ha la bravura (coraggio) di sottoporcele. Molte delle nostre iniziative, infatti, non esisterebbero se questa amalgama non fosse stata attentamente impastata. Ringrazio quindi tutti coloro che si sono impastati con noi, che si sono sporcati le mani, che hanno tenuto duro e che continueranno a supportarci. Ringrazio in anticipo tutti quelli che verranno, perché probabilmente ne avremo bisogno. Ringrazio infine Il Foglio letterario per essersi anch'esso impiastricciato con noi. Bene, basta con le chiacchiere e sotto con la lettura!


Francesco Barbi Miriam Mastrovito

Francesco Barbi: insegnante di matematica e fisica, scrittore fantasy di successo. Com’è nata in te la voglia di scrivere e come si coniugano due mondi apparentemente così distanti? Mi è sempre piaciuto inventare, costruire e raccontare storie, ma ho iniziato a scrivere seriamente circa una quindicina di anni fa, proprio quando studiavo Fisica all'università. Sentii il bisogno di dedicarmi a qualcosa di completamente diverso, di dare spazio a qualcosa di creativo: seguii tre corsi di scrittura e mi misi a scrivere.In fondo, la scienza e l'invenzione narrativa rispondono al medesimo bisogno di risposte. In effetti, mentre la prima spiega, chiude, soffocando un po' libertà e originalità, la seconda apre porte, rimane insatura. Credo però che un approccio scientifico possa aiutare nell'imbrigliare e incanalare la creatività. I vincoli limitano e forzano, ma possono essere anche molto generativi. Parliamo de L’acchiapparatti. Etichettato come low fantasy, di sicuro si contraddistingue perché sfugge ai canoni del filone tradizionale. Da dove hai tratto ispirazione per la sua stesura e quanto tempo hai impiega-

Le interviste di Bravi Autori Insegnante e scrittore fantasy, suo L’acchiapparatti. to per scriverlo? L'origine del romanzo risale ormai a una decina di anni fa, quando scrissi un racconto (che è poi divenuto il capitolo 6 del libro, “Il Buco”) ispirato dalla mia atavica attrazione verso il mostruoso e originato da un conflitto irrisolto con il mio persecutore interno. Decisi che quello sarebbe stato il punto di partenza per la stesura di un libro dopo aver letto (forse per capire chi o che cosa fosse per me il demone di Giloc) un saggio di p s i c o a n a l i s i sull’archetipo dell’Ombra. Scrivevo a periodi alterni, per cui per completare la stesura del libro ho impiegato circa 7 anni. Ho poi lavorato parecchio, e stavolta praticamente a tempo pieno, per la riscrittura in vista della seconda edizione: un mese per un paio di riletture attente, circa 5 mesi e mezzo di lavoro sul testo e infine un mese per gli ultimi ritocchi e la revisione delle bozze prima della stampa. Ho appreso da una tua dichiarazione che alcuni saggi di psicanalisi, in particolar modo uno basato sugli

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scritti di Jung, hanno influenzato la stesura del tuo romanzo. Quale il legame tra psicanalisi e fantasy? Io credo fermamente nella valenza terapeutica della scrittura e nel forte legame tra quel che si scrive e la propria intimità, emozionale e psicologica. Quando si è di fronte a una pagina vuota, di tutte le infinite cose che possiamo scrivere, se ne sceglie una, e una soltanto. In tali scelte, se libere, si esprime la propria verità di quel momento, frutto dei propri vissuti e delle proprie emozioni.Quando raccontiamo storie, quelle dei nostri personaggi inventati, quelle di chi ci circonda, o semplicemente le nostre, esprimiamo invariabilmente il nostro mondo interno, e in particolare le emozioni non

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digerite che premono per essere espresse e dunque elaborate. Faccio riferimento, nel dir questo, ai più recenti sviluppi psicoanalitici in cui si rintracciano frequenti accenni alla narratologia. E quindi completamente a prescindere dal genere. Se penso in particolare al fantasy, direi è un genere che consente di spaziare ampiamente con l'immaginazione e dunque di esprimere e far esprimere in maniera più libera i propri mondi e personaggi interni. Cito da un articolo di Repubblica.it : “Una storia avvincente, tanto insolita quanto indimenticabile, in cui convivono suspense e orrore, tenerezza e ilarità”. Pensi si possa ascrivere proprio a questo “mix inconsueto” il successo

de L’acchiaparatti? Sì, credo che "L'acchiapparatti" sia stato apprezzato dai suoi lettori perché è un romanzo atipico. In effetti, pur essendo etichettabile come un low-fantasy, presenta contaminazioni da altri generi, spunti horror, psicologici e noir, e più toni narrativi: si passa dalla suspence a siparietti quasi comici. L'ambientazione, che richiama le atmosfere cupe dell'Alto-Medioevo, è rurale piuttosto che epica. Al posto di cavalieri senza macchia e oscuri tiranni, maestose città ed eserciti che si danno battaglia, ci sono contadini, becchini e cacciatori di taglie, prostitute, briganti, piccoli villaggi e fiere paesane. Il libro è poi atipico per la costruzione della trama, in cui il caso e l'inaspettato hanno il

Quando leggo un fantasy mi predispongo a varcare una soglia magica. Mi aspetto di essere guidata alla scoperta di un mondo altro, di vivere un’avventura Recensione di Miriam Mastrovito emozionante e di incontrare personaggi vivi ai quali affezionarmi. Penso sia questa capacità creativa a fare la differenza tra un comune narratore e un grande scrittore. Francesco Barbi, a mio avviso, merita di essere annoverato nella seconda categoria. Attraverso immagini vivide ci introduce nell’Impero di Olm, un territorio dalle atmosfere cupe, intriso di reminiscenze medievali. Tutto comincia quando Ghescik, lo storpio becchino di Tilos, sottrae al cadavere delle fattucchiera Macba uno strano amuleto. Nella sagoma del ciondolo riconosce la stessa immagine vista sulla copertina di un vecchio volume nella bottega dello speziale Tamarkus, quasi sicuramente un libro di negromanzia, che spera possa contenere la formula atta a liberarlo dalla sua deformità. Ricorrendo all’inganno, Ghescik riesce ad appropriarsi del testo ma, in questo modo, suscita l’ira del mercante e si vede costretto a fuggire. Sarà il suo amico Zaccaria, lo squinternato acchiaparatti di Tilos, a offrirgli un Lì’acchiapparatti rifugio temporaneo e, successivamente, ad accompagnarlo in un viaggio verso la Torre di Giloc. Un viaggio ricco di pericoli che, da semplice fuga, si trasformerà in un’impresa più grande giacché, loro malgrado, i due compagni scateFrancesco Barbi neranno le forze degli inferi. BC Dalai Editore Una trama avvincente che, tingendosi di sfumature horror, sfugge ai canoni del


loro peso, e per i personaggi protagonisti, assai lontani dai soliti eroi chiamati a salvare il mondo. Credo che siano questi ultimi, nella loro diversità e umanità, il punto di forza del libro. In questa tua opera non ci sono eroi, antieroi piuttosto. I protagonisti sono “ultimi”, persone etichettate negativamente e messe ai margini dalla società. Abbiamo un becchino che vive di espedienti (Geschik), una prostituta (Isotta), un gigante sfruttato come fenomeno da baraccone (Orgo), lo scemo del villaggio (Zaccaria). Personaggi dai quali non ci si aspetterebbe nulla di buono eppure… risulta quasi impossibile non affezionarsi a loro. A cosa si deve questa scelta?

Mi è stato chiesto spesso il perché io abbia scelto personaggi così peculiari come protagonisti del romanzo. Ma io non ho compiuto alcuna scelta. A posteriori, io stesso mi sono chiesto per quale motivo tutti i miei personaggi dovessero essere così strani o comunque caratterizzati dall'avere una qualche macchia, fisica o psichica.A livello più superficiale, a me piace avere a che fare con personaggi bizzarri, scoprire cosa pensano, come agiscono e come vivono questa loro diversità, anche in relazione agli altri. A livello più profondo, i miei personaggi hanno tutti una macchia, un'ombra, perché nello scrivere il libro ho sentito il bisogno di accettare la mia "ombra", riassorbirla, reintegrarla. Non a caso, questo si è trovato ad essere il tema

di fondo del romanzo. Ne è l'antefatto, il motore e una finalità. Zaccaria è, indubbiamente, il tuo personaggio più riuscito. Mi è parso di capire che tu stesso ne sei particolarmente affezionato, tanto da aver scelto il suo nome come nick per identificarti sul web. Cosa puoi svelarci sulla sua genesi? Quando e come ha preso vita lo squinternato acchiapparatti di Tilos ? All'inizio della stesura non era affatto previsto che Zaccaria diventasse il personaggio principale del romanzo. L'ho incontrato quando ho iniziato a divertirmi con la scrittura (o forse ho iniziato a divertirmi quando l'ho incontrato?). La mia progressiva identificazione con Zaccaria, nello scrivere il libro, ha fatto sì

fantasy tradizionale. Ne “L’Acchiaparatti”, infatti, non assistiamo all’eterna lotta tra bene e male quanto piuttosto a uno scontro di forze oscure e temibili, quasi una guerra che vede tutti contro tutti, nella quale risulta arduo distinguere i buoni dai cattivi e che, proprio per questo, forse, si connota di un certo realismo. I personaggi, indubbiamente, rappresentano il maggior punto di forza di questo romanzo, tanto più perché l’autore riesce a farli vivere davvero. La strana coppia costituita da Geshik e Zaccaria, ben presto si arricchisce di nuovi elementi che andranno a formare un’originalissima compagnia viaggiante. La prostituta Isotta, il gigante Orgo e, non da ultimi, gli animali con i quali l’acchiaparatti sembra comunicare. Un cricca di antieroi che si contraddistinguono più che altro per i loro stessi difetti, ciascuno unico a suo modo e capace di suscitare emozioni. Zaccaria, soprattutto, è un personaggio che non si dimentica. Gli occhi tondi puntati sempre verso il basso, le goffe movenze, la sua vivacità tutta infantile mirano dritto al cuore di chi legge. Bastano poche pagine perché la bizzarra abitudine di parlare di sé al plurale e le elucubrazioni, apparentemente prive di nesso logico, intervallate dai suoi “sì, sì” comincino a riecheggiare nella mente al pari di un tormentone. Oltre quattrocento pagine che scorrono in un lampo e che lasciano un grande desiderio di leggere ancora. Chissà se l’acchiaparatti, dall’alto della sua torre e per mano del suo creatore, un giorno potrà renderci partecipi di una nuova avventura. Io sarei davvero felice di rincontrarlo.

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che la vicenda prendesse pieghe inaspettate e adottasse come protagonista proprio questo personaggio strano, particolare, buffo. E nell'assecondare la crescita del sentimento di simpatia che provavo per quel personaggio, il registro in alcune parti è spontaneamente cambiato... D'altra parte Zac è anche un po' stregone e, per me, la magia nel mondo reale è la creatività. Man mano che scrivevo, dunque, mi avvicinavo a lui. Sono in debito nei confronti di Zaccaria, attraverso le cui vicissitudini ho recuperato alcuni tratti emarginati e repressi del mio carattere.

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Nel 2007 un piccolo editore, Campanila, pubblica “L’acchiaparatti di Tilos”. Il pubblico dei lettori lo accoglie con entusiasmo tanto che il passaparola sul web attira l’attenzione di Baldini & Castoldi e, nell’arco di due anni, ti si spalancano le porte della grande editoria. Sembrerebbe quasi una favola, eppure la tua esperienza editoriale si può riassumere proprio così. Ti va di raccontarci meglio com’è andata ? Sebbene “L'acchiapparatti di Tilos” fosse stato pubblicato in punta di piedi e non avesse potuto godere di un consistente marketing editoriale, il libro ha avuto riscontri molto buoni da

parte dei lettori e diversi commenti positivi si sono diffusi in rete. Non so quanto questi feedback abbiano inciso sulla sorte del romanzo. Fatto sta che a Marzo dell'anno scorso ho ricevuto la telefonata di Cristina Lupoli Dalai. Aveva letto il libro su suggerimento di un collaboratore e le era piaciuto molto. Mi sento grato nei suoi confronti per aver creduto fin da subito nell'acchiapparatti e per averle dato una nuova vita. Stephen King sostiene che grandi scrittori si nasce, è una questione di talento. Tuttavia per essere bravi scrittori è indispensabile l’esercizio. Tu hai sottoposto la tua opera a varie revisioni e in altre interviste hai ammesso di aver faticato parecchio prima di ritenerti soddisfatto del risultato ottenuto. Concordi, dunque, con la sua affermazione? Senza alcun dubbio. Uno scrittore deve avere molto mestiere. Anch'io credo che esista il talento, ma quello spesso combacia con il desiderio di scrivere, e in parte con il saper inventare storie e raccontarle destando interesse e mantenendo ritmo e coinvolgimento. Naturalmente è considerabile talento anche il saper apprendere prima e con più facilità il mestiere. Ma in ogni caso l'esercizio è indispensabile

per acquisire e sviluppare stile e capacità tecniche. Benché la tua esperienza ci dimostri che il talento viene comunque premiato, è innegabile che gli scrittori italiani, soprattutto di genere, facciano più fatica a emergere rispetto ai colleghi anglosassoni. Strategie editoriali, pregiudizio dei lettori, scarse capacità degli autori? Quale il motivo secondo te? Non sono molti i lettori in Italia e questo credo sia il punto fondamentale della questione. Ancor meno sono i lettori di genere. E non a caso i libri di genere fantasy (e fantastico) di maggior successo sono quelli rivolti ai cosiddetti youngadults, perché qui il bacino di lettori si allarga un po'. Inoltre in Italia non c'è una tradizione solida, né forse c'è stata una reale maturazione del genere. Questo aspetto è probabilmente legato alla peculiare storia politico-culturale del nostro paese, che potrebbe aver ostacolato l'affermarsi del genere, ancora oggi considerato alla stregua di letteratura di serie B. D'altra parte, anche le scelte poco lungimiranti di alcune case editrici che hanno cercato di cavalcare il boom del fantastico mondiale di questi ultimi anni potrebbero aver intaccato la fiducia dei lettori nei riguardi


degli autori nostrani. Ho letto che hai frequentato un corso di scrittura creativa. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? La consiglieresti a un aspirante scrittore? A dire il vero ne ho frequentati tre. E l'esperienza mi ha lasciato molto. Intanto perché è stato divertente e mi ha fatto capire che cosa avrebbe potuto darmi la scrittura. Da un punto di vista più tecnico, mi ha avvicinato alle sperimentazioni linguistiche e mi ha aiutato a sviluppare la capacità di ascoltarmi e di far sgorgare le storie sulla pagina.Quindi consiglierei simili corsi a un aspirante scrittore, purché tenuti da persone competenti. Non credo che siano necessari, ma tutto ciò che può avvicinare, far riflettere e lavorare sulla scrittura, affinare lo stile o dare spunti, a mio parere è positivo. “Marchi indelebili”. Ti va di parlarci di questo progetto? Marchi indelebili è il titolo di un libro di racconti di fantascienza distopica appena terminato. Si tratta di una serie di storie legate da un filo conduttore e ambientate in un futuro tetro e apocalittico, dominato dal totalitarismo e dall’alienazione. La società che viene rappresentata ricorda "1984" o "Fahrenheit 451", ma è

pensata e costruita da uno scrittore immerso nelle problematiche sociali attuali e che respira l’aria del principiare del ventunesimo secolo. Spero che prossimamente mi debba dedicare a un'ultima revisione. Restiamo in tema di distopie. Ti propongo un gioco prendendo spunto dall’opera di un grande autore di fantascienza “Fahrenheit 451”. Nel suo romanzo Bradbury ci racconta di una società futura nella quale i libri sono stati messi al bando. Un gruppo di ribelli decide di far sopravvivere i libri più importanti per l’umanità. Ciascuno di loro ne impara uno a memoria trasformandosi in un “uomo-libro”. Se toccasse a te, che “uomo-libro” sceglieresti di essere? Bella domanda. Se fossimo in molti, al momento risponderei "L'acchiapparatti"... Se non altro perché sarebbe piuttosto facile impararlo a memoria. Se invece fossimo in pochi, direi "1984", o lo stesso "Farheneit 451", per creare una situazione narrativa intrigante. L’acchiapparatti è un romanzo autoconclusivo ma lasci una porta aperta nel finale. Mi è giunta voce che tu stia già lavorando al suo seguito. E’ così? Sì, in questo periodo ci

sto lavorando come un forsennato. Ho appena concluso la seconda delle tre parti previste, 17 capitoli più il prologo. Conto di completare la prima stesura entro novembre o dicembre. Altri progetti per il futuro? Di definiti o definitivi non ne ho. Ho diverse idee in ballo e sto valutando anche la possibilità di cimentarmi in altri generi.

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C’è un Bernini magico-esoterico? Alessia e Michela Orlando

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uando una di noi si assunse il compito di svelare i retroscena del viaggio, della permanenza di Giovan Lorenzo Bernini in Francia e del mesto ritorno, si profilarono ostacoli superabili solo con l’intervento di entrambe. Occorreva spulciare una valanga di libri e file, selezionare ciò che di originale e veritiero contenessero; buttare alle ortiche centinaia di migliaia di fogli e pagine virtuali; rielaborare il tutto, ponendosi domande pertinenti, per giungere a conclusioni originali ma ineccepibili. Già sul nome (Giovan o Gian?) andava fatta una verifica. Facile, per fortuna: il Gian lo abbiamo importato dalla Francia (Jean), dove avevamo esportato il Giovan da loro tradotto Jean-Gian. Questa verifica accelerava i processi che inducono alle domande, quelli che sorgono da chissà dove, quando ti entusiasmi e ti innamori di un tema. Conseguenza: se ami un tema, e vuoi venga letto ciò che scrivi, devi essere profondo, oppure lieve, ma documentato. Devi porti domande, anche quelle ovvie, e dare risposte certe; ed è da domande ovvie che nascono, spesso, scoperte di incredibile rilevanza. Esempio: ma Bernini, dove era nato? Scoprire le

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Alla ricerca dei retroscena “magici” del soggiorno in Francia origini napoletane avrebbe dovuto dare la sensazione di un tuffo al cuore di per se gratificante. Invece generò altre domande: e come era la Napoli dell’epoca? Da tutto ciò sorge una impostazione metodologica: occorreva conoscere le origini e l’ambiente dove era nato; occorreva sapere cosa facesse nel tempo libero, se ne aveva; occorreva respirare l’aria che lo aveva sfiorato e riempito i polmoni, l’anima; occorreva impadronirsi dei racconti e degli accenti che plausibilmente aveva ascoltato; occorreva scoprire anche gli arcani che dovevano per forza esserci stati: come avevano potuto quelle mani, in una vita lunga per l’epoca (morì il 28 novembre 1680), ma sempre e solo due mani, seppure leggere, ma potenti, e dominate da un cervello geniale, produrre tutte quelle straordinarie sculture e una valanga di quadri? Si tratta di una mole di opere di incredibile abbondanza: il figlio Domenico, suo primo biografo, in una occasione enumera i quadri e dice essere 150 pezzi. In un’altra dice addirittura 200, tra quelli finiti e gli incompiuti. La domanda era straniante e rimandava a vicende esoteriche lette qui e lì: castelli sorti in una notte; ponti costruiti con


l’ausilio di interventi diabolici e così via. Aderendo al meccanismo intuitivo-istintivo che impone, per primo, la soluzione del quesito più agevole, la risposta alla domanda su come avesse fatto a produrre così tanta alta qualità artistica, pareva risolta rilevando la collaborazione di molti altri scultori e pittori come Finelli e lo stesso Borromini. Restava, però, da capire tanto altro. Non c’era altra soluzione che riandare all’epoca e nei luoghi in cui cominciò a muovere i primi passi. Essendo lui nato a Napoli il 7 dicembre 1598, era lì che occorreva andare, nella Napoli del ‘600 e del ‘700, e da quel luogo sconosciuto muovere, per avvicinarci alla risposta, che non fosse apodittica, da dare al titolo. °°°° Dall’immagine oleografica della capitale del Regno non si potevano ottenere risposte. Occorreva indagare la città dei grandi conventi, i luoghi dove erano conservati i libri. Anche quelli da Indice. Uno era ed è il convento di San Gregorio Armeno, dove si imbatté anche Guido Piovene quando affrontò il suo VIAGGIO IN ITALIA, durato tre anni. Non è difficile immaginare le monache, vestite metà di nero e metà di rosso scarlatto, come le formiche rosse, percorrere, lente o fruscianti, lunghi corridoi; o perdere lo sguardo ispi-

rato sulle navate di una un minuto o giù di lì. Lo bella chiesa barocca, do- stesso Piovene vide, con rata, simile a un teatrino occhi sbalorditi, il sangue di Palazzo. Quelle erano scorrere sui cristalli del le monache con una mis- reliquario e prendere un sione speciale: fornire le colore rubino. Non potremo mai saostie e il vino per la Messa a tutte le chiese cam- pere con certezza se Berpane. Era un modo per nini vide o seppe di quel garantire, come il precet- fenomeno, ma è quasi certo che to imquei vicoli, pone, c h e quei vicoli, gli stessi gli stessi dove ogni l’ostia dove ogni santo Natale santo Nafosse si accalcano milioni di tale si acdi pupersone per vedere i c a l c a n o r o grapresepi, li conobbe; ne milioni di no, e sentì gli ol olezzi ezzi p e r s o n e per vedere il vino disturbanti, come le i presepi, solo voci e gli accenti. li conobbe; d’uva. ne sentì Quelgli olezzi le erano le monache con le disturbanti, come le voci mani d’oro, abili nel la- e gli accenti. Ed è certo boratorio e in cucina, che la cultura, le narraquelle che preparavano zioni, le abiezioni di quei le sfogliatelle alla crema. vicoli, lui, con torme di In quel convento, in un altri ragazzini che crescearmadio di reliquie, si vano sotto le intemperie conserva ancora adesso, e nella canicola, rubanin due reliquari, il san- do, imprecando, scacgue di Santa Patrizia. Fu ciando mosche e picla nipote di Costantino chiandosi, dovette certaImperatore. Secondo la mente assimilarle. Anche leggenda il sangue sgor- quelle più strane e suggò da un dente estirpato gestive. Anche se, poi, aldal teschio, un secolo do- tro tempo lo dedicava a po la morte. Per noi la osservare le mani del pafaccenda di santa Patri- pà, Pietro, a sua volta zia era un fatto eclatante pittore e scultore straorche faceva passare in se- dinario che, giunto a Nacondo piano il sangue poli dalla Toscana, vi riraggrumato di San Gen- mase per venti anni. Da naro: mentre il popolo quelle mani Giovan Loper vedere questo grumo renzo, ben presto, ricesciogliersi miracolosa- vette scalpello e pennelli. Vi è una novella di mente deve attendere un anno e correre il rischio Boccaccio che narra delche nulla accada, nel pri- la fioritura di un giardimo caso basta pregare no, nel cuore del rigidis-

