L'importanza di essere Morrissey. Ventotto conversazioni con il leader degli Smiths

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Morrissey

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L’importanza di essere Morrissey a cura di Paul A. Woods

Ventotto conversazioni con il leader degli Smiths traduzione di Giuseppe Marano

Isbn Edizioni 3


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Morrissey non ha bisogno di presentazioni / Paul A. Woods

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Morrissey risponde a 20 domande

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La collezione Morrissey / Ian Birch

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Belli e sfacciati / Dave McCullough

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Caccia allo Smith! / Dave Dorrel

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Tutti gli uomini hanno dei segreti... / Neil McCormick

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Morrissey / Elissa Van Poznak

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Un caso da approfondire / Biba Kopf

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Meat is Murder! / Tom Hibbert

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This Charming Man / Simon Garfield

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Bigmouth Strikes Again / Max Bell

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Il ragazzo nella bolla / Stuart Bailie

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Mr Smith: tutto fumo e niente arrosto? / Dylan Jones

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Wilde Child / Paul Morley

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Diario segreto di un uomo di mezza etĂ / Shaun Phillips

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Il playboy dell’Occidente / Eleanor Levy

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Tatto e delicatezza / Mat Snow

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Il re delle parole / Steven Daly

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Morrissey esce allo scoperto! / Stuart Maconie

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Oh La La! / Adrian Deevoy

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Hand In Glove / Andrew Harrison

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Cerchi rogne? / Stuart Maconie

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Il re dell’angoscia esistenziale è diventato grande / Will Self

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L’importanza di essere Morrissey / Jennifer Nine

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L’uomo con la spina nel fianco / Lynn Barber

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Chi è il padre? / Keith Cameron

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Felice, adesso? / Andrew Male

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L’ultima tentazione di Morrissey / Paul Morley

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L’insostenibile leggerezza di essere Morrissey / Peter Murphy

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Autori

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Credits

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Morrissey non ha bisogno di presentazioni di Paul A. Woods

Non sarebbe dovuto succedere vero? ...è stato uno sbaglio. Morrissey, conversazione con Paul Morley

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La più improbabile rockstar inglese degli ultimi decenni è anche la più indispensabile. Se la cultura popolare non vuole limitarsi soltanto al mucchio di banalità scodellate quest’anno sarà meglio continuare a prendere sul serio Steven Patrick Morrissey. Non che sia mai stato conosciuto con quel nome. Agli esordi degli Smiths, quel giovane che alternava stravaganza e aggressività, timidezza e istrionismo, con un curatissimo look da mercatino delle pulci, aveva scelto d affidarsi semplicemente al cognome, elevandosi spontaneamente al rango di Elvis, Bowie e altri artisti-icona evocati da una singola parola. Nel frivolo mondo della musica di metà anni ottanta, la ruvida estetica in bianco e nero degli Smiths era tutta farina del suo sacco. Con quei momenti catturati da film, giornali e tv degli anni sessanta, Morrissey si aggrappava al mondo che era scomparso con la sua infanzia: Terence Stamp nei panni del giovane represso che si strugge d’amore nel Collezionista, sulla copertina originale di What Difference Does It Make?; Viv Nicholson, ripiombata nella miseria dopo aver sperperato tutto quello che aveva vinto alla lotteria, per Heaven Knows I’m Miserable Now; su Ask l’attrice Yootha Joyce, di gran classe, l’incarnazione della femminilità operaia degli anni sessanta. Come lui, le sue icone personali erano tutti personaggi intrappolati in mondi che non erano creati da loro: il genio effemminato e decadente di Wilde; il tenebroso James Dean, destinato ad una tragica fine; il sofferente Billy Fury, vecchia gloria in disarmo del rock inglese. Gli Smiths conferivano realismo alle loro atmosfere romantiche smorzavando l’angoscia con tocchi di massima leggerezza. Il cantante era un perfetto simbolo dei tempi: rigettava ogni contaminazione col machismo del rock’n’roll ed enfatizzava il disagio sociale dei disadattati e degli emarginati, si vestiva con camicette da donna fuori misura e sfoggiava occhiali della mutua e un enorme apparecchio acustico in stile Jhonny Ray, mentre la sua voce delicata e ossessionante si alzava all’improvviso in un falsetto urlato. Quell’uomo affascinante, nella vulgata del tempo, era l’esatta antitesi del “rockettaro”: volutamente più vicino alla garbata ironia di Alan Bennett o alle laceranti confessioni diaristiche di Kenneth Williams, piuttosto che alla licenziosità di un Mick Jagger o allo stordimento narcotico di Jim Morrison. In tutto questo, l’ex salvatore personale Jhonny Marr – che l’aveva strappato a un’esistenza da recluso in una cameretta degna di un copione di Beckett ˗ era il collaboratore perfetto. Insieme, l’asse Morrissey/Marr incarnava il rock degli anni ottanta senza cadere preda dei ridondanti cliché. Se This Charming Man era un energico esempio di power pop

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post-Byrds, obliquamente inglese, un brano triste e struggente come This Night Opened My Eyes faceva da colonna sonora alla vita vissuta ˗ allora come oggi ˗ così come appariva allo sguardo esterno e sensibile di Morrissey. Attingendo ai suoni e alle immagini di un’epoca precedente, più ingenua, Morrissey/Marr si immergevano a fondo negli abissi quotidiani dell’anima. Come osservava Morrissey nella primissima intervista agli Smiths apparsa sulla stampa musicale nazionale (con Dave McCullough, allora collaboratore di Sounds), la sua musica nasceva da tempi disperati. Nel clima post-punk dei primi anni ottanta, il trittico soffocante proposto dalla spietata economia thatcheriana, dai bombardieri atomici di Regan pronti al decollo o da una guerra di logoramento con l’Ira offriva pochi motivi di speranza. Mentre le folle del sabato sera in giacca larga, pantaloni a tubo e abitini a balze continuavano a divertirsi come gli ultimi festaioli a bordo del Titanic, la nascente scena “indie” (che ancora non si definiva tale e divenne sempre più inconsistente dopo che fu affibbiata quell’etichetta) si gingillava con i gruppi della Postcard Records, oppure si consumava nel suo gretto pessimismo. Se l’assurda etichetta di miserabilisti applicata agli Smiths avesse avuto un minimo di fondamento, non avrebbero avuto come cantante uno dei più grandi spiriti corrosivi d’Inghilterra. Sembra che la depressione ˗ durata apparentemente per una vita, fino all’attuale rinascita di mezza età ˗ abbia fatto da sprone: uno stimolo alla creatività, più che un varco d’accesso alla depressione più assoluta. Vero artista pop, Morrissey esiste per esprimere e poetizzare quei sentimenti che il suo pubblico può soltanto provare. Se gli attacchi di malinconia descritti in molte interviste degli esordi lo hanno spinto sul ciglio dell’autodistruzione, le sue agrodolci cartoline liriche dall’orlo dell’abisso sono state un conforto per molti giovani animi disperati. Sia che consentissero un grado di immedesimazione tale da far restare aggrappato alla vita l’ascoltatore, sia che accompagnassero semplicemente il doloroso transito in questa valle di lacrime, le parole di Morrissey erano comunque importanti. Il fatto che abbia resistito sin qui dimostra l’assurdità di quelle tendenze suicide che a detta di un intervistatore (il giornalista irlandese Neil McCormick) lo avrebbero portato a farla finita. Una vita di malinconia, vivacizzata da spirito e umorismo, ha prodotto uno dei repertori più interessanti e accessibili della storia della canzone pop. Soltanto il suo artefice può dire se sia valsa la pena tener duro: per quanto ci riguarda, ci ritroviamo un commentatore che ci fa sentire la sua voce (o forse una voce che fa sentire i suoi

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propri commenti?) che conosce bene le nostre piccole gioie e i nostri dolori, benché riflessi in un punto di vista personale e distaccato. Morrissey è tristemente famoso per la sua estraniazione dalle vicende del cuore e della carne. Ma i tentennamenti sulle prime esperienze sessuali (inesistenti, oppure così deprimenti da condurlo ad anni di astinenza) non rappresentano una grossa contraddizione. Come lui stesso ha affermato in gioventù: «Non vorrei che mi considerassero un Tarzan, una Jane o chissà cos’altro!». Nonostante gli indizi evanescenti che ha disseminato sulla sua sessualità, quest’uomo variamente descritto come casto o frustrato, eterosessuale o bisessuale (a seconda delle voci a cui si è dato credito nei vari momenti) spiega l’inutilità di un approccio che tenda ad incasellarlo in una categoria specifica, quando sappiamo bene che il mondo è bello perché è vario. Lasciando da parte la tanto sbandierata castità – a cui forse si è data troppa enfasi – Morrissey si è pronunciato in modo assai più esplicito sulle sofferenze inflitte agli animali – in primis dall’industria della carne, ma in certi anni recenti anche dai test medici e dalla vivisezione. «Se sei d’accordo con la vivisezione» obietta quest’uomo moralmente indignato ma sempre elegantissimo, che non disdegna scarpe cinture di pelle, «offriti come cavia, allora.» Qualcuno ha adottato pedissequamente il suo dogma animalista, ma un osservatore attento potrà ravvisarvi l’emblema di una religiosità personale coltivata in luogo di un Dio assente, con il quale questo cattolico non praticante intrattiene un rapporto a intermittenza. Solitario al limite del solipsismo, capace di comunicare davvero con gli altri soltanto tramite i testi delle canzoni, il giovane Morrissey non ha mai accettato le condizioni poste dal mondo, mentre il Morrissey più anziano le rifiuta apertamente. C’è che lo giudicava troppo sensibile per vivere e sembra un miracolo se le nevrosi che alimentavano tanta parte della sua creatività non lo abbiano distrutto strada facendo. Molti si aspettavano il tracollo dopo la defezione di Jhonny marr, la sua zattera di salvataggio musicale. Invece, dopo aver abbandonato da tempo Manchester, la sua città natale del Nord, Morrissey si è aggrappato per anni alla psicogeografia della sua gioventù come fonte di ispirazione. La tradizionale desolazione piovosa e le oscure officine sataniche della nostra nazione sono state linfa vitale per questo giovane anglo-irlandese, figlio di immigrati di prima generazione ma british fino al midollo per giunta patriottico (anche se non sciovinista). Perfino i criminali più feroci e i delitti più efferati degli anni sessanta hanno offerto spunti lirici a questo malinconico usignolo

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(si pensi a Suffer Little Children, straordinario trasposizione musicale di Beyond Belief, un saggio di Emlyn Williams sui Delitti della Brughiera che funestarono l’infanzia di Morrissey, o al martellante glam rock di The Last of the International Playboys, ispirata a Reggie Kray). Anche se certe ossessioni permangono, ci sono stati dei cambiamenti interessanti. Morrissey si è dedicato alla costruzione della sua persona, utilizzando come materiale stoffe griffate e cicatrici psicologiche rimarginate. Come il suo stile nel vestire ha cominciato a riflettere una sobria agiatezza, così Morrissey è giunto a rappresentare una virilità intimamente sicura di sé – agli antipodi dell’immagine goffa dell’era degli Smiths e altrettanto distante dal grossolano «nuovo maschio» degli anni novanta – che resta affascinata dall’iconografia del pugilato o elogia i New York Dolls per la loro “violenza” al programma di Jools Holland, Later. Forse uno degli aspetti più straordinari di questa maturazione, che lo vede in versione più robusta, corpulenta e amante della birra, è stato il recupero dei primi anni settanta. Può darsi che all’epoca degli Smiths fosse ancora troppo presto per ammetterne l’importanza. Ma basta leggere in successione le interviste raccolte in questo libro per percepire non solo Sapore di Miele e l’elusiva passionalità di Cilla Black, ma anche gli sgargianti lustrini del glam rock che ardeva nei cieli cupi di una Gran Bretagna sull’orlo della bancarotta. Anche se negli ultimi tempi si veste in modo più simile a un elegante luogo tenente di mafia che agli uomini in zatteroni che una volta dominavano le classifiche pop, la straordinaria produzione recente di Morrissey è uno sviluppo sequenziale del “glam”. Spavalda e baroccheggiante, con accenni di trame intricate, conserva tutta l’energia e l’economia del rock’n’roll degli anni cinquanta, ma intersecata da ricami a effetto, quasi da flamenco, che fanno sicuramente presa sui giovani gangster messicani che adorano Morrissey, e ai quali ha dedicato un’elegia. Gli Smiths sono definitivamente esorcizzati ed eclissati. È significativo che la grande rinascita di Morrissey sia avvenuta in un momento in cui concetti vuoti e insulsi degli anni novanta come “Britpop” e “CoolBritannia” sono soltanto vani ricordi. Mentre altri artisti, molto meno interessanti, si avvolgevano nella bandiera inglese, si riteneva “inaccettabile” che questo impertinente, pensando (e parlando) con la sua testa, affrontasse il tema dell’identità nazionale e della sua scomparsa. Che questo, e un paio di canzoni ben ponderate sulla difficile situazione

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scomparsa. Che questo, e un paio di canzoni ben ponderate sulla difficile situazione anglo-asiatica, dovessero collocarlo quasi a livello di un criminale di guerra dava la misura di quei tempi politicamente corretti e di una stampa musicale ipocrita e vetusta, eppure ancora piena di sé. Anche le circostanze del suo ritorno in sala d’incisione nel nuovo millennio sono tipicamente inglesi: dopo aver liquidato uno dei nostri veri grandi, abbiamo scoperto con imbarazzo che non ci apparteneva più. Quasi quanto le sue canzoni più taglienti e argutamente provocatorie, Morrissey ha fatto dell’intervista personale una forma d’arte nel corso di tutta la sua carriera, singolarmente turbolenta. Perciò continuate pure a leggere, ma non affannatevi a cercare una seriosa coerenza. Nei primi anni gli Smiths vengono descritti come una cooperativa socialista, decisamente in contraddizione con la guerra fratricida tra l’autore dei testi e la sezione ritmica consumatasi nelle aule di tribunale un decennio più tardi. Le amicizie temporanee del mondo dello spettacolo vengono disprezzate in un batter d’occhio, ma dopo aver urtato i nervi scoperti della sua sensibilità. Oggi Morrissey ha rimesso a fuoco la sua prospettiva per rivolgersi al mondo, e non più soltanto alla vecchia Inghilterra felice, della quale per sua ammissione, ogni giorno una parte cessa di esistere. Quando la terra che gli ha dato i natali ha cominciato a dissolversi in un paesaggio metropolitano paneuropeo, il negletto e denigrato Morrissey ha alzato le vele e si è dileguato: prima, strano a dirsi, a Los Angeles, terra di soleggiata vacuità e gang violente; poi in un soggiorno a Roma, dove pare sia avvenuta una sorta di rinascita personale. Non più l’inglesino incantato dai film della serie Carry On (il cui rifiuto di trattare il sesso come altro dalla licenziosità di una cartolina al mare, una volta doveva sembrare così adatto), l’esteta dei bassifondi si dà all’opera del compianto Pier Paolo Pasolini. Non più “tormentato dai sensi di colpa per i piaceri della carne” Morrissey ci assicura di essere nato davvero, adesso. Dopo tutti quei melodiosi tour de force costruiti sulle sue e sulle nostre insicurezze, cercare di conoscere anche i dettagli più intimi e scabrosi può apparire vagamente fuori luogo. L’esistenza stessa di questo artista pop capriccioso, testardo e assolutamente geniale è già abbastanza d’ispirazione.

Paul A. Woods 2007

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Morrissey risponde a venti domande

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Steven Morrissey è nato a Manchester il 22 maggio 1959. Non ha mai avuto un lavoro ma ha scritto due brevi saggi, uno su James Dean e l’altro sui New York Dolls. Agli inizi del 1982 ha incontrato il chitarrista Jhonny Marr e insieme hanno formato gli Smiths. Un anno dopo la Rough Trade distribuiva il loro primo singolo, Hand In Glove, una hit indipendente al quale ha fatto seguito il loro primo successo di classifica, This Charming Man. Da quel momento Morrissey ha destato incanto, turbamento, irritazione con i suoi testi laconici, ha dato popolarità ai mazzi di fiori, alla depressione, ha continuato ad assecondare la sua passione per Oscar Wilde, Billy Fury, Sandie Shaw. A scuola eri vittima di bullismo? Devo ammettere che non mi è mai capitato. Non mi hanno mai preso di mira, mai maltrattato, questo è quanto. Non è un argomento moto interessante, no? A che età hai incominciato a portare gli occhiali? Seriamente, a tredici anni. Avrei dovuto metterli molto prima, ma si portavano appiccicata addosso una fama atroce: se avevi gli occhiali ti consideravano uno sgorbio e ti prendevano continuamente di mira. Poi a tredici anni mi hanno obbligato a metterli, da quel momento non li ho più tolti. I tuoi che mestiere facevano? Due impieghi spettacolari. Uno in biblioteca e l’altro in ospedale. Chi faceva cosa? Elizabeth, mia madre, è la bibliotecaria. Peter, mio padre, lavora in ospedale. Siamo ancora in contatto, ci sentiamo tutti i giorni. Eri bravo nello sport? Prodigioso. Era l’unica cosa in cui andavo bene e mi piaceva da morire. I cento metri erano la mia raison d’être. Sì, vincevo sempre. Quando si trattava d’atletica non ce n’era per nessuno. Stavo sulle scatole a tutti, e così ho continuato nel solco di quella tradizione. A che età sei andato via di casa? Per anni non ho fatto altro che entrare e uscire, in modo spasmodico. Non mi è mai andata bene, da quel punto di vista. Mi pare che la prima volta fosse a diciassette anni

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l’ultima a ventitré. Finivo sempre nei soliti monolocali schifosi e decrepiti che annientano ogni immaginazione. Sei mai stato un punk? Non nel senso tradizionale. Però mi piaceva molto. I gruppi più importanti li ho visti quasi tutti e in quel periodo ero informatissimo... ma per quanto riguarda lo stile non sono mai stato un punk. Che cosa volevi fare da grande? Oh, temo di aver sempre desiderato fare il bibliotecario. Mi sembrava una vita perfetta: solitudine, silenzio assoluto, stanzoni alti e bui. Poi però hanno incominciato a rimodernarle, con quei piccoli prefabbricati privi di qualsiasi atmosfera. E così all’improvviso quell’idea ha perso tutto il suo fascino. Volevo anche diventare quello che sono adesso, era un pensiero fisso, ma quando ti metti in testa di cantare e vuoi provare a farti strada nel pop, tutti cercano di convincerti che sia un’idea assurda, infantile, che sia un capriccio, una fantasia malata – e sicuramente lo è – e ti danno il tormento finché non ti passa la voglia. E mi son detto, bè sarà pure così, ma voglio provarci lo stesso. Qual è la malattia peggiore che hai avuto? Probabilmente prendere il sussidio. L’ho sempre considerato un autentico malanno. Una malattia fisica? Veramente non ho mai avuto niente. Bevi o fumi? Adoro il vino ma non fumo. Però ammetto che... sì, un buon vino rosso di tanto in tanto. Sei gay? Mi sento piuttosto vulnerabile e tutto sommato mi sta bene così, perché non vorrei essere considerato un Tarzan, una Jane o chissà cos’altro! Preferisco essere considerato una persona abbastanza sensibile che sa capire le donne da un punto di vista non sessuale. Odio gli uomini che vedono le donne soltanto in un’ottica sessuale: per me è un atteggiamento criminale e vorrei cambiarlo. Non riconosco termini come

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eterosessuale, omosessuale, bisessuale e trovo importante che nella musica pop ci sia qualcuno che la pensa così. Queste parole fanno solo danni, confondono le persone e le fanno sentire infelici, quindi preferirei abolirle. Negozio preferito? Rymans, la cartoleria. Per me è come un negozio di dolci. Quando entro sto lì per ore ad annusare le buste da lettera. Da piccolo andavo matto per gli oggetti di cancelleria, penne, quaderni e raccoglitori. Potrei diventare incredibilmente erotico parlando di carta assorbente. Per quanto mi riguarda, entrare da Rymans è l’esperienza sessuale più estrema che si possa avere. Battuta preferita? Quella più simpatica ˗ allora, adesso la dico, ma non farà ridere per niente ˗ è quando una nota polemista si avvicinò a Oscar Wilde durante un celebre evento a Parigi e gli disse: «Non è vero, Oscar, che sono la donna più brutta di tutta Parigi?» e lui rispose: «No, mia cara, siete la donna più brutta di tutto il mondo». Mi sembrava divertente. Chi ti fa il bucato? Io, temo. Ogni venerdì sera mi ritrovo piegato sulla vasca, immerso nel detersivo. Il fatto è che non riesco ad andare in lavanderia, non ho una lavatrice e non ho tempo di cercarla. C’è un che di profondamente romantico nel chinarsi sulla vasca a strizzare camicie. Sei innamorato? Se dicessi di no sarebbe troppo desolante. È una necessità. Credo lo sia per tutti, altrimenti dove la prendi l’energia per andare avanti nella vita e cercare di ottenere certi risultati? Le cose che mi stimolano di più sono le scuole e gli edifici: mi piace immergermi nel passato, nella storia di questo paese, nell’evoluzione delle cose, e mi appassiono molto a certe persone in situazioni disperate. Hai paura di invecchiare? No, per niente. Da giovane non sono mai stato felice, perciò non posso equiparare l’idea di invecchiare a una condizione di infelicità patologica. Per me la vecchiaia

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non significa rovina, disperazione e sconfitta. Conosco parecchie persone notevolmente avanti con gli anni che trovo affascinanti. Fai vita sociale con gli altri Smiths? Be’, li vedo tutti i giorni, ma non usciamo insieme per andare nei club, perciò no, non facciamo vita sociale in quel senso. Non rientriamo in quella folta schiera di persone che hanno bisogno di farsi vedere: siamo abbastanza riservati, sotto questo aspetto. Sei socialista? Sì. Non mi sento legato a nessun partito in particolare, ma dovendo stringere, diciamo così, mi collocherei tra i socialisti. Perché? Solo per l’ovvio motivo di provenire da un ambiente operaio, esposto alle fatiche e alla realtà della vita. Credo che tutti i socialisti siano autentici realisti. Se fossi un animale cosa saresti? Probabilmente un gatto, penso. Più che altro perché mi piacciono molto e riescono a fare una vita relativamente di lusso. E poi sono molto indipendenti... non come i cani, che hanno bisogno di ontinue attenzioni. Vorrei essere un gatto di strada, un randagio... anzi no: un soriano. Il lato migliore di essere una popstar? La cosa migliore, per un motivo o per un altro, è che le persone ti rispettano. In sostanza si riduce tutto alla fama: ti perdonano tutto. Gente che prima ti sputava addosso e adesso è pronta a giustificarti. E un’ipocrisia, certo, però ti senti davvero realizzato.

Star Hits Collection 1985

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La collezione Morrissey Ian Birch

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Oscar Wilde 1854-1900 Umorista, romanziere, drammaturgo e poeta vittoriano.

Mia madre, che è un’assistente bibliotecaria, mi ha fatto conoscere le sue opere quando avevo otto anni. Insisteva perché lo leggessi e per me è diventata subito un’ossessione. Non c’era frase che non mi colpisse in qualche modo. Mi piaceva la semplicità della sua scrittura. C’era un racconto intitolato L’usignolo e la rosa che mi affascinava immensamente. Parlava di un usignolo che si sacrificava per due amanti sventurati. Finisce con l’usignolo che preme il cuore contro una rosa, a significare, in senso arcano e allegorico, che se lui muore i due amanti possono restare insieme. Questa sublime drammaticità permeava tutti i suoi scritti. Ebbe una vita davvero tragica ed è strano che fosse così spiritoso. Stiamo parlando di una persona perennemente segnata dal dolore, la cui vita è stata un continuo travestimento. Si sposò, ebbe due figli in modo avventato e quasi subito s’imbarcò in una relazione con un uomo. Finì in carcere per questo. Interessarsi a Oscar Wilde, soprattutto se provieni da un ambiente operaio, è assolutamente deleterio. Rischi di autodistruggerti. Quello che mi ha salvato a scuola è il fatto di essere un atleta modello. Sono sicuro che altrimenti mi avrebbero immolato il primo anno. Ho preso una marea di medaglie per la corsa. Mentre brancolavo nella tarda adolescenza ero piuttosto isolato e Oscar Wilde era diventato ancora più importante. In un certo senso mi faceva compagnia. Sembrerà penoso, ma era così. Uscivo di casa raramente. Non avevo vita sociale. Poi, negli Smiths, usavo i fiori perché Oscar Wilde li usava sempre. Una volta si recò nelle miniere di sale del Colorado per parlare di fronte a una massa di minatori. Iniziò il discorso dicendo: «Permettetemi di spiegarvi perché adoriamo la giunchiglia». Ovviamente lo presero a sassate. Ma ammiravo moltissimo il suo coraggio e l’idea di essere costantemente affezionato a una pianta. Crescendo, l’adorazione aumenta. Non mi separo mai da lui. È quasi una Bibbia. Un rosario da portare sempre con sé.

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James Dean 1931-1955 Tenebroso idolo degli anni cinquanta, morto in un incidente d’auto a ventiquattro anni con soli tre film all’attivo, tra cui Gioventù bruciata.

Ho visto Gioventù bruciata quasi per caso, a sei anni. Ero completamente preso. Cominciai a documentarmi su di lui e fu come portare alla luce la tomba di Tutankhamon. La sua vita sembrava magnificamente perfetta. Quello che aveva fatto sullo schermo non mi entusiasmava più di tanto, ma come persona aveva un valore immenso. Tutto quanto, dalla nascita in una cittadina rurale all’arrivo a New York, dove aveva sfondato nel cinema, salvo scoprire che quell’enorme successo non era ciò che voleva. A scuola era un bel problema, perché non interessava a nessuno. Se c’era qualche interesse era soltanto di maniera, per via del rock’n’roll. Nessuno mostrava per lui la stessa passione che avevo io, per quella continua inquietudine esistenziale. Anche se nel suo mestiere stava facendo passi da gigante, era terribilmente infelice e palesemente destinato alla rovina. Cioè esattamente la stessa qualità di Oscar Wilde. Quella sorta di presentimento che dietro l’angolo ci sia una tragedia incombente. Le persone che hanno queste sensazioni sono assolutamente speciali e fanno sempre una fine straziante.

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Billy Fury 1941-1983 All’anagrafe Ronald Wycherley, salito alla ribalta alla.fine degli anni cinquanta come duro ribelle del rock’n’roll (la risposta inglese a Elvis Presley). Riemerso nel ‘73 con il film That’ll Be the Day. Morto per problemi cardiaci.

Billy Fury è praticamente identico a James Dean. Anche lui aveva il destino segnato fin dall’inizio e trovo che questo sia molto dolce. Era perennemente insoddisfatto, eppure aveva inanellato una sfilza di dischi di successo. Lo scoprirono mentre lavorava al porto di Liverpool, lo trascinarono a Londra, lo acconciarono a dovere e lo costrinsero a fare dischi. Fosse stato per lui avrebbe fatto soltanto ballate strappalacrime, ma si ritrovò al centro dell’arena popolare. Disprezzava quasi ogni aspetto dell’industria discografica ed ebbe gravi problemi di salute fin da giovane. Questo album (Sound Of Fury) è il più raro che ho. È il primo che ha fatto. Gli album che uscivano a quei tempi erano fatti per incontrare i gusti di un pubblico adulto. Parlavano di «chandeliers» e «abiti da cocktail». I singoli erano per i teenager e temo di aver sempre preferito i singoli. Ero il tipo di bambino che il sabato balzava giù dal letto, si scapicollava fino al negozio di dischi e restava lì per ore, a respirare l’odore di tutto quel vinile e accarezzare le copertine. Verso mezzogiorno me ne andavo, m’infilavo a letto e la consideravo una giornata assolutamente riuscita. Soldi non ce n’erano quasi mai, perciò qualsiasi disco che riuscivo a comprare diventava parte del mio cuore. Qualcosa di cui non potevo più fare a meno. I singoli di Billy sono autentiche perle.Le melodie vocali mi appassionano molto e la composizione mi travolge sempre. Ci metteva sempre una passione assoluta.

Smash Hits 21 giugno / 4 luglio 1984

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Belli e sfacciati Dave McCullough

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Disperatamente in cerca di «novità», l’industria discografica e la stampa musicale (come al solito) non si rendono conto che qualcosa di nuovo sta già accadendo. Potrebbe sembrare un fenomeno silenzioso, sotterraneo, discreto e dai contorni ancora indefiniti, ma non è così. Prima c’è stato il punk, poi il post-punk, gruppi dai nomi stravaganti come Echo e Teardrop, gruppi che riprendevano egregiamente alcuni aspetti della psichedelia. E che soltanto adesso, con tre anni di ritardo, vengono scopiazzati (con successo) da Tears For Fears et similia. Continuano a venir fuori nomi stravaganti, ma ormai sono inutili e decisamente fuori tempo massimo. Quest’anno abbiamo già avuto una nuova ondata di gruppi, i Wake, gli Smiths, i Box e i rigenerati Go Betweens, che presentano un inedito garbo, una nuova sensibilità in mezzo ai vari tentativi di scandalizzare e di bloccare (il futuro). Musica oltre il punk rock. Dicono gli Smiths: «Non citare il punk in questo articolo. Per noi ormai è una cosa del passato, non ci riguarda. È storia vecchia...». Questo approccio garbato, sobrio ed equilibrato non dovrebbe nascondere i legami di questi gruppi con il ‘76, e tutto quel che ne consegue, né, specialmente nel caso degli Smiths, la condizione molto scortese della loro arte. Gli Smiths non sono un nome come tanti. Gli Smiths si presentano benissimo, e hanno stile da vendere. Il chitarrista Johnny Marr suona una Rickenbacker rossa a mitraglia nella migliore tradizione dei primi Jam. Sembra la bella copia di Elvis Costello, anche se lui nega vigorosamente ogni somiglianza. Il cantante Morrissey ha alle spalle dei trascorsi nel punk del ‘77 e la collaborazione con alcune fanzine. Viene considerato «l’ultima grande figura uscita da Manchester dopo Howard Devoto». Ha uno stile impeccabile, getta fiori sul palco e scrive testi che parlano di sesso come mai si era sentito fare finora, nemmeno da apparenti «confessori» come il frastornato Mare Almond. Nelle canzoni degli Smiths affiora più di una volta il tema delle molestie sui minori. Ma sono anche testi esilaranti, tanto più che all’improvviso entrano nel personale. Nei concerti dal vivo gli Smiths hanno un gran finale alla Freebird. Anche questo, come Costello e le accuse di pedofilia che respingono al mittente senza pensarci due volte, fa parte del piano degli Smiths. Arriveranno in alto. Gli Smiths hanno un contratto con la Rough Trade, e questo è un aspetto nteressante, non solo perché di fronte a quei testi sorge spontaneo domandarsi se Geoff Travis li approvi, ma anche perché solleva un’altra questione: la Rough Trade sarà in grado di portare al successo questo gruppo eccezionale che ha tutte le carte in regola per farcela?

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Morrissey ostenta una laida e meravigliosa arroganza («Salterai al mio schiocco di frusta, ma te lo meriti, te lo meriti»). Semplicemente, ed è questo il bello, gli Smiths sanno di avere talento. Quanto siete bravi? Morrissey: «Tremo all’idea della potenza che abbiamo, ecco cosa penso degli Smiths. Ci siamo e ce la faremo». La Rough Trade è l’etichetta migliore per arrivare subito al successo? Morrissey, (con un sorriso enigmatico sul suo bel viso) : «Quello che vogliamo ottenere si può ottenere anche con la Rough Trade.». So che vi voleva la Factory. Non sarebbe stata più adatta? Johnny: «Ma così saremmo rimasti incastrati nella “scena di Manchester”. Mentre noi abbiamo in mente ben altro. Ragioniamo su scala mondiale...». Morrissey: «In realtà alla Factory non interessano i gruppi nuovi. La Factory è stata importante, ma ormai appartiene al passato. Certo, c’era un bel movimento, la Factory è stata grande, ma ormai è ora di lasciarsela alle spalle. La frase che riassume meglio gli Smiths è tratta da un libro di Jack Nichols, Men’sLiberation: “Siamo qui e adesso”. Sento molto quest’idea di presente. Non voglio aspettare altri due anni, non m’interessa, dev’essere questo il momento degli Smiths. E credo che lo sarà». Chiariamo questa faccenda del sesso. Negli Smiths colgo un tradizionalismo quasi heavy metal (quel finale alla Skynyrd). L’atteggiamento sessuale che hanno è sicuramente aggressivo. Morrissey (si trasforma in Oscar Wilde): «In realtà sono tutt’altro che aggressivo. Ovviamente il sesso mi interessa e ne parlo in ogni canzone. Mi interessa molto il genere. Mi sento quasi un profeta del quarto sesso. Il terzo sesso, anche quello è stato provato e non ha funzionato. Tutta quella manfrina di Mare Almond è patetica. Detta così può sembrare banale, ma si avvicina a quella “liberazione maschile” che auspico». Il quarto sesso! Perdonatemi, ma sono ancora immerso in uno stato metafisico. Ma

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arriverà. A ogni apparizione degli Smiths si avvicina di più. Lontano dal palco, a letto da solo. Arriverà... «Vorrei solo qualcosa di diverso. Vorrei che fosse tutto più semplice. Gli uomini mi annoiano e le donne anche. Tutta questa segregazione sessuale che ancora va avanti, perfino nel rock, è veramente spregevole...» Gli Smiths hanno in comune con i migliori gruppi di quest’anno la volontà di opporsi alla noia e fare breccia in un territorio completamente nuovo. Un neutralismo sessuale che rifiuta i canonici modelli Bowie/macho/sfigato. È difficile identificarlo perché è radicalmente diverso. Ogni definizione che offro degli Smiths è sbagliata, perché li colloco ancora in un contesto che è già superato: hard quando sono soft, immorali quando sono virtuosi: «...Non giustifichiamo in alcun modo le molestie sui minori. Non abbiamo mai molestato bambini». Maschi tradizionalisti, quando invece... Morrissey: «...Si dà il caso che io sia completamente influenzato da scrittrici femministe come Molly Haskell, Marjory Rose e Susan Rown-Miller. È una lista infinita! Non voglio farla lunga col femminismo, ma è una condizione ideale. Al di là di quello non si realizzerà mai, perché questa società detesta le donne forti. Basta guardare le donne di Greenham. Questa società apprezza soltanto donne languide e sottomesse, che pensano solo a sposarsi. Non me ne faccio un’ossessione, ma è una parte integrante del mio modo di scrivere». Perché tutta questa importanza ai fiori? «Hanno un valore simbolico per almeno tre ordini di motivi. Li abbiamo inseriti come antidoto quando abbiamo suonato all’Hacienda, perché era un posto così asettico e spersonalizzato. Volevamo un po’ di armonia con la Natura. E anche per mostrare un po’ di ottimismo a Manchester, ottimismo che i fiori rappresentano. Manchester è ancora una città semiparalizzata, e la paralisi si propaga rapidamente in tutta la Factory...». Il brano con cui chiudete i concerti, Miserable Lie, dice che «l’amore è soltanto una

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condizione di amore assoluto? Morrissey: «Sì. Purtroppo. Ma c’è un certo ottimismo nell’ammetterlo... Mi spiego? Oh, potrei raccontarti degli anni passati in assoluta castità, quando non riuscivo ad affrontare un coinvolgimento fisico perché non funzionava mai. Immagino di rappresentare un’anomalia nell’ordine naturale delle cose, se ho queste sensazioni.» Morrissey non fa mistero della sua eccentricità e sa come farsi notare. «Vorrei un nuovo movimento a favore della castità. Vorrei che si praticasse l'astinenza... mi spiego? Howard Devoto lo conosco benissimo e so che ha formato un gruppo solo per farsi degli amici (non ne aveva neanche uno). Posso solo dire che per me è lo stesso, dopodiché traetene pure le conclusioni che vi pare.» Di sfuggita, Johnny cita i Ramones. Se ne ravvisa qualche eco negli Smiths, ma è soltanto l’origine di un percorso più articolato. Un certo nichilismo, le insinuazioni sulle molestie che ben presto sfociano in accanimento e, malgrado tutto, una moralità di fondo ricordano più i Fall. Morrissey: «Sono tempi disperati. Ma non credo che si debba cedere alla disperazione. Dobbiamo sconfiggerla, piuttosto. Sono stufo di questo atteggiamento deprimente che c’è in giro». E il tuo umorismo? «La letteratura è piena di personaggi disperati che avevano uno straordinario senso dell’umorismo. Stevie Smith voleva uccidersi a nove anni. È meraviglioso. La capisco perfettamente. Sylvia Plath, poco prima di suicidarsi, mostrò un incredibile senso dell’umorismo nelle Lettere alla madre...» Nel mondo di Morrissey è importante avere o non avere un lavoro? «Per niente. Il lavoro degrada l’uomo. Uno dei nostri versi dice: “Non ho mai avuto un lavoro perché non lo voglio”. Il lavoro riduce l’uomo alla stupidità più assoluta, ci si dimentica di pensare a se stessi. C’è un che di positivo nella disoccupazione. Tipo: “Finalmente possiamo pensare a noi stessi”. Non ti fai accalappiare dal materialismo, non compri cose che in realtà non vuoi...»

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Gli Smiths sono un gruppo contrario alle pose, nella grande tradizione dei Fall. Un Alka Seltzer dopo un’abbuffata di Heaven 17. Morrissey: «Siamo stufi di gente che non vuole parlare con la stampa, tutte queste menate dei New Order. Evidentemente non hanno niente da dire. Credo che la verità sia questa...». Johnny: «Siamo gli unici che apprezzano davvero il lavoro della stampa. Far uscire una rivista ogni settimana quando in giro c’è palesemente pochissima musica valida salvo gli Smiths deve essere difficilissimo...». Morrissey: «La stampa musicale britannica è una forma d’arte». Anche Garry Bushell? «C’è sempre un’eccezione alla regola, Dave.» È fondamentale essere b-e-1-1-i. nel mondo degli Smiths? Morrissey: «Assolutamente». Johnny: «È soltanto la ciliegina sulla torta. Se siamo belli è solo un caso. Non è che abbiamo chiamato apposta dei ragazzi di bella presenza al basso e alla batteria, è capitato...». Ma così non escludete il 95 per cento del pianeta? Morrissey: «Probabile. Ma veramente vogliamo soprattutto un bel pubblico. Prevedo già che fra sei mesi cominceranno a portare fiori ai nostri concerti...». E se sei brutto come la fame? Morrissey accenna un gesto col dito: «Oh, in qualche modo provvederanno. Ecco, possono imparare a farsi belli. Con molto esercizio, ovviamente!». Ovviamente. Aspettatevi un boom della chirurgia plastica nell’83.

Sounds 4 giugno 1983

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Caccia allo Smith! David Dorrel

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Si può dire senza esagerare che è stato uno shock, una scossa violenta al sistema nervoso che li ha lasciati tramortiti. D’altra parte come vi sentireste voi, se aprendo il giornale scopriste di essere accusati quasi apertamente di pedofilia? Gli Smiths lo sanno: sono oltraggiati... e sconcertati. Soltanto pochi giorni prima avevano completato una seduta di registrazione per il David Jensen Show. Il loro primo singolo, Hand In Glove, aveva riscosso critiche positive sulla stampa e la band sperava che il successivo Reel Around The Fountain ne avrebbe sfruttato il successo. Andava tutto a meraviglia. Morrissey era in forma smagliante, le chitarre e l’armonica di Johnny Marr scolpivano con precisione il volto della session, mentre Mike Joyce e Andy Rourke avevano alzato il ritmo martellante della batteria e del basso fino a far tremare il soffitto. Quando salgono su un palco terreno, gli Smiths si sentono in Paradiso. E sorridono con intenzioni diaboliche. E per quanto riguarda la cattiva fama... sferzare il palco con un mazzo di narcisi gialli sarà forse più che una licenza poetica? E il profilo delicato di un uomo nudo sulla copertina di un singolo aspirerà forse alla sovversione? Due settimane fa, però, il Sun ha pubblicato un articolo di cronaca del loro corrispondente dello spettacolo, Nick Ferrari, nel quale si asseriva che i dirigenti di BBC Radio avrebbero convocato una riunione d’urgenza per decidere se trasmettere al David Jensen Show una canzone «che parla di molestie». Secondo l’articolo, farraginoso e pieno di imprecisioni, il brano in questione si intitolava Handsome Devil e conteneva «chiare allusioni all’adescamento di minori a scopo di libidine». Interpellato dal Sun in merito ai suoi «testi controversi», pare che Morrissey abbia dichiarato: «Non trovo niente di immorale nel cantare di molestie sui bambini». Chi firmerebbe mai in tal modo la propria condanna a morte? Il fatto che Handsome Devil non fosse stata registrata per la puntata non ha influito minimamente sul verdetto emesso dal giornale nei confronti della band; e non hanno influito nemmeno le altre palesi invenzioni (intervista compresa) contenute nell’articolo. L’importante era il fracasso di vetri rotti nel momento in cui migliaia di casalinghe facevano cadere a terra le bottiglie del latte... Dopo la denuncia del Sun, Sounds ha pubblicato uno schiacciante atto d’accusa contro la band nella sua rubrica di gossip, firmato nientedimeno che da Gary Bushell.

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Bushell è stato accusato dalla casa discografica degli Smiths, la Rough Trade, di aver passato al Sun informazioni denigratorie e fuorvianti. Interpellato in merito, Bushell ha smentito ogni addebito accusando a sua volta il suo grande rivale Dave McCullogh ˗ accanito sostenitore degli Smiths ˗ di aver travisato il testo della canzone in un servizio dedicato alla band, innescando così tutta la vicenda. Come dice Morrissey: «Sono affari loro, noi siamo solo un’esca». A quel punto il legale della Rough Trade ha inviato una lettera sia al Sun sia a Sounds, chiedendo una rettifica. Se non verrà pubblicata, con tanto di scuse, è probabile che si passi alle vie legali. E così, riassunta e condensata, eccovi la storia assai poco piacevole di come gli Smiths, pallidi e meravigliosi fenomeni di Manchester, hanno varcato il grande spartiacque tra la fama indipendente e l’infamia nazionale. Come hanno reagito? «Be’, siamo ancora stravolti» risponde un cinereo Morrissey. «Siamo rimasti completamente allibiti davanti alle accuse del Sun, e ancor di più da quelle di Sounds. È una vicenda che ci ha lasciato davvero senza parole, perché ovviamente era completamente inventata» continua. «Ho rilasciato un’intervista a un certo Nick Ferrari, e quello che è venuto fuori sulla stampa era completamente diverso. Un stravolgimento completo della realtà. Per me parlano di un altro, scrivono di un altro gruppo... è assurdo. Tragicamente avvilente...Ovviamente non giustifichiamo in alcun modo le molestie sui bambini o qualunque altra cosa che gli assomigli anche vagamente. Che altro c’è da aggiungere?» Già, che altro? Dopo il deplorevole stupro di un bambino di sei anni a Brighton, il Sun ha imparato una nuova parola da inserire nel suo scarno vocabolario: «pedofilia». E adesso la usa come leva per scatenare un furibondo assalto a tutto ciò che non rientra nei canoni della sua Bibbia Morale. Paranoia o persecuzione? Se l’impressione è che sia un sintomo della prima, fate attenzione: è altrettanto probabile che sia una concreta manifestazione della seconda. Nemmeno il Bingo può incrementare le vendite di un tabloid reazionario quanto un grido di battaglia sciovinistico o una caccia alle streghe di stampo maccartista. Siamo così patetici da credere che i crociati di Fleet Street si mettano in marcia con le mani pulite? Come afferma il chitarrista Johnny Marr: «In apparenza sembrerebbe la palese

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stroncatura di un nuovo gruppo emergente che comincia a guadagnare una certa visibilità. Ma ad altri livelli la faccenda è completamente sfuggita di mano... e adesso si ripercuote anche sul piano personale. Ho un fratello di undici anni, e il giorno in cui è uscito l’articolo del Sun è stato tormentato sia dai compagni di scuola che dai professori». Continua Morrissey: «È veramente difficile immaginare una critica così... feroce. Perché non è semplicemente “negativa”, è la cosa più brutta che si possa umanamente concepire. E c’è tutto quest’astio da parte di Sounds...». Non è possibile che l’articolo di Sounds fosse uno scherzo? «Fosse pure uno “scherzo”, non è affatto divertente» replica serio Morrissey. «Sono sicuro» interviene Johnny «che se la madre di quel bambino di Brighton dovesse leggere le affermazioni che ci riguardano, o come lei chiunque altro avesse particolarmente a cuore quel caso, non le vedrebbe certo come uno scherzo. Se c’è quel margine di ambiguità, allora vuol dire che l’hanno fatto apposta, per vedere chi ci casca. Ma temo siano più quelli che lo prenderanno sul serio che quelli che lo considerano uno scherzo. Altro che ambiguità.» E l’articolo del Sun? Morrissey: «È del tutto risibile, considerato che viene da un giornale come il Sun, palesemente ossessionato dal sesso sotto ogni aspetto. Quindi si tratta di un travisamento completo della realtà che viene scagliato proprio contro di noi, che siamo così sensibili e relativamente misurati. Faccio una vita quasi da prete e loro mi sbattono in prima pagina come pedofilo... È una cosa indescrivibile». Per quanto superficiale e fantasioso, l’articolo del Sun è riuscito di fatto a macchiare il nome degli Smiths (per motivi che non è dato sapere). Ha inoltre fatto sì che la puntata, che non era «sotto inchiesta» , fosse censurata e che una versione di Reel Around The Fountain di sei minuti venisse eliminata. Secondo Mike Hawkes, produttore del programma di David Jensen, il brano commissionato apposta per la trasmissione è stato eliminato unicamente a scopo precauzionale. Quanto all’articolo in sé, l’ufficio stampa della BBC non è andato oltre quello che ormai è un autentico luogo comune: «Il Sun ha preso l’ennesimo abbaglio». Purtroppo Morrissey ha appreso con rammarico che l’emittente aveva deciso di

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escludere il brano, perché, afferma: «Il disco stesso è una difesa, per la sua innocenza.» Il bello però è che alla fine la BBC ci ha confermato la fiducia. E mi pare che questo conti più di tutto il resto». Per gli Smiths, probabilmente è vero. La BBC non ha messo al bando il loro materiale e ha in programma di trasmettere il singolo appena uscirà. Di fatto, il meschino trattamento di cui sono stati oggetto per mano dei «Baroni del Bingo» e di altri spacciatori di notizie insulse e pruriginose potrebbe anche diventare la base del loro successo. Quello che evidentemente ha attirato le mosche nel piatto è stato lo stile di scrittura di Morrissey, schietto ma stupendo. In molte canzoni il leitmotif è quello di un amore senza età e senza genere, e di un amore non corrisposto. Purtroppo la nebulosità che avvolge i protagonisti dei brani introduce un certo senso di ambiguità nella narrazione. E per il Sun questo era un segnale d’allarme... Morrissey: «È completamente decontestualizzato, ma dipende anche dallo stato d’animo con cui ci si pone.» Se vuoi leggere qualcosa in un particolare testo lo troverai, che ci sia o meno. Per esempio: «Meglio un ragazzo oggi che due domani, credo di poterti aiutare a passare gli esami»? Sì. Se leggi il resto del testo si inserisce perfettamente. Il messaggio della canzone è di dimenticare lo sviluppo dell’intelletto e concentrarsi su quello del corpo. Meglio un ragazzo oggi... si rivolge a uno studente. La vita ti dà più dei libri, insomma, ma neanche tanto: è questa l’essenza della canzone... Ma così puoi prenderla, infilarla in un articolo che parla di molestie sui minori e avrà perfettamente senso. Ma puoi farlo con chiunque. Puoi farlo pure con gli Abba» . Incontrare Morrissey significa incontrare una persona di una calma che mette a disagio. Chiaro, onesto e candido, è imbevuto dello stesso senso di enormità che contraddistingue i grandi uomini di fede. In lterna misura, è timido, sarcastico e sereno. Per fortuna il suo spirito spesso caustico e il suo ego elastico sono controbilanciati dallo zelo e dalla passione. A volte è sia un missionario che un pagano. E a volte scrive le migliori canzoni d’amore dai tempi dei Buzzcocks. Il suo compagno d’ardimento è Johnny Marr, una persona nervosa ed espansiva che si nasconde dietro un paio di occhiali scuri e suona grandi partiture.

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«lo faccio una vita da santo» dice Morrissey ridendo. «Lui fa una vita infernale. E la combinazione è meravigliosa. Perfetta.»

«Hand in glove The sun shines out of our behinds» Hand In Glove

Naturalmente bisogna ascoltare per credere. E con il loro lp d’esordio prodotto da Troy Tate, prossimo all’uscita, molti di più ascolteranno e altri crederanno. È stato raggiunto un accordo con la WEA per la distribuzione americana e la speranza di conquistare anche le coste atlantiche non sarà una sorpresa. Anche se non c’è dubbio che la questione dei contenuti dei loro testi verrà sicuramente sollevata dalle forze più puritane del paese. Non che abbia importanza. Morrissey: «Di certo non cambierò il mio modo di scrivere, perché lo ritengo essenziale. Se devo essere accusato di qualcosa, è perché scrivo con vigore e parlo con il cuore, con molta franchezza... Le persone sono abituate a uno stile molto rigido, irreggimentato, e se vai troppo sul personale, e con questo non intendo nulla di scandaloso, ma basta poco perché ti prendano per “strano”» Potrà ostacolare il vostro successo commerciale? «No» continua con veemenza. «Alla fine la verità viene sempre a galla e noi otterremo il massimo successo. Non abbiamo una personalità così fragile da andare in pezzi per quello che può scrivere un rullo compressore in miniatura di Sounds. Non siamo così ingenui, santo cielo. E nemmeno il Sun ci ha toccato più di tanto. È solo del resto del mondo che devi preoccuparti - devi prendere in considerazione le loro impressioni - ed è un grande fardello. Questo dimostra che in questo ambiente non sei così padrone del tuo destino, come pensi di essere. C’è chi ti apprezza e chi ti detesta. Ma perché bisogna dare la precedenza a chi ti detesta? Sarebbe meglio metterci una pietra sopra. È già storia vecchia.» Morrissey parla di sé e del suo gruppo sempre in toni elevati, quasi nutrisse un certo

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sdegno per l’ignobile e sordido cammeo che il resto di noi interpreta come vita. Per lui il corpo è come il tempio taoista della mente: non beve, non fuma e non bestemmia. Soprattutto, è casto e lo è da molto tempo. Si considera più che un rivale di Cliff Richard. Eppure è innegabile che la sua scrittura ritorni costantemente alle pene d’amore, in tutta la sua mitigata gloria. E da questo si intravedono la debolezza e la forzata purezza su cui poggia la solidità della sua opera. Quando canta, la sua voce è quella di un angelo in purgatorio. E il suo stigma è l’angoscia dei dannati.

«You can pin and mount me like a butterfly But take me to the heaven of your bed Was something that you never said» Reel Around The Fountain

Sei distante dall’amore? Ne sono lontano fisicamente, ma ne esistono molti altri aspetti. Gran parte di quello che scrivo è non corrisposto. Sento di averne una visione unica, perché ovviamente è una cosa che domina la vita di ogni individuo, e io la osservo da tempo. Penso di avere un intuito particolare, anche se detta così sembra terribilmente pomposo e pretenzioso. È strano però che la maggior parte delle persone che restano incatenate all’idea dell’“amore assoluto” di solito siano individui totalmente irresponsabili che tendono ad autodenigrarsi. Non è una visione sterile dell’amore? No. Non sono una zia inacidita che prende a frustate le coppiette nel parco! Tutto sommato, sa di devozione quasi religiosa a un ideale: un ideale che per certi versi è offuscato dalla sua stessa grandiosità ma fondamentalmente è affine a quei momenti solenni e impressionanti che rendono gli Echo and the Bunnymen così cristallini nella loro magnificenza. Eppure Ian Mac è saldamente radicato nel suo retroterra e nei suoi valori, e quindi s’inchina al mondo e dimostra umiltà. Morrissey, invece, è ben contento di lasciare che

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le sue sublimi aspirazioni tirino fuori il meglio di sé e di conseguenza non riesce a vincere sul piano umano. Le sue canzoni guardano sempre tutto dall’alto in basso, e finché non ammetterà le proprie debolezze, la parte migliore del credo degli Smiths rimarrà gelida e ultraterrena. Sarà mica un egocentrico? Non si tratta di ego. Se hai talento e lo sai, perché fare il timido e nascondersi dietro le tende? Non ha senso... Che cosa significa per te tutto questo? Per me è più essenziale che respirare, è più naturale che respirare. Non so perché sono qui, è come essere catapultati su una scala mobile, salire e non avere voce in capitolo. Tutto qui... In realtà è tutta questione di vita e di morte. E qui si vede la nostra serietà... Non ti preoccupa il fatto che potrebbero anche non prendervi sul serio? Potrebbero farlo o non farlo, e il fatto che qualcuno lo faccia già significa che è stato prezioso, che ne è valsa la pena... Ritieni di dover essere una minaccia per avere successo? No, per niente. Se per minaccia intendi dire avere un cervello e usarlo, allora siamo una minaccia. Ma se significa qualcos’altro, non vedo proprio come potremmo essere pericolosi. Non credo che disturberemo qualcuno, e non credo sia modesto dirlo. In meno di un anno gli Smiths hanno creato una bellezza duratura. Il loro candore, la loro sicurezza, sono sbocciati nelle sonorità spirituali più melodiche. In una grande canzone degli Smiths c’è sempre una visione d’insieme che sovrasta tutti i comuni mortali che si radunano nella spazio del pop. E per questo reciterò una breve preghiera.

«The good people laugh Yes, we may be hidden by rags But we have something that they’ll never have» Hand In Glove

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New Musical Express 24 settembre 1983

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Tutti gli uomini hanno dei segreti... Neil McCormick

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Morrissey degli Smiths ha preso il posto dei Duran Duran e dei Thompson Twins, cancellandoli tutto da solo, per lo meno sulla mia cassetta (sempre più consumata). Quando gli ho rivelato su quali conversazioni stavamo registrando la nostra intervista, ha commentato: «Bene. Allora parlo più forte». Non è un tipo da prendere alla leggera.

«Dietro la Gioia e il Riso può nascondersi magari un brutto temperamento, un temperamento aspro, duro, insensibile. Ma dietro il Dolore è sempre il Dolore. La Sofferenza, al contrario del Piacere, non reca mai maschere. [...] A volte il Dolore mi pare essere l’unica verità. Altre cose possono essere illussioni dell’occhio o del desiderio, fatte per accecare il primo e saziare il secondo, ma con il Dolore sono stati creati i mondi, e alla nascita d’una creatura umana come d’una stella presiede il dolore.»* Oscar Wilde, De Profundis «Heaven knows l’m miserable now» Morrissey

Fuori, anche se il sole non è ancora tramontato, il giorno lentamente volge al termine. Morrissey sprofonda in una poltrona nell’ angolo più buio del suo soggiorno. Una luce fredda e spoglia gli illumina parte del viso, mettendo in risalto una mascella che appare curiosamente fuori asse. Ha un’aria vagamente imbarazzata, e raramente ti guarda negli occhi. Non c’è traccia di quella disinvolta sicurezza che in genere decora l’atteggiamento delle popstar. È vestito come te lo aspetteresti, un disastro di stile, con un maglione di lana bianco sporco liso e un paio di jeans scoloriti. I capelli si protendono all’insù in un ciuffo sulla fronte goffo e insolente. Manca solo un mazzo di giunchiglie.

*Oscar Wilde, De Profundis, traduzione di Oreste Del Buono, Mondadori, 2009, pp. 83-84.

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«A prescindere da quello che fai, da come ti vesti o da quello che dici, se finisci sotto i riflettori, comunque ti presenti, appare un’immagine» dice. «Se non hai un’immagine, se diventi famoso e cominciano a imitarti, pare quasi che il tuo modo di vestire sia una cosa studiata e costruita a tavolino, ma ovviamente non è mai stato così. La trappola dell’immagine è sempre lì, prima o poi si casca. E spesso e volentieri ti strangola.» L’appartamento di Morrissey non è certo la casa dei sogni di una popstar. Colori neutri, molto ordinata, elegante, con uno stile quasi retrò. Nel soggiorno c’è un tavolo con una macchina da scrivere e una risma di fogli impilati con cura. Attorno al caminetto vuoto è disposto un bel salotto a tre pezzi (divano e due poltrone). Sulla mensola del camino è ammassata una fila di libri, tra cui numerosi volumi su Oscar Wilde («Ho letto tutto quello che ha scritto e tutto quello che è stato scritto su di lui e mi incute ancora un assoluto timore reverenziale») e su James Dean («Non per la recitazione, che a dire il vero trovo un po’ sopra le righe. Provo un certo imbarazzo quando vedo quei film. Però mi affascina la capacità di rappresentare il suo tempo e la sua generazione»). Due figure tragiche, che Morrissey ammette di trovare seducenti. Sopra il caminetto c’è un ritratto di Dean con l’aria imbronciata. «Aveva quella straordinaria caratteristica di venir bene dovunque, in qualsiasi contesto» commenta Morrissey. Sparse per la stanza ci sono anche tre fotografie incorniciate di Morrissey, ma di sé non parla con vanità. «lo sono brutto.» La voce è sommessa, con una live monotonia quasi impercettibile, tipica del Nord dell’Inghilterra. È un irlandese di seconda generazione, nato e cresciuto a Manchester. «Trovo che l’Irlanda sia affascinante. Forse non dovrei dirlo» ride, considerando il fatto che le sue parole saranno riportate su un giornale irlandese. «Oh, lo dico lo stesso: è uno dei paesi più cattolici del mondo ma anche uno dei più repressi, e questa è una cosa triste. Però mi attira moltissimo, ovviamente, anche perché sono di genitori irlandesi come gli altri ragazzi del gruppo, e abbiamo un profondo legame con il posto. Tra l’altro, le persone che mi appassionavano di più in letteratura venivano quasi tutte dall’Irlanda, chissà per quale motivo.» Recentemente, con il successo degli Smiths, Morrissey ha lasciato Manchester e la sua «piccola Irlanda» per trasferirsi a Londra.

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«Mi piace moltissimo qui» dice «ma anche a Manchester stavo bene. A Manchester sono davvero miopi e ottusi in questo senso: se te ne vai ti considerano un disertore, un infame, uno che volta le spalle a chi muore di fame nei vicoli di Manchester, e allora ti sputano addosso. Ma quando vivevo lì non mi pare che mi abbia mai aiutato qualcuno, sia nella minuscola industria discografica locale, sia nel circuito dei club o quello che è. Non mi hanno mai dato una mano, perciò non devo niente a nessuno a Manchester, e mi fa molto piacere. Provo ancora un affetto e un entusiasmo sconfinati per la città, in ogni caso, e sono certo che prima o poi tornerò. Ma per me adesso Londra è assolutamente perfetta. Insomma, mi dispiace dover dire che stare qui è veramente entusiasmante come dice certa gente che viene sempre presa per matta. Se vieni a Londra e rimani solo pochi giorni ti fai un’idea del posto completamente fuorviante, ti sembra una città impersonale, odiosa e artificiale. Ma appena stai qui per un po’, ti rendi conto degli enormi vantaggi. È semplicissimo: c’è sempre qualcosa da fare, e muoversi è molto facile. A Manchester chiudeva tutto alle otto di sera ed eri completamente paralizzato, mentre qui puoi andare dove ti pare, quando ti pare fare tutto quello che vuoi.» E che cosa fai di preciso? Niente. In realtà non faccio niente. Ma se volessi fare qualcosa, potrei. Non sento alcuna limitazione. C’è un alone di malinconia attorno a Morrissey, e non è solo un effetto della luce che si affievolisce. Ride spesso, ma è una risata discreta, quasi imbarazzata, di solito rivolta a se stesso e a quello che dice. Quando canta What Difference Does lt Make? a Top of the Pops, riempie la frase di indifferente disperazione. È convinto che la sua vita non sia delle più allegre. «Pensavo che successo, fama e fortuna mi avrebbero reso felice, ma adesso ho capito che la felicità è una condizione troppo profonda per poter essere cambiata da uno di questi fattori... Non che abbia già guadagnato chissà quanti soldi poi...» Di nuovo quella risata. Gli Smiths sono rapidamente sbucati dal nulla, primo gruppo da qualche tempo a questa parte a valicare il confine tra pop e indipendenti.

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poco tempo fa era un individuo solitario, che leggeva talmente tanto da aver cercato di smettere perché «non vivevo più. Me ne stavo ripiegato su una sedia venti ore al giorno» e scriveva continuamente, ma soltanto per se stesso: «Ho provato a fare il giornalista, ma ho fallito miseramente. E un tempo scrivevo canzoni con la melodia accennata a malapena, perché non sapevo suonare neanche uno strumento». Poi ha incontrato il chitarrista Johnny Marr e hanno unito le forze, non solo perché Johnny sapeva comporre musica, ma anche perché «era molto aggressivo. Ho capito che sarebbe riuscito subito a risolvere tutto» . Gli Smiths si sono presentati con un sound di chitarra scarno ed essenziale, una ventata di fresca sobrietà nel melodramma di sintetizzatori che popola le classifiche. «Ho sempre pensato che ci servissero soltanto gli strumenti essenziali. Non c’è stato nulla di studiato, è capitato semplicemente che quando ci siamo incontrati eravamo solo noi quattro e suonavamo così. Non si è mai discusso di aggiungere o sottrarre qualcosa, sembrava un equilibrio assolutamente perfetto. Però credo che sia stato fondamentale ridurre al minimo molti elementi dei gruppi che oggi vanno per la maggiore: usare strumenti molto tradizionali, farsi chiamare Smiths, non avere alcuna presunzione, essere molto schietti e determinati. Così tutto si incastra alla perfezione.» Hanno colpito la fantasia sia del fedele pubblico indipendente, il loro album è infatti in testa alle classifiche, sia dei volubili fan del pop, piazzando diversi successi nella Top ten con splendide canzoni di delicata malinconia. C’è una bellezza disturbata negli Smiths, talvolta disturbante, una depressione poetica che li rende veri figli dei Joy Division, abbinata a un vigore e a un realismo, una semplicità di linguaggio vagamente comica e una sincera voglia di esprimersi, che li imparenterebbe piuttosto con gli Undertones. Hanno colmato un vuoto enorme.

«All men have secrets and this is mine So let it be known We have been through hell and high tide, I can sure rely on you?» What Difference Does It Make?

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Ascoltando le tue canzoni si ha l'impressione che tu non abbia avuto una vita affettiva molto felice. Non ho avuto nessuna vita affettiva» ha risposto Morrissey con una di quelle risate incerte. «Sì, è veramente ridicolo, ma è una cosa che mi chiedono spesso nelle interviste. Chi non mi apprezza ha sempre l'impressione che non faccia altro che lamentarmi per ore e ore, ma non è per niente facile quando ti fanno queste domande e se vuoi dare risposte sincere, come cerco sempre di fare, allora devo dire di sì, sono abbastanza infelice. Ma allora perché sto ridendo? Ho letto da qualche parte che hai deciso di restare casto, è vero? Morrissey è parso imbarazzato. «Mah, sì, è vero» ha risposto. «È da un bel po', ormai. All'inizio era involontario, ma poi mi sono reso conto che... ehm... era piuttosto interessante. Ho pensato: "Continuiamo così". In realtà è completamente privo di senso.» Perché completamente privo di senso? Non lo so, è solo che... Le cose stanno così. Non riesco proprio a fare un'analisi. È un dato di fatto, ed è successo. Ma allora perché rido ancora? La celebrità pop di solito pone fine a tutto questo. «Di solito sì» concorda Morrissey «ma evidentemente sono l'eccezione alla regola. Troppe popstar non sono di buon esempio. I giovani hanno bisogno di figure di riferimento, per lo meno io, e la musica leggera è l'unica cosa che gli è rimasta. Non leggono libri, non credono ai film. C'è soltanto la musica, e molte popstar offrono modelli vuoti e inutili, oppure si accontentano di essere incomprensibili e misteriosi. Noi non saremo mai incomprensibili, non potremmo mai essere incomprensibili, perché uso un linguaggio essenziale. Parole semplici ma abbastanza forti, spero. E con questo intendo dire cose che le persone nella vita quotidiana hanno difficoltà a esprimere, come: "Non voglio lavorare", "Non voglio essere amato", o "Sono brutto". Cose che in realtà sono semplicissime parole, ma che nessuno riesce mai a pronunciare. Insomma, se dici ai tuoi amici o ai tuoi genitori: "Sono molto infelice", vai a toccare un nervo scoperto... è una cosa troppo intima, non si può dire.E allora preferisco parlare di questo, perché mi sembra più efficace.»

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Allora se tu sei una figura di riferimento, che riferimento dai? È curioso, ma pare che mi arrivino un mucchio di lettere, da gente che mi scrive per raccontarmi i suoi problemi. Mi scrivono dei problemi che hanno a scuola, o in amore o con i genitori, oppure per dire che si immedesimano in una canzone. A quanto pare chi fa una vita piuttosto difficile mi vede un po' come spirito affine, oppure come una persona che può dare delle risposte, il che, ovviamente, non è vero. Però, ecco, è molto più interessante delle solite lettere dei fan che vogliono solo sapere che numero di scarpe porti. È strano, ma ho l'impressione che mi prendano molto sul serio invece di considerarmi soltanto un personaggio famoso, una insulsa popstar, che, ovviamente, non vorrei mai essere. Rispondi mai a queste lettere? Religiosamente, tutti i giorni. Ovviamente bisogna stare attenti, e certe volte è importante non prenderle sul serio. Ricevo lettere di aspiranti suicidi che non sai mai come gestire. Sarebbe ridicolo pensare di poter risolvere tutti i problemi con due parole scarabocchiate dietro una cartolina. A quanto pare ti stanno affidando la rubrica della posta del cuore per la nuova generazione! Ma se hai l'impressione che la tua vita non sia delle più allegre, che titoli hai per dare consigli agli altri? Non mi viene in mente nessuno di più qualificato di me (ride). Ci sono passato anch'io e lo capisco. Non credo che una persona felice possa mai capire davvero, pensano che crescendo ti passerà. L'infelicità è un sentimento troppo radicato nell'intimo per eliminarlo semplicemente trovando un impiego o iniziando una storia d'amore travolgente. Secondo me, si può solo imparare a sopportarla e tentare di dominarla giorno per giorno.» Non sembra una base molto invitante per sopravvivere. Però è la base che permette ai più di sopravvivere. Non credo che siano tutti così felici come vorrebbero. Che opinione hai del suicidio? Devo fare molta attenzione a quello che dico adesso, ma... dato che ci sono andato

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vicino parecchie volte, ho una certa ammirazione per chi ha la forza di arrivare fino in fondo. Chi non c'è mai andato vicino non può sperare di capire, e l'idea che fino a pochi anni fa fosse illegale, ovviamente, è ridicola; per me in un certo senso è una scelta onorevole, perché significa assumere il controllo totale sulle propria vita e sul proprio corpo. Non pensare al suicidio, non prenderlo in considerazione o valutarlo, significa che in definitiva non abbiamo controllo sul nostro destino, sul nostro corpo e sul nostro cervello. E credo che chi non ha questo senso di controllo sia una persona piuttosto superficiale, inconsistente. Con questo non voglio dire che semplicemente assumendo il controllo del proprio corpo la meta ultima sia il suicidio. Ma da un certo punto di vista lo ammiro. Hai paura della morte? No. Per me è assolutamente necessaria. Non potrei immaginare la vita senza la morte. Sarebbe veramente ridicolo. L'idea stessa di vivere per sempre... Insomma, da bambino sono cresciuto con una severa educazione cattolica, ti inculcavano nella testa l'idea che saresti andato in paradiso e avresti vissuto per sempre in eterno, e ricordo sempre che quell'idea della vita eterna mi pietrificava perché non riuscivo a immaginare una vita senza.fine! Credo che sia assolutamente necessaria e che serva a tenerci tutti sempre attivi. Se non ci fosse la morte, non faremmo mai niente. Ce ne staremmo sdraiati tutto il giorno a mangiare pasticcini.(ride) Hai delle convinzioni spirituali o religiose? Sì, ma non così forti come avrei dovuto avere a causa di quell'assurda educazione cattolica. Non sono mai riuscito a cogliere il nesso tra cristiano e cattolico. Ho sempre immaginato che Cristo avrebbe disprezzato la chiesa cattolica e se ne sarebbe completamente dissociato. Ho frequentato scuole molto rigide, scuole per i figli degli operai, dove per il tuo bene a momenti ti mozzavano le dita, e se la domenica non andavi in chiesa, il lunedì successivo, quando ti presentavi a scuola, ti facevano l'interrogatorio e ti mandavano alla forca. Del tipo "Lavati SUBITO i denti o FINIRAI ALL'INFERNO e MARCIRAI e i SERPENTI ti MANGERANNO". E mi ricordo tutte quelle immagini religiose, le statue, che usavano per terrorizzare ogni bambino vivace. Tutti quei serpenti calpestati sotto i piedi, sangue dappertutto. Mi sembrava così. E poi, insomma, l'idea stessa di andare in chiesa è veramente assurda. Ho sempre avuto

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la sensazione che fosse come la polizia, sicuramente in questo paese per lo meno, che serve solo per reprimere e tenere a bada la classe operaia. Perché ovviamente, a parte la classe operaia, nessuno le dà retta. Mi viene la nausea quando vedo il Papa che fa tutte queste prediche pompose sugli armamenti atomici e poi prende il tè con Margaret Thatcher. Per me è ipocrisia totale. E quando sento il Papa che condanna senza appello le donne della classe operaia perché abortiscono, e non condanna nessun altro... per me è solo classismo, serve a mantenere la classe operaia in uno stato di paura perenne e a farla sentire totalmente in colpa. Pensi di aver subito l'influenza della repressione cattolica, la più tipica malattia irlandese? In certa misura sì. Ma anche se provengo da una famiglia mostruosamente grande, cattolica fino all'assurdo, quando avevo sei anni due avvenimenti molto tragici all'interno della mia famiglia hanno spinto tutti noi ad allontanarci dalla Chiesa, e a ragione, e da quel momento in poi c'è stata un'assoluta indifferenza per una cosa che prima di quelle tragedie era praticamente intoccabile. Quindi sì, ho sperimentato sulla mia pelle quella paura noiosa e severa, ma ho conosciuto anche la realtà della vita. Credi che la tua infelicità derivi dalle tue origini? Be', ovviamente penso di sì perché se venissi da un ambiente favolosamente ricco e favolosamente avventuroso immagino che non avrei la maggior parte della ansie che ho oggi. Invece siamo sempre stati molto poveri ed era tutto impossibile. Sono stato disoccupato per anni e anni e anni, volontariamente, perché non ho mai avuto voglia di lavorare, e non credo che si possano passare anni di disoccupazione, alle prese con i servizi sociali e tutta la depressione che ne consegue, per poi semplicemente uscirne fuori un giorno e diventare un altro. Perciò penso di sì, ci sono ragioni precise e piuttosto serie per cui sono fatto così. Prima parlavi della capacità di esercitare il controllo sulla propria mente e sul proprio destino: questo non significa anche controllare il proprio stato d'animo? Mah, no, non credo, perché non cresciamo da soli e non decidiamo noi le condizioni in cui ci troviamo a vivere. Sono semplici circostanze che ci capitano addosso.

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Non sembri una persona felice, perciò che cosa ti fa pensare di essere, o di poter essere, una buona figura di riferimento? Che cosa ti fa credere che la tua opinione abbia un valore? Perché lo ha! È una domanda facilissima ed è impossibile dare la risposta. Non sono mica io che telefono ai giornalisti e li supplico di venire da me, sono loro che vogliono parlare con me. Non vado mica a bussare di porta in porta. Per anni e anni ho scritto nel più assoluto anonimato e tanta gente mi prendeva per pazzo, e adesso che ho un contratto discografico e faccio uscire dei dischi e più o meno dico le stesse cose che vado dicendo da dieci anni sembra quasi che abbia legittimato la mia follia. E questo ti dà veramente la licenza di parlare senza peli sulla lingua, ed essere accettato comunque. In realtà non voglio influenzare nessuno. Voglio che le persone ascoltino e reagiscano perché non vedo nessun altro nella musica pop che dica qualcosa, o almeno ci provi. Non dico di essere un Messia insostituibile sulla cima di una collina, o chissà cosa... però mi sembra che gli altri siano completamente muti. Si tratta solo di una brutta inclinazione alla sofferenza? C'è qualcosa nella vulnerabilità di Morrissey col quale un pubblico sempre più ampio tende a immedesimarsi. È lontano milioni di chilometri dall'infelicità del country, dall'autocommiserazione cantautoriale o dall'acredine punk. È qualcosa di delicato, divertente e vivo. «Credo che la gente sappia riconoscere l'integrità del gruppo» dice Morrissey. «Sono fermamente deciso a non perderla mai. Almeno finché sarò io a tenere le redini.» L'integrità viene da te? In gran parte, perché io sono il portavoce del gruppo e ho maggiore visibilità, mentre gli altri rilasciano dichiarazioni molto raramente, e quando lo fanno sono comunque molto meno serie delle mie. Gli altri tre possono fare un passo indietro e possono tirarsi fuori. Io non potrei mai. Correrò il rischio.»

Hot Press 4 maggio 1984

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Morrissey Elissa Van Poznak

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Il Morrissey che mi accoglie sulla porta della sua signorile abitazione di Kensington non indossa la ormai nota e voluminosa camicia D.H. Evans fuori taglia e l'armamentario di collanine. È anche a 450 chilometri di distanza dalla persona esuberante ed espansiva che avevo incontrato lo scorso gennaio a Manchester nell'ex quartier generale del suo gruppo, gli Smiths, ma allora era sei mesi più giovane e sei mesi meno famoso. Con un pullover bianco attillato, sembra paurosamente magro e l'altissima quantità di polline nell'aria lo fa respirare a fatica, nonostante la sala d'ingresso in cui mi fa entrare sia piena zeppa di fiori. «Disfarmene? Come potrei» sospira «sono un'estensione del mio corpo! Ah sì, i fiori...». Raramente una nazione è capitolata così in fretta e con una tale adorazione. E per che cosa? Un quartetto di giovani mancuniani ammodo, classici come un ensemble d'archi; l'elfico chitarrista Johnny Marr, il batterista Mike Joyce e il bassista Andy Rourke, tutti sui diciannove anni o giù di lì. E Steven Morrissey, il ventiquattrenne paroliere, cantante e lanciatore di fiori. All'improvviso, dopo anni di traumi adolescenziali e introversione monastica, da solo nella sua stanza con le Opere Complete di Oscar Wilde e ogni kitchen sink drama che sia mai stato girato, per non parlare di una castità autoimposta, tutti vogliono essere amici di Morrissey. Lo scorso Natale, a Manchester, Morrissey non ha potuto aprire la porta ai cantanti di inni natalizi che intonavano This Charming Man, il secondo singolo degli Smiths su Rough Trade, l'etichetta indipendente con la quale si sono accasati. Quel singolo, con in copertina Jean Marais ˗ il giovane amante di Cocteau, con lo sguardo perso nel suo riflesso in una pozza d'acqua ˗ è stata la svolta decisiva. Ha anche portato alla ribalta la sognante ambiguità, spesso sessuale, dei testi di Morrissey, che scdellava imponderabili e sconcertanti interrogativi metafisici senza scomporre nemmeno un capello dell'impeccabile ciuffo alla James Dean di Morrissey. Un gruppo di sognatori narcisisti che hanno colto al volo l'eccitazione del momento, o qualcosa di più? Io sono per la seconda ipotesi, e anche Morrissey, che di solito è il primo a dirlo. Eppure, tutto questo charme ha il suo prezzo. «È fin troppo accomodante» dice lo scrittore Jim Shelley, amico e confidente. «L'altro giorno ha concesso ventiquattro interviste, superando il precedente record di sedici

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e a volte penso che mi inviti da lui solo per farmi rispondere al telefono.» «È sfinito» dice il manager Scott Peiring, raccontando una tipica ed estenuante settimana di riunioni di lavoro, per non parlare delle apparizioni a Pop Quiz e Eight Days a Week. Rolling Stone è andata; Penthouse (Penthouse!) aspetta dietro le quinte; il nuovo singolo, Heaven Knows I'm Miserable Now, è entrato subito in classifica al diciannovesimo posto e gli toccherà un altro passaggio a Top of the Pops. Il disco di platino per le trecentomila copie vendute nel Regno Unito dell'album d'esordio, intitolato semplicemente The Smiths, dovrebbe arrivare da un momento all'altro accanto a quello d'oro sul caminetto di Morrissey. Nel momento in cui leggerete questa intervista, gli Smiths avranno già suonato come headliner di un festival da diecimila spettatori in Finlandia, dove si sono recati norwstante una morbosa paura di volare; poi sarà la volta di Jobs For A Change, una manifestazione organizzata dal Comune di Londra per il 10 giugno; poi arriverà un ulteriore nuovo singolo, William, It Was Really Nothing. Concedetegli una vacanza! Invece, concede un'altra intervista, forse l'ultima per un lungo periodo di tempo... Una volta hai citato Fran Lebowitz: «La conversazione civile non è una conversazione». Sei pronto a parlare sboccato e dire la verità, tutta la verità...? Sì, e prometto di rimettermi alla clemenza della corte. Hai l'aria un po' mogia oggi, sei depresso? Mmmmmmm... Il tuo telefono è perennemente occupato o irraggiungibile. Sì, nelle ultime tre settimane ha dato parecchi problemi. Forse è guasto, fammi sentire adesso (alza la cornetta). No, funziona, ma va a fasi alterne e mi fa proprio comodo, perché ho dovuto cambiare numero. Telefonava talmente tanta gente che ci stavo ventiquattr'ore al giorno (il telefono tintinna per un attimo e Morrissey si irrigidisce visibilmente). Scusami, ho urtato il telefono col braccialetto. Ma fai tutte le interviste qui? Sei un po' agorafobico? Sì e no. All'inizio sì, ma poi c'era un tale viavai di giornalisti che all'improvviso mi sono

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sentito nudo. Entravano, andavano dappertutto, cominciavano ad avvicinarsi troppo e a sapere troppo. Lo so che sembra paranoico e maniacale, però... Richard Jobson, che abitava qui prima di me, mi ha detto di non aver mai fatto entrare gente del mondo musicale. Lì per lì non lo capivo. Adesso sì. Di solito le interviste non le faccio qui. Anzi, sto pensando di non concederne più. La settimana scorsa ne hai concesse ventiquattro di fila in un giorno solo, tra cui una con Penthouse! Sì, anche se a dire il vero non l'abbiamo ancora finita e non mi pare che Penthouse voglia un'intervista normale. Probabilmente saranno piuttosto brutali e andranno dritti al sodo: «Eri un adolescente arrapato?». Eri un adolescente arrapato? Oh certo (ridacchia), non si vede? Poseresti nudo se ti offrissero una bella cifra? Probabile. Non ho nulla da nascondere. Chi è stato l'ultimo a vederti «al naturale»? Quasi sicuramente il medico che mi ha portato in questo mondo crudele. Quando è successo? Più o meno ventiquattro anni fa. Sembravi un po' a disagio in tivù l'altro ieri, incastrato tra Tony Blackburn e George Michael degli Wham. Sì. è stato piuttosto penoso. Eight Days a Week è stato decisamente più facile di Pop Quiz, chissà perché. Che cosa ti eri infilato nell'orecchio a Eight Days a Week? Temo fosse il solito oggetto di scena, un vecchio apparecchio acustico per accattivarsi la simpatia del pubblico, sempre ammesso che sia possibile. Alla fine ho avuto l'impressione che non sia servito a niente: tre persone che parlavano di film e libri

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non hanno né visto né letto. Non vi eravate preparati? Ci ho provato ma era talmente brutto e faticoso che non sono riuscito ad andare oltre i primi cinque minuti, si aspettavano da me un saggio critico su tutto ciò che si era detto, una cosa davvero ingiusta. Pop Quiz è stato insopportabile. Mi sono reso conto di aver commesso un errore terribile nel momento in cui la telecamera ha cominciato a riprendere. Perché ci sei andato? Avevo questa idea priva di fondamento che i nuovi volti della musica dovessero abbattere tutte le barriere e cambiare le cose. Ma poi ho capito che Pop Quiz in definitiva era impenetrabile. Non puoi cambiarlo, è già consolidato, le battute sono rigide, i movimenti talmente provati e riprovati che nessuno capirebbe la differenza. Sono stato sulle spine dall'inizio alla fine del programma. Poi sono tornato in camerino ed ero quasi sul punto di crollare, è stato tutto così inutile. Mi sentivo come se mi avessero imbavagliato. Non è un po' lo stesso discorso delle classifiche, in fondo? Dove si collocano gli Smiths? Non saprei. In fondo siamo delle mosche bianche, anche se a Pop Quiz mi hanno chiesto di tornare, il che è alquanto sconcertante. Ti ha sorpreso il fatto che gli Smiths siano stati votati miglior nuovo gruppo nel sondaggio tra i lettori del New Musical Express? Per niente, mi sembra assolutamente naturale. Mi sarei sorpreso di più se stessimo ancora suonando a Dingwalls. Con tutte queste interviste e l'attenzione dei media, ti senti sovraesposto? Sembra che io sia stato troppo sovraesposto a causa della natura delle interviste. Si spingono molto sul personale, e anche se ne fai una sola che entra in modo imbarazzante sul personale, ti senti del tutto sovraesposto. È un dilemma. Non so proprio che fare.

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Non è una lezione pratica: essere meno personali in futuro? Non posso farmi intervistare e andare per il sottile pesando le parole. Nelle interviste usa e getta, dove mi chiedono il minimo indispensabile, provo un assoluto senso di inutilità. Puoi fare cento interviste e non spiegare assolutamente niente di te, mentre di solito mi vengono fatte domande molto serie e io do risposte altrettanto serie. Quando parlo della mia infanzia, finisce sempre per diventare così spassoso o deprimente da diventare quasi stupido e imbarazzante, ma ha sempre un grande effetto sugli altri. Una legge non scritta afferma che non si dovrebbe mai ammettere di aver avuto un'infanzia infelice. Bisogna far finta di essersi divertiti un mondo. Io mai. Non voglio elemosinare solidarietà, ma facevo fatica anche ad avere una minima amicizia. Mi sentivo assolutamente brutto. (Morrissey comincia a tirar su col naso rumorosamente) Oh, non piangere. No, a dire il vero sto morendo di allergia. Allora non sei cocainomane? Ancora no, ma mi sto adoperando. Hai letto l'articolo di Judie Burchill in cui sosteneva che i giovani sono un branco di bamboccioni ingrati che non hanno nessun diritto di pretendere tutti i comfort su un piatto d'argento? No e non sono d'accordo. Ho sempre trovato che i giovani siano soddisfatti e sereni. Se da bambino mi è capitato di essere arrabbiato e scontento era perché non c'era mai una reazione da parte di nessuno. Personalmente ero molto infelice. Scherzando hai detto che Dorothy Parker, col suo spirito caustico, era la tua madre spirituale. Oh, magari lo fosse. Che cosa ne pensa tua madre quando parli della tua infanzia insopportabile? La prende molto sul serio e legge le mie interviste religiosamente. Lo so che a volte la addolorano, ma non si tratta di nulla che non sappia già. Sono cose che abbiamo

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faticosamente affrontato diverse volte, molti anni fa. Ma non posso farci niente, se qualcuno mi fa una domanda io rispondo, non posso mentire. Che mestiere fanno i tuoi genitori? Hanno sempre avuto impieghi molto umili. Non parli mai di tuo padre. I miei hanno divorziato quando avevo diciassette anni anche se era nell'aria da anni. Rendersi conto che i tuoi genitori non sono compatibili ti permette di capire, in anticipo sugli altri, che la vita non è facile e non è semplice essere felici. Ci vuole molta fortuna per trovare la felicità. Per questo motivo sono diventato un ragazzo molto serio, anche se la causa delle mie nevrosi non sono i miei genitori. Hai trascorso parecchio tempo rinchiuso nella tua stanza, come è stato? Stranissimo. Avevo una cameretta piccolissima, e in certi periodi, tra i diciotto e i diciannove anni, non uscivo letteralmente per tre o quattro settimane. Restavo lì dentro giorno dopo giorno, il sole era cocente e io avevo le tende chiuse. Me ne stavo seduto da solo, quasi al buio, con la macchina da scrivere, circondato da risme di carta. Le pareti erano completamente ricoperte da poster di James Dean, quasi al limite della claustrofobia, e avevo dei foglietti appiccicati ovunque con delle riflessioni profonde. Per esempio? Oh, ritagli di giornale con le notizie più improbabili, tipo «Pesce mangia uomo». Probabilmente la citazione più importante era di Goethe: «L'Arte e la Vita sono diverse, per questo una si chiama Arte e l'altra si chiama Vita». La cosa strana, però, è che ogni volta che sono tornato a casa e in quella stanza, non riuscivo minimamente a stabilire un nesso tra come mi sentivo, come stavo e la stanza. È drammatico, ma a un certo punto mi ero messo in testa che non sarei più riuscito a uscire dalla stanza. Sembrava quasi che ci fossi nato, in quella stanza. Tutto ciò che mi ha reso come sono è lì dentro. Avevo un terribile complesso del territorio. Disprezzavo completamente chiunque varcasse la soglia e se qualcuno entrava, o guardava i miei libri, o prendeva un disco, schiumavo di rabbia. Ero maniacale: ogni cosa era in ordine cronologico: un posto per tutto, tutto al suo posto. Ossessione totale. Soltanto mia sorella ogni tanto si affacciava

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schiumavo di rabbia. Ero maniacale: ogni cosa era in ordine cronologico: un posto per tutto, tutto al suo posto. Ossessione totale. Soltanto mia sorella ogni tanto si affacciava alla porta. Oggi mi sembra una cosa completamente folle. È strano come le cose che prima sembravano tanto importanti, alla fine non contino più. Tua madre ti ha mai consigliato agli esordi degli Smiths? No, ma è stata determinante nel plasmare le mie opinioni su certe cose. Mi ha fatto conoscere Oscar Wilde e quando sono nati gli Smiths ha avuto grande forza di volontà e senso degli affari. Francamente, mi ha sempre lasciato fare come volevo. Se non volevo lavorare, le stava bene così. Se volevo andare da qualche parte, mi diceva eccoti i soldi, vai. Se volevo una macchina da scrivere nuova, me la procurava. Mi ha sempre dato sostegno sul piano artistico, mentre tanta gente che aveva attorno le dava della pazza perché mi permetteva di restare chiuso in camera a scrivere. È quest'idea tipicamente operaia che si nasca semplicemente per lavorare, e se non lo fai non hai nessun valore per l'umanità. Siccome non lavoravo, era un peccato capitale. Alla fine però è andato tutto bene: ho dimostrato di valere qualcosa e anche lei si sente realizzata, come me. Ride bene chi ride ultimo. A scuola tenevi nascoste le tue inclinazioni poetiche o ti prendevano in giro? No, non le tenevo nascoste e sì, in larga parte mi ridevano dietro. La cosa che mi ha salvato nonostante le mie insolite perversioni, come la passione per Cilla Black e Oscar Wilde ˗ se fai parte della classe operaia di Manchester non è di grande aiuto essere fissati con Oscar Wilde ˗ era la mia bravura nell'atletica. Ero un atleta modello e quelli sono gli studenti più coccolati, che riescono sempre a passarla liscia. Piacevi a qualcuno, a scuola? Non in modo evidente. Correvano voci, ma siccome ero un idiota intellettuale, tutti erano convinti che se parlavano con me avrei citato la Genesi e fulmini e saette si sarebbero abbattuti dal cielo. E così non mi hanno mai baciato dietro la rimessa per le biciclette. Quando hai perso la verginità? Non mi risulta di averla persa.

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Allora la verginità è uno stato mentale? Be' (soffoca una risata) diciamo che così mi hai dato una mano a venirne fuori. Ti piaceva essere l'anonimo sfigato Steven Morrissey, la cui sola missione sembrava consistere nell'inviare lettere sui New York Dolls al New Musical Express? No, quello è stato un periodo orribile e adesso odio i Dolls. Avevo sedici o diciassette anni e ho passato un periodo folle in cui cercavo di sfondare nel giornalismo musicale. Scrivevo a chiunque. Ricevevo una trentina di lettere al giorno da perfetti sconosciuti. Partecipavo ai concorsi. Se avevo un penny in tasca lo spendevo per comprare francobolli. Avevo un'intesa meravigliosa con l'universo intero, senza mai incontrare nessuno in carne e ossa, solo tramite posta. La crisi dell'adolescenza per me è sopraggiunta quando i francobolli sono aumentati da 12 a 13 pence. Ero indignato. Sei rimasto allibito che il tuo libro su James Dean sia stato ristampato dalla Babylon Books? Li odio, è sfruttamento. Lo hanno ripubblicato in modo tale da attirare soltanto i fan degli Smiths. Ha una nuova copertina e c'è una mia foto con gli Smiths che rovina tutto. Preferirei lasciare quel libro, se tale si può definire, nel dimenticatoio. Steven Morrissey è morto? Sì, quando gli Smiths hanno cominciato era molto importante che mi liberassi di quell'orribile, stupido, sciatto Steven. Dovevo rinchiuderlo in una scatola e riporlo in cima all'armadio. Avevo bisogno di sentirmi diverso e anziché adottare un fascinoso nome da popstar ho eliminato Steven, e sembrava una scelta perfettamente logica. All'improvviso ero una persona completamente diversa. Adesso quando incontro gente del periodo pre-Smiths che mi chiama Steven, resto lì impalato a chiedermi di chi stiano parlando. Ho sempre disprezzato il nome Steven, anche se il fatto di pronunciarlo con la «v» invece che con la «ph» lo rendeva leggermente più tollerabile. Comunque sia, è stato molto importante che Steven venisse affogato. Qual è il secondo nome di Steven? (udibile a stento) Patrick. Che te ne fai di un secondo nome? Paddy?

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Che nome avresti preferito? Oh, qualcosa tipo Troy o Rock, quei nomi anni cinquanta da machismo di plastica. Rip Torn, immagina chiamare tuo figlio Rip. Vedo che sei orgoglioso possessore dell'Almanacco degli assassini di Gaute e Odell. Mmmmm. Sì, ma non mi interessano quei delitti in cui la moglie avvelena il marito e il marito soffoca la moglie. I casi estremi di omicidio devono essere una fonte continua di sconcerto: tipo che la polizia fa irruzione in un appartamento e trova sette cadaveri nel frigorifero. Guarda che non c'è nulla da ridere, sai, è una magnifica indagine sulla natura umana, anche se non vorrei osservarla così da vicino da ritrovarmi in poltiglia nel frigo. Ti sei mai fatto leggere la mano? Sì. Mi hanno detto che nel febbraio 1985 avrei avuto gravi problemi con la polizia. Hai pianto quando è morto Billy Fury? Continuamente. Fragorosamente. Sei rimasto male quando Terence Stamp, un altro tuo eroe, ha fatto un sacco di storie per la sua fotografia sulla copertina di What Difference Does It Make? Ho provato una tristezza indescrivibile. Sono rimasto ancora più sconvolto quando Albert Finney si è rifiutato di apparire sulla copertina del singolo successivo, perché ho sempre avuto un'immensa considerazione di lui. Ma ha detto di no e non ha voluto sentire ragione. Perché usare Joe Dallesandro da Flesh di Andy Warhol per la copertina dell'album? Mah, per quello provo un pizzico di rammarico. Fino a quel momento avevo sempre mantenuto un'algida britannicità, poi ho ceduto a questa mania per Warhol, come quei modernisti fissati con la Factory e tutta la scena newyorkese di fine anni sessanta, che sicuramente era una deprimente perdita di tempo. La pensava così anche Valerie Solanas e infatti ha tentato di assassinare Andy Warhol. Sì, lui ha fatto un commento misogino, lei si è offesa, ha caricato la pistola e ha mirato

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al fine cervelletto di Andy. Ammiri una donna che si comporta così? Sì, anche perché poi ha scritto un libro sulla vicenda ed era assolutamente avvincente. Insomma, più sensazionale di così! Spari a Andy Warhol, poi vai dritta a casa e tiri fuori la macchina da scrivere: Perché ho sparato a Andy Warhol, di Agnes Gooch. Affascinante. Se ti chiudessero in una stanza con Robert Smith, Mark E. Smith e una Smith and Wesson carica, chi si becca la prima pallottola? Li metto uno dietro l'altro, così con una sola pallottola li faccio fuori tutti e due contemporaneamente. (soffoca una risata) Mark E. Smith mi disprezza e ha detto cose odiose nei miei confronti, tutte false. Robert Smith è un pianto greco. Anzi, è curioso che abbia cominciato a mettersi le collanine appena sono venuti fuori gli Smiths e (socchiude gli occhi) si è fatto anche fotografare con dei fiori. Immagino che ci apprezzi parecchio, ma a me i Cure non sono mai piaciuti... nemmeno The Caterpillar. Apprezzavi e sentivi vicini i Buzzcocks, e Pete Shelley in particolare? Mmmm, sì. Erano un po' confusi ma in modo accattivante... tipicamente settentrionali, di una teatralità ottusa e piacevole. Gli Smiths hanno nostalgia di un'epoca ancora di lit da venire? Spero di sì. Non vorrei che gli Smiths fossero considerati una specie di farsa da squilibrati, o una parodia alla Chas'n'Dave. Dovrebbe avere un significato un po' più profondo. Spero che le persone dotate di intelletto diano le giuste connotazioni a quel che facciamo. Sei un maschio femminista? Be', non salirei certo su un tavolo a gridare «Sono un femminista» o mi metterei un bollino rosso sulla fronte, ma se uno propende verso punti di vista prevalentemente femministi, ti etichettano subito come tale. Allo stesso modo, se guardi con forte simpatia la cultura gay, diventi immediatamente un transessuale. Ho rilasciato un'intervista in cui il tema dell'omosessualità veniva sfiorato per tre secondi, e quando l'hanno pubblicata ero sparato lì nei titoli come voce del movimento gay, come se

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proprio non potessi parlare d'altro. Lo trovo estremamente deleterio e quindi non mi fido più di nessuno. Ti dà fastidio che i giornalisti cerchino sempre di indagare sulla tua sessualità? Sì. L'intervista che ho appena fatto con Rolling Stone comincia così: «Morrissey è un uomo che dice di essere gay», il che mi fa innervosire perché ovviamente non ho detto niente del genere. Formulano delle supposizioni, ma è inutile lamentarsi. Sono entrato in questo ambiente di mia volontà e conosco le insidie, perciò le accetto. In fin dei conti, le definizioni sessuali servono solo a segregare le persone, è tutto così uniforme, un insulto all'individualità. L'effeminatezza non mi dispiace, meglio che essere un represso o uno che passa le sue giornate a bere birra in un pub. Gli uomini che abbassano le difese non sfilano necessariamente in strada piangendo e recitando Wordsworth. Com'è andato il tuo appuntamento da sogno con Billy Mackenzie degli Associates? Si è portato via uno dei miei libri su James Dean, e questo mi causa un'ansia continua. Sono rimasto senza parole, l'ho visto uscire dalla porta. Non era il mio libro preferito, ma queste cose sono sacre. Billy ha questo senso di malizia incontrollabile, anche se forse è proprio così che vuole apparire. Sei stato contento della collaborazione con Sandie Shaw? No, la risposta della stampa non mi è piaciuta per niente. Non sono rimasto contento, perché lei non ha mai detto niente di buono su di me, il che era preoccupante. Si è trattato di un'infatuazione privata che è diventata pubblica o qualcosa si è perso nel passaggio? Sì, mi sono sentito come un scolaretto brufoloso, che sbavava senza concludere niente. Prima di Sandie, tutta la stampa che riguardava me, e gli Smiths, era impeccabilmente seria e molto buona. La pubblicità di Sandie mi ha ridotto a una gelatina tremolante. La musica pop è banale? Come potrebbe? Le canzoni dominano la vita delle persone. La gente aspetta solo una voce, qualcuno che dica qualcosa. C'è tanta profondità della musica degli Smiths che quando mi dicono «hai cantato quella canzone e ho pianto» non mi sorprendo.

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Lo capisco perfettamente, è successo anche a me. Ho comprato dei dischi che per me erano la Bibbia: pensi «questa persona mi capisce come nessun altro». È come avere un amico inamovibile. Qual è il disco più «biblico» nella tua collezione? Indubbiamente, l'ultimo singolo di Klaus Nomi prima che morisse. S'intitola Death ed è incredibilmente commovente. Il testo fa: «Ricordati di me, ma dimentica il mio destino». Che cosa troveresti nella Stanza 101, la stanza in 1984 di Orwell in cui Winston Smith deve affrontare la sua peggiore paura? Può esserci qualcosa di più spaventoso dell'aglio e delle cipolle? Ho una patetica fobia nei loro confronti, e soprattutto l'odore mi terrorizza da morire. Se l'eterna giovinezza fosse in vendita, la compreresti? No. Ho sempre trovato che le persone in età avanzata fossero affascinantissime. Più invecchio più divento calmo. Perciò non vedi alcun parallelo tra te e Dorian Gray? Direi di no. Io sono sempre stato vecchio prima del tempo. Gli Smiths, così contrari a fare video promozionali, gireranno mai un film ? Intendi tipo A Hard Day’s Night? Sì, è un'idea simpatica. A Hard Day’s Misery. Ma non voglio distrarmi dall'originario desiderio ardente di fare dei dischi meravigliosi. Non basta farne uno o due. Voglio un flusso continuo di singoli inestimabili che tocchino il cuore di tutti. In Miserable Lie c'è un verso misteriosamente sottovoce che fa: « What do we get for our trouble and pain? just a rented room in Whalley Range» («E cos’abbiamo in cambio delle nostre ansie e frustrazioni? Una stanza in affitto a Walley Range»). Esiste davvero Whalley Range? Temo di sì. È un piccolo sobborgo di Manchester, un trionfo di monolocali, e chiunque vive lì è un poeta misconosciuto o un artista fallito. Chi vuole inseguire

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destino finisce lì e non ne esce più. Tu però sei fuggito e adesso abiti nel cuore di Kensington, anche se avevi dichiarato che non ti saresti mai trasferito a Londra. Lo so, è il dolore della mia vita. Sono stato costretto a trasferirmi per risparmiare sulle bollette del telefono. Se solo la Rough Trade si fosse trasferita a Manchester. Eppure ho abitato a Whalley Range per un periodo miracolosamente breve ed è stato bello essere immersonei bassifondi, fare una vita di afflitta immacolata bellezza, passeggiare nel parco respirando le ricchezze dei poveri, per così dire, ma la sensazione di essere intrappolato dall'assistenza sociale era fastidiosa. Quand'è che gli Smiths hanno smesso di prendere il sussidio? Più o meno un anno fa. Gli Smiths stavano andando bene già da qualche mese, ma non guadagnavamo granché. Appena Hand In Glove ha cominciato a vendere, è diventato troppo rischioso. E ovviamente, l'assistenza sociale dà per scontato che se hai fatto un disco sei diventato automaticamente una persona ricchissima di fama internazionale, anche se il disco è al 38esimo posto nella classifica degli indipendenti e devi trentamila sterline alla casa discografica. Gli Smiths sono stati pompati molto in America? No. Abbiamo fatto solo un concerto, al Danceteria, e il disco ha fatto un balzo di venti posti. La Sire non ha reclamizzato il gruppo, comunque. Hanno fatto uscire What Difference Does lt Make? invece di This Charming Man totalmente contro le nostre richieste e di sicuro andrà male. Credevo che This Charming Man fosse la più ovvia e immediata uscita immaginabile. Ti sei imborghesito? Oh no. Davvero, siamo rimasti sempre gli stessi, i soldi non cambiano nulla. E comunque non è che ne abbiamo molti. Vuoi dire che non hai cinquantamila sterline in banca, come Phil Oakey? (ride) Per essere sincero, non ho nemmeno un conto in banca.

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E dove li tieni, sotto il materasso? No, a parte scherzi, gli Smiths hanno un conto comune. Siamo una cooperativa e tutto quello che guadagno finisce lì. Una volta detto che sei un miserabile, che altro ti rimane da scrivere? Ooh, c'è tanta roba sepolta nel passato da cui rubare, le risorse sono illimitate. Non dico che tutto quello che scrivo è già stato scritto, ma gran parte delle mie sensazioni deriva dal cinema. Mi sono cibato di film come Sapore di miele, La stanza a forma di L. Hai ottenuto quello che speravi in tutti quegli anni passati in camera tua? Non del tutto, ma Oscar Wilde ha detto alcune parole di cui faresti bene a prendere nota: «Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere».

The Face 1984

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Un caso da approfondire Biba Kopf

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La registrazione del nuovo lp degli Smiths è stato uno dei segreti meglio custoditi della stagione. Il vostro Sicario designato avrebbe preferito che restasse tale ancora per un po', perché certamente gli avrebbe facilitato il compito. Dopo aver covato un inspiegabile rancore, roboante come i suoi preconcetti su un gruppo che è stato perennemente a portata d'orecchio per tutto il 1984, era abbastanza pronto a bastonarli alla cieca, strapazzarli un po', far sapere loro che erano stati qui ˗ conoscete la procedura ˗ come da contratto. Vi sembra scorretto? Ma figuratevi! Sicuramente anche voi, a un certo punto, avrete urlato «basta» al pensiero di un altro singolo degli Smiths, che aggiunge un'ulteriore variazione al crescente elenco di sventure di Morrissey. Insomma, l'anno si è concluso quasi come era cominciato: con un secondo lp degli Smiths pressoché identico al primo e pieno di tutti i 45 giri che l'hanno preceduto. Si aggiunga a questo l'onnipresente spettacolo dell'espressione perennemente afflitta di Morrissey sulla stampa a corredo di articoletti che spremono fino all'osso il tema della sua ipersensibilità, e non vi sarete augurati almeno una volta che cadesse vittima del suo deprimente carosello? No? Allora d'accordo, cari i miei sapientoni, si vede che evidentemente avete prestato maggiore attenzione del vostro buon Sicario, cogliendo tutte le sfumature e le ombre che lui non ha notato; notando cose come le dichiarazioni di Morrissey sepolte tra le pagine di un Melody Maker sulla delusione che ha provato quando l'IRA trovando per una volta un bersaglio giusto per la sua furia, non è riuscita a colpire la Thatcher. Ora, non è certo il genere di cose che ci si aspetterebbe da Morrissey, che è considerato generalmente un beato idiota ˗ «Oh è vero!» , provocherà poi ˗ o il patrono dei poeti in pena di ogni latitudine. Magari sarà anche vero, ma senza le connotazioni di ricercatezza che la descrizione potrebbe suggerire. Morrissey, per quanto possa apparire esile e gracile, ha ovviamente qualità ben più salde, per non dire divertenti. «Non sono totalmente contrario alla violenza» dice. «In certi casi estremi, può essere necessaria. Direi che la violenza in nome della Campagna per il disarmo nucleare è assolutamente necessaria, perché ogni tipo di comunicazione tramite metodi pacifici viene derisa e trattata con violenza assoluta da parte del governo. Credo che ormai sia tempo di combattere il fuoco col fuoco e attaccare con forza. Non credo che questo sia terrorismo, piuttosto, si tratta di autodifesa. «Ovviamente la Campagna per il disarmo nucleare si preoccupa per tutte le persone indistintamente

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ed è per questo che fanno quello che fanno. È patriottismo. In certi casi credo che la violenza sia profondamente necessaria: quando le conseguenze della nonviolenza sono spaventose, allora tanto vale avere le conseguenze con la violenza.» Il loro terzo lp appena completato ˗ secondo lp vero e proprio ˗ si intitola, tra l'altro, Meat ls Murder, da una canzone che parla del massacro degli animali. La fermezza del Sicario si è ammorbidita prima che riuscisse a sentire Meat...comunque. Ascoltando la compilation Hatful Of Hollow, appare subito chiaro che non si tratta di un fuoco di paglia come oziosamente sospettava. Quello che balza subito agli occhi è l'umorismo insito nel concetto stesso degli Smiths, nello splendido contrasto tra la voce impassibile, dolente ma sorprendentemente malleabile di Morrissey e la straordinaria capacità del chitarrista e coautore Johnny Marr di comporre canzoni quasi interamente da ottave medie. Ancora meglio, appena si dissolve la somiglianza superficiale dei due singoli ˗ Heaven Knows l'm Miserable Now e William, lt Was Really Nothing ˗ che sembrano accomunati dallo stesso sound sferragliante, si nota facilmente la variazione di tempo e l’attacco dei brani. L’umorismo si realizza nelle parole di Morrissey. Costruisce una struggente dichiarazione d'amore su un'immagine da fumetto

«Heavy words are so lightly thrown But still I' d leap in front of a flying bullet for you»

poi la combina con un interrogativo ancora più retorico, offrendo a entrambe l'incupito intento che il sentimento della canzone (What Difference Does lt Make) merita. A differenza di Woody Allen, nell'opera di Morrissey l'umorismo non è una forma d'autodifesa per giustificare la serietà. uno rafforza l'altra, creando un'atmosfera al tempo stesso perfettamente in armonia e in contrasto con le melodie irrefrenabili di Marr. Per di più ha scritto alcune delle canzoni più apertamente deliziose ed erotiche incise quest'anno. Ma con William... l'ambiguità di alcune canzoni degli Smiths finalmente è stata recepita dalla BBC, col risultato di una drastica riduzione dei passaggi radiofonici e degli inviti televisivi. Questo non ha scalfito minimamente la loro determinazione, come dimostra il loro nuovo lp Meat Is Murder, uscito per Rough

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Trade a febbraio. Le canzoni sono così corpose e ricche di trame che è difficile afferrare di cosa parlino nei pochi ascolti concessi. Una, in modo interessante, analizza a fondo i giorni in cui Morrissey andava a scuola ˗ «gli insegnanti erano talmente brutali che ero convinto di prendere una medaglia al valore quando me ne sarei andato» commenta ˗ e altre, come l'appello al vegetarianismo contenuto nella canzone che dà il titolo all'album, vedono Morrissey cercare con soddisfazione fonti di ispirazione esterne a se stesso. Se l'immagine di Morrissey proiettata dai dischi è quella di uno studentello che si è appena tagliato i capelli e non sa se ridere o piangere di fronte alla sua goffa immagine riflessa, Morrissey di persona è più sicuro di sé. Si presenta con Johnny Marr nel ritrovo abituale del Sicario ˗ la Konditorei Kopf ˗ e mette subito le carte in tavola. «Sento dire che gli Smiths non ti piacciono né ti dispiacciono» esordisce con fare inquisitorio, sbirciando da sotto la tesa di un largo cappello. Sentendosi improvvisamente messo a nudo, il Sicario arrossisce e risponde con una domanda delle sue. Invece di parlare di te in astratto, sembra che le tue nuove canzoni isolino dei casi particolari... Morrissey: «Sì, è la prima volta che scrivo in terza persona, facendo da spettatore, il che non è affatto male. Ne avevo bisogno, perché se c'è una cosa che aborro nella musica moderna è la sindrome dell'«lo»: «Ho» fatto, «Sono» andato, «lo», sempre «lo». Be', io non lo sopporto e cerco di evitare la prima persona quanto più possibile, anche se a mia volta cerco di scrivere da un punto di vista individuale. Sono ancora affezionato all'idea che le canzoni siano vere e proprie conversazioni: «Dimmi, ma perché la tua vita è così?», imponendo... ah ah, be', non è proprio vero. Però mi piace l'idea di fare il parroco comprensivo. Conosci Stringer Davis? Appare in parecchi film di Miss Marple. È un suo buon amico. Con molta compassione, ascoltava tutti i suoi scherzi e i suoi problemