Braviautori n 002

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Editoriale

Un nuovo numero di BraviAutori - Il Foglio Letterario Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

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i proviamo ancora. Il numero 2 di Bravi Autori - Il Foglio Letterario tenta di riempire il vostro tempo libero con racconti, poesie, recensioni, interviste, narrazioni cinematografiche, brevi saggi filosofici e letterari. Vogliamo diventare una piacevole abitudine, anche se siamo consapevoli della difficoltà di pubblicare una rivista letteraria con l’ambizione di conquistare un pubblico più o meno vasto. Stampare una rivista e mandarla in libreria è diventato impossibile, una vera e propria operazione suicida, perché i ricavi non ammortizzano neppure i costi di produzione. Per un piccolo editore è sempre più dura. Nel settore libri le cose non vanno meglio, se pensate che un nostro libro vende al massimo 1.500 copie. Il nostro maggior successo ha raggiunto una diffusione di 3.000 copie (L’isola), ma si tratta di una splendida eccezione perché la media vendite si attesta attorno alle 300 - 500 copie per titolo. Non sono poche se pensate che editori come Rizzoli faticano a vendere 2.500 - 3.000 copie di autori italiani poco noti e di autori stranieri non amati dal grande pubblico. Non è facile il mondo editoriale italiano. Diventa ancora più complesso in tempi in cui la cultura è poco supportata e spedire un pacco è divenuto un vero onere. Impossibile spedire riviste e libri contrassegno, perché il costo del servizio supera quello del prodotto. Aiutare la cultura? No, grazie. Siamo italiani. Guardiamo la televisione e ci

facciamo di grandifratelli fino allo sfinimento. La soluzione allora viene da internet e dagli e-book come la rivista che sfogliate telematicamente sul vostro computer. Il primo numero gratuito è stato scaricato da circa 500 persone, mentre altre 50 hanno fatto download di Fuori dal gioco di Heberto Padilla, importante volume di poesia cubana che nel 1971 rappresentò la prima dura critica al regime di Castro. Continueremo su questa strada, tempo e voglia permettendo, come proseguiremo a fare libri, non assecondando il mercato, ma facendo le cose che ci interessano, sperando di convincere qualcuno a seguire le nostre produzioni orgogliosamente underground. Qualche soddisfazione ce la siamo presa, alla faccia di tanti soloni della vera letteratura: Lorenza Ghinelli con Il divoratore è approdata a Newton & Compton, Wilson Saba (Sole & Baleno) a Bompiani, Gianfranco Franchi (Pagano, Disorder, L’inadempienza) a Castelvecchi e Arcana, Sacha Naspini (I sassi) a Elliot e Perdisa, Marco Ballestracci (Il compagno di viaggio e Bluespadano) a Instar Libri… Non è poca cosa, e forse dimentico qualcuno, senza contare che il nostro catalogo di narrativa è pieno zeppo di ottimi autori, anche se non hanno avuto successo e pure se hanno venduto soltanto 200 copie. Non è il successo di cassetta a fare il buon libro. Non è il numero di copie vendute a decretare chi è uno scrittore. La produzione di best-seller non fa parte della nostra missione associativa di piccolo


In questo numero

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Poeta, dove vai?

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Una vita nel mistero

58

Prima di... - racconto

62

I maestri del fuoco

66

L’uovo del Diavolo - racconto

68

Jane Austen

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Editoriale: Un nuovo numero di ...

72

Roberta Guardascione

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Sacha Naspini - novità editoriali

77

Mare di Libri Festival dei ragazzi...

6

Frank Spada - intervista e recensione

80

Un’introduzione all’Archeoastronomia

10

Ci vediamo tutti al RADUNO!

84

Breve introduzione al Connetivismo

11

Storia Rinascimentale - disegno

88

Alla riscoperta dei B-Movie - intervista

12

Claudio Fallani - intervista

99

I Violentatori della Notte - recensione

16

Il latino e noi

102

La Terra non è abbastanza

20

Roberto Quagliano - intervista

106

Lo stile del Campione

22

Via da Las Vegas - racconto

111

Pater Noster - intervista + recensione

25

Fiera del Fumetto Bologna 2010

29

Franck I miei Fumetti

30

Sotto falso nome - racconto

37

De Andrè, la leggenda di Natale

39

La mia Avana - - racconto

40

Moriremo tutti, anche se non siamo...

43

Josè Saramago

46

La figura e l'opera di Lev Tolstoj

50

ORB, musica liquida

e tante altre notizie e recensioni dal sito web www.ilfoglioletterario.it

www.ilfoglioletterario.it www.braviautori.it

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SACHA NASPINI Sacha Naspini, Grosseto, 1976. Ha pubblicato i romanzi: L’ingrato (Effequ), I sassi (Il Foglio), Never alone (Voras), Cento per cento (Historica), I Cariolanti (Elliot). Collabora con diverse realtà editoriali, ricoprendo i ruoli di editor, correttore di bozze, concept e grafico esecutivo. Il suo sito web è: www.sachanaspini.eu

I Cariolanti Sacha Naspini Edizioni Elliot Te mica lo sai che vuol dire nascere di traverso. 1918, campagna toscana. Per non partire soldato nella Prima guerra mondiale, un uomo nasconde suo figlio di nove anni e sua moglie in un buco scavato nel bosco. Lì dentro la famiglia passa quasi tutto il tempo, il padre esce solo per prendere l’acqua e per cacciare, ma a volte il cibo non si trova e allora bisogna affondare le dita nella terra umida per vedere se salta fuori un baco o una radice da masticare, oppure rassegnarsi a mangiare carne umana. Inizia così l’avventura di Bastiano, che cerca di riscattare la sua vita solitaria e animalesca innamorandosi di Sara, la figlia del padrone per cui va a lavorare come aiutante stalliere. Ma il fango quasi mai incontra la luce, e allora finirà per sporcarsi totalmente, uccidere colpevoli e innocenti, scappare, trasformarsi in un animale da preda, perdersi, per poi ritrovarsi anni dopo in quella tana in mezzo al bosco, la sua vera casa. I Cariolanti è un romanzo di deformazione, selvatico e rabbioso, dove il vero protagonista è la bestialità, non la bestialità malvagia e gratuita, ma quella istintiva e viscerale di chi uccide per sopravvivere. Una favola nera in tredici istantanee dove si respirano atmosfere che vanno da Truffaut a Stephen King, alle Fiabe italiane di Calvino.

Noir Désir né vincitor né vinti

Sacha Naspini Perdisa Pop

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Il 26 luglio 2003, in un albergo di Vilnius, Bertrand Cantat, leader dei Noir Désir, schiaffeggia a più riprese la sua compagna, Marie Trintignant. La notizia fa il giro del mondo. Marie entra in coma, morirà qualche giorno dopo. Bertrand tenta inutilmente il suicidio. Il tribunale lituano lo condanna a otto anni di carcere per omicidio colposo. Dopo avere scontato metà della pena, Cantat ottiene la semilibertà, ritorna insieme alla moglie Kristina, madre dei suoi due fi gli, che non lo aveva abbandonato durante il processo e la detenzione. Quando si parla con insistenza di un nuovo disco in uscita, l’11 gennaio 2010 Kristina si suicida mentre Cantat dorme nella stanza accanto. Sembra un sipario che cala una volta per tutte. Il 29 luglio 2010, Bertrand Cantat finisce di scontare la pena, è un uomo libero. Forse per i Noir Désir non è detta l’ultima parola


(Continua da pagina 2)

editore non profit. Il Foglio Letterario si è ritagliato alcuni settori dove è riconoscibile: cinema, fumetto, saggistica alternativa (Il dark, i manga, gli anime…), letteratura e cultura cubana. Continueremo a specializzarci e a proporre novità interessanti, consapevoli che il futuro sarà sempre più duro. Non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci, fino a quando il bilancio segnerà un minimo di attivo e ci consentirà di fare nuovi libri. Abbiamo raggiunto un buon livello di distribuzione grazie alla collaborazione con NDA di Editoria & Ambiente che porta i nostri libri in tutta Italia, pure se il rapporto è economicamente pesante. Veniamo da un buon successo come il Pisa Book Festival dove in tre giorni abbiamo venduto quasi 200 volumi e adesso prepariamo alcune interessanti uscite natalizie. A livello locale abbiamo studiato la collaborazione con il Corriere di Livorno che a dicembre uscirà con un nostro libro allegato (Piombino leggendaria - storia e miti della Val di Cornia). Per le prossime fiere diamo a tutti appuntamento a Modena, dal 19 al 20 febbraio 2011. Venite a farci visita allo stand! Concludo ringraziando tutti gli autori che contribuiscono alla realizzazione della rivista telematica, dedicando il loro tempo libero alla concretizzazione di una passione. Non è possibile citarli uno a uno, sarebbe un elenco troppo lungo e (Continua a pagina 9)

Anno XII - Numero 2 Dicembre 2010 Direttore Responsabile: Fabio Zanello Editore: Associazione Culturale Il Foglio via Boccioni 28 - 57025 Piombino (LI) mail: ilfoglio@infol.it Copertina: Riccardo Simone Progetto grafico e impaginazione: Giovanni Capotorto Redazione: Massimo Baglione, Alessandro Napolitano Collaboratori: Gordiano Lupi, Giovanni Capotorto, Pia Barletta, Miriam Mastrovito, Matteo Mancini, Riccardo Simone, Fabio Zanello, Ylenia Zanghi In questo numero: Cataldo Balducci Sandro “zoon” Battisti Patrizia Birtolo Vincenzo Bonicelli della Vite Alessandro Cal Luisa Catapano Luigi Cristiano Nancy Cutrera Angela Di Salvo Roberto Guarnieri Tania Maffei

Simone Messeri Stefano Napolitano Sacha Naspini Roberta Pappalardo Roberto Paura Alejandro T. Ruiz Luciano Somma

IL FOGLIO LETTERARIO Registrato al numero 666 al Tribunale di Livorno il 1° Febbraio 2000 5


Frank Spada Miriam Mastrovito

Marlowe e Frank Spada: due nomi legati a filo doppio. Un detective sopra le righe il primo, il suo creatore il secondo, ad accomunarli, sicuramente è l’aura enigmatica che li avvolge entrambi. Che significato e quale peso attribuisce al mistero nel suo universo letterario? Personaggio e autore (eteronimi scambievoli nei ruoli, si badi bene) ripropongono il tema della doppia identità e il paradosso tra unione e scissione di chi riconosce nell’assunto “io sono la realizzazione dei tuoi pensieri e tu la mia immagine” il principio uniformante e paradigmatico della propria vita. Questo tema, che trovò fulminea diffusione letteraria nel periodo romantico – quando le storie incentrate sul doppio incatenarono un soggetto immaginario, sempre maschile, alla mercé di quello reale –, fu successivamente innalzato alla gloria dei cinefili dall’espressionismo della cinematografia tedesca, anticipata dalla psicoanalisi, e subito dopo da quella degli Studios hollywoodiani. Per quanto ci riguarda, ritengo che la fisiologia respiratoria, unita alla curiosità che spinge Marlowe a vivere appesantendosi l’aria e il suo compare, il “perturbante”, a dedicarsi con costanza agli esercizi spirituali (intesi come alcolici) costituiscano tutti assieme il nucleo del mistero che racchiude anche l’autore. Uno che fuma da quand’era ragazzino e 6

Le interviste di BraviAutori Intervista al creatore di Marlowe, detective sopra le righe

che, ancora oggi, non mastica gomma americana solo perché un tizio, una volta, mostrandogli un’emblematica lastra tutta nera pretendeva di convincerlo della sua chiaroveggenza: i fatti l’hanno smentito – precisato che Frank Spada è ancora vivo, piuttosto in là con gli anni e ha smesso di pregare iniziando a scrivere il 7 gennaio del 2007. Come nasce Marlowe? Il suo nome doveva essere Marlow, stando al desiderio di suo padre, ma all’anagrafe, sa com’è, a volte basta un’aggiunta, un’omissione… cosicché fu chiamato erroneamente Marlowe. Marlowe è anche il nome del celebre detective forgiato dalla penna di Chandler. Una semplice coincidenza o un omaggio voluto a questo grande autore? Certamente. Ma quello si chiamava Philip, mentre questo è Marlowe e basta, anche per sua madre, e proprio in conseguenza a un nome affibbiatogli per caso. Ovvio che un implicito omaggio a Raymond Chandler – quantomeno con il romanzo d’esordio intitolato


“Marlowe ti amo” – non è da escludersi; benché l’introduzione a questo libro del prof. Franz Haas induca il lettore a fargli credere che Marlowe sia anche lui stesso. Molti autori avvertono i loro personaggi come creature vive, entità che una volta create, chiedono insistentemente di essere raccontate e che, a un certo punto, sembrano acquisire una propria autonomia. Quale il suo rapporto con Marlowe? Tra Marlowe e l’autore, come non bastasse il tentativo di far rivivere in modo originale un celeberrimo detective a oltre mezzo secolo dalla morte di Chandler – problemino non da poco per quanto già detto –, si incunea il fatto che questo Marlowe è vittima di un perturbante. Talché, s’immagini l’ingombro quotidiano che pesa sulla vita di chi vagheggia la sopravvivenza mostrandosi indifferente agli occhi di qualcuno alla ricerca di se stesso e che, guardandosi allo specchio ogni mattina, s’illude di continuare a farla franca sbarbando chi si è nascosto dietro uno pseudonimo. Come tutti i detective che si rispettino Marlowe è sempre alle prese con dei gialli da risolvere. Da dove trae ispirazione per la creazione dei suoi casi?

Se le dicessi che l’autore ne sa quanto il detective e che entrambi si trovano coinvolti, capovolti e catapultati nel passato – il “luogo” dove ci si sente sempre a casa m a r e c l u s i nell’impossibilità di fuggire dai ricordi, risentimenti e rimpianti compresi? Mi scusi se a questa domanda ho risposto interrogando il caso. Ritiene sia più difficile imbastire un buon intreccio noir o dar vita a un personaggio capace di imprimersi in maniera indelebile nell’immaginario dei lettori? Il noir è una buona metafora della ricerca filosofica e scientifica in genere, e tanto più se ci restituisce un’immagine caricaturale, proprio per questo chiara e vivida dell’uomo, dei suoi geni connaturati al “male” e dell’avidità che spinge le sue azioni. A iniziare da quando fracassò con una pietra il cranio di chi pretendeva che un infinitesimo granello ruotante nello spazio non fosse soltanto roba dell’altro – Marlowe… nell’ambiguità cosciente di una nevrotica solitudine, pessimistica e angosciante, tiene in fondina una 45 per far da testimone a quanto avviene, ancora, attorno e dentro di lui, perpetuando l’illusione letteraria di una storia dove mescolanze e contaminazioni sono il kit per non

smentire

il

fato.

Leggendo i suoi libri si ha quasi l’impressione di guardare un film. Una suggestione alimentata dallo stile cinematografico, dall’efficacia delle descrizioni e dal sottofondo musicale che costantemente accompagna la narrazione. Quanto e come la passione per il cinema ha influenzato la sua scrittura? Il cinema è stato definito la settima arte – quella che le riunisce tutte distinguendole nei ruoli, mettendo spesso in primo piano quel che non si vede a occhio nudo – va da sé che qualcuno che non amava andare a scuola ne abbia approfittato per capire meglio il panorama, a volte inzuccherandosi le orecchie con le colonne sonore. Come mai ha scelto di ambientare i suoi romanzi in America? Quale il suo legame con questa terra? La casualità non è che la norma di muoversi in fretta per non farsi prendere, possibilmente, e gli spazi degli States, la libertà che… caspita quanto sono immensamente grandi anche in un vicolo! Oltre a trasportarci sulla West Coast, i suoi libri ci fanno viaggiare a ritroso nel tempo fa-

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cendo rivivere gli anni ’50. Cosa la affascina di quegli anni? A questa domanda – agganciandomi a quanto ho risposto sopra interrogando il caso, ma precisando un luogo –, risponderei che non dovrebbe essere difficile fare un conticino: i cavalloni del Pacifico in corsa galoppando, le bellezze in aderenti Jantzen al sole, per non dire delle chincaglierie in curva che… ritmo veloce all’imbrunire con le prove in spiaggia? – Shorty Rogers disse che non ci fu nulla di premeditato, nel suonare qualcosa di

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così specifico e diverso da poter essere chiamato per sempre “West Coast Jazz”. Il secondo romanzo della serie dedicata a Marlowe, ha un sottotitolo molto suggestivo: “Cinque sensi e un’anima”. La stessa idea è richiamata nel suo blog, con un’aggiunta che colpisce quasi come un pugno allo stomaco (“cinque sensi e un’anima che non perdona”). Possiamo dire che in queste poche ma efficaci parole sia condensato il senso più

profondo di questo libro? Sì, questo è possibile, e vale per Marlowe come per chiunque altro abbia la dannata fortuna di voler interrogarsi in proposito, prima di portare i panni sporchi in lavanderia. Se le dico “Il Cannocchiale a rovescio”? É lo strumento per allontanare la visione del reale a chi vive in anticipo i ricordi e avvicinare con la curiosità e l’ironia rivolta senza limiti spazio-temporali, o di genere, l’irreale a chi lo segue come un’ombra.

Atmosfera ovattata, quasi surreale, odore di fumo, sottofondo jazz e immagini Recensione di in un bianco e nero che si declina in molteplici sfumature. Miriam Mastrovito É l’universo che abbiamo imparato a conoscere in “Marlowe ti amo” e che in questo secondo libro della serie, sempre più, richiama l’idea di un buon film d’annata. A supportare la suggestione le ambientazioni rese con tale efficacia da farci respirare l’aria salmastra della West Coast, e il personalissimo stile cinematografico che, arricchendosi di originali metafore, contraddistingue la scrittura di Frank Spada al pari di un marchio di qualità. Il tenebroso detective è alle prese con un nuovo caso. Una coppia di gemelle tanto belle da mozzare il fiato, un amore saffico e due antichi gioielli che si uniscono a simboleggiare la vita eterna ma che scatenano la furia omicida di qualcuno. Un intrigante intreccio noir in grado di tenere sulle spine e sfidare lo stesso lettore a risolvere l’enigma. Eppure il mistero più affascinante rimane la complessa personalità di Marlowe il cui carisma, sebbene unico, è paragonabile per intensità a quello dei più celebri investigatori della tradizione letteraria. Qui lo ritroviamo in sella alla sua Olds, tra sigarette, “pollicini” , confronti Dimmi chi sei, con il suo doppio e scambi accesi con il suo Pa’. Tutti elementi che lo connoMarlowe tano provocando un piacevole senso di familiarità in chi lo ha già frequentato Cinque sensi e ma insufficienti a dissipare l’enigma di un malessere che, a volte, pare sospinun’anima gerlo sull’orlo della follia a dispetto di quel sense of humour che pure lo caratFrank Spada terizza e, a tratti, gli conferisce un’aria scanzonata. Robin Edizioni Questa volta l’autore ci regala nuovi tasselli atti a comporre il puzzle. Rapidi flashback ci concedono uno sguardo sul passato del detective mentre momenti di debolezza ci lasciano intravedere il suo nucleo fragile, quello in cui probabilmente si annida il vero segreto del suo fascino. Cionondimeno, a fine lettura, le zone d’ombra permangono e, risolto il caso, la figura di Marlowe rimane impressa nel nostro immaginario ad alimentare la speranza di rivederlo presto in azione.


Preciso, in ogni caso, che questo Blog è stato aggiornato di recente – dopo 909 commenti che lo avevano reso “pesante” in pochi mesi – per aprire Il Cannocchiale a rovescio 2, sempre di Frank Spada, sul sito Poche chiacchiere di Robin Edizioni dove si può colloquiare con l’autore. Frank Spada non è solo autore di romanzi. All’attivo ha anche diversi racconti che, peraltro, hanno ottenuto vari riconoscimenti e sono stati pubblicati in diverse antologie. Di recentissima pubblicazione la raccolta anto-

logica “Riso nero” edita da DelosBooks che, tra gli altri autori, ospita anche lei. Le va di svelarci qualcosa a proposito della sua partecipazione a questo progetto editoriale? L’antologia, nata su iniziativa degli editorialisti Graziano Braschi e Mauro Smocovich diThriller Magazine, vede riuniti 50 scrittori in un libro di oltre 250 pagine: un mix di umorismo nero costituito da 25 racconti gialli & comici, 64 brividi brevi e numerose comiche letali racchiuse in una sola frase – Frank Spada è presente con un

racconto, sei brividi brevi e dieci comiche letali. Concludo questa piacevole chiacchierata chiedendole di anticiparci qualcosa sui suoi progetti futuri. Avremo il piacere di rincontrare Marlowe? Nel ringraziarla per avermi dato la possibilità di capire un po’ meglio quel che sta succedendo, posso dirle che Marlowe ha preso appuntamento con un vecchio amico in un cimitero – probabilmente s’incontreranno a maggio 2011.

(Continua da pagina 5)

correrei il rischio di annoiarvi. Permettetemi di menzionare solo due persone: Massimo Baglione, admin di BraviAutori.it, un sito che trasuda arte (non solo letteraria) e passione; Alessandro Napolitano, già autore del Foglio letterario, capace di scegliere i pezzi che vengono proposti per la rivista, fino a riunirci sotto questo tetto di kilobyte che odora di buono, odora di cultura.

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Ci vediamo tutti al RADUNO!

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ono un'assidua frequentatrice di forum. Uno, in particolare, è sempre stato la mia “casa” sul web, il posto in cui sono sempre tornata, perché è lì che vive la mia “famiglia” internettiana. Quel posto speciale è The Blue Divide. Non voglio parlare del mio rapporto con il forum (pare che il mio articolo NON occuperà tutto il resto della rivista, dimostrazione che Alessandro – il redattore ndr - non ha ancora capito con quale Grande Talento ha a che fare – l’ha capito!! Ma mi tocca dare spazio a tutti. ndr - ). Ciò di cui voglio parlare riguarda quello che è successo alla fine di ottobre, quando ho realizzato il mio sogno di ragazzina, partecipando al mio primo e sicuramente memorabile

RADUNO

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Il Raduno Blu si è svolto durante il diluvio univers... pardon, il Lucca Comics and Games. È cominciato tutto con una telefonata e con le indicazioni per raggiungere il caffè Carducci e siccome le indicazioni erano davvero ottime (si sa, i postini...) in un batter d'occhio l'incontro: eccoli lì, proprio come li avevo visti nelle foto (dei raduni passati o di feisbuc), tutti intenti a una disputa (sulla mia età -.- )! Li incontravo per la prima volta ma la sensazione era ovviamente quella di rivedere gli amici di sempre e nei giorni successivi abbiamo chiacchierato su tutto (“dovete assolutamente leggere la Hobb” “questi menù coi prezzi gonfiati secondo me li tirano fuori solo per la fiera” “ai miei tempi sì che Bonelli...” “chi ha visto l'ultimo post del blog di Andrea D'Angelo?”) mentre Horner si vantava per la

DI WEB IN WEB Ylenia Zanghi vittoria al Trivial e Libero Assassino cercava di fotografare il Corvo che entrava in chiesa o l'Enigmista che mangiava un gelato. Coronamento di tutto, la cena con Terry Brooks, l'uomo che ci ha fatti (metaforicamente) incontrare, dato che The Blue Divide nasceva come sito dedicato a lui (e ora è il suo sito ufficiale, terrybrooks.it). Pioggia, freddo, rocambolesche avventure per cercare posteggio non hanno per nulla sminuito la magia di una serata indimenticabile (quando ci ricapiterà di avere i camerieri vestiti da elfi?!). L'impagabile Brin si è rivelata una straordinaria esperta di organizzazione (con un cellulare morto e uno moribondo riesce a spostare 30 persone) e i ragazzi hanno dimostrato che la cavalleria non è morta, disposti a farsi 50 chilometri in più di strada solo per farmi partecipare all'appuntamento (tranquilli, non è stato necessario). Anche se ho dovuto congedarmi e lasciare il ristorante in fretta e furia (gli ombrelli!) con Rainwall per correre a prendere l'autobus (che poi ha ritardato lasciandoci sotto la pioggia) me la sono goduta tutta, la serata, fino agli ultimi momenti (sull'autobus, a parlare delle edizioni storiche di Topolino o a ricordare il nick di ognuno degli altri). Lo so, lo so, questo racconto tende allo sdolcinato, ma che posso farci? Sono di parte quando si parla della mia famiglia! Quindi, se non avete ancora incontrato dal vivo i vostri amici di tastiera, radunatevi, gente, perché il risultato potrebbe essere un momento di assoluta perfezione (Leah! Leah! Leah!).


Storia Rinascimentale Simone Messeri

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Claudio Fallani Alessandro Napolitano

Ciao Claudio, iniziamo la nostra piacevole conversazione con una domanda quasi di rito: come ti sei avvicinato alla fotografia? É da molto che scatti? Quattro anni fa non sapevo neanche cosa fosse un otturatore. Pensavo che il diaframma fosse un anticoncezionale e che il fotografo fosse una sorta di mago con la capacità di trasformare la realtà, plasmarla a suo piacimento con l’ausilio dei suoi poteri paranormali. Chi non lo penserebbe guardando una foto di Steve McCurry, Ansel Adam, Henry Cartier Bresson o Robert Mapplethorpe? E in parte è vero, fotografi si nasce. Bisogna avere una certa predisposizione, una certa sensibilità. Se facessimo fotografare a cento fotografi lo stesso soggetto, non ne uscirebbe una foto uguale a un'altra. Ognuno ha la propria sensibilità, la propria visione del mondo. Eppure, guardando il mondo attraverso gli occhi di quei fotografi che hanno fatto della fotografia un arte, possiamo migliorare il proprio modo di guardarsi attorno e di comporre le nostre fotografie. É stato così, guardando le foto dei professionisti della Magnum che mi sono appassionato alla fotografia. Così nel 2006 partii per un viaggio e comprai la prima macchina fotografica digitale “seria” (almeno per me che avevo sempre scattato foto inutili con usa e 12

Le interviste di BraviAutori

La fotografia vista da un “amatore” dello scatto emotivo getta della Kodak): una Panasonic FZ20, un macchina niente male a quel tempo nel panorama delle Bridge Camera, con obiettivo Leica molto luminoso e un bello zoom ottico. Scattai alcune foto di luoghi, persone e natura, il risultato non era eccelso, ma erano le prime foto e io ero contento del risultato. Il buongiorno si vede dal mattino… Non direi proprio. Guardando oggi quei trecento scatti, ne salverei quattro, cinque al massimo. Ma allora mi piacquero e decisi di impegnarmi a migliorare. Frequentai un paio di corsi e da lì a breve feci le prime esposizioni. Alessandro, il mio maestro, un tipo duro quando si tratta di criticare una foto, mi prese ben presto “sotto la sua cupola” assieme ad altri allievi, ormai amici, con i quali organizziamo esposizioni e progetti fotografici. Guardando le tue foto non è chiaro quale genere prediligi: passi dal reportage, al ritratto, dal paesaggio alla foto artistica… Di solito tendiamo a etichettare i fotografi affibbiando loro un genere fotografico, quello per cui in realtà sono diventati famosi, sia esso reportage, moda, ritratto o altro. In realtà non saprei cosa rispondere alla tua domanda, il mio approccio alla fotografia è puramente emotivo. Il soggetto e il genere variano molto secondo


Foto 1 - uomo allo specchio

il mio umore. O forse devo semplicemente trovare la mia via… Mi preme specificare, che non sono un professionista, ma un semplice amatore e come amatore ho ancora molto da imparare. Cosa è per te la fotografia? Vedo la fotografia come un arte e diffido di chi usa il fotoritocco e poi va in giro raccontando che quella è fotografia, non capendo che tra fotografia e arte grafica c’è una bella differenza. La macchina fotografica per me è il mezzo tramite il quale riesco a dare una mia interpretazione della realtà.

Quindi, per effettuare uno scatto, il soggetto deve suscitarmi una certa reazione che mi spinga a fotografarlo. Può essere un evento particolare, la consistenza di un materiale, il tipo di luce, un sorriso. Qualsiasi cosa, anche la più piccola, può far scattare il desiderio di conservare quell’immagine. Se questo rapporto emotivo con il soggetto viene meno, viene meno la fotografia. Sono capace di camminare giornate con chili di pesante attrezzatura fotografica sulle spalle senza scattare una foto. Ma sono soddisfatto quando porto a casa almeno un buono scatto.

Quindi in genere i tuoi scatti sono spontanei? Escluso still life di piccoli oggetti e alcuni ritratti, sono rare le occasioni in cui costruisco una foto. Penso che una delle foto “costruite” meglio riuscita sia quella dell’uomo allo specchio (fig.1): uno scatto in bianco e nero in cui ogni elemento all’interno di essa è un simbolo (lo specchio frammentato, il riflesso all’interno dello specchio, il crocefisso) e dove il significato è dato dalla relazione di questi. Già a un primo sguardo superficiale si intuisce un significato più o meno complesso, tutto da scoprire… 13


Questa è una delle “eccezioni che confermano la (mia) regola” secondo la quale in genere non intellettualizzo, scatto. Tempo fa, a una esposizione, qualcuno mi chiese il significato di una foto, risultato di un mero impulso emotivo. A questa persona e alle altre rispondo semplicemente che seguo le emozioni, difficilmente mi chiedo (al momento dello scatto) cosa significhi quello che sto fotografando. A meno di non seguire un tema preciso per comporre i propri scatti, intellettualizzano in genere i critici o chi osserva, dato che per natura umana tendiamo a ricercare un significato a tutto.

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E se un significato non ci fosse (mi verrebbe da dire con intento provocatorio), l’immagine sarebbe meno bella? Forse no, ma probabilmente più “vuota”… Non intellettualizzare al momento dello scatto non significa che il risultato sia sempre “insensato”. L’inconscio è più veloce di noi, riesce a cogliere cose di cui non siamo consapevoli e che solo dopo, riguardando il risultato finale saltano alla nostra attenzione e raggiungono la soglia della coscienza. Almeno per me è così. Come in questa foto (fig.2), scattata durante un Safari in Kenya nel parco Amboseli. Distrattamente po-

Foto 2 - carovana elefanti

tremmo dire che è una banale foto di animali (bella o meno bella, decidete voi). Ma guardate attentamente… due giraffe sembrano fermarsi a spiare la scena da lontano e gli elefanti in fila (è una carovana, il terzo di elefante che esce dalla foto ce lo suggerisce), procedono avanti, imperterriti con indifferenza. Ecco quello che mi ha spinto a scattare, la totale indifferenza del gruppo che procede sui propri passi, noncuranti di tutto quello che li circonda. Oppure nell’altra foto (fig.3) di una giapponese (voi non lo sapete, questo lo so solo io!) che affacciata dalla terrazza del Piazzale Michelangelo guarda Firenze, ma la


Foto 3 - giapponese “ammira” Firenze

guarda in modo particolare, lo ammira. Ciò che ho fotografato è l’ammirazione per l’arte e non una semplice turista che guarda Firenze. Ma questo al momento dello scatto, non lo sapevo, lo intuivo soltanto.

“Quando è ben fatta, la fotografia è interessante. Quando è fatta molto bene, diventa irrazionale e persino magica. Non ha nulla a che vedere con la volontà o il desiderio cosciente del fotografo. Quando la fotografia accade, succede senza sforzo, come un dono che non va interrogato né analizzato. “ Elliott Erwitt

Foto 4 - volto di donna

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Il latino e noi Angela Di Salvo

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egli ultimi anni è stato molto acceso il dibattito sulla necessità o meno di mantenere lo studio del latino in ordini di studio diversi dal liceo classico, e in particolare nel liceo linguistico e psico-pedagogico e nel liceo scientifico. Molti si sono chiesti perché perseguire lo studio di una lingua che non è più parlata da secoli ed esigere dagli studenti un impegno aggiuntivo e non certo molto ag e v o l e nell’apprendimento di questa lingua che all’apparenza pare non “serva a niente”. In effetti la recente riforma Gelmini ha leggermente ridimensionato il carico di monte ore destinato allo studio del latino ma non l’ha abolito, evidentemente per delle ragioni che non hanno tenuto conto di proposte frettolose e superficiali che avrebbero voluto liquidare in quattro e quattr’otto un bagaglio culturale dalle tradizioni consolidate e capace di fornire agli studenti una formidabile abilità logica e di approfondimento della lingua madre. Il fatto è che spesso ci si dimentica che l’italiano è figlio del latino e che un’analisi comparata e “contrastiva” fra le due lingue può senza dubbio raf16

Studiare il latino è ancora utile? Un dibattito aperto forzare le competenze linguistiche della lingua che adesso parliamo, permettendo ai ragazzi di prendere coscienza che la maggior parte delle parole che usiamo nella vita quotidiana derivano proprio da quel latino che si vorrebbe cancellare o relegare agli studi specialistici di pochi eletti. A questa crescente demonizzazione del latino ha contribuito l’adozione di un metodo rigido e normativo da parte dei docenti, metodo che non appare più idoneo alla “forma mentis” delle nuove generazioni. Per lo più il latino è stato fatto odiare dal grammaticalismo, ossia da una scuola che ha insegnato troppa grammatica e non la vera lingua, tediando e demotivando l’adolescente con esasperanti eccezioni studiate a memoria e con norme sintattiche finalizzate a una traduzione in latino oggi priva di senso. Prima di tutto è fondamentale che gli studenti fin dal primo giorno sentano il desiderio di intraprendere lo studio del latino come quello di una nuova e avvincente disciplina e di ricavarne il massimo profitto, consapevoli che la conoscenza del latino non potrà


non essere per loro che un grande arricchimento spirituale. Varrà la pena di ricordare ai ragazzi come lo studio del latino, c o m e q u e l l o dell’archeologia, sia l’unico strumento di cui disponiamo per acquistare una conoscenza viva della cultura dell’antica Roma in cui affonda le proprie radici tutta la nostra civiltà occidentale. Il modo di vivere e i valori del popolo romano, la storia dell’impero, la letteratura e l’arte di Roma che assimila e rielabora la cultura greca, costituiscono l’eredita di una delle età più importanti del genere umano , e questa eredità vive tuttora nel nostro mondo. Ma non solo. Il latino è stato lo strumento principale con cui la civiltà occidentale si è espressa nel Medioevo, nell’Umanesimo, nel Rinascimento e nell’età moderna; in questa lingua sono state composte opere fondamentali per il progresso morale, civile, politico, giuridico, scientifico e filosofico dell’intera umanità. Nel dibattito culturale a favore del latino sono state addotte numerose ragioni che, da sole, non sono sufficienti a giustificare la scelta dello studio del latino. Luigi Miraglia nel suo libro “Nova via. Latine doceo” elenca alcune di queste argomentazioni, suggerite da varie parti a

supporto della validità dello studio del latino nelle scuole, ritenendole troppo deboli per poter fare vera presa sugli animi degli adolescenti. Lo studioso afferma che è vero che ancora oggi la nomenclatura scientifica della zoologia, della botanica, della medicina e della giurisprudenza sono in latino. Ma questo può giustificare le ore che il ragazzo impiegherà a studiare

Cicerone

questa lingua nel suo percorso liceale? S’usano ancora molte espressioni latine (“la ratio” di una legge, il “referendum”, il “quorum”, il “qui pro quo”, “verba volant, scripta manent”, “in itinere”, “lupus in fabula”, “bis”, “gratis”, ”curriculum”, ”facsimile”, ”idem” , “post scriptum”, “in extremis”, “pro capite”, “vademecum”, “tabula rasa” ,”dulcis in fundo”, “lapsus” ,”ex aequo”, “promemoria”, ecc.ecc.), mostrando anche come esse siano tal-

mente note e usate da essere spesso oggetto di distorsione a scopo umoristico (si pensi ad alcune piccole perle di Totò) o per finalità pubblicitarie: ma può questo relitto di vita essere il motivo per cui si debba studiare per cinque anni una lingua? Che il latino sopravviva ancora nella chiesa cattolica, rimanendo formalmente la lingua delle encicliche, delle bolle, dei brevi, recentemente richiamata dall’esilio liturgico, non entusiasmerà più di tanto i nostri ragazzi. Miraglia pone invece l’accento sull’apprendimento dell’italiano e sul lessico latino perché con questa scelta si potrà facilmente permettere ai discenti di prendere atto degli enormi vantaggi che l’apprendere il latino porterà loro per una migliore conoscenza e una più ampia consapevolezza della lingua che usano ogni giorno Sarà interessante notare l’evoluzione del latino nelle lingue romanze e in particolare nell’italiano, lo sbocco nelle lingue neolatine, la sua sopravvivenza nelle “voci dotte”, prese dal la17


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tino e rimaste nell’uso delle persone colte. Il valore dello studio del latino è magistralmente spiegato da Mandruzzato nel suo interessante libro “Il piacere del latino”, in cui dichiara che è possibile far comprendere, anche con semplici esempi, che lo studio della lingua di Roma è indispensabile per formarci quel gusto che ci permette di leggere i nostri grandi scrittori con una più fine sensibilità per il loro stile e le loro scelte stilistiche e sintattiche, molto spesso modellate o ricalcate sul latino. Lo studio del latino non può essere messo in secondo piano rispetto allo studio delle lingue straniere perché un apprendimento più accurato della grammatica e della sintassi porterà loro, come sostengono i fautori della “Formale Bildung”, una maggiore capacità analitica e attentiva finalizzata alla comprensione dei fenomeni e della struttura di tutte le lingue che eventualmente potranno essere apprese nell’arco della loro vita. Le ragioni della sopravvivenza del latino vanno di certo ricercate non solo nell’incalcolabile peso culturale patrimonio della nostra civiltà, nell’accesso alla storia e alla memoria ma in particolare in un paese come l’Italia, le ragioni sono quelle della sua

promozione, della sua crescita, della sua valorizzazione sia a livello scolastico che a livello universitario. Una solida conoscenza linguistica permette un i m m e d i a t o e autentico legame con l’antropologia culturale, con l’antichità classica e con il recupero delle nostre lontane radici. Molti di coloro, che nel passato hanno studiato il latino, affermano che è una lingua difficile ma è

Giulio Cesare

vero esattamente il contrario, l’hanno studiata soltanto male. Non si tratta affatto di una materia per iniziati o per superdotati, è una lingua e, come tutte le lingue, può essere imparata con i metodi giusti e con il giusto impegno. La lettura dei testi (non solo quelli classici antichi ma anche i testi del medioevo,del Rinascimento e dell’età moderna) è la meta che bisogna raggiungere attraverso un “colloquio” e

non con una faticosa decifrazione, così da sentire e ascoltare il messaggio che viene da chi - come scrive Miraglia (generazioni di uomini e l’improba fatica di scribi e copisti o la cura di bibliotecari) ha ritenuto di dover salvare dall’oblio. Dopo che finalmente si è capito che quello che non andava era il metodo e non la difficoltà intrinseca del latino, molti studiosi di recente si sono adoperati per rinnovare le metodologie didattiche obsolete e demotivanti, proponendo soluzioni alternative. Di recente molto successo ha avuto il metodo di Hans Orberg che propone l’apprendimen-to del latino attraverso dei moduli didattici ricalcati sullo studio delle lingue vive e sulla centralità del testo, recuperando il met o d o d e g l i umanisti e partendo dalla memorizzazione graduale del lessico di base fino a giungere, con le necessarie ma semplificate conoscenze morfosintattiche, a un apprendimento proficuo e rapido della lingua di Roma facendo leva proprio sull’importanza del lessico e delle parole chiave della cultura romana. Come afferma anche Angelo Diotti nella prefazione del suo testo scolastico “Lexis”, partendo da uno studio sistematico del lessico di base e da esercizi mirati di contestualizzazione risulterà


molto più agevole e veloce la comprensione testuale, obiettivo basilare e irrinunciabile per poter accostare i testi letterari direttamente in lingua originale per analizzarli e “gustarli”. Una metodologia di questo tipo risulta in perfetta sintonia con lo studio sia della lingua materna, sia delle lingue straniere moderne, a patto che il lessico e i testi latini proposti siano rappresentativi di tutte le varietà linguistiche e, soprattutto, dei linguaggi settoriali (della politica, del diritto, della storia, della filosofia, della religione,d ella sc ie nza, dell’alimentazione, dei “ludi”). Del resto la conoscenza dei termini utilizzati dalla lingua latina risulterà in ogni caso molto vantaggiosa, se si pensa che, in un moderno vocabolario della lingua italiana, mediamente il 54,28% dei lemmi presentano un’etimologia derivante dal latino. E se

Enciclopedia online in latino

prendiamo in considerazione le 60.000 parole del lessico di base dell’italiano, la percentuale di termini con radici latine sale addirittura al 98%.” Se così è, come è mai possibile che dopo cinque anni di studio scolastico di una lingua straniera moderna un allievo sia in grado di comprendere bene o discretamente i testi (oltre che di produrne), mentre dopo gli stessi anni di latino, lo stesso allievo riesca a malapena a tradurre (e s p e s s o inadeguatamente) un passo di Cicerone? É evidente che nel passato si è sbagliato tutto, sop r a t t u t t o l’approccio metodologico. Se la scuola cambierà strada e applicherà la giusta metodologia, potrà salvare il latino da una ingiusta e immeritata decadenza, permettendoci di riappropriarci di un Sito scolastico dedicato allo studio del latino patrimonio cul-

turale che ci appartiene e facendo acquisire alle nuove generazioni uno strumento formidabile capace di superare i confini spaziali e temporali in un colloquio vitale con coloro che, come scrisse Petrarca, “volti verso il mondo molti secoli prima di noi, vivono c o n n o i , abitano con noi, ci parlano ancora”.