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simo inverno friulano. Ricorda le rose di Paestum, di cui scrisse anche Edgar Allan Poe, che rifiorivano più volte in un anno. Anche in inverno. Ma Boccaccio narra che quel giardino fu, è ovvio, opera di un mago. Tutto accadde in una sola notte e senza il ricorso a mezzi materiali. Al di là di questo piano letterario, vi è anche chi sostiene che fatti del genere sono davvero accaduti nel corso della storia. Sono stati anche narrati da chi li avrebbe osservati: numerose persone che poi li hanno tramandati con testi scritti. Fra i tanti: un episodio che ebbe come protagonista eminente una figura della tradizione cristiana: sant'Alberto Magno (1183 ca.1280). Cronisti del XIII secolo riportano: «Alberto non ci dice se riuscì a fabbricare l'oro, ma secondo la tradizione popolare possedette la famosa pietra e compì altri prodigi di natura magica. Quando convitò in Colonia Guglielmo II conte d'Olanda, benché si fosse nel colmo dell'inverno, fece apparecchiare le tavole nel giardino del convento. Gli ospiti lo trovarono ricoperto di neve, ma si erano appena seduti che la neve sparì ed il giardino olezzò di fiori fragranti, mentre gli uccelli volavano intorno come d'estate e gli alberi s'am-

mantavano di verde.» Lo stesso prodigio avrebbe ottenuto in tempi più recenti il dottor Faust, ma questi non produsse i fiori invernali con la magia naturale, bensì con la magia nera e con l'aiuto del diavolo. Ritorniamo nel Regno di Napoli e giungiamo a Salerno: ci imbattiamo in Pietro Bailardo o Pietro Baialardo, Pïétre Bajalàrde in certi dialetti. Lo ritroviamo in varie zone del sud Italia, quale protagonista di tradizioni orali molto radicate. Sarebbe stato il più potente dei maghi, in possesso del libro del comando risalente ai tempi di Virgilio o addirittura opera sua. Sarebbe il tipico esempio di antieroe del ‘400. A Salerno fu ed è identificato con Pietro Barliario, alchimista, filosofo e medico della Scuola Medica Salernitana dell’XIXII Sec. La leggenda campana vuole anche che, a guerra finita, Bailardo giungesse dalla stessa Francia in Terra di Lavoro. Perché: beh, per un fatto boccaccesco, per incontrare le vecchie e nuove amanti. Fu per questo che i campani, volendo riappropriarsi delle loro donne e figlie, non riuscendo a catturare il vero Bailardo, ne costruirono un fantoccio. Fingendo fosse il tomber de femme francese, appiccarono il fuoco al simulacro, gridando in ogni paese la

notizia della morte del Bailardo. Fu così che venne imposta una tradizione che si rinnova in ogni carnevale. Va da se che in queste occasioni gli uomini si ubriacano e le donne piangono la morte del fantoccio. Il Bailardo campano è identificato anche con Pierre Terrail, signore di Bayard. Fu la maschera più tipica della Campania finché a non irruppe a Napoli, alla fine del XVI secolo, la figura di Pulcinella, certamente non secondo all’altro in quanto a imprese erotiche e ad atti vandalici. A Bernini queste figure non poterono sfuggire; quella di Pulcinella ci stimola a considerare: non si possono porre dubbi sul fatto che la sua parlata, di Bernini, a volte sconcia, fosse dovuta a quei vicoli e allo stesso Pulcinella. Sul rapporto tra Napoli e il richiamato Virgilio, va rilevato come il suo nome sia legato alla crypta Neapolitana, visto che all’interno del parco Virgiliano, uno dei luoghi più suggestivi della città, si trova l’angolo che fu la tomba dello stesso. Anche questo è un arcano che non potette sfuggire all’ambiente in cui crebbe Giovan Lorenzo Bernini. Approfondiamolo. Virgilio visse tra le epoche di Cesare e Augusto. Fu testimone di rilevanti eventi storici; co-


nobbe Pompeo, Bruto, Cesare, Ottavio, Catone, Antonio e Lepido, fu testimone del Triumvirato e spettatore della battaglia di Filippi. Si trasferì a Napoli intorno al 30 a. C.; grazie alla scuola di Posillipo del siriano Sirone e del greco Filodemo di Godara, si imbatte nella filosofia di Epicuro, morto due secoli prima, e la studiò. A Roma ci andava di rado, pur trovando eccessivamente invadente l’affettuosità napoletana. La sua arte era talmente grande da essere un mito dai romani. Lo era anche a Napoli: rappresentava qualcosa di magico e tale rimase anche dopo morto, fino al punto di attribuirgli prodigi che ricordano quelli assegnati al martire Gennaro. Fu, infatti, Virgilio a costruire magicamente, è ovvio la costruzione delle fogne; la creazione di una mosca benefica capace di distruggere le altre fastidiose, annullando il fetore delle acque imputridite; fino a giungere all’incantesimo di una pietra, per rendere abbondante la pesca. Famosissima è la leggenda del Castel dell’Ovo, che attribuisce a Virgilio il gesto, straordinariamente simbolico, di porre un uovo in una caraffa e sotterrarla nelle fondamenta del castello, in modo tale da attribuire alla struttura un senso magico: la città durerebbe tanto quanto lo dicto

ovo in la predicta carrafa. Alla stessa maniera sono velate e occulte le sorti delle ceneri di Virgilio: si è pensato fossero nel sepolcro a Piedigrotta per poi, dopo il trafugamento, passate di mani in mani, andare perdute. Ritorniamo a Bailardo, svelando cosa combinò a Salerno e seguirne la fine. Gli si attribuisce la costruzione magica del Ponte dei Diavoli, l’antico acquedotto medioevale che ancora si può ammirare nel corpo della città, costruito nella solita sola notte tempestosa. Stando alla leggenda popolare, fu aiutato dai diavoli. È una struttura imponente, costruita su un dirupo, in cui si fa per la prima volta uso dell’ogiva, la forma che meglio distribuisce le forze e tutela in caso di terremoti. Il popolo del reame ne fu impressionato. Nacquero infinite credenze, tra cui il ritenere che andare sotto gli archi, all'imbrunire, avrebbe comportato l'incontro con gli spiriti maligni. Tale credenza ha resistito fino agli inizi Novecento. Secondo le narrazioni popolari il diavolo, amico di Barliario e sodale di tante malefatte, si vendicò di lui in maniera atroce. Un giorno in cui il mago era assente, due suoi nipoti (c’è una versione che parla di figli), Fortunato e Secondino, rimasti soli a giocare nel laboratorio, aprirono un libro, ovviamente magico

(più verosimilmente: toccarono sostanze tossiche) furono colpiti da una improvvisa sincope e morirono. Al ritorno, Pietro scoprì i corpi; impazzì dal dolore e invecchiò istantaneamente. Passava il tempo a piangere, con lo sguardo oscillante tra il vuoto e il pavimento dove aveva rinvenuto i cadaveri. Vinto dal dolore, si trascinò nella vicina chiesa di San Benedetto; si gettò ai piedi del crocifisso dipinto sull'altare. Scalzo, cencioso, per tre giorni e tre notti, rimase a vegliare e pregare ai piedi della sacra immagine; sempre piangendo e battendosi il petto con una pietra per penitenza; chiese il perdono dei peccati. E, all'alba del terzo giorno, come sempre accade nella narrazione cristiana, avvenne il miracolo: il volto del crocifisso alzò la testa e aprì gli occhi, in segno di perdono. Pietro cambiò completamente la propria vita; divenne monaco ed entrò in quello stesso Monastero di San Benedetto. Visse il resto della sua lunghissima vita in quel nuovo stato, prossimo alla santità. Morì nel marzo 1148, all’età di 93 anni. Anche in questo caso, pur non avendone l’impossibile prova documentale, si potrebbe arguire che Giovan Lorenzo Bernini si imbatté almeno nella leggenda. Si potrebbe anche attribuirle importanza per il fatto che dipin-

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gesse e scolpisse bellissime crocifissioni. Va considerato, però, che ritenere bella una tortura di quel genere è quanto mai sadico. Tutto ciò anche alla luce del fatto che la leggenda, tramandata oralmente (solo nel XIX secolo ne vennero scritte poesie e drammi), divenne molto popolare come Il Miracolo di Barliario, tanto da attirare in città moltissimi pellegrini napoletani, desiderosi di ammirare il crocifisso e pregare ritendolo miracoloso. L'afflusso di tante persone, anche commercianti e artigiani tra i fedeli, determinò la nascita della Fiera del Crocifisso, che si svolge tuttora nei quattro venerdì di Quaresima. Una leggenda di tenore affatto diverso, vuole che sotto gli archi si Incontrassero i quattro mitici fondatori della Scuola Medica Salernitana. Risulta evidente come la leggenda sulla mano demoniaca di Barliario fosse ben più potente, tanto che ancora oggi l’acquedotto è chiamato Ponte del Diavolo. Da questo contesto la domanda se C'È UN BERNINI MAGICOESOTERICO, appare conseguenziale e non peregrina. D’altronde, l’immagine che di lui offre il nobile Paul Fréart de Chantelou, che tenne un diario della permanenza di Bernini in Francia e ne fu traduttore ufficiale nei colloqui con il Re e il suo ambiente,

sfiora l’idolatria. Basterebbe, per verificarlo, aprire a caso: Viaggio del Cavalier Bernini in Francia. Noi abbiamo utilizzato la versione di Sellerio Editore, traduzione di Stefano Bottari, introduzione di Guglielmo Bilancioni. Leggendolo si coglie la sua facilità nel produrre sculture e disegni bellissimi, soprattutto crocifissioni. Ci siamo anche convinte che ancora esistano in giro opere di Bernini mai attestate. A questo punto ci si può proiettare senza più altri misteri da risolvere, nella domanda del titolo. Per scoprirlo definitivamente occorre solo svelare aspetti davvero decisivi della sua formazione; su ciò che leggeva; su come impiegava il tempo non destinato all'apprendimento delle arti, da giovane e anche dopo, alla pittura e alla architettura. Questa indagine è stata già fatta. Ne abbiamo la prova: basta evidenziare, sin da subito, la introduzione al testo di Guglielmo Bilancioni. Anziché appropriarsi di tesi non nostre, e ridursi a una sintesi che eliminerebbe inevitabilmente passaggi rilevanti, che indurrebbero altre domande, la si riporta nella parte che ci interessa. Compreso l'esergo e l'incipit, testualmente. Toutes les choses grandes ont beaucoup de raisons pour qu'elles

ne soient pas entreprises. Jean-Baptiste COLBERT (bandì il concorso per rifare il Louvre, aperto agli artisti italiani). L'amico delle acque

Giovan Lorenzo Bernini leggeva Dionigi l'Areopagita: «I misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati nella caligine che fa risplendere in maniera superiore nella massima oscurità ciò che è splendidissimo, e che con esuberanza riempie le intelligenze prive di occhi di splendori meravigliosi, nella completa intangibilità e invisibilità». Dalla tenebra mistica muove una tensione irrefrenabile, ek-statica, che anela a raccogliere il 'raggio soprannaturale della divina tenebra' ed a disporsi, congiungendosi ad esse, al centro delle 'stabilità superiori, occulte e inaccessibili'. Mentre onora l'oscurità della tearchia, Bernini vuole esporsi ai 'germi divini pullulanti dalla divina fecondità e simili a fiori e a luci soprasostanziali. La sua intelligenza sacra si alimenta alla fonte della divinità, e si tende, deiforme, in teoplastica, in eros ekstatikòs che annuncia angelico, nel silenzio divino, la divina formazione. Leggeva anche, con quotidiana attenzione, gli scritti sulla vita devota di Francesco di Sales, canonizzato nel 1665, anno del suo viaggio in Fran-


cia; le sue meditazioni gli permettevano, come scrive il mistico, di «volare tra le fiamme della concupiscenza terrena senza bruciare le ali del santo desiderio di una vita devota». L'arte di Bernini è amore divino che adorna l'anima, grazia possente dedicata alla divina maestà, forza devota capace di mettere in pratica, in spirituali agilità ed elasticità, buone opere. L'eccellenza dell'anima è il fine delle opere e ne è movente originario; l'ispirazione si ingenera dallo scambio triunitario di attrazione, concezione e commozione, essa vede in lontananza, come pio e glorioso télos, «le dolci rive della pietà fra le acque salate del mondo». Il carico felice del religioso raccolto si offre come limite umano, finito e rifinito, alla più assoluta sovranità; e l'opera, drammatica e fantastica, grande e piena, trionfa sulle difficoltà del nonessere che le resiste e diviene apoteosi, rappresentanza, memoria riconoscente. Altro libro di devozione era per Bernini la Imitatio Christi Tommaso da Kempis: «Signore, non togliete da me il vostro sguardo, lasciando la mia anima come una terra senz'acqua». Acque d'amor divino, fonde nella terra, gonfie di leonardesche flussioni, sono, per Bernini, il fluente fondamento delle

Pont Rouge, il ponte di legno che univa l'Ile Saint Lois alla Cité; contemplò per un quarto d'ora il fluire della Senna, e, tornando alla parola, disse al Signore di Chantelou: «Io sono molto amico delle acque; esse fanno molto bene al mio spirito». À mon tempérament, registra l'estensore del Journal: la natura lignea e cataclismatica di Bernini è temperata dal freddo, la natura lignea e oscuro e profoncataclismatica di Bernini do, dei fiumi. è temperata dal freddo, L'ombra mnestioscuro e profondo, dei ca del molteplifiumi. ce, flusso di un sorgivo nondum, segna e plasma ogni gesto di Bernini, mente Premuta dalla pietra, heroica, il cui mimetico attraverso nelle acque vive uno progredire zampillante trionfo del- l'antico, trae al congiunl'indistinto, vibra il possi- gersi di classico e barocbile delle arti, l'occulto co. Una devozione immepensiero della materia, desimante per le forme che prolifera, come solu- della classicità, una puzione legante, dalla rezza accademica che co«vegetazione sognante pia e modella, uno spirito che si irradia mentre è dell'amorfo». Nelle grandi fontane esposto alla influenza caper le grandi città «i nervi tartica della antichità; gli dell'acqua affiorano», for- elementi che muovono me fermate da sotterra- Bernini verso l'espressionee agitazioni; simbolo ne degli eroi si configuraagente di rigenerazioni, no nell'immobile fluttual'acqua è uno con l'opera re di masse di materia costrutta, viene veicolata disposte e governate, in e contraffatta, costrutta e un epos superlativo che snaturata, segna il tor- congiunge l'enfasi e il rinare dopo l'apparire, spetto e che si tende, in brilla nella luce, canta e modo classico, verso un ordine occulto, fisso bella scompare. Il 31 luglio del 1665 bellezza assoluta del caBernini, a Parigi, fece fer- none. mare la sua carrozza sul forme. Acque che mettono alla prova le pietre come il fuoco forgia il ferro, fluido di un sublime sentimento tritonico che conferisce mozione alle creature e che, alla loro vita, attribuisce il lucore del nascosto. L'acqua è per Bernini, secondo una espressione di Paolo Portoghesi, «il trasparente della gloria».

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Sotto falso nome Patrizia Birtolo

La scrittrice Patrizia Birtolo ci ha regalato un racconto nero, perché definirlo noir sarebbe riduttivo. La storia, come lei stessa ci ha confidato, nasce sotto la spinta di due forze distinte: la scoperta di un grande del fumetto, Vittorio Giardino, e delle tavole iniziali di Sotto falso nome (1987) e la visione di una puntata di Blu Notte, Misteri Italiani (7 novembre 2004, sesta serie) in cui Carlo Lucarelli ripercorre le vicende della guerra fra clan in Campania. Noi della redazione abbiamo deciso di dividere “Sotto falso nome” in due parti, lasciando a voi lettori quanta più suspance possibile. Potrete leggere il finale del racconto sul secondo numero della rivista, in uscita per Natale 2010.

- Angiolì, bell’e ppapà, statte accuorte… - Mmeee, papà! Che taluorno …’Me state a mette n‘croce. Gli occhi dell’anziano signore, lacrimosi e stanchi, si stavano di nuovo gonfiando di pianto. Angela allora lo rassicurò. - Se vi dico sverto e ppreciso… Vedrete. Lui sarà contento.

SOTTO FALSO NOME

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La prima cosa che l’uomo notò della ragazza furono caviglie sottili – le sfregava una sull’altra come vedi fare alle gatte in calore, disposte a stru-

i racconti di Bravi Autori Un racconto nero sulla guerra fra clan in Campania Pr im ap sciarsi ovunque – e talloni morart e bidi, rosei, che i sandali estivi lasciavano nudi. A risalire, un paio di gambe snelle: il vento, tormentando incessantemente l’orlo dell’abito scuro come fa un bambino con la sua bandierina, a tratti le scopriva. Questo nei rari momenti in cui la fortuna girava dalla parte dell’uomo: era questione di attese sapienti, di pronti riflessi. Anche il profilo della ragazza doveva essere bello. Delicato. Il collo lo immaginava esile, sensuale, da lì però si poteva veder bene soprattutto la nuca. Mentre la osservava si sentiva il cliente di una geisha che non ha ancora deciso se concedere i propri favori. La ragazza era rivolta verso il mare, appoggiata al parapetto del traghetto si lasciava spettinare da dita d’aria, invisibili e nervose, dita che correvano in mezzo ai capelli. Capelli corti e neri. A lui piacevano lunghi e biondi. Lo sguardo gli scese sulla mano affusolata di lei, che estraeva con grazia precisa la sigaretta dal portasigarette elegante. A lui non piacevano le unghie laccate e meno di tutto piacevano i fumatori. Ma la ragazza fumava. Con gusto. Lui odiava il fumo da sempre e odiava anche la galanteria trita e ritrita dei latin lovers da strapazzo che infestano i traghetti, e mille altri posti. Che abbordano donne sole mentre si stanno accendendo una sigaretta in


santa pace, tanto per dire, o vanno facendo mille altre cose. Questo qui davanti a lui, esempio perfetto, smaniava per rendersi utile offrendo un po’ del suo fuoco. Ancora qualche centimetro e per eccesso di zelo avrebbe bruciato il naso alla ragazza. Ma niente da fare. Quella lo aveva preceduto. - Sono arrivato tardi, mannaggia! Ma siete sempre così veloce in tutto, signorina? Lei non diede alcuna risposta. Non fece neppure cenno di aver sentito quanto le era stato detto. - Allora? Non rispondete? L’amico del solerte passeggero, un ragazzotto ricciuto, azzardò: - Forse è straniera. - English? Française? - Incalzava, suadente, il gagà dell’accendino. Finalmente la ragazza parlò. - Iatevenne, oinì. Secca e decisa. Intorno alla donna adesso era di nuovo pace e silenzio. Poco distanti, l’uomo e un suo improvvisato compagno di traversata avevano osservato tutta la scena. - ‘Na sciccheria ‘e scuorno. L’uomo si riscosse per un istante dai suoi pensieri. - Prego? - Dicevo bella risposta. E bella donna. - Già. - È la prima volta che venite a Capri? - Sì. - E vi fermate assai? - Solo una giornata. Capri è troppo cara per me. - Pure per me se non fossi ospite di mia sorella – annuì comprensivo l’altro, aggiungendo – ma ricordate: c’è chi è arrivato su quest’isola per un giorno e ha finito per restarci sempre. - Eh, magari… Incerto se la profezia del compagno di viaggio suonasse come minaccia o promessa, l’uomo sorrise fra sé. Era vero. Si fa in fretta ad abituarsi alla bellezza…A farci la bocca. Poco lontano da casa sua c’era una pizzeria ge-

stita da una famiglia che veniva più o meno da quei posti. Sulla parete dietro la cassa c’era appeso un quadretto che recitava pressappoco così: “il giorno del giudizio per gli Amalfitani che andranno in paradiso sarà un giorno come tutti gli altri”. Già. Mentre conversava con l’altro passeggero, tentò di darsi un’aria naturalmente disinvolta appoggiandosi alla parete esterna della cabina. Non avrebbe saputo dire perché, ma in quel momento si sentiva gli occhi della ragazza addosso. Si scostò dal muro dove stava appoggiato, si avvicinò al parapetto. Di fianco a lei, non troppo vicino, ma a portata di voce. Si mise a guardare il mare, cercando di ignorare i tonfi sordi e martellanti del cuore. Dopo pochi istanti la ragazza parlò nuovamente. - Scusatemi… Il mio fumo vi arriva tutto in faccia… Adesso mi sposto… Era una voce piuttosto profonda, leggermente rauca, proprio da fumatrice. Insolita per una ragazza così giovane. Aveva sempre pensato che le donne dovrebbero farsi venire ogni tanto un po’ di mal di gola, ne guadagnano in fascino. La voce di lei oltretutto faceva contrasto con un aspetto fresco, un fisico ancora da adolescente. - NO! No, non… Non mi dà alcun fastidio, assolutamente… Altrimenti non mi sarei messo proprio qui, le pare? A dire la verità una volta fumavo anch’io, ma son quasi riuscito a smettere. - Come volete, comunque mi sposto. Un attimo… Si girò su se stessa e la ritrovò appoggiata di schiena alla balaustra, spalle al mare. Con i gomiti puntati sulla ringhiera di protezione e i polsi che rimanevano piegati mollemente in avanti, gli sembrò una mantide sul punto di sfregarsi le zampette intanto che pregusta la preda. Lui invece vicino a quella meraviglia si sentiva un insetto stecco, scialbo e rinsecchito, più vecchio e malconcio della vernice

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del parapetto. Adesso la scia grigio azzurrina del fumo non gli arrivava più addosso, ma il volto della ragazza restava nascosto. Mentre questa tirava le ultime boccate fu preso da un’ansia sottile. Forza! Si disse. Fatti venire in mente qualcosa. Subito, però. Lei ha finito di fumare e magari si allontanerà e… - Come vi chiamate? - Bruno. La guardò dritto negli occhi. Si era girata verso di lui, adesso. Occhi neri, irrequieti e profondi. Esercitavano un inevitabile richiamo. Sembravano un

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abisso in cui tuffarsi a capofitto, annullarsi, scomparire per sempre. Si sentiva la gola secca e non riuscì a dire nulla per alcuni secondi. - Io mi chiamo Lina (stupido, tu avresti dovuto chiederglielo, cosa fai dormi?)… Ma non mi piace. Solo in casa mi chiamano così. Sa, la solita storia di queste parti, dare a tutti i costi i nomi di famiglia… Gli amici mi chiamano Ida. - Anche Lina è bellissimo. Incredibile… Prima vi osservavo. Mi avete ricordato una donna di cui parla un poeta…Saba scrisse una poesia per la moglie, dei versi stupendi. Quella donna si chiamava Lina. - Mi stavate osservando?

- Sì, quando si sono avvicinati quei due. Li avete rimessi a posto proprio bene! Magari adesso penserete che c’è bisogno di due paroline secche anche per me, forse sto… - Perché mi osservavate? Si poteva dire la verità? Lo sguardo gli cadde sulla scollatura profonda. Una spilla a forma di fiore tratteneva i lembi dell’abito in alto, ma lo spacco proseguiva fin quasi alla cintura. Quel vestito sarebbe stato di una volgarità assoluta su qualunque altra donna, ma forme acerbe le consentivano di osare là dove nessuna avrebbe potuto. O voluto. - Perché siete davvero bellissima. Non molto originale, eh? Chissà in quanti ve l’hanno già detto… Voleva essere un complimento e invece gli era uscito di bocca con tono quasi triste, sconsolato. Come se la ragazza avesse una qualche colpa nell’essere tanto più bella di lui e nel non voler far niente di niente per nasconderlo al mondo. - Una volta in più non potrà fare mica un gran male… Scoppiarono a ridere insieme, trascinati dall’ironia del tono e delle parole. Si ritrovarono con gli occhi negli occhi a ridere a crepapelle, come due matti. - Ma se è solo per questo… Siete bellissima – bellissima – bellissima… Le si avvicinò impercettibilmente, continuando a sorriderle. Non riusciva più a capire se era il traghetto a beccheggiare leggermente o lui che stesse barcollando. Gli sembrava di essere ubriaco.


- Piantatela adesso! Ridendo la ragazza si era tappata le orecchie, mentre lui continuava a sussurrarle il suo mantra amoroso. Neanche a diciassette anni aveva mai fatto lo stupido a quella maniera, eppure sembrava funzionare. Mentre continuava imperterrito Lina finse di colpirlo al petto con un pugno, sicché lui si mise a ridere ancora più forte, cercando di imprigionarle la mano in quel gesto. Era il loro primo contatto, e già le prendeva. Ma era così ebbro della vicinanza di lei che si sarebbe anche lasciato massacrare di botte, per quello. Mentre la risata finiva di gorgogliargli in gola, finché ancora riusciva a dissimulare un minimo di noncuranza, pose la domanda che gli stava più a cuore. - Vostro marito deve avere vita difficile, con tutti questi uomini che vi ronzano intorno… - Che marito? Io non sono sposata. - Ma… Portate la fede. Perché la mettete, se non siete sposata? Aveva già notato in lontananza un brillio dorato alla mano sinistra, da vicino non ci si poteva più ingannare. - Questa era di mia madre, che non c’è più. La porto d’estate perché serve a scoraggiare qualche importuno. Mi filtra gli scocciatori. - Come me? - Come quei due di prima. C’era qualcosa, adesso, nella voce di Lina. Una sottolineatura ironica, lievemente canzonatoria. Non si era mai sentito prendere in giro con più garbo. Si sentiva redento e prescelto e incredibilmente lusingato che quella ragazza non lo trovasse poi così fastidioso. Improvvisamente capì che quello per lui avrebbe potuto essere un incontro importante. Si maledisse per aver disertato le spiagge durante quasi tutta l’estate, era di un pallore spettrale confronto a tutti gli altri intorno. Si pentì anche di non aver mai messo piede in una palestra, e di non essersi vestito un po’ meglio, e di non aver

mai voluto provare ad abituarsi alle lenti a contatto, e di non essersi fatto la barba con più cura quella mattina, e cos’altro? In fondo avrebbe dovuto tenersi di più, aveva solo quarantasei anni, non era ancora vecchio, per niente. Riattaccarono a parlare contemporaneamente, chiedendosi a vicenda cosa andavano a fare sull’isola, il che suscitò in entrambi un nuovo scoppio di risa. Poi Bruno, carezzandola con lo sguardo e la voce, le chiese quanti anni avesse. Quasi trenta, bene. Non era più una ragazzina, anche se lo sembrava ancora, quindi era doppiamente fortunato. Ma fortunato per cosa? Ormai il traghetto stava attraccando al molo, si sarebbero salutati, lei sarebbe scesa e non l’avrebbe rivista mai più. Non aveva molto tempo per girare tutta l’isola nella speranza di incrociarla di nuovo, anche se gli sarebbe piaciuto provare. Doveva correre subito a fotografare la collezione Axel Munthe, l’articolo doveva andare in stampa per la settimana entrante. - Beh, siamo arrivati… Io credo che sarò tutto il giorno a Villa San Michele, ci vado per lavoro. E lei? - Io sono venuta a salutare una persona. Per l’ultima volta. Si rabbuiò, d’improvviso. Tesa come l’arco un attimo prima di scoccare la freccia fatale. Bruno percepì il grumo nero e fermo di qualche sotterranea angustia, affiorata dal fondo ad agitarle i pensieri. - E già che ci sono - sorrise lei forzatamente riprendendo il discorso passerò da casa dei nonni a dare un po’ di aria alle stanze. Intanto i passeggeri del traghetto erano quasi tutti sbarcati, quelli scesi per primi erano già in piazzetta, davanti alla pizzeria Buonocore, fermi a leggere i prezzi esposti sulla lista. Si avviarono verso la banchina del molo, pensosamente. - Mi piacerebbe rivedervi, girare un po’ l’isola insieme. Io ne avrò fino alle quattro, ma posso…

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- Villa Axel Munthe, alle quattro. Vi raggiungerò io. Adesso devo proprio andare. Gli lanciò un ultimo sorriso, ma era già lontana da lui, più con la mente che con il corpo. Bruno la vide dileguarsi in mezzo alla calca colorata di turisti stranieri, famigliole con bambini, giovani coppie in vacanza e venditori di ogni genere. Spariva e riappariva tra la folla e, quando la perdeva di vista, già gli mancava.

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Un caldo gradino di pietra, pulito. Lei si sedette a tirare un po’ il fiato. Aveva deciso di salire da Marina Grande fino a Capri prendendo per la ripida Strada di San Francesco: venti minuti di arrampicata. A piedi. Sotto il sole cocente. In un altro momento, con un altro stato d’animo la salita avrebbe anche potuto rappresentare un’alternativa invitante, ma oggi quell’erta scalinata era solo un faticoso percorso obbligato, non poteva certo permettersi di montare sul pulmino e mischiarsi ai turisti. Quei due sulla motonave, piuttosto. Il tizio dell’accendino col socio in affari. Il genere di sfaccendati locali che bazzicano la corsa Napoli - Capri e ritorno sperando di rientrare dei soldi del viaggio a spese dei malcapitati visitatori dell’isola. E c’era persino qualche sentimentale superstite, come quel Bruno, che alla sua età credeva ancora alla favola del latin lover e dell’affascinante turista. Nell’ottica del latin lover “muoversi in coppia” è casomai obiettivo finale, non strategia di partenza. Due amici non possono spartirsi la magnifica preda, se ce n’è una sola: Bruno, sveglia. Ma i soci in affari il bottino possono dividerselo, quello sì. Mentre il tipo dell’accendino accendeva, Lina aveva cominciato a sentire l’altro che armeggiava intorno alle tasche esterne del secchiello di pelle. Ci mancava solo che le ficcassero le mani dentro la borsa. Davvero non doveva succedere. Fortunatamente la ruvidezza del tono e soprattutto il

farsi riconoscere come una del posto li aveva convinti a desistere e probabilmente dirottati verso un bersaglio più debole: il fidanzato con gli occhi sognanti allacciato alla sua bella e momentaneamente dimentico del resto del mondo - borsa fotografica compresa - il povero padre di famiglia attorniato e frastornato da ragazzini scalmanati e urlanti, qualche malferma e attempata turista inglese… Sventata la momentanea minaccia, e prima del momento più difficile, si era voluta concedere quella divagazione, la chiacchierata con lo sconosciuto. Così, come fosse la lettura di un giornale per distrarsi in sala d’aspetto, o come quattro chiacchiere futili col pensiero già rivolto, anzi proteso, al breve sconosciuto dolore che ci attende al di là della porta. Aveva iniziato lei a parlare, per un bisogno disperato di evasione. Voleva sfuggire a se stessa, ai dubbi e ai tentennamenti, al garbuglio inestricabile di cattivi pensieri che le avvelenava la mente. Un piccolissimo atto di coraggio, attaccare discorso con quell’uomo. Che modesta prova generale, pensò. Fra poco però sarebbe andata in scena tutt’altra rappresentazione, qualcosa che richiedeva davvero tutto il suo coraggio. Fra poco. No! Subito. Si alzò di scatto. Riprendere fiato le era costato un’altra mezz’ora. Doveva essere a Capri nel primissimo pomeriggio, intorno alle due al più tardi. Una volta che tutto fosse finito, compiuto, si sarebbe diretta alla Villa. Sì. Non le avrebbe fatto bene stare da sola, dopo. Doveva tenersi occupata. Sentiva confusamente che il rimanere in compagnia di quell’uomo l’avrebbe protetta da ogni sospetto, sarebbe stato il suo schermo e il suo scudo. O almeno uno scacciapensieri. Raccolse la borsa, si passò le mani addosso per lisciare le pieghe dell’abito e ricominciò a salire nervosamente la scalinata. Bruno si sedette sul muretto che or-


lava torno torno il piccolo cortile porticato. Si meritava una piccola pausa, aveva lavorato febbrilmente fin dal suo arrivo alla Villa. Comprese come fosse arrivato il momento di uno stacco: le cose cominciavano a girare bene, fin troppo bene, e allora doveva raffreddarsi. Era sempre per voler strafare che rovinava tutto. Il lavoro però quel giorno sembrava filare da sé. Forse perché in ogni busto, in ogni delicato particolare di ogni singola statua lui cercava di rivedere qualcosa della ragazza del traghetto, e di coglierlo. O forse tutto scorreva senza il minimo intoppo perché si sentiva felice, di una felicità incontenibile; avrebbe giurato che tutto girava a suo favore. Anche il tempo stava passando velocemente, ormai mancava un niente alle quattro. E l’avrebbe rivista. Guardò il giardinetto interno, piantumato e abbellito da ricche palme. Gli dava un senso di frescura. Tutto sembrava più vivido, netto e preciso nella lucente armonia del primo pomeriggio. In un angolo del giardino stava una fontana di bronzo, asciutta. Il puttino alato in cima alla piccola colonna di pietra, in precario equilibrio, abbracciava stretta una creatura marina. Bruno si aspettava, da un momento con l’altro, di veder zampillare dal muso del pesce getti intermittenti di acqua pura: forse per quel giorno i miracoli non erano ancora finiti. Appoggiò la Pentax sulle ginocchia. I miracoli a dirla tutta erano cominciati due mesi prima. Era riuscito a ottenere che gli affidassero quel lavoro, l’articolo, proprio quando cominciava l’estate. Aveva tempo per condurre lo studio con cura. In toto. Le foto le avrebbe fatte lui. Non era certo un professionista in quel campo, ma impegnare un professionista costava. E poi avrebbe dovuto spiegargli per filo e segno cosa voleva da ogni singola inquadratura, a rischio di ogni possibile fraintendimento. Quindi, visto che

si trattava alla fin fine di fotografare qualche busto romano, e l’editore non aveva sollevato grosse difficoltà, Bruno l’aveva vinta. Ma si era dovuto impuntare. Già così temeva che le foto avrebbero fatalmente ricevuto più attenzione del saggio, peraltro in uscita all’interno di una raccolta, quindi già in partenza costretto a sgomitare per attirare un po’ di attenzione. Mancava solo che gli scatti non fossero suoi. Per fortuna quel giorno alla Villa c’era una pace di santi. La calca multicolore del traghetto si era riversata nei vicoli o sulle piazzette, nei piccoli negozi di souvenir o sui tavolini dei caffè all’aperto, ma aveva disertato la Villa. Giusto qualche straniero correttissimo e sorridente era stato ogni tanto sul punto di tagliargli la strada mentre armeggiava con l’obiettivo davanti alle statue. Poi c’era quella promessa, quel miraggio d’incontro che s’intravedeva girato l’angolo. Bruno era sicuro che lei si sarebbe fatta viva, era stato qualcosa nel suo tono di voce, il piglio deciso che aveva preso nel confermare l’ora. Il luogo. Ecco, gli era solo sembrato che lei volesse avere il controllo della situazione, volesse esser lasciata libera e indisturbata, padrona di riapparire se e quando voleva, alle condizioni dettate da lei stessa. Non c’era stata, nella risposta, il percettibile strascico di indecisione che rimane, come residuo colloso, nella voce di certe donne quando ricevono una proposta di appuntamento. Una riluttanza che cercano di mascherare cortesemente e in fretta, passando la mano sottile di vernice dorata dell’educazione, della sorpresa quasi lusingata, sull’imbarazzo consistente, solido, di fondo: la vernice poi salterà, scheggiandosi alla prima insistenza. Le più inafferrabili, aveva imparato Bruno, sono le donne che simulano improvvisi entusiasmi, che sembrano non star nella pelle alla sola idea dell’incontro. Quelle, si può star certi,

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disdicono un’ora prima, accampando pretesti degni di entrare nel repertorio di qualche manuale che cataloga le scuse più assurde. Oppure non si fan vive del tutto. Ma Lina, no. Sarebbe venuta. Pareva avesse un suo oscuro motivo per evitare la solitudine del pomeriggio, una volta sbrigato il suo affare. Lui non chiedeva di meglio. Lina, Lina Lina…

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Spinse risolutamente l’uscio che si affacciava sul vicoletto inondato di sole. Non si aspettava di incontrare resistenza, e non ne trovò. I vecchi abitanti dell’isola non tenevano chiusa a chiave la porta di casa. La persona che stava cercando mancava da lungo tempo in quei posti, lo dimostrava anche questa cieca fiducia nelle antiche abitudini. Non poteva immaginare quanto le cose fossero cambiate, e come tutti vivessero barricati e timorosi, anche lì, esattamente come in mille lontani o prossimi altrove. Appena entrata il contrasto fra bagliore esterno e penombra interna la fece precipitare in un nero fondo. Ne riemerse con i contorni di una sagoma scura piantata negli occhi, ritagliata sul fondo lattiginoso del muro. Ce l’aveva là, proprio di fronte. Adagiato a braccia conserte, con la testa bianca appoggiata sul tavolo, un uomo in canottiera russava. Franato a dormire sulla tovaglia a quadrettini, l’aveva tutta sgualcita. Vicino alla testa dell’uomo vegliavano su quel sonno pesante un bicchiere poco pulito e una bottiglia senza etichetta. Sul fondo restava soltanto l’anello scuro di un dito di rosso, più posa che vino. - Ma io mi ero preparata la frase – pensò basita. - Io dovevo dire: Bentornato, … Vi porto i saluti di Don Raffaele. E poi fare quello che andava fatto. Si era immaginata un altro scenario, un po’ di concitazione santiddio, non poteva mica lavorare, così. Non doveva finire tutto a quel modo. Cercò di fare rumore, spostò una

sedia scansandola con la borsa che le pendeva dal fianco. Ma quello continuava a dormire. Che situazione. Se ne stette lì mezza stranita, intanto che andava a vederci più chiaro dentro la stanza. Osservò le pareti, l’occhiata scivolò su un paio di stinte vedute del golfo per restare poi impigliata fra le cornici appoggiate sul piano della credenza. C’era un’istantanea appena più recente delle altre, infilata in una di queste cornici. Due ragazzetti sorridevano abbracciati, felici. Mentre lui stampava a lei un bacio su una guancia, lei guardava dritto in macchina, la bocca dischiusa come per dire qualcosa. Rinetta e l’emigrante, la vista di Floridiana sullo sfondo. Le altre foto di famiglia non le dicevano niente, ma quella… L’aveva osservata mille volte negli ultimi giorni, l’aveva impressa nella mente e nel cuore. Si distolse, tornò a posare lo sguardo sul vecchio. L’uomo continuava a russare. Mentre lo fissava, dura e ferma, a un tratto sentì un movimento sul retro della casa. Trasalì. Il rumore prima provocato, cercato, creato nel tentativo di svegliare l’uomo, adesso, sopraggiunto da fuori, la fece sudare freddo. Non deve arrivare nessuno, dobbiamo rimanere noi soli. Quello che va fatto va fatto. Si allontanò un poco, questo glielo avevano raccomandato proprio tutti. Non ci si può nemmeno immaginare, le avevano detto, quanto sangue sprizza addosso da una ferita, se non si è mai provato a sparare a qualcuno. (fine prima parte)


Sergio Martino, regista Matteo Mancini

Ho la fortuna di poter intervistare, per conto della rivista “Braviautori – Il Foglio Letterario”, uno dei più importanti registi del cinema italiano di genere. Un regista che si dimostra sempre molto disponibile verso i fan e che non indugia nel raccontare aneddoti e scambiare opinioni con la gente comune, doti che accrescano ancor di più il valore dell’uomo che sta dietro alla macchina da presa. Sto parlando di Sergio Martino, regista poliedrico con all’attivo una lunga lista di film dalle commedie agli horror. Nato come sceneggiatore e poi diventato aiuto-regista – tra gli altri - di Mario Bava, ha diretto alcuni delle più grandi pellicole di genere; opere spesso caratterizzate da un’impronta onirica raramente eguagliata da altri colleghi, tanto da essere preso a modello da registi del calibro di Quentin Tarantino e Balaguero. In questo articolo/intervista ripercorriamo l’intera carriera del regista per quel che concerne il suo cinema di genere (commedie escluse per ragioni di spazio). Quanto è stata importante, per la sua carriera, l’esperienza maturata in qualità di sceneggiatore e di aiuto regista di maestri quali Mario Bava? Preciso che non ho mai fatto lo sceneggiatore per Mario Bava, l’ho fatto per il figlio Lamberto; in ogni caso ho collaborato con Mario Bava e tale esperienza mi è stata molto istruttiva sul

Le interviste di Bravi Autori Incontro con un grande regista italiano di genere

piano tecnico. Ricordo che non voleva mai girare più del necessario: minutava le inquadrature e se valutava che, in prospettiva, il girato gli garantisse un minutaggio sufficiente per arrivare a 90 minuti, tagliava scene dal copione senza neppure girarle. Aveva molto rispetto dei consumi della pellicola e dei tempi di lavorazione. Una volta, alle prese con un lungo monologo di un attore protagonista che non aveva dimestichezza con l’inglese, iniziò l’inquadratura partendo da un primo piano nel quale l’attore iniziava a parlare e poi panoramicava sulla stanza, ritornando sul volto dell’attore solo per le ultime parole del monologo, in modo che il doppiaggio, sia in inglese che in Italiano, potesse salvare dall’imbarazzo l’attore. Bava era poi un grande direttore della fotografia, da cui proveniva. Curava molto le inquadrature in funzione della luce e faceva da solo delle sovrapposizioni con disegni su dei vetri che metteva davanti alla macchina da presa e che riproducevano castelli e vegetazione. Era una persona gradevole ed elegante, incline alla battuta e alla ironia. Amava i cani, meno gli attori-cani. Che ruolo ha avuto suo fratello Luciano Martino nella sua crescita professionale?

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Sicuramente importante, perché mi ha dato l’opportunità di dare una certa continuità in un lavoro, tutto sommato, precario. Sotto certi aspetti, però, senza fargliene una colpa, mi ha anche condizionato in scelte non sempre di crescita nella mia carriera. Una valutazione che oggi faccio, ma che nel periodo della mia maggiore produttività non ho preso in considerazione con la dovuta attenzione, è che avrei dovuto dire di no a certi sequel, ma oggi è inutile recriminare. Credo che molti film oggi ricordati della mia carriera siano stati prodotti da lui, ma, a dire il vero, anche quelli fatti con altri produttori, in particolare con Carlo Ponti, hanno un discreto seguito di ammiratori.

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Dopo aver diretto due documentari tra il ’69 e il ’70, debutta al cinema con un western, “Arizona si scatenò... e li fece fuori tutti”. All’epoca il western era un filone molto prolifico, cosa ricorda di questa esperienza e come nacque l’idea di darsi alla regia? Era un periodo in cui il cinema italiano di genere era esportato in tutto il mondo e girare un western in Spagna era una facile opportunità per cimentarsi. Del resto, provenendo da una famiglia che ha il cinema nel DNA (a parte mio fratello,

che anche lui ha fatto il regista, mio nonno materno, Gennaro Righelli, è stato il regista del primo film italiano sonoro, mentre mio cugino, Massimo Tarantini, ha diretto varie pellicole sia comiche che poliziesche, e infine mia figlia Federica, ha diretto il film “BIUTI QUIN OLIVIA” e un episodio di “Crimini”, ha delle notevole potenzialità artistiche), ho sempre immaginato e pensato storie in funzione delle immagini (in ciò l’altra mia figlia, Francesca Romana, che è una fotografa di successo, ha ricevuto in dote questo mio istinto). La tecnica di ripresa l’ho appresa anche quando ho fatto film con funzioni diverse da quelle dell’aiuto regista. Erano tempi in cui c’era un’atmosfera positiva, determinata da rischi relativi negli investimenti cinematografici (difficilmente i miei film sono stati passivi). Forse anche per questo ho avuto anni molto fertili. Dopo “Arizona”, nell’arco di un biennio, dirige un poker di thriller visionari che sono diventati degli autentici cult in tutto il mondo. Il primo di questi fu “Lo strano vizio della signora Wardh” (gli altri tre sono: “La coda dello scorpione”, “Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave” e “Tutti i colori del

buio”), un giallo con una trama intricata fatta di complotti e personaggi che ricordano un po’ i primi thriller di Umberto Lenzi. A differenza delle opere di Lenzi, però, è fin subito evidente, a mio avviso, il suo gusto per i movimenti di macchina e per un uso dell’obbiettivo a tratti psichedelico, in modo da creare un’atmosfera claustrofobica quasi da film dell’orrore. Molte sono le sequenze degne di nota di questi film, quali sono quelle che ricorda con maggior soddisfazione e come le concepiva: studiava le inquadrature a tavolino oppure erano frutto di un’inventiva che scattava sul set? Di questi film quello che preferisco è “La Coda dello Scorpione”. “Tutti i colori del buio” mi valse l’attenzione di Tonino Cervi e Carlo Ponti che mi chiesero dei soggetti e io proposi quello che diventò “TORSO”. In ogni modo, anche se non ho firmato tutte le sceneggiature di quei film, li ho fatti miei attraverso revisioni vere e proprie e ricerca di immagini e di ambienti. Probabilmente sono stato anche suggestionato da immagini di film di generi diversi, in particolare ricordo che per “La coda dello Scorpione” fui sollecitato dalle immagini e dai ritmi di Costa Gravas (L’Orgia del


Potere) che elaborai a volte inconsciamente e altre volte di proposito. In questi primi thriller è spesso presente il medesimo cast artistico, penso a George Hilton, al grande caratterista Luigi Pistilli, alla rossa Anita Strindberg, ma su tutti non si può non nominare Edwige Fenech. A parte la sua bellezza, che ricordo ha di Edwige al tempo di questi film? Ha un aneddoto particolare da raccontarci? Erano attori di successo del periodo, a esempio Hilton era una star dei Western. Pistilli, invece, era un bravissimo attore e una persona divertente, ironica e simpaticissima, molto diversa dall’immagine dura dei suoi film. La scelta di Edwige fu determinata dalla sua bellezza solare ed esplosiva, che forse c’entrava poco con i personaggi sofferti e introversi di quei thriller. Ritengo che il giudizio sulla sua recitazione sia stato in parte condizionato dalla sua fisicità. Il meglio Edwige, a mio giudizio, lo ha dato nelle commedie, in cui era perfetta, solare e divertente come in “GIOVANNONA COSCIALUNGA…DISONORATA NELL’ONORE”: un film che, a mio giudizio, la critica ha considerato volgare (probabilmente per via di un titolo mal interpretato che voleva

fare il verso a “Mimì Metallurgico”) ma che in realtà era garbato e divertente, senza nessuna intenzione erotica. La scelta di darsi al thriller dai toni forti e spesso conditi da spruzzate erotiche fu dettata da un suo gusto particolare oppure rispondeva a una mera logica di mercato? Sono stati anni in cui l’Italia esportava in tutto il mondo tutti i suoi film di genere, si i c.d. “Film di genere” tanto deprecati dalla critica. In realtà il nostro cinema ha rischiato di diventare industria attraverso quel cinema iniziato dai SANDALONI, proseguito con gli SPAGHETTI WESTERN e infine con I GIALLI e I POLIZIESCHI. Recentemente ho partecipato a Parigi a un convegno che voleva studiare le strategie per tornare a fare le coproduzioni, cercando storie che potessero essere d’interesse fra i due paesi, studiando la possibilità di utilizzare sceneggiatori delle due nazioni. Mentre sentivo queste ipotesi, pensavo ironicamente che almeno il 60% dei miei film sono stati fatti in coproduzione e ciò dipendeva dal fatto che fossero tutti di genere, ma la parola GENERE, faceva inorridire i presenti. Molti dicono, io compreso, che il cinema

(ma anche la narrativa di genere aggiungo sempre io) sia sogno. Quanto ritiene sia utile per la buona riuscita di un film imprimere un taglio che sappia stimolare la fantasia dello spettatore, piuttosto che bombardarlo mostrando tutto ciò che c’è da mostrare, come avviene nelle recenti produzioni hollywoodiane dove la computer grafica si erge a padrona incontrastata della scena? Confesso che non vedo un film americano con effetti grafici da molti anni: ho visto solamente “Avatar”, su Sky, perdendo il fascino del 3D. Chissà, forse in questa forma l’ho potuto meglio valutare sui contenuti piuttosto che sugli effetti speciali. Sicuramente è uno splendido prodotto, esempio della capacità americana di fare cinema. Tuttavia la mia poca voglia di vedere questi film dipende dal fatto che dopo una visita negli studi americani, fatta alcuni anni fa, ho capito il trucco e il bambino che è ancora in me non riesce a far dimenticare al regista di mestiere il fascino di un certo cinema. In America quasi tutti gli attori recitano guardando un puntino blu, dicendo: “TI AMO”; solo in post produzione ci sarà, al posto di quel puntino, una donna bellissima che si trasforma in una terrificante creatura e in altre

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mille diavolerie. Tutto questo non mi emoziona. Secondo lei, che ruolo gioca l’elemento erotico in un thriller e perché ne ritiene utile l’inserimento? Penso che l’ottanta per cento dei delitti che avvengono nella realtà siano determinati da una componente sessuale e mi sembra logico che qualsiasi storia di un thriller abbia delle situazioni legate all’erotismo con tutte le implicazioni relative. Di certo ritengo che in quegli anni, in cui si erano allentati i limiti della censura, si sia a volte abusato, cadendo anche nel cattivo gusto. Anche nei miei film questo è accaduto, ma ho una scusante (a parte le pressioni dei produttori e dei distributori che tifavano per il vietato ai minori di diciotto anni, per suscitare morbosità nelle aspettative degli spettatori): alcune inquadrature venivamo girate per dare la possibilità ai censori di tagliare qualcosa. Il caso ha voluto che, in seguito riproposti in tv, siano stati ritrascritti in elettronica nella loro interezza, in quanto i tagli venivano fatti sulle copie positive e non sul negativo e quindi si sono viste inquadrature che il pubblico allora non vide. Di certo sia nella “Signora Wardh” che nella “Montagna del Dio Cannibale” ce ne sono.

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Nel 1973 gira il suo primo “poliziottesco”, “Milano trema”, con un attore che dopo Milian e Merli è un’icona del genere e cioè Luc Merenda (con cui ha lavorato in molti altri film tra cui “La città gioca d’azzardo” e altri di seguito ricordati). Che tipo era il francese? Simpatico, molto guascone (nel senso buono della parola). Sono rimasto suo amico. Oggi è uno stimato importatore di antiquariato cinese in Francia “Milano trema” ha una sequenza che amo in modo particolare per il ritmo e la verosimiglianza che è riuscito a donarle. Mi riferisco all’evasione dei criminali dal treno. Cosa mi dice al riguardo? Sono presenti anche moltissimi inseguimenti. Tutte sequenze assai pericolose da girare, visto che all’epoca non c’era la computer grafica. Quanta dose di incoscienza c’era nel girare certe scene per gli attori? C’erano degli attori che non richiedevano l’impiego delle controfigure per girare queste scene? È una scena che aggiunsi per dare un inizio scioccante. Poco prima dell’inizio delle riprese era successa una cosa simile nella realtà, e volli cercare il modo d’inserirla. Trovai l’idea di instaurare un rappor-

to di amicizia tra il commissario di polizia e un maresciallo dei carabinieri quasi ai limiti della pensione, giusto per trovare un pretesto per unire i personaggi e l’operazione congiunta dei carabinieri con quella della polizia. Nella realtà sono forme di collaborazioni che si verificano in casi ecczionali. L’incoscienza e rischi furono tanti, ma grazie alle capacità di Julienne Remy e Riccardo Petrazzi, il maestro d’armi, uscimmo indenni da incidenti. Certo oggi non sarebbe possibile girare dal vero quanto fu fatto allora, anche perché vista l’esperienza maturata credo sarebbe un rischio da non dover correre. Le sequenze di auto furono tutte girate da specialisti, salvo qualcosa di meno rischioso in cui Luc Merenda fece dei testa coda. Sul piano acrobatico Merenda era un attore che non esitava a fare scene acrobatiche e pericolose (dico era, perché penso che attualmente sarebbe poco prudente fargliele fare, anche se ha conservato una invidiabile forma fisica). Con “I corpi presentano tracce di violenza carnale” (meglio conosciuto con il titolo “Torso”), del 1973, ritorna al thriller. Si tratta di un soggetto forse più classico degli altri quattro, ma anche qui non mancano toc-


chi onirici di primo ordine (fantastica la scena in mezzo alla nebbia e al fango, poi ripresa per l’inizio di “Mannaja”) e soprattutto un’invenzione narrativa che sarà citata più e più volte, mi riferisco alla trovata della chiave fatta passare sotto la porta con un giornale. Come ha avuto l’idea? Sbaglio o questo è tra i film che ha diretto quello che ha avuto più successo oltreoceano e che gli ha regalato maggiori soddisfazioni? È il primo film che feci con Ponti e sicuramente la sua produzione aveva la capacità di poter far uscire i film nelle sale americane. Ponti rimase sorpreso dal successo in Italia, anche se in seguito il film fu penalizzato dalla concomitante uscita di “Tango a Parigi” che sbancò i botteghini togliendo spazio alla concorrenza. La pellicola, anche per questo, ebbe molto più successo all’estero che in Italia. La scena della chiave è farina del mio sacco: non ho saccheggiato nessun film precedente e Quentin Tarantino la considera un MUST. Penso che sia stata un’ottima idea. La scena del fango ha avuto delle ottime suggestioni dall’ambiente (il bosco delle Betulle di Manziana, vicino alle solfatare chiamate in gergo Caldara). Ci sono tornato di proposito per Manna-

ja. Quelle due scene le ritengo tra le migliori dei miei film. Nei suoi primi quattro anni di carriera ha girato ben 10 film + 2 documentari, praticamente passava da un set all’altro senza pause. Che ricordi ha di quegli anni? Penso soprattutto alla età che avevo in quegli anni: ero molto giovane, pieno di energie, di idee e di positività. Anche se erano gli anni di Piombo, è stato per me un periodo felice. E’ vero che avrebbe dovuto girare un film con Bruce Lee protagonista? Si, l’ho raccontato in un inserto pubblicato su Internet. Fu una esperienza molto stimolante, anche se poi il film non si fece per le richieste economiche dell’attore. Fu forse un errore. Il produttore era Ponti, in associazione con gli Shaw Brothers, e sarebbe stato un film con un budget di livello internazionale e forse avrebbe garantito un successo internazionale. Nel 1975 dirige quello che, secondo me, è il suo miglior poliziottesco, ma anche uno dei film più importanti della sua intera carriera e cioè “La polizia accusa: il servizio segreto uccide”. Un poliziottesco molto cupo e con

un finale cattivissimo, girato in un clima sociale che non era poi molto diverso. Cosa pensa di questo film? Ci furono problemi di produzione nella realizzazione, visto che alcune scene sono state riprese dal precedente “Milano Trema” (Citroen DS nera che si frantuma addosso a un albero). Forse sì, anche se fu un film girato con meno mezzi e tempo di “Milano Trema”. Confesso che non ricordo di aver utilizzato la sequenza del cappottamento della Citroen per questo film. Di sicuro è stata inserita nel film di Lenzi “Milano Odia” e, a distanza di molti anni, ne “La ragazza di Cortina”. Quella scena fu girata da me con Julien Remy per “Milano Trema”. Il risparmio è una delle componenti di qualsiasi attività ed economia, per cui la domanda mi sembra superflua. Parlando della definizione “poliziottesco” ti dico che non la amo affatto. Che vuol dire? Capisco Spaghetti Western (ci siamo appropriati di un genere e di un epopea che non ci apparteneva) ma fatti di polizia e cronaca appartengono a tutto il mondo, a Chicago come a Barletta. Poliziottesco vuol essere un termine che cerca di rendere il poliziesco un genere inferiore?

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Subito dopo gira un film a metà strada tra il thriller e il poliziottesco, cioè “Morte sospetta di una minorenne”, avvalendosi della collaborazione di un suo fido collaboratore, cioè Ernesto Gastaldi. Al riguardo, mi viene da chiederle: come nascevano le sceneggiature dei suoi film e quali erano le fonti di ispirazione? Il film si doveva chiamare “Milano…(non ricordo cosa, forse “a mano armata”)”, ma, quando era pronto per l’uscita, il direttore della distribuzione della Titanus pensò che il genere era in declino e fece cambiare il titolo in “Morte sospetta di una minorenne” per dargli una collocazione nel genere Giallo. Lo ritengo uno dei miei migliori film, pervaso da una certa ironia e con un bel taglio di scene e inquadrature. La conoscenza di Gastaldi della periferia milanese e la mia voglia di immagini essenziali costituivano poi delle componenti importanti per la buona riuscita del film. Non ebbe lo stesso successo dei miei precedenti “poliziotteschi”, credo a causa proprio del titolo. Sta di fatto che, subito dopo, iniziò il grande successo dei vari polizieschi di Maurizio Merli a dimostrazione che il genere era tutt’altro che logoro come invece pensava

qualcuno. Dopo quest’ultimo film, inizia il suo impegno nella c.d. commedia scollacciata, ma nel 1977 regala un’altra perla visiva con il western crepuscolare “Mannaja”. Insieme a “Il grande silenzio” di Corbucci (ambientato in valli ricoperte di neve) e “I Quattro dell’apocalisse” di Fulci è forse lo spaghetti western più scenografico mai realizzato. Curiosa poi l’arma che utilizza il protagonista, ricorda un po’ i boomerang di “Matalo!” di Carnevari. Come nacque l’idea di girare un western in un periodo in cui il genere era ormai in declino e come fu accolto il film da critica e pubblico? Detesto i luoghi comuni: le mie commedie non sono mai state scollacciate. Pochi nudi e molto sobri, se devo rimproverarmi qualcosa è nei film gialli in cui, forse (per motivi produttivi), ho a volte indugiato su violenza e immagini erotiche, ma nelle mie commedie non ricordo scene di nudo imbarazzanti. Queste definizioni nascono da critici dell’epoca che comunque volevano impoverire i contenuti delle commedie e forse non vedevano neanche i film (a titolo indicativo vorrei che vedeste “Giovannona Coscialunga” e lo valutaste nei suoi contenuti

“scollacciati”) Tornando al Western (vi siete dimenticati di “Keoma”, un film di Castellari con Franco Nero) ci fu un ultimo tentativo di riproporre il genere alla fine degli anni settanta. La nebbia e il fango consentivano di nascondere le fatiscenti facciate (ormai in abbandono) del villaggio western della Elios. Le costruzioni, infatti, erano martoriate da crepe e buchi. L’idea della mannaia era per cercare di incuriosire il pubblico con l’uso di un arma diversa dai soliti revolver. Il film ebbe un discreto successo in Italia e molte vendite all’estero. Nel 1978 passa al “Cannibal movie” con “La montagna del dio cannibale”, che vede tra i suoi protagonisti un’altra sex symbol dell’epoca: Ursula Andress. Tra l’altro con questo film inizia la sua collaborazione con un grande scenografo che risponde al nome di Antonello Geleng. Cosa ricorda delle riprese e trovò particolari difficoltà a girare in mezzo alla giungla malesiana? Geleng era un ragazzo di 23 anni, reduce da una esperienza americana con King Kong. Capii subito il suo talento e gli affidai un compito non (Continua a pagina 41)


Un poeta lontano dalla patria Gordiano Lupi

Félix Luis Viera e la nostalgia di un esiliato

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élix Luis Viera è noto in Italia per aver pubblicato Il lavoro vi farà uomini (L’ancora del mediterraneo, Napoli - titolo originale Un ciervo herido), un romanzo verità che racconta la terribile esperienza delle UMAP, centri di rieducazione e lavoro per antisociali (dissiddenti, omosessuali, religiosi, rockettari...) creati dalla fantasia malata del comunismo cubano nei primi anni Sessanta. Molte opere di Viera sono inedite nel nostro paese, ma meriterebbero di essere tradotte, perché è uno scrittore dallo stile colto e raffinato che ha il coraggio di raccontare il vero volto dell’isola caraibica. Ilaria Gesi, per conto delle Edizioni Il Foglio Letterario ha tradotto Hotel Inghilterra, un romanzo breve che fornisce un quadro della Cuba contemporanea, ai tempi del periodo speciale. L’opera è nelle mani di un agente letterario per trovare una giusta collocazio-

Félix Luis Viera nasce a Santa Clara, Cuba (18 agosto 1945). Pubblica le raccolte poetiche: Una melodía sin ton ni son bajo la lluvia (Premio David di Poesia della UNEAC, 1976 - Ediciones Unión, Cuba), Prefiero los que cantan (1988, Ediciones Unión, Cuba), Cada día muero 24 horas (Editorial Letras Cubanas, 1990), Y me han dolido los cuchillos (Editorial Capiro, Cuba, 1991) e Poemas de amor y de olvido (Editorial Capiro, Cuba, 1994). Pubblica le raccolte di racconti: Las llamas en el cielo (Ediciones Unión, Cuba, 1983), En el nombre del hijo (Premio della Critica 1983 - Editorial Letras Cubanas - Nuova Edizione nel 1986) e Precio del amor (Editorial Letras Cubanas, 1990). Pubblica i romanzi: Con tu vestido blanco (Premio Nacional per il Romanzo della UNEAC 1987 e Premio della Critica 1988. Ediciones Unión, Cuba), Serás comunista, pero te quiero (Ediciones Unión, Cuba, 1995), Un ciervo herido (Editorial Plaza Mayor, Puerto Rico, 2003) e il romanzo breve Inglaterra Hernández (Ediciones Universidad Vera(Continua a pagina 40)

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Prologo al libro La patria è un’arancia, ne editoriale. introdotto dalla frase di José Martí: Non esiste patria in terra straniera.

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utte le nostre ragioni si trasformarono in stupidaggini, o non erano nient’altro che stupidaggini. Ci ingannarono. O peggio: ci siamo lasciati ingannare da un folle, al quale non abbiamo saputo vedere sin dall’inizio le caratteristiche di un tiranno. La cosa migliore che abbiamo ottenuto è una scia di morti lungo questo cammino. Di morti fisicamente, ma anche di morti in vita, e a volte sono proprio questi ultimi i morti più morti che esistono. E di enormi sacrifici inutili per realizzare un sogno che mai sarà niente più che un sogno. Dal 1959 a oggi, tra gli altri sacrilegi, abbiamo fomentato l’odio tra fratelli, del padre nei confronti del figlio, del figlio nei confronti del padre, della madre verso il figlio, del figlio verso la madre e tra amici. E almeno io, Felix, soffro giorno dopo giorno, come non ti puoi immaginare, quando penso ai tanti cubani dispersi per il mondo, allontanati forse per sempre dalla terra che li ha visti nascere. Condanno me stesso come un cretino, per aver iniettato il virus di questo disastro ai miei figli e a tanti giovani che oggi possono contare solo con la miseria e con il panico. Uno non merita di restare vivo, Félix, dopo aver sbagliato in questo modo, uno è in debito con la generazione che oggi soffre così tanto, uno porta sulle spalle questo orribile peso. Povera Cuba, Felix, da un tiranno all’altro, da un abisso all’altro. (Frammento di una nota, del 1992, di Manuel Parrado, Manolito, ricevuta una settimana prima che si suicidasse).

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Siamo stati così poveri, non abbiamo mai avuto, per esempio, un acquario. Come tanta gente non abbiamo mai avuto un acquario per contemplare, assorti, i pesci mentre lo percorrono nel loro mondo silenzioso. Mai abbiamo avuto un acquario per mitigare i nervi dopo aver contato tanto denaro o almeno una quantità che eviti il soprassalto. Siamo stati così poveri, anche se abbiamo assemblato la nostra casa con gli avanzi di altri poveri. Ma abbiamo avuto una bandiera, ci assicurarono che era l’emblema dei poveri e noi la sporcammo nella polvere del povero cammino e il copioso sudore delle ardue giornate. Noi avevamo una bandiera


Ma siamo rimasti poveri, così poveri che il latte non basta per tutti i denti. Quando nacque la bambina come un pellegrino andavo in cerca di legni vecchi, fili di ferro abbandonati, che qualche nobile stella avesse dimenticato nella sua caduta, era, di nuovo, il poeta a portare la croce.

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che era l’emblema di un avvenire di ricchezza per tutti: nessuno sarebbe stato povero, nessuno avrebbe continuato a pernottare nell’opulenza.

Quando nacque la bambina le costruimmo la sua camera con le cose trovate dopo quelle ricerche e siccome la bambina era una bambina appena nata non seppe che la prima camera dove dormì era fabbricata quasi con l’umiliazione.

2 Delle tue poesie quasi niente resta, quasi niente serve, tu, che non hai mai avuto un acquario per addormentarti, per vagare con la mente sospesa dopo aver scritto una cartella, dedicasti le tue poesie alla patria ma sbagliasti patria: cantasti i suoi condottieri più gloriosi invece di scrivere odi a quell’amico finocchio, codardo, triste - rimosso dal Tiranno che divenne padrone della patria - , incapace di sparare con una pistola ad acqua contro il Tiranno e il suo seguito - i veri nemici dell’altra patria - , lui sì, lui sì, quell’amico era la patria. Devi correggere le tue poesie, tirar fuori da loro le fabbriche dei discorsi, dovrai cancellare i tuoi versi incendiari dove confidavi in un futuro magnifico dove cantavi l’uguaglianza tra gli uomini dove affermasti che gli alveari sarebbero bastati per tutti, dovrai ritrattare le poesie che scrivesti al fratello maggiore che dopo divenne il Tiranno. Devi lanciare queste poesie in un crematorio e salvare solo quelle che parlavano davvero della patria: delle donne, l’amore conquistato e perso, le puttane della tua infanzia,

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3 Te ne andasti dalla patria e non dimenticavi il suo odore, l’odore della patria è l’incenso che brucia nelle strade conosciute. I soldati non hanno niente a che vedere con la patria (sebbene la patria sia riparata da scudi, inni, soldati e bandiere) perché la patria è l’ombra sotto una ceiba, la bella donna che passa, la nonna che ti offre il caffè alle tre del pomeriggio. (Traduzioni di Gordiano Lupi – www.infol.it/lupi)

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cruzana, 1997. Editorial Capiro, Cuba, 2002. Tradotto in italiano da Ilaria Gesi). Il libro di racconti Las llamas en el cielo è considerato un classico del genere nel suo paese. Molte sue creazioni sono state tradotte in diverse lingue e sono uscite in alcune antologie pubblicate a Cuba e all’estero. Nel paese natale ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro in favore della cultura. Ha diretto la rivista Signos, di proiezione internazionale e dedicata alle tradizioni della cultura. In Italia ha pubblicato soltanto Un ciervo herido, noto come Il lavoro vi farà uomini (L’Ancora del Mediterraneo). Felix Luis Viera sta per pubblicare in Messico il romanzo El corazón del rey, che racconta i primi passi della instaurazione del socialismo a Cuba negli anni Sessanta, ma non abbandona la poesia e in autunno uscirà in Messico la sua raccolta definitiva: La patria es una naranja, ispirata alla nostalgia per la terra natale e alla vita che conduce in esilio dal 1995. Le poesie presentate sono tratte da questa raccolta inedita che sto traducendo in questi giorni e che sarà presentata a Miami nel corso del prossimo mese di ottobre.

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di un altro amico ucciso con pallottole davanti ai tuoi occhi, morto sicuro che stava morendo per te, per i tuoi amici, per la patria, e che dopo morì ancora una volta, tradito da chi disse che la patria era la morte, o peggio: che erano loro stessi.


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facile, in un posto difficile e con un clima terrificante; in particolare ricordo le estenuanti arrampicate mattutine per raggiungere la caverna, a qualche chilometro da Kuala Lumpur, con 38 gradi di temperatura e 95% di umidità. Ogni giorno, la troupe si assottigliava…Io fui uno dei pochi a non cadere: ma, come ironicamente dicevo, non portavo addosso carichi pesanti come lampade o altre attrezzature, ma solo le responsabilità. Ursula era abituata all’avventura, aveva già girato film del genere con Belmondo, e non aveva nessuna paura degli animali. Le riprese nella Giungla furono le più facili: le girammo in massima parte nell’orto botanico di Kandi, in Sri Lanka, con la città, i bagni e i bar a poca distanza. La magia del cinema! Con “La montagna del dio cannibale” possiamo dire che ha inizio un piccolo filone all’insegna dell’avventura con un quintetto di titoli, forse minori, che il sottoscritto ha apprezzato per l’alta componente fantastica e per gli sforzi scenografici e di costume. Film non perfetti, anche a causa di budget limitati e di sceneggiatura più votate alla spettacolarità che ai contenuti, ma che si

segnalano soprattutto, a mio avviso, per la volontà di miscelare tra loro generi diversi. Primo di questi titoli, forse il meno riuscito, è “Il fiume del grande caimano” (1979) sorta di via di mezzo tra un cannibal movie e un film sulla scia de “Lo squalo”, subito seguito da altri film di imitazione come “L’Isola degli uomini pesce” (1979) e da quello che è un mio cult assoluto, cioè “2019 dopo la caduta di New York” (1983) e dall’altro sci-fi “Vendetta dal futuro” (1986) opera sul cui set perse la vita l’attore Cassinelli. Quali aneddoti ricorda legati a questi film? Come fu creata la New York del 2019? È vero che Geleng, lo scenografo, costruì palazzi utilizzando scatole di legno? Che tipo era Michael Sopkiw, il Parsifal di “2019”, e come lo sceglieste? Concordo su il “Caimano”: è il mio film, di queste trilogia avventurosa, meno riuscito. Già si sentiva il grande gap con il cinema americano che iniziava, con gli effetti digitali, a prendere un vantaggio incolmabile con le nostre tecniche. Era l’inizio d un declino che avrebbe raggiunto il suo apice alla fine degli anni ottanta, anni che

hanno devastato la nostra industria votata agli inciuci di tangentopoli e non a un rinnovamento tecnologico che invece in altri paesi determinava un miglioramento continuo e sorprendente. Penso che il crollo del nostro cinema, a livello industriale, e del nostro paese in genere, come competitività, sia iniziato in quegli anni. Prima la nostra arte di arrangiarsi, con la genialità e l’improvvisazione, riusciva a giocarsi la partita. Solo di recente, per quanto riguarda il cinema, stiamo cercando di recuperare le capacità tecnologiche, ma nessuno crede più nel cinema di genere italiano. Sono sicuro che, se avessi un budget sui 6milioni di euro, riuscirei a fare un film di successo all’estero, ma non c’è nessun finanziatore, ne lo Stato che già fatica a concentrare i finanziamenti sui debuttanti e i film d’autore. “2019” fu un film, con un ultimo guizzo di genialità, capace di imporsi. Uscì nei circuiti cinema Usa (occasione abbastanza rara per il nostro cinema che, per lo più, arriva nelle sale d’essai e in tv). Il modellino di New York distrutta fu fatto molto bene da Geleng, ma, per ampliarne la profondità, all’ultimo momento furono messe delle cassette di legno della frutta, annerite, che era-

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no del tutto credibili. È un macabro e grottesco riferimento che istintivamente ho provato l’undici settembre del 2001, nel vedere le macerie di quella distruzione, senza mancare di rispetto alle vittime di quella tragedia. Il film fu girato in gran parte in Italia, salvo un paio di settimane tra N. Y. e Monument Valley. Sopkiw veniva dalla moda: fu sorprendente la sua capacità di diventare un attore abbastanza credibile in quel ruolo, anche se facilitato da un abbigliamento e un trucco suggestivo. Un po’ come capitava nei western, in cui una barba incolta e un cappello riuscivano a dare carisma a tanti attori. Ritengo, tuttavia, che se la cavò bene: infatti fece anche altri film dopo. Me lo ricordo serio e concentrato e con la voglia di fare bene. “Gli uomini Pesce” fu girato, prima del “Caimano”, interamente in Italia e, più nello specifico, in gran parte nelle grotte di Nettuno, in Sardegna vicino Alghero. Anche nell’occasione occorreva percorrere 752 gradini da scendere il mattino e poi risalire la sera… “Vendetta dal futuro” è un ricordo triste per me, per l’incredibile perdita, in un incidente con un elicottero, di un mio caro amico. Claudio Cassinelli, oltre che un ottimo attore, era un ragazzo di u-

na sensibilità e di una discrezione incredibile senza nessun atteggiamento divistico. Ho il grande rimorso di non avergli impedito di salire su quel velivolo, ma Claudio era un entusiasta, aveva vinto le sue paure e voleva poter raccontare a suo figlio, che allora aveva cinque anni, questa nuova avventura: volare sui canyon delle montagne rocciose e sul Colorado River e sul ponte che lo attraversava. “Ho fatto trenta, fammi fare trentuno” mi disse prima di salire sull’elicottero. Chiudo la lunga cavalcata dedicata alla filmografia di genere di Martino con l’horror del 1982 “Assassino al cimitero etrusco”, pellicola da ricordare, perché, se non erro, segna il debutto di Sergio Stivaletti in qualità di addetto agli effetti speciali. Come fu la genesi di questo film? La sensazione è che fu particolarmente tribolata, perché il risultato finale è, a mio avviso, un po’ confuso soprattutto a livello di script. Sicuramente fu difficile ridurre una serie di sette puntate da un’ora in un film di cento minuti. Si girarono delle scene di raccordo per rendere più rapidi certi tempi. La serie televisiva era sicuramente migliore, anche se non ebbe un e-

sito televisivo soddisfacente. Il film invece ha avuto successo all’estero, tanto è vero che in un mio viaggio a New York, nell’Aprile scorso, in occasione di una Covention ho firmato molte locandine del film. Quali sono i progetti per il futuro di Sergio Martino? Sarà possibile ammirare un suo nuovo film di genere oppure la carenza dei fondi rende impossibile la concorrenza con i film di oltreoceano. Progetti ne ho molti, offerte, sia in cinema che in tv, anche. La mia tendenza è quella di scegliere e di fare un film che mi piaccia veramente. Fra poco vi sorprenderò.

*** Un grandissimo ringraziamento di cuore a Martino, in primis per averci regalato capolavori che non ci stancheremo mai di vedere e di studiare, in seconda battuta per averci concesso questa intervista dimostrando, come suo solito, grande gentilezza e disponibilità. Un grazie da tutta la redazione.


Tutti i colori del buio Matteo Mancini (giurista81)

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a amante dell’onirico tout court non potevo che battezzare questa sezione della rivista con il film di genere, forse, più visionario dell’intera cinematografia di genere italiana. “Tutti i colori del buio”, infatti, è un autentico incubo dalla prima all’ultima sequenza, con dei momenti di alta scuola capaci di offrire ottimi spunti di riflessione sia per chi ha velleità di scrittura, sia per chi vuol apprendere le più accattivanti tecniche di ripresa. Per queste caratteristiche si tratta di un thriller dall’anima horror (si rievocano le a t m o s f e r e d i “Rosemary’s Baby”, anche per via di alcuni brani infantili della colonna sonora), che si discosta da quelli c.d. argentiani (non si deve scoprire l’assassino, né abbiamo un detective che indaga) ma anche da quelli di Lenzi (quelli che ruotano attorno ai vizi di famiglie borghesi), per assumere una dimensione propria che ha nell’impronta psicologica il suo DNA di riferimento e che influenzerà, in seguito, persino

Dario Argento (si vedano le sequenze delle fughe della Fenech, ma anche quelle visionarie). Il film è prodotto da un binomio (Loy – Luciano Martino) che, dopo aver diretto alcune commedie e degli spy-story di discreta fattura, ha regalato fior fiori di opere tra cui mi preme ricordare

alcuni tra i migliori successi di Umberto Lenzi, quali il “poliziottesco” “Roma a Mano Armata”, uno dei più importanti film di guerra come “Il Grande Attacco” e il thriller “Così dolce, così perversa”; e anche il caso di ricordare che Luciano Martino, fratello del regista Sergio, ha firmato

SCHEDA DEL FILM Anno: 1971 (Italia, Spagna). Produzione: Mino Loy e Luciano Martino per Lea Film, National Cin.ca, Compagnia Cin.ca Astro. Regia: Sergio Martino Soggetto: Santiago Moncada Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Sauro Scavolini. Dir. Fotografia: Giancarlo Ferrando Musiche: Bruno Nicolai Montaggio: Eugenio Alabiso Scenografie: Jaime Perez Cubero, José Luis Galicia Interpreti Principali: Edwige Fenech, George Hilton, Ivan Rassimov, Julian Ugarte, Nieves Navarro (accreditata come Susan Scott), Georges Rigaud, Marina Malfatti e Luciano Pigozzi.

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(quale soggettista) o comunque prodotto, tra gli innumerevoli film, anche altre gemme quali “Lo Strano vizio della signora wardh”, “Il tuo vizio è una stanza chiusa…”, “Mannaja” tutti diretti dal fratello Sergio. Per l’occasione il duo Loy-Martino prende un soggetto dello spagnolo Santiago Moncada, di cui ricordo con piacere la sua collaborazione in “Il rosso segno della follia” (Mario Bava) e nel western “Il bianco, il giallo e il nero” (Sergio Corbucci), e lo fa sceneggiare da due tra i più importanti sceneggiatori di gialli cioè Sauro Scavolini ed Ernesto Gataldi. Lo script è decisamente coinvolgente, grazie a una lunga serie di colpi di scena e di ribaltamenti. Ci sono alcune inverosimiglianze (tipo il fatto che nessuno pensi di chiamare la polizia, se non solo alla fine; oppure l’assassino che permette a Jane di utilizzare il telefono dopo aver ucciso una vecchia coppia di sposi). I critici più attenti ai contenuti piuttosto che alle immagini potrebbero, infine, criticare anche le caratterizzazioni dei personaggi, i quali non sono sviluppati in modo approfondito. A mio avviso, tuttavia, quanto sopra detto non penalizza minimamente il risultato finale. Difatti, il vero punto di forza non risiede nella storia, comunque sviluppata con

SINOSSI A seguito di un incidente automobilistico che le causa la perdita del figlio portato in grembo, Jane (Ewige Fenech) diviene vittima di un incubo ricorrente che finisce per influenzarle la vita. A spaventarla è la visione di un sicario (Ivan Rassimov) dagli inconfondibili occhi azzurri che, armato di stiletto, uccide una donna che ha gli stessi lineamenti della madre di Jane. Per cercare di liberarla dall’incubo, il marito (George Hilton) – rappresentante di medicinali – le somministra delle vitamine, mentre la sorella (Susan Scott) la convince a farsi seguire da uno psicoanalista (Georges Rigaud). Gli incubi però non diminuiscono, anzi si trasformano in qualcosa di concreto, perché il sicario non è frutto dell’immaginazione di Jane ma è un pazzo che si mette sulle sue tracce. Una vicina (Marina Malfatti) di casa di Jane, allora, introduce la donna in una setta che pratica riti orgiastici, garantendole che la partecipazione ai riti le permetterà di liberarsi da ogni paura; in realtà però le cose precipitano di giorno in giorno, innescando una lunga serie di delitti fino all’epilogo finale.

gusto e perizia, ma nella regia e nella fotografia. Martino, coadiuvato da un maestro quale Giancarlo Ferrando (vedere, tra gli altri, il suo egregio lavoro in “2019 dopo la caduta di New York”), conferisce un taglio onirico che eleva, ad avviso di questo recensore, l’opera ad autentico capolavoro visivo. Memorabili gli incubi che tormentano la Fenech, specie quelli messi in scena subito dopo i titoli di apertura, ma almeno altre tre o quattro sequenze sono indimenticabili a partire dai sabba, con Martino che va a sfuocare volutamente la nitidezza dell’immagine (creando un effetto psichedelico), proseguendo con le fughe della Fenech

(bella la scena nella metropolitana). Onnipresente, poi, il senso di angoscia, a creare una sensazione claustrofobica assai riuscita. Immancabili, poi, le venature erotiche con il trio Fenech, Malfatti e Navarro sfruttato a dovere con topless, scollature mozzafiato e qualche inquadratura piccante, ma mai volgare (penso alle mani che scivolano sui glutei o corrono sulle curve delle attrici o le inquadrature “vedo non vedo”). Montaggio, firmato da un altro mostro sacro quale Eugenio Alabiso (celebri le sue collaborazioni per i film del duo Bud Spencer – Terence Hill), piuttosto serrato che raggiunge il suo apice nella sequenza dei


sabba (la più disturbante dell’intero film, con un cane trafitto da uno stiletto) per la quale Bruno Nicolai (fedele collaboratore di Ennio Morricone) confeziona una soundtrack eccezionale (forse la sua migliore). È ora il caso di spendere alcune parole sul cast artistico che mette sul piatto un lotto interessante con Edwige Fenech eletta a protagonista incontrastata dell’opera e un Ivan Rassimov perfetto per il ruolo dello psicopatico (bisserà quest’ottimo risultato anche in “Mangiati vivi!”) e reso ancor più pazzo per effetto di un paio di lenti assai ipnotiche. Non sfigura neppure Julian Ugarte, meno brillanti del solito la Malfatti e la Navarro. Ordinari gli argentini George Hilton e George Rigaud. Piccolo cammeo per Luciano Pigozzi, caratterista spesso impegnato in molti b-movie. In definitiva, “Tutti i colori del buio” è un titolo che non può non essere conosciuto da chi apprezza film dai

dal sito www.foglioletterario.it Edwige Fenech è stato il ‘prodotto’ collettivo di esperti artigiani che bene conoscevano le leggi del botteghino e la psicologia maschile. Più prodotto di consumo che opera artistica e dunque opera pop. Fu anche un bene a domanda rigida, tipico dei mercati monopolistici, e dalla curva gaussiana in continua ascesa, nonostante il suo perdurare sul mercato. Insomma, un marchio di successo. Uscito dalle forbici del montaggio, però, il mito di Edwige Fenech prendeva forma nei sogni di milioni di connazionali. Entrava nella vita della gente, nelle grandi città fino ai più sperduti paesini del mezzogiorno, a regalare ancora quegli enormi struggimenti che solo lei sapeva suscitare. È lei il corpo dei Settanta, l’oggetto del desiderio, il culto nascosto di una nazione intera. Lo sanno bene operai e dirigenti, forze dell’ordine e studenti, brigatisti e neofascisti, lo sa bene quel pezzo di umanità che per tutto il decennio si è combattuta sulle strade fino a darsi la morte: il corpo dei Settanta sono anche loro; la pancia molle di un paese scivolato nella centrifuga sessantottina con spirito ottocentesco, e fuoriuscito piagato dalla violenza, spaventato dal futuro e ossessionato dal sesso. Un paese che in Edwige Fenech ha veduto l’incarnazione di un mondo migliore: florido e rigoglioso come i suoi seni, colorato e vivace come i suoi film, ilare e umano come le storie paciose di tante sue commedie. Un mondo bello e pacificato, fuori dalle storture del potere e dalla scarsità delle risorse. Proprio com’era Edwige. «Sembrava ce ne fosse per tutti» – si diceva di lei. Come sappiamo non è andata così. Non ce n’è stato per tutti. Edwige ha scostato il seno e il mondo si é scoperto in affanno. Depauperato da un’economia finanziaria che logora le risorse e avvizzisce la terra, il pianeta si è avviato, gracile, verso l’imponderabile ministero dell’ignoto. L'UTOPIA IMPOSTA Abito un’utopia che non è la mia. Per lei i miei nonni si sacrificarono e i miei genitori dettero i loro migliori anni. Io la porto sulle spalle senza potermela scrollare di dosso. Alcuni che non la vivono tentano di convincermi - da lontano - che devo conservarla. Senza dubbio, risulta alienante vivere un’illusione estranea, accollarsi il peso dei sogni altrui. A coloro che mi imposero - senza consultarmi - questo miraggio, voglio dire con chiarezza che non penso di lasciarlo in eredità ai miei figli.

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Fantascienza: Philip Josè Farmer Ylenia Zanghi

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el 2002 non conoscevo affatto Philip José Farmer. Non fino al 25 maggio, comunque. In quella data, a una svendita di libri a 5 euro al chilo (no, non sto scherzando) ho avuto il mio primo incontro con Lui. E da allora non l’ho più lasciato. Ma chi è Philip José Farmer? È l’uomo che ha infranto il tabù del sesso nella fantascienza? È lo scrittore di avventure ispirato da Verne? È un autore “pop” che scrive un romanzo/racconto dietro l’altro senza pensarci troppo su, quello impegnato e difficile in grado di inserire profondità filosofiche in romanzi per il grande pubblico o quello che ha compromesso la propria credibilità scrivendo di tutto (e anche un porno)? Impossibile dare una risposta che vada bene a tutti, per dirla con PJF “è possibile che un libro venga giudicato oggettivamente, però non da un altro esemplare di Homo Sapiens”. Ma cerchiamo di procedere con un po’ d’ordine. Philip José Farmer nasce il 26 gennaio 1918 nell’Indiana ma cresce a Peoria, nell’Illinois, oppresso da una rigida educazione puritana impartitagli soprattutto dal padre. Si appassiona ben presto alla lettura dei romanzi

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Autore di fantascienza prolifico e versatile, demolitore di tabù d’avventura ottocenteschi ma legge anche i classici greci e i gialli di Arthur Conan Doyle (e non solo quelli). Durante l’ultimo anno alle superiori, Farmer comincia a raccogliere idee per una storia, destinata un giorno a diventare Fabbricanti di Universi. Dopo il diploma comincia a studiare Giornalismo all’Università del Missouri, che sarà costretto a lasciare a causa della bancarotta del padre. Due anni più tardi riprende gli studi nel più vicino Bradley Polytechnical Institute di Peoria, che concluderà solo nel 1950 con una laurea in Inglese, dopo il matrimonio e la nascita dei due figli (e una pausa di dodici anni). Nel 1951 propone il racconto The Lovers ad Astounding Science Fiction e a Galaxy, che lo rifiutano, nel 1952 il racconto viene pubblicato su Startling Stories suscitando grande scalpore e nel 1953 PJF ottiene il premio Hugo per il giovane scrittore più promettente, seguito nel 1954 dal premio Shasta per I owe for the flesh (Sono in debito per la carne). Farmer abbandona quindi il lavoro per dedicarsi totalmente alla scrittura. E cominciano i guai. Il premio di 4000 dollari non viene mai pagato e l’editore (Shasta, appunto) rimanda la pubbli-


cazione del romanzo parlando di modifiche necessarie per stamparlo in un’edizione tascabile. Shasta va in bancarotta e Farmer perde la casa, cerca un nuovo lavoro e continua a scrivere nel tempo libero, dedicandosi ai racconti e pubblicando infine il suo primo r o m a n z o , T h e green odyssey. Nel 1960 Farmer pubblica Il figlio del sole (Flesh) e Gli anni del precursore (A Woman a Day) per una nuova collana di libri fantascientifici con contenuti erotici della Galaxy-Beacon; nello stesso anno la Ballantine pubblica la sua prima antologia, Strange Relations (Relazioni aliene). Gli anni successivi vedono il regolarizzarsi dell’attività di scrittore di Farmer e l’inizio del ciclo di Fabbricanti di Universi. Nel 1971 PJF riesce a pubblicare Il fiume della vita (To your scattered bodies to go), versione riveduta e corretta di Sono in debito per la carne, con cui vince ancora l’Hugo nel 1972 (stavolta come Miglior Romanzo) e inaugura un nuovo ciclo: Riverworld. Nel 1985 da il via al ciclo di Dayworld con il primo romanzo, Il sistema Dayworld (Dayworld). Dopo infinite pubblicazioni (e infiniti trasferimenti tra Beverly Hills, Los Angeles e ogni possibile indirizzo di Peoria) Philip José Farmer muo-

re il 25 febbraio 2009, a 90 anni. Abbiamo visto qual è stata la vita di Philip José Farmer ma quali sono i temi, la filosofia, lo spirito delle sue opere? In quel lontano 25 maggio del 2002 fu proprio lui a fornirmi la sua “versione dei fatti”, con un breve elenco: 1) l’impulso del protagonista che lo spinge dal Noto all’Ignoto 2) solo lottando per conoscere l’Ignoto una persona può veramente conoscere il Noto 3) i tenebrosi continenti del mondo fisico e della mente dell’Homo Sapiens 4) le cose non sono mai quello che sembrano 5) Archetipi 6) la grande avventura. È vero, in questo elenco non compare nessuno dei temi che vengono più spesso nominati quando si parla di Farmer. Dov’è il sesso nonumano-umano? Il contrasto tra predeterminazione e libero arbitrio? La condanna (oppure no) della religione? Forse ne aveva già scritto altrove (articoli e saggi di Philip José Farmer riempirebbero queste pagine solo venendo citati per titolo) o forse sono una conseguenza dei punti sopra el enc at i . In f o ndo, l’obiettivo è sempre uno: distruggere i preconcetti. Come sempre con Farmer, questo elenco offre parecchi spunti e io, tan-

to per fare l’originale, vorrei iniziare analizzando l’ultimo. L’avventura. Sappiamo già che Farmer ama i grandi romanzi d’avventura, quelli di Burroughs e di Verne, per esempio, non ho ancora detto però che di questi autori ha anche “continuato” l’opera, scrivendo romanzi per i cicli di Marte di Burroughs o reboot di opere di Verne (come Il diario segreto di Phileas Fogg, che trasforma Il giro del mondo in 80 giorni in uno scontro tra alieni per la conquista del nostro pianeta). In effetti, la metaletteratura potrebbe a giusto titolo essere inclusa tra i temi Farmeriani più conosciuti ma “fuori elenco”. Tra gli autori raccomandati da Farmer troviamo anche Alexandre Dumas (padre), Herman Melville, Mark Twain (e il suo poco conosciuto Un americano alla corte di re Artù), Jack London. Per PJF l’avventura è la grande ispirazione, il punto di partenza e di arrivo. L’avventura è il viaggio dal noto all’ignoto, è scoperta di sé, è anche (se si è fortunati) rottura del velo di Maya che permette all’eroe di liberarsi delle proprie illusioni (non senza prima essere andato a sbatterci il naso). Così la fantascienza diventa un po’ come l’epica, forse anche come i racconti delle tribù di cavernicoli intorno al

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fuoco: l’avventura è un Viaggio e il viaggio è da sempre un modo privilegiato di conoscere e sperimentare. Cosa c’è di più archetipico di questo? Quindi, in realtà, l’ultimo punto è quello che racchiude tutti gli altri (c’eravate arrivati da un pezzo anche da soli, lo so, be’… repetita iuvant) e in questo caso il risultato è ben più che la somma delle singole parti. Questo fa di Philip José Farmer uno dei migliori scrittori di avventura di tutti i tempi. Ma cosa ha scritto Philip José Farmer? L’elenco non è certo breve, anche volendosi limitare alle sole opere principali (o preferite).

IL CICLO DEI FABBRICANTI DI UNIVERSI

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Protagonista è Robert Wolff, un professore universitario di lettere classiche in pensione, che tramite un corno e uno sgabuzzino si ritrova in un’altra dimensione. Creata da lui. Qui Farmer si diverte a stupirci con una batteria di fuochi d’artificio: un mondo a più livelli che sembra ripercorrere le tappe della storia dell’umanità portandoci tra cavalieri medievali o pistoleri del Far West con un eroe forse un po’ atipico (ma c’è anche un avventuriero amico-alleato) e per questo anche più simpati co, sal endo fino

all’ultimo livello, dove l’umanità… andatelo a leggere e lo saprete! Qui ritroviamo anche l’interesse di Farmer per la religione (mi sembra di avere accennato a una Creazione).

IL CICLO DEL MONDO DEL FIUME (RIVERWORLD) L’intera umanità risorge su un misterioso pianeta, nel corpo che i defunti avevano (o avrebbero avuto) a 25 anni, privati di ogni difetto genetico. Chi e perché ha creato il Mondo del Fiume, dove è impossibile sia morire (si viene resuscitati in un altro punto della riva del fiume) che riprodursi? I protagonisti vivono numerose avventure (anche in compagnia di personaggi storici, inseriti in questo contesto inedito) e, ciascuno a modo proprio, cercano di capire il perché del Mondo del Fiume ma questa ricerca altro non è che un’indagine sul senso della vita.

IL CICLO DI DAYWORLD XXXV secolo: il problema della sovrappopolazione è stato risolto. Ma c’è poco da stare allegri. Il geniale sistema di Dayworld consente, infatti, di vivere solo un giorno la settimana, restando in animazione sospesa per gli altri sei. Jefferson Caird è capace di assumere altre sei diverse identità e vivere quotidianamente ma le

sue sette vite vengono messe in pericolo da un intrigo spionistico. Riuscirà a riconquistare la libertà per se stesso e per gli altri? Altri cicli: Opar, Exorcism Trilogy, World Newton. Romanzi non seriali: Pianeta d’aria, Il distruttore, Il sole nero, Gli anni del precursore, L’inferno a rovescio e molti, molti altri. Il racconto The Lovers, che scandalizzò gli appassionati di sf negli anni ’50, è contenuto nell’antologia Gli amanti. Da leggere (soprattutto per i più curiosi) è anche il romanzo Venere sulla conchiglia, scritto con lo pseudonimo di Kilgore Trout (squattrinato scrittore di fantascienza nei romanzi di Kurt Vonnegut) e perfettamente nello stile di questo personaggio. Potete trovare questo vecchio Urania nelle bancarelle o su siti per collezionisti, come Uraniamania. Purtroppo, molte opere di Farmer non sono mai state pubblicate in Italia. E arrivo alle conclusioni. Philip José Farmer è stato uno degli scrittori più prolifici di sempre, con un’immaginazione infinita e uno stile efficace e versatile. Un autore originale, appassionato demolitore di tabù (con buona pace della sua educazione puritana) e creatore di personaggi unici, straordinari e straordinariamente umani. Correte a leggerlo!


