Colonia Marina
FARA
Cinquanta Modi per Abbandonare il tuo amore
Un progetto di Giulia Bianchi /Racconto di Nello Brunelli/ Traduzione Z. KrasodomskaJones / Musica di Paul Simon / Manifesto A. Sant’Elia / 2016
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Da Bambino
Colonia Fara o Colonia Faro? Da bambino la chiamavo Faro, l’ex Colonia marina Gustavo Fara di Chiavari. La maestra ci aveva raccontato del generale Fara ma del perché in molti la chiamassero “faro” nessuno lo aveva spiegato. Da bambino mi perdevo nelle parole e le sostituivo con la mia immaginazione, pensavo che l’alto portabandiera del giardino fosse un faro. Alla Colonia Fara c’erano le scuole elementari a tempo pieno. Stavamo a scuola quasi tutto il giorno. Durante le ricreazioni costruivamo mondi per distruggerli, facevamo la guerra e la pace, ci arrampicavamo sugli alberi contro le sacre leggi delle maestre (cosa grave e ambitissima) e cercavamo tesori sottoterra. L’edificio era curvo, noi gli correvamo intorno ed esso sembrava girare intorno a noi. Correvamo lungo gli ampi spazi dalla mensa all’ingresso fino all’ampio salone occidentale. Vecchi intonaci e pezzettini di cemento cadevano, la Colonia era vecchia e decadente. Da bambini non conoscevamo la parola decadente ma attraverso gli adulti sentivamo che qualcosa stava per finire. Ai colloqui tra le maestre e i genitori potevamo osare essere i padroni, schivare il controllo dei bidelli e scendere sotto, dove c’erano le cucine, un odore di pasta e brodo di carne. Ricordo le luci spente e l’azzurro del mare oltre al porticato esterno. Da ogni parte si poteva guardare attraverso lunghi finestroni. Che cosa c’era nella torre? Nessuno sapeva. Oltre al terzo piano era proibito andare. Le scale erano state murate. Nemmeno le maestre sapevano, come non sapevano se Napoleone fosse stato stato buono o cattivo. La maestre non lo sapevano. Molti di noi sognavano di salire ma era impossibile.
1. (As a child)
Colonia Fara or Colonia Faro? As a child I called the former Marine Colony of Luigi Fara in Chiavari, ‘Colonia Faro’. Our teacher had told us about General Fara, but the reason why many people called it ‘Faro’, meaning ‘lighthouse’, had never been explained to us. As a child I lost myself in the words and replaced them with my imagination; I thought the high flagpole in the garden was a kind of lighthouse. At Colonia Fara there was a full-time primary school. We were at school for almost the entire day. We had two breaks, the second one lasted about an hour. We built worlds in order to destroy them, we waged war and made peace, we climbed trees against the sacrosanct laws of our teachers (a serious and deeply respected misdemeanour) and we looked for buried treasure. We ran inside and around this curved building, and at the same time it was as though it was spiralling around us. We ran across the wide spaces from the canteen to the entrance and up to the large west-facing hall. The old plaster and the pieces of cement that came falling down gave us the sensation, through the eyes of the adults, that the Colonia was old and decaying. As children we didn’t understand the word ‘decaying’ – through the adults we sensed that something was about to end. When they held meetings between the teachers and parents, we could dare to be masters of the Colonia. We would try to escape the control of the assistants who supervised us and go downstairs, where there were kitchens and the smell of meat broth and pasta. I remember the lights being always switched off but a bright blue shining in from the windows, with the sea just beyond the outside gate. You could look outside wherever you were because the curved walls had been cut through by long windows. What was in the tower? No one knew. It was forbidden to go beyond the third floor; the stairs had been blocked off. Not even the teachers knew, just like they didn’t know if Napoleon had been good or bad. The teachers didn’t know. Many of us dreamed of going up but it was impossible.