Nessun Dove Pianeta Fantasy via Montecitorio, 29 70023 Gioia del Colle BA www.pianetafantasy.com

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Roberto Quagliano Alessandro Napolitano

Le interviste di BraviAutori

Regista e responsabile di Rivista 451

Abbiamo il piacere di intervistare Roberto Quagliano, regista, e responsabile della neonata rivista letteraria “Rivista 451”. Roberto, siamo felici di ospitarti su queste pagine e condividere con te qualche momento di piacere letterario. Raccontaci di questo nuovo progetto: la Rivista 451. Grazie a voi, per avermi invitato. Questo progetto di cui sono responsabile è la continuazione dell'edizione italiana su carta e on line della New York Review of Books, e la produzione di una sua versione in video seguendo le tecniche di videoletteratura già da me usate per produrre le versioni video degli articoli Pubblico & Privato di Alberoni (per RAI 3), dei Salmi della Bibbia (RAI UNO), del Profeta di Gibran (RAI 3), delle poesie di Attilio Bertolucci (RAI 2), del saggio di filosofia "L'Illusione della Fine" di J Baudrillard (RAI 2), dei romanzi "Cent'anni di solitudine" e "Il senso di Smilla per la neve" (Canale 5), e diversi altri. I più curiosi potranno trovare qualche esempio di video lettura cliccando www.kamelfilm.it, oppure http://vimeo.com/15318874

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Di cosa tratta la rivista NY Review of Books? La rivista parte dall'occasione dell'uscita di nuovi libri per parlare in modo aggiornato e approfondito di tut-

te le materie del sapere sia scientifico che umanistico al di là di come il tema venga trattato nel libro uscito. In ogni numero mensile ci sono articoli di premi Nobel o di accademici delle più prestigiose università americane e inglesi. Ma la cosa straordinaria è che le materie sono trattate in modo assolutamente non accademico e quindi alla portata di un vastissimo pubblico, se solo fosse a conoscenza dell'esistenza della Rivista stessa.


Sono certo che la fruibilità di questi articoli diventerà un’arma a tuo favore. Spiegaci come pensi di elaborare la versione in video degli articoli. Parto da un esempio concreto per rendere meglio l'idea di base. Nel febbraio di quest'anno è apparso sulla NYR un articolo dal titolo "Un salto nel grande ignoto". L'articolo consiste nella recensione del volume di Frank Wilczek “La leggerezza dell'essere. La massa, l'etere e l'unificazione delle forze” appena pubblicato da Einaudi e illustra le tesi sostenute dallo stesso dall'autore, premio Nobel per la fisica nel 2004. Wilczek è uno dei più brillanti fisici delle particelle e commentando questo testo, il redattore dell'articolo Freeman Dyson (professore di fisica a Princeton) coglie l'occasione per fare un quadro aggiornato di quella branca della fisica che cerca di comprendere i più piccoli elementi costitutivi del cielo e della terra. Caratteristica di questo articolo, come di quasi tutti quelli che appaiono sulla Rivista, è di partire dal motivo contingente del commento alla particolare uscita editoriale per poi tratteggiare un profilo storico della materia in oggetto in un sintetico ma esaustivo excursus.

L'articolo in sostanza diviene occasione per aggiornare l'esperto sugli esiti ultimi della ricerca nel particolare settore e per rendere e d o t t o il non professionista su quello che è il percorso storico in cui la ricerca stessa si è inserita. Il tutto con linguaggio estremamente comprensibile e il più delle volte molto adatto ad una sua trasposizione in video. Come saranno strutturati i video che produrrete? Come agevolerete chi ascolterà i vostri contenuti? Nella realizzazione del video, della durata presumibile di 15 minuti, allo speaker fuori campo che leggerà le parole dell'autore si affiancheranno le immagini di supporto alle parole. Immagini che a volte avranno un riferimento diretto con le parole stesse ed a volte evocheranno il racconto e i concetti più per via espressiva che non denotativa (seguendo l'esempio già da noi adottato nei lavori di videoletteratura). Sarebbe interessante un impiego che potesse andare oltre il semplice intrattenimento.

Ci proveremo. Come potete immaginare, l'utilizzo di questi video e quindi della versione video della rivista in ambito scolastico sarebbe estremamente innovativo e di sicuro appeal per gli studenti. Veramente interessante. Noi per il momento ti ringraziamo per averci tenuto compagnia. Aspettiamo tue notizie circa l’evolversi del progetto di videolettura e l’uscita del formato cartaceo della Rivista 451. E io ringrazio voi per l’occasione che mi avete concesso, con la promessa che ci risentiremo quanto prima.

Software autoprodotto di pubblico dominio, in italiano

www.micla.org

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Via da Las Vegas Patrizia Birtolo

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a sera che conobbi Bruno ero uno schianto: maglioncino rosso scollato dietro, capelli in ordine (ero appena passata da Jill) e truccata divinamente. Una sera adatta a conoscere qualcuno con cui mettersi per un po'. Ma occorre fare attenzione a ciò che si chiede: a volte gli dei esaudiscono le nostre richieste. Andai da Jack, al Quattro Assi, un pub sulla Strip. Ha un'insegna al neon che si illumina in progressione: un mazzo da poker in cui prima brillano i cuori, poi quadri, fiori e picche. Una volta accese tutte, le luci nel profilo dell'insegna si mettono a sfarfallare impazzite per qualche istante. Quella sera bagnavano di bagliori multicolore la faccia del buttafuori. Era uno nuovo. Un armadio. Taglio da marine, facciona da bambino, sguardo cupo. Svettava sul mare di teste altrui almeno trenta centimetri. E mi stava osservando. Fissava la mia schiena nuda. Lo vedevo riflesso nello specchio sopra il bancone. Mi girai. Abbassò gli occhi, voltandosi dall'altra parte. Un timido, qui, è come una perla in un banchetto di cianfrusaglie al mercato. L'ingenuità è merce assai rara, a Las Vegas. Nonostante tutto, amo questa città.

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i racconti di BraviAutori Il racconto vincitore della GARA 16 del forum Bravi Autori

La amo quando sfavilla di luci già al crepuscolo e la amo addormentata nel sole accecante che arroventa la Strip alle due del pomeriggio. Non chiedetemi di abitarci, però. Sto bene qui, dove comincia il deserto. Il Mojave. Tutta la libertà immaginabile… Non saprei più farne a meno. Le mie fantasticherie spaziano, indisturbate, sullo sfondo di uno scenario immutabile agli occhi umani. Nel deserto non abbiamo stagioni. Per me lo scorrere del tempo è scandito dai costumi in preparazione. Non l'ho detto? Faccio la sarta. Ho studiato da costumista a Hollywood, e son finita a cucire paillettes per le ballerine che si esibiscono nei night di Las Vegas. Da gennaio a marzo lavoro alle divise del Caesars, quelle delle ragazze vestite da ancelle romane. Tulle bianco e fermagli dorati in giro per ogni stanza. Da aprile a giugno ho l'invasione delle ali di farfalla del Mirage. Strass di qualunque sfumatura dal lavanda al glicine al viola, dappertutto: anche nella scatola dei cereali. Da luglio a settembre piovono le paillette nere e oro della parodia sexy di Cats. Da ottobre a Capodanno lavoro per il corpo di ballo di Cher, una magnificenza. Piume di struzzo, lamé luccicante, borchie e fibbie incrostano tutti i costumi di scena, ricchissimi… Li appoggio sullo stenditoio per evitare che


Prince, il mio soriano, ci si faccia le unghie. Certe volte mi incanto ammirandoli delle mezz’ore. Ago e filo non sono solo un cucchiaio, per me. Ci mangio, certo, ma il punto è che… È così bello avere tutti questi costumi per casa. Mi dà l'impressione di fare qualcosa di artistico, non so se mi spiego. Con gli uomini non sono mai stata fortunata. Con Bruno, credevo che la sorte cominciasse a sorridermi. All'inizio ci studiavamo a ogni passo. Del resto, non avevo mai convissuto. Lui non era tipo da raccontarsi molto. Sembrava che ogni cosa lo mettesse in impaccio, sembrava perennemente a disagio per tutto. Questo faceva stare sulle spine anche me. Sempre col dubbio di dirgli (o di fare) qualcosa di sbagliato. Continuava a lavorare come buttafuori al Quattro Assi. Prendeva la macchina, andava in città. Tornava a notte fonda. Si sdraiava accanto a me, cercando di non svegliarmi. Facevo finta di dormire, però. Non riuscivo a chiudere occhio, finché non rincasava. La mattina si svegliava comunque per primo, facendomi trovare la colazione pronta. La prima volta che prese la paga dopo che era venuto a stare da me, gettò tutto il rotolo di banconote sul tavolo. Disse, con un certo imbarazzato fastidio: — Puoi tenerli tu? Non ci ho mai capito niente, con questi. E io, stupita: va bene. Li misi in una scatola con un piccolo lucchetto, la chiusi. — Son soldi tuoi, tieni — dissi, porgendogli la chiave.

— La perderei subito. Occupatene tu per favore, vuoi? Se mi serve qualcosa te li chiederò. Mai incontrato uno così. Si fidava. Non aveva mai alzato le mani, anzi, mi rispettava. Di più: mi proteggeva, si prendeva cura di me. Mi stava addirittura mantenendo. Sempre gentile. In cambio chiedeva solo di essere amato. In un certo senso, un essere proveniente da un altro pianeta. Scherzi a parte, Bruno era strano. Quel rapporto così bizzarro con le cose materiali, per esempio. Come se non desse loro alcuna importanza. Nell'armadio del suo miniappartamento, in quel residence sulla Strip, c'erano parecchi vestiti di buon taglio, e belle scarpe. Ci teneva a presentarsi bene, sul lavoro. Beh, prima di andarsene di lì, era entrato in bagno. Aveva preso solo lo spazzolino da denti. — Ma Bruno, e tutte le tue cose? — Voglio ricominciare da capo. — aveva detto lui, con una specie di ostinata tenerezza — Lascio tutto qui. E l'aveva fatto davvero. Una sera, mentre guardavamo la televisione, Bruno disse: perché non ci sposiamo? Risposi: già, perché no? 23


Buffo, Las Vegas a due passi e nessuno dei due c'aveva ancora pensato. Così ci sposammo. Cucii un vestito corto, di un rosa chiarissimo, molto raffinato. Avevo uno splendido bouquet, scelto da lui. Jill mi aveva pettinato i capelli raccolti. Sembravo un angelo. Bruno era andato a cercare uno smoking in un bel negozio del centro. Disse che non voleva affittarlo, lo avrebbe comprato e conservato come ricordo. La cerimonia fu semplice, ma toccante. Lasciò decidere tutto a me. Io volli quella canzone intitolata "The man with the child in his eyes": mi faceva pensare a lui. Jill però brontolò, perché avevamo rotto la tradizione. Sarei dovuta andare a dormire da lei, diceva, per non vedere lo sposo la mattina delle nozze. Quante baggianate, pensai. Un mese dopo il nostro matrimonio, una volante si fermò davanti casa. Uscii in veranda. Non era necessario tirare a indovinare: bastava guardare le facce dei due agenti.

Facce di circostanza. Sparatorie ce ne sono ogni tanto, giù in centro. Nonostante tutto, amo ancora la città. Amo Las Vegas quando sfavilla di luci, e la amo addormentata nel sole accecante della Strip, alle due del pomeriggio. Non voglio più metterci piede, però. L'occorrente per i costumi me lo portano a casa i ragazzi della sicurezza dei Casinò. Lo fanno come un favore personale. Alcuni erano amici di Bruno. Mentre cucio, ogni tanto sollevo lo sguardo, lasciandolo vagare fuori dalla finestra aperta. Dalla mia camera con vista sul deserto, ogni miraggio, nel tremolante calore di un'incolmabile distanza, mi sembra sia Bruno. Socchiudo gli occhi, trattengo l'illusione di vederlo, ancora una volta, che risale a passi lenti verso casa. E torna da me.

dal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it

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La grande opera evoliana sullo spiritualismo moderno Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, (1932), più volte ristampata, costituisce una vera e propria Guida al mondo maledetto dell’Esoterismo occidentale, in ogni suo aspetto più o meno tradizionale, allo scopo di fornire un mezzo di ricerca illuminante, simile a una torcia che rischiari gli oscuri tunnel della sapienza occulta, giunta fino a noi. Il saggio di Maurizio Maggioni analizza la Guida critica di Julius Evola, evidenziandone la funzione di sicurezza e di terapeutica, quale monito sul pericolo rappresentato dalle sette esoteriche e dall’impiego di tecniche ermetiche senza la dovuta preparazione. In particolare, l’autore commenta la dottrina della Tradizione Solare Primordiale (la solarità nordica sorta dall’Ultima Thule) di René Guénon, riformulata da Julius Evola, in opposizione alle moderne deviazioni dell’Occultismo e dell’Esoterismo. Nel saggio filosofico-esoterico di Maurizio Maggioni vediamo, quindi, la stringente critica evoliana (per la difesa della personalità umana) appuntarsi sulle Correnti dello Spiritismo, della Teosofia e dell’Antroposofia (al Capitolo 3), con uno studio critico sul Nazismo magico (Capitolo 4) e un’analisi interessante del Cattolicesimo esoterico (Capitolo 5). Di Satanismo e Stregoneria nonché del Culto di Thelema si parla poi nei Capitoli 6 e 7, mentre una ricerca approfondita dell’Alta Magia Cerimoniale (Capitolo 8) va a chiudere il saggio con le Note conclusive critiche dello stesso autore.


Fiera del Fumetto Bologna 2010 Cataldo Balducci

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n paio di fine settimana l'anno, abitualmente ad aprile e ottobre, a Bologna vengono organizzate delle mostre-mercato dedicate ai fumetti. Il che non stupisce: Bologna è una città profondamente legata alle arti in genere e, tra queste, ai fumetti: ha dato i natali a Roberto Raviola in arte Magnus, straordinario disegnatore di personaggi quali Alan Ford, Satanik, Kriminal, Lo Sconosciuto, per citarne solo alcuni; vi ha vissuto gli anni artisticamente più significativi della sua breve vita il marchigiano Andrea Pazienza; vi viene annualmente organizzato il Bol Bol Bul, manifestazione che si fregia del titolo di “festival internazionale del fumetto”, e nel cui ambit o v i e n e allestita una m o s t r a dedicata a uno o più disegnatori (memorabile quella dedicata per l'appunto a Magnus tenutasi nel 2006-2007 presso la Pinacoteca Nazionale). Il 16 e 17 ottobre scorso ha avuto luogo l'edizione autunnale della mostramercato dei fu-

Cronaca di una mostra mostra--mercato per appassionati di fumetti metti, come di consueto al Palanord (mi raccontava un amico bolognese che un tempo la fiera dei fumetti si teneva in centro città, a Palazzo Re Enzo in piazza del Nettuno, che peraltro tuttora ospita manifestazioni e rassegne legate anche ai fumetti), una tensostruttura ubicata nell'ampio spiazzo del Parco Nord in Via Stalingrado, a (chi l'avrebbe mai detto) nord della città felsinea. Avendo in programma di recarmici sabato con tre amici (due dei quali giunti dalla Puglia per l'occasione), il venerdì sera precedente ho messo sotto carica la batteria della fida Oly, con cui scattare qualche foto per immortalare l'evento, e ho recuperato dal por-

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tafoglio i piccoli volantini pubblicitari da me razziati nel corso dell'edizione dell'aprile precedente (danti diritto a un euro di sconto – non cumulabile – sul prezzo del biglietto d'ingresso). Alle dieci e un quarto d'una mattina dal clima sorprendentemente clemente (era attesa pioggia per tutto il giorno), dopo una brevissima coda alla biglietteria (il grosso dei visitatori mi aveva evidentemente preceduto), sono entrato alla fiera. Puntuale come sempre, la vista dell'imponente distesa di tavoli e scaffali carichi di fumetti e pubblicazioni varie – in gran parte d'epoca – ha posto il mio animo di ultra-quarantenne in uno stato che era un misto di nostalgia e rammarico. Già, perché nel rivedere i giornaletti (sì, perché negli anni settanta io i fumetti li chiamavo così, o al massimo “giornalini”: già una terminologia tipo “albi a fumetti” ai tempi mi sarebbe sembrata vagamente pretenziosa, figuriamoci l'anglosassone “graphic novel” ora in voga) che leggevo da ragazzo (intendendo con “da ragazzo” l'età che va dai sei ai quindici anni) vengo puntualmente colto da una pungente malinconia per l'ormai lontana adolescenza che una così massiccia dose di déjà vu non manca mai di procurarmi. 26

Rammarico perché, al di là di venali considerazioni sul valore economico che tali oggetti avrebbero guadagnato nel tempo se non fossero andati smarriti in uno dei miei tanti traslochi (quando, lo confesso, non me ne sbarazzai intenzionalmente), nel rivederli sulle bancarelle delle fiere, accuratamente incellofanati nelle apposite buste trasparenti, mi rendo conto che mi piacerebbe possederli ancora; per poterli, di quando in quando, riprendere in

mano e leggiucchiare distrattamente. Superato questo primo momento emotivamente complesso, la mia attenzione torna presto a concentrarsi su quanto è esposto negli stand: in primo luogo, naturalmente, fumetti, sia d'epoca che contemporanei, sia occidentali (comprese edizioni originali di num e r o s e p u b b l i c az i o n i nordamericane) che manga giapponesi, e poi accessori (quali, come ho già accennato, le buste di plastica per la corretta


conservazione degli albi), action figures e gadgets dei più vari personaggi (in gran parte comunque tratti da manga e anime, ma anche, ad esempio, d a l l a s e ri e di G ue r r e Stellari), vecchie riviste (soprattutto di genere “osé”), dvd di cartoni animati (in gran parte giapponesi) e non, vecchi giocattoli e videogiochi (anche di alcuni anni fa, e sia software che hardware: una console Dreamcast con tanto cd di Sega Rally faceva capolino da uno scatolone), e poi vecchi libri.

Qui debbo aprire una non breve parentesi: molti dei libri in vendita alla fiera sono numeri di collane di fantascienza pubblicate in Italia a partire dagli anni 50: in primo luogo la mondadoriana Urania, naturalmente, ma anche le serie Cosmo (Oro e Argento) della Editrice Nord, o Galassia, edita negli anni '60 e '70 dalla casa editrice piacentina La Tribuna, oggi passata alle pubblicazioni giuridiche – e, visto il tenore delle norme attualmente vigenti nel nostro ordinamento, non mi sentirei di

affermare con assoluta certezza che si tratti d'un cambio di genere –, ed altre ancora. In questi anni ne ho approfittato essenzialmente per acquistare alcuni vecchi romanzi del mio autore di fantascienza preferito (per la cronaca: Lyon Sprague de Camp; rimpiangerò tutta la vita di non aver comprato la vecchia edizione d'un suo romanzo giudicandone esagerato il prezzo richiestomi – 25 euro –, giustificato, a detta del venditore, dalla circostanza che si trattava del primo numero d'una pubblicazione: qualsiasi cosa abbia mai scritto de Camp, fosse pure una lista per la spesa, vale ampiamente quella somma). Da segnalare (e qui chiudo con la fantascienza) la presenza in fiera d'uno stand della casa editrice bolognese Elara, erede diretta delle storiche case Libra e Perseo, la quale esponeva il proprio catalogo composto da pregevoli edizioni di classici internazionali della fantascienza e da nuove uscite di talentuosi autori italiani. Naturalmente era presente allo stand anche Ugo Malaguti (autore, anima storica delle summenzionate case editrici e tutt'ora direttore della prestigiosa rivista Nova Sf*). Tornando ai fumetti, molti dei visitatori della fiera però non sono sem-

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plici curiosi un po' nostalgici come il sottoscritto, ma collezionisti i n ce rc a dei (generalmente pochi) numeri che gli mancano per completare le proprie raccolte. Li si riconosce facilmente: si aggirano tra gli stand scrutando con un occhio le scritte sui dorsi degli albi stipati in lunghi scaffali e con l'altro i fogli di carta (talvolta di taccuino e scritti a mano) che tengono tra le dita con sopra elencati i numeri delle varie collane di cui sono alla ricerca. Capita che li trovino da più d'un espositore, e allora contrattano il prezzo chiedendo sconti a seconda dello stato di conservazione degli albi o della quantità dei numeri che intendano acquistare. Vi sono poi gli appassionati delle tavole originali dei fumetti, il cui prezzo varia dai pochi euro alle centinaia (o anche alle migliaia) di euro in base a vari parametri: le quotazioni raggiunte dal loro autore, la loro rarità (magari vengono dall'unico albo d'un certo personaggio realizzato da quel disegnatore), il loro soggetto (in generale, se su una tavola è ritratto il personaggio protagonista, questa vale di più, così come se sia addirittura l'originale d'una copertina) e, aggiungerei, da ultimo anche il suo valore artistico (un bel

disegno, magari piuttosto dettagliato, vale più di uno non particolarmente complesso). Agli stand dei commercianti di tavole presenti alla fiera questi collezionisti passano parecchio tempo sfogliando i raccoglitori di tavole (immagino abbiano un nome più specifico, che però ignoro: sembrano grandi album per fotografie). Lo faccio anch'io: anche se poi non compro nulla, è sempre affascinante guardare una tavola originale. E, ove si acquisti (si tratta d'una passione piuttosto onerosa, come si sarà compreso, anche se, sapendosi muovere, può essere senz'altro considerata una forma d'investimento alquanto redditizia), anche per le tavole è ovviamente prassi trattare col venditore sul prezzo o chiedere sconti quantità. Quello dei collezionisti di tavole è un circolo piuttosto ristretto, e in genere questi ultimi sono clienti abituali dei commercianti del settore (a loro volta appassionati di fumetti), coi quale dunque spesso vi è un rapporto quasi amicale. Erano presenti in fiera quella mattina anche alcuni disegnatori che, in genere previo acquisto di una loro opera, realizzavano un disegno su una delle pagine bianche disponibili nella stessa. Tra costoro menziono l'unico che io conosca

personalmente, il milanese Beniamino del Vecchio. A fine mattinata, dopo aver dato un'ultima ravanata nel cestone delle occasioni dei fumetti (con un po' di fortuna per pochi euro si possono talvolta portare a casa veri e propri capolavori, come “V per Vendetta” di Moore e Lloyd, o riedizioni degli anni novanta dei primissimi numeri di Kriminal o Satanik) e in quello dei dvd, stavolta però senza trovare nulla d'interessante, a parte, tra i dvd, alcuni numeri della raccolta della prima serie (che molti, tra cui il sottoscritto, considerano la migliore di sempre: basti dire che molti degli episodi che la compongono furono diretti da Hayao Miyazaki) dei cartoni di Lupin III (serie meglio conosciuta come quella della “giacca verde”, appunto dal colore della giacca del protagonista, che diventerà definitivamente rossa dalla serie successiva), che però avevo appena acquistato nella versione in cofanetto, mi sono ricongiunto agli amici con i quali ero arrivato. Soddisfatti dei rispettivi acquisti e colti dai morsi della fame, abbiamo lasciato la fiera diretti a una pizzeria su Via Emilia Levante che, oltre a fare un'apprezzabile pizza alla napoletana (ossia alta e soffice) ha il pregio di restare aperta fino a pomeriggio inoltrato.


Frank

I miei fumetti Frugolino, Miciolino, Bingo, Puffi, Polentina, Zenone, Massimiliano…. Edizione Speciale per collezionisti – a cura di Luca Boschi Pag. 240 – Euro 15,00 Anafi - http://www.amicidelfumetto.it/

Franco Privitera, in arte Frank, è un grande maestro del fumetto comico italiano, che bene ha fatto l’Associazione Nazionale Amici del Fumetto a riscoprire in un testo curato egregiamente da Luca Boschi. I miei fumetti è dedicato a tutti i lettori che come l’autore - mantengono vivo il bambino che è in loro e farà emozionare chi è nato nel periodo compreso dal 1950 al 1960 perché ritroverà gli eroi della sua infanzia. Erano tempi d’oro per i fumetti, le edicole straripavano di albi multicolori e i bambini avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di possederne in grande quantità. Francesco Privitera è uno dei disegnatori più prolifici del periodo storico, che produce senza sosta una galleria sterminata di personaggi pubblicati su albi di poche pagine da editori effimeri e s p e s s o i m p r o v v i s a t i . Bingo, Nonno Bistecca, Miciolino, Polentina, Massimiliano, Pouffi, Zenone il coccodrillo… non sono che pochi nomi di un vasto Pantheon che trae ispirazione dalla genialità di Walt Disney, ma che resta ottimo artigianato a uso e consumo dei bambini italiani. Privitera ha un grande successo, viene tradotto in Francia, Olanda, Spagna e molti altri paesi europei, persino in Germania dove inventa personaggi nuovi e collabora a fumetti ideati da autori locali. Il volume presentato dall’Anafi in tiratura limitata a 400 esemplari propone anche alcune storie create per il mercato estero e mai pubblicate in Italia, ricolorate per l’occasione da Frank. Gli originali, infatti, erano contenuti in giornaletti tascabili che prevedevano quattro vignette per tavola, alternando il colore a pagine in bianco e nero, per risparmiare sui costi tipografici. I fumetti di Frank profumano di cose d’una volta, sembrano adatti a un pubblico di nostalgici e di bambini del primo ciclo della scuola elementare. Sono lavori ingenui, ma al tempo stesso genuini e pionieristici, ai limiti dell’underground, fanno venire alla memoria un’Italia che non esiste più, un mondo di bambini che giocavano a calcio, leggevano fumetti e libri di Salgari come sole forme di svago. Sono soprattutto fumetti da riscoprire e da leggere a voce alta - come ho fatto stasera per scrivere questa recensione - ai figli più piccoli, per rendersi conto che si divertono proprio come noi quarant’anni fa. I bambini non sono poi così cambiati… Gordiano Lupi www.infol.it/lupi 29


Sotto falso nome Patrizia Birtolo

i racconti di BraviAutori Un racconto nero sulla guerra fra clan in Campania

SINOSSI PER PRIMA PUNTATA: La prima cosa che l’uomo notò della ragazza furono caviglie sottili ... Bruno, studioso di antichità romane, si sta recando a Capri per fotografare alcuni pezzi della collezione Axel Munthe. Sul traghetto conosce la bella e misteriosa Lina. Affascinato dalla giovane, spera di rivederla sull'isola. Lei gli dà appuntamento nel pomeriggio, prima la aspetta un incontro importante: Lina è giunta a Capri per vendicarsi di un uomo. Ma chi è nel mirino di Lina, e perché?

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Bruno uscì dalla villa alleggerito, ringiovanito, un ragazzino al primo appuntamento. Delusioni, fatiche, le pastoie in cui si era aggrovigliato negli ultimi anni… lontane, dimenticate. Da quando aveva deciso di finire il suo studio sulla collezione Munthe tutto andava per il giusto verso, doveva ammetterlo. Prima l’incarico per quella pubblicazione, e ora questa ragazza. Gli sembrava di volare, dopo essersi trascinato fiaccamente tanto a lungo. Certe volte si rimproverava ancora tutto il tempo sprecato a preoccuparsi per cose senza importanza. C’erano stati periodi in cui si era lasciato assorbire totalmente dal lavoro, prosciugare ogni riserva di energie da giornate dense

"Si ringrazia il Maestro del fumetto italiano Vittorio Giardino per aver concesso le splendide immagini tratte da Sotto falso nome (1987)"..

Sec on da par te

di spostamenti frenetici, e poi convegni, incontri, corsi e conferenze, rassegne, esami, lezioni, esami, lezioni… Tutto pur di non fermarsi e chiedersi una buona volta cosa voleva fare veramente. Non c’era tempo di fermarsi, di chiedersi niente. La sua agenda era costruita scientificamente, ché non restasse tempo per nient’altro a parte qualche ora di sonno. Il fine settimana, quello lo trascorreva sempre chiuso in casa, bivaccando tra il letto e il divano, leggendo, studiando, a volte


scrivendo. Dei pochi amici con cui manteneva i contatti, pochissimi provavano a stanarlo con qualche invito. Nessuno era ammesso a capitargli tra capo e collo senza bisogno di scuse. Adesso però basta pensare al passato, si disse Bruno, voltiamo pagina. Era così contento che prima di uscire dalla Villa si era voluto concedere un piccolo capriccio scaramantico: andare a sfiorare la Sfinge che dominava vigile su tutta Anacapri. Una volta fuori, girato l’angolo di Via San Michele, accanto alla parete della scalinata qualcuno stava aspettando. Gli spacchi dell’abito nero lasciavano scoperte a intervalli spalle e strisce di schiena dorata, ricurva in un arco perfetto. Lina sembrava una ballerina stanca alla fine di una dura giornata di prove; le braccia abbandonate lungo il corpo, le mani che si tenevano le punte dei sandali. Avvicinandosi, mentre sedeva al suo fianco sui gradini sbrecciati, le carezzò dolcemente la nuca. La ragazza alzò il viso verso di lui. Aveva gli occhi gonfi di pianto e il volto arrossato. Le guance erano ancora umide e il naso colava in maniera ridicola. - Lina… Bambina mia… ma che è successo? Lei si nascose fra le sue braccia, e riprese a singhiozzare forte. Era scossa da singulti terribili, sembrava stesse buttando fuori da qualche recesso in fondo all’anima un dolore soffocato per anni. Doveva essere stato quell’incontro. Sono venuta a salutare una persona, per l’ultima volta… Così aveva detto. Di certo era venuta sull’isola per incontrare un uomo.

Aveva appena troncato una storia lunga e tormentata? Quella con un essere dispotico e geloso? Qualcuno che magari la costringeva a portare una fede che non significava nulla, solo per impedirle di essere felice? Di essere amata come meritava? Forse si trattava di un uomo sposato, forse l’aveva messa nei guai e alla fine lei aveva rotto con quel rapporto opprimente. Per un attimo gli sembrò di giganteggiare sul tragico quadro che aveva dipinto. Che Lina avesse trovato la forza per fuggire da quel legame impossibile proprio nel loro incontro…? La strinse più forte. - Chi è quel mostro che vi sta facendo soffrire così? Ditemi Lina. Vi voglio aiutare. - È stato così brutto. Non avrei mai immaginato che… - Povera bambina, povera piccola… ci sono qua io. Ssscchhhh… calmatevi. Chiunque faccia soffrire così una ragazza come voi… meriterebbe di essere ammazzato senza pensarci due volte. Lei si scostò di scatto e lo guardò impietrita per un breve istante. Le pupille nere e fonde si erano allargate di colpo su di lui. Era ammutolita; poi, con un gemito più acuto e prolungato degli altri, si era tuffata di nuovo fra le sue braccia, singhiozzando ancora più forte. Bruno stringeva al cuore una donna disperata, che stava piangendo a dirotto, e non sapeva cos’altro dire o fare per calmarla. La tenne stretta a sé per un tempo che gli sembrò interminabile e brevissimo. Poté baciarla carezzarla e cullarla come un padre amo-

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revole, finché lei non si arrese, cedette alla stanchezza del pianto e alla tensione accumulata. Si abbandonò fra le sue braccia placata, sfinita. Sul viso però rimaneva ancora l’ombra lunga che si scorge in un’ adolescente dopo infernali, estenuanti litigate in famiglia. - Si è fatto quasi buio – gli disse. - Già. - Abbiamo perso l’ultimo traghetto. Dovete venire con me. Andiamo a dormire a casa mia. È tutto in ordine, staremo bene là. Sono appena passata qualche giorno fa a sistemare le cose. Venite. - Lina… siete sicura che… - Andiamo .

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Bruno crollò, chiudendo per un attimo gli occhi. Il luccichio tenue dell’acqua, la luna velata di vapori perlacei scomparvero. Sprofondato nella poltrona di vimini godeva dell’immobilità del momento, del fresco serale, del canto lontano del mare. Si sentiva esausto. Prima la scarpinata fatta per tenere dietro al passo veloce di Lina, poi la cena. Lungo la strada avevano scelto un locale piccolo, caratteristico, non troppo affollato. Avevano mangiato e bevuto e parlato e riso e scherzato e di nuovo riso e bevuto. Lina gli era sembrata serena, come sollevata. Aveva gli occhi belli, adesso, lavati dal pianto e lucidi per il vino, le guance accese, i capelli un po’ in disordine. Avevano fatto tardi. Non

se l’immaginava che dovevano percorrere ancora mezza isola - così gli era sembrato - su e giù per vicoli e vicoletti, strade e stradine, fino a casa della ragazza. Una porta di legno, verniciata di rosso. Un’altra rampa di scalini di cemento. Arrivati. Appena messo piede in casa si era subito accorto che Lina aveva buttato la borsa con gesto distratto in un angolo. Abbandonata così, senza darsi pensiero. Lui, la sua, l’aveva appoggiata cautamente sul letto, dopo che Lina gli aveva indicato la sua stanza. - Mi vado a dare una rinfrescata. C’è un altro bagno laggiù, in fondo al corridoio. Bruno vi si rifugiò, si tolse i vestiti e aprì il getto della doccia. Nel bagno c’era tutto. Flaconi di bagnoschiuma, shampoo, morbide spugne. La doccia calda gli sciolse la stanchezza, gli snebbiò le idee. Si asciugò e rivestì con calma. Aveva un pullover nella borsa, lo indossò al posto della polo che indossava da quella mattina. Tornò in terrazza. Mentre aspettava, accoccolato nella poltrona, Bruno cercò di assaporare quel momento, di imprimerselo nella memoria. Dalla terrazza della casa di Lina si poteva gettare lo sguardo fino alla punta nord orientale dell’isola. Era in uno dei posti più belli al mondo. Ospite di una ragazza bellissima, che, nell’altra stanza, si stava preparando per passare la serata con lui. Niente avrebbe dovuto preoccuparlo, chiunque avrebbe voluto essere al posto suo. Che cosa lo tormentava dunque? Che quell’incanto sfumasse in un istante. Bruno si conosceva, abbastanza bene ormai. Sapeva benissimo di non essere tagliato per le storie clandestine, era stufo di rovistare nel cestone degli scarti. Non era fatto nemmeno per i rapporti mordi e fuggi; voleva costruire qualcosa con qualcuno. Non gli interessavano le relazioni a distanza;


soffriva la malinconia. E poi ci voleva una buona dose di pazienza e fiducia. Lui aveva scorte minime tanto dell’una come dell’altra. Il bisogno di sapere e di capire era disperato, invece. Per prima cosa, avrebbe voluto impegnarsi con quella Lina, ma con la certezza che fosse libera. Non si accontentava della risposta sentita sul traghetto, qualcosa non tornava, qualcosa stonava. Mentre Lina si faceva la doccia nell’altra stanza aveva cominciato a macchinare. La borsa era abbandonata sul divano. Lei era lontana, in un’altra stanza. Lo scroscio dell’acqua avrebbe coperto il rumore dei passi. Si sarebbe alzato, avvicinato al divano, avrebbe tirato il cordoncino che stringeva l’apertura del secchiello di pelle. Lentamente. Poi avrebbe cercato il portafoglio. Dal portafoglio avrebbe estratto la carta d’identità. Lentamente. Avrebbe letto il documento, non poi così lentamente. Avrebbe rimesso con cautela il documento proprio nello stesso taschino da dove l’aveva estratto, per lo stesso verso. Avrebbe ributtato il portafoglio dentro il secchiello, che non voleva nemmeno spostare dal divano. Si alzò. Ora incomincerò ad avvicinarmi al divano. Niente dice che me ne debba stare qui per forza seduto, ad aspettare. Posso sempre sgranchirmi le gambe, fare un giretto. Sono libero di passare anche vicino al divano. Non ha mica detto: stai lontano dalla mia borsa, giusto? E se mi ci becca con le mani dentro riciclerò quella meravigliosa menzogna che ho detto sul traghetto. Le dirò che mi son sentito un po’ nervoso mentre aspettavo, e che anche se mi sembrava orribile è stato più forte di me e ho cercato una sigaretta dentro la borsa. Sì. No. Sì. Adesso o mai più. No, no, no. Se se ne accorgesse? Sì invece. No. Se mi vede rovinerò tutto. Ma come farebbe a vedermi? Non l’ho mai fatto.