Una piccola peste Manuela Costantini

“Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.” Dante Alighieri

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ammino sulla strada sterrata che mi riporta a casa. Sento il sudore che mi cola sulla faccia, mischiato a una polverina fine. Ho tagliato legna fino a quando non ho più sentito le braccia e le gambe, fino a mettere in discussione il fatto di essere ancora vivo. Mi capita spesso: ogni volta che realizzo di non essere capace. E, ultimamente, mi capita sempre. Mi passo una mano in testa, c’è qualche truciolo incastrato tra i capelli. Intravedo la mia casa in mezzo agli alberi e ai rovi che ho lasciato crescere intorno. Coltivo le more e tutte le altre piante che pensavo mi sarebbero servite per i miei esperimenti. Qualcuno, nel paese, sostiene che io dia da mangiare alle vipere, che le allevi per estrarne il veleno. Per preparare poi dei succulenti intrugli. Sono sempre stato considerato un personaggio, una di quelle persone un po' sopra le righe di cui non sai se aver paura o a cui devi sorridere con condiscendenza. E io lo so bene, me lo hanno sempre fatto sapere. Anche quelli del Laboratorio Mondiale delle Ricerche, che prima mi avevano chiesto insistentemente di trovare una soluzione, come se riponessero in me tutte le speranze del mondo e poi, siccome non ero riuscito a compiere il miracolo, avevano detto che avrei

i racconti di Bravi Autori Il racconto vincitore della GARA 15 del forum Bravi Autori

fatto meglio a prendermi un “periodo di riposo”. Entro in casa, poggio lo zaino sul tavolo ed esco di nuovo fuori, con una sigaretta accesa tra le dita. Il Laboratorio Mondiale mi aveva contattato dopo la “pioggia stellare”. Gli studiosi avevano isolato le schegge delle meteoriti cadute a Terra e avevano trovato, in ogni singola scheggia, l'uovo della pulce “Xenopsylla cheopis”, la stessa che, qualche secolo prima, aveva causato milioni e milioni di morti, diffondendo la peste tramite i topi. Nessuno era morto, stavolta, ma le schegge, cadendo, avevano fatto schiudere le uova rimaste chiuse lì dentro forse per milioni di anni e l'intero pianeta si era riempito di piccolissime bestiole devastanti. E da quel giorno, semplicemente, non c'era più stata una nuova vita. Nessun animale si era più riprodotto, nessuna donna aveva più partorito. No, non era affatto una cosa “semplice”. Io avevo provato a capirne la causa e a trovare un rimedio ma non ce l'avevo fatta e avevo deluso tutti, sopratutto me stesso. E così, dopo tanto tempo consumato tra osservazioni, esperimenti, ricerche, ipotesi e relazioni, ero stato messo a riposo. Ora vivo in montagna, nella casa che era stata dei miei genitori: non avrei

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sopportato l'idea di invecchiare in un mondo vecchio e, anche se ho imparato che ci si abitua a qualunque cosa, non avrei sopportato l'idea di potermi abituare a vivere senza sentire la risata di un bambino. La pioggia stellare, ha reso tutto così definitivo; ha distrutto, in pochi secondi, la possibilità che la vita possa continuare. Ho portato con me provette, vetrini e una serie di strumenti che ho sistemato in una stanza della casa, ma ormai è tanto tempo che non entro più lì dentro. Se non per dare da mangiare a una coppia di topi che sono ancora qui, dopo i miei inutili tentativi. Anche se io ho rinunciato a tutto, hanno il diritto di invecchiare serenamente: non avevano nessuna colpa ai tempi della peste - del resto anche loro l'avevano subìta - e non hanno colpa neppure adesso se le mie provette sono “sterili”, come il resto del mondo. Guardo i rovi che crescono a caso, inerpicandosi dove hanno trovato posto, non si lamentano di non poter passare dove posto non c’è. Sono storti, irregolari, selvatici, a me sembrano perfetti. Rientro in casa e spengo la sigaretta nel posacenere di legno, pieno di bruciature nere. È ora di mangiare. A quest'ora la gente normale ha fame e prepara da mangiare e mangia. La gente normale. In un impeto di normalità, riempio una pentola d’acqua, la metto sul fornello e accendo il fuoco. Sento un rumore, una specie di tonfo su un tamburo rotto. Ho paura, troppa paura. Il rumore non è stato poi così forte. Ma, dal giorno della “pioggia”, ho smesso di guardare le stelle. Si potrebbero arrabbiare di nuovo e venire giù a milioni. Non troverei

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dove e come ripararmi. Non basterebbe un covo di vipere, quello che non ho, per fortuna, anche se la gente continua a crederlo. Verso il riso nell'acqua bollente, metto il sale. Sento ancora una volta quel rumore, proviene dalla stanza-laboratorio. Apro la porta: le provette sono tutte rovesciate e i liquidi si spandono sul ripiano del tavolo, formando arcobaleni densi. Pezzi di vetro e piccoli vortici di polvere e fogli sparpagliati a terra con i lati rosicchiati. Cerco di mettere a fuoco tutti i particolari fino a quando mi accorgo che, seminascosti dietro una gamba del tavolo, ci sono i due topi che mi guardano impietriti: sembrano terrorizzati, sembrano più che terrorizzati, come se in gioco non ci fosse la loro vita, ma quel per cui si vive; sono stretti in una posa che dà l'idea di un abbraccio disperato. Anch'io resto immobile. Un fruscìo fa cambiare la direzione del mio sguardo. E lo vedo. Un topolino, minuscolo, saltella da un punto all'altro della stanza, incurante del resto, come un bambino in un parco giochi tutto da scoprire. Impiego qualche secondo per fissarmi la scena negli occhi e spedirla al cervello e trasformarla in informazioni razionali e poi in dati di fatto. Scoppio in lacrime: singhiozzo, sussulto, sono attraversato da onde elettriche che mi scuotono dalla nuca alle caviglie e non riesco a calmarmi. Il topolino se ne accorge, si ferma di scatto, gira la testa verso di me e mi fissa con gli occhietti neri e piccoli come punte di spillo. E subito riprende i suoi saltelli. Chiudo la porta e torno di là. Le lacrime si riversano sul riso appena scolato. Poi sento, distintamente, un suono: è sincero, spontaneo e contagioso come può essere solo quello della risata di un bambino.


La giunzione PN Mino Vitiello

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ussel Shoemaker Ohl non avrebbe mai immaginato che la sua scoperta fatta per puro caso avrebbe rivoluzionato il mondo, era talmente immerso nei suoi studi che non si rese conto di ciò che aveva sotto gli occhi. Oggi, quasi tutto quello che ci circonda ha le origini in quel preciso istante del 23 febbraio 1939. In quel periodo, i tubi termoionici (chiamate comunemente “valvole”) erano impiegati in tutte le apparecchiature elettroniche e tutto sommato funzionavano bene. Alcuni di noi ricordano con nostalgia i tempi quando bisognava far riscaldare la radio per ascoltare la musica. Qualcuno aveva tentato di impiegare i cristalli per sostituire alcune parti di un circuito elettrico, specie negli stadi di ricezione delle radio, ma i loro effetti erano imprevedibili e a volte incoerenti. Quindi nessuno pensava di abbandonare quella tecnologia semplice ed affidabile come le valvole. Ma Ohl non era d’accordo, credeva fermamente che l'inaffidabilità dei cristalli fosse dovuta alle impurità intrinseche contenute al suo interno e non alla natura del materiale in se stesso; la sua convinzione

Una scoperta casuale che ha cambiato il mondo era che purificando il cristallo avrebbe potuto ottenere un supporto efficiente da utilizzare nelle applicazioni radio. Nel 1939 Russel Ohl passò quasi tutto il suo tempo cercando fra un centinaio di tipi di cristallo quello che più faceva al caso suo, quando lo trovò, cercò con i suoi collaboratori di farlo diventare il più puro possibile. Alla fine ci riuscì, ottenendo una barra di silicio puro al 99,8%. A quel punto i suoi studi gli diedero ragione; il suo cristallo risultava molto più costante e affidabile nelle misure di quelli utilizzati fino a quel momento, ora le sue idee, dichiarate strampalate da tutto il mondo, richiamavano l'interesse di molti scienziati dell'epoca. Durante uno dei suoi molteplici esperimenti sulle barre di silicio, Ohl notò un fatto curioso su una di esse che possedeva una fessura nel mezzo. Eseguendo alcune prove casuali sulla sua conducibilità elettrica, si rese conto che la lampada a incandescenza che illuminava la sua scrivania generava una piccola corrente nella barra. Era nata la

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prima cella solare, che nelle nostre case. negli anni seguenti Tutti noi abbiamo perfezionò e brevettò un’infarinatura scola(US2402662, "Light stica di come è fatto un sensitive device"). atomo: un nucleo cenOltre a questo feno- trale compatto ed eletmeno Ohl rilevò un ef- troni che girano intorfetto secondario sui no, come un microscodue lati della barra ri- pico sistema solare. gata; le due porzioni a- Bene, in base alle cavevano una differente ratteristiche atomiche conducibilità elettrica, dei materiali conosciuun effetto che all'epoca ti, possiamo tranquillanon lo interessò più di mente individuare due tanto, ma che pochi gruppi ben distinti: anni dopo spalancò le quelli isolanti, cioè che porte alla moderna tec- impediscono il passagnologia miniaturizzata. gio della corrente e che Per molto tempo, gli sono a esempio la plaeffetti curiosi di cristal- stica, il vetro, la cerali con proprietà diverse mica e tanti altri, e i furono una mera teo- conduttori, che invece ria; solo dopo alcuni facilitano il passaggio anni dal loro impiego si della corrente e che riuscì a spiegare le sin- sappiamo essere il ragolari proprietà di una giunzione , pe rché questo è il nome della rivoluzionaria scoperta dell'ignaro scienziato sta t unite nse . Oggi sappiamo abbastanza della natura atomica e dei suoi legami per tentare una s p i e g a z i o n e Figura 1 - Struttura simbolica a due dimensioni semplice del fe- del silicio nomeno che sta alle spalle di una me (contenuto nei cogiunzione PN e che è muni fili elettrici), l’oro, alla base di qualsiasi il ferro, in genere tutti i marchingegno elettro- metalli. Ma oltre a quenico che possediamo sti esistono dei mate-

riali che si posizionano giusto in mezzo a queste due categorie, che difatti non rientrano né tra i conduttori né tra gli isolanti. Per questo motivo sono chiamati semiconduttori. Fanno parte di questa categoria alcuni cristalli presenti in natura, come, manco a dirlo, il silicio e il germanio. Il silicio è il cristallo su cui concentreremo la nostra trattazione, essendo attualmente il materiale per eccellenza per questo tipo di applicazione. Sappiamo che un cristallo ha una struttura atomica ben precisa, che si ripete nello spazio tridimensionale in modo geometricamente regolare, come il comune sale da cucina. Osservando più da vicino le proprietà di un cristallo semiconduttore come il silicio, scopriamo che ogni coppia di atomi possiede due elettroni in comune, questo significa che ogni atomo rende disponibile a quello vicino un elettrone libero di muoversi nelle due orbite adiacenti. Questo particolare legame prende il nome di "legame covalente" (figura 1) e rende la materia in oggetto neutra, ossia senza carica


elettrica. In alcuni casi si può avere la perdita di uno dei due elettroni (per esempio fornendo calore), creando uno scompenso energetico dovuto a una "lacuna" creata nel legame (figura 2). Questo è quanto accade in un pezzo di cristallo di silicio, e che tutto sommato è abbastanza insignificante come fenomeno, d'altronde è più o meno quello che succede in un metallo conduttore, solo che come si vede il fenomeno è molto blando. Questo è appunto il motivo per cui questi particolari materiali vengono chiamati semiconduttori. Però noi abbiamo la possibilità di modificare lievemente questo stato introducendo delle piccolissime quantità di impurità (un elemento diverso dal silicio), in modo da avere magari qualche altro elettrone libero, qualcuno in più. Questa operazione viene chiamata drogaggio, e nel nostro caso consiste nell’introdurre un elemento simile al silicio ma che possiede un elettrone in più rispetto ai quattro che vediamo nei disegni. In questo modo il legame covalente è assicurato, ma avremo un elettrone in più che vaga in-

nel legame. Questo si ottiene inserendo un elemento con tre elettroni liberi per il legame, anziché quattro, in questo modo avremo che il nuovo atomo non si potrà legare in Figura 2 - Cristallo di silicio con la perdita di un elettrone modo completo, ladisturbato tra la strut- sciando un buco libero tura cristallina del no- (figura 4). Il nome dato stro nuovo materiale a un cristallo di questo (figura 3). Un semicon- tipo è P, che sta per duttore drogato in que- positivo. È da tener presente sto modo è detto di tipo che tutto questo non N, negativo appunto. modifica il potenziale del materiale, infatti, nel primo caso gli elettroni liberi sono esattamente dello stesso numero degli atomi del drogaggio, e così accade anche per le lacune (10 Figura 3 - Cristallo di silicio drogato con impurità atomi di fodi tipo N sforo 10 elettroni, 10 atoAllo stesso modo mi di boro 10 lacune). possiamo drogare il noMa cosa ci facciamo stro cristallo puro con con questi due tipi di impurità che determi- materiali drogati in nano la creazione di la- modo opposto? Li atcune, cioè spazi vuoti t a c c h i a m o l’uno

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Se l’ultimo passaggio tipo N (con più elettro- non è semplice da digeni) cede rire, è sicuramente più queste cari- facile capire cosa si otche libere tiene, qual è la carattepeculiare di che andran- ristica no a occu- questa forzatura mecpare le lacu- canica. Insomma, une della bar- nendo questi due crira adiacen- stalli drogati in modo te. A questo opposto, si ottiene un punto si po- fenomeno curioso, ostrebbe pen- sia il flusso di corrente Figura 4 - Cristall di silicio drogato con impurità sare che (il movimento degli edi tipo ità di tipo N questa mi- lettroni) può avvenire all’altro, è ovvio, realiz- grazione avvenga fino a solo in un senso, come zando finalmente la che lo scambio sia farebbe una valvola nostra giunzione PN. completo, cioè fino a lungo un tubo d’acqua. come Non ci crederete ma quando tutte le lacune Normalmente, quest’unione meccani- saranno riempite da e- succede in un condutca è la base per realiz- lettroni. Ma questo non tore elettrico, la corzare qualsiasi compo- avviene, pernente attivo elettroni- ché dopo i co, che per capirci li primi scambi troviamo in qualsiasi le zone adiadispositivo elettronico, centi non riche sia un computer o sultano più un forno a microonde, neutre: queldappertutto. Certo col la che inizialtempo la tecnologia è mente era progredita, ora addirit- piena di latura stanno tentando cune si riemdi realizzare giunzioni pie di elettrotridimensionali, per ni (quindi si migliorare le prestazio- carica in moni e abbassare i consu- do negativo), Figura 5 - Giunzione PN mi. Tralasciamo le con- mentre quelgetture e cerchiamo di la piena di elettroni si rente può scorrere libecapire cosa succede ritrova a essere piena ramente in entrambi i avvicinando questi due di lacune. L’area che si sensi, mentre lungo umateriali. viene a creare è una na giunzione PN il flusLa superficie di con- vera e propria barriera so della corrente può tatto tra i due cristalli che non permette più avvenire solo in un è teatro di uno scam- la ricombinazione, que- senso. Questa peculiabio di cariche atto a e- sta porzione di cristallo rità è alla base del funquiparare in modo na- è detta zona di svuota- zionamento di qualsiaturale il potenziale, in mento (depletion layer) si apparecchio elettronico, come il semplice pratica il materiale di (figura 5).


mattone è l’oggetto fondamentale in un edificio. La scoperta di Russel Ohl rimase inosservata fino al 1945, anno in cui la Bell non decise che era giunto il momento di trovare un valido sostituto alle valvole; le macchine costruite con i tubi a vuoto risultavano ingombranti e avide di energia. William Shockley, John Bardeen e Walter Brattain, furono i tre scienziati che ripresero gli studi di Ohl e ne fecero un credo. Dopo alcuni anni dai laboratori Bell uscì il primo transistor a giunzione bipolare della storia, il mondo così ebbe il suo minuscolo mattone per realizzare quello che tutti noi oggi abbiamo sotto gli occhi.

Fonti: • "Micro elettronica" Jacob Millman, Christos C. Halkias • " El e t t ro n i c a generale" - Armando Cupido • "Dispositivi e circuiti elettronici" - Gasparini & Mirri • "Crystal Fire" Michael Riordan, Lillian Hoddesdon

dal sito www.foglioletterario.it Terza edizione per una perla. Terza edizione per un romanzo nato dalle mani dello scrittore Sacha Naspini, che ci accompagna in un viaggio tra passato e presente. Una trama crudissima, piena di astio e vecchi rancori, dove amore e odio si rincorrono e sono elementi inscindibili l’uno dall’altro. Un romanzo a cui la definizione di noir va stretta; a cui ogni tipo di definizione va stretta. Un gioiello partorito narrando la storia di un vecchio antiquario, di una prostituta, di un sicario e di due giovani amanti fuggiti alla ricerca della felicità, ma che incontreranno durante la loro fuga la spietatezza del destino che prevede per loro un muro di Sassi e vendetta. La fuga, il racconto, la morte e i sassi - un connubio di elementi in apparenza lontani tra loro, ma che Sacha Naspini lega in questo romanzo e, rapiti dalla sua lettura, quasi non vien voglia di staccarsene.

"Radio Notte è un susseguirsi di percezioni, fallimenti, polvere da sparo, sabbia e morte. Radio Notte racconta le macerie del cuore, soppesa un futuro incerto, partorito da un passato devastante" - Will.

Scavatrici giocattolo, ventini fatali, città perdute, pepite d’oro grosse come uova, nipoti pestiferi e paperi sfortunati! Ma anche viaggi al polo, zombie e riti voodoo, clessidre magiche, ammaestratori di serpenti e scatole pensanti, tutto in ‘Old California style’! Il mondo di Carl Barks, il genio dei paperi, riassunto in un libro che prova a raccontarlo fuori dai soliti schemi, evocando le emozioni e le nostalgie che le leggendarie storie del periodo d’oro (1948-1955) del maestro dell’Oregon hanno suscitato, da sempre, nei lettori. Un libro che celebra, insieme alle umanissime vicende dei paperi, una profonda passione per quei fumetti e quei personaggi straordinari, divenuti ormai, quasi a nostra insaputa, caratteri indelebili nell’immaginario degli uomini e delle donne di oggi. Nel tentativo di porli definitivamente a fianco dei grandi della ‘letteratura’ di tutti i tempi.

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Lo stile del Campione Vincenzo Bonicelli della Vite

Sì grande era lo schiamazzo di Don Chisciotte che fu presto inteso da quelli della carretta; i quali arguendo dalle parole l’intenzione di chi le proferiva, cacciarono tosto fuori dalla carretta la morte, e dietro a lei l’Imperatore, il Demonio carrettiere e l’Angelo, senza che restasse indietro la Regina e il dio Cupido, e caricatisi tutti di pietre si posero in ischiere aspettando di fare a Don Chisciotte un magnifico movimento coi loro sassi. Don Chisciotte che li vide posti in sì formidabile squadrone, colle braccia inalberate e in atto di fargli piovere addosso un monte di pietre, tirò le redini a Ronzinante, e stette perplesso sul modo di eseguire la nuova prodezza col minore pericolo della sua propria persona. Sopravvenne Sancio sul fatto, e vedendo Don Chisciotte così apparecchiato all’assalto, gli disse: “ sarebbe grande pazzia, o signore, il mettersi a questa impresa; consideri vossignoria, signor mio, che contro piena di torrente e furia di frombola non vi ha difesa al mondo, e meglio sarebbe cacciarsi e rinchiudersi in una campana di bronzo”. (Cervantes, Miguel – DON CHISCIOTTE)

INTRODUZIONE

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Nell’esaminare un testo letterario è prassi comune partire da premesse sull’autore e sul contesto sociale e storico in cui scrive, centrando l’interesse e l’analisi sulla vita e le opere, sulla crescita in certe situazioni familiari, ambientali ed affettive, sociali e politi-

Il trucco di Ronzinante e la gola del Cavallo di Troia

che. Tutto ciò che accade si situa infatti dentro un contesto ben preciso. Ma questo non basta. Il contesto, l’ambiente umano e storico, temporale e geografico, non può spiegare l’immortalità delle grandi opere letterarie. Come non lo può spiegare la linguistica o la semiotica. Qualcosa unisce tra loro i grandi capolavori letterari rendendoli unici: ma cosa conferisce loro l’immortalità aldilà dell’epoca e delle correnti letterarie? Se difatti il contesto spiega molto le differenze, poco fa riguardo le cose in comune. E le affinità contano quanto, se non più, delle diversità: danno conto dell’universalità della letteratura. Stavo scrivendo il mio primo romanzo e mi chiedevo di quante pagine sarebbe venuto e come distribuire il tempo dell’azione. Mi chiedevo: cos’è il tempo nel romanzo? È lo stesso della realtà? No, chiaramente no, rispondevo, sennò le pagine non basterebbero mai. In poche pagine potrei racchiudere anche qualche secolo, con un po’ d’abilità narrativa.. ma l’abilità nella finzione narrativa come può usare il tempo a suo vantaggio e ai suoi scopi? Cosa c’è di specifico nella scrittura che riassume o dilata il tempo e i luoghi umani, sempre che ci sia qualcosa? Quali forme e contenuti appartengono alla rappresentazione letteraria? Qual è il contesto interno della scrittura che lo fa prevalere su quello esterno


traducendolo in parole? O meglio ancora: qual è l’aspetto vitale universale dell’uomo e il suo collegamento specifico con la letteratura? Come emerge nelle parole scritte? Così ho iniziato la mia analisi personale di alcuni capolavori. Andando avanti vedevo che le cose tornavano, che l’idea iniziale trovava sempre nuovi sbocchi e nuove strade, che queste s’intrecciavano tra loro in un reticolo sempre più significativo e sistematico. Il mio saggio prendeva corpo nella sua identità: individuava un contesto formale proprio della scrittura, talmente significativo come forma artistica che i suoi contenuti umani superavano i limiti contingenti del presente, rivelando aspetti in ombra di grande rilevanza, ma di difficile emersione. Era come guardare l’ombra delle parole narrative e metterla sotto i riflettori, rilevare i contorni di un contesto formale in cui il grande scrittore del Cinquecento poteva essere accostato a quello del Trecento, quello prima di Cristo a quello del Novecento. Senza paure, e con grande curiosità empatica, accostavo così la morte di Ettore a quella di Don Chisciotte, l’Ombra del beato regno nel PARADISO al Canto delle Sirene nell’Odissea, la deformazione estemporanea nel RITRATTO DI DORIAN GRAY

a quella naturale nel Cavaliere dalla triste Figura, la figura di Molly a quella di Circe, il Gregor Samsa uomo-scarafaggio all’Ulisse uomo-finzione nascosto nel cavallo di Troia; il monologo di Molly alla gola del Cavallo di Troia: in questa ultima invenzione letteraria scoprivo che la «gola» del Cavallo di Omero da cui usciva Ulisse con i suoi e quella da cui uscivano le parole di Molly in Joyce erano sempre la stessa cosa: la ricerca della perfezione della finzione, la sua astuzia sublime. Questo era il loro comune peccato di gola, si trattasse dell’espressione della coscienza di Molly nello stream of consciousness o dell’astuzia sopraffattoria di Ulisse. Uguale il fluire liberato della finzione nella realtà: il manifestarsi totale di una armonia superiore, capace di stravolgere il buon senso uscendo dalle profondità in cui si nascondeva. Armonia suprema della letteratura. Così mi veniva in mente di accostare Dedalus con la sua arte poetica a Circe con la sua verga: il primo in grado di ridare giovinezza a Molly con la poesia divenuta strumento magico, la seconda di farlo con i compagni di viaggio del povero Ulisse usando la verga. Situazioni ben diverse tra loro, ma con questo tratto comune: il tempo rinverdito con un preciso meccanismo esteriore.

Così, letterariamente, parola e vita trasformano il rapporto tra esteriorità ed interiorità, ordine e caos. Così si fondono nuova identità e perdita, ambiguità e armonia. La mia idea di fondo prendeva forma: la grandezza delle parole ha a che fare con le potenzialità della vita umana, la finzione con la perfezione del testo ben aldilà della vita reale dell’uomo, ma rimanendo in qualche modo dentro di essa. Pirandello m’aveva suggerito sentimento e volontà dello scrivere come punto di partenza: da lì profondità e leggerezza del narrare m’avevano aperto la strada della perfezione nella finzione letteraria. L’uomo-finzione nasce dall’uomo-realtà e lo supera: nella rappresentazione di un tempo noto di passato e presente, ed uno ignoto di futuro, riesce a superare le strade del buon senso per percorrere quelle della scoperta. Dell’amore che unisce la fine all’inizio. Finalmente il tempo mortale dell’uomo e il cuore della letterarietà si legavano tra loro: le parole si mostravano come finzione totale, tempo emerso esclusivo dell’individuo. Specchio universale dell’essere, come in DON CHISCIOTTE. Non a caso fatti e contenuti della narrazione costruiscono ipotesi perfette di realtà, ridisegnano la vita ed il contesto u-

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mano a partire dall’esteriorità delle azioni e dei personaggi, ma vanno ben oltre essa. Scoprono l’altro mondo, quello perfetto e dai confini più estesi, che la sola realtà nuda e cruda trova interdetto dal suo limitato orizzonte temporale e locale. La specificità della scrittura allarga i confini tramite la forza umanizzante della parola: questa estende le sue potenzialità nel trovare attinenze emotive non solo tra fatti e personaggi della storia narrata, ma anche della vita, in una strana ma perfetta coincidenza. La potenza della parola scritta e del silenzio che sempre l’accompagna ha questo merito unico: la meraviglia delle cose che non cessa con il cessare della vita. Perché il silenzio continua a parlare nell’amplificazione dell’eco rimasta, uscita da una gola misteriosa, insieme ad Ulisse. Meraviglia della finzione imperscrutabile ed eterna. E Don Chisciotte non muore mai.

LA PAROLA DISCREPANTE: LA STORTURA DELL’INCIPIT Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato». (Kafka - Il processo)

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Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita (Dante- Divina Commedia)

La forma narrativa nasce da un pre-giudizio: da una situazione iniziale che nell'incipit dello scrittore assume caratteristiche univoche e precise, da una veduta ristretta che limita la possibilità ampia di espressioni diverse della realtà quotidiana. Il raccontare necessita di una scelta di fondo. Serve una distanza dal buon senso della realtà solita, anonima quanto lo può essere il buon senso stesso. Il senso personale è lontano, da trovare altrove, laddove la fantasia creatrice supera il limite del presente e della sua apparenza evidente. Ritaglio personale del presente che inizia, l'incipit è un neonato dall’identità precisa ed ambigua, dotato di sentimento interno e venuto al mondo per volontà esterna: l’opera nasce come un parto di natura particolare. La parola va oltre la natura stessa. Il suo Autore è insieme padre e madre della narrazione. Il suo pregiudizio si riflette in una stortura delle cose nell’ incipit narrativo, una distanza netta dal buon senso corrente. Mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita.

Senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato». L'assenza di colpe di Joseph K è una chiara stortura rispetto al fatto che venga imprigionato, e il «qualcuno doveva aver calunniato» non spiega, ma lascia al tempo vitale della narrazione, la risoluzione di ogni ambiguità... l’evolversi della stortura iniziale in nuovo buon senso non più anonimo. Umore e ambientazione della storia si definiscono come identità in fieri: neonato che vuole vivere per propria volontà. Nell’incipit narrativo compare il pregiudizio volontario dovuto all’Autore, la stortura che la narrazione porterà ad una soluzione originale. Il neonato ha un padre e una madre riuniti in un’unica persona che ne curano lo sviluppo, ne interpretano il silenzio e le parole, ne guidano i primi passi ed il percorso successivo fino allo sviluppo adulto ed autonomo. Ma intanto l’incipit è un flash sul caos strillato che accompagna la nascita. L’inizio della vita è segnato dal sentimento del bambino e dalla volontà esterna di babbo e mamma. Tre protagonisti che diventano due nella narrazione, ma ambiguamente: come nella vita, è il bambino l’unico vero protagonista. L’ambiguità è nella co-


esistenza di sentimento del protagonista e volontà dell'Autore, che sono all'origine dell'incipit. Pirandello, nel suo saggio ARTE E SCIENZA, mette in rilievo che non v'è arte se sentimento e volontà soggettivi non intervengono direttamente, ben prima di ogni conoscenza intuitiva ed astratta. Se la narrazione è in prima persona, è evidente la coincidenza in una unica persona di ambedue i caratteri. Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli elementi soggettivi dello spirito, e fondando l'arte solamente sulla conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l'arte è conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato veramente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dal meccanismo. Il modo dell'essere e la qualità sono dati dalla volontà e dai sentimenti: prima, abbiamo l'oggetto senza un modo d'essere determinato e senza valore. La forma narrativa nasce da un pre-giudizio: da una situazione iniziale che nell'incipit dello scrittore assume caratteristiche univoche e precise, da una veduta ristretta che limita la possibilità ampia di espressioni diverse della realtà quotidiana. Il raccontare necessita di una scelta di fondo. Serve una distanza dal buon senso della realtà solita, anonima quanto lo può essere il buon senso stesso. Il senso personale è lontano, da trovare altrove, laddove la fantasia creatrice supera il limite del presente e della sua apparenza evidente.

Anno XII - Numero 1 - Ottobre 2010 Direttore Responsabile: Fabio Zanello Editore: Associazione Culturale Il Foglio via Boccioni 28 - 57025 Piombino (LI) mail: ilfoglio@infol.it Progetto grafico: Giovanni Capotorto, Riccardo Simone Redazione: Massimo Baglione, Alessandro Napolitano Collaboratori: Gordiano Lupi, Giovanni Capotorto, Pia Barletta, Miriam Mastrovito, Matteo Mancini, Riccardo Simone, Fabio Zanello, Ylenia Zanghi In questo numero: Josephine Ebner, Alessia Orlando, Michela Orlando, Patrizia Birtolo, Manuela Costantini, Mino Vitiello, Vincenzo Bonicelli della Vite, Roberto Paura, Valentina Margio, Luigi Cristiano, Lucia Piecoro, Simone Messeri, Maurizio Cometto IL FOGLIO LETTERARIO

Registrato al numero 666 al Tribunale di Livorno il 1° Febbraio 2000

www.ilfoglioletterario.it www.braviautori.it

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Le vie per l’energia (pulita) sono infinite Roberto Paura

“Al nostro attuale ritmo di consumo, il petrolio di cui disponiamo sarà praticamente esaurito nell’anno 2000. Ritornare al carbone ci porterà un mucchio di problemi, mentre fare affidamento sui reattori a fissione autofertilizzanti comporterà l'eliminazione di enormi quantità di scorie radioattive. Proverei una reale inquietudine se non finissimo di sviluppare i reattori a fusione per, diciamo, il 2010”.

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ueste parole sono di Isaac Asimov e risalgono a un suo racconto del 1974. A quell’epoca, gli Stati Uniti avevano appena superato il loro picco del petrolio, stavano cioè iniziando la china discendente che li avrebbe portati a diventare importatori di greggio e a dare ragione a Marion King Hubbert che vent’anni prima aveva previsto quello scenario negli esatti dettagli. Il “picco di Hubbert” si sta avvicinando anche per il resto del mondo. Sarà raggiunto tra il 2012 e il 2020, dopodiché le risorse disponibili caleranno intorno al 4% annuo, con catastrofiche ripercussioni a livello economico. In realtà, il picco del petrolio convenzionale è già arrivato, nel 2008; abbiamo spostato l’inizio della

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Dalla fusione nucleare al solare spaziale, le soluzioni energetiche del futuro

fine solo di pochi anni, grazie a nuove tecniche di estrazione. Ma se le tecniche possono affinarsi, le riserve petrolifere non sono infinite: il petrolio è una risorsa esauribile; e le stime parlano di un esaurimento nell’arco di quarant’anni. Asimov aveva ragione: nel 2010 la fusione nucleare è ancora lontana e la scarsità di petrolio sta creando crescenti instabilità politiche. E’ il caso di iniziare a guardarsi intorno per trovare nuove soluzioni energetiche pulite e, possibilmente, illimitate. Eolico, idroelettrico, fotovoltaico sono le soluzioni di oggi: ma le loro potenzialità restano limitate: per dirne una, non possiamo utilizzarle come carburanti (benché abbia fatto scalpore un primo esperimento di aereo a energia solare, sebbene ultraleggero), che rappresentano circa il 60% della destinazione d’uso del petrolio. E allora, a che punto è la fusione nucleare? Ma soprattutto, che cos’è? La fusione, come suggerisce la parola, è il contrario della fissione nucleare, che è alla base degli attuali metodi di sfruttamento civile dell’energia atomica. Se nella fissione un atomo di uranio, bombardato da neutroni, si


scinde generando energia (e una gran quantità di isotopi radioattivi di scarto, che costituiscono le “scorie”, radioattive fino a un milione di anni), nella fusione l’energia si ottiene ad elevatissime temperature, che portano due nuclei diversi di idrogeno (deuterio e trizio) a fondersi, producendo un atomo di elio e una certa quantità di energia, derivante dal fatto che il nuovo atomo di elio ha una massa inferiore a quella dei due atomi di partenza; poiché, come diceva Einstein, E=MC2, la massa mancante (M) si trasforma in quell’energia (E) tanto bramata. Energia potente, perché è con quella che il Sole brucia da quattro miliardi di anni e continuerà a farlo per altrettanti; e perché è con la fusione, sebbene di tipo “incontrollato”, che si realizzano le bombe H, con una potenza fino a quattromila volte quella che distrusse Hiroshima. Energia pulita, inoltre, perché produce zero scorie! Allora, che aspettiamo? Il problema è che finora l’unica reazione di fusione “controllata” che conosciamo avviene nel Sole, dove le temperature nel centro raggiungono i 10 milioni di gradi. Ma nel Sole la fusione avviene anche a pressioni elevatissime (il nucleo del Sole, come si può immaginare, non è un bel posto dove vivere), e se volessimo replicare la stessa cosa sulla Terra ci servirebbero temperature assai superiori, per compensare l’impossibilità di riprodurre le stesse pressioni del nucleo solare. Che temperature? Nell’ordine di 100 milioni di gradi celsius. Insomma, non provate a farlo a casa vostra! Per risolvere il problema, scartando la soluzione per ora ancora fantascientifica della “fusione fredda”, ci sono due metodi alternativi. Il primo è il modello di fusione a

confinamento inerziale o a ignizione. Come funziona? Abbiamo una piccola miscela deuterio-trizio racchiusa in una microscopica pallina. Contro di essa si scagliano contemporaneamente 192 raggi laser ad elevatissima potenza, di modo da far raggiungere in quel minuscolo nucleo, in pochi picosecondi, una densità e una temperatura tali da scatenare l’inizio della fusione a catena tra deuterio e trizio. Colpire gli atomi con tutti questi raggi laser è fondamentale: facendo un’enorme pressione su tutti i punti della sfera allo stesso momento e con la stessa intensità, è possibile raggiungere per pochissimi ma fondamentali istanti le mostruose condizioni che rendono realizzabile la fusione. Il progetto è portato avanti dagli Stati Uniti, che dopo molti anni hanno terminato la costruzione di un avveniristico laboratorio, il National Ignition Facility, che realizzerà il suo primo esperimento quest’anno, e potrà dirci entro il 2012 se la fusione è possibile. Ma anche l’Europa si è mossa con un progetto analogo: HiPER, questo il suo nome, si prepara a essere realizzato in Inghilterra entro il 2020: costerà la metà del progetto americano, ci vorrà molto meno tempo per costruirlo e otterrà, se tutto va bene, risultati superiori. Per molti, comunque, l’ignizione non è la strada migliore. Il vero progettoprincipe per la fusione nucleare è in corso oggi in Francia, e si chiama ITER (dal latino, percorso). Un consorzio formato da sette grandi della Terra, ma con metà degli investimenti totalmente europei, sta realizzando un reattore sperimentale non molto lontano da Nizza. Alto 24 metri, largo 30, sarà completato nel 2020 e utilizzerà un altro metodo, quello del confinamento

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magnetico o a plasma. All’interno della struttura, la fusione avverrà a una temperatura intorno ai 150 milioni di gradi: poiché nessun materiale può sopravvivere a queste temperature senza sciogliersi, il plasma composto dalla miscela deuterio-trizio viene ‘confinato’ da un campo magnetico, che agisce come una parete, e sottopone il plasma a una tremenda pressione, garantendo così il raggiungimento dei due criteri che, come abbiamo visto, sono necessari. Se tutto andrà bene, si proseguirà con un altro progetto, DEMO, per la realizzazione di un reattore nucleare sperimentale utilizzabile a livello commerciale, che dovrebbe entrare in funzione nel 2050. Un progetto simile, tutto italiano, si chiama IGNITOR ed è recentemente entrato nella sua fase esecutiva con un accordo Italia-Russia che porterà alla realizzazione del prototipo sperimentale sul suolo russo. Inventato da un italiano negli anni ’60, IGNITOR sfrutta lo stesso principio di ITER ma con dimensioni assai più piccole, r en de ndo possibile un investimento min i m o , nell’ordine di mezzo miliardo di euro al massimo. Da italiani non possiamo che fare il tifo, sperando che – come già con Enrico Fermi negli anni ’40 con la fissione – anche la fusione un giorno parli un po’ la nostra lingua. I vantaggi della fusione sono molteplici. Deuterio e trizio non sono rari come il petrolio. Ogni litro d’acqua contiene 33 mg di deuterio; gli oceani terrestri ci garantiscono una riserva di deuterio pari a 1010 Q, dove Q rappresenta l’attuale fabbisogno energetico mondiale annuo. Il trizio è assai più raro, ma viene agevolmente prodotto in laboratorio attraverso la fissione del li-

tio, e la prima generazione di centrali a fusione prevederà un “contenitore” di litio, che attraverso processi nucleari si trasformerà man mano in trizio alimentando il reattore. Parliamo comunque della prima generazione di reattori; la seconda generazione funzionerà a fusione deuterio-deuterio, eliminando il trizio e quindi anche la più microscopica possibilità di fuoriuscita di radiazioni; infine, la terza generazione utilizzerebbe l’elio-3, che garantirà il massimo della produttività e il minimo rischio: l’elio, infatti, è il più inerte dei gas. Elio-3 è una parola che comincia a far gola a molti. Quest’isotopo dell’elio comune non esiste che in minime tracce sulla Terra, ma è presente in grandi quantità nello spazio; sulla Luna ci dovrebbe essere in quantità non illimitate, ma sufficienti: circa un milione di tonnellate. E dato che si è calcolato che 150 tonnellate di elio-3 garantirebbero energia elettrica all’intero pianeta per un anno, si potrebbe stare tranquilli. Non è un caso che la Russia si stia muovendo per realizzare una stazione sulla Luna entro la prima metà di questo secolo con il preciso scopo di sfruttare l’elio-3, che potrebbe essere il petrolio del futuro; gli americani e i cinesi si stanno muovendo nella stessa direzione. E se sulla Luna l’estrazione risultasse troppo difficoltosa, non sarebbe difficile da lì mandare razzi per farne letteralmente incetta su Giove e sugli altri pianeti gassosi, dove è presente in abbondanza. Un altro progetto è quello di realizzare una centrale a energia solare in orbita intorno alla Terra. I vantaggi? Un pannello fotovoltaico installato a terra riceve energia solare solo per metà del giorno e solo quando il sole non è coperto dalle nuvole; inoltre, non riceve la stessa quantità di energia tutto il giorno, poiché il sole nelle prime ore del giorno e nelle prime della sera non dà la stessa energia di quello a mezzogiorno. Viceversa, pannelli nello spazio riceverebbero energia 365 giorni


l’anno, 24 ore su 24, e con un rendimento – si è calcolato – di gran lunga superiore. Il problema sta nel fatto che l’energia prodotta deve essere inviata sulla Terra, e non possiamo certo installare cavi elettrici dall’orbita alla crosta terrestre. La soluzione sta nel trasmettere l’energia via laser o, ancora meglio, attraverso microonde. La tecnologia esiste già: si tratta di inviare l’energia sulla Terra su una particolare frequenza, che viene captata da un’antenna (o rectenna) sulla superficie che la converte in elettricità. Chi ha familiarità con i videogiochi di Sim City ricorderà le stazioni elettriche a microonde del futuro: l’idea, infatti, non è nuova. Ma ora la NASA, la Russia e il Giappone stanno lavorando al progetto e promettono di renderlo realizzabile per la metà del secolo. Il problema più importante da risolvere sono i costi. Costruire un enorme sistema di pannelli nello spazio, con le antenne di trasmissione, richiede costi elevatissimi. Una soluzione ipotizzata è quella di un ascensore spaziale per portare i materiali in orbita senza passare per gli shuttle (ma di questo parleremo in un prossimo articolo); l’altra soluzione, più fattibile, prevede di realizzare il complesso direttamente sulla Luna utilizzando i materiali disponibili in loco. In futuro si potrebbe prevedere, con un po’ di fantasia, una rectenna per ogni casa, come le parabole satellitari che già abbiamo, o per ogni condominio, riducendo clamorosamente i costi per la distribuzione della rete elettrica (e le relative perdite d’efficienza). Vogliamo spingerci ancora oltre? Le teorie della meccanica quantistica hanno dimostrato che il vuoto non esiste; o meglio, quello che per noi è il vuoto assoluto, e che troviamo nello spazio più estremo, dove nessun elemento conosciuto esiste, o che potremmo riprodurre in laboratorio, in realtà è un brodo brulicante di energia, costituita dall’annichilazione (ossia distruzione reciproca, con conseguente liberazione di energia) di coppie ‘virtuali’ di

particelle e antiparticelle. I calcoli hanno dimostrato che l’energia che si dovrebbe produrre nel vuoto quantistico è immensa, e la cosa ha creato non pochi grattacapi. Secondo l’equazione di Einstein che abbiamo già visto, quest’energia dovrebbe comunque ‘pesare’, in quanto massa, ma il suo contributo gravitazionale risulta in contraddizione con le osservazioni. Delle due, l’una: o quest’energia in qualche modo scompare senza lasciare traccia, ma ancora non si è capito in che modo; o c’è qualcosa nella nostra comprensione dell’universo che non va. Quest’ultima ipotesi sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni, e non è detto che davvero quest’energia sia una chimera. Pensare di poterla ‘estrarre’ dal vuoto ci garantirebbe praticamente l’energia dal nulla, enorme e infinita. Ce n’è abbastanza da scatenare frotte di venditori di fumo che millantano miracolosi marchingegni capace di realizzare il miracolo. Finora, comunque, non c’è nulla di certo. Ma l’energia dal nulla potrebbe, paradossalmente, essere la soluzione finale per il XXII secolo.

Roberto Paura (Napoli, 1986) si occupa da anni di fantascienza. Con all’attivo numerose collaborazioni per siti e riviste, dirige dal 2002 il portale online “Fabbricanti di Universi”, che approfondisce le principali opere della fantascienza e del fantasy, ed è redattore per le riviste Quaderni d’Altri Tempi e Delos Science Fiction. Scrittore saltuario, ha pubblicato racconti nelle antologie “N.A.S.F.” (Nuovi Autori Science Fiction) edite dall’Associazione Nuovi Autori, e sulle riviste Continuum e Delos. Nel 2005 ha vinto il Premio Apuliacon, nel 2010 è stato finalista al Premio Giulio Verne. È laureato in Scienze Politiche e si è specializzato in Relazioni Internazionali presso “L’Orientale” di Napoli.

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Who let the dogs out? Valentina Margio

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er chi non ha mai avuto cani, questa citazione suonerà sicuramente come un luogo comune, una frase fatta… per me, invece, è un vero comandamento. Non esiste al mondo amore più disinteressato di quello di un cane nei confronti del proprio padrone. Anch'io però non l'ho sempre pensata così. Ho dovuto immergermi completamente nel mondo canino per arrivare ad afferrare questo concetto. In un periodo un po' confusionario e deludente della mia frastagliata vita adolescenziale, sentivo il bisogno di essere utile a qualcuno, di valere qualcosa. Alcune persone mi avevano profondamente ferito, pertanto provavo un odio contro tutti tipico di quell'età, e non avevo intenzione di mettere a disposizione il mio aiuto alla società Umana… così decisi di provare con quella Animale, che fin'ora, tra gattini e uccellini accolti in casa nell'arco della mia infanzia, non mi avevano mai deluso. Detto fatto. Mi rivolsi al veterinario del canile sanitario di Belluno, il quale mi consigliò di chiedere all'A.P.A.C.A. (associazione protezionistica amici del cane abbandonato) se avessero bisogno di una volontaria. La settimana dopo, un giovedì se non ricordo male, ero già operativa in questo rifugio, ignara di come questa esperienza avrebbe cambiato la mia vita. Fui affiancata a un'altra volontaria che mi spiegò due, tre regole base del lavoro che avrei dovuto com-

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"Il cane è l'unico Essere al mondo che vi amerà più di sé stesso" piere e mi fece conoscere tutti gli ospiti, raccontandomi la storia di ognuno. Quel giorno provai molte emozioni contrastanti: rabbia, commozione e anche gioia, perché era la prima volta che ne potevo coccolare così tanti in una volta! Insomma, la fatica del lavoro ne era valsa davvero la pena. Col tempo, io e i miei nuovi pelosi amici iniziammo così a conoscerci e io scoprii che ognuno di loro aveva il suo carattere, i suoi pregi e difetti, le sue preferenze, come le persone! Era chiaro quando un cane preferiva la mia compagnia piuttosto che quella di un'altra volontaria, e ciò che più mi colpì e che tutt'ora mi riempie il cuore fu che loro iniziarono a riconoscermi quando mi vedevano. Non abbaiavano più per avvertimento quando arrivavo, lo facevano per chiamarmi e attirare la mia attenzione. Col passare dei mesi, i cani dell'Apaca avevano guarito la mia rabbia adolescenziale: non mi sentivo più inutile e insignificante; ogni volta che aprivo la porta del box di un cane, questo mi trasmetteva tutta la sua gioia e gratitudine con un frenetico scodinzolio; il suo incontenibile affetto lo potevo percepire senza che proferisse alcuna parola. Ancora adesso dopo anni che li frequento provo sempre un tuffo al cuore quando escono dalla loro cuccia e si esibiscono in una danza convulsa di felicità. Ogni volta che li lascio per tornare a casa, cerco di amalgamare il


magone che provo pensando che lì sono molto curati, coccolati, puliti e controllati; ma è una magra consolazione, è ovvio che starebbero molto meglio con un padrone amorevole in una casa tutta loro e questo mi lascia sempre e comunque l'amaro in bocca. Ognuno di loro ha una storia triste alle spalle: chi è stato abbandonato come un giocattolo rotto, chi maltrattato e disprezzato, chi semplicemente è nato e cresciuto come un lupo nei boschi. Al rifugio cerchiamo, nei limiti della nostra conoscenza e possibilità, di insegnare loro che non tutti gli Uomini sono crudeli, qualcuno di buono per loro ce n'è e, se c'è, passerà sicuramente di lì. Queste povere creature, se sono fortunate vengono adottate da qualcuno con il cuore davvero grande, altrimenti passano il resto dei loro giorni all'Apaca, come dei vecchietti in pensione, facendo delle nostre visite e attenzioni la loro ragione di vita. Tengo a sottolineare che il loro soggiorno a vita è possibile perchè l'Apaca vanta numerosi associati che contribuiscono finanziariamente alla manutenzione della struttura e al sostentamento dei suoi ospiti, permettendo loro di vivere comunque una vita quantomeno dignitosa; lo stesso non si può dire dei numerosi canili in Italia, i cui già scarsi fi-

nanziamenti vengono assorbiti da persone senza scrupoli, sciacalli della nostra società, a discapito della vita di innocenti pelosi. Per fortuna c'è qualcuno che non rimane indifferente a questa situazione e sfrutta la sua popolarità per aiutare i più sfortunati, come ad esempio Giorgio Panariello, che nel 2009 ha scritto "Guardami negli occhi quando mi abbandoni" e nel 2008 "Non ti lascerò mai solo", devolvendo tutti i proventi alll’associazione "La Squadra degli animali", di cui è presidente onorario, finanziando così la costruzione di un grande Pronto soccorso per animali. Quante ce ne vorrebbero di persone così per migliorare la situazione dei tremendi canili italiani! Mi pervade sempre un senso d'angoscia quando ci penso, e contemporaneamente tiro un sospiro di sollievo constatando che l'Apaca è una meravigliosa struttura grazie a semplici gesti di tante persone. Ovviamente era impossibile frequentare ogni settimana l'Apaca senza innamorarsi perdutamente di almeno un cane. Il 70% delle volontarie nel corso degli anni se n'è portato a casa almeno uno e io di certo non potevo essere esclusa dalla lista… per non sbagliarmi, ne ho adottati due a distanza di quattro anni l'una dall'altro: Lola e Bibo. Lola aveva solo

due anni quando è entrata a far parte della mia vita e me l'ha totalmente sconvolta con la sua esuberanza e inesauribile energia; Bibo è arrivato due anni fa con già sei anni di vita alle spalle attaccato a una catena… e ha sconvolto la vita di Lola mettendola in riga da bravo soldatino. Anche loro come tutti i cani reduci di abbandono e maltrattamenti hanno avuto i loro problemi comportamentali, mi hanno dato del filo da torcere nell'educazione, ho studiato qualche libro per imparare il loro linguaggio e poter finalmente comunicare in serenità, ma nulla in tutta la mia vita mi ha dato più soddisfazione dei risultati ottenuti grazie alla pazienza e all'amore, due ingredienti fondamentali per trattare con gli animali in generale. Insomma, l'Apaca mi ha dato quello che cercavo: qualcuno che avesse realmente bisogno di me e del mio aiuto e che me lo dimostrasse ogni giorno come solo un cane sa fare; a me piace pensare che sia stato una specie di richiamo a portarmi fin lì… non so come spiegarlo… Perché non passate a visitare un centro simile, qualche volta? Sicuramente capirete di cosa sto parlando…

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Mosaico alchemico Luigi Cristiano