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La Storia
La colonia marina Fara fu inaugurata nel 1936, dedicata al generale Gustavo Fara che si era distinto nella guerra italo turca. L’opera fu commissionata dal Partito Nazionale Fascista di Genova e fu inaugurata da Mussolini in persona. L’ architetto Camillo Nardi Greco progettò l’edificio con un certo coraggio, in stile futurista e razionalista, caratterizzato da una forte innovazione tecnica e rompendo il più possibile con i canoni architettonici del passato. I cromatismi e linee dinamiche servivano nell’insieme a suggerire un’idea di velocità e di movimento. In sintesi si tratta di due volumi. Il primo è la base, un elemento ovale di circa 200 metri di lunghezza che ospitava le cucine e i magazzini e poi sopra al pianterreno la reception, la mensa e gli spazi di aggregazione. Il secondo volume in verticale è una torre di nove piani che arriva ad una altezza di 43 metri, poi ancora una sopraelevazione, una cappella. Nell’insieme le superfici curve prevalgono sugli angoli retti e l’edificio fu pensato a forma di aereo. Lo sviluppo verticale del volume voleva equilibrare il rapporto tra l’interno e lo spazio esterno, allargando l’orizzonte circostante mano a mano che si sale. Le finestre erano messe una dietro l’altra e colorate come i serramenti così che da lontano sembrasse un unica striscia scura, come una serie di lunghe lastre di vetro che alleggerissero l’aspetto del volume. L’asse della torre che conteneva le camere fu orientato in senso Nord Sud per evitare un eccessivo riscaldamento tra le superfici laterali e per avere sempre una zona d’ombra, uno squilibrio termico che si prolunga anche durante la notte e favorisce la ventilazione all’interno. Durante l’occupazione i tedeschi ne fecero un ospedale militare, poi gli alleati una caserma. Dalla fine degli anni ‘40 fino alla metà degli anni ‘50 fu asilo per i profughi istriani scappati dal regime di Tito. Dagli anni ‘60 fu un hotel internazionale. In seguito l’edificio passò dalla regione Liguria al comune di Chiavari e negli anni ‘80 fu adibito a scuola elementare. Successivamente fu dichiarato inagibile e l’area circostante fu recintata, furono sbarrate le finestre e saldate le porte. Negli anni le autorità dichiararono di voler recuperare la struttura ma gli eventi prevalsero sulla buona volontà e la Colonia rimase abbandonata a se stessa, a parte un caso: qualcuno si prese la briga di darle fuoco alla base. Il danno maggiore fu per un piccolo gruppo di rumeni che la occupavano da tempo come dormitorio.
2. (The history)
The Fara Marine Colony was inaugurated in 1936, dedicated to General Gustavo Fara, who was honoured for his role in the ItaloTurkish war. The work was commissioned by the National Fascist Party of Genoa, and was officially opened by Mussolini himself. The architect, Camillo Nardi Greco, designed the building with a certain courage, following the Futurist and Rationalist styles, characterised by bold technical innovations, and breaking away as far as possible from the architectural cannon of the past. Together, the colours and dynamic lines give a sense of speed and movement. In essence, there are two sections. The first is the base, an oval roughly 200 metres long, which housed the kitchens and the storerooms, and above them the reception, the canteen and the meeting spaces on the ground floor. The second, vertical section is a nine storey tower, which stretches 43 metres high, followed by yet another level, a chapel. Considering the whole, the curved surfaces prevail over the right-angles, and the building was laid out in the shape of an aeroplane. The vertical extension of the section was intended to balance the relationship between the internal and external space, with the surrounding horizon opening out as you climb higher and higher. The windows were put one next to the other, and coloured like the doors and windows, so that from a distance it looks like one dark stripe, like a series of long glass sheets lightening up the look of the building. The tower containing the rooms was arranged on a North-South axis, to avoid excessive heating of the side surfaces and to ensure there is always an area of shade, creating a thermal imbalance which lasts even throughout the night and allows internal ventilation. During the Occupation, the Germans used the building as a military hospital, then the Allies took it over as a barracks. From the end of the 1940s to the mid-1950s, it was a shelter for refugees from Istria escaping Tito’s regime. From the 1960s it was an international hotel. Then the building passed from the hands of the Ligurian regional government to the local authority of Chiavari, and in the 1980s it was converted into a primary school. Later on, it was declared unfit for use and the surrounding area was blocked off, the windows barred and the doors sealed. Over the years the authorities said they wanted to recuperate the structure, but events got the better of good intentions, and the Colonia was left abandoned, except for one occasion; someone did go out of their way to set it on fire at the bottom, on the eastern side. The damage done was greatest for a small group of Romanians who had been occupying it as a place to sleep.
Manifesto dell’architettura futurista Dopo il ‘700 non è più esistita nessun architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. La bellezza nuova del cemento e del ferro viene profanata on la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative che non sono giustificate né dalle necessità costruttive, né dal nostro gusto e traggono origine dalle antichità egiziana, indiana o bizantina, e da quello sbalorditivo fiorire di idiozie e di impotenza che prese il nome di neo-classicismo. In Italia si accolgono codeste ruffianerie architettoniche e si gabella la rapace incapacità straniera per geniale invenzione, per architettura nuovissima. I giovani architetti italiani (quelli che attingono originalità dalla clandestina compulsazione di pubblicazioni d’arte) sfoggiano i loro talenti nei quartieri nuovi delle nostre città, ove una gioconda insalata di colonnine ogivali, di foglione seicentesche, di archi acuti gotici, di pilastri egiziani, di volute rococò, di putti quattrocenteschi, di cariatidi rigonfie, Tien luogo, seriamente, di stile, ed arieggia con presunzione al monumentale. Il caleidoscopico apparire e riapparire di forme, il moltiplicarsi delle macchine, l’accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall’aggiornamento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna non danno alcuna perplessità a codesti sedicenti rinnovatori dell’architettura. Essi perseverano cocciuti con le regole di Vitruvio, del Vignola e del Sansovino e con qualche pubblicazioncella di architettura tedesca alla mano, a ristampare l’immagine dell’imbecillità secolare sulle nostre città, che dovrebbero essere l’immediata e fedele proiezione di noi stessi. Così quest’arte espressiva e sintetica è diventata nelle loro mani una vacua esercitazione stilistica, un rimuginamento di formule malamente accozzate a camuffare da edificio moderno il solito bussolotto passatista di mattone e di pietra. Come se noi, accumulatori e generatori di movimento, coi nostri prolungamenti meccanici, col rumore e colla velocità della nostra vita, potessimo vivere nelle stesse case, nelle stesse strade costruite pei loro bisogni dagli uomini di quattro, cinque, sei secoli fa. Questa è la suprema imbecillità dell’architettura moderna che si ripete per la complicità mercantile delle accademie domicili coatti dell’intelligenza, ove si costringono i giovani all’onanistica ricopiatura di modelli classici, invece di spalancare la loro mente alla ricerca dei limiti e alla soluzione del nuovo e imperioso problema: la casa e la città futuriste. La casa e la città spiritualmente e materialmente nostre, nelle quali il nostro tumulto possa svolgersi senza parere un grottesco anacronismo. Il problema dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a
mattone nudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni esigenza del nostro costume e del nostro spirito, calpestando quanto è grottesco, pesante e antitetico con noi (tradizione, stile, estetica, proporzione) determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico della nostra sensibilità. Quest’architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere nuova come è nuovo il nostro stato d’animo. L’arte di costruire ha potuto evolversi nel tempo e passare da uno stile all’altro mantenendo inalterati i caratteri generali dell’architettura, perché nella storia sono frequenti i mutamenti di moda e quelli determinati dall’avvicendarsi dei convincimenti religiosi e degli ordinamenti politici; ma sono rarissime quelle cause di profondo mutamento nelle condizioni dell’ambiente che scardinano e rinnovano, come la scoperta di leggi naturali, il perfezionamento dei mezzi meccanici, l’uso razionale e scientifico del materiale. Nella vita moderna il processo di conseguente svolgimento stilistico nell’architettura si arresta. L’architettura si stacca dalla tradizione. Si ricomincia da capo per forza. Il calcolo sulla resistenza dei materiali, l’uso del cemento armato e del ferro escludono l’<<architettura>> intesa nel senso classico e tradizionale. I materiali moderni da costruzione e le nostre nozioni scientifiche, non i prestano assolutamente alla disciplina degli stili storici, e sono la causa principale dell’aspetto grottesco delle costruzioni <<alla moda>> nelle quali si vorrebbe ottenere dalla leggerezza, dalla snellezza superba delle putrelle e dalla fragilità del cemento armato, la curva pesante dell’arco e l’aspetto massiccio del marmo. La formidabile antitesi tra il mondo moderno e quello antico è determinata da tutto quello che prima non c’era. Nella nostra vita sono entrati elementi di cui gli antichi non hanno neppure sospettata la possibilità; vi sono determinate contingenze materiali e si sono rilevati atteggiamenti dello spirito che si ripercuotono in mille
E PROCLAMO:
effetti; primo fra tutti la formazione di un nuovo ideale di bellezza ancora oscuro ed embrionale, ma di cui già sente il fascino anche la folla. Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchita la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista, simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. Gli ascensori non debbono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani delle scale; ma le scale, divenute inutili, devono essere abolite e gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo le facciate. La casa di cemento di vetro di ferro senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità, alta e larga quanto più è necessario, e non quanto è prescritto dalla legge municipale deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terrà per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti per transiti necessari, da passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulants. Bisogna abolire il decorativo. Bisogna risolvere il problema dell’architettura futurista non più rubacchiando da fotografie della Cina, della Persia e del Giappone, non più rimbecillendo sulle regole del Vitruvio, ma a colpi di genio, e armati di un’esperienza scientifica e tecnica. Tutto deve essere rivoluzionato. Bisogna sfruttare i tetti, usare i sotterranei, diminuire l’importanza delle facciate, trapiantare i problemi del buon gusto dal campo della sagometta, del capitelluccio, del portoncino in quello più ampio dei grandi aggruppamenti di masse, della vasta disposizione delle piante. Finiamola coll’architettura monumentale funebre commemorativa. Buttiamo all’aria monumenti, marciapiedi, porticati, gradinate, sprofondiamo le strade e le piazze, innalziamo il livello della città Tutta la pseudo-architettura d’avanguardia, austriaca, tedesca e americana. tutta l’architettura classica solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra, piacevole. L’imbalsamazione, la ricostruzione, la riproduzione dei monumenti e palazzi antichi. Le linee perpendicolari e orizzontali, le forme cubiche e piramidali che sono statiche, gravi, opprimenti ed assolutamente fuori dalla nostra nuovissima sensibilità. L’uso di materiali massicci, voluminosi duraturi, antiquati, costosi.
Che l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza; Che l’architettura futurista non è per questo un’arida combinazione di praticità e di utilità, ma rimane arte, cioè sintesi, espressione; Che le linee oblique e quelle ellittiche sono dinamiche, per la loro stessa natura, hanno una potenza emotiva superiore a quelle delle perpendicolare e delle orizzontali, e che non vi può essere un’architettura dinamicamente integratrice all’infuori di esse; Che la decorazione, come qualche cosa di sovrapposto all’architettura, è un assurdo, e che soltanto dall’uso e dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato, dipende il valore decorativo dell’architettura futurista; Che, come gli antichi trassero ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi - materialmente e spiritualmente artificiali - dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace; L’architettura come arte delle forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita; Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito; Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città. Questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del Futurismo, che già si afferma con le Parole in libertà, il Dinamismo plastico, la Musica senza quadratura e l’Arte dei rumori, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista.
Antonio Sant’Elia. Architetto Milano, 11 Luglio 1914
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Di nuovo dentro
E ora veniamo a me e Giulia che durante una passeggiata arriviamo in piazza dei pescatori e ce la troviamo di fronte. “Hai visto quella cosa?” le dico. “Oh … Ma che strana costruzione, sembra abbandonata ...” “Ci ho fatto le elementari.” Ci avviciniamo. Non c’è nessuno, le mareggiate hanno trasformato la spiaggia in grossi cumuli di sassi, è il mare d’inverno. Le recinzioni attorno sono bucate e usurate, a nostro rischio passiamo. Vediamo tanta cenere vicino ad uno dei muri esterni. C’è stato un incendio. Tra la cenere troviamo schede e registri elettorali, gli elenchi dei votanti e i loro dati personali. Le finestre sono murate o bloccate da un reticolato di ferro, ma una è aperta. “Mi piacerebbe tanto entrare dentro, guardare, ricordare ...” le dico. Torniamo un altro giorno con due caschetti, guanti da lavoro e l’attrezzatura fotografica di Giulia. Ci avviciniamo alla finestra aperta e scavalchiamo. Non c’è più l’odore di brodo che sentivo da bambino e siamo nel buio. Accendiamo la torcia. Dopo la stanza c’è un corridoio pieno di mobili e altre cose bruciate. Vediamo scarpe, vestiti e borse, un frigorifero rovesciato. In fondo al lato ovest c’è uno spiraglio di luce, forse un buco in una porta al di là della quale sembra esserci uno spazio, forse possiamo passare. L’aria sa di chiuso, abbiamo paura ma andiamo avanti. Riusciamo a passare la porta bucata. Di fronte a noi si apre uno spazio buio ma è vuoto e possiamo andare avanti. Vediamo una cucina con un tavolo di legno. Tutto sembra stato abbandonato all’improvviso. Le sedie e i tavoli ci raccontano la presenza passata delle persone. Saliamo delle scale che ci portano al piano di sopra, rivedo le piastrelle azzurre dove correvo e la reception dove i bidelli e le segretarie rispondevano al telefono, un’emozione profonda mi invade il petto. Ora penzolano pezzi dal contro soffitto e il pavimento è pieno di spazzatura. Negli armadi dietro al bancone vediamo dei documenti, libri contabili, circolari scolastiche e i depliant dell’hotel internazionale. Illuminiamo tutto con la torcia e ci sembra un tesoro di ricordi e di storia ma siamo confusi dallo stato di degrado e dalle tante cose che ci circondano. Decidiamo di salire al primo piano della torre e vediamo classi, le sedie, i banchi e i bagni. C’è ancora un albero di natale con i regalini attaccati. Qualcuno ha abusivamente vissuto in questi spazi, ancora molta spazzatura.
Saliamo e i vecchi sbarramenti del secondo piano che impedivano di salire sono aperti! Quello che non avevo potuto fare da bambino è ora possibile. Cambia l’odore dell’aria e l’edificio racconta altre storie, non siamo più in una scuola. Ci sono tanti materassi forse quelli dell’albergo o dei profughi Istriani? Ci sono tantissime reti di letti e armadi. Vediamo stanze piene di carta e ancora documenti e timbri e telefoni rotti. La presenza dei piccioni è sempre più invadente, prevale il regno animale su quello umano. I pavimenti e le stanze sono piene di sterco, un tappeto secco che sembra terriccio. Ci camminiamo sopra e fa il rumore del pane secco. Battiti di ali improvvisi sono i piccioni che scappano. Siamo in casa loro. Arriviamo all’ultimo piano dove c’è una sala, siamo in cima alla torre, in questo spazio i clienti potevano forse leggere il giornale o bere qualcosa, ci sono tante sedie e tavoli accatastati. Fuori c’è una terrazza circolare che percorre l’esterno della torre, la vista è bellissima. Tra le crepe delle piastrelle sono cresciuti cespugli e alberelli, ci chiediamo dove abbiano messo le radici e ci meravigliamo di come piante ed animali abbiamo conquistato la torre che fu costruita per dimenticare il passato e proiettarsi verso il futuro. Guardando verso il basso vediamo chiaramente le ali della base e la forma dell’aereo. Sopra di noi c’è ancora un piano che è più piccolo della sezione della torre, è la cappella che ha intorno uno spazio ovoidale aperto, un ponte di lancio verso il mare. Siamo immersi nell’azzurro, tra il cielo e la terra, possiamo vedere tutta la costa del Tigullio.
3. (Inside again)
Now we come to Giulia and I, who whilst on a walk, reach the Piazza dei Pescatori, and see the Colonia before us. “Have you seen that thing?” I ask. “Oh… what a strange building, it looks abandoned…” “I went to primary school there.” We get closer. There’s no one. The sea storms have transformed the beach into big heaps of sand – it’s the winter sea. The fences around the building are worn and full of holes, we take the risk of climbing through. We see lots of ash near one of the external walls. There has been a fire. Among the ashes we find ballot papers and electoral registers, lists of voters and their personal data. The windows are walled up or blocked by iron railings, but one of them is open. “I would so like to go inside, to look around, to remember…” I tell her. We go back another day with two helmets, thick gloves and Giulia’s photography equipment. We approach the open window and climb inside. The smell of meat broth that I smelled as a child has gone, and we are in darkness. We switch on the torch. Beyond the room there is a corridor full of furniture and other burned objects. We see shoes, clothes and bags, an upturned fridge. At the back on the western side there’s a chink of light, perhaps a hole in a door beyond which there seems to be a space, perhaps we can pass through it. The air is stuffy; we’re afraid but we go on. We manage to get through the hole in the door. Opposite us we see a dark space, but it’s empty and we can go on. We see a kitchen with a wooden table. Everything seems to have been abandoned in a hurry. The chairs and tables tell us about the past presence of people here. We climb the stairs which take us to the floor above, I see the bright blue tiles again, where I used to run, and the reception where the caretakers and the secretaries used to answer the phone, and I am hit by a great wave of emotion. Now bits dangle from the ceiling, the floor is covered in rubbish. In the cupboards behind the counter we see documents, account books, school newsletters, and the international hotel’s brochures. We shine the torch on it all and it seems like a treasure trove of memories and history, but we are confused by the state of degradation and by the many things which surround us. We decide to climb to the first floor of the tower, and we see the classrooms, the chairs, the benches and the bathrooms. There is still a Christmas tree with little presents attached to its branches. Someone has squatted here, there is still more rubbish. We climb onwards and the old barriers on the second floor, which used to prevent you from going up, are open! What I couldn’t do as a child is now possible. The smell of the air changes and the building tells other stories; we are no longer in a school. There are many mattresses, perhaps from the hotel or the Istrian refugees? There are very many bedsteads and wardrobes. We see rooms full of papers and more documents, and stamps and broken telephones. The presence of the pigeons is increasingly invasive, the animal kingdom triumphant over that of man. The floors and the rooms are full of excrement, a dry carpet that seems like soil. We walk over it and it makes the noise of dry bread. The sudden beating of wings are the pigeons escaping. We are in their house. We reach the last floor, where there is a room, and we are at the top of the tower; in this space the clients might have read the newspaper or had a drink, there are many chairs and tables piled up. Outside there is a circular terrace which runs around the outside of the tower; the view is stunning. Between the cracks in the tiles, shrubs and little trees have grown; we wonder where they put down roots, and we marvel at how plants and animals have conquered the tower which was built to forget the past and project itself towards the future. Looking down, we clearly see the wings of the base and the shape of the aeroplane. Above us there is still one more floor, which is smaller than the tower; it’s the chapel with an open oval walkway, a flight deck launching towards the open sea. We are immersed in bright blue, between the sky and the earth, and we can see the whole of the Tigullio coast.
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Abbandono e amore
Decidiamo di andare a mangiare dalla Olga, una trattoria vicina. Siamo stanchi, ci sentiamo addosso tutto lo sporco e la bellezza della Colonia, sentiamo la sua storia, il suo odore, l’eco di ciò che è stato e non è più. Siamo arrivati in cima ma non abbiamo capito, vorremmo tornare ancora. Qualcosa ci fa male. Guardo Giulia e le chiedo: “Che cosa si dovrebbe fare? Mantenere le cose del passato oppure distruggerle per crearne di nuove?” E lei risponde: “Entrambe le scelte vanno bene ma l’abbandono mai. Andrebbe mantenuto tutto ciò che può essere bello e amato. La colonia Fara è brutta perché non le viene data la possibilità di vivere, perché è stata abbandonata.” … e la radio della trattoria trasmette una canzone: “50 ways to leave your lover” (50 modi per abbandonare il tuo amore) “Ripeto a me stesso a costo di essere crudele, ci sono almeno cinquanta modi per abbandonare il tuo amore cinquanta modi per abbandonare il tuo amore ...”
4. (abandonment and love)
Having left, we decide to go and eat at Olga’s, a small restaurant nearby. We are tired and can feel all the dirt, beauty and history of the Colonia on us, we can feel all its dust and smell, the echo of what was and is no longer. We reached the top of the building but we still haven’t understood, we would like to go back again. There is something troubling us. I look at Giulia and I ask, “What should be done? Maintain things from the past or destroy them to create new ones?” And she replies, “Both options are fine, but never abandonment. Everything that can be beautiful and loved should be maintained. The Colonia Fara is ugly because it hasn’t been given a chance to live, because it’s been abandoned.” … And the radio in the restaurant plays a song: “50 Ways to Leave your Lover”. “But I’ll repeat myself, at the risk of being crude, There must be fifty ways to leave your lover Fifty ways to leave your lover…”
Materiali
per un Epilogo
Elenco:
• Cartoni per i dipinti murali sulla facciata della Colonia Fara, Demetrio Ghiringhelli, 1935 • Oggetti ritrovati nella Colonia Fara, Agosto 2014 • Spartito musicale, Paul Simon, 1975 • Veduta Satellitare della Colonia Fara, 2016 • ...
List: • • • • •
Drawings for murals outside of Colonia Fara, Demetrio Ghiringhelli, 1935 Objects found inside Colonia Fara, August 2014 Music, Paul Simon, 1975 Satellite, 2016 ...
Le foto degli interni abbandonati della Colonia Fara che ho incluso in questo libro sono state scattate nell’agosto del 2014. Dopo 34 anni di discussioni politiche riguardo al futuro della colonia, il 31 ottobre 2013 la Fara viene venduta e diventa proprietà della società Fara srl, creata da diversi imprenditori locali, che l’ha acquistata dal Comune di Chiavari per 6.750.000 euro e pianifica la riqualificazione dell’edificio con 18 ampi appartamenti di lusso, un albergo con centro benessere e talassoterapia, oltre a parcheggi interrati e un parco privato con accesso diretto alla spiaggia. Al momento della pubblicazione di questo libro, i lavori di ristrutturazione sono iniziati e dovrebbero essere completati nell’estate del 2018. Giulia Bianchi
(...)
The pictures of abandoned interiors of Colonia Fara that I have included in this book were taken in August of 2014. After 34 years of political discussions about the future of the Colonia, on the 31st October 2013 the Fara is sold and becomes the property of the company Fara Ltd., created by several local businessmen, that purchased it by the town of Chiavari for 6,750,000 euro and plans the renovation of the building with 18 spacious luxury apartments, an hotel with spa and wellness center, as well as underground parking and a private park with direct access to the beach. At the time of the publication of this book, the renovations have started and should be completed in the summer of 2018.
Custodire il passato o distruggerlo per far spazio al futuro? Esiste un compromesso? Viaggio in una storia italiana e appassionato appello ad avere cura delle cose e di noi stessi. /Looking after the past or destroying it to make room for the future? Is there a compromise? This is a journey in the Italian history and a passionate call to take care of things and ourselves.
Un progetto di Giulia Bianchi Š 2016