Non ho mai messo le mani nella borsa a nessuno. Però è sempre meglio sapere. Sì. Ora! Bruno corse dentro casa come se stesse facendo a gara con qualcuno a chi arriva primo al divano. Tirò forte i laccetti del secchiello … Alla fine mise le mani nella sacca di pelle, tutte e due. Tastò alla cieca, incontrò subito il rettangolo rigonfio del portafoglio, lo aprì. Ed ebbe tutte le risposte, anche quelle che non stava cercando. Angela rivedeva l’intera scena. Quella civetteria femminile, volersi lavare e cambiare d’abito, se l’era poi rimproverata mille volte. Ma si sentiva sporca e schifosa. Sperava con l’acqua della doccia di lavar via ogni peccato, o almeno trovare un momentaneo refrigerio. L’aveva lasciato solo, su una poltrona di vimini, là sulla terrazza della sala grande a guardare la marina. Tornando a casa era così stanca che alla borsa non aveva proprio più pensato. Buttata là, in un angolo del divano. L’ingenuità della principiante. Una debolezza imperdonabile. A se stessa come a lui. Bruno. Affaccendato su quella borsa. Riflesso impietosamente nella specchiera della sala di nonna. Quante volte aveva fatto quel gioco? Nell’ombra del corridoio spiare i suoi famigliari, origliando quanto si dicevano la mattina credendola ancora a letto… O la sera, dopo cena, già coricata…

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Lo aveva trovato a frugare là dentro, a sbirciare i suoi documenti. Quando stava rimettendo a posto il portafoglio eccolo lì, bloccarsi fulminato: aveva scoperto il peso della pistola in fondo al secchiello di pelle nera. Si era raddrizzato, morso da una bestia scoperta per caso sotto un sasso che non doveva spostare. La mano passata d’istinto a ravviarsi inutilmente i capelli grigi, cortissimi. Lei era tornata sui suoi passi. Si era attardata in bagno altri dieci minuti. Poi lo sentì avvicinarsi, cauto. - Lina… Era uscita dal bagno già vestita, in un morbido scamiciato bianco. Gli si parò davanti. Quel punto del corridoio era tanto buio che non si potevano neanche vedere bene in viso. Non le restava molta scelta, ora. Doveva evitare a qualsiasi costo il tentativo chiarificatore che sentiva urgergli dentro. Doveva fare finta di niente, finché non le fosse venuta l’idea giusta sul come e sul quando. Nel frattempo doveva farlo pensare ad altro. Dargli quello per cui era venuto fin lì, quello che aveva cercato fin dal primo momento.

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Gli cadde fra le braccia a corpo morto e cominciarono a baciarsi rabbiosamente. Si amarono con foga disperata per tutta la notte. Lei temendo che a ogni sospiro, a ogni ansito, Bruno se ne saltasse fuori con la faccenda della maledetta borsa. Lo baciava con insistenza caparbia, meno tempo gli

lasciava per pensare meglio sarebbe stato per entrambi. Lui, travolto, cercava di capire in quel letto, stando con lei, ciò che la ragazza non gli aveva lasciato capire fino allora. Forse stava facendo l’amore con un’assassina, forse lei aveva eliminato l’uomo che la tormentava e la minacciava. L’uomo da cui non era riuscita a staccarsi fino a quel giorno. Anche se fosse, pensò Bruno, accecato dal desiderio, non me ne frega proprio niente. Però mi ha mentito. Perché gira sotto falso nome…? Angela, Lina, IDA! Si sentiva risucchiato da un caleidoscopio di figure femminili. Chi era veramente la donna che teneva fra le braccia? Lei ancora dormiva. Di soppiatto si era avvicinato allo stipite della porta per spiarla nel sonno. Bella bella bella. Sentiva di averla amata da sempre, dal primissimo istante che l’aveva tenuta fra le braccia. Ma di più, adesso, dopo quello che era successo. La guardava con orgoglio, con avidità compiaciuta, certo che poteva guardarla quanto voleva, era sua, tutta sua. Bella e buona, quella ragazza, un piccolo angelo, il tesoro suo...


Appena alzata le avrebbe mostrato la pagina de Il Mattino, era stata tanto brava. Tutto pulito, “sverto e ppreciso” …ne erano usciti in bellezza. Quel favore a Lui non lo potevano mica negare, era un’antica promessa. Non immaginava che dopo tanti anni sarebbe venuto il momento, e che per quel momento non sarebbe stato pronto… Per fortuna c’era sua figlia. A Lui, quando era andato in carcere per avvisarlo del cambiamento di piani, all’inizio l’idea non era sembrata piacere molto. - Chi mi assicura che verrà una cosa ben fatta? - È figlia mia! - Proruppe l’uomo alzando il tono, accalorandosi. Dimenticando, per un istante, di chi si trovava di fronte. Lui gli fece uno dei suoi sorrisetti ironici, e con un gesto appena accennato della mano, ssccchhh… Lo invitò ad abbassare la voce. - È figlia mia - ripeté l’uomo a se stesso, tamburellando le dita sul tavolo, mentre abbassava lo sguardo e il tono, dominato dalla presenza che si trovava di fronte. - Angela è in gamba, è capace. È stata lei a chiedermi di poterlo fare. Sa che toccherebbe a me, e che io non sono più quello di qualche anno appresso. Antonio sta a Poggioreale, con quello che ha fatto vi pare che me lo fanno andare in libera uscita? Chi mi resta? Ci sarebbe Domenico, ma è ‘nu guaglioncello, tiene solo tredici anni. Non me lo vedo pronto per n’impresa ‘e ‘sta fatta. Angela ci va, ci vuole andare. Si sente in debito… certo che ‘o ssà che ha studiato con i soldi del clan, mica è fessa! Lo sa che è grazie alla generosità vostra se oggi è n’avvucato. Lo fa per me e lo fa per Voi. Anzi, lo fa soprattutto per Donna Rinetta. Adora vostra sorella come fosse la Maronna ‘u Carmine, quando andavo a trovarla se c’avevo fretta che non mi potevo portare appresso la creatura, ne faceva ‘na malattia. Voglio i biscotti della zia Rinetta… La zia

Rinetta mi ha detto di andare, che mi vuole imparare a ricamare… L’ultima cosa che mi ha detto, prima di uscire che venissi qua, mi fa: - Papà, a Lui diteci che… per vendicare ‘na femmena la cosa migliore è se si muove n’atra femmena. Lui aveva sorriso. Ora che si era intenerito, Don Pasquale sentiva uno slancio, una voglia di superare se stesso. Sorridendo anche lui, parlando col cuore in mano, disse: - E vi chiede, se permettete, pure un favore personale. Vorrebbe essere lei stessa in persona ad avere l’onore di tornare al paese ad avvertire vostra sorella che la faccenda è stata riparata. - Pasqua’…che vvaggià a dì? Ormai vi decidete tutto voi da soli, che ci stanno a fare quelli come me, voi altri fuori ve la cantate e ve la suonate… L’uomo scoppiò in una risata divertita e affettuosa, resa più dolce dal sollievo enorme di quella condiscendenza ottenuta senza sforzo apparente. Ma conosceva troppo bene i meccanismi del loro mondo per ignorare che se Lui diceva “va bene” era perché la sorella aveva già detto “va bene”. Perché questo era affare di Donna Rinetta. Ora, a parer suo in quel momento l’organizzazione aveva problemi più grossi che andare a sfasciare le corna a un poveretto che teneva l’unico torto di essersi filato la sorella del boss dei boss quando erano ancora due ‘scugnizzi entrambi…. e averla poi piantata in asso senza né un a né un ba, andandosene per quarant’anni a vivere dall’altra parte dell’oceano. Però non è che si poteva pretendere da uno come Lui che facesse finta di niente su una cosa così. Se poi anche Rinetta era d’accordo, tutto sarebbe filato liscio. E difatti tutto liscio era filato. Brava Angela di papà. L’uomo tornò a osservare pieno d’amore la ragazza che sembrava lottare con le lenzuola, il viso affondato nel cuscino.

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Angela rivedeva l’intera scena, la riviveva ancora una volta. Il mattino era giunto di soprassalto. Si erano appena addormentati, o almeno così le sembrava. Usciti dal letto lo prese per mano e lo condusse fuori. Erano già vestiti, ma tutto era confuso, la prima luce dell’alba incerta e tremula. Si voltò a sorridergli. Lui ricambiò il sorriso. Si incamminarono per le salite strette e tortuose, e senza stanchezza giunsero in cima alla scogliera. Ti faccio vedere il salto di Tiberio… Lei non voleva fargli alcun male, ma poi ricordò perché l’aveva portato fin lì, e si disse: quello che va fatto va fatto. Non sapeva da dove le fosse venuta la forza per spingerlo di sotto. Semplicemente, dolcemente, sorridendo, lo urtò. Lui vide il suo gesto e sempre sorridendo lo accolse, come fosse stata la movenza che dava inizio a un

ballo fatto di passi ignoti a chiunque altro, eccetto loro soli. Lo vide precipitare nel vuoto, continuava a sorridere inebetito e la invitava a seguirlo, aggrappandosi al suo braccio per attirarla giù con lui, nell’abisso, avvinghiati come poco prima, insieme fra le lenzuola, e ora, ora non capiva più se stesse precipitando lui solo, o la stesse trascinando con sé, giù e giù giù giù. Poi d’improvviso, sussultando, si svegliò. E ricordò con chiarezza ogni cosa.

dal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it Lou è una ragazza dolce e naïf, curiosa e determinata a non lasciarsi deprimere dalle nere prospettive che il XXI secolo le propone. Come la maggior parte degli adolescenti, è piena di interrogativi sul futuro e su quale sarà il ruolo che ricoprirà nella società. Tutte domande che rivolge speranzosa al suo fidanzato Leo, chiedendogli di illuminarla sui passi da percorrere. Leo è un ventenne arrabbiato. Con il sistema, con il governo, con i politici, con la sua generazione, con la generazione passata, con il futuro. Cinico e disilluso, non pensa a cercare una soluzione a questa sua insofferenza generalizzata, dato che probabilmente si trova davvero bene nella sua condizione di ragazzo cupo e depresso. E poi ha Lou, la prova vivente che tutte le sue paure hanno una conferma, ma anche l’unica donna alla quale poi riesce ad addormentarsi accanto. Leo & Lou: una coppia logorroica di giovani frustrati che nei momenti di più completa intimità si lascia andare alle proprie nevrosi. L’un l’altra si interrogano, psicanalizzano, incoraggiano e distruggono, volontariamente o involontariamente, ma senza comunque riuscire a cavare un ragno dal buco. 36


De André, la leggenda di Natale Tania Maffei

La favola di una bimba ingannata da un freddo Babbo Natale Leggenda di Natale Parlavi alla luna giocavi coi fiori avevi l'età che non porta dolori e il vento era un mago, la rugiada una dea, nel bosco incantato di ogni tua idea nel bosco incantato di ogni tua idea.

Fra le tende di una fragile ballata, si consuma la favola di una bimba violata, ingannata da un Babbo Natale che parlava d'amore ma i cui occhi freddi non erano buoni. Un raggelante presagio di pedofilia.

Q

uando nel 1968 vide la luce, "Tutti morimmo a stento" fu una assoluta novità nel panorama musicale italiano. Pochi anni prima il cantautore genovese si era già fatto apprezzare per canzoni di protesta come "La Guerra di Piero" o per ballate struggenti quali "La canzone di Marinella". Profondamente influenzato da cantautori come Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor più dagli chansonnier francesi primo fra tutti Georges Brassens, era stato tra i primi ad abbandonare le canzonette italiane per dedicarsi alle sue ballate cupe, affollate di anime perse,

E venne l'inverno che uccide il colore e un babbo Natale che parlava d'amore e d'oro e d'argento splendevano i doni ma gli occhi eran freddi e non erano buoni ma gli occhi eran freddi e non erano buoni. Coprì le tue spalle d'argento e di lana di pelle e smeraldi intrecciò una collana e mentre incantata lo stavi a guardare dai piedi ai capelli ti volle baciare dai piedi ai capelli ti volle baciare. E adesso che gli altri ti chiamano dea l'incanto è svanito da ogni tua idea ma ancora alla luna vorresti narrare la storia d'un fiore appassito a Natale la storia d'un fiore appassito a Natale.

Canzone di Fabrizio di André, ispirata a "Le Père Noel Et La Petite Fille" di Georges Brassens datata 1958, tratta dall'album Tutti Morimmo A Stento, sottotitolo “Cantata in si minore per coro e orchestra” del 1968. 37


emarginati e derelitti d'ogni angolo della terra. Le sue storie, pur ispirate spesso a fatti di cronaca, si tingono sempre dei colori della fiaba, perdendo ogni connotazione temporale; e i suoi personaggi sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con la loro dirompente carica di umanità, inquietudine, disperazione. La poliedrica cultura di De André si ritrova in tutti i suoi testi. Non mancano i riferimenti colti ad un Proust, Baudelaire, Maupassant, Villon, Flaubert, Balzac ma anche i richiami alle ballate medievali o a quelle tradizionali provenzali. Profondo poi lo studio sull’Antologia di Spoon River", o sui canti dei pastori sardi, come

pure lo studio sui Vangeli apocrifi. Alla fine degli anni Sessanta (1968) nasce questo piccolo capolavoro "Tutti Morimmo A Stento" dal sottotitolo di

"Cantata in si minore per solo, coro e orchestra" Il senso del tragico qui arriva alla sua apoteosi in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti. Un viaggio ossessionato e ossessionante che vede protagonista la morte, attraverso le storie dei personaggi che man mano vanno delineandosi e che diventa morte I BRANI DELL'ALBUM dell'umanità inte1. Cantico dei drogati, 2. Primo ra, condanna inintermezzo, 3. Leggenda di Natale, flitta dalla natura 4. Secondo intermezzo, 5.Ballata all'uomo. degli impiccati, 6. Inverno, 7. Girotondo, 8. Terzo intermezzo, 9. Recitativo e Corale (leggenda del re infelice)

BraviAutori presenta

LA PAURA FA 90 90 RACCONTI DA 666 PAROLE prima edizione Sono ammessi racconti, poesie e immagini di qualsiasi genere, purché il tema sia la Paura. Il concorso scade quando la redazione selezionerà 90 opere idonee alla pubblicazione. Concorso gratuito. Troverete maggiori dettagli sul sito BraviAutori

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La mia Avana Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

cambiata tanto la mia Avana negli ultimi anni e adesso che non posso rivederla, come un piccolissimo Cabrera Infante, immagino che lo sia ancor di più. Ricordo la mia Avana percorsa da biciclette cinesi e mulatte ancheggianti, da autobus affollati nelle ore di punta, da uomini e donne dagli odori penetranti che camminano sotto il sole bruciante. Ricordo la mia Avana senza tempo scandire ore di pomeriggi sonnolenti mentre si lascia sfiancare dal calore tropicale. Ricordo la mia Avana dimenticata dalla storia, percorsa da tristi mendicanti e da bambini che giocano a baseball agli angoli di strada, da jineteras d’alto bordo e ragazzine in cerca d’avventure, da maricones sfrontati e turisti arroganti. Ricordo la mia Avana che non c’è più, se non nella memoria, nei giorni d’un passato che non ritorna, distrutta da un capitalismo selvaggio che conquista strade e pensieri. All’Avana squillano telefonini, proprio come da noi, fioriscono internet point, girano auto straniere di grossa cilindrata, aprono grandi magazzini in valuta pregiata dove chi possiede chavitos può comprare di tutto. Povera la mia Avana deturpata dal presente, piena di gente che sorride per nascondere pensieri, dove vaga il fantasma di Humberto Solás, Fernando Pérez gira film stupendi e gli scrittori finiscono suicidi se non ritornano. Povera la mia Avana che Cabrera Infante ha descritto per tutta la vita

Speciale Cuba

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Avana, dimenticata dalla storia, nei ricordi di un figlio lontano senza poterla rived e r e , pensando a una città perduta n e l l a nebbia di Londra. La mia Avana è cambiata, ma sar e b b e meglio Guillermo Cabrera Infante dire che siamo cambiati insieme, anch’io non conservo lo stupore del primo incontro, invecchio nel ricordo senza distinguere il confine tra realtà e sogno. Consola la monotonia dei miei giorni una piccola Miriam Gómez che sostiene con forza la nostalgia, ogni tanto fa shopping pure se non percorre le strade di Londra, vorrebbe coinvolgermi ma resisto, refrattario come Cabrera Infante a vetrine e negozi che offrono prodotti a prezzi scontati. Non posso essere fedele a un ideale perduto, ma resto fedele a una città perduta. Non so fare di meglio.

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Moriremo tutti, anche se non siamo Cabrera Infante Alejandro Torreguitart Ruiz Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

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n giorno come un altro all’Avana senza un cazzo da f a r e , l e g g e n d o Cabrera Infante per capire quanto poco sono vicino all’idea di scrittore e per contrasto quanto lui fosse immenso con i giochi di parole di Tre tristi tigri, le descrizioni intense, i sogni a occhi aperti sull’Almendares, piccolo Gange dell’Oceano Occidentale, tra il doppio orizzonte del muro del Malecón e la linea azzurra piegata, profonda cicatrice che divide le acque. Cabrera Infante sapeva pure scrivere come chi non amava, imitando lo stile poteva stendere infinite versioni della Morte di Trotzki, come l’avrebbe raccontata Martí, passando per Piñera, omaggiando persino l’odiato Carpentier. Personaggi come Bustrófedon che giocano con le parole per pagine e pagine me li sogno la notte, ché soltanto lui poteva avere l’umorismo, l’ironia, la genialità d’inventare scioglilingua e nonsense tirando avanti un capitolo senza una trama, una storia, grazie a una serie di virtuosismi lessicali. Porca eva, se penso che uno scrittore come questo mi tocca leggerlo di nascosto, ché se il poliziotto all’angolo se ne rende conto mi sbatte al fresco, pure se è difficile, per lui Cabrera Infante o un piccolo poppante sono la stessa cosa, credo che nella campagna da dove proviene tanto l’avranno obbligato a leggere Carpentier, Guillén e Martí senza capirci un cazzo. Questi caproni orientali adde-

Riflessioni a voce alta, leggendo Cabrera Infante strati per rendere la vita difficile non distinguono Miguel Barnet da Reinaldo Arenas, credono che Fidel Castro sia l’erede di José Martí e l’unica cosa che puoi fare è tenerli alla larga, magari allungando una bottiglia di rum e qualche sigaro, di tanto in tanto, così bevono, fumano e ti lasciano in pace. Tanto prima o poi muoiono tutti, come scriveva il buon Cabrera Infante, siano felici, amareggiati, intelligenti, ritardati, chiusi, aperti, allegri, tristi, belli, brutti, barbuti, alti, bassi, loschi, sinceri, forti, deboli, potenti, infelici, persino i poliziotti muoiono, persino gli scrittori che possono fare con due parole o quattro lettere un inno, uno scherzo, una canzone. Persino Cabrera Infante è morto, cazzo. Persino lui. E allora leggendo Tre tristi tigri con la copertina camuffata dal Granma, ché a quello serve, come fodera per nascondere è perfetta, mi rendo conto che mio padre ne sta facendo un altro uso, pare che lo legga davvero quel giornalaccio e commenta pure… “Chávez ha criticato la consegna del Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo. È finita come con Barack Obama, nessuno dei due meritava di vincere”, dice con aria grave. Io me ne stavo lì tranquillo con il mio Cabrera Infante, ero arrivato al punto dove il protagonista guarda il porto e scopre una relazione tra il mare e il ricordo, non soltanto perché è vasto, profondo ed eterno, ma anche perché


non comprendevano perché non si dovesse esprimere un pensiero critico. Inutile. Lui legge solo il Granma e ascolta Randy il pelato. Buon pro gli faccia, allora. Torno a Cabrera Infante. Premio Cervantes grazie a Vargas Llosa, spagnolo d’adozione, che amò Tre tristi tigri e lo volle incoronare tra i libri più importanti scritti in lingua spagnola. Porca eva, io non seguo la corrente perché il misterioso ci vuole governare. No davvero. Penso che moriranno tutti prima o poi, pure il nostro grande alleato, il Presidente della Repubblica Popolare di Cina, Hu Jintao, pure Meo Porcello che sbraita da Caracas e le ultime elezioni mica gli sono andate così bene, pure Fidel Castro che è tornato a parlare e la cosa più strana non è quella, ma che nel mondo ci sia an-

cora un sacco di gente che l’ascolta, pure Raúl che c’ha in testa un modello cinese, ma mica s’è capito quale, forse nepp u r e l u i s i raccapezza molto, a me sembra il modello marabù, vista l’erbaccia che c’è da estirpare. I sogni della ragione generano mostri, ma i sogni di chi non ragiona non possono generare niente, purtroppo. Moriremo tutti, prima o poi, Come diceva Cabrera Infante, dissidenti e lacchè, servi del potere e d’uno Stato arrogante, divulgatori di menzogne e uomini coraggiosi. Mario Vargas Llosa prima di morire vorrebbe passeggiare di nuovo per le strade dell’Avana, incontrare vecchi amici, vedere Cuba finalmente libera. Aveva detto la stessa cosa Cabrera Infante e se l’è portato via una setticemia del cazzo in un o-

Speciale Cuba

viene in ondate successive, identiche e incessanti. Certo che è dura dopo aver assaporato una frase simile contestare le cazzate di Meo Porcello, perdere tempo con un ciccione in camicia rossa che grugnisce contro i lacchè degli imperialisti, irretiti da un dissidente e dalla libertà di pensiero. “Babbo, mica crederai a quel che dice Chávez?” “Il Granma parla di solidarietà verso il popolo cinese. Sono loro che ci danno una mano, insomma, non ci possiamo mettere a sostenere gli americani, mica fanno niente per noi…” Povero papà, si vede che leggi solo il Granma e guardi Cubavision con quel fesso di Randy Alonso, presidente del circolo dei giornalisti che organizza tavole rotonde tra gente che sgrana lo stesso rosario. E allora cosa ti devo dire? Tanto lo so come va a finire… “Hai letto cosa scrive il Granma su Vargas Llosa? Pure lui non era degno del Nobel per la letteratura…” “Non so niente di letteratura ma in televisione dicono che García Marquez è il solo vero Nobel sudamericano. Vargas Llosa è un venduto, un traditore, un servo degli imperialisti”. Inutile dire a mio padre che Vargas Llosa si è dissociato dalla rivoluzione dopo il caso Padilla, quando furono in molti a mollare Fidel, ché

ALEJANDRO TORREGUITART RUIZ Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) esordisce in Italia con Machi di carta - confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003), definito un delicato e intenso romanzo di formazione da Mario Fortunato su L’Espresso. Seguono La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2004), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particular - Sesso all’Avana (Stanpa Alternativa, 2007) e Adiós Fidel All’Avana senza un cazzo da fare (Racconti 2003 - 2008) (Il Foglio, 2008). Tra gli inediti citiamo il romanzo fantapolitico Mr. Hyde all’Avana e la biografia romanzata Un uomo chiamato Che Guevara. Alcuni racconti di impronta politicoesistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, L’Ostile e Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.

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Guillermo Cabrera Infante (Gibara, 22 aprile 1929 – Londra, 21 febbraio 2005) è stato uno scrittore cubano, vincitore del Premio Miguel de Cervantes nel 1997. Opere • Così in pace come in guerra (Asì en la paz como en la guerra) (1960) A. Mondadori, 1963 • Tre tristi tigri (Tres tristes tigres) (1967) Il saggiatore, 1976 • Vista del amanecer en el trópico (1974) • O(1975) • Exorcismos de esti(l)o (1976) • L'Avana per un infante defunto (La Habana para un infante difunto) (1979) Garzanti, 1993 • Puro humo (1985) • Mea Cuba (1992) Il saggiatore, 1997 • Delito por bailar el chachachá (1995)

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Mi música extremada (1996) Ella cantaba boleros (1996) Vidas para leerlas (1998) Il libro delle città (El libro de las ciudades) (1999 Todo está hecho con espejos (1999) La ninfa inconstante (2008)

Cuerpos divinos (postumo)

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Recensioni cinematografiche • Un oficio del siglo XX (1963) • Arcadia todas las noches (1978) • Cine o sardina (1997) Sceneggiature cinematografiche • Wonderwall, regia di Joe Massot (1968) • Punto zero (Vanishing Point), regia di Richard C. Sarafian (1971) • The Lost City, regia di Andy Garcia (2005) Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera. www.wikipedia.it

spedale di Londra. Siamo ottimisti, al- vissuta per tutta la vita come un fantasma del passato. Una città bastarda e lora. Non ci pensiamo. Mia madre in cucina fa bollire corrotta, distrutta e malandata, affal’acqua per cuocere riso e fagioli, forse scinante e puttana, una città che moha rimediato pure bistecca di soia, rirà anche lei, come moriremo tutti, l’ultimo ritrovato della libreta contro la ma che per il momento è diventata fame. Lascio perdere mio padre e rico- davvero L’Avana per un Infante defunto. Per sempre. mincio a leggere. Il Malecón scorreva sotto la macchina diventato un piano d’asfalto, con ai lati le case rodal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it sicchiate dall’acqua salata e il muro interminabile e in alto i Per conoscere Yoani Sanchez cieli nuvolosi o parzialmente Gordiano Lupi Il Foglio Letterario nuvolosi e il sole che declinava irresistibilmente, come Icaro, L'UTOPIA IMPOSTA verso il mare… Una setticemia del cazzo, Abito un’utopia che non è la mia. Per lei un genio simile se l’è portai miei nonni si sacrificarono e i miei geto via una setticemia del nitori dettero i loro migliori anni. Io la cazzo per una frattura porto sulle spalle senza potermela scrolall’omero dopo una caduta lare di dosso. in casa. Tu pensa morire a Alcuni che non la vivono tentano di convincermi - da lontaLondra di setticemia, mica no - che devo conservarla. Senza dubbio, risulta alienante ad Alamar o a Guanabacoa. vivere un’illusione estranea, accollarsi il peso dei sogni alMorire senza vedere The trui. Lost City, senza salutare A coloro che mi imposero - senza consultarmi - questo miAndy García, senza calperaggio, voglio dire con chiarezza che non penso di lasciarlo stare le strade d’una città in eredità ai miei figli.

Speciale Cuba

GUILLERMO CABRERA INFANTE


Josè Saramago Un ricordo di uno dei grandi della letteratura del ‘900

Tania Maffei

insidie e alle trappole della famigerata Pide, la polizia politica del regime. Negli anni sessanta Saramago diventa uno dei critici più seguiti del Paese nella nuova edizione della rivista "Seara Nova" e nel '66 pubblica la sua prima raccolta di poesie I poemi possibili. Diventa quindi direttore letterario e di produzione per dodici anni di una casa editrice e dal 1972 al '73 curatore del supplemento culturale ed editoriale del quotidiano Diario de Lisboa. Sino allo scoppio della Rivoluzione dei Garofani, nel '74, Saramago vive un periodo di formazione e pubblica poesie 'Probabilmente allegria' (1970), cronache 'Di questo e d'altro mondo' (1971), 'Il bagaglio del viaggiatore' (1973) testi teatrali, novelle e romanzi. Il secondo Saramago, vice di-

Il giorno 18 giugno 2010 nella sua residenza a Lanzarote, nella località di Tías, sulle Isole Canarie si è spento uno dei uno dei grandi della letteratura del 900, JOSÈ SARAMAGO

BIOGRAFIA José de Sousa Saramago nasce ad Azinhaga, in Portogallo il 16 novembre 1922. Il suo primo romanzo, 'Terra del peccato' (1947) non riceve un grande successo nel Portogallo oscurantista di Salazar. Nel 1959 si iscrive al Partito Comunista Portoghese che opera nella clandestinità sfuggendo sempre alle

Aforismi

«Il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori finiscono.» «I viaggiatori possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero.» «Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, la pietra che ha cambiato posto.»

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rettore del quotidiano Diario de Noticias, nel '75 e scrittore a tempo pieno, libera la narrativa portoghese dai complessi precedenti e dà l'avvio a una generazione post-rivoluzionaria. Nel 1977 lo scrittore pubblica il lungo e importante romanzo 'Manuale di pittura e calligrafia', seguito nel 1980 da 'Una terra chiamata Alentejo', incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più a Est del Portogallo. Ma è con 'Memoriale del convento' (1982) che ottiene finalmente il successo tanto atteso.

Recensione di

Siamo in un posto e un tempo indefiniti quando scoppia improvvisamente una strana epidemia che rende tutti ciechi, nessuno escluso. Il governo, non sapendo come curare chi si ammala, reclude in modo forzato tutte le persone in un ex manicomio trasformato in una specie di "lager" dove chi entra non può più uscire se non rischiando la vita. Poco cibo, nessuna assistenza, totale mancanza di igiene, una situazione paradossale dove ognuno cerca solo la propria sopravvivenza. I ciechi, divenuti tutti uguali, hanno perso la loro identità, si chiamano per nome e fingono una solidarietà che li porterà a odiarsi sempre di più. Una di loro, una donna misteriosamente, non ha perso la vista e, pur di restare accanto al marito medico, finge di essere cieca, I suoi occhi saranno lo specchio di tutto quello che accade e di fronte al quale non si può che inorridire. I ciechi divenuti tutti uguali, con la malattia hanno perso la loro identità, si chiamano per nome e tendono a prendere il sopravvento l'uno sull'altro in modo meschino, falso, non tentando, in alcun modo di aiutarsi gli uni con gli altri convinti come sono che la sopravvivenza di uno non possa che comportare la morte di un altro. Il titolo originale del libro è "Ensaio sobre a Cegueira" (Saggio sulla cecità), Cecità uno studio minuzioso sui comportamenti degli esseri umani che, in situazioni di estrema difficoltà e paura, arrivano ad un degrado umano totale, un percorJosè Saramago so angoscioso che conduce agli inferi, dove il senso più puro e semplice della Feltrinelli vita viene perso, in cui la dignità, l'etica, il rispetto sono calpestati da ogni sor(2010) ta di violenze e soprusi. Saramago dice: "Volevo raccontare le difficoltà che abbiamo a comportarci come esseri razionali, collocando un gruppo umano in una situazione di crisi assoluta. La privazione della vista è, in un certo senso, la privazione della ragione” [...] "È una vecchia abitudine dell'umanità, passare accanto ai morti e non vederli […] Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo […] ciechi che, pur vedendo, non vedono […]. Il mondo è pieno di ciechi vivi". Può sembrare, (ed è di certo), una metafora fin troppo banale e scontata ma "sta succedendo in qualunque parte del mondo in questo momento.” Interessante notare come la punteggiatura quasi non esista e lo scorrere del tempo sia scandito dagli eventi che si susseguno in modo frenetico uno dietro l'altro. Romanzo particolarissimo ai limiti della fantascienza. Sotto certi aspetti un vero e proprio incubo che non può lasciare indifferenti, per il suo crudo realismo e la profondità del messaggio inviato. Tania Maffei

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In sei anni pubblica due opere di grande impatto 'L'anno della morte di Riccardo Reis' (1984) e 'La zattera di pietra' (1986) ottenendo numerosi riconoscimenti. Gli anni Novanta lo consacrano sulla scena internazionale con 'L'assedio di Lisbona' (1989), 'Il Vangelo secondo Gesù' (1991), e quindi con 'Cecità' (1995). Ma il Saramago autodidatta e comunista senza voce nella terra del salazarismo non si è mai fatto avvincere dalle lusinghe della notorietà conservando


una schiettezza che spesso può tradursi in distacco. Meno riuscito è il Saramago saggista, editorialista e viaggiatore, probabilmente frutto di necessità contingenti, non ultima quella di tenere vivo il suo nome sulla scena letteraria contemporanea. É del 1998, sollevando un vespaio di polemiche soprattutto da parte del Vaticano, il conferimento del Nobel per la letteratura. I romanzi di Saramago hanno le loro radici in quella cultura che mostra di aver sempre giocato su un confine labile tra storia e sogno, tra realtà e fantasia che può portare ad approfondimenti del vero così come appare e sino a una vera e propria visionarietà dalle volute barocche. José Saramago muore il giorno 18 giugno 2010 nella sua residenza a Lanzarote, nella località di Tías, sulle Isole Canarie.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DEI ROMANZI:

1977 - Manuale di pittura e calligrafia (Manual de pintura e caligrafia) •1982 - Memoriale del convento (Memorial do convento) •1984 - L'anno della morte di Ricardo Reis (O ano da morte de Ricardo Reis) •1986 - La zattera di pietra (A jangada de pedra) •1989 - Storia dell'assedio di Lisbona (História do cerco de Lisboa) •1991 - Il Vangelo secondo Gesù Cristo (O Evangelho segundo Jesus Cristo) •1995 - Cecità (Ensaio sobre a cegueira) •1997 - Tutti i nomi (Todos os nomes) •2004 - Saggio sulla lucidità (Ensaio sobre a lucidez) •2008 - Il viaggio dell'elefante (A viagem do elefante) •2009 - Caino (Caim) •

SARAMAGO POETA Pochi sanno in Italia che quest'artista era anche un grande poeta. Ecco due poesie tratte dall'antologia Poesie ed. Einaudi Tascabili.

POESIA A BOCCA CHIUSA Non dirò: che il silenzio mi soffoca e imbavaglia. Zitto io sto e zitto me ne resto: la lingua che io parlo è di altra razza. Si ammucchiano parole logorate, ristagnano, cisterna d'acque morte, amare pene in limo trasformate, melma fangosa con radici torte. Non dirò: che proprio non son degne neppure d'essere dette, parole inette a dire quanto so qui nel rifugio in cui non mi conosco. Non solo limo o melma si trascinano, non solo bestie, morti, ansie galleggiano, turgidi frutti in grappoli s'intrecciano nel nero pozzo dove dita affiorano. Dirò solo, arcignamente solitario e muto, che chi ha taciuto quando io ho taciuto non può morire senza dire tutto.

CORPO - MONDO Che strade del tuo corpo non conosco, all'ombra di che valli io non dormo, che monti io non scalo, che distanze non abbraccio negli occhi dilatati, che torrenti non guado, che fiumi fondi la nudità del mio corpo non varca, che spiagge profumate non percorro che selve, che giardini, che pianure?

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La figura e l’opera di Lev Tolstoj Luisa Catapano

I

l 7 novembre si celebra il centenario della morte di Lev Nicolaievicht Tolstoj, scrittore sulla cui grandezza è inutile spendere parole. Volendo ricordarlo, avevo inizialmente pensato di rievocare solo la sua morte che, per le modalità in cui avvenne, è stata definita l’ ultimo romanzo di Tolstoj, ma successivamente ho ritenuto opportuno iniziare questa conversazione rievocando le principali tappe della sua vita, ed anche le sue opere principali, affinchè l’ omaggio allo scrittore sia completo. Il conte Lev Tolstoj nacque nella tenuta di famiglia a Jasnaia Poliana il 1828, e lì trascorse i primi anni di vita. L’ avvenimento che turbò la sua infanzia fu la morte prematura della madre, da lui ampiamente ricordata nei suoi scritti, ma questi primi anni vissuti in campagna furono importanti anche perché egli ebbe così modo di osservare la vita dei contadini russi, che nella sua mente ben presto assursero a valore di mito, e che sono sempre presenti nelle sue opere. Dopo i primi studi, frequentò l’ Università, ma senza profitto, e perciò si ritirò a Jasnaia Poliana dove incominciò a scrivere. Così ben presto fu pubblicata la trilogia “Infanzia, Adolescenza, Giovinezza” , piena di nostalgia per gli anni trascorsi ,che lo fece emergere subito tra gli scrittori russi più famosi dell’ epoca. 46

Dai grandi romanzi alla discussa conversione morale Intanto, oltre a scrivere, Tolstoj leggeva libri di filosofia e rifletteva sullo scopo che la vita di ognuno dovrebbe avere. Si formò così in lui una concezione etica secondo la quale ognuno dovrebbe vivere mirando al proprio perfezionamento morale, per poter così combattere il male e la menzogna che si insinuano ovunque. Tolstoj rimase sempre fedele alla sua legge morale, e cominciò a metterla in atto fondando nel 1862 a Jasnaia Poliana una scuola per i figli dei contadini le cui condizioni miserevoli dipendevano, secondo lui, soprattutto dall’ ignoranza. Nello stesso anno sposò Sonja Andreevna Bers. Il legame tra i due, che ebbero 13 figli, durò fino alla morte, anche se spesso fu burrascoso, a causa della forte personalità di entrambi. Ma ecco che Tolstoj pubblica il suo primo romanzo “Guerra e pace”, i cui numerosi protagonisti agiscono sullo sfondo della guerra tra la Russia e la Francia, tra lo Zar Alessandro e Napoleone. É estremamente difficile riassumere la trama di questo romanzo, ma volendo semplificare possiamo dire che si tratta di una storia intrecciata di due famiglie: i Rostov e i Bolkonski.


É però di importanza fondamentale anche la figura del conte Pierre Bezuchov, nel quale Tostoj afferma di avere trasposto una parte di se stesso, e che spesso ha una funzione risolutiva nelle varie vicende. Tornando alla famiglia Rostov vediamo subito emergere la figura della giovanissima Natascia, non bellissima, ma piena di spontaneità, di gioia di vivere, di desiderio di amare e di essere amata, e questi sentimenti che le si potevano leggere negli splendidi occhi neri la rendevano affascinante come nessun’altra fanciulla. Natascia ad un ballo imperiale conosce il Principe Andrej Bolkonski che, rimasto vedovo di recente, poiché la moglie è morta dando alla luce il piccolo Nikoluska, travolto dalla disgrazia, crede che ormai la vita non abbia più significato per lui, e partecipa al ballo solo perché non può farne a meno, ma è completamente disinteressato alle numerose fanciulle presenti nel salone. La vista di Natascia, però, è per lui decisiva. Egli si innamora di lei e la chiede in moglie. Prima di sposarsi, però, poiché Napoleone incombe come una nube minacciosa sulla Russia, egli ritiene suo dovere andare a combattere, e Natascia promette di aspettarlo.

Ma Natascia è tanto giovane e tanto bella, e durante l’assenza del principe Andrej si sente tanto sola, e perciò cede al disonesto corteggiamento e alle insidie di Anatol Kuragin, giovane bellissimo e dissoluto il quale, desiderando possederla, stabilisce, con il consenso di Natascia, di rapirla. Il rapimento non avviene grazie al tempestivo intervento di Pierre, grande amico del Principe Andrej che lo aveva pregato di vigilare sulla sua fidanzata, nell’assenza di lui. Pierre agisce tempestivamente, e cerca di soffocare lo scandalo, ma Natascia, avendo compreso la colpa di cui si è macchiata nei confronti del Principe Andrej, desidera solo ottenere il suo perdono. Nella battaglia di Austerlitz il principe Andrej viene gravemente ferito e quindi ricondotto a Mosca nella sua carrozza privata e con l’assistenza del medico personale. Intanto Mosca è ormai quasi deserta, perché tutti quelli che possono cercano di fuggire, per paura dei Francesi che si dice stiano per arrivare. Anche i Rostov fuggono, stipati in un carro in cui ripongono i loro oggetti più pregiati, e accade che il carro che trasporta la famiglia Rostov e la carrozza che conduce il principe Andrej fac-

ciano tappa nello stesso luogo. Natascia, che lo viene a sapere, nottetempo si reca dal Principe Andrej, per chiedergli di perdonarla, e fra i due si riaccende l’antico amore. Natascia dimostra di essere un’abilissima infermiera per il Principe Andrej, che però, dopo una breve fase di miglioramento, all’improvviso peggiora: egli diventa paurosamente indifferente a tutto, e dà chiari segni di non potere, o non volere più vivere, perché l’anima sua non lotta più contro la morte, ma contro il corpo da cui vuole liberarsi. Ed infatti egli muore quietamente e serenamente, lasciando nella disperazione Natascia. Ma, dopo qualche tempo, il cuore di Natascia, inaridito dal dolore, sembra ricoprirsi di un nuovo terriccio vitale: ella ritorna alla vita grazie all’amore che Pierre da tanto tempo nutre per lei, e che non aveva mai osato dichiararle. A “Guerra e pace” seguì “Anna Karenina”, romanzo completamente diverso per contesto e per intreccio. Infatti il contesto storico, non particolarmente accentuato, è decisamente più recente di quello nel quale si muovono i personaggi di “Guerra e pace”, e la trama riguarda un amore illecito, un amore colpevole che sorge, sponta-

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neo e irresistibile, tra Anna, moglie di Aleksey Karenin, alto funzionario statale, e l’affascinante scapolo principe Wronski. Questo amore coglie i due a prima vista, quando casualmente si incontrano alla stazione di Mosca, ma purtroppo nasce accompagnato da un fosco presagio. Infatti, proprio mentre Anna e Vronski fanno conoscenza, un ferroviere muore travolto da un treno in arrivo, avendo messo il piede in fallo ed essendo caduto fra i binari. Superato il turbamento dovuto a questa disgrazia, con il susseguirsi degli incontri l’amore tra Anna e Vronski diventa sempre più forte, ma è un amore tutt’altro che tranquillo, perché Anna è tormentata dalla gelosia, e spesso è turbata da un sogno ricorrente che la angoscia molto, al quale non riesce a trovare spiegazione. E una sera lei confida questo suo sogno a Wronski: dice di sognare un contadino che lavora ad un paio di scarpe in un angolo buio, ed intanto biascica fra sé alcune parole in francese, e lei, Anna, non sa neanche perché ne abbia tanta paura. Intanto, con il passar del tempo, Anna diventa sempre più triste e sola: lei ormai ha rinunciato a tutto: alla sua posizione

sociale, ed anche al figlioletto tanto amato per stare con Wronski, ma comprende bene che tutti i sacrifici gravano su di lei, che ha una posizione irregolare che non le permette di frequentare la società, mentre Wronski, che non intende rinunciare alla sua libertà, si dedica volentieri agli sports e alle riunioni politiche, ossia a tutto quello che gli permette di uscire da casa e stare lontano da Anna, la cui gelosia è ormai diventata per lui asfissiante e fonte di numerosi litigi. Per questo, dopo l’ennesima partenza di Wronski che va a trovare la madre, ma che ad Anna sembra motivata solo dal desiderio di allontanarsi da lei, anch’ella si reca alla stazione per raggiungerlo. Ma all’improvviso nella sua mente si accende un lampo: ecco il modo per punire l’amante che lei ritiene infedele. Il ricordo della disgrazia ferroviaria che segnò il loro incontro, e l’immagine paurosa e ricorrente del ciabattino fanno il resto, e lei si lascia cadere sui binari di un treno in arrivo. Dopo Anna Karenina, che è un romanzo d’amore, di tutt’altro genere sono le riflessioni che impegnarono Tolstoj nel 1880. É questo l’anno, infatti, che egli chiama l’anno della sua conversione morale, del suo ritorno al Vangelo

nella maniera più autentica, tanto che Tolstoj divenne inviso alla Corte Imperiale e fu scomunicato dal Sinodo russo come eretico e ateo. Questa sua crisi spirituale e, insieme, l’atteggiamento critico che egli aveva assunto verso le autorità del suo Paese sono ben presenti i n “Resurrezione”, romanzo pubblicato nel 1899, i cui proventi, secondo Tolstoj, dovevano essere destinati ad aiutare un gruppo di evangelici russi dissidenti a fuggire dalla Russia per emigrare in Canada. La cosa poi non avvenne, ma in tutto il romanzo è evidente la critica alle leggi costituite, perché esse colpiscono i più umili e i più poveri. Il protagonista di “Resurrezione” è il principe Nechliudov, il quale, non ancora completamente guasto dalla vita indolente e comoda che da tempo conduce, viene casualmente a sapere che una fanciulla di nome Katiuscia, una graziosa cameriera da lui conosciuta in giovinezza, dapprima amata di un amore rispettoso e puro, ma poi sedotta e abbandonata a se stessa, è diventata prostituta e, ingiustamente accusata di omicidio, è condannata ai lavori forzati in Siberia. Nechliudov ritiene che la causa della triste situazione di Katiuscia sia sua, e decide di redimer-


la, anche a costo di sposarla. Egli inizia a frequentare il carcere per porgere aiuto a Katiuscia, che intende accompagnare in Siberia, ma così conosce anche altri detenuti i quali gli rivelano le violenze di cui sono fatti oggetto, pur essendo spesso completamente innocenti. Nechliudov cerca di aiutarli come può, ma intanto si prepara a seguire Katiuscia in Siberia, dove dovrebbe giungere la grazia dello Zar, di cui lui ha incaricato un avvocato. Egli, però, è ormai tanto stanco nel fisico ma soprattutto nell’anima a causa di tutte le brutture e le violenze vedute. Finalmente, però, in un capoluogo siberiano giunge la notizia che lo Zar ha concesso la grazia a Katiuscia, e lui si reca a comunicarle la notizia, e a rinnovare la richiesta di sposarla. Ma, con sua grande sorpresa, Katiuscia, pur ringraziandolo, rifiuta di sposarlo, perché dice di avere accettato un’altra proposta di matrimonio, quella del detenuto politico Simonson, persona eccellente e onesta oltre ogni dire. Ma a Nechliudov basta uno sguardo per comprendere che Katiuscia, pur amandolo (e forse pur avendolo sempre amato) sposa un altro per ridargli la libertà.

E così Nechliudov è di nuovo libero e solo, e dinanzi a lui si prospetta una nuova missione umanitaria: quella di aiutare i carcerati. Ecco, questi sono i temi di carattere umanitario che, ad un certo punto, infiammarono i rapporti tra Tolstoj e Sofia Andreevna. Si può comunque affermare che la coppia, nonostante l’amore reciproco, non aveva mai vissuto una vita tranquilla, perché, come si rileva dai diari di entrambi, fin dall’inizio della vita coniugale frequenti erano stati i contrasti, sempre poi superati perché in realtà l’uno non poteva fare a meno dell’altra. E allora, ci si può domandare, di quale dei due la colpa definitiva consumatasi con la fuga di Tolstoj da Jasnaia Poliana? Se si leggono i diari di Sofia Andreevna, la colpa sembra ricadere su di lui, che viene descritto come un individuo egoista, che sfruttava la moglie la quale era curatrice dei suoi scritti (dovette riscrivere Guerra e Pace per ben sei volte) ed a cui erano lasciate completamente le cure della famiglia e dei numerosi figli, perché lui, il Genio, non aveva tempo di occuparsi di queste cose. Ma dal diario di lui emerge un’altra verità: la figura di un padre amoroso, di un marito che

non tradì mai la moglie, e che ne sopportava con pazienza le crisi isteriche e l’assillante gelosia. Ma quando Tolstoj attuò la sua conversione morale, cambiando completamente stile di vita, abbracciando la dieta vegetariana per compassione verso gli animali, dichiarando di non desiderare lusso alcuno e di non volere possedere alcunché, il conflitto con la moglie si esacerbò. Egli aveva scritto in un testamento di voler lasciare alla moglie i suoi diritti d’autore di tutti gli scritti antecedenti il 1880, ma poi, cambiando idea, espresse la volontà di lasciare tutto al popolo russo. Ciò suscitò un contrasto ancora più forte dei precedenti, perché Sofja Andreevna temeva seriamente che in questo modo la famiglia sarebbe caduta in povertà. Il contrasto tra i due si acuì sempre più. Lei divenne sospettosa al punto di frugare di nascosto tra gli scritti di lui che, proprio per non farglieli leggere, li nascondeva negli stivali. Ma la salute dell’ottantaduenne Tolstoj, nell’ultimo scorcio dell’ottobre 1910, non era affatto buona. Sappiamo, comunque, che la mattina del 27 ottobre egli fece una passeggiata a cavallo in compagnia del suo medico e amico, e che poi tra49


scorse una giornata tranquilla. Però, la notte tra il 27 e il 28 ottobre, egli si accorse che la moglie era entrata nel suo studio e stava frugando fra le sue carte. Da ciò la decisione di Tolstoj di fuggire da casa, ma prima di andarsene, sempre in compagnia del medico amico, lasciò alla moglie un biglietto in cui era scritto: “La mia partenza ti addolorerà, ma ti prego di capire e credere che non posso fare altrimenti. La mia condizione in questa casa è diventata intollerabile.” Tolstoj iniziò così la sua fuga verso il Sud, e precisamente verso la Crimea. O verso la morte? Nessuno potrà mai rispondere a questa domanda. Faceva freddo nel treno, e il medico

provvedeva a riscaldare per lui un po’ di the. Egli intanto guardava l paesaggio dal finestrino e annotava: “La luce del giorno era grigia, ma coloriva lontane betulle e olmi, dove volavano i corvi.” Ma nevicava, e lo scompartimento era freddo. Tolstoj venne preso da forti brividi di febbre, e l’ amico medico constatò che una brutta polmonite si era impadronita dello scrittore, per cui era necessario scendere alla prima stazione. La stazione in cui Tolstoj ammalato scese fu quella di Astapovo, e il capostazione mise subito la sua abitazione a disposizione dell’illustre malato, al capezzale del quale corsero subito medici, figli e amici. Anche la moglie, disperata, accorse ad Astapovo, ma i medici non l’ammisero alla presenza

di lui perché – dissero – temevano che egli ne sarebbe stato turbato. Intanto Tolstoj accettava con ubbidienza tutto quello che i medici ritenevano opportuno dargli, e sopportava serenamente le sofferenze provocate dalla malattia. Intanto, ad Astapovo, si erano radunati i maggiori corrispondenti dei giornali russi, fotografi e perfino cineoperatori, per cui si può ben dire che la morte di Tolstoj è stata la prima morte avvenuta in diretta, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione. Tutti costoro sostavano, in attesa di notizie, nei pressi della casa del capostazione. E la notizia giunse all’ alba del sette novembre. Era un’ alba grigia e nebbiosa. Qualcuno uscì dalla casa del capostazione e annunciò: “Tolstoj è morto.”

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ORB, “musica liquida” Stefano Napolitano

ORB, la musica elettronica di Alex Patterson

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Londra, alla fine degli anni 80, il tastierista Alex Paterson inventa la sigla ORB con la quale firma le proprie composizioni elettroniche basate su campionamenti ed effetti sonori creati in studio. Si tratta di un collage dove sopra un ritmo technodance si alternano voci, rumori e melodie di ogni genere, non dissimili dalle sonorità dei Massive Attack, che attraverso l'elettronica, si ispirano al Soul Reggae e all’ambient. Gli ORB - la parola intende piccole sfere somiglianti a globi di luce che si possono vedere nell'obiettivo di una macchina fotografia - nella loro prima fase, furono inspirati a uno spacerock di grande creatività, qualche critico arrivò a supporre che Paterson avrebbe potuto ereditare il titolo di “Pink Floyd del nuovo millennio”. I primi esperimenti in fatto di composizione, porteranno gli ORB a sondare quella che verrà definita “musica liquida”, pezzi che dimostreranno l'ambizione di compiere un grande "viaggio", fin dentro le pieghe dell'anima. Purtroppo, un eccessivo appiattimento tecnologico produsse uno sterile sinth-pop di scarso valore artistico. Oggi il cerchio si chiude: ascoltate questi Merlino dell'elettronica combinare il loro spazio poetico con la chitarra di David Gilmour, dove nell'album intitolato appunto, "Metallic spheres" fanno gridare, se non al mira-

colo, almeno alla nascita di una collaborazione molto ispirata che potrà dare ancora nuove emozioni lunari e ipnotiche. Ascoltando i migliori ORB, e soprattutto i primi due album, si ha la sensazione di una grande fuga dalla sterile quotidianità che ci opprime. Le interlinee melodiche e la ritmica narrativa finiscono per trasportare chi ascolta in una terra di mezzo, fuori dalla coscienza, e la sensazione è quella di guardare un musical attraverso un vetro: niente è come sembra. La loro musica sovverte i ritmi commerciali e come un puzzle ambiguo disegna nella nostra mente una mappa del suono capace di mutare continuamente. Il loro doppio album di debutto “The orb's adventures beyond the ultraworld” ha permesso agli ORB di conquistare le classifiche discografiche del 1991, risultando un prodotto di 51


grande profondità e spessore, capace di sfiorare le corde inquiete dell’animo umano. Il lavoro propone un'unica suite in dieci movimenti. Si segnalano la solare “Little fluffy clouds” e l'ultima parte di “Into fourth dimension” con frammenti di musica vivaldiana e litanie liturgiche in un concerto denso e imprevedibile che ne costituisce l'apice narrat i v o . Il secondo episodio musicale di indubbio valore è “u.f.or”. In questo disco sono presenti universi sonori più astratti e legati alla

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poetica ambient, attraverso lamenti astrali che danno l'idea di un blues spettrale con atmosfere urbane scure e deprimenti. Il terzo album “O.O.B.E.” (acronimo di out of body experience) è una miscellanea di sonorità aliene, provenienti da una lontana base orbitale. Il pezzo Blue Room (17 minuti ma la versione su singolo arriva a 40) si impreziosisce della collaborazione di Steve Hillage, ed è una tela sonora di una suggestiva malinconia. Seguiranno altre collaborazioni come quella

prestigiosa con Robert Fripp; non tutte, a dire il vero, saranno testimonianze di altrettanti successi. Gli ORB, in ogni caso, dimostreranno anche di essere in grado di riprendere i discorsi interrotti, e il loro sound è sempre capace di servire uno scacco matto, come in una sorta di rivelazione che è il ritratto del loro ultimo viaggio.


Poeta, dove vai? Luciano Somma

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er chi come me, fin dai primi anni dell’infanzia, si è cibato di versi scrivendo ininterrottamente fino ad oggi, trovarsi impaludato in migliaia di siti internet e leggendo ciò che scrive la maggior parte in poesia, sia come contenuti sia soprattutto come stile, è restare a pensare se poi ne è veramente valsa la pena pubblicare chilometri di parole per costatare che alla fine nasce un interrogativo di delusione: Poeta, dove vai? Gira e rigira ci si ritrova sempre con gli stessi contenuti, valori familiari, amore, natura, sentimenti, ansie, condite con varie salse ma tutti dallo stesso sapore in forme che con la poesia, quell’intesa Vera e che resta nella mente del fruitore, hanno ben poco da spartire. Buona parte di chi fa poesia è convinto che basti scrivere un pensiero, come un articolo e mettendo una frase sull’altra, è avere scritto una lirica, prosodia, metrica e stilistica sono termini che poco importano avere studiato o averne immagazzinato almeno un’infarinatura, a loro basta il complimento, spesso suggerito dall’affettività, del parente più vicino, a spingerlo non dico prima a pubblicare, come si faceva tanti anni fa su un periodico cartaceo ed ora, con l’avvento d’internet, on line, ma addirittura a mettersi alla ricerca spasmodica dell’editore di turno: Questi, nella maggior parte dei casi, se si tratta d’uno importante non lo pren-

I vani sogni di gloria di tanti poeti improvvisati derà nemmeno in considerazione, se è Premio uno stamdi patore gli Poesia chiederà una cifra tot per un certo numero di 1° Classificato copie e l’autore penserà di aver toccato il cielo con un dito e di aver raggiunto l’agognato traguardo di entrare far parte, di diritto per giunta, nella schiera dei maggiori poeti contemporanei. Ho sempre sorriso quando ho appreso che un insegnante, tanto per fare uno dei numerosissimi esempi, andando in pensione si è svegliato una mattina col desiderio di diventare poeta, magari a 65/70 anni, senza avere in tutta la sua vita mai scritto un verso, e usando le sue reminiscenze scolastiche inizia a scrivere, magari contando sulla punta delle dita sul naso le varie battute decasillabe o endecasillabe, la sua prima poesia su un genitore defunto e si ritrova a sentirsi poeta, sarebbe il meno se mettesse il frutto del suo pensiero in un cassetto, e ci crede a tal punto da inviare subito l’elaborato ad uno dei tantissimi concorsi (se ne contano più d’uno al giorno) con la speranza di arrivare tra i 53


i miei

Versi

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primi. Basterà avere un diploma di merito (un rettangolo di carta non si nega a nessuno…) e dunque si sentirà non solo appagato, ma ne scriverà ancora tanti di titoli per potere poi gareggiare per tentare di vedersi riconosciuta l’aureola del grande vate agli occhi dei parenti e degli amici. É bene sottolineare che la partecipazione a questi concorsi è condizionata al pagamento d’una certa cifra per la partecipazione, seguiranno poi, in caso di segnalazione dell’elaborato inviato, le spese di viaggio, vitto ed alloggio per raggiungere la località della manifestazione (la presenza in molti concorsi è indispensabile pena il non conseguimento del premio in caso d i a s s e n z a ) . Ma si, spendiamoli pure questi 300 o 400 euro, in

totale, si dirà, gonfio come un pavone per quello che ritiene il raggiungimento chissà di quale traguardo senza capire che quel diploma, con targa, coppa o medaglia, che andrà a ritirare, sarà stata dato a decine di altri concorrenti che come lui credono sia quella la strada che porta al successo letterario. Senza ombra di dubbio la strada dei concorsi è importantissima da percorrere ma non certamente per gente che si è improvvisata scrittore o poeta, dalla sera alla mattina ed ad una certa età, bensì per i giovani i quali mettono su carta i loro pensieri che però, a pari passo con gli studi, sanno fare gavetta per uscire dall’anonimato e spesso con grandi sacrifici, e qui la loro poetica sarà sicuramente testimonianza filologica di chi

esaminerà i loro lavori, bussare alle porte editoriali serie, quelle che contano, per immettersi sulla non facile strada della poesia. Sono queste le considerazioni che mi fanno riflettere su un cammino percorso dall’età di 13 anni e che ancora oggi, anche se spesso nella veste di giurato, mi vede presente in qualche concorso anche se da un paio di lustri la mia attività è prevalentemente quella di autore di testi canzoni, appunto perché quella poetica, nei secoli, tranne qualche doverosa eccezione, non ha dato mai pane a nessuno, che mi fanno gridare (a me stesso) poeta, dove vai?

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Una vita nel mistero Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

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tefano Simone debutta con un lungometraggio incoraggiante dopo le buone prove registrate in alcuni corti horror - thriller come Kenneth (2008) e Cappuccetto Rosso (2009). Una vita nel mistero è un film difficile che parla di fede, speranza, amore c o n i u g a l e e d eventi miracolosi, ascrivibile al genere drammatico, sostanzialmente religioso, ma ricco di effetti speciali e di rimandi alla cinematografia di genere italiana. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, è la citazione filosofica presa in prestito da Blaise Pascal per introdurre lo spettatore in un’atmosfera misteriosa. Simone dirige con semplicità e sicurezza una storia sceneggiata in maniera lineare da Emanuele Mattana, senza omissioni e imperfezioni, che ha il solo limite di

alcuni dialoghi troppo impostati. La storia racconta l’amore di una coppia borghese che travalica la vita terrena, i piccoli gesti di tenerezza del marito, la grande fede che unisce entrambi, gli eventi miracolosi che portano prima a una guarigione inspiegabile e quindi alla morte della donna. La pellicola racconta per immagini, tra dissolvenze e visioni suggestive, per una precisa scelta del regista che ricorre al dialogo solo quando non ne può fare a meno. La colonna sonora di Luca Auriemma è fondamentale nell’economia del film, a tratti pare ispirarsi alla musica sacra e riproduce un crescendo di tensione nei momenti decisivi della storia. Simone è bravo anche nel montaggio, perché il film gode di buona tensione - pur non essendo un thriller e lo spettatore segue con trasporto la vicenda. La fotografia è un ulte-

Il primo lungometraggio di Stefano Simone riore punto di forza che induce ad apprezzare i paesaggi marini di Manfredonia e suggestive ambientazioni campestri. La fotografia e la musica sono un mix interessante, studiato nei minimi particolari, una vera e propria fusione di sonorità e immagini priva di sbavature. Lo stile di regia è sobrio ed essenziale, Simone guida gli attori con sicurezza e i due protagonisti (Tonino Pesante e Dina Valente) recitano con bravura, pure se risentono di una impostazione squisitamente teatrale. Stefano Simone mette in pratica tutta la sua conoscenza del cinema fantastico, dimostrando di aver appreso la lezione di Michele Soavi e del suo San Francesco televisivo. Simone è consapevole che non esiste tematica più fantastica che raccontare i miracoli di un santo, per questo guida la macchina da presa alla scoperta di pendole che si fermano, asciuga-

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gale con elementi visionari, onirici e fantastici. Non era un compito facile. Sembra che il giovane regista pugliese abbia studiato a fondo il cinema di Ingmar Bergman, soprattutto Scene da un matrimonio (1973), ma anche altre pellicole del grande svedese intrise di elementi fantastici. L’incontro del vecchio sulla panchina del parco che si ripeterà in un vicolo oscuro della città rappresenta un importante momento di tensione e lascia indecisi sulla sua natura so-

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mani che assumono forme surreali, nubi che disegnano lotte tra bene e male, fotografie impressionate da eventi anomali e volti di Padre Pio ricavati da molliche di pane. I tempi del film non sono dilatati, se esclu-

diamo qualche passeggiata di troppo e un paio di sequenze inserite per raggiungere i tempi canonici di un lungometraggio. Simone riesce a fondere una forte tematica minimalista come quella dell’amore coniu-

prannaturale. La finestra che si apre, la candela che si spenge, la rivista che si sfoglia da sola sono una serie di episodi che servono a far capire l’evento miracoloso. Vediamo l’immagine di un cuore ricavata da una


goccia di caffè, il fazzoletto piegato che sembra un angelo, il telefono che squilla a vuoto. Il fantastico è fuso con un tenero amore coniugale, ricco di fede (sarà lui a darci la forza, non ci abbandonerà), preghiera e devozione a Padre Pio. Simone è consapevole di girare cinema religioso, ma non lo rende stucchevole e pietistico, la sua è una religiosità pasoliniana fatta di piccoli gesti quotidiani e di grande amore per la vita. Il santo vive insieme alla coppia e lotta al loro fianco contro il male, salva la donna dalla morte per tumore, ma in seguito non può evitare che venga fatta la volontà divina. Nella parte finale apprezziamo alcune scene di puro cinema horror che Simone inserisce con bravura. In un negozio di scarpe appare e scompare un frate fantasma, personificazione della morte, che successivamente torna a sconvolgere i sogni di moglie e marito. La parte onirica che porta alla morte della donna è ben fatta, possiamo dire che si tratta di ottimo cinema fantastico ricco di suggestioni orrorifiche. Vediamo il male che lotta contro il bene, ma questa volta Padre Pio non può sconfiggere la morte perché l’ora della separazione terrena è giunta. Gli effetti speciali sono ottimi, la scena madre colpisce a dovere e lascia in sospeso lo spettatore

sui motivi del decesso. Rivediamo il marito al cimitero mentre compie i gesti d’un tempo e compra rose rosse per la moglie scomparsa. Ritorna il frate, rappresentazione della morte, segue l’uomo nel parco, scompare e infine si allontana nel sole. “Dio è ovunque”: una religiosità francescana mo stra l’immagine di Padre Pio anche nel pane quotidiano. La solitudine del protagonista è totale, anche se resta il ricordo della moglie, unito al grande

amore per la fotografia e a una fede potente. Una vita nel mistero è un buon lavoro di esordio che fa ben sperare per le future prove di Stefano Simone, regista caratterizzato da una marcata vena horror - fantastica. Il giovane regista pugliese ci consegna un’opera che va oltre le classificazioni di genere, utilizza momenti onirici e visionari, ma riesce anche a far pensare.

Una vita nel mistero

SCHEDA DEL FILM Origine: Italia. Anno di produzione: 2010. Durata 86’. Genere: Drammatico. Formato: 16:9 widescreen (1.77:1). Audio: Stereo PCM. Regia: Stefano Simone. Soggetto e Sceneggiatura: Emanuele Mattana. Musiche: Luca Auriemma. Fotografia e Montaggio: Stefano Simone. Costumista: Dora De Salvia. Produzione: Jaws Entertainment. Interpreti: Tonino Pesante, Dina Valente, Francesco Granatiero, Don Antonio D’Amico, Cosimo S. Del Nobile, Lello Castriotta, Amilcare Renato, Grazia Orlando, Sabrina Caterino. 57


Prima di... Nancy Cultrera e Roberta Pappalardo

Si è appena concluso il primo concorso BraviAlunni, indetto da BraviAutori con la partecipazione della Professoressa Angela di Salvo. I concorrenti in gara, tutti iscritti al liceo classico, si sono misurati sul tema “Il destino”. Vi proponiamo il racconto vincitore del concorso.

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a pioggia sbatte sui vetri. È ottobre ma sembra di essere a dicembre inoltrato. Fuori gli alberi si muovono convulsi, le strade sono fiumi di acqua e fango. Vedo qualche macchina ferma davanti ai grandi cancelli delle ville irlandesi. Queste case così composte e perfette, con i giardini sempre curati e verdi, sembrano tutte uguali. Il buio e la pioggia le rendono inquietanti, ne deformano i contorni. La pioggia scende dai tetti rossi, pare quasi di essere in un videogioco. Tutto si amalgama con il resto. Dentro ogni casa tante persone vivono esistenze diverse, eppure in questa notte buia e piovosa siamo tutti uguali. Sono sola. La casa è buia, nessun rumore, solo il vento impetuoso e i vetri che sembrano infrangersi sotto il peso della grandine e dell'acqua. Guardo fuori, osservo le cose nei dettagli. Non è una cosa che ho sempre fatto, anzi, di solito si guarda distrattamente in giro, non si osservano accuratamente le cose semplici che ci

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BraviAlunni Il racconto vincitore del concorso BraviAlunni 2010

circondano quotidianamente. Tanto si ha una vita intera per farlo. Ma io una vita intera non ce l'ho. Per questo ho imparato ad amare anche le cose più piccole e insignificanti, così "dopo" ricorderò tutto, mi sarò goduta ogni singola virgola di questo mondo. Eppure mi mancano delle esperienze, delle cose che desidererei ma che non posso fare. Non perché io non voglia, ma perché non posso materialmente. Non ne ho la forza. Perciò in questo giorno di pioggia così triste e uggioso, che si addice appieno alla mia vita, decido di buttare qualche chiazza di colore qua e là nella speranza di lasciare un’ impronta di me come di una ragazza felice e spensierata e non come la piccola malata che fra qualche mese non potrà più muoversi. Accendo la radio, la metto al massimo volume e canto. Ricordo che una volta mio padre, mentre cantavo a squarciagola, mi gridò dal piano di sotto: «Catherine, se vuoi fare la cantante, stai messa male !». E io pensavo che non volevo fare la cantante, no, io volevo fare la scrittrice! Perché avrei lasciato qualcosa di me, avrei messo nero su bianco i miei pensieri e le mie paure, e nessuno li avrebbe potuto più cancellare. Non c’è migliore eredità di noi che quella di affidare i nostri pensieri alla scrittura. Credo di avere un po' il complesso del voler lasciare qualcosa di me agli altri. Ma penso sia normale per una ragazza


malata di cancro che ha solo forse 5-6 mesi di vita. Mentre la musica pompa sulle note dei Nicklblack, ripenso a qualche settimana fa, quando tutto è incominciato, quando la mia vita è cambiata. Non ho praticamente ricordi prima dell'ospedale. So con assoluta certezza che ero a scuola, ridevo, scherzavo e parlavo con le mie compagne di classe e poi ..il nulla. Ho circa tre ore e mezza di vuoto in cui tutto è sprofondato nell’oscurità . Con il senno di poi, ho capito che in quelle ore non ho sognato né pensato a nulla. Era come se fossi entrata in uno stato di catalessi completa. Dopo tre ore, mi sono svegliata ed mi ritrovata stesa su un letto d'ospedale abbagliata dalla luce giallognola dei neon. Dalle finestre non passava nemmeno un filo di sole. Non c’era nessuno accanto a me. Mi sono ricordata che i miei erano fuori in viaggio e che probabilmente non avevano fatto in tempo a tornare prima che mi riprendessi. Dopo qualche ora, un giovane medico con apparente freddezza , mi ha detto che a scuola ero svenuta e che avevo avuto delle convulsioni. Nella confusione generale tutti erano entrati nel panico e non mi avevano soccorsa subito. Il mio cuore si era fermato per circa due minuti e mezzo fino a quando non era arrivato il medico della scuola con un defibrillatore e mi aveva salvata. Devo ricordarmi di ringraziarlo un giorno. Ho chiesto al dottore per quale motivo ero svenuta così improvvisamente. «Avrei preferito parlare prima con i tuoi genitori» dichiarò esitante. «Non ci sono adesso, sono in Italia. Ma parli pure con me. Voglio sapere… e non ho paura di sapere.» Non scorderò mai i suoi occhi. La contrazione delle sopracciglia e il movimento nervoso delle sue mani. Mordendosi con palese imbarazzo il labbro, mi ha informata che avevo un cancro. Forse c’erano stati dei sintomi che avevo sottovalutato perché si presentano spesso in coloro che hanno la

mia d'età. Mal di testa, dolore ai muscoli, vomito, ecc. Non ho pianto e non mi sono dimostrata disperata, come chiunque in quella situazione avrebbe fatto. Ero in paralisi momentanea del cervello. Avevo intuito che stavo per morire, ma non avevo ancora realizzato per bene questa "eventualità". Abbassò gli occhi il medico, e si dileguò con la solita frase «Mi dispiace davvero, ma faremo tutto il possibile. Intanto aspettiamo i tuoi genitori e poi cominciamo la cura al più presto». Nei giorni seguenti a casa incominciai ad analizzare tutta la situazione e a capire che chi è più fragile si dimostra più forte per dare conforto agli altri. Ecco perché ho cominciato a prefissarmi degli obiettivi e delle cose che voglio fare nella vita che mi resta. Quindi, in questo giorno piovoso mi sono seduta sul letto e ho scritto le uniche due cose che voglio davvero provare, che voglio fare prima di morire. Voglio provare a essere come tutti gli altri, per qualche volta. Lista: 1) Bagno a mare in pieno inverno… 2) Guidare la porche di papà (possibilmente senza che lui lo sappia) Finisco di scrivere e guardo la lista. Sono abbastanza soddisfatta. Suona il campanello e vado ad aprire. È Marco. Marco è il mio migliore amico. Siamo cresciuti insieme, si è trasferito dall'Italia quando io ero molto piccola e i nostri genitori sono subito diventati amici. Dal momento in cui ci siamo incontrati, siamo diventati inseparabili. Saliamo nella mia stanza e ci sediamo sul tappeto morbido. Marco è stato il primo a sapere della mia malattia. Penso debba anche essere il primo a sapere della mia lista. Gli passo il foglietto scritto a mano, senza dire niente. Lo guardo e basta. Marco legge attento. Poi alza gli occhi e mi dice: «Sai bene che ti aiuterò, non mi tiro indietro».

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Sulla sua totale disponibilità non avevo dubbi. Marco è stato il primo con cui ho fatto le esperienze che mi hanno segnata di più. «Grazie, lo apprezzo», e gli regalo un sorriso. Uno di quelli che non potrà rivedere più. «Beh, credo sia il caso di mettere in atto il primo punto. Andiamo al mare, preparati», mi dice alzandosi dal tappeto. «Ma come! Così? All'istante?»- ribattei sorpresa. Io sono sempre stata un po' paurosa. Lui invece è coraggioso. «Si, adesso, e quando sennò? Dai che ha anche smesso di piovere. Usciamo, andiamo con la mia macchina.» Mi preparo e dopo 10 minuti salgo sull’auto di Marco. Guida fino alla scogliera, dove ci fermiamo e io scendo. Marco posteggia mentre io lo aspetto. Guardo l'orizzonte. Avrò davvero il coraggio di tuffarmi in pieno oceano a ottobre? Marco mi viene incontro, mi prende la mano e camminiamo sulla sabbia. Mi fermo davanti al bagnasciuga, mi tolgo le scarpe, la felpa e i jeans. Rimango in costume. E cammino verso l'oceano. L'acqua mi bagna i piedi e per un attimo penso: “Ma sono pazza? Sono malata di cancro e mi sto tuffando a mare!” Però continuo, proseguo e

mi immergo del tutto. Non sento le braccia, le gambe e il busto, ma rido, rido, rido. Credo di non essermi mai sentita così viva. Esco dall'acqua completamente gelata e Marco mi avvolge in un asciugamano. Non mi dice niente. Non ci diciamo nulla, rimaniamo così, abbracciati. Tra di noi è sempre stato così, poche parole e tanti gesti d’affetto. La sera rientro distrutta a casa e, dopo una doccia calda, mi metto subito a letto. Ripenso alla giornata di oggi, e mi rendo conto che mi rimane davvero poco tempo. Le stagioni si susseguono, mi ritrovo seduta al solito posto accanto la finestra. Credo di avere una concezione del tempo molto più veloce rispetto a quella degli altri. Passano i mesi ma a me sembrano settimane. Fino a 5 mesi fa la pioggia inondava le strade, la neve si depositava dolcemente sui marciapiedi. Adesso si intravedono i primi raggi di sole, le foglie autunnali sono sparse sulle strade. Se si prova a osservarle, si può notare come i loro colori acquistino una diversa gradazione ogni giorno che passa. Ecco, adesso che fisso tutti i particolari di questa strada, dei tetti tutti rossi e dei giardini verdi e perfetti, ancora una volta mi rendo conto che ho poco tempo. Incomincio ad avere un po' di paura. Non per la morte in sé, ma per quello che lascio, per quello che avrei voluto provare e che invece non proverò mai. Però mi manca ancora una cosa da fare. E penso che adesso, ora che i dolori si sentono acutissimi e che i medici mi imbottiscono di morfina, ora che la mia pelle è quasi trasparente, ora che ho perso


tutte le forme, penso sia giusto per me esaudire l'ultimo desiderio prima che fra qualche settimana io non sia più in grado di farlo. Prendo il telefono e di getto chiamo Marco, ho bisogno di lui. Non risponde. Il telefono squilla a vuoto. Così scendo in garage, mentre a casa ancora tutti dormono e accendo il motore della porche di mio papà. L'adrenalina aumenta mentre ingrano la marcia e parto, destinazione: casa di Marco. Appena mi vede arrivare, lo vedo impallidire, si mostra sorpreso e preoccupato, di certo non capita tutti i giorni che una malata terminale di cancro guidi una porche! Sale subito in macchina con un espressione disperata e eccitata insieme. Guida lui, NON SI FIDA! In Irlanda esistono delle piste dove i piloti principianti corrono con le macchine. Marco si dirige li. Non vuole rischiare la vita e sa che la velocità è una sensazione che voglio provare, non potrebbe mai riuscire a impedirmelo. Arriviamo al circuito, comincia la corsa!! Marco ingrana la prima, la seconda… la velocità aumenta, l'adrenalina sale. Sono schiacciata sul sedile accanto al guidatore. Non ho la forza di ridere ma godo nella mente. È una sensazione mai provata. Guardo fuori dal finestrino e, mentre la macchina sfreccia come un bolide, il paesaggio è diventato solo un miscuglio di colori, il verde l'arancione, il rosso, il giallo, tutti amalgamati. E penso che, se dovessi morire adesso, mi rimarrebbe tutto questo, la percezione di questi colori smaglianti che si fondono fra di loro e con tutto. Dopo questo pensiero… il buio. Mi risveglio dopo tante ore sul solito letto d'ospedale. “Sempre qua sono”, mi dico. Apro gli occhi e c'è Marco accanto a me. Non dice niente, come al solito. Mi stringe la mano e basta. Uno dei suoi tanti gesti

di insostituibile e caro amico. E il suo silenzio strano mi fa capire tutto. Il silenzio vale più di mille parole, così dicono. Chi l'ha detto, ci ha azzeccato. Mi hanno raccontato che il mio cuore questa volta non si è fermato, ma che sono svenuta per l'ennesima volta. Marco ha corso verso l'ospedale mentre ero in preda alle convulsioni. Grazie, porche di papà. La velocità qualche volta forse aiuta. Mi hanno salvata in tempo, ma il mio sangue è infetto. È come se circolasse veleno nelle mie vene. Nelle ore successive, mi imbottiscono di morfina, per non sentire i dolori. Arrivano parenti mai visti, persone conosciute a salutarmi, sorridono, parlano ed è come se mi dicessero addio. Che cosa strana vedere chi prima non ti considera neppure, che poi alla fine vuole venire a salutarti un’ultima volta anche se non te lo dice. Ma le persone più importanti per me sono sempre state vicino a me. Marco, mia madre, mio padre non si sono mossi un solo istante. Sono ancora accanto a me mentre la mia vista si annebbia e non sento più nessun muscolo. Regalo un ultimo sorriso a loro e poi chiudo gli occhi. Non so che mi aspetta…. ma so che ho lasciato un segno di me. Adesso posso anche andare.

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I maestri del fuoco Luigi Cristiano

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“Sono un servitore del fuoco segreto e reggo la fiamma di Anor!” pronuncia in tono concitato ed imperativo il mago Gandalf il Grigio, personaggio ben noto del Signore degli Anelli, confrontandosi con il demone di fuoco Balrog negli oscuri recessi delle miniere di Moria, richiamando così all'attenzione numerose tematiche a sfondo alchemico di cui la non meno importante quella riferita al posto centrale ed elitario occupato nell'Alchimia dal fuoco, in particolare dal Fuoco Segreto. Fin dai popoli primitivi e nostri avi primigeni, secondo la corrente interpretazione della comparsa dell'uomo sul pianeta Terra, il fuoco ha esercitato un'attrazione ed un misticismo particolare. A cominciare dalla scoperta del fuoco per passare al suo utilizzo per manipolare i metalli fino al suo uso per il riscaldamento e per l'illuminazione. Per parlare solo del fuoco fisico, perché in vero esistono numerose altre forme ed espressioni del fuoco, a partire da quello fisico per passare a fuochi più sottili e metafisici. Secondo Pitagora e le antiche tradizioni tutto è regolato dal f u o c o c h e batte il ritmo del sette: i sette colori dell’arcobaleno, le sette note, le sette porte dell’anima, i

I servitori del fuoco segreto ed i maestri dell'arte del fuoco sette giorni della creazione, i sette pianeti, i sette cieli, i sette Chakra o energie vitali, e così via. Anche Ippocrate ricorda come il numero sette, per le sue virtù occulte, tende a realizzare tutte le cose; è il dispensatore di vita e fa parte di tutti i cambiamenti, come la luna che cambia ogni sette giorni. L'Alchimia è per prima cosa l'Arte in grado di manipolare con saggezza ed umiltà il fuoco in tutte le sue forme, tanto è vero che molti maestri alchemici sono noti per aver ricevuto l'altisonante e pregevole titolo di “Philosophus per Ignem”, ovvero di Filosofo per mezzo del fuoco, in quanto nel fuoco, in particolare nel suo dosag-

foto 1 - Segreto del Fuoco


gio, è centrato molto del segreto alchemico, come citato spesso da numerosi autori nella frase ermetica descrittiva dei lavori alchemici: l’Alchimia è come il cucinare delle donne ed il giocare dei bambini! Se prendiamo un qualunque dizionario, la parola fuoco è comunemente riferita alla combinazione di un bagliore brillante coordinato ad una grande quantità di calore emessa durante un rapido processo autoalimentato di ossidazione esotermica, ergo il fuoco produce luce ed energia sotto forma di calore ed è proprio questa m a s s i v a liberazione che l'alchimista deve sapientemente controllare, dentro e fuori dal forno, così come dentro e fuori di sé stesso. Desidero ricordare come l’energia che rende possibile il lavoro alchemico è un’energia radiante, un agente celeste, un flusso cosmico denominato Fuoco Segreto, l'agente trasmutatorio principe di ogni trasformazione in ogni piano di esistenza. “Fuoco Segreto” come terminologia è facilmente interscambiabile con la frase “Segreto del Fuoco” ed ogni piano di esistenza possiede il suo Segreto del Fuoco (foto 1).

foto 2 - Via Secca

Nel piano fisico, ovvero nella materia, abbiamo naturalmente la manifestazione del classico Fuoco fisico, come tutti ne abbiamo consapevolezza. Esso è il fuoco elementare che arde nel forno, su un becco bunsen, come anche la più banale fiamma di una candela, usato con particolare vigore e sapienza nella cosiddetta “Via Secca” alchemica, a contrapporsi alla “Via Umida”. La Via Secca si opera ai fornelli con crogioli di porcellana, grafite o in terracotta refrattaria e vengono utilizzate alte

temperature per la fusione dei metalli (anche fino a 1200-1500 °C) (foto 2) Ma la reale accezione di Fuoco fisico non è solo questa. Esistono altre due forme di Fuoco fisico ed esse sono: il Fuoco Astrale, ovvero l’irraggiamento celeste proveniente dal Sole (ma anche dalla Luna e dalle lontane Stelle), che non veicola solo l’energia infrarossa dello spettro elettromagnetico delle onde fisiche (che ci permette di esperire la percezione del calore), ma anche il principio vitale conosciuto in maniera

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eccellente dalle filosofie e religioni mistiche orientali come Prana, Ki, Chi, C’hi ed ereditato dall’Occidente come energia orgonica, bioplasma o energia vitale. La terza forma di fuoco fisico, ma non meno importante, è quella che potrebbe essere chiamata Fuoco Segreto elementare, che si può evincere in modo squisito durante una qualunque reazione esotermica da laboratorio, come quella che si ottiene sciogliendo l’idrossido di sodio in acqua distillata, che pur non producendo fiamma evidente, produce energia sottoforma di calore. Nel piano emozionale troviamo essenzialmente due manifestazioni strettamente correlate del fuoco come Fuoco emozionale: il Fuoco Segreto emozionale esoterico (cioè invisibile agli occhi) che si può percepire molto bene quando si provano forti emozioni come l’amore o la rabbia. Le emozioni, soprattutto quelle intense, sono in grado di veicolare una g r a n d e quantità di energia e ‘bruciare’ come un fuoco l’animo u-

mano, sia come fuoco generativo, nel caso della gioia e dell’amore, che come fuoco distruttivo, nel caso della rabbia e dell’ira. Di seguito esiste il Fuoco emozionale essoterico (cioè visibile) che deriva dal precedente e s i evince perché manifestato dalla pelle come rossore e calore, soprattutto al petto e al volto, quindi è essenzialmente Fuoco Segreto emozionale esoterico liberato verso l’esterno del Sè. Qualunque persona innamorata, per fare un esempio, è in grado di provare questo fuoco dentro di se, che parte dal cuore e si irradia dal volto quando è insieme alla persona amata. Lo stesso dicasi per una grande gioia. Avere un buon equilibrio dei chakra del corpo, in particolare una buona apertura del chakra del cuore, o

Anahata Chakra, permette di riconoscere, comprendere e dirigere il Fuoco Segreto emozionale esoterico come una pura onda e sensazione di calore e amore nel petto, unita ad una sensazione di gioia e pace. La pratica costante e disinteressata da speculazioni economiche del Reiki così come di altre tecniche affini, permette di stimolare la presa di consapevolezza sul chakra del cuore (foto 3). Nel piano mentale vi è un unica forma di fuoco, quello che potrebbe essere definito Fuoco Segreto mentale, il fuoco delle idee che guidano l’individuo verso un obiettivo specifico oppure il fuoco dei più alti principi morali ed intellettuali. È un fuoco legato alla volontà umana e al potere intrinseco dell’intuizione e dell’intenzione. Si pensi

foto 3 - chakra del cuore


ai più grandi rivoluzionari mistico-intellettuali della storia, a cominciare da Gesù Cristo, per passare a Giovanna d’Arco f i no al v en era b il e Mahatma Ghandi, che con le loro azioni oltre a dare un esempio importante di alchimia sociale hanno segnato profondamente l’inconscio collettivo e la mentalità del genere umano, fornendo esempi di forza di Fuoco Segreto mentale da cui trarre insegnamento ed ispirazione. Nel piano spirituale il Fuoco Segreto spirituale si manifesta come puro stato di estasi, condizione di particolare trance mistica esperita da molti Santi e mistici di tutto il mondo, nonchè simboleggiata in Alchimia dall’ardente Fenice (foto 4). Alcune tecniche particolari di meditazione e situazioni di intenso coinvolgimento psicosensoriale, come pure una frequente e disinteressata opera di Servizio senza aspettative, ne possono di certo stimolare l’esperienza personale. Una tiepida percezione di questo fuoco la si ha quando ci sentiamo collegati con tutto ciò che ci circonda, con la magia dell’intera Creazione, dove cadono le barriere psichiche e percettive fra il Sè ed il resto del mondo. Usare correttamente questo fuoco permetterebbe di raggiungere particolari

consapevolezze e stati vibrazionali elevati dell’essere, aprendo all’uomo le porte della Conoscenza Segreta, via diretta per la vera Illuminazione e per destinazioni leggendarie come l’Eden, Shamballa, Shangri-la ed il Nirvana, per non parlare dell’Ascensione. Raggiungere la consapevolezza per usare correttamente tutti i fuochi dell’essere è la meta finale del percorso alchemico e sotto questa luce appare chiaro come raggiungere il Donum dei voglia dire diventare veri e propri Maestri del Fuoco Segreto e ciò contraddistingue chi serve il fuoco come i soffiatori, oppure chi si serve del fuoco, come i veri Artisti. E per concludere, la verità è che nessuna religione, filosofia, libro, sistema politico o casta elitaria o setta mistica possiede di per se tutte le chiavi, le tecniche e le conoscenze per i s t r u i r e l’aspirante fuochista a raggiungere la meta ultima del percorso Alchemico. L’unico modo per diventare novizi e poi Maestri del Fuoco è di

porre attenzione ed osservare la Natura e soprattutto sè stessi. Il forno è l’essere umano stesso e la materia prima non è altro che l’anima. Impariamo tutti a guardarci dentro, a trovare dentro di noi la vera Luce e donarla al mondo. Sta a noi non cascare nella maya, nell’illusione della divisione, della separazione e ripercorrendo la via del Fuoco a ritroso sapremo riunire, ritrovare l’armonia e finalmente tornare all’Uno. Solo così potrà compiersi l’ultima grande rivoluzione umana, quella dell’anima, tanto attesa nei prossimi anni, che porterà il mondo medievale attuale dall’oscurità alla vera luce.

foto 4 - l’ardente Fenice

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L’uovo del Diavolo Alessandro Cal

i racconti di BraviAutori Il racconto vincitore della GARA 17 del forum Bravi Autori

S

ono seduto in terrazza, e mentre un'ape si coccola sotto un sole incredibilmente caldo per essere ai primi di Novembre, penso a quanto sia strana la vita. Così, all'improvviso, mi è venuta voglia di mangiare un paio di uova, ma non di quelle comprate al supermercato, grosse come pomodori, ma che come i pomodori sanno di acqua e sono pallide come lune; il problema è che, quando mi viene voglia di mangiare un paio di uova degne di questo nome, ancora calde di covata, col tuorlo rosso e piccole e dolci come albicocche, mi viene sempre in mente mia nonna. E il suo pollaio. Una volta che ero piccolo (mi ricordo che eravamo in estate perché si stava raccogliendo il fieno e la sera stessa mi era venuta una febbre allergica mica da ridere), la nonna mi aveva ordinato, o mi aveva chiesto, di andare a prenderle le uova. «Mé racomàndi: fa' no cascàr gnànca òna, ve'!» e poi, come sempre, s'era fatta il segno della croce. Io, che ero bambino e molte cose le capivo ma altre no, ero convinto che quella raccomandazione me la facesse perché le vendeva al mercato il sabato pomeriggio e non voleva perdere neanche il duecento lire di un uovo caduto per sbaglio. Il segno della croce era una delle cose che non mi tornavano, ma immaginavo che i vecchi se lo facessero anche quando dovevano accendere

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il televisore o durante le giornate di pioggia, non so se per farla durare o smettere. Entrambe le cose, pensavo. Fatto sta che avevo messo giù la forca ed ero corso in direzione del bosco, con nonna che urlava: «No per di là, no per di là, che s'è pièn di spìn!», riferendosi ai rovi e alle robinie che per me rappresentavano solo avventure e mostri, e principesse legate da lasciar lì a soffrire. Non sono mai stato un gran cavaliere, neanche da bambino. E poi, dal bosco ci mettevo pure meno tempo che a passare per la strada. Il pollaio era piccolo, non certo uno di quegli allevamenti enormi in cui i polli stanno immobilizzati in una gabbia e vivono solo per mangiare, covare, dormire, mangiare, covare, morire. Ne avevamo una quindicina, di galline, e ancora oggi non so quanto darei per sentire di nuovo quel buon odore di guano ed erbe secche e terra


fresca che allora mi proteggeva, silenzioso e sicuro come un padre, dal mondo di fuori. Quando la porticina in legno cigolava per farmi entrare, oltre ai meravigliosi profumi che ho già menzionato, mi accoglieva un chiacchiericcio soffuso che sembrava di entrare in una stanza piena di mamme che cullavano i loro bimbi. I volatili prendevano a fissarmi, curiosi e un po' impauriti: non si ricordavano mai che ero io, né avevano idea di cosa fossi andato a fare da loro. Rispondevano a un solo richiamo: il barattolo pieno di granaglie che agitavo per chiamarli verso di me, e guai se non gliene concedevo una manciata quando erano tutti ai miei piedi a guardare in su. Insomma, una volta che li avevo richiamati dai loro giacigli con il solito giochetto, potevo impossessarmi delle uova di cui ormai si erano scordati. Mentre si accanivano sul terreno coi loro becchi, agguantavo il cestino di vimini e mi davo da fare pure io: c'erano giorni che riuscivo a riempirlo quasi tutto fino all'orlo. E quello era uno di quei giorni: l'ultimo uovo proprio non si decideva a starsene in equilibrio dove lo mettevo. Ora che ci penso, sarebbe stato più saggio metterselo in tasca della tuta o, ancor meglio, tenerlo nella mano libera. Ma non ci avevo pensato, semplicemente. O, semplicemente, era una delle solite sfide infantili che intraprendevo con me stesso. Il punto è che, a un certo punto, mi era sfuggita la presa e l'uovo si era schiantato nella polvere, spargendo il proprio contenuto vischioso in ogni direzione come fosse stato un fantasmino pesto. Qualcuno dietro di me aveva gridato. «Oh Maria Vergine, oh Maria Vergine! Ma cosa hai fato tì, ma cosa!». Mi ero spaventato tanto che per poco non avevo fatto cadere tutto il cestino. Mia nonna era lì, affacciata all'ingresso del pollaio, a disperarsi con le mani sulla fronte, poi con le mani sugli occhi, poi con le mani nei capelli. «Maria Vergine, oh Maria…»

sussurrava senza sosta, e giù segni della croce a ogni sillaba. Io avevo provato a rassicurarla, spiegandole che l'uovo gliel'avrei pagato, che le duecento lire le trovavo senza problemi, ma lei non si calmava e anzi i suoi lamenti diventavano sempre più confusi. Alle "Vergine Maria" si era presto aggiunto un nome un po' più cupo che suonava come "il Diavolo, il Diavolo" e ancora segni della croce, e "Diavolo, Diavolo". Alla fine, in mezzo a tutti quei piagnistei, credo di aver capito che, secondo lei, il Diavolo potesse intrufolarsi nelle uova per poter poi entrare in casa alla gente e che, se l'uovo ti cascava in terra per sbaglio, il demonio veniva fuori e ti si attaccava addosso. Io credevo ai mostri, agli spettri, ai morti che parlano, ma al Diavolo no: ci credevano troppi adulti, al Diavolo. Da quel giorno, comunque, nonna non mi ha più permesso anche solo di guardare da lontano i suoi pennuti o di parlarle prima di avermi bagnato con una certa acqua contenuta in una madonnina cava. L'avevo presa per matta. Poco dopo, siamo stati costretti a comprare un appartamento lontano dalla casa in cui ho passato l'infanzia, per dei motivi che non sto qui a raccontare. So solo che, quando sto sul terrazzo, come ora, e come ora guardo le strade sotto di me serpeggianti di veicoli, e vedo la gente che corre per non pensare alla propria solitudine o sento il puzzo di quella che è diventata la mia vita, basta che un'ape si appoggi su una delle mie piantine perché mi tornino in mente mia nonna, il suo pollaio e quell'odore meraviglioso di cose vive e frementi, incorniciate dal sussurro dei campi che parlano col vento. E il Diavolo, certo, lui non me lo scorderò davvero più. Quello non mi si è mai staccato di dosso. Ho iniziato a credere da molto tempo che esista davvero, il Diavolo. 67


Jane Austen Ylenia Zanghi

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ell'episodio precedente abbiamo parlato dello scrittore che ha introdotto il sesso nella fantascienza. Quindi, cari maschietti, niente storie: ora si parla della zia Jane. Non si conoscono tutti i particolari della vita di Jane Austen (la sorella Cassandra distrusse quasi tutte le sue lettere non appena la fama, sebbene postuma, cominciò ad arrivare: del resto, non si può non pensare che la zia non sarebbe stata affatto contenta che degli estranei leggessero la sua corrispondenza privata). Tuttavia, possiamo conoscerla nel modo migliore, attraverso le sue opere: “Jane Austen pervade di sé ogni parola che ha scritto, proprio come fa Shakespeare”, dice Virginia Woolf e chi siamo noi per contraddirla? Di certo la Austen fu capace di trarre da una vita non particolarmente avventurosa, fatta di passeggiate in campagna, balli e visite ai vicini (è sempre la Woolf a ricordarci che “era impossibile per una donna andarsene in giro da sola”) il materiale per dei romanzi che hanno fatto la storia della letteratura, dipingendo l'ambiente in cui viveva e i personaggi che lo abitavano con un'incon68

Ritratti di donne realizzati con ironia da una grande autrice fondibile e impareggiabile ironia. Lo scrittore inglese Ford Madox Ford scrisse che la Austen lo faceva sentire come se stesse “davvero seduto su una poltrona a Mansfield Park […] in compagnia dei personaggi”. Rispetto alla sterminata produzione di Farmer, la musica è decisamente cambiata: della Asten abbiamo solo sei romanzi canonici. Ma questi sei romanzi sono bastati a renderla la scrittrice più amata della letteratura inglese. Parliamoci chiaro: per le vere appassionate Orgoglio e Pregiudizio non è un romanzo, è IL romanzo.

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO Confessione: ho letto Orgoglio e Pregiudizio almeno duecento volte. Un lessico da perdere la testa: parole come “laddove”, “iattura”, “tripudio”. Patisco le pene dell'inferno: Elizabeth e il Signor


Darcy vivranno insieme? Leggilo, ti piacerà. [C'è post@ per te]

Chi non ha mai sentito parlare di questo classico inglese? Le sue rivisitazioni, sia letterarie che cinematografiche, sono numerosissime e ancor di più sono le citazioni di questa romanticissima storia (come non citare il Mr Darcy di Bridjet Jones?). Curiosando tra le recensioni anobiane (il mio vizietto) ho trovato una frase a effetto che non potevo non riportare: “la storia perfetta dell'incontro tra due anime imperfette”. Non commettiamo però l'errore di pensare che si tratti di un romanzo rosa. Al contrario, affronta tutti i temi tipici della Austen: il rapporto tra i sessi, il ruolo della donna, l'influenza che fattori economici e sociali potevano avere nel determinare la scelta del matrimonio. Non voglio certo risparmiarvi le pene dell'inferno raccontandovi come andrà a finire ma non posso non parlare della crescita interiore e della maturazione dei due protagonisti nel corso del romanzo: l'orgoglio di lui e il pregiudizio di lei (ma anche il contrario) verranno duramente colpiti, entrambi cominceranno a capire meglio sé stessi e gli altri, impareranno dai loro errori anche dolorosamente, a volte. Il contesto sociale non sarà dei più favore-

JANE AUSTEN Jane Asten nacque il 16 Dicembre 1775 a Steventon, nell'Hampshire, settima degli otto figli del reverendo George Austen e di Cassandra Leigh. Fu per lo più istruita in casa, anche se lei e sua sorella Cassandra furono mandate per breve tempo in collegio (e non lo gradirono molto). Gli Austen erano amanti della letteratura (il reverendo possedeva una biblioteca di ben 500 volumi) e Jane era una lettrice vorace: incoraggiata dal padre, cominciò a scrivere ancora giovanissima. Pare che fosse molto legata ai suoi fratelli e in particolar modo a Cassandra, soprattutto dopo la morte del fidanzato di questa, Tom, nel 1798. All'età di ventisei anni si trasferì a Bath coi genitori e la sorella, in seguito al pensionamento del padre. Alla morte di questi, nel 1805, le tre donne dovettero lasciare la città a causa di difficoltà finanziarie; da allora cambiarono più volte residenza: Southampton, Chawton, Winchester. Nel 1815 la scrittrice cominciò a manifestare i sintomi del morbo di Addison, che l’avrebbe uccisa (la malattia all'epoca non era conosciuta, per cui non poteva essere diagnosticata e curata). Nell’aprile del 1817 fece testamento lasciando tutto alla sorella Cassandra e il 18 Luglio 1817 morì. Fu seppellita nella cattedrale di Winchester. voli (la media e l'alta borghesia verranno tratteggiate più che efficacemente dalla Austen che affianca alla storia d'amore una “commedia di costume”: le sorelle Bingley, Lady Catherine, Mr e Mrs Bennet, Mr Collins ci inseriscono subito nell'ambiente, mostrandoci una società basata sulla nascita, sulle parentele e sulle rendite), questo però non ci impedirà di sorridere cogliendo la già citata ironia nelle parole della zia Jane (“Le visite a Mrs. Phillips erano fonte ora di informazioni estremamente interessanti. Ogni giorno aggiungeva qualcosa alla loro conoscenza dei nomi e delle amicizie degli ufficiali”, “si era trasferito con la famiglia in una casa a circa un

miglio da Meryton [...] dove poteva riflettere piacevolmente sulla sua importanza”). Leggetelo, vi piacerà!

RAGIONE E SENTIMENTO Ho ricevuto una lettera da una mia amica che vive a Parigi. Ha letto un libro bellissimo appena uscito. È intitolato Raison and Sensibilité. [..]La mia amica dice c h e chiunque sia la donna che ha scritto quel libro, ne sa più dell'amore di chiunque altra al mondo. [Miss Austen's Regrets]

Ragione e sentimento è considerato il romanzo “meno perfetto” di Jane Austen (gli altri subirono molte più revisioni). La storia dei due caratteri 69


in contrasto, qui rappresentati dalle due sorelle Elinor (la più assennata) e Marianne (la più passionale) è presente anche in altri romanzi della Austen ma qui diventa il fulcro del romanzo. Da che parte sta la Austen? Da una posizione di equidistanza che le permette di prendere sottilmente in giro tutti i suoi personaggi e forse anche noi, che sceglieremo la nostra “sorella preferita” in base al nostro carattere e alle nostre esperienze (col risultato che, rileggendolo, potremmo accorgerci di preferire invece l'altra). Sullo sfondo delle storie d'amore delle due sorelle riemerge però prepotentemente il ritratto della condizione civile ed economica della donna che in questo caso assume anche connotati biografici (la povertà della madre e delle sorelle dopo la morte del padre a causa della legge che vincola l'eredità all'erede maschio, la tragedia rappresentata dalla mancanza di una dote cospicua).

EMMA La tesi di Jane Austen è che nessuna di queste cose è reale. Emma agisce sulla base delle sue fantasie. [Il club di Jane Austen]

Secondo la critica Beatrice Battaglia, Emma è “un orgoglio e pregiudizio scritto vent'anni dopo”. Invece di farci identificare con la pro70

tagonista, la Austen qui crea un'eroina “antipatica”, che è il primo bersaglio della sua comicità. Emma è vanitosa, capricciosa, viziata, presuntuosa. È un personaggio complesso, amato e odiato dai lettori, capace di reggere un intero romanzo sulle sue graziose spalle. Se volete esprimere il vostro giudizio su questa controversa protagonista, non dovete fare altro che leggere il suo romanzo.

MANSFIELD PARK Ok, sentite: io adoro Fanny! Lavora sul serio e mette sempre la famiglia prima di sé stessa e non smette mai di amare Edmund, mai! [Il club di Jane Austen]

A proposito di eroine controverse: Fanny Price è l'anti-elizabeth (o l'antiemma, se preferite). È modesta, virtuosa, lontanissima dalla vivacità intellettuale della signorina Bennett. I fan della Austen si spaccano: Fanny è una fanciulla dolcemente ingenua o una pedante ragazzina noiosa? Se appartenete alla seconda schiera, forse potrà consolarvi l'idea che la critica più recente ha proposto un'interpretazione rovesciata di Mansfield Park, secondo cui il romanzo non sarebbe altro che una parodia dei conduct books dell'epoca e la voce narrante del romanzo in realtà sposa la prospettiva moralista e patriarcale per farci ve-

dere quanto restrittiva e “immorale” essa sia.

L'ABBAZIA DI NORTHANGER Qui la Austen, giovane scrittrice, mette in discussione sé stessa. Che cos'è un'eroina? Qual è un buon soggetto? I romanzi sono una perdita di tempo? Devo mettermi a scrivere? E che devo scrivere? [Il club di Jane Asten]

L'abbazia di Northanger è il primo romanzo di Jane Austen, pubblicato postumo nel 1818. Qui la parodia è evidente e sfacciata e a esser presi di mira sono i generi più in voga: il romanzo sentimentale e quello gotico, in particolare I misteri di Udolpho, di Ann Radcliffe, esplicitamente citato dai personaggi ma anche certi aspetti più cupi di Jane Eyre. La protagonista, bruttina, sciocca, priva di carisma, ci viene presentata, già dall'incipit, in modo quasi sarcastico “Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua prima infanzia avrebbe mai supposto che il suo destino sarebbe stato quello di essere un'eroina. Tutto era contro di lei: la posizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo aspetto fisico e perfino le sue inclinazioni.” e per tutta la durata del romanzo, la voce narrante continuerà a lamentarsi della sua mancanza di eroicità.


L'autrice si profonde inoltre in un'appassionata difesa del romanzo (“Sebbene le nostre produzioni abbiano fornito piacere assai più vasto e costante di quanto non abbia fatto qualsivoglia altro genere letterario al mondo, nessun'altra composizione è stata mai altrettanto denigrata”). Un romanzo che parla di romanzi e del romanzo, come opera prima, non è cosa da poco (anche se è stato rivisto in seguito dall'autrice) e L'abbazia di Northanger, anche se non sarà il libro più famoso della Austen, resta sicuramente il più divertente.

PERSUASIONE - È bellissimo. - Ah, sì? - Sì. È un libro sull'attesa, con due persone che si incontrano e si innamorano ma al momento sbagliato e si devono separare. Ad anni di distanza si rivedono e hanno un'altra occasione, solo che non sanno se è passato troppo tempo... La lunga attesa, sai, può aver cambiato le cose... - Perché ti piace? - Non lo so! - Non mi fraintendere, è bellissimo, è solo... è terribile! - Sì, lo è! È una tragedia! [La casa sul lago del tempo]

Persuasione è l'ultimo romanzo di Jane Austen (e l'unico il cui titolo non è stato scelto dall'autrice, che era morta prima

della pubblicazione). Oltre alla consueta critica sociale (spietato il ritratto dell'aristocrazia che la Austen realizza con gli Elliot), questo romanzo presenta delle novità e delle peculiarità che lo distinguono da tutti gli altri. È, se vogliamo, il più romantico. La voce narrante sposa in pieno il punto di vista della protagonista e sembra condividerne pensieri e opinioni. Il tono del romanzo è modellato sulle caratteristiche dell'eroina, Anne, la più “umana” delle protagoniste austeniane, che nel libro affronta un percorso di crescita che la porterà finalmente a non dipender e p i ù d a l l a “persuasione” altrui ma a fidarsi del proprio giudizio (“era stata costretta a essere prudente da giovane, ma crescendo aveva imparato a essere romantica: naturale conseguenza di un inizio innaturale”). Alla fine della sua esistenza, la Austen scrive un romanzo sulle seconde occasioni, che lei non aveva avuto e che invece Anne e Frederick otterranno e sapranno sfruttare. È il romanzo più incentrato sulle sensazioni ed emozioni della protagonista (una parola detta da lui occupa molto più spazio che intere conversazioni con altri, nella mente di Anne così come nelle pagine del libro), il più attento alla fisicità (Anne non cambia solo psicologicamen-

te nel libro, anche il suo corpo si risveglia). Anche se Annie è molto più timida e obbediente di Elizabeth, alla fine sarà proprio lei a prendere in mano il suo destino, a rendersi responsabile delle proprie scelte, a fare “il primo passo” (e il secondo e il terzo), perché anche Anne è, in fondo, un'eroina femminista e l'opinione della Austen sul ruolo che la donna dovrebbe avere non è certo cambiata (i coniugi Croft ne sono la prova: per la prima volta la zia si passa lo sfizio di raccontarci una coppia in cui è lei a tenere le redini del calessino, una donna capace di discutere di contratti come un uomo, anzi, meglio di molti uomini!). Infine, chi non si è sciolta leggendo la lettera in cui il Capitano rivela finalmente i suoi sentimenti? Per concludere: chi ha già letto la Austen non ha certo bisogno che sia io a consigliargli di rileggerla, tutti gli altri, invece, farebbero meglio a darsi una mossa, ché ne vale davvero la pena (sì, anche gli uomini! Basta pensare che la Austen ha scritto romanzi rosa!). Io vi saluto e vi do appuntamento al prossimo numero. Ringrazio il Jane Austen Bookworm Club per il supporto che mi hanno dato gli iscritti.

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Roberta Guardascione BraviAutori

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ero inchiostro, il nero profondo del cielo notturno, del mare nell’oscurità tagliato a tratti da fugaci bagliori di luce, in cui si muovono corpi nudi e sedotti dal buio. Le opere di Roberta Guardascione nascono da un contesto letterario e decadente. Da sempre affascinata dal mondo della celluloide ne riprende i ritmi ed il linguaggio, cristallizzandolo in illustrazioni cupe ed affascinanti, dai tagli cinematografici. É costantemente alla ricerca di un modo di raccontare il proprio mondo interiore, quel luogo fatto di ricordi e sogni, talvolta incubi, e cerca di trasportarli sopra fogli immacolati, sulle tele, sui muri, creando una dimensione parallela in cui far muovere i propri personaggi, plasmati da luce e ombra. Un artista dagli slanci moderni ma che mantiene una solida struttura classica, capace di affondare le sue radici nelle antiche illustrazioni di vecchie fiabe, di libri dimenticati in polverose soffitte, consumati dall’umidità e dal tempo. Fiabe cupe ricche di metafore sulla condizione umana, sospesa tra la ricerca dell’amore e la consapevolezza della morte. Un contrasto evocato dai chiaroscuri delle sue opere, nelle quali la ricerca della luce non fa altro che rendere i neri ancora più profondi. 72

Artista dagli slanci moderni con una solida struttura classica È un incontro fatale, amore e morte trasformati in immagini, in equilibrio perfetto, come gli acrobati del circo che volteggiano leggeri sui loro trapezi, consapevoli del baratro che si apre sotto di loro, dal quale possono essere risucchiati al minimo errore. Le immagini del circo sono una costante fin dalle opere giovanili, quelle scolastiche di quando era ancora una studentessa dell’Accademia di belle arti. L’influenza dei film di Wim Wenders e delle opere del periodo blu di Picasso è molto forte. Il circo racconta la condizione dell’uomo, l’equilibrio tra il mondo interiore e la realtà che fa da pallido sfondo. Nell’illustrazione “La donna cannone” la leggerezza si fa beffa della mole della protagonista che si china al suolo con una grazia degna di un esile ballerina, il suo peso appartiene ad una

La donna cannone


realtà che gli è del tutto indifferente, il suo spirito è leggero. Lo studio della grafica pubblicitaria e della fotografia al liceo e poi della pittura all’accademia hanno reso la sua formazione completa, da una parte il rigore nell’equilibrio compositivo e dall’altra schemi visivi aperti a nuove prospettive, rifacendosi a concetti che appartengono alla filosofia surrealista. L’incontro tra la grafica e la pittura ha generato il suo amore per l’illustrazione che si nutre di entrambe le discipline, ma che abbraccia anche il mondo letterario. Le fiabe dell’infanzia sono l’impalcatura su cui si costruiscono le sue opere, ma le venature, le sfumature si sporcano di fumo nero, quello che esce dai tombini delle città di notte. I suoi personaggi fremono al suono di chitarre distorte di musicisti sofferenti. Nell’opera “Guitar man” l’inquadratura taglia in due il soggetto e l’immagine appare spezzata, come una foto scattata per sbaglio, in questo caso i piedi del personaggio sono ben saldi al suolo, il contatto con la realtà è solido, ma il resto della figura è assente, è interrotta da un frammento di chitarra che compare in un guizzo metallico. L’essenza del musicista, e quindi

Guitar Man

dell’artista, che si concentra nelle sue mani e nella sua testa, è nascosta, risiedono in un’altra dimensione, quella del sogno. La sua chitarra è in primo piano mentre lui sembra che venga inghiottito lentamente dal buio, in un progressivo abbandono di quella realtà, offrendo all’osservatore il suo strumento, il mezzo con cui comunica, con cui la sua anima si esprime. L’uso di materiali propriamente tradizionali come chine, acquarelli, acrilici e matite caratterizzano le prime opere, mantenendo un rigore legato al passato, rispolverando anche vecchi sistemi di stampa, come l’acqua forte e l’acqua tinta, grazie al suo interesse per un’artista che sul piano compositivo l’ha influenzata profondamente, Gustav Dorè, a cui ha dedicato la sua tesi di laurea. Un punto di partenza che sembra abbia attraversato tutte le epoche

fino ad approdare a quella contemporanea grazie all’incontro con la digital art. La fusione di tecniche manuali a quelle digitali è la ricerca attuale del suo lavoro, fortemente incuriosita dai nuovi linguaggi delle arti visive. Nell’illustrazione “Attraverso lo specchio” la mescolanza di tecniche manuali e digitali ha dato luogo ad un immagine surreale e di grande effetto visivo, ricca di una forte struttura letteraria, a cominciare dal titolo, lampante riferimento all’opera di Lewis Carroll, che fa seguito al celeberrimo “Alice nel paese delle meraviglie”, opera fantastica e “non sense” di fine ottocento dalle delicate atmosfere surreali, che ha sempre affascinato l’artista fin dall’infanzia. L’opera di Roberta, però, rivoluziona in qualche modo l’iconografia classica che vede Alice una bambina dalle gote rosee e il vestitino da bambola, che diventa un’eroina trasgressiva che ammalia l’osservatore con il suo sguardo magnetico, in un immagine che si riflette all’infinito negli occhi di chi guarda, come un desiderio ossessivo, una vanità artificiale e seduttiva che trascina con prepotenza nel buio di una stanza dai parati antichi, arrivando in luoghi oscuri della mente e dell’anima.

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Attraverso lo specchio

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L’interesse al digitale e quindi l’incontro con nuove soluzioni stilistiche, ha cominciato a concretizzarsi maggiormente sulla scia di un progetto a cui tiene molto e che fermenta da anni tra i suoi schizzi, l’idea di creare una grafic novel, fondendo l’amore per l’immagine e della parola stampata, che nasce dal bisogno di raccontare una storia che parli di se stessa e del suo rapporto con il mondo. Il progetto “Robin in the dark”, al quale si dedica tra una commissione e l’altra, nasce da una folgorazione improvvisa, una sensazione che l’investì una sera d’estate in un bar affollato di volti estranei. Tra i mormorii confusi e la musica assordante immaginò la sua Robin, un personaggio alter ego che vive nel mondo parallelo dei suoi disegni, chiusa in una stanza vuota dalla quale non può uscire. Gli unici contatti con il mondo sono l’orologio appeso al muro (chiaro riferimento al tempo come simbolo concreto dell a f u g a c i t à dell’esistenza), che assieme al letto costituisce il solo elemento d’arredo della stanza, e la finestra dalla quale scruta la grande città che troneggia maestosa davanti ai suoi occhi. Numerosi flashback corredano la storia, che si confondono

Alla finestra, robin in the dark

al presente fino a generare un vorticoso intreccio tra il reale e il ricordo, nel viaggio di una mente distorta e sofferente. Il mondo del fumetto offre molte possibilità ad un’artista visivo che concepisce immagini prevalentemente narrative, raccontano storie ma anche riflessioni fugaci, come fotografie. Il linguaggio dell’illustrazione e del fumetto soddisfano entrambe le esigenze, da una parte la condensazione in una sola immagine di un’intera storia, come accade nella fotografia, e dall’altra la scorrevolezza di uno story board, come la pellicola di un film, il fumettista prima che disegnatore deve essere un buon regista. L o s t u d i o dell’anatomia del corpo umano è fondamentale per la sua ricerca, la struttura realistica che serve a plasmare l’illusione di una realtà

tangibile, ma che si tinge di tinte surreali, capovolgendo le leggi della fisica. Un mondo onirico in cui volti corrucciati si defilano alla ricerca della luce, metafora della scintilla interiore, della vita fugace, della leggerezza infantile, ma che è sempre rincorsa dall’ombra perenne e dalla sua pesantezza. Attualmente vive e lavora in una piccola cittadina a nord di Napoli, luogo dalle radici storiche molto antiche, il paesaggio che la circonda è costellato di rovine romane che hanno alimentato profondamente il suo mondo immaginifico, fatto di luoghi fantasiosi e allo stesso tempo spaventosi, la tradizione popolare è pregna ancora della mitologia pagana che ha generato leggende superstiziose e affascinanti che raccontano di streghe e fantasmi. Il monte di Cuma che scorge dalla sua finestra, è un posto legato a molti tabù. Nessuno oserebbe mai andarci durante la notte, troppe storie strane circondano la collina ed il suo bosco, minaccioso come il monte Fato di Tolkien. Lei stessa sembra far parte di una di queste storie, abita in una deliziosa casetta in mezzo al bosco che alla luce del giorno appare eterea e rassicurante, in mezzo ad una natura rigogliosa e fiabesca, ma al calare

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delle tenebre lo scenario cambia radicalmente: le ombre cominciano ad allungarsi, il canto allegro dei passeri ammutolisce al grido sinistro e stridulo della civetta, gli alberi diventano macchie scure, ovunque è tenebra e solo una lucina è accesa, quella della lampada del suo tavolo da disegno sul quale lavora incessantemente, come una strega che prepara pozioni magiche, tra le cose che ama, mentre i gatti si accoccolano sulle ginocchia. L’ambiente in cui è cresciuta ha influito profondamente sul suo periodo paesaggistico, corredato di immagini fiabesche, di boschi nebbiosi con alberi dai rami spettrali. Le illustrazioni di Alan Lee e Brian Froud sono state un’ispirazione costante, assieme alla letture fantasy, spaziando tra autori come Lovecraft, Edgar Allan Poe e Michael Ende. I neri vellutati delle matite e i bagliori velati degli acquerelli creano immagini delicate ma allo stesso tempo pregne di una profonda inquietudine. L’opera ”Le rovine” è un chiaro esempio di questa fase, la nebbia rende il bosco impalpabile, è quasi un sogno, nel quale mura antiche parlano di un passato che langue in un eterno oblio che si liberano dell’impronta umana la-

Le rovine

sciandosi assorbire dalla natura, in un abbraccio materno fatto di arti incorporei, nebbiosi ed evanescenti. L’eterno contrasto tra natura e cultura, rispolverando ideologie romantiche che creano un interessante discorso poetico, caratterizzando interamente la sua produzione artistica, antico e avveniristico mescolati fino a creare un linguaggio intimistico e ricco di significato. Un’artista dai ricchi e interessanti contenuti,

capace di esprime le inquietudini del nostro tempo attraverso uno stile tradizionale ma con schemi aperti a nuove prospettive.


Mare di Libri Festival dei Ragazzi che leggono Tania Maffei

Mare di Libri Festival dei Ragazzi che leggono 17-18-19 giugno 2011 Rimini - IV Edizione

Intervista a Gianluca Guidomei, Vice Direttore Artistico da parte di Tania Maffei per la rivista Il Foglio Letterario Che cos’è Mare di Libri? “Mare di libri – Festival dei Ragazzi che leggono” che si svolge ogni anno nel mese di giugno a Rimini, con il patrocinio ed il contributo del Comune di Rimini, il patrocinio della Provincia e della Regione Emilia Romagna nonché

A Rimini tanti eventi letterari rivolti ai ragazzi dell’Università di Bologna è il primo ed unico evento sul territorio nazionale specificamente rivolto al pubblico degli adolescenti che si concretizza in un fine settimana di tre giorni di incontri con autori e altri eventi legati alla letteratura, come tavole rotonde, spettacoli teatrali e una grande caccia al tesoro. L’edizione del 2010 ha avuto un grande successo: il centro storico di Rimini ha visto la presenza di oltre 4000 persone, 1800 biglietti venduti, 80 ragazzi volontari fra i 13 e i 18 anni

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che hanno collaborato alla realizzazione dell’evento, 12 rappresentanti di case editrici . Quasi cento le uscite su testate fra q u o ti di a n i settimanali e televisioni varie. E soprattutto i ragazzi hanno potuto incontrare autori e personalità del calibro di Margherita Hack, John Boyne, Anne Laure Bondoux, Celia Rees, Fabrizio Gatti, Silvano Agosti, Mino Milani, Silvia Avallone, Todd Strasser, Cristiano Cavina e tanti altri.

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Da quanto tempo si svolge e da cosa è nata l’idea di creare una manifestazione del genere? Énata nel 2008 dalla volontà di tre libraie di Rimini, Alice, Elena e Serena che, sentendo la mancanza di un evento dedicato al target degli adolescenti, hanno pensato di “allargare” il club dei lettori che frequentavano la libreria Viale dei Ciliegi 17 a tutti i ragazzi italiani. Per quale motivo scegliere una città come Rimini? La città innanzi tutto costituisce storicamente un nome di richiamo per il turismo noto anche tra i giovani e la presenza

del mare aumenta l’attrattiva di un festival collocato nel periodo estivo. La dimensione del centro storico cittadino ben si presta poi ad un festival che prevede spostamenti a piedi tra un luogo e l’altro. A queste caratteristiche si abbina la forte ed efficiente struttura di accoglienza alberghiera, di ristorazione e servizi offrendo così un soggiorno costruttivo, divertente e tranquillo. Che senso ha oggi presentare un festival culturale legato solo all'editoria per ragazzi? Esistono in Italia numerosi festival molti dei quali dedicano eventi a target misti di bambini, ragazzi e adulti. Tuttavia, a parte il caso del festival di Mantova, capostipite e modello per tutte queste manifestazioni, hanno dimostrato particolare successo quei festival che si sono concentrati su contenuti e/o target più specializzati consentendo così di attrarre un pub-

blico specifico ma a livello nazionale. “Mare di Libri” ha quindi funzionato proprio perché ha individuato come target specifico quello degli adolescenti, presentandosi così come evento unico e consolidato nel panorama nazionale. Il festival si rivolge ai preadolescenti e agli adolescenti, ragazzi che frequentano le scuole medie inferiori e superiori, forti e fortissimi lettori, ma anche ai numerosi lettori medi e deboli avvicinati alla lettura dai grandi fenomeni editoriali rivolti alla loro età. Basti pensare a fenomeni come Harry Potter o a Tre metri sopra il cielo o Twilight. Un target secondario sono gli adulti, insegnanti, genitori, addetti ai lavori e tutti coloro che si interessano alla letteratura per adolescenti e, più in generale, ai fenomeni culturali e s o c i a li l eg a t i all’adolescenza per i quali sano previste specifiche iniziative dedicate.


Come si svolge la manifestazione? La maggior parte degli eventi è costituita da incontri con uno o più autori ma sono previsti anche laboratori, tavole rotonde e spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche. Il programma degli incontri con gli autori prevede come ospiti i migliori autori per ragazzi italiani e stranieri, alcuni dei quali fanno in genere al festival la loro unica presentazione italiana. Negli anni hanno presentato qui le loro opere Niccolò Ammaniti, Helga Schneider, Valerio Massimo Manfredi, Shlomo Venezia, Licia Troisi, Aidan Chambers, Paolo Giordano, Silvana De Mari, Randa Ghazy, Federico Moccia oltre a quelli sopracitati dell'edizione del 2010. Il programma è costruito tenendo conto delle migliori uscite editoriali dell'anno, ma anche e soprattutto creando eventi che vanno oltre

la semplice presentazione di un libro e mettendo a confronto più ospiti su temi sociali, politici anche di rilievo internazionale come razzismo, migrazioni, mafie, ecologia. Dalla prossima edizione, in collaborazione con alcuni dei più importanti editori per ragazzi sarà lanciato un concorso di booktrailer ovvero video recensioni realizzate dai ragazzi su libri letti in anteprima e sarà istituita una collaborazione con un importante festival del cinema per ragazzi per la scelta e la presentazione del film che chiuderà l'evento. Ovviamente stiamo già pensando agli ospiti del 2011 che saranno come al solito importanti ed accattivanti per i ragazzi di oggi, così curiosi, vogliosi di ascoltare voci capaci di leggere il mondo con umanità ed intelligenza e soprattutto in grado di regalare loro un'idea di futuro. Anche quest'anno è importante sottolineare

l'importanza del lavoro e dell'impegno dei volontari dello staff organizzativo che ha reso possibile la buona riuscita del Festival. É con orgoglio che vantiamo 80 adolescenti come effettivi gestori della manifestazione. Nei tre giorni di eventi sono loro a preparare le sale degli incontri, ad accogliere gli ospiti in stazione o aeroporto, ad accompagnarli in albergo e ristorante, a fungere da angeli custodi agli autori stessi, dei quali spesso diventano amici; ad introdurre gli incontri, a vendere i libri, a gestire il Punto Informazioni, a staccare i biglietti d’ingresso, ad aiutare i loro coetanei venuti da altre città ad orientarsi nel centro storico di Rimini, altro grande protagonista di Mare di Libri, con i luoghi degli incontri, come il Museo della Città; il Palazzo del Podestà e il Palazzo dell’Arengo, entrambi affacciati su Piazza Cavour; la Cineteca ed il Cortile della Biblioteca Gambalunga; il Teatro degli Atti. A Mare di Libri i ragazzi sono i veri protagonisti. I ragazzi partecipano entusiasti. Lavorano. Si divertono. Imparano. Ascoltano. Fanno domande.

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Una introduzione all’Archeoastronomia Roberto Guarnieri

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a sempre l’uomo guarda alle stelle. Ne lla nostra socie tà contemporanea fatta di città perennemente illuminate abbiamo ormai perso l’abitudine a fissare il cielo notturno e le costellazioni, salvo che in rare occasioni. Eppure meno di un secolo fa l’umanità, anche nella progredita Europa, conosceva a menadito le stelle, i loro nomi, il periodo di apparizione delle costellazioni e via dicendo. Questo perché la volta celeste, con i suoi ritmi precisi e cadenzati distribuiti nell’arco di un anno o di un periodo determinato di anni, hanno per millenni rappresentato un validissimo calendario, utile per conoscere il periodo della semina, del raccolto e lo scorrere delle stagioni. Le singole stelle o costellazioni venivano inoltre associate o addirittura identificate con le divinità dei relativi pantheon. In particolar modo le civiltà sorte nella Mezzaluna Fertile, nel Centro America e lungo le rive del Nilo, vuoi anche per condizioni climatiche ideali, avevano sviluppato una vera e propria ossessione nell’osservazione del cielo. Gli antichi Egizi diedero il nome a tutte le stelle visibili, lo Zodiaco 80

Le piramidi come specchio delle posizioni astrali come lo conosciamo noi oggi è una invenzione sumero-babilonese, i Maya avevano sviluppato un calendario stellare che arrivava a prevedere le eclissi lunari con mille anni di anticipo. Per non parlare degli osservatori astronomici di Stonehenge, dei complessi megalitici francesi di Karnac o degli annali di osservatori cinesi dei secoli avanti Cristo. Pur essendo a conoscenza di tale interesse, soprattutto di matrice religiosa, per l’osservazione delle stelle noi smaliziati uomini del ventunesimo secolo non avevamo mai, appieno, compreso quanto forte e potente essa potesse essere stata per i popoli antichi. Nell’inverno del 1988 l'ingegner Robert Bauval era accampato, assieme ad alcune guide locali, nel deserto in prossimità della Piana di Giza. Assieme al giornalista Graham Hancock stava scrivendo un libro sui misteri delle antiche civiltà e sulla possibilità che esse fossero ben più antiche di quanto la storiografia ufficiale sostenesse. Durante una cena all’aperto uno degli arabi, fissando la Costellazione di Orione, esclamò “Vedi le stelle della sua Cintura? Due sono di ugual grandezza e allineate, l’altra è


più piccola e spostata in giù, e il gran fiume della via Lattea gli scorre di fronte.” Da questa frase nacque , a detta dello stesso Bauval, l’intuizione che portò alla scoperta di una nuova chiave di lettura per comprendere la genesi e l’età dei monumenti di tutto il mondo. Gli egiziani consideravano sacra la costellazione di Orione, che è una delle più grandi e individuabili, tanto da porla come base per tutte le loro raffigurazioni di uomini e re. Per intenderci il classico omino con le spalle larghe, la vita stretta e l’ampia veste larga, che campeggia in tutti i siti e in tutti i bassorilievi altro non è che la sua stilizzazione.

In particolar modo la Cintura di Orione, ovvero le tre stelle collocate al centro della costellazione, erano ritenute origine della vita e simbolo di fecondità, probabilmente perché posizionate all’altezza degli organi genitali della figura disegnata dalle stelle. Secondo la mitologia egiziana il Faraone, figlio delle Stelle e del Sole, proveniva dalla Cintura e al termine della sua vita terrena tornava ad essa con un lungo viaggio nell’Aldilà. I tre astri hanno tuttora i loro nomi arabi: Altitak, Anlilak e Mintaka. Due più grandi e luminose, poste in asse tra loro, e una più piccola, leggermente spo-

stata rispetto all’asse principale. Bauval, Hancock e il loro collega John West compresero immediatamente che le tre piramidi di Giza riproducevano lo stesso schema. Nessuna teoria era stata sino ad allora abbastanza valida da spiegare perché le piramidi di Cheope e Chefren fossero della stessa grandezza e posizionate sullo stesso asse diagonale e quella di Micerino più piccola e spostata rispetto alle altre due. La tesi ufficiale è che Micerino non disponesse dei mezzi dei suoi illustri antenati e avesse quindi realizzato una tomba più piccola, per di più sbagliando la sua posizione sul terreno! Inoltre queste presunte tombe dei faraoni non hanno, al loro interno, nessuna mummia e nessuna iscrizione funebre. Anzi, esclusa quella di Cheope, nemmeno nessun sarcofago. I tre colleghi, con una cartina dell’Egitto sottomano, individuarono, oltre alle Piramidi di Giza, altre piramidi in rovina o iniziate e mai terminate che, tutte assieme, riproducevano in terra la costellazione di Orione, con 81


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il fiume Nilo a rappresentare la Via Lattea. La notizia, studiando bene i testi sacri egiziani, era addirittura scontata. Uno dei motti più noti dell’antichissimo corpus religioso, infatti, recita proprio “Come Sopra così Sotto.” una nozione ripresa poi dagli alchimisti medioevali e, in una forma più velata, dal Cristianesimo nel suo “Come in Cielo così in Terra”. Scope rta que sta chiave di lettura non fu difficile applicarla a altri complessi archeologici famosi nel mondo, per ottenere risultati sorprendenti. I templi del complesso di Angkor Wat in Cambogia riproducono esattamente la costellazione del Drago. Le p i r a m i d i d i Teotihuacan la costellazione delle Pleiadi, e via dicendo per moltissimi altri siti. Il Faraone, una volta defunto, era deposto nella Camera del Re all’interno della Piramide di Cheope a Giza, corrispondente ad una stella della Cintura e “spedito” con un rito funebre nel suo luogo di origine. Già fin qui la scoperta, seppur logica considerando il rapporto degli Antichi con le stelle,

era sensazionale. Ma quello che Bauval e Hancock scoprirono in seguito lo era ancor di più. La volta celeste non appare sempre uguale nei secoli. Per un fenomeno chiamato Precessione degli Equinozi l’inclinazione rispetto all’orizzonte delle costellazioni varia nei secoli. Per capirsi meglio se oggi vediamo il Grande Carro sorgere e arrivare a una altezza massima nel cielo, mille anni fa la costellazione giungeva ad un punto diverso e si presentava con un’altra angolazione. Considerando che gli Egizi avevano rappresentato al suolo, con le piramidi e il grande fiume, il cielo che stavano osservando, Hancock, con un software apposito, riprodusse la volta celeste come si doveva presentare nel

2300 avanti Cristo, anno della presunta realizzazione delle piramidi stesse secondo la storiografia ufficiale. Ma la posizione delle stelle e della via Lattea rispetto alle piramidi e al Nilo non combaciava affatto! Per ottenere la giusta configurazione bisognava andare indietro sino al 10.500 avanti Cristo. La Piana di Giza è dunque una rappresentazione del cielo come appariva dodici millenni prima della nostra era, e novemila anni prima della presunta comparsa della civiltà egizia secondo le teorie ufficiali. Non a caso la data del 10.500 a.c. corrisponde al periodo che gli egizi chiamavano “Zep Tepi” o Primo Tempo. Quello della loro origine e nascita e


che dava inizio al loro calendario. Ma c’è molto di più. Come noto esiste una feroce disputa sulla reale età della Sfinge. La teoria ufficiale la ritiene contemporanea alle piramidi ma ci sono molti punti oscuri e molti indizi che contraddicono tale tesi e che fanno ritenere che essa sia molto più antica. Uno su tutti è che la scarpata del bacino che la contiene, fatta di tufo, è consumata con una morfologia che solo l’acqua di grandi piogge torrenziali, per interi secoli, può aver provocato. E le ultime piogge torrenziali su Giza si sono avute nel 9.000-8.000 avanti Cristo, prima che la zona divenisse desertica.

La Sfinge, in origine scolpita con una testa di leone, è perfettamente rivolta ad Est, nel punto preciso in cui, all’equinozio di primavera, sorge la Costellazione che di fatto da’ il nome all’Era in cui ci troviamo. Attualmente vediamo sorgere la Costellazione dei Pesci e siamo, infatti, in tale Era, dalla quale usciremo per entrare in quella dell’Acquario. Non è un caso che i pesci siano stati, all’inizio del Cristianesimo, un simbolo sacro e protagonisti di arte sacra. Ora nel 2.300 a.C., epoca della presunta costruzione della Sfinge, essa vedeva sorgere a primavera la costellazione del Toro. Per logica dovrebbe aver avuto la testa o la forma di questo animale, considerato che in quel periodo storico tutta l’arte sacra celebrava appunto i tori (vedi arte minoica di Creta.). Nel 10.500 a.C., al contrario, la S f i n g e all’equinozio vedeva sorgere la costellazione del Leone, ovvero la

sua stessa immagine, come in uno specchio! In sostanza tutto sembra tornare. Gli architetti egizi o, a questo punto, quelli di un popolo antecedente di cui ignoriamo tutto, hanno raffigurato nella Piana di Giza una riproduzione in terra della volta celeste del 10.500, scolpendo la S f i n g e c o m e l’indicatore temporale di conferma. Con lo stesso metro si è constatato che anche altri siti latinoamericani o orientali sono sfasati di millenni rispetto alla presunta epoca di costruzione. Un esempio su tutti: l’allineamento del tempio di Tihuanaco in Bolivia, risalente secondo la teoria ufficiale ai primi secoli della nostra era cristiana, è spostato di quattro gradi rispetto al nord attuale. Si è sempre detto per incuria e imperizia dei progettisti e costruttori. Peccato che nel 11.000 a. C. quell’allineamento sarebbe stato perfetto con uno scarto di pochi secondi. Questa data così ricorrente non è casuale e ha una rilevante importanza scientifica e geologica, come potremo vedere in un prossimo articolo.

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Breve introduzione al Connettivismo Sandro “zoon” Battisti

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n Movimento di avanguardia nato in seno alla fantascienza italiana con l’intento di far tesoro delle avanguardie del secolo passato, così di acuire la sensibilità verso il postumanismo e le tecnologie moderne, così da ricercare le radici del futuro nelle dimensioni fisiche che attualmente sono solo teorizzate Il Connettivismo è un Movimento artistico memore di alcune avanguardie del ‘900; nasce dai pensieri del Cubofuturismo russo, dagli ermetici, dai crepuscolari, dai surrealisti, dai futuristi e dal cyberpunk, l’ultima vera punta di diamante che ha sconvolto l’avanguardia per eccellenza, la Fantascienza. Il Movimento è nato il 22 dicembre 2004, e si è fatto annunciare da un Manifesto, rivisto e aggiustato nell’estate del 2006; il gruppo, inizialmente composto da soli tre elementi, si è rapidamente espanso, con l’intento dichiarato di rifondare il genere fantascientifico e fantastico, usando le nozioni tecnologiche, le avvisaglie di un mondo ipertecnologico che porteranno, si spera inevitabilmente, all’avvento del postumanismo. Campi di attività per i membri del Movimento sono qualsiasi cosa possa evocare arte, elucubrazioni, empatia e senso di cosmico. Siamo – naturalmente – scrittori, quindi poeti, quindi sceneggiatori, di fumetti e di cortometraggi; siamo autori di programmi

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Un Movimento di avanguardia della Fantascienza italiana radio in cui attualità e reading di liriche connettiviste si mischiano a musica elettroscura, acida e noize. Siamo persone che declamano di fronte a una platea e siamo tecnologici, perché amiamo l’escalation tecnologica, perché sappiamo che tramite la scienza e la matematica possiamo giungere fino al kernel della nostra anima, decodificandola seguendo le indicazioni degli antichi sciamani che non erano religiosi, ma mistici. La nostra attività principale è in Rete, ma abbiamo un bollettino cartaceo che esce (più o meno) a ogni solstizio ed equinozio (NeXT è il suo nome) in cui mischiamo editoriali e rubriche d’indagine tecnico/sociologica nonché scientifica - a brani di breve prosa per poi giungere a sillogi ispirate, condendo il tutto con le immagini grafiche dei migliori artisti, orientati verso le nostre idee, che la Rete ci suggerisce. Due premi Urania (del 2006 e del 2008) sono stati vinti da due esponenti del Connettivismo: Giovanni “X” De Matteo e Francesco “Xabaras” Verso Molto attivo, per noi, è il settore dell’editoria: a fronte di due case editrici dirette da due connettivisti (EDS e Kipple/Avatar, rispettivamente dirette da Marco “pykmil” Milani e Lukha Kremo Barincinij, quest’ultima con l’aiuto di Francesco Verso e me medesimo) abbiamo pubblicato ben tre raccolte a tema connettivista


(SuperNova Express, Frammenti di una rosa quantica, A.F.O. Avanguardie Futuro Oscuro) più un’altra che è una silloge, Concetti spaziali, oltre. L’attività editoriale ferve quindi molto attorno a queste due realtà che producono anche materiale non prettamente connettivista, come dimostrano titoli tipo Vorrei che il cielo fosse imparziale di Vito Introna (EDS) e Ultima pelle, di Alberto Cola (Avatar) Ma come è iniziato il tutto? Connettivismo è, ormai, una parte non trascurabile di storia italiana del fandom della fantascienza, vissuta soprattutto su Internet, relativamente ai primi anni di questo nuovo millennio. Precedentemente, esistevano soltanto frammenti disaggregati d’idee in formazione, embrioni e vaghe sensibilità che, spesso, non avevano possibilità di svilupparsi poiché tutto era affidato alla fantasia di uno o pochi altri sviluppatori (il termine informatico usato non è un caso, parlando di Connettivismo non è difficile cadere nel mondo tecnologico e digitale dello sviluppo software). Questi artigiani vagavano, nella Rete come nella realtà usuale, alla strenua ricerca di una finestra sul mondo per affermare il proprio grido, la propria sensibilità verso il futuro che

doveva essere intriso non più soltanto di tecnologia e software e backup, ma anche di misticismo, di un senso d’oscurità profonda che affondava le proprie radici nelle ghost stories di inizio ‘900 e anche fine ‘800, pregne di un senso misterico che affondava, a sua volta, nell’antico mondo classico e più indietro ancora. All’inizio del nuovo millennio quindi, in moltitudine anonima ed eterogenea, ci si cominciò a ritrovare alla corte di Massimo Ferrara e del suo Club G.Ho.S.T., uno dei principali luoghi di

confluenza del fandom internettiano di allora. Inconsapevoli del nostro comune cammino cominciammo a tracciare prima rapporti di amicizia ramificati e poi, sempre più frequentemente, filamenti di feeling creativo comune ma, stavolta, dedicati; così, nel mentre che progetti creativi prendevano rapidamente vita e si sfasciavano con la stessa velocità, si cominciarono a discriminare i contatti, alla ricerca della scintilla definitiva. Verso la fine del 2002 strinsi i legami con Marco Milani e nacquero così, su

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Internet, il sito amatoriale - gestito da Marco stesso - Domn-mistic-on (evolutosi poi nel più solido ‘Domist.net Letteratura e Pace’) e, quasi contemporaneamente e con funzione orbitante proprio attorno a Domnmistic-on, il mio sito ufficiale – ufficiale, nel senso che conteneva e contiene tutto il materiale finito di mia produzione. Come collante a queste due realtà più o meno statiche e con funzione stavolta dinamica, sperimentale e propedeutica al futuro, nasceva poco dopo il blog Cybergoth, gestito perlopiù da me. Ecco, l’impianto funzionale del Connettivismo era nato. Si era nella primavera del 2003 quando Giovanni De Matteo irruppe nel Club G.Ho.S.T. col suo Notturno n° 23; subito fu aggregato nell’organico del blog perché le sue sensibilità riconducibili al buon Sterling della Matrice spezzata, oltre che al retroterra emozionale e percettivo descritto all’inizio di questa postfazione, erano irresistibili e chiare. Da allora, il nome del blog Cybergoth e dei suoi redattori cominciò a cor-

rere in Rete; in quanto luogo di sperimentazione presto maturò l’esigenza di guardare oltre. Io e De Matteo cominciammo a confrontarci sugli obiettivi da raggiungere, sul concepire la nuova frontiera che doveva definirsi per mantenere alto il livello sperimentale del blog e della nostra poetica. Era l’autunno del 2003 e, improvvisamente, prese forma per iniziativa di De Matteo il Manifesto del Connettivismo, in una forma non troppo embrionale rispetto a quella definitiva; ma era presto, non si era pronti alla diffusione e, soprattutto, non eravamo pronti all’adesione nemmeno noi. Fu deciso di tenere il Manifesto in stand-by ma, al contempo, De Matteo fondò il blog Junction (ora diventato Lo strano Attrattore, sulla piattaforma di Fantascienza.com) con lo scopo preciso di farlo funzionare come ulteriore attrattore caotico verso il germe connettivista; si attendeva, così, che le sperimentazioni di scrittura si evolvessero verso un punto qualsiasi, come se un fiore dovesse prima o poi sbocciare, senza che se

ne avesse nemmeno la sicurezza. Il momento venne un anno dopo, quasi casualmente. Rilessi per caso il Manifesto ed ebbi la folgorazione dell’esattezza delle visioni di De Matteo; era necessario andare oltre il cybergoth per definire non solo la parte tenebrosa del nuovo mondo, ma anche tutto il resto. Eravamo diventati coscienti, nel frattempo, di avere ereditato empaticamente germi del Cubofuturismo russo; ma si era eredi, anche, dei Crepuscolari e dell’Ermetismo. Pure il Surrealismo era diventato il padre del Connettivismo e ultima - ma non ultima - la paternità del Futurismo si agitava su di noi: forse perché era qualcosa di italiano, prima di tutto, come il Connettivismo nella sua genesi e nel suo tentativo di organizzare la sfilacciata scena della Fantascienza (italiana), e forse perché era davvero l’unica branca artistica in grado di incarnare in quel momento il concetto d’avanguardia. Futurismo anche per la smania di esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro


l’antico (anche se, per quanto ci riguarda, parzialmente contro), la velocità contro la stasi, in un’esaltazione della modernità che passa anche tramite la ridefinizione dei canoni estetici, prescindendo dai deliri bellici e politici che il Futurismo si è poi fatalmente portato appresso durante il ventennio fascista. Il tutto si mescolava, come in un magico crogiuolo, col cyberpunk che aveva scosso e destato le coscienze degli anni ’80, che aveva dato le coordinate verso cui il mondo si sarebbe mosso, con ogni probabilità, nei venti anni successivi; il Connettivismo si distanziava però subito da esso con una proporzione che suonava come “Connettivismo che sta al cyberpunk così come il Romanticismo sta all’Illuminismo”: era come aprire gli occhi non più sul mondo bensì sull’anima. A noi connettivisti premeva, così - improvvisamente e fortemente, come se fossimo stati folgorati dalla nostra stessa visione – dare i punti nodali di un Movimento, spesso definito rozzamente e con una punta di mancata conoscenza come il Movimento “del postcyberpunk”: si cominciava, così, a parlare di un mondo in cui le sensibilità si stavano connettendo in un modo inedito grazie alla Rete e alla tendenza al postumani-

smo – forse l’unico vero legame che il Connettivismo ha col cyberpunk – e anche attraverso le sensibilità espresse nel passato della storia umana, tramite le ultime discipline matematiche (su tutte, quella del caos), della fisica quantistica, nonché delle scienze umanistiche che hanno imperversato durante tutto l’arco storico conosciuto. Da allora è successo quasi di tutto e la comunità connettivista si allarga come un'infezione (i membri, al momento, sono circa una trentina o più, non riusciamo più a contarci analiticamente): a naso e istintivamente dico, dimenticando sicuramente qualcuno, Gianluca Kremo Baroncini (che si è aggiunto praticamente da subito - la sua Nazione Oscura, di cui molti di noi sono membri, è casualmente nata la stessa notte del Connettivismo), Francesco “Xabaras” Verso, Marco Antares666 Moretti, Salvatore Proietti, Domenico 7di9 Mastra-

pasqua, Umberto Ubi Bertani, Umberto 2x0 Pace, Mario “Black M” Gazzola, Fernando BlackHoleSun Fazzari, Michele DottoreInNiente Nigro, Alex Logos Tonelli, Simone AbateDegliStolti Conti, Mauro Dixit Cancian, Roberto ro Furlani, Filippo “Leo Bulero” Carignani Battaglia, Maurizio "Scarweld" Landini, Christian "Ulver" Ferranti, Paolo "Evertrip" Ferrante, Marco "Alazif" Marino, Francesca "Nimiel" Fuochi, Simone “Abate degli Stolti” Conti, Daniele Cascone, Francesco D’Isa e tanti altri che sono lì, a sbirciare e assorbire le vibrazioni che salgono anche dal portale del Movimento – www.next.station.org. Da ammirare e interiorizzare come un bellissimo e indicativo fossile anche il Manifesto, presente sul link http:// www.next-station.org/ nxt-ex-1.shtml

dal Catalogo Narrativa Il Foglio www.ilfoglioletterario.it

"Radio Notte è un susseguirsi di percezioni, fallimenti, polvere da sparo, sabbia e morte. Radio Notte racconta le macerie del cuore, soppesa un futuro incerto, partorito da un passato devastante" - Will. 87


Alla riscoperta dei B-Movie Matteo Mancini

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l regista protagonista di questa sec o n d a u sc i t a d e l l a r iv i s ta “Braviautori – Il Foglio Letterario” è un professionista che ha all’attivo più di 200 film di vario genere e che si contraddistingue per un’anarchia che lo porta a distaccarsi dai canoni tradizionali. Artista (anche se lui odierebbe questo termine) spesso costretto a girare con budget inconsistenti e con tempi di produzione ristrettissimi, aspetti che ne hanno penalizzato la resa, perseguitato costantemente dalla censura e, negli anni ’70, dal Vaticano. Sto parlando di Jesus Franco Manera meglio conosciuto come Jess Franco. Per l’occasione ho contattato uno dei più affezionati ammiratori del regista spagnolo, nonché un grande conoscitore del cinema bis (e non solo), cioè il regista/montatore Pierpaolo Dainelli. Peraltro, proprio grazie a Pierpaolo e alla sua idea “I B-Movie di TVR” ho conosciuto capolavori della filmografia italiana di genere che altrimenti difficilmente sarei riuscito a scoprire. Sono quindi in debito con l’amico Pierpaolo e l’indimenticabile rassegna che conduceva ogni domenica sera in prima serata sulla rete televisiva sopra menzionata. Per tali ragioni, è per me un enorme piacere poterlo avere qui con noi in questa nostra “chiacchierata” telematica. In questo articolo/intervista, dopo alcune domande che riguarderanno Pierpaolo e il suo amore per i b-movie,

Le interviste di BraviAutori

Il regista Jess Franco raccontato da Pierpaolo Dainelli ripercorreremo la carriera del regista spagnolo limitatamente ai suoi film di punta con particolare attenzione per le pellicole dalle atmosfere horror. Pierpaolo, se gli amanti di b-movie toscani ti conosceranno di sicuro per le epiche presentaJess Franco zioni dei film che lanciavi in prima serata su TVR, non so se lo stesso si possa dire per gli amici delle altre regioni. Per questo, mi piacerebbe tu potessi parlare della splendida “rassegna” che conducevi su TVR e di come e dove recuperavi i film che poi lanciavi in prima serata. È vero che hai salvato pellicole sul punto di essere definitivamente distrutte, perché abbandonate in magazzini fatiscenti? Nella vita ho avuto due amori veri, assoluti: il cinema e la televisione. Nel mio caso questi due media si accomunano, perché fu grazie alle primissime tv private e alla loro programmazione selvaggia che mi innamorai dei film più oscuri della settima arte. Il motivo di questi titoli bizzarri inseriti in palinsesto me lo avrebbe svelato Paolo Salvi, presidente di TVR, molti anni dopo: “Dai cataloghi dei distributori sceglievo


solo film vietati e che costavano poco”. Vietati perché sicuramente la Rai non li avrebbe mai mandati in onda e quindi di sicuro appeal per il pubblico. Il fatto che dovevano costare poco non ha bisogno di spiegazion i . Nei primi anni novanta iniziai a lavorare come montatore e operatore tv ed ebbi modo di collaborare con le maggiori emittenti televisive toscane. Internet, come lo conosciamo oggi, all'epoca era fantascienza: i film più curiosi se volevi vederli dovevi trovarli. E io all'epoca mi davo molto da fare.... Così tra un lavoro e l'altro mi infilavo in una stanza in cui Paolo Salvi teneva vecchie registrazioni delle prime emissioni di TVR, nella speranza di recuperare qualche film raro. Questo mio curiosare non sfuggì agli occhi attenti di Paolo e di Elisangelica Ceccarelli che mi chiesero delucidazioni. Spiegai che le notti selvagge in cui TVR mandava in onda film ininterrottamente erano state tra i momenti più felici della mia esistenza e che mi avevano insegnato ad apprezzare film prodotti con pochi soldi, ma con molte idee. Paolo e Elisa rimasero così colpiti dalla mia passione che mi proposero di andare in video a presentare “I B-movie di TVR”. Dove “B” sta per BIS co-

me dicono i francesi: l'altro cinema, quello vero.. Con mia grande sorpresa divenne un programma seguitissimo e sia io che Elisangelica spulciavamo continuamente i cataloghi dei distributori televisivi alla ricerca di titoli sempre più rari e interessanti. E di rarità ne sono venute fuori molte, moltissime. Un grande numero delle tracce italiane che oggi impreziosiscono tanti dvd di film rarissimi provengono proprio da “I Bmovie di TVR” e ne sono molto felice. Nel continuo cercare film da mandare in onda non posso non citare la mitica “signora Fra nca ” d ella “Programmi Tv” di Milano che costringevo ad andare a cercare i suoi titoli più rari negli angoli più remoti del suo magazzino e lei si faceva una bella risata e mi accontentava sempre. Grazie alla “signora Franca” sono saltati fuori titoli come la versione italiana di “Succubus” di Jess Franco. Un altro personaggio particolarissimo e un gran signore è Paolo Nalotto della “Tele Cine Nord” di Padova. Paolo è perennemente in giro per tutta l'Italia con la sua automobile stracolma di nastri da consegnare o ritirati dalle varie emittenti. Era lui che negli anni ‘70 riforniva di film incredibili una “Telemontecarlo” appena agli inizi. Il catalogo di

Paolo è sterminato e grazie a lui ho recuperato film come “Paroxismus” e “De sade 2000” di Jess Franco. Mi ricordo ancora quando andai a trovarlo a Padova ed entrai in uno dei suoi magazzini colpiti dal maltempo; con la morte nel cuore aprivo i box contenenti i nastri dei film e li ritrovavo tutti pieni d'acqua. Ma non mi sono mai dato per vinto, spesso quando i nastri non funzionavano, perché pieni di muffa, mi mettevo all'opera con pazienza certosina e li ripulivo sbobinandoli a mano. Ricordo che le tue innumerevoli presentazioni erano ricche di aneddoti e che, da buon appassionato del “dietro le quinte”, ti guardavo, tanto per sentire le curiosità, anche quando il film che stavi per lanciare (per il genere) pensavo non potesse interessarmi. Hai mai pensato di raccogliere tutto questo materiale in una sorta di antologia video, un po’ come ha fatto Bruschini per il cinema western italiano? Non è per falsa modestia che lo dico, ma in video non mi sono mai piaciuto. Le mie presentazioni erano spesso fatte al volo tra un montaggio e l'altro. Inoltre non riesco mai a essere pienamente soddisfatto di niente e quindi non ho mai dato peso alle mie

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presentazioni e non ne ho conservate nemmeno una; forse, visto l'affetto che ancora le persone mi dimostrano, ho sbagliato. Voglio poi ricordare che Pierpaolo ha anche una grande passione per la regia e ha girato cortometraggi e spot pubblicitari. Progetti per il futuro? Ho iniziato a occuparmi di montaggio a diciotto anni e ancora oggi, che ho superato la quarantina, sono sempre lì. Ho realizzato di tutto, dai video sperimentali d'arte alle televendite. L'amore che da bambino avevo per cinema e tv mi ha dato molto: un lavoro e una grande passione. Il progetto che più amo e che ormai seguo da oltre dieci anni è Firenze Festival, una rassegna per il cinema fatto dai ragazzi che ha ottenuto riconoscimenti dall'ONU e dall'UNICEF. Ogni anno per il Firenze Festival ho l'enorme privilegio di realizzare, insieme agli alunni delle scuole, una decina di cortometraggi. Si tratta di un'esperienza di grande soddisfazione che si conclude al Teatro della Pergola di Firenze alla presenza di oltre mille ragazzi. Quest'anno siamo giunti all'undicesima edizione.

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Prima di passare al personaggio per cui ti ho contattato, pensi che i “b-movie” possano ri-

tornare in prima serata, come un tempo, oppure ci sono dei problemi? Nessun problema. È solo che non si trovano più film adatti da mandare in onda. “I B-Movie di TVR” avevano un senso nella proposta di film difficilmente reperibili e purtroppo quello che potevamo trovare l'abbiamo trovato e proposto. Per un po' abbiamo continuato con i nostri cavalli di battaglia, ma poi mi sono reso conto che forse era meglio tentare nuove strade. Io credo moltissimo nel web e così ho creato una web-tv che in pratica ripropone “I b-movie di TVR” 24 ore su 24 ed è visibile in ogni parte del globo all'indirizzo www.fantastikatv.tk Mi è sembrata un'esperienza nuova e l'ho abbracciata con entusiasmo. Inoltre le nuove web-tv permettono agli utenti di interagire e discutere durante la visione di un film. Si tratta di una possibilità nuova che la vecchia Tv non può offrire. Le web-tv mi ricordano anche il pionierismo e la sperimentazione delle primissime tv private e quindi pur andando avanti è un po’ come tornare indietro nel tempo. Veniamo adesso al personaggio per cui ti ho contattato. Come e quando nasce il tuo amore(cinematografi-

co, si intende) per Jess Franco? Se non sbaglio hai anche scritto degli articoli sulle sue “vampire lesbiche” e organizzato serate a tema dove hai fatto proiettare in piccole sale pellicole semisconosciute (tra gli altri) di Franco, vero? All'epoca ero un bambino, ma ricordo un film, che poi non ho più ritrovato nella sua edizione italiana, in cui una magnifica e misteriosa donna avvolta da veli neri, seguita da altre misteriose compagne, saliva su una nave e partiva verso mete ignote, mentre una musica dolcissima sottolineava il tutto. Era una sequenza che mi faceva impazzire e solo molti anni dopo ho scoperto che si trattava di un film di Jess Franco: “Sumuru, regina di foemina”. Poi iniziò a incuriosirmi il fatto che durante le mie notti folli il nome “Jess Franco” ricorreva spesso alla regia delle più svariate pellicole. E la faccenda iniziò a incuriosirmi... "I maghi del black horror" strillavano i titoli di testa di “Dracula contro Frankenstein”, "regia di Jess Franco"; “Il conte Dracula”, "regia di Jess Franco" e così via. Inoltre questi film mi sembravano avere un tocco diverso rispetto a tutti gli altri, una visione a volte poetica, a volte torbida. Fu così che nel lontano 1986, all'età di diciotto


anni, a chiunque mi chiedesse quale era il mio regista preferito, rispondevo convinto: ”JESS FRANCO”, col risultato di lasciare nello sconforto totale chi me lo aveva chiesto. Il mio articolo sulle "Vampire Lesbiche" comparso sulla rivista "Amarcord" fu un'idea del mio editore, Igor Molino Padovan. Quando me lo propose l'idea non mi entusiasmò però mi misi al lavoro e per diverse settimane mi calai in questo strano universo. Devo dire che, a distanza di oltre un ventennio, ci sono persone che quando mi conoscono rammentano quel pezzo. Igor ci aveva visto giusto... Le rassegne in sala nacquero come un prolungamento reale dei virtuali "b-movie" televisivi e fu molto interessante conoscere dal vivo i miei telespettatori. L'idea fu della direzione del Cinecittà Cineclub di Firenze che oltre a darmi la possibilità di vedermi molti dei miei film preferiti in pellicola mi fece anche grande piacere. So che, tra i tanti personaggi che hai incontrato e intervistato, hai anche avuto modo di parlare con Jess Franco. In che occasione lo hai incontrato e che tipo è? Mi confermi l’impressione che sia una persona molto alla mano, ma anche un po’

sopra le righe e bizzarra? Come tutti coloro che sono davvero grandi, è una persona di un'umiltà disarmante. Quando lo incontrai per la prima volta era seduto al tavolo di un ristorante e allora io per poter parlare con lui mi misi in ginocchio. Era molto divertito da questa mia posa referenziale e da quel momento parlammo ininterrottamente per due giorni... Gli chiesi di tutto e lui mi raccontò una montagna di aneddoti, feci solo una stupidaggine, non registrai la conversazione. Ogni tanto se ne veniva fuori con delle affermazioni sul cinema in generale assolutamente non allineate, ma spesso condivisibili. Trovavo meno nelle mie corde il suo distacco verso i suoi primi film anche se, conoscendo il suo percorso, posso capirne il motivo. Lo rincontrai in occasione del Joe D'Amato Horror Festival, a Livorno, del quale era ospite d'onore. Lui fu molto carino e mi dimostrò tutta la sua simpatia. Ebbi modo di conoscere anche Lina Romay, una persona splendida che mi fece un po’ effetto quando tirò fuori dalla borsa un enorme borsellino per pagare un panino. Anche uno dei miei più grandi miti di celluloide aveva una vita normale...

Da grande appassionato del cinema bis (come piace definirlo a noi), ti chiedo un profilo artistico di Jess Franco. Cosa diresti se tu dovessi presentarlo a chi non ha mai visto un suo film? Su un sito ho letto che il mio modo di presentare i “b-movie” era in “pompa magna” (non ho ancora capito perché) quindi tenterò di usare lo stesso metodo. Nessuno, nella storia della settima Arte, ha mai saputo illuminare di così tanta luce le tenebre più perverse dell'animo umano e l'inevitabile oscurità profonda che si nasconde tra un fotogramma e l'altro, nello scorrere della pellicola cinematografica. Ed è la verità. Nei film del regista spagnolo il sesso e tutte quelli che sono i nostri desideri più reconditi sono esplorati; i nostri lati più oscuri sono messi in luce, talvolta in modo brutale, talvolta con immagini connotate da un gusto estetico decisamente fuori dal comune. Jess Franco ha sfidato con violenza iconoclasta tabù morali ed estetici in un cinema spesso decorativo, gratuito fino all'assurdo ma sempre con uno sguardo distaccato grazie alla sua sottile ironia. I temi centrali del suo cinema sono il sadismo, la perversione e un erotismo dagli aspetti torbidi ma allo stesso

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tempo poetici. Non per niente è stato spesso definito poeta dell'infimo. Incontrare il suo cinema si trasforma spesso in un guardare allo specchio ciò che di noi ci fa più paura e che teniamo nascosto.

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A differenza di molti registi dell’epoca, a oggi, Franco non è stato rivalutato come dovrebbe – a mio avviso anche a causa dei troppi film effettuati, molti dei quali girati con poca cura per esigenze di tempo – eppure ha nel suo curriculum collaborazioni con maestri del calibro di Orson Wells e vanta gusti cinematografici assai raffinati. Come ti spieghi questo atteggiamento di snob nei suoi confronti da parte anche di molti amanti dei film di genere? Jess Franco vive per il cinema e con il cinema. Il cinema gli ha dato tutto: un motivo di vita e un modo per vivere. Quando vivi del tuo lavoro hai bisogno di lavorare e guadagnare. E quella del cinema non è certo una professione delle più semplici. Ecco che molte delle scelte “artistiche” di Jess Franco sono state dettate anche da motivi alimentari. E in questo non c'è niente di male. È anche impossibile tenere livelli qualitativi elevati quando si girano undici film in un anno, come accadde nel 1973.

Per quanto riguarda gli amanti del cinema di genere ci sono degli atteggiamenti che non mi spiego. Non ho mai amato o odiato un autore in toto. Amo il cinema in assoluto e non distinguo tra film di taluno o talaltro ma solo tra film che mi piacciono e che non mi piacciono. Odiare il lavoro di chicchessia in ogni suo aspetto non mi sembra sensato. Però Franco o lo si ama o lo si odia, spesso non sono possibili posizioni intermedie. Il suo è un cinema che vive su una lunghezza d'onda molto particolare… o si riesce a coglierla oppure non c'è niente da fare. Passando ai film del “nostro”, il primo che mi viene in mente, in ordine di tempo, è “Il Diabolico dottor Satana”. Si tratta di un film senza dubbio importante, per varie ragioni. Prima di tutto vede protagonista uno degli attori di riferimento di Jess Franco, cioè Howard Vernon (credo abbia fatto più di trenta film con lui); in seconda battuta, fu il biglietto da visita che permise a Franco di aprirsi la strada in quello che sarà uno dei suoi generi prediletti: l’horror, anche se ancora legato a un certo classicismo. Mi risulta che il film uscì in Italia in versione

tagliata. Che puoi dirci? Il film uscì in Italia distribuito dalla Filmar, una casa specializzata in b-movie che aveva nel proprio reparto edizioni un dipendente dal nome che poi sarebbe diventato familiare per gli amanti del bis: Bruno Mattei. “Il diabolico dottor Satana” pur essendo un film apparentemente classico in realtà mostrava la voglia del regista di rompere col passato, in quanto si tratta di un melange piuttosto eterogeneo in cui i “soliti” ingredienti sono miscelati in modo anticonvenzionale ed esplosivo. Basti pensare ai seni nudi e alle incisioni dal bisturi prontamente tagliati nell'edizione italiana. Il film rappresenta il debutto nel cinema fantastico dello svizzero Howard Vernon che spesso, pur di lavorare con Jess Franco, accettava di venire assoldato come fotografo di scena perché altrimenti il suo compenso sarebbe stato troppo alto e la produzione non avrebbe potuto p e rm e tt er s el o. J e ss Franco ha sempre considerato Vernon il suo attore preferito. Dopo il “Dottor Satana”, tra il 1961 e il 1967, Franco dirige una serie di film (tra cui “Miss Muerte” e “Necronomicon”.) che non sono ricordati tra i suoi masterpiece, tut-


tavia sono importanti perché lasciano affiorare elementi che caratterizzeranno la cinematografia futura del regista: in particolare la “poetica” dell’erotismo e il ricorso allo zoom che, nei film successivi, diventerà una sorta di vera e propria ossessione (anche se Franco la motiverà per ragioni tecniche piuttosto che stilistiche). “Necronomicon”, uscito in Italia come “Delirium”, è un film importantissimo nella filmografia del regista e un capolavoro del cinema fantastico in generale. Lorna vive una realtà in cui irrompe con violenza la sua dimensione onirica, per giungere a un finale originale in cui i sogni prendono il sopravvento in modo poetico su una realtà sempre meno interessante. Questo film è anche al centro di un giallo curioso, in quanto proprio nel nostro paese fu distribuito in una versione che non trova corrispettivi su altri mercati. Intere sequenze sono completamente diverse anche se non sembrano avulse dal resto della pellicola e specialmente il finale si scontra concettualmente in modo violento con quello conosciuto. Franco a tal proposito riconosce la piena paternità della versione internazionale, ma alcuni studiosi dell'opera di questo regista (compreso me) ipotiz-

zano che la versione italiana sia la director's cut. Tale teoria è suffragata dal fatto che le riprese in questione non sembrano fatte in un secondo momento e rispecchiano soluzioni visive tipiche dell'opera del regista. L'utilizzo eccessivo dello zoom deve essere contestualizzato per poter essere compreso. Il pancinor (poi detto zoom) era stato per decenni un miraggio dei cineasti in quanto costosissimo, così quando divenne alla portata di tutti ci fu una voglia smisurata di sperimentarne le possibilità espressive. Negli anni settanta venne percepito come qualcosa di nuovo nel linguaggio cinematografico e quindi se ne fece un uso intenso. Dietro a quel semplice gesto di premere il pulsante dello zoom c'era molto di più di quanto ci possa sembrare ai giorni nostri. Inoltre era un espediente che permetteva di ridurre i costi sia per il fatto che volendo si poteva fare a meno di cambiare le ottiche davanti alla macchina da presa, sia perché in un piano sequenza era possibile cambiare focale senza interruzioni. Con il 1968 e l’incontro con il produttore Harry Alan Towers inizia, a mio avviso, il periodo d’oro di Franco. In questi anni gira film potendo contare su assi come il

pazzo Klaus Kinski, Christopher Lee, Herbert Lom e i risultati da un punto di vista tecnico non si lasciano attendere con film, come “The Blood of Fu Manchu”, “Il conte Dracula” (i cui interni sono stati girati dietro casa mia, per la cronaca), “Justine ovvero le disavventure della virtù” dove recita una giovanissima Romina Power (di cui Franco continua a dire peste e corna). Si tratta, a mio avviso, dei film più curati di Franco, ma nonostante questo le pellicole non ebbero il successo atteso e portarono alla rottura del regista con il produttore. Cosa non funzionava secondo te in questi film, sempre che tu possa vederci qualche vizio? “Il conte Dracula” è la versione più affascinante che sia mai stata tratta dal romanzo di Stoker. È un film, assai sentito sia dal regista che da Christopher Lee, che portava sullo schermo i dialoghi così come erano stati scritti da Stoker. In questo senso la sequenza in cui Dracula ricorda come in passato il castello fosse un potente baluardo contro i Turchi mi emoziona ogni volta che la vedo (menzione d'onore al livornese Emilio Cigoli che doppia Lee in modo formidabile). Il film fu un grande successo in Germania, ma andò male negli USA

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e per questo motivo la sua uscita nel nostro paese fu cancellata. Solo nel 1974 quando la FILMAR, la società che lo aveva prodotto, fallì la INDIEF ne acquisì i diritti e finalmente lo fece uscire. Inoltre sia in questo film che in “Justine” le musiche sono di Bruno Nicolai che firma delle colonne sonore memorabili che sottolineano in modo potentissimo le sequenze più belle. Al riguardo di questo secondo film, come non ricordarne l'inizio, con De Sade (Kinski, e chi sennò!?) tormentato nella cella dai fantasmi delle sue creature letterarie, un momento, a mio avviso, tra i più alti di tutta la produzione di Franco. “Justine” ebbe ovunque problemi con la censura e non poteva essere altrimenti. Harry Alan Towers era un produttore inglese assai astuto che con capitali americani riusciva a organizzare film a medio budget per noi europei, ma assolutamente low budget per i canoni dell'industria americana. Towers vide in Franco un regista velocissimo che ben si sposava con i suoi stessi tempi. La leggenda vuole che Towers scrivesse le sue sceneggiature per i suoi film durante i trasferimenti in aereo tra Londra e Los Angeles. In realtà il loro rapporto fu proficuo solo che, a un certo punto, fu Fran-

co a stancarsi di questa collaborazione in esclusiva. Probabilmente questi film, essendo produzioni più impegnative, non gli garantivano quella libertà assoluta in cui era abituato a lavorare. Franco e Towers inoltre avevano due forti personalità e questo può portare facilmente a immaginare che tra i due fossero frequenti grossi scontri. Nel cast tecnico de “Il conte Dracula”, essendo una co-produzione che coinvolgeva anche l’Italia, c’era anche Bruno Mattei. Ne approfitto per aprire una parentesi su questo artigiano nostrano che so che conoscevi per averlo incontrato di persona. Che aneddoti ci puoi regalare su Mattei? Ricordo che parlavi sempre delle sue invenzioni quanto montava i film provenienti dalla Cina senza sapere chi fossero gli attori. Altra persona di un'umiltà disarmante nonostante fosse dotato di un grande intuito cinematografico e di doti come montatore non comuni. Bruno era una persona abituata a combattere, ad arrangiarsi e nonostante tutto riusciva a imprimere la sua personalità in ciò che faceva. Posso dirti che è stato sfruttato fino in fondo. Quando ebbe l'idea di adattare per il grande

schermo i telefilm della serie UFO in film che incassarono miliardi, a lui non dettero nemmeno i soldi per le sigarette. Ha curato l'edizione italiana di un numero sterminato di film, tra cui “La vendetta del vampiro” di Corona Blake e “Paroxismus” dello stesso Franco di cui tagliò il finale perché non gli piaceva. Per i film di Kung-Fu non gli mandavano mai le traduzioni in inglese dei nomi degli attori e allora lui se li inventava. Per questo in Italia è un vero problema individuare le versioni originali di molti film di questo genere provenienti da Hong Kong. Dopo il periodo Towers, Franco è costretto a girare con pochi soldi, ma è in questo periodo che irrompe il suo talento onirico e bizzarro, peraltro si trova per le mani un’attrice di una bellezza e una sensualità rara: Soledad Miranda (che aveva lanciato ne “Il conte Dracula”). So che sei un grande fan di questa attrice (ti confido che siamo in due, detto tra noi), se non sbaglio la ricordavi sempre quando parlavi delle dive horror. Soledad Miranda era una donna di rara bellezza e femminilità. Gran parte del fascino de “Il conte Dracula” risiede proprio nell'eterea bellez-


za del suo personaggio che, sotto sonno ipnotico indotto dal principe delle tenebre, vaga in una notte resa fantasmatica dalle musiche di Bruno Nicolai. Anche quando Lucy (il personaggio interpretato da Soledad Miranda) cade preda del Conte vampiro la sua espressione di piacere mista a repulsione riempie lo schermo di picchi di sensualità indescrivibili. Sono assai interessanti le immagini di “Cuadecuc Vampir” di Pere Portabella che mostrano l'arrivo dell'attrice sul set del film. La Miranda sembra una creatura eterea e immaginaria, soprattutto nelle riprese del trucco prima del ciak che ce la mostrano quasi in uno stato di trance. Purtroppo, da lì a poco, l'attrice avrebbe perso la vita in un tragico incidente automobilistico. Con la Miranda, Franco gira tre dei film horror con elementi erotici più “poetici” della sua filmografia, insieme al successivo “Un caldo corpo di donna” (conosciuto anche come “Erotikiller” o “La contessa nera”) che vedrà invece protagonista la moglie Lina Romay, la quale raccoglierà il testimone abbandonato dalla sfortunata Miranda. Mi riferisco al suo capolavoro “Vampyros Lesbos”, ma anche al

thriller “She killed in ecstasy” e a “De Sade 2000” (che io non sono riuscito a recuperare, ma di cui ti ho sempre sentito parlare con grande entusiasmo). Penso di poter dire che con queste pellicole si assiste a un’evoluzione delle regia di Franco, con una improvvisazione sul set che raggiunge livelli prima mai toccati, con effetti psichedelici che assumono la veste di una vera e propria firma del regista. Che ci dici su questo lotto di film? Sono sicuramente le cuspidi nella filmografia del regista spagnolo. Queste bellissime donne incarnano creature fantastiche condannate dalla loro diversità alla solitudine eterna. Franco le immortala sullo schermo con soluzioni visive fuori dall'ordinario e con accostamenti di montaggio originali. In “Erotikiller”, uno dei film che amo di più, Franco crea il personaggio di una vampira che vaga in foreste desolate. Questa solitudine è sottolineata dal suo essere muta e da un bisogno d'amore che la rende una delle creature più tristi di tutto il cinema fantastico. Un film che, nelle sequenze in cui dalle nebbie fluttuanti si materializzano strane e misteriosi voci, raggiunge assoluti vertici di poesia.

“De Sade 2000” è un’opera condotta con estrema libertà. Esplora le zone più oscure dell'animo umano, alla ricerca del piacere e della perdizione assoluta. Un film assai controverso, ma dove il nostro lato oscuro riesce a mostrare tutto il suo ambiguo e ammaliante fascino. Tra l'altro in questa pellicola Soledad Miranda sfodera un magnetismo e un fascino difficili da dimenticare. Un plauso anche a Paul Muller che tratteggia uno dei personaggi più riusciti di tutta la sua carriera. L'improvvisazione per Franco è essenziale. Lui è anche un musicista jazz e come tale conosce il potere creativo dell'improvvisazione. Anch'io, nel mio piccolo, ho sperimentato che quando si ha il coraggio di lasciarsi andare sul set si raggiungono risultati assai più originali che non pianificando tutto a tavolino. È che il cinema è un'arte difficile da gestire senza un'adeguata pianificazione perché ha costi altissimi anche nelle produzioni più piccole e permettersi di improvvisare o peggio ancora di sbagliare, perdere tempo e di conseguenza soldi, è un lusso che non ci si può permettere. Eppure l'improvvisazione paga moltissimo in termini creativi, anche Hitchcock, che era uno che arrivava sul set con delle sceneggiature di

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ferro e storyboard precisissimi, riconobbe che l'improvvisazione che aveva adottato in alcune riprese de “Gli uccelli” aveva portato a eccellenti risultati. In questo senso Franco è unico, molte testimonianze riportano che questo regista mentre girava un film aveva già in testa il successivo o addirittura iniziava già a girarne alcune scene fino ad arrivare a realizzarne due contemporaneamente, con il secondo film prodotto all'insaputa di troupe e produzione.

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Con la morte della Miranda, a parte qualche eccezione, il cinema di Franco entra in una parabola discendente. Nel 1976 ritorna a collaborare con Klaus Kinski dirigendo un film con un budget superiore ai suoi ultimi lavori: “Jack The Ripper” (in Italia presentato con l’orribile titolo di “Erotico Profondo”). Si tratta di un’opera dove il genio ribelle di Franco, seppur ancora riconoscibile, torna a incanalarsi in schemi prefissati. Personalmente ricordo due o tre sequenze degne di nota (tra cui il primo omicidio e quello perpetrato all’interno della foresta), poi una regia piatta e una sceneggiatura che mette in scena Jack lo squartatore per poi stravolgere i fatti storici e il modus operandi dell’assassino. Un

film confuso anche sulla piega da seguire, sospeso tra il thriller e il poliziesco… Sono sicuro che mi contraddirai. Il cinema di Franco ha conosciuto molte fasi e trasformazioni. In linea di massima Franco è uno che il cinema lo conosce molto bene ed è in grado di realizzare qualsiasi cosa. Non c'è quindi da stupirsi del taglio classico con inquadrature stranamente bilanciate di “Erotico profondo”. Trovo che in questo film la trasgressione sia nel rappresentare con un taglio visivo da horror del decennio precedente situazioni che sconfinano nello splatter e quindi rese ancora più scioccanti dal contrasto che se ne ricava. Eppure l'ironia graffiante del regista è presente in più di una sequenza. Basti pensare a come si diverte a canzonare la sua musa Lina Romay, quando sale sul palco e inizia a cantare con una voce al limite dello sgradevole e dal pubblico si levano grida che dicono: ”Mostra il culo che è la cosa che sai fare meglio!”. Una sequenza impagabile.

ferimento) e alla serie Ilsa, di cui sei, se la memoria non mi inganna, grande estimatore. La serie Ilsa era in realtà l'incarnazione cinematografica di una cattiva super maggiorata che oltre ad avere delle curiose connotazioni fumettistiche è anche l'incarnazione della mistress per eccellenza. La donna prosperosa in grado di dominare l'uomo: un sogno che da sempre rincorre gli amanti più spinti e trasgressivi del cinema bis. Però c'è da fare un distinguo, mentre nella serie Ilsa tutto il contesto storico è poco più che un pretesto, nel film di Franco la denuncia alla dittatura e ai suoi metodi per esercitare il potere è sentita e sincera. In fondo lo stesso Franco è stato messo all'indice per anni nel suo paese e il Vaticano sembra che lo avesse schedato come un regista pericoloso. Infatti proprio in questo film lo sguardo spesso compiaciuto che il regista spagnolo ha nei confronti di torture e sevizie, diventa ancora più cinico, più disincantato.

Un altro film che ricorderai con piacere, e che io non ho visto, è “Greta, la donna bestia” del 1976. Se non sbaglio è riconducibile al genere women in prison (che in Italia vedrà Bruno Mattei come principale regista di ri-

Dopo il 1976 inizia quello che io ritengo il periodo buio di Jess Franco. Come farà qualche anno dopo Joe D’Amato, il “nostro” scivola via via nel porno, proponendo, di tanto in tanto, horror di bassa lega di imita-


zione tra i quali i cannibalici “La donna cannibale” (con la bella Sabrina Siani e Al Cliver, al secolo Pierluigi Conti, attore feticcio di Lucio Fulci) e “Il cacciatore di uomini”, ma anche zombie movie come “Il lago dei morti viventi” e “Oasis of the zombies”. Non so se ci sia qualcosa da salvare, perché non ho visto tutti i film del periodo. Tu, consigli di recuperare qualcosa? Più che il periodo buio per Jess Franco inizia il periodo buio per tutta la cinematografia cosiddetta “media”. L’uscita di film come “Guerre stellari” dette il via a film portati sullo schermo con milioni di dollari, mettendo in scena storie che fino a qualche anno prima sarebbero state realizzate con scotch e fil di ferro, segnando di fatto la crisi dei film artigianali. Ecco che fiorisce lo splatter, un genere che comunque anche con bassi budget permette di colpire e impressionare lo spettatore. Sono film fatti per motivi alimentari e anche le sue sempre più frequenti incursioni nell'hard la dicono lunga sul bisogno di lavorare. Sinceramente non è il periodo di Franco che preferisco, ma l'inizio de “La dea cannibale” con la bambina rapita dagli indigeni e il carillon che suona mi ha sempre colpito. Inoltre Franco si ri-

taglia in questa pellicola una delle sue tante apparizioni da attore che spesso, di film in film, sembrano lanciare messaggi autobiografici. In "La dea cannibale", Franco interpreta una specie di contrabbandiere che, a un certo punto, esclama: ”Non è colpa mia se mi fanno fare certe cose… devo pur lavorare!”. Lo stesso Franco mi confermò questa mia impressione. 18) Nel 1988 si registra il canto del cigno di Jess Franco, con un film criticato da molti ma che io considero un cult, cioè “I violentatori della notte”. Il film ha uno dei più grandi cast che Franco abbia mai avuto a disposizione (Helmut Berger, Caroline Munro, Telly Savalas, Brigitte Lahaie, Howard Vernon, Lina Romay). La sceneggiatura non è originale, cita un film degli anni ’60, ma riesce a intrattenere a dovere e offre momenti gore molto interessanti (alcuni citano Fulci). Peraltro, c’è una scena che Stivaletti riproporrà pari pari per il suo “I tre volti del terrore”. Come presenteresti questo film se tu lo dovessi lanciare ai “B movie di TVR”? In realtà ho avuto l'onore di programmarlo e presentarlo su TVR e chiaramente fu una di quelle presentazioni in

cui avrei voluto dire mille cose e alla fine, forse, non riuscii a dire niente. Comunque lo lanciai come “il canto del cigno dell'horror classico del vecchio continente”. Il tema della bellezza perduta, cardine del cinema fantastico europeo, viene qui attualizzato e portato alle estreme conseguenze. Il tipico mad-doctor è qui un chirurgo estetico che tenta di rendere la bellezza alla sorella dal volto sfigurato dall'acido. I due sono oltretutto legati da un rapporto incestuoso nella migliore tradizione franchiana. In questo film trovano posto tutti gli elementi che hanno accompagnato la lunga carriera del regista spagnolo: il dottor Orloff, la sua musa Lina Romay e la trama stessa che è in pratica un remake del suo primo film fantastico. “Les predateurs de la nuit” nasce per volontà del potentissimo distributore e produttore francese Renè Chateau che, desideroso di lanciare sul piano internazionale Brigitte Lahaie, mette insieme un cast davvero sorprendente che va da Telly Savalas a Chris Mitchum, da Caroline Munro a Stephane Audran, da Brigitte Lahaie a Helmut Berger. Per non parlare di Howard Vernon che ricopre il ruolo che già aveva interpretato ne “Il diabolico dottor Satana” e Lina Romay che il professor Orloff presenta come il

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suo capolavoro. Il gioco dei rimandi si fa quindi davvero interessante. Si tratta di un film dal punto di vista tecnico ineccepibile tanto per sottolineare per chi non lo avesse ancora capito che quando Franco è tecnicamente sciatto lo fa o per cifra stilistica o perché non gli importa niente di quello che sta facendo. “Les predateurs de la nuit” è un film ancora più cinico e disincantato di tutti gli altri realizzati dal regista spagnolo e si chiude con un finale che lascia pochi dubbi: i cattivi sono destinati a vincere, il male trionfa. Alla fine c'è un minimo segnale positivo, ma che il bene vinca è davvero molto incerto. Questo è Jess Franco.

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Negli anni ’90 si scivola pian piano nell’ultima fase del regista, dove irrompe la sua cospicua produzione digitale, a me del tutto ignota. Hai visto qualcosa di questa ultima fase, c’è del buono? Sono riuscito a vedere alcuni di questi titoli e devo dire che "Incubus" del 2002 e più che altro "Snakewoman" del 2005 sono un bel tuffo nel cinema di Jess Franco. Altri titoli sono un delirio puro che sembrano realizzati più per accondiscendere i motivi della sua fama presso le nuove generazioni che altro. Io conservo nel cuore altri film..

Venendo agli attori “secondari” che hanno lavorato con Jess Franco, non posso non ricordare Horst Tapper, meglio conosciuto per aver interpretato l’ispettore Derrick. Ce ne erano però altri che ricordi con simpatia? Sono molti i caratteristi che hanno lavorato con Jess Franco, primo tra tutti lo svizzero Howard Vernon, il suo attore preferito, indimenticabile nel ruolo dello zio Howard ne “Una vergine nella terra dei morti viventi” (1971) che in realtà è un morto vivente che abita le fredde acque dello stagno prospiciente il castello in cui si svolge tutta la vicenda. Altro attore svizzero che spesso collabora con Franco è Paul Muller, famoso in Italia per le sue partecipazioni alla saga di Fantozzi. Attore dalla lunghissima carriera ha però ricoperto il ruolo da protagonista solo in “De Sade 2000” di Jess Franco. Paul Muller è sicuramente un attore che andrebbe rivalutato specie per i suoi ruoli da raffinato villain nel nostro peplum e horror gotico. Altri due attori ricorrenti nella filmografia di Franco sono Fred Williams e Jack Taylor. Il primo dopo un importante incursione nel cinema di Federico Fellini si dedicò alla moda aprendo una serie di negozi a Berlino, il secondo ha continuato a lavorare come attore e

lo si ricorda piacevolmente ne "La nona porta" di Roman Polanski. Una caratteristica di Franco, ma anche di molti altri registi importanti (tra i quali Hitchcock e Fulci) era quella di ritagliarsi sempre dei piccoli cammei. Come valuti il Jess Franco attore? Ne parlavo prima. Quando Jess Franco partecipa ai suoi film si ritaglia sempre ruoli di personaggi ai margini. Spesso sono maniaci e malati di mente. In uno dei suoi film più controversi, “Le viziose” (1975), riveste addirittura il ruolo di un spretato coinvolto in messe nere. Ma il suo cammeo più divertente lo si può vedere nel rimontaggio di due film di Jess Franco operato da Joe D'Amato (Aristide Massaccesi): “Justine” (1979). In questo film Franco interpreta il ruolo di un cliente di una prostituta che essendo impotente cerca di eccitarsi con la copertina di una rivista di cinema che mostra Lorna, la protagonista di “Delirium”, uno dei suoi film più belli. È esilarante quando in "Una vergine tra i morti viventi" tenta di dare fuoco alla casa con una scatola di fiammiferi... Chiudo con una domanda sul cinema contemporaneo di genere, sia italiano che americano.


Cosa ne pensa un amante di cinema bis come te dei film di ultima generazione e pensi che in Italia poss a rinascere il cinema di genere? So che rischio di passare per snob e fanatico, ma siccome non lo sono esprimo tranquillamente il mio giudizio: non c'è rimasto più niente. Il cinema di oggi è solo un guazzabuglio senza senso montato con ritmi frenetici e ossessivi nella remota speranza di interessare in qualche modo lo spettatore. Abbiamo perso completamente i tempi e il gusto della narrazione cinematografica e i film mi ricordano di più una partita giocata al Nintendo o alla Playstation fatta con i miei figli. Ma niente cinema, quello è un'altra cosa! Certo è vero che poi dalla Francia arrivano perle come “Calvaire” di Fabrice Du Welz oppure “Them” di Moreau e Palud. Ma sono sprazzi, il resto è desolante niente. Un caloroso ringraziamento, da parte di tutta la redazione, a un vero amico del cinema di genere come Pierpaolo Dainelli, a cui vanno anche i miei ringraziamenti personali per avermi fatto scoprire film come “Femina Ridens”, “La corta notte delle bambole di vetro”, “Le orme”, “Gli occhi al cielo” e moltissimi altri… Grazie di cuore.

I violentatori della notte Matteo Mancini

“Faceless”, l’ultimo grande film diretto da Jess Franco

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rodotto da René Chateau nel 1988 con un budget insolito per le pellicole di Jess Franco, “I violentatori della notte” - meglio noto con il più appropriato “Faceless” o con il titolo originale di “Les predateurs de la nuit” - è l’ultimo grande film del regista spagnolo che dopo questa opera si dedicherà a film minori fino alle ultime fatiche girate in digitale. Il soggetto del duo Chateau-Franco richiama alla memoria due celebri film del passato: il primo è l’horror transalpino “Occhi senza volto” del 1960, da cui viene ripresa l’idea dello scienziato pazzo che cerca di porre rimedio agli sfregi che deturpano il volto di una persona a lui cara, eseguendo esperimenti su

cavie umane; il secondo è “Il diabolico dottor Satana” del 1963, diretto dallo stesso Franco e anch’esso fortemente debitore di “Occhi senza volto”. Nonostante il film non possa esser considerato originale, tuttavia costituisce un ottimo esempio di cinema di genere anche perché sintetizza in novanta minuti tutta la filmografia del prolifico regista. Più nel dettaglio potremmo definire “I violentatori della notte” un cocktail assai esplosivo e affascinante frutto di una commistione tra noir (detective privato che indaga su una serie di omicidi), drammatico (l’inadeguatezza per non sapere accettare il proprio corpo), nazi-movie (abbiamo l’elemento dello scienziato pazzo e degli e-

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sperimenti chirurgici su cavie umane vive), horror (splatter a go go), thriller (un paio di assassinii in stile spaghetti thriller) ed erotismo perverso (necrofilia, scena di amore saffico, voyeurismo, prostituzione). La sceneggiatura (sempre del duo Chateau -Franco) e la confezione della pellicola sono abbondantemente sopra la media rispetto alla produzione standard dell’autore. Tuttavia proprio questa maggiore cura dei particolari e l’investimento di importanti capitali determinano una ricaduta evidente sulla regia di Franco che finisce per essere “meno folle” e più convenzionale, ma non per questo meno qualitativa. Non vi è infatti traccia di inquadrature sperimentali o improvvisate, né un utilizzo smodato dello zoom o di altre trovate registiche finalizzate a fare di ogni necessità una virtù. Franco, su pressione del produttore, cerca di dirigere in modo tale da rendere la pellicola adatta a un numero maggiore

di spettatori, ma non si può certo sopprimere l’estro di un artista forte come Franco e così, alla fine, ne esce fuori una pellicola in cui la crudeltà e il gusto per la perversione finiranno per configurarla come un prodotto di nicchia. Lo script, pur soffren-

do di alcune "distorsioni temporali" (evidente soprattutto nell’epilogo), non viene penalizzato da dei difetti che si sarebbero potuti evitare, quali alcuni comportamenti forzati dei personaggi che, talvolta, tengono condotte incompatibili rispetto alla meticolosità con cui pianificano le azioni delittuose.

Non mancano le scene disturbanti, e parlo di disturbanti con la "d" maisucola, tra cui un’intera sequenza - riproposta anche da Stivaletti in "I tre volti del terrore" - in cui viene staccata la pelle dal volto di una ragazza per esser trapiantata su un altro volto. In ogni caso, la scena più fastidiosa è quella nella quale si assiste a un assassinio perpetrato conficcando l’ago di una sir i n g a nell’occhio della vittima, il tutto sotto lo sguardo attendo di una mdp che riprende in primissimo piano l’iride trafitta. Ci sono anche omaggi impliciti a Lucio Fulci e al suo “Paura nella città dei morti viventi” (scena del trapano). Magistrale il make up artigianale di Jacques Gastineau (non aggiungo altro per non rovinarvi la visione). Come anticipato non mancano le scene di erotismo perverso tipiche del regista tuttavia, per i motivi già detti, è palese il freno imposto dal produttore e si ha la chiara e netta sensazione di un Franco imbrigliato, co-


I violentatori della notte

SCHEDA DEL FILM Produzione: Spa-Fra, 1998 Regia: Jesus Franco Interpreti principali: Helmut Berger, Brigitte Lahaie, Telly Savalas, Christopher Mitchum, Caroline Munro, Howard Vernon. Genere: Horror Durata: 98

Trama Chirurgo plastico (Berger) studia la maniera di ricostruire il volto della sorella. La donna, infatti, ha perduto la bellezza a causa del gettito di acido spruzzatole in faccia. Il dottor decide così di praticare delle operazioni, utilizzando delle cavie umane che le vengono procacciate da una seducente assistente (Lahaie) e quindi anestetizzate e sequestrate. Così, tra le tante giovani rapite, riesce a imprigionare persone dello spettacolo come Florence Guerin (che interpreta se stessa) e fotomodelle varie, tra cui la figlia (Munro) di un pericoloso boss americano (Savalas) che incarica un detective privato di mettersi a lavoro sul caso. Intanto il chirurgo plastico, insoddisfatto dei propri risultati, decide di contattare un celebre medico tedesco (Vernon) famoso per i suoi esperimenti nei lager nazisti…

stretto ad abbozzare laddove il suo estro avrebbe voluto e potuto osare. Notevole il cast artistico, a mio avviso il più importante che Franco si sia trovato a gestire anche se non si registrano performance particolarmente ispirate. Nei panni del protagonista troviamo un luciferino Helmut Berger (indimenticabile nel poliziottesco "La Belva col mitra"), nell’occasione un po’ spento, affiancato da volti popolarissimi come Telly Savalas e la bella Caroline Munroe (gli amanti di b-movie la ricorderanno in "Maniac"

di William Lustig o in "Star Crash" di Luigi Cozzi). Se la cavano bene anche i restanti attori, tra cui sono degni di menzione la sexy ex pornostar Brigitte Lahaie (all’epoca fidanzata di Chateau che sembra confezionò il film proprio per cercare di lanciarla nel mondo del vero cinema), Howard Vernon (richiamato a interpretare lo stesso ruolo che più di venti anni prima lo aveva lanciato con “Il diabolico dottor Satana”) e i simpatici cammei di Florence Guerin e Stephane Audran all’epoca compa-

gna del celebre regista francese Claude Chabrol. Patinata la fotografia di Maurice Fellous, mentre la colonna sonora di Romano Mosumarra si rivela modaiola. Visione consigliata, ma non agli amanti di cuore. Nonostante non sia amatissimo dai fan del regista e non sia una delle sue opere più rappresentative, il sottoscritto considera “I violentatori della notte” uno dei B-Movie più curati di Franco. Consigliata la visione.

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Lo stile del Campione Vincenzo Bonicelli della Vite

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itaglio personale del presente che inizia, l'incipit narrativo è un neonato dall’identità precisa ed ambigua, dotato di sentimento interno e venuto al mondo per volontà esterna: l’opera nasce come un parto di natura particolare. La parola va oltre la natura stessa e la sua apparenza. Il suo Autore è insieme padre e madre della narrazione. Il suo pregiudizio si riflette in una stortura delle cose nell’incipit narrativo, una distanza netta dal buon senso corrente. Mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato.

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L'assenza di colpe di Joseph K è una chiara stortura rispetto al fatto che venga imprigionato, e il «qualcuno doveva aver calunniato» non spiega, ma lascia al tempo vitale della narrazione la risoluzione di ogni ambiguità... l’evolversi della stortura iniziale in nuovo buon senso non più anonimo, ma personale. Umore e ambientazione della storia si definiscono come identità in fieri: neonato che vuole vivere per propria volontà. Nell’incipit narrativo compare il pregiudizio volontario dovuto all’Autore, la stortura che la narrazione porterà ad una soluzione originale. Il neonato ha un padre e una madre riuniti in un’unica persona che ne curano lo svi-

L’incipit, è un neonato dall’identità precisa e ambigua Sec on da par luppo, ne interpretano il silenzio e te le parole, ne guidano i primi passi ed il percorso successivo fino allo sviluppo adulto ed autonomo. Ma intanto l’incipit è un flash sul caos strillato che accompagna la nascita, la presenza di un apparato esterno che riprende il rumore di un nuovo e prepotente sentimento. L’inizio della vita è segnato dal sentimento del bambino e dalla volontà esterna di babbo e mamma. Tre protagonisti che diventano due nella narrazione, ma ambiguamente: come nella vita, è il bambino l’unico vero protagonista. L’ambiguità è nella coesistenza di sentimento del protagonista e volontà dell'Autore, che sono all'origine dell'incipit. Pirandello, nel suo saggio Arte e scienza, mette in rilievo che non v'è arte se sentimento e volontà soggettivi non intervengono direttamente, ben prima di ogni conoscenza intuitiva ed astratta. Se la narrazione è in prima persona, è evidente la coincidenza in una unica persona di ambedue i caratteri. Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli elementi soggettivi dello spirito, e fondando l'arte solamente sulla conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l'arte è conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato veramente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dal meccanismo. Il modo dell'essere e la qualità sono dati dalla volontà e dai sentimenti: prima, abbiamo l'oggetto senza un mo-


do d'essere determinato e senza valore. L’inizio della vita è segnato dal sentimento del bambino e dalla volontà esterna di babbo e mamma. Tre protagonisti che diventano due nella narrazione, ma ambiguamente, come nella vita, è il bambino l’unico vero protagonista. La coesistenza ambigua di volontà dell'Autore e sentimento del protagonista dà origine alla vita dell’opera. Ma sentimento interno e v o l o n t à esterna, come nella vita individuale, hanno una bisogno dell’altra, coincidono in una precisa scelta di sopravvivenza. Cioè in una necessità di armonia. Così, sentimento e volontà partecipano insieme nel dare determinazione e valore all’oggetto letterario. La disarmonia della realtà s’incarna nel neonato letterario. Le conferme vengono all'inizio di importanti opere letterarie, non solo nella Divina Commedia o nel Processo. In Anna Karenina «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»: il pregiudizio sulla famiglia «infelice» é ambiguo in quel «a modo suo». È prec i so nel de fi ni r ne l’opposto felice delle f a m i g l i e c h e «s’assomigliano tutte», quelle unite dal buon senso.

Ne I tre Moschettieri, nella Prefazione, «si stabilisce che, nonostante i nomi in- is e in – os , gli eroi della storia che avremo l'onore di raccontare ai nostri lettori non hanno niente di mitologico». Il pregiudizio sta nella realtà degli eroi Aramis, Athos e Porthos, realtà ambigua in quel «niente di mitologico», che segna la distanza temporale dell’autore dalle immagini del passato, per cui Dumas dice «non ebbi pace finché non riuscii a trovare nelle opere contemporanee una qualunque traccia di quei nomi straordinari». Anche qui vediamo la distanza dal buon senso e dall’ordine normale, la nascita di un presente. La precisione nei suoni finali dei nomi in «is» e in «os», p r e c e d u t a d a «nonostante» diventa un motivo iniziale di non anonimato, di personalizzazione fuori dal mito eppure straordinaria, che ha rilevanza per la storia da raccontare e per il sapore dato alle immagini dell'incontro con D'Artagnan. Esplicito l’incipit dell'Odissea. «Tu di queste avventure da un punto qualsiasi movendo, racconta, o figlia di Zeus, anche a me qualcosa. Tutti gli altri in quel tempo, quanti la morte scansarono, erano a casa salvi tornati dalla guerra e dal m a r e : l u i solo».

Incipit preciso in quel «lui solo»: il destino di Ulisse è unico, ben diverso da quello degli altri reduci della guerra di Troia, stortura nella vita dell’eroe protagonista. Disarmonia iniziale. Ma «da u n p u n t o qualsiasi movendo… racconta anche a me qualcosa» è ambiguo: è la volontà della figlia di Zeus, non quella dell’autore, che ordina gli eventi di questa esperienza unica e singolare, dando senso alla neonata narrazione straordinaria. La volontà dell’incipit è quella del neonato: di per sé senza parole, ha bisogno dell’aiuto divino. Il racconto soccomberebbe al sentimento e alla disarmonia narrativa, senza l’intervento della volontà superiore di un qualche Dio. È chiaro il pregiudizio nell'Iliade: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infinita addusse lutti agli Achei.»: l'ira di Achille è precisa in quanto funesta, ma ambigua e fuori dal buon senso in quanto portatrice d'infiniti lutti sospesi nel tempo divino, versione eccezionale de ll 'ir a d e g li umani. Degno di esame molto attento è l’inizio del Don Chisciotte. «Può capitare che un padre abbia un figlio brutto e senza nessuna qualità, e l'amore che gli porta gli metta una benda sugli occhi per non vederne i difetti... Ma

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La Terra non è abbastanza Roberto Paura

“La Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere in una culla tutta la vita”, lo diceva nel 1911 Constantin Ciolkovskij, padre dell’astronautica e teorico della colonizzazione umana dello spazio. A un secolo da quella rivoluzionaria dichiarazione, la culla dell’umanità si è fatta sempre più stretta, scomoda e sovraffollata: volente o nolente, presto saremo costretti davvero a lasciarla. Anche se le spaventose stime sulla sovrappopolazione diffuse fino ai primi anni ’90 sono ormai state riviste al ribasso, tanto da ipotizzare che entro cinquant’anni la popolazione umana raggiungerà il suo picco e inizierà a declinare, il problema è un altro: le risorse. Secondo il Wwf, nel 2030 l’umanità avrà bisogno non di una, ma di due Terre dato il tasso di sfruttamento delle risorse naturali. E allora? La soluzione più equa e auspicabile è un cambiamento nei ritmi di vita della popolazione occidentale; ma se le cose dovessero andar male, perché non pensare fin da subito all’ipotesi di spalmare un po’ dei nostri futuri figli e nipoti al di fuori del pianeta? Un documentario cinematografico degli anni ’50 esordiva con rassicuranti parole: “É probabile che una parte dei nipoti di coloro che oggi siedono in questo cinema non nascerà sulla Terra”. Previsione azzardata, ma rispetto a 104

La ricerca di nuovo “spazio vitale” fuori dal nostro pianeta sessant’anni fa abbiamo forse meno visionarietà, ma più mezzi. Per le nostre ipotesi di colonizzazione spaziale, non c’è del resto bisogno di scomodare Alpha Centauri, la stella più vicina al Sole (che dista pur sempre quattro anni luce, e la velocità della luce – si ricordi – è di 300.000 km al secondo, mentre l’oggetto più veloce costruito finora dall’Uomo, la sonda Ulysses, non supera i 40 km/s); né tantomeno Gliese 581G, il pianeta forse abitabile più vicino a noi che siamo stati capaci di scovare a oggi (20 anni luce di distanza). A dir la verità non c’è bisogno nemmeno di uscire dall’orbita terrestre: i luoghi migliori fuori dalla Terra dove potremmo costruire delle colonie abitali sono i punti lagrangiani L4 e L5. Un punto lagrangiano (il cui nome deriva dal matematico Lagrange che per primo li teorizzò) è un punto dello spazio dove l’attrazione gravitazionale tra due corpi si annulla reciprocamente, permettendo a un terzo corpo assai più piccolo di mantenere la posizione senza dispendio di energie. Nel nostro caso, la Terra e la Luna creano due interessanti punti lagrangiani allorquando le loro reciproche influenze gravitazionali si annullano, proprio nei punti detti L4 e L5. Il primo a sostenere la possibilità di costruire in quei punti delle grandi stazioni spaziali dove ospitare in permanenza esseri umani fu il fisico americano Gerald O’Neill, in


un articolo pubblicato n e l settembre 1974 sulla r i v i s t a “Phisics Today” e intitolato, per non lasciar spazio a equivoci, The Colonization of Space. La NASA s e n e interessò per un po’ prima di lasciar perdere a causa della mancanza di f o n d i . I problemi in realtà non sono solo i fondi. Anche se nei punti L4 e L5 si possono costruire tranquillamente due grandi città orbitanti, senza il dispendio di energia necessario per mantenerne la posizione, resta il rischio dell’esposizione alla radiazione cosmica, il cui effetto letale per gli esseri umani (i raggi cosmici ionizzano gli atomi e distruggono quindi il Dna) viene annullato sulla Terra dall’azione dell’atmosfera, ma è ben presente nello spazio extra-atmosferico. Ne sanno qualcosa gli astronauti, le cui tute rendono possibile le passeggiate spaziali e – all’epoca – le esplorazioni lunari, ma non proteggono il corpo a lungo termine. È un problema tra i più importanti da risolvere per il rilancio dell’attività umana nello spazio perché a oggi gli astro-

nauti non possono restare troppo a lungo fuori dall’atmosfera senza rischiare la morte. Gli abitanti delle future colonie lagrangiane non potranno quindi difendersi solo con la struttura esterna della colonia: l’ipotesi finora più accreditata è quella di costruire uno scudo schermante le cui pareti esterne e interne siano divise da svariate tonnellate d’acqua. Una soluzione impraticabile per le astronavi ma forse realizzabile per le ben più grandi colonie spaziali. Allora, resta un altro problema: come le costruiamo? Si tratta naturalmente di costruire le colonie direttamente nello spazio, impresa difficoltosa ma non impossibile dato che l’assemblaggio della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) ci ha già permesso di sperimentare tecniche di costruzione in orbita. Il problema è quello dei costi: lanciare nello spazio i materiali neces-

sari costa, tanto più numerosi (e pesanti) sono i materiali. Per comparazione: la costruzione della ISS ha reso necessari 40 lanci dello Space Shuttle e della Soyuz, e considerando che ogni lancio costa intorno ai 500 milioni di dollari, siamo già a 20 miliardi spesi. Una colonia lagrangiana necessiterà di ‘qualcosina’ in più… La soluzione sarebbe quella di costruirla utilizzando materiali presenti sulla Luna: la gravità sul nostro satellite è quasi dieci volte inferiore a quella della Terra, per cui lo sforzo per lanciare uno shuttle verso il cantiere della colonia sarebbe di gran lunga minore. Poi potremmo far girare la colonia su se stessa, così da produrre una forza gravitazionale più o meno uguale a quella terrestre, e ricreare all’interno le condizioni normali del ciclo biologico, così da far prosperare piante, colture, animali. E l’acqua? Come nella ISS e nelle astronavi, si può riciclarla con un’efficienza pari quasi al 100%, e con l’elettrolisi si scinde l’ossigeno dall’acqua e lo si immette nella colonia. Naturalmente, l’elevato fabbisogno necessiterà di

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periodici rifornimenti. Ma la recente conferma dell’esistenza di acqua nei poli lunari può essere la soluzione. Ancora meglio sarebbe collegare le colonie lagrangiane con la Terra attraverso ascensori orbitali (ma ne parleremo nella prossima puntata). Ipotizziamo che vada tutto bene. Potremmo cominciare a pensare di fare le cose in grande: le colonie lagrangiane sarebbero inizialmente solo sperimentali, poi ci potrebbero prosperare numerosissime famiglie. Ma potremmo deciderci a colonizzare qualcosa di più grande: perché non la Luna? L’America e Cina ci sono già ufficialmente lanciate nell’impresa di costruire una stazione lunare entro i prossimi dieci o quindici anni, per poterla poi utilizzare con trampolino verso Marte. Ma naturalmente l’interesse di una stazione lunare non si limita a quest’obiettivo: lì sperimenteremo la vivibilità del nostro satellite e, se lo trovassimo confortevole, inizieremo a espanderci. Dopo tutto, sulla Luna ci potrebbero essere minerali molto preziosi per la Terra, soprattutto per il nostro fabbisogno energetico (v. precedente puntata). Tecnici e scienziati sarebbero raggiunti dalle loro famiglie e presto la Luna brulicherebbe di umanità. Tutto sotto co-

perta, s’intende: la Luna è inospitale, ma nelle grandi colonie potremmo ricreare le stesse condizioni della Terra, assai più facilmente che nei punti lagrangiani dato che avremmo la terra sotto i piedi. E, come abbiamo visto, non mancano scorte di acqua. Le colonie lagrangiane potrebbero in futuro diventare i punti di snodo di un fiorente commercio Terra-Luna, nato sulla base di interessi economici e sviluppatosi poi al punto da fare del nostro satellite una seconda, comoda casa. A quel punto saremo pronti per il grande balzo, quello che sogniamo da anni: Marte. Sì, perché ci sarebbe ben poca differenza tra la vita nelle colonie lagrangiane e quella sulla Luna: si tratta pur sempre di vivere all’interno di una grossa scatola, senza mai vedere direttamente il sole e respirare l’aria aperta. Su Marte le cose potrebbero andare diversamente: potremmo decidere di terraformarlo. Per “terraformazione” s’intende il processo artificiale tramite il quale si ritiene possibile rendere un pianeta simile alla Terra nei suoi parametri fondamentali di vivibilità. Marte ha già un vantaggio non da poco: un periodo di rotazione su se stesso quasi uguale al nostro, lungo 24 ore e trentanove minuti; in questo modo non distin-

gueremo la differenza con la Terra nell’alternarsi del giorno e della notte. L’anno solare sarà lungo il doppio, il che vorrebbe dire un raddoppio dei tempi delle stagioni. Ma non è un problema. Il problema è l’atmosfera: estremamente rarefatta e irrespirabile in quanto composta per il 95% da letale anidride carbonica. E l’acqua. Su Marte ce n’è in abbondanza, ma ghiacciata. La prima cosa da fare, quindi, è estrarla. Costruendo una serie di impianti, potrebbe essere possibile pompare nell’atmosfera marziana gas serra, tali da trattenere il calore sulla superficie e aumentare quindi la temperatura (che oggi oscilla da una minima proibitiva di -140° a una gradevole massima di 20 gradi nella stagione estiva). Con l’aumento della temperatura, l’acqua tornerebbe a scorrere allo stato liquido sulla superficie marziana, com’era in passato. Il clima comincerebbe a diventare favorevole allo sviluppo di alcune piante (e di microrganismi) che verrebbero impiantate dai coloni, permettendo la fotosintesi e quindi l ’ i m m i s s i o n e nell’atmosfera di ossigeno. La superficie tornerebbe a diventare fertile, l’aria respirabile, la vita possibile.


È un sogno, ma sulla carta è tutto assolutamente possibile. Certo, ci vorranno soldi; e i tempi saranno molto lunghi: nel migliore dei casi, due o tre secoli. Ma il tempo c’è, se l’umanità avrà pazienza. Da qui a cinquecento anni, Marte diventerebbe una nuova Terra, abitabile da un miliardo di persone. Magari i marziani non potrebbero parlare al telefono o in videochat con i parenti terrestri, per via dei 6 minuti di intervallo che separano le comunicazioni tra i due pianeti, ma nulla impedirebbe uno scambio regolare di e-mail e una chat con qualche minuto appena di ritardo nelle risposte. I trasporti sarebbero lunghi, ma con l’evolversi dei sistemi propulsivi, allo stato attuale delle conoscenze, si può ipotizzare che un viaggio Terra-Marte (o viceversa) duri intorno alle quattro settimane. In fin dei conti, la vita per un marziano tornerebbe a essere per un po’ quella dei coloni del Far West. Ne varrebbe sicuramente la pena (oltre al fatto che, per via della ridotta gravità, gli umani di origine marziana sarebbero più alti di noi, oltre due metri; ma avrebbero difficoltà a deambulare sulla pesante, vecchia Terra). Spingendoci ancora più in là, supereremmo la fascia degli asteroidi (preziosa fonte di materie

pianeta Marte

prime per le colonie spaziali) e ci ritroveremmo dall’altra parte del sistema solare, dominata dai giganti gassosi. Non c’è alcun modo di vivere su Giove, su Saturno, Urano o Nettuno, ma intorno a questi enormi mondi inospitali ci sono pur sempre delle lune, paradossalmente assai più vivibili della nostra. Su Europa, luna di Giove, ci sono oceani di acqua allo stato liquido appena sotto la superficie ghiacciata, e una tenue atmosfera di ossigeno. Certo, le temperatura sono proibitive per via della lontananza dal Sole, ma future colonie ben sigillate potrebbero sopravvivere senza nessun bisogno di dipendere dall’esterno. Anche Ganimede possiede acqua in gran quantità sotto la superficie, oltre a ossigeno nell’atmosfera, ed è ben più di una luna: è infatti più grande di Mercurio, e possiede persino un campo magnetico, cosa che lo rende poco esposto al pericolo dei raggi cosmici.

Spingendoci oltre, troveremo Titano, la più grande luna di Saturno, di poco più piccolo di Ganimede. Titano possiede una densa a t m o s f e r a d i metano, e il metano scorre allo stato liquido in oceani, fiumi e bacini, tra i quali si stagliano grandi continenti. Geograficamente, Titano è quindi il corpo spaziale più simile alla Terra. È un mondo invivibile, ma terribilmente simile alla nostra Terra primitiva. La terraformazione di Titano non è al momento ipotizzabile, a causa dei problemi derivanti dalle possibili reazioni chimiche. Ma tutto sommato sarebbe un posticino interessante da visitare, una volta cautelatisi dal m e t a n o e dall’ammoniaca; e anche un posto vivibile, perché di acqua ce n’è sicuramente sotto la superficie. Comunque, queste sono solo soluzioni di ripiego. Un giorno lontano potremo decidere di metterci tutti in una grande astronave e lanciarci negli abissi cosmici, verso nuove Terre abitabili, che scopriremo sicuramente nel corso dei prossimi vent’anni grazie agli straordinari successi dell’esoplanetologia. Da qui ad arrivarci è un bel paio di maniche, ma le cose vanno fatte un passo alla volta.

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io, che benché sembri padre, non sono in realtà che patrigno di Don Chisciotte, non intendo seguire la corrente». Dopo avere precisato situazione e protagonista iniziali della storia, Cervantes ne prende le distanze in modo netto, non intendendo seguire la corrente del padre che non vede i difetti del figlio. Cervantes ne è solo il patrigno: termine preciso ed ambiguo insieme che denota la realtà letteraria precisa di un autore che si serve del suo personaggio, che non lo ama per tendenza e legge naturale. Il termine “patrigno” è ambiguo comunque, però: coinvolgerà il lettore in termini affettivi impuri, subalterni agli eventi stessi e al giudizio da darne successivamente in base a criteri narrativi. Il figliastro si meriterà commenti in funzione del suo comportamento, a posteriori e non secondo un a priori affettivo. A priori è però chiara la vanità che ispira il protagonista: la stortura della impudente strada imboccata a dispetto dell’età avanzata. Don Chisciotte che evade dalla realtà prosaica delle campagne della Mancha è una vittima predestinata, prigioniero del suo fantasticare su pulzelle minacciate, nemici cavalieri, giganti ed incantatori. La definizione della narrazione inizia così, precisa ma ambigua nella coincidenza di sentimento e volontà dell’autore. Il leit motiv

del romanzo ha origine qui, nella tendenza iniziale di un percorso stilistico personale, che s’evolverà per contrasto, cioè per l'intervenire nel racconto di tendenze contrarie al leit motiv stesso, disegnando la fase dinamica della narrazione. Infatti è nel contrasto che nasce l’accelerazione degli eventi. Don Chisciotte si scontra con la realtà prosaica delle campagne della Mancha, contadini e contadine, viaggiatori, osti ed animali mentre la sua fantasia crea immagini di pulzelle minacciate, cavalieri nemici, giganti ed incantatori: il contrasto accelera gli eventi, tragico e comico scaturiscono naturalmente dal racconto dei contrasti tra le letture sui cavalieri erranti e le realtà contadine, tra il riscontro dei fatti e le parole incomprensibili che il nostro povero eroe declama nel suo delirio in cui è vero ciò che è falso, in cui le immagini stesse soggiacciono al predominio delle parole, come è naturale in un mondo letterario... come è naturale che le parole esprimano la loro potenzialità ambigua, il sovvertimento dei fatti tramite il racconto, sovvertimento qui addirittura diventato tristemente umano nel Cavaliere dalla triste figura. Letterarietà di immagini e parole: il potere di queste su quelle produce il ribaltamento del loro rapporto, facendo prose-

guire il leit motiv del mondo falso dei cavalieri erranti che vuol essere reale, proprio come i libri letti su di loro, pur non essendo presente, per cui le letture ri-scrivono la realtà degli eventi, ma poi vengono sempre amaramente sconfitte. Ribaltamenti e ri-scritture della realtà di immagini e parole portano la letterarietà all'apice espressivo nel libro di Cervantes. Viene continuamente rivelata la superiorità della realtà delle parole laddove la loro ambiguità esprime appieno le potenzialità della letteratura, relegando le immagini all'univocità singolare della rappresentazione diretta. Proprio nell'ambiguità della parola risalta la letterarietà della forma narrativa. È il tempo della parola che si estende al di là di quello contingente delle immagini. Mentre l'immagine non può mostrare il non immaginato, la parola dice anche il non detto, racchiude anche il silenzio, cioè il mondo ambiguo e sentimentale nascosto tra le pause della finzione narrativa che il lettore riempie a suo piacimento. Nel caso del Don Chisciotte, l'immagine della realtà effettiva, non cavalleresca, può solo evidenziare che l'invenzione letteraria del mondo fantastico porta sempre più l'eroe alla follia dell'incomprensione delle cose, ma anche che egli può


continuare a fingere finché l'inverosimile è funzionale alla strategia narrativa. Finché l'emozione di fondo dell'Autore non è stata espressa compiutamente e l'ambiguità non ha più ragione di essere nel racconto. Quindi il mondo fantastico creato dai libri sui cavalieri erranti diventa visibile anche aldilà di quello che Don Chisciotte vede realmente, perché ciò che vede la mente è predominante rispetto a ciò che vedono gli occhi, le parole arrivano direttamente alla fantasia prima che le immagini passino dallo sguardo. Le parole del romanzo impongono la precisione ambigua che il mondo cavalleresco ha assunto per il protagonista. Almeno fino a che qualcosa d'imprevisto succede, segnando una svolta nel racconto e nella strategia narrativa. Ciò che ci preme a questo punto è sottolineare il procedere della narrazione per contrasti accelerativi degli eventi raccontati. È come se l'autista che stava guidando a cinquanta chilometri l'ora improvvisamente dovesse aumentare la velocità al doppio, per raggiungere un traguardo diventato improvvisamente importante, come ad esempio raggiungere l'ospedale dove il passeggero di fianco a lui possa trovare assistenza. Allora da autista si trasforma in pilota, la strada

diventa più stretta e pericolosa, le sue capacità vengono messe alla prova, coraggio e lucidità devono soccorrerlo necessariamente. Così ha luogo la trasformazione del protagonista in campione, o in eroe persino (che sia positivo o negativo poco importa in termini letterari, anche se rilevante per la storia). Ma perché ciò avvenga, è necessario che la realtà precedente al contrasto venga alterata in deformazione della stessa, cioè che ci sia una perdita: perdita delle caratteristiche e dei caratteri della realtà precedente (al contrasto). Il Cavaliere dalla Triste Figura è un campione prodotto dall'accelerazione della realtà che si verifica quando il buon Quijote abbandona il villaggio domestico e le sue strade conosciute e limitate, dando spazio così al contrasto, creato con quell'ambiente di riferimento dal mondo fantastico e letterario delle narrazioni cavalleresche. Deformazione e trasformazione, quindi: perché Don Chisciotte diventi campione che sfida giganti, cavalieri ostili ed incantatori, bisogna che la realtà perda le caratteristiche solite, paesane e contadine della Mancha, che le locande si trasformino in castelli e che le immagini reali siano trasfigurate dalle parole delle narrazioni cavalleresche, di cui s'è cibata la mente del Chisciotte. Così la parola

del Cervantes crea il mondo magico, letterario del suo maturo «Campione dall'argentea barba» come un susseguirsi fantastico ed amaro di avventure in cui la letterarietà straordinaria è proprio nella paradossale sudditanza delle immagin i reali alle parole del racconto, il precipitare del reale nelle invenzioni della strategia della narrazione, una strategia sdoppiata: da una parte quella dell'Autore che domina l'emozione di fondo del racconto nella consapevol e z z a d e l l a falsità dell'invenzione narrativa; dall'altra la strategia del Campione Don Chisciotte, in cui la passione che l'ha spinto dentro una realtà deformata diventa travolgente, tanto più quanto mostri, ossessioni, incubi e demoni emergono come creature spontanee in un percorso sempre più rapido ed imprevedibile verso l'ignoto di nuove realtà, che non possono corrispondere alle parole di precedenti narrazioni (quelle cavalleresche). La trasformazione reale è imprevedibile, ben aldilà del lei motiv del mondo cavalleresco. Quindi deformazione e trasformazione sono momenti necessari della narrazione letteraria, forme dinamiche in cui è possibile l'identità tra vita ed arte, anche ai livelli più fanta109


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stici di realtà inventate dalle parole. Il Don Chisciotte è solo l'esempio -forse il più alto - di questa narrazione letteraria, ma in tutte le opere vere, racconti o romanzi, poemi o fiabe, la parola procede lungo un leit motiv, si sviluppa dentro contrasti che accelerano gli eventi, e l'accelerazione porta a deformazione e trasformazione delle realtà rappresentate artisticamente. Prima di portare altri esempi in tal senso, vorrei chiarire gli elementi della deformazione e della trasformazione di situazioni e personaggi della narrazione. La deformazione comporta principalmente la perdita: la realtà precedente perde le sue caratteristiche nel presente, assumendo forme e contenuti diversi dal normale, proprio perché la deformazione non le rende più riconoscibili come parti del presente. La perdita della forma nota verificabile nel presente dà luogo a mostri, ossessioni, paure ed incubi, demoni e fantasmi (vedi «Cavaliere dalla Triste Figura»). Eventi, personaggi e psicologie del racconto, ivi compresa quella dell'Autore, lasciano il terreno delle certezze e la direzione nota del leit motiv. Il percorso nella realtà è cambiato: il fondo stradale non è più liscio e piano, diritto e prevedibile. L'autista (i protagonisti, l'Autore stesso) deve

fare uno sforzo nella guida, è obbligato ad accelerare in condizioni di difficoltà ed ostacoli crescenti. Il contrasto ha provocato l'accelerazione degli eventi, solo l'Autore può prenderne le distanze. I personaggi possono tutto al più andare in cerca d'Autore, vivere gli eventi senza uscire dal teatro arduo della vita, in cui perdita e scoperta, azione e reazione sono figure necessarie dell'incontro tra parole ed immagini, vita e letterarietà. Solo l'Autore possiede l'ironia e la volontà che lo rendono superiore al senso di perdita, ossessioni ed incubi fanno parte della sua consapevolezza. Solo lui può guidare i personaggi verso la loro trasformazione in presenze coraggiose e lucidamente presenti nel precipitare degli eventi narrati, farli divenire i nostri campioni che sfidano l'ignoto esorcizzando la nostra inesperienza personale, inevitabile davanti alla vita intesa come narrazione dai mille risvolti possibili. Qui è piena la nostra identificazione coi personaggi: non possediamo né l'ironia né la consapevolezza totale dell'Autore delle nostre vite, come i personaggi della narrazione siamo dentro un ciclo vorticoso di cui ignoriamo la strategia. L’inizio e la fine. Come i personaggi della narrazione, siamo di fronte a nascita e morte, a eventi magnifici o terribili, di-

screti o dispettosi, che ci spingono all'accettazione e alla forza di reazione, alla riflessione e alla passione, nel coraggio e nella paura, nell'esagerazione e nella moderazione: nell'impossibilità di conoscere il percorso disegnato per noi da una strategia superiore, logica ma arbitraria, pertinente a una realtà che solo in rari momenti si svela, quando, incrociando le nostre strade di poveri e gioiosi viandanti, lascia alcune passeggere tracce del senso della fine di ciascuno di noi. Il racconto finirà con un qualche ricordo indelebile del nostro inizio, l'ignoto della fine avrà un'attinenza inconscia ed arbitraria colla nostra nascita. Così è anche per la fine del racconto, o del romanzo: l'azione cesserà, lasciando solo in noi lettori la calma di emozioni che forse non immaginavamo neanche. Non conoscevamo così a fondo certi particolari significativi del nostro esistere, prima di leggerli. Come scrive Kundera ne L’arte del romanzo : «Il romanzo deve raccontare solo ciò che il romanzo può conoscere». E ciò che può conoscere è l’attinenza emotiva tra fatti e persone che sembrano non averne alcuna inizialmente, a partire dall’urto dell’incipit.


Pater Noster Pia Barletta

Hai iniziato diversi anni fa con pubblicazioni rivolte alla scuola, tra cui un volume che parla di sicurezza sul lavoro. Questa esperienza ti ha in qualche modo agevolato nell’approccio con gli editori? Quando lavori per un grande editore, impari subito a mettere in discussione ciò che scrivi. La maggior parte degli autori è convinta che il risultato della propria arte sia perfetto e immutabile: soddisfa loro e quindi deve essere soddisfacente per tutti, in senso assoluto. In questo equilibrio universale, la modifica anche solo di una virgola o di una parola è un delitto. Imparare che le cose non stanno affatto così è doloroso ma indispensabile per poter crescere come scrittore. Qualche mese prima dell’uscita di Pater Noster ero al telefono con un editor di Pearson, per cui scrivo prettamente articoli di diritto. Quando gli ho spiegato che avrei curato la raccolta mi ha detto “Allora farai il mio lavoro”. E aveva ragione. L’esperienza maturata negli anni mi ha aiutato quando mi sono trovato “dall’altra parte”, non solo autore ma soprattutto curatore. Oltre a scrivere, e naturalmente agli impegni lavorativi, collabori con riviste e giornali online, sei membro della giuria di alcuni premi, organizzi presentazioni di autori emergenti. Come riesci a conciliare il tutto?

Le interviste di BraviAutori Intervista ad Andrea Borla, curatore della raccolta Pater Noster

Soprattutto negli ultimi tempi, cercare un equilibrio tra le mie attività sta diventando problematico. Questo non significa che mi dia per vinto, ma mi ha costretto a rallentare i tempi delle pubblicazioni. Ho diversi romanzi nel cassetto a cui purtroppo non riesco a dedicare il tempo necessario. Nei prossimi mesi dovrò assolutamente darmi da fare, concentrandomi sulla promozione delle mie opere. Parliamo di Pater Noster, la tua ultima fatica letteraria, in cui troviamo altri talenti più o meno conosciuti, come è iniziata, da dove è partita l’idea? E perché il titolo di una preghiera? Sono convinto che le strofe del Padre Nostro nascondano una forza incredibile. È una preghiera conosciuta da tutti, atei e credenti, e forse per questo spesso banalizzata. Eppure i suoi versi sono una fonte inesauribile di meditazione e, di conseguenza, da essi può nascere l’ispirazione per la scrittura. La mia intenzione iniziale era di scrivere tutti i racconti, ma mi sono accorto che alcune strofe sembravano perfette come titoli di opere di giovani autori che apprezzavo. Così ho pensato di coinvolgerli, riservandomi il ruolo di curatore. Una volta fissata l’idea principale, mi sono concentrato sulla cornice che doveva racchiudere i singoli racconti, costituita dall’introduzione (Nel nome del Padre,

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del Figlio e dello Spirito Santo) e dal racconto conclusivo (Amen). Questa raccolta comprende racconti di generi più disparati. È stata una tua scelta o hai lasciato che gli autori si esprimessero come meglio ritenevano opportuno? Il filone principale è costituito da racconti thriller e noir, a cui si accompagnano alcuni testi di genere fantastico. La raccolta è coerente con le tematiche di molte pubblicazioni delle Edizioni Il Foglio e, infatti, comprende opere di autori scoperti da questa Casa Editrice. Il filo conduttore è evidenziato dal sottotitolo: dodici vittime per cui pregare. La presenza della vittima, che spesso finisce per confondersi e scambiarsi di posto con il carnefice, è il vero elemento comune. Due soli racconti si discostano dal filone principale per stile e meccanismi narrativi, due testi più intimisti e concentrati sugli aspetti psicologici dei personaggi. In uno di essi (Venga il tuo regno di Alessandro Del Gaudio) la vittima è addirittura presentata in senso metaforico: un musicista e compositore un tempo famoso costretto a fare i conti con lo show business.

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Come definiresti questa esperienza?

Il libro comincia con una considerazione: il miglior modo per farsi dei nemici è curare una raccolta di racconti. Ma, scherzi a parte, l’avventura di Pater Noster mi ha dato notevoli soddisfazioni. La sfida era davvero complessa: realizzare una raccolta in cui l’ordine dei racconti non è modificabile dal curatore, ma che deve seguire obbligatoriamente i versi della preghiera. Questa peculiarità rende indispensabile una buona dote di flessibilità da parte degli autori, che devono mettersi al servizio della raccolta stessa. È stato spesso indispensabile che i racconti venissero modificati dai loro autori per adattarsi a questo o quel verso. È stato complicato, ma sono contento del risultato finale. Nell’introduzione e nel racconto conclusivo, entrambi scritti da te, compare Piero Scacchi. È un personaggio che ritorna sovente nelle tue opere. C’è un motivo particolare per cui sei così legato a lui? Piero Scacchi è il protagonista del mio romanzo Odio e, in maniera indiretta, del successivo Cerchi, nonché di altri tre romanzi ancora chiusi nel mio hard disk. Piero è un trentenne condannato per un omicidio, che sconta la sua pena in carcere.

Sente il bisogno di comprendere se stesso e, quindi, si trova di fronte a due strade: parlare con il cappellano o con lo psicologo del carcere. Visto che non è pentito di quel che ha fatto e ritiene di non dover chiedere perdono a nessuno, scarta la via religiosa. Scacchi diviene così un nuovo Zeno Cosini, che scrive ricordi e racconti per il suo psicologo. È un uomo alla ricerca di se stesso e in questo mi riconosco pienamente in lui. In più, è in costante oscillazione tra il bene e il male, una condizione che lo accomuna ai suoi compagni di cella, un maestro elementare condannato per omicidio e pedofilia (il Professore), e un trafficante di droga (Carlos). Don Lorenzo è un personaggio emblematico: rappresenta la linea di confine tra due sentimenti, in questo caso fede e amore. Quanto, secondo te, è sottile questa linea? La fede e l’amore hanno molto in comune, in primo luogo l’abbandono volontario di se stessi a un sentimento che ci spinge al di là della ragione. Quello che volevo però evidenziare è il rapporto conflittuale che si crea tra le restrizioni che la fede porta con sé se si scontrano con l’amore per una donna o un uomo. La linea sottile diventa in quel momento


un muro, che ognuno di noi può decidere di scavalcare o meno. Entrambe le scelte portano tuttavia a una rinuncia e a un tradimento. È una situazione di stallo in cui, qualunque mossa si scelga, non si può che perdere. Vuoi darci un cenno sugli altri autori? Sono felice che autori con cui ho un rapporto

stretto e di cui apprezzo le opere abbiano accettato la sfida di confrontarsi con Pater Noster. Oltre ad Alessandro Del Gaud i o , t r o v i a m o Emiliano Maramonte (Sia fatta la tua volontà) che dimostra una grande abilità letteraria quando, con una manciata di parole, catapulta il lettore in un mondo alternativo. Gordiano Lupi si ispira a Gloria Guida per un Non

ci indurre in tentazione improntato sulla fantasia e sul ricordo. Maurizio Cometto (Come in cielo così in terra) propone una figura di frate che molto ricorda Padre Pio, vista con gli occhi di un bambino di campagna, e che utilizza l’elemento fantastico per sconvolgere le attese del lettore. Conoscevi tutti gli autori della raccolta?

Recensione di

AA.VV., una sigla che a volte invoglia il lettore indeciso, fiducioso che tra tanti autori di sicuro ce ne sarà qualcuno che ha scritto un bel racconto. Nel Pia Barletta nostro caso la scelta non delude. Pater Noster, una preghiera, forse la più conosciuta, altro non è che una serie di dodici versi e ognuno di essi diventa per l’occasione il titolo di un racconto. Horror, thriller, fantastico e intimistico si susseguono pronti a soddisfare i gusti di tutti. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo inizia con una domanda che è una premessa: cosa induce un prete a recarsi in carcere per portare un santino a un detenuto? E Piero Scacchi, il destinatario del santino, in che modo potrebbe aiutare il prete? A Piero piacciono i racconti, è senz’altro la persona più indicata per entrare nella psicologia dei personaggi, e così ci accompagna in un viaggio che fa da corollario, iniziando in una clinica psichiatrica per poi continuare tra suocere assassine. “Attento a ciò che desideri” potrebbe essere il motto di un sito internet, mentre delle semplici parole potrebbero trasformarsi in uno strumento atto a decretare la fama e il successo altrui. Una corsa affannosa per sfuggire a una condanna sommaria ci squasserà il petto, presagi che vengono dal cielo potrebbero confonderci e mettere in diPater Noster scussione la nostra fede e, ancora, ciò che fino a un attimo prima rappresentaA.A V.V. va il nostro ideale potrebbe rivelarsi una verità troppo banale per volerla accettare. Ci chiederemo se Sophie sia una vittima sacrificale o pioniera di una nuova era. Percepiremo in maniera palpabile il senso di colpa di Renaud e l’ossessione per un sex symbol, e soprattutto capiremo quando quella che agli altri sembra follia è la consapevolezza del male che affonda le sue radici fino a toccare punti profondi. Pregare per un innocente, è questo che vuole si faccia Don Michele. Tuttavia, dopo aver letto l’intero libro, avremo molti dubbi in più: ci chiederemo se la vittima è sempre innocente in quanto vittima o se talvolta è più colpevole del suo assassino. Piero Scacchi comprende, il motivo della reticenza del “colpevole” è sotto i suoi occhi, innocenza e colpevolezza diventano due concetti suscettibili di diverse interpretazioni, si intersecano, si intrecciano fino a confondersi. Andrea Borla, il curatore, ha abilmente introdotto una sorta di preparazione all’epilogo, traccia una rotta, e tutti gli autori assolvono egregiamente il loro compito, attenendosi rigorosamente al tema del verso. Nessun racconto è l’inizio o il prosieguo di un altro, nessuna storia somiglia a un’altra e questo fa sì che l’attenzione del lettore sia sempre desta. Noi percorriamo l’itinerario costruito per noi con emozione, riflettiamo sui temi scottanti trattati e l’ultimo titolo, Amen, lo lasciamo un attimo sospeso, lo pregustiamo e nello stesso tempo avvertiamo il doloroso senso del distacco.

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No, anche perché un’opera letteraria basata soltanto sui rapporti interpersonali ha ottime probabilità di affossarsi sul nascere. Grazia a Pater Noster ho potuto conoscere ottimi scrittori come Fabio Lastrucci, che avevo già apprezzato nella raccolta Veleno (Edizioni Il Foglio), che in Come noi li rimettiamo ai nostri debitori presenta una storia di ambientazione medievale, o Laura Fidaleo, l’unica scrittrice che ha partecipato a Pater Noster, autrice di uno dei racconti che ritengo meglio riusciti. Il suo Dacci oggi il nostro pane quotidiano è incentrato sulla disillusione di un fan che si trova di fronte al suo scrittore preferito, idolatrato sino a renderlo un dio, e scopre che si tratta soltanto di un uomo come tanti. Alessio Gradogna (Rimetti a noi i nostri debiti) scandaglia la personalità di un assassino convinto che le sue azioni siano guidate da un disegno superiore e siano votate al bene.

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Molti autori hanno rappresentato situazioni drammatiche consumate in famiglia. La raccolta inizia con tre racconti incentrati proprio su questo tema. In Padre Nostro Simone Pazzaglia ci presenta un uomo che ripercorre inconsapevolmente le orme del padre e, inevitabilmente, commette i suoi stessi errori, che po-

tremmo anche chiamare “peccati”, nei confronti della famiglia. Valerio Biagi, in Che sei nei cieli, descrive la contrapposizione tra genero e suocera scambiando la prospettiva tra vittima e carnefice. Sia Santificato il tuo nome di Alessandro Napolitano descrive il dolore per la perdita della persona amata e costringe il protagonista a confrontarsi con il suo desiderio di rivederla a tutti i costi. Il tema emerge anche nei racconti successivi, come in Ma liberaci dal male di Matteo Gambaro, incentrato su un episodio di violenza dom e s t i c a c h e pone un interrogativo inquietante: chi commette un omicidio per punire una persona che si è macchiata di un crimine ancor più grande, è in qualche modo giustificabile?

Versatile e poliedrico ti definisco io, tu Giovane Aspirante Scrittore Famoso (G.A.S.F). È una promessa? Sto pensando seriamente di eliminare il “Giovane” dall’acronimo, perché gli anni passano. Rimarrà solo “Aspirante”, che non si capisce se riferito a “Scrittore” o a “Famoso”. Ogni volta che ci penso mi vengono in mente le parole di mia cugina Elisa: “Cosa te ne frega di diventare famoso? Devi diventare ricco!”. A volte credo che abbia ragione lei, oppure che, alla fine, l’unica cosa che importi veramente nella vita sia essere sempre aspiranti a qualcosa.


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