“Noi scriviamo per tutti, ma non tutti possono essere chiamati a comprenderci, perché ci è interdetto di parlare più apertamente” scriveva Fulcanelli in modo elitario e misterioso. Nessun’arte e nessuna scienza passata o moderna ha attratto di più l’attenzione culturale di quanto ha fatto l’Alchimia nel corso dei secoli sia in Occidente che in tutte le altre parti del mondo. Ars regia, il Grande Magistero, l’Arte dei Filosofi, la scienza dei Saggi, l’Alchimia è sempre stata al centro dell’interesse dell’uomo in tutte le epoche. Il solo fatto di propagandare la possibilità di ricavare oro dal vile metallo, cosa per cui l’Alchimia è stata resa famosa, attrasse l’interesse dei principi e dei nobili fin dall’epoca medievale, desiderosi di arricchirsi sempre più, soprattutto per finanziare le guerre, le q u a l i c o n s u m a v a n o un’importantissima fetta delle loro risorse monetarie, come un eco dell’epoca moderna dove ancora oggi le ricerche scientifiche e tecnologiche, per non parlare delle più misteriose e poco conosciute tecniche di sviluppo e controllo mentale, vengono sfruttate ed applicate per lo più in campo militare per assicurare l’illusorio potere dell’oligarchia dominante dell’epoca

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Introduzione al sentiero che conduce alla conoscenza dei Filosofi

moderna. Che l’oro possa essere ricavato o meno dalle ganghe minerali secondo processi chimico-fisici di natura ancora ignota o che sia solo il simbolo di un processo di trasmutazione interiore dall’essere umano volgare e barbaro all’uomo nuovo, nobile e puro nell’animo, lo specchio delle allodole fornito dal re dei metalli diede impulso alla ricerca, la quale si sa, in ogni campo, dalla scienza all’arte, è l’unico vero motore che, quando applicato per fini positivi ed evolutivi, permette ad una società di progredire dalla preistoria al futuro. Ma che cos’è l’Alchimia? Essa fortunatamente non ha una definizione precisa, né un collocamento logico come vorrebbe il metodo scientifico delle


scienze moderne. Essa si pone a metà strada fra sogno e realtà, fra concreto ed astratto, fra materiale e spirituale, fra il laboratorio e l’alchimista stesso e, perché no, fra l’essere umano ed il Creatore. Essa si colloca nel punto di incontro fra l’indice di Adamo e l’indice di Dio, così ben raffigurato da Michelangelo nella sua Creazione di Adamo (foto 1). L’Alchimia è allo stesso tempo l’arte e la scienza in grado di trasformare e perfezionare la materia, imitando l’opera della Natura. Il Filosofo (l'alchimista), infatti, segue e imita i processi che avvengono in Natura, riproducendoli nel suo piccolo laboratorio, nella cosiddetta via sperimentale, o all'interno di sè stesso, in quella che è nota come via spirituale. Paracelso già forniva un’eccellente suddivisione del lavoro alchemico della cosiddetta Alchimia tradizionale, fornendo una dicotomia fra alchimia esoterica ed alchimia essoterica, la prima finalizzata all’acquisizione di conoscenze metafisiche, gnostiche e all’elevazione spirituale, mentre la seconda pressoché indirizzata alla manipolazione artigianale dei corpi naturali. Appare chiaro fin da subito il pericolo sociale dato dall’alchimia esoterica, la quale fondandosi su una ricerca gnostica della fede, per non parla-

re della ricerca della natura stessa del Creatore e della sua Creazione, si contrapponeva in modo evidente ed inconciliabile con il potere spirituale medievale dominante, gestito da uomini avidi di potere e rappresentato dalla Chiesa romana, cosa che invece in altre regioni del mondo trovò perfetta conciliazione ed integrazione, come ad esempio nella filosofia buddista. Ponendo il Creatore nell’uomo stesso e abolendo qualunque intermediario fra uomo e Dio, trovandosi quest’ultimo dentro allo stesso essere umano, l’intera istituzione della Chiesa romana non avrebbe avuto significato e questa fu una ragione per cui, a parte qualche ricco nobile di alto lignaggio o mecenate politicamente intoccabile, ogni tipo di ricerca alchemica venne osteggiata e proibita e marchiata come eretica, almeno fino all’istituzione del metodo scientifico sperimentale il quale, non toccando le materie oggetto della fede cristiana ortodossa, permise, anche se non con minori difficoltà, almeno lo svil upp o i n di pen d ent e dell’alchimia essoterica nelle scienze moderne. Secondo ricerche storiche di studiosi ed appassionati, l'Alchimia troverebbe le sue radici con le prime scoperte della metallurgia preistorica, mentre secondo il mito,

potremmo addirittura far risalire le origini dell'Alchimia alla perduta e leggendaria Atlantide. Che l’Alchimia sia propria della naturale curiosità e sete di conoscenza dell’uomo o sia l’eredità di una cultura extraterrestre atlantidea, il corpus di dottrine simboliche e mistiche e conoscenze pratiche si può far risalire all'Antico Egitto, dove l'Alchimia si sviluppò intersecandosi con il pantheon egizio. Ecco come dall’unione del principio femminile, rappresentato dalla dea Iside, con il principio maschile rappresentato dal dio Osiride e dalla morte (dissoluzione) e resurrezione (coagulazione) di quest’ultimo, poteva nascere il dio Horus, divinità solare metà uomo (materiale) e metà uccello (spirituale), un essere che coesisteva in entrambi i mondi: fisico e superfisico. Sempre ripercorrendo il filo di Arianna fornitoci dalla storia, le conoscenze alchemiche passarono successivamente in mano degli arabi, che ereditarono anche elementi dell'Alchimia cinese e delle popolazioni locali che li precedettero (possiamo ricordare i sumeri ed i babilonesi). È proprio con gli arabi che si sviluppò il pensiero ermetico che tanto fa dannare gli studiosi di alchimia moderni! L’ermetismo, a fondamento delle teorie alche-

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miche, oltre ad essere un’affascinante filosofia storica, rappresenta anche il significato più comune di chiusura ed esclusivismo in quanto si basa prevalentemente sull’espressione verbale e figurativa per il mezzo di allegorie e simboli e, come è noto, il simbolo non descrive quanto piuttosto espande il significato di un concetto che si vuole trasmettere e solo disponendo della corretta chiave di lettura è possibile risalire al concetto univoco originario contenuto fra le molteplici interpretazioni di cui può essere soggetto il simbolo stesso. Ma il termine ermetismo ha anche una terza dimensione che vale ben la pena di mettere nella corretta luce, ovvero la sua relazione con la figura mitica di Ermete Trismegisto (foto 2), assimilato al dio egizio Thot, piuttosto che al dio greco Ermes o Mercurio per i romani. Tale personaggio leggendario è molto importante ai fini della ricerca alchemica in quanto a lui può essere fatta risalire l’incisione della famosa Tavola di Smeraldo, forse il più prezioso ed inestimabile testo alchemico a cui molti autori antichi e moderni hanno fatto spesso riferimento e da cui sono stati spesso ispirati. L'alchimia araba, con tutte le sue conoscenze, venne ereditata in seguito dall'Alchimia occiden-

tale, che in seguito si sviluppo in Occidente seguendo un filone proprio. Più recentemente un ramo dell'Alchimia occidentale, molto spesso chiamata alchimia tradizionale o più semplicemente, Tradizione, si è staccato portando all'approfondimento per lo più concetti di Alchimia Spirituale e in questo concetto si può citare l’Alchimia della Confraternita della Rosacroce, movimento di intellettuali, mistici ed esoteristi che rivoluzionò il pensie-

ro del XVII secolo con i loro manifesti di alchimia spirituale e di alchimia sociale, scritti ancora attuali e validi per il risveglio dell’essere umano dalle catene mentali rappresentate dalle cristallizzate e vampiriche istituzioni sociali moderne. Indifferentemente quale sia l'origine dell'Alchimia, dal filone storico principale, nel corso del tempo, si sono generati numerosi tipi di Alchimia simili o diversi ma pur sempre complementari, come l’Alchimia egizia,


l’Alchimia cinese, l’Alchimia araba, l’Alchimia indiana (che si basa su pratiche di alchimia sessuale e tantra), l’Alchimia occidentale (definita Tradizione), le Alchimie amerindie (come quelle Maya e Azteca), le alchimie dello spirito (come quelle Rosacroce, New Age, Rosacroce d'Oro, Teosofia). Dall'Alchimia occidentale tradizionale, invece, si staccò più o meno in epoca tardo-medievale/ rinascimentale la Spagiria o archimica (in cui prevalevano gli elementi e le conoscenze più materiali, molto spesso indirizzate allo studio dei vegetali e dei rimedi da essi ricavabili), la quale diede origine alle discipline scientifiche moderne, co-

me la chimica, la fisica, l'erboristeria e la farmacologia, le quali hanno eliminato ogni nozione di tipo spirituale, sostituendola con il rigore del metodo scientifico. L’Alchimia però non si è estinta e non è rimasta appannaggio elitario di piccoli gruppi dispersi geograficamente, bensì è sopravvissuta al tempo continuando a vivere nella passione e nel lavoro di studiosi, ricercatori e curiosi, accanto magari ai maestri della Tradizione che di certo sorridono nell’ombra e nel silenzio della loro conoscenza, emergendo talvolta come guide caritatevoli nella massa dei cosiddetti soffiatori. Tutto il pensiero alchemico e tutte le dottri-

ne metafisiche proprie dell’Alchimia possono essere riassunte nella famosa frase, ormai diventata il motto alchemico per eccellenza, solve et coagula (foto 3), ovvero un continuum di dissoluzione e coagulazione fisica della materia e metafisica dell’essere per raggiungere il donum dei esteriore ed interiore, quest’ultimo di certo il più ambito, somigliando molto alla nota Illuminazione. Tutta l’opera di Dio, definito Demiurgo Creatore o Grande Architetto, maestro e guida e fonte di ispirazione per l’alchimista, si manifesta nella Natura, la Creazione, il Grande Disegno. L’alchimista, definito Filosofo o Artista non fa altro che imitare i processi naturali, accelerando le trasformazioni che in Natura richiederebbero millenni, se non ere geologiche per compiersi e lavora con saggezza ed arte la materia allo stato grezzo, la cosiddetta Materia Prima, per ottenere la materia allo stato perfetto, in un processo che prende il nome di Grande Opera. Quest’ultima, però, non si compie solo nella materia fisica, ma anche nello spirito dell’alchimista, il quale è in grado di accelerare l’evoluzione spirituale

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della propria anima, cioè la propria palingenesi, che altrimenti richiederebbe molte vite terrene per compiersi. In definitiva l’alchimista lavora su se stesso per raggiungere la propria deificatio, ovvero l’unione con la divinità creatrice. Un ritorno al giardino dell’Eden ante litteram, a Shambhala, a Shangri la, al Nirvana, un’evoluzione dell’essere umano che lo riporta alle origini del suo percorso di morte e rinascita, prima della sua caduta morale e spirituale per il desiderio di dominare la materia (rappresentata dalla mela dell’albero della conoscenza). Analogamente agli esseri umani, però, anche i metalli terrestri sarebbero soggetti ad un tipo analogo di maturazione ed evoluzione. Secondo le teorie alchemiche, infatti, i metalli crescono e maLetture consigliate 1. A A V V (2000) Atlante dell’esoterismo – Alchimia, la chiave dell’immortalità. Demetra, Varese 2. Price J.R. (2002) Il manuale dell’Alchimista. Macro edizioni, Forlì-Cesena Arcanos (1983) I quaderni dell’Età dell’Acquario n°28 Alchimia esoterica. Bresci Editore, Milano

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turano nel corso del tempo nelle viscere della Terra, nutriti dal cosiddetto liquore metallico, avvicinandosi nel corso del tempo allo stato ideale di perfezione, rappresentato nel mondo minerale dall’oro. L'oro, conosciuto spesso come il Re dei Metalli, rappresenta lo stato perfetto e maturo del mondo minerale, mentre la divinizzazione, spesso usata come sinonimo di Ascensione, rappresenta lo stato perfetto e maturo dell’essere umano. L’energia che rende possibile tutto ciò è un’energia radiante, un agente celeste, trasmutatorio, un flusso cosmico denominato in modo ermetico dagli alchimisti Fuoco Segreto. In definitiva, l’Alchimia vanta di possedere la conoscenza ed i mezzi per accelerare la maturazione dei metall i e dell’essere umano in qualcosa di migliore, di più perfetto e forse mai nella storia dell’essere umano prima dell’epoca presente, si sente davvero la necessità di un cambiamento, di una trasformazione a tutti i livelli dell’esistenza e una liberazione dal giogo della paura, della violenza, del denaro e degli interessi di pochi supra partes a danno della moltitudine. Forse è anche per questo che l’Alchimia non è morta e non morirà mai: perché fa sognare, per-

ché porta la mente in orizzonti dove lo spirito è libero, perché affascina e rapisce il cuore di chi sogna davvero un mondo ed un’umanità migliore, dove l’uomo non sia più un lupo per altri uomini, ma dove regni la pace e l’armonia. Questa è la vera utopia alchemica, ma chissà che un giorno, vicino o lontano, con la presa di consapevolezza globale e con l’ormai incontrovertibile risveglio delle persone questo non possa davvero accadere.

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Tel. 06 8174549


Venezia 67

Fabio Zanello e Lucia Piecoro

Quentin Tarantino e Sophia Coppola sono italoamericani, ma il Belpaese resta a mani vuote

V

enezia 67 sarà ricordata come il festival di un Leone d’oro ad un film mediocre (Somewhere) di una regista sopravvalutata (Sophia Coppola), di un presidente di giuria oggetto di idolatria come Quentin Tarantino e di un premio alla carriera a John Woo, uno che ha riscritto il linguaggio del cinema d’azione. Ma non solo! Infatti fra gli altri momenti degni di nota abbiamo: Richard Lewis e il suo adattamento cinematografico de La versione di Barney da Mordecai Richler con gli strepitosi Paul Giamatti e Dustin Hoffman; il divertimento politico (si parla di immigrazione e narcotrafficanti) e parossistico di Machete della collaudata coppia Robert Rodriguez regista e il caratterista Danny Trejo, stavolta mattatore assoluto; l’apertura di Darren Aronofsky con Black Swan, thriller ambientato nella danza classica con Natalie Portman; Promises Written in Water del marginale Vincent Gallo; il thriller cerebrale di Monte Hellman, mito del cinema indie americano, di Road to Nowhere; l’ambizioso ma poco riuscito Miral di Julian Schnabel sulla questione palestinese, Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt, western al femminile; Ben Affleck più bravo come regista che come attore, con il solido poliziesco The Town; Shakespeare in chiave surrealistica di The Tempest di Julie Taymor; la squadra italiana ha presentato una serie di film interessanti come La soli-

tudine dei numeri primi di Saverio Costanzo sicuramente più inquietante del pessimo best-seller da cui è tratto, Noi credevamo di Mario Martone ossia il Risorgimento anche nelle sue contraddizioni, nel fuori concorso il giurato Gabriele Salvatores e il suo 1960, montaggio sull’Italia agricola dopo il boom economico e soprattutto una punta di diamante come il documentario El Sicario Room 164 di Gianfranco Rosi, vera rappresentazione senza compromessi del male a pagamento; la Spagna oltre alla vittoria calcistica ai Mondiali, si porta a casa il Leone d’Argento con Balada triste de Trompeta di Alex de la Iglesia, storia melodrammatica di freaks in un circo. Non poteva mancare visti i gusti sopraffini del direttore Marco Muller tanto cinema del Far East, di quello da leccarsi i baffi assolutamente appartenente a generi consolidati come il wuxia pian (cappa e spada) e il kung fu.

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Dopochè Sergio Leone ha preso ispirazione nel suo Per un pugno di dollari dal giapponese La sfida del samurai di Akira Kurosawa, il cinema occidentale ha ammesso esplicitamente i suoi debiti verso quello asiatico. Un cinema che è sempre giovane e avanguardistico, perché il pensiero di quelli che lo fanno si pone domande. Si pensi a Legend of the Fist: The Return of Chen Zen di Andrew Lau (la trilogia di Infernal Affairs rifatta da Martin Scorsese in The Departed) interpretato da Donnie Yen e basato sull’eroe delle arti marziali che Bruce Lee rese popolare in Dalla Cina con furore. Di tutto altro genere è il fantasy Detective Dee and the Mistery of the Phantom Flame con Andy Lau e Tony Leung Ka-Fai di Tsui Hark,uno dei geni del ci-

nema contemporaneo. Senza dimenticare il leone alla carriera andato a John Woo, come detto sopra, che dopo un capolavoro come il monumentale La battaglia

dei tre regni, presenta alla Mostra il suo nuovo wuxia Reign of Assassins con Michelle Yeoh e il sudcoreano Jung-Woo sung (The Good, the Bad and the Weird). E per concludere il direttore Muller non ha perso di vista la regione ind i a n a , mettendo nel palinsesto il regista veterano Mani Ratman che si aggiudica il premio Glory to the filmaker,e presenta il musical Ravaan con la star Aishwarya Rai, diva simbolo di Bollywood.

LE GARE DI SCRITTURA DEL SITO BRAVIAUTORI Le GARE (rigorosamente scritto in maiuscolo) sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque, sia nuovi arrivati che veterani, può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa. Il bello di queste GARE è che il vincitore, oltre ad accaparrarsi il premio simbolico che sarà stabilito di GARA in GARA, potrà/dovrà occuparsi di organizzare la Gara successiva. Stimolante, vero? Ma non è finita! laweb.tv (www. laweb.tv) realizzerà interviste e reading dal vivo e ogni GARA sarà pubblicata in ebook. E da oggi un premio in più per il vincitore: la pubblicazione sulla nostra rivista. Inaugura Manuela Costantini, vincitrice di GARA 15 con il racconto “Una piccola peste”. (a pag 49). Vi aspettiamo numerosi sul forum di BraviAutori.


Fantastico e Altri Orrori Maurizio Cometto

UN PO’ DI STORIA La collana Fantastico e Altri Orrori è nata nel 2005 da un'idea di Gordiano Lupi, fondatore e editore della casa editrice Il Foglio, e Vincenzo Spasaro. L'intento dichiarato, negli anni, è stato quello di pubblicare narrativa horror, fantasy, gotica, thriller, fantascientifica, con una particolare attenzione alla sceneggiatura, alla mescolanza di generi nei temi, alla personalità dell'autore e alla particolarità del testo. Si è cercato di privilegiare direzioni inedite o poco battute come il fantastico profondamente italiano di Maurizio Cometto, l'orrore di stampo americano e di ambientazione western di Luca Barbieri, il thriller latinoamericano pregno di denuncia sociale di Gordiano Lupi, l'erotismo sanguinolento ed efferato di Giovanni Buzi. Si è preferito centellinare le uscite piuttosto che pubblicare molto, credere profondamente nei progetti e non disperdersi in molteplici rivoli. In ogni caso la collana è e rimane underground nel senso della passione assolutamente amatoriale di chi ci ha lavorato e ci lavora e della distribuzione non capillare dei prodotti. Solo la costanza, la determinazione e l'entusiasmo dell'editore, Gordiano Lupi, appassionato di cinema e letteratura horror e thriller, hanno permesso la sopravvivenza di Fantastico e Altri Orrori. Più in generale, il Foglio e Gordiano Lupi hanno sempre avuto un occhio di riguardo per la letteratura e il cinema di gene-

Una storica collana de Il Foglio che si rinnova re, come dimostra il successo dei saggi dedicati dal Foglio a registi e autori italiani e stranieri. Una nota di merito va ascritta a Sacha Naspini, che ha rinnovato la veste grafica di Fantastico e Altri Orrori, rendendola riconoscibile e inquietante grazie a copertine da brivido. Numerose sono state le attestazioni di stima da parte di scrittori e critici affermati verso i libri pubblicati nella collana. Un esempio è Valerio Evangelisti, autore della prefazione dei due libri di Cometto, che ha avuto parole di grande elogio verso questo autore in un suo articolo pubblicato su Carmilla. Gianfranco Nerozzi, nella sua prefazione al libro di Gordiano Lupi, fa un’affermazione che potrebbe applicarsi a tutta la collana: “Le storie contenute in questo libro fanno così. Sono come quei ritornelli molto orecchiabili che ti entrano nella testa e poi non se ne vanno. Tanto che poi sei costretto a canticchiarli per tutto il giorno.” E poi ancora Gianfranco Manfredi, Vittorio Curtoni, Giulio Mozzi, Daniele Barbieri, David Frati, Franco Foschi, e molti altri. Tutto questo a riprova della qualità delle opere pubblicate, e della cura nella scelta dei titoli e degli autori.

IL PRESENTE: LE NOVITA’ NELLA REDAZIONE Vincenzo Spasaro, direttore e editor della collana, dopo cinque anni passati in solitudine a combattere allegramente contro il vento, ha

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Fantastico e Altri Orrori sentito l'esigenza di aprire il sepolcro e ampliare la redazione chiamando a condurre il bolide i prodi Maurizio Cometto e Luca Barbieri, che hanno avuto esperienza di Fantastico e Altri Orrori come autori. Oggi la collana è rinata e prosegue la sua corsa con rinnovato entusiasmo grazie alla nuova redazione di valorosi editor: Luca Barbieri, Maurizio Cometto, Alfa Alfa. L'ampliamento della redazione, con i gusti e le tendenze peculiari di ciascuno, garantirà una ancora maggiore varietà di scelte. Inoltre le varie uscite saranno seguite in modo più diretto e continuativo per quello che riguarda la promozione e le presentazioni, essendo aumentato a tre il numero dei redattori. Oggi come ieri, ci interessa trovare nuovi talenti del fantastico italiano, gente che possa rivaleggiare a testa alta coi maestri del genere. Originalità, creatività, capacità di osare, ma anche bravura nello scrivere, voglia di stupire e tenere incollato il lettore al libro dalla prima all'ultima pagina.

IL FUTURO: LE PROSSIME USCITE

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Un nuovo romanzo è previsto in uscita il prossimo autunno: si tratta de "I raccoglitori di sogni" di Maurizio Cometto, che in un certo senso chiude la prima stagione della collana anticipando il rinnovo della redazione. Il romanzo, come il fortunato "Il costruttore di biciclette" che inaugurò la collana, sarà ambientato a Magniverne, e presenterà i consueti elementi fantastico/onirico/avventurosi che caratterizzano i romanzi e i racconti appartenenti a questo ciclo. Daniele Barbieri, uno dei maggiori esperti italiani di letteratura fantascientifica, ha già scritto la prefazione di questo volume, che promette di essere un nuovo punto di svolta nella narrativa di Cometto. Scrive Barbieri: “Dunque cosa fa Cometto

nel suo tempo libero? L’ottico, il costruttore di nuovi orizzonti, il narratore di sogni e visioni che molte/i di noi incrociano ma… troppo spesso al risveglio dimenticano, magari per paura o pigrizia. Importa relativamente che davvero Magniverne esista. Le nostre vite sono più ricche da quando possiamo dialogare con un immaginario Amleto, con un Godot che è sempre lì per arrivare, con la rivoluzionaria Odo, con «Gli Stati Uniti d’Africa» (di recente propostici da Waberi), con quel monolite nero e suo cugino Hal e ora anche con questa piccola Magniverne. ”

MODALITA' D’INVIO MANOSCRITTI E CONTATTI Chiudiamo con le informazioni utili per chi fosse interessato a proporre un manoscritto. La redazione accetta in lettura sia romanzi che raccolte di racconti. L’intenzione è quella di dare spazio soprattutto ai romanzi. Ciò non toglie, tuttavia, che se una raccolta di racconti è davvero buona ed è organica per contenuti, potrà essere pubblicata. Non si accettano invece racconti singoli. Inviate le prime 20 pagine del vostro romanzo, o due racconti della raccolta, insieme a una sinossi dell'opera, e a un breve profilo biografico, all'indirizzo di posta elettronica: foglioredazionefantastico@yahoo.it In caso di interesse effettivo sarete contattati dalla redazione. I tempi di valutazione variano da 3 a 6 mesi. REDAZIONE FANTASTICO E ALTRI ORRORI

Tutti i manoscritti che perverranno alla redazione secondo le regole indicate sopra saranno presi in esame. Per altre informazioni, potete consultare il sito della casa editrice (www.ilfoglioletterario.it), oppure visitare la pagina Facebook dedicata alla collana.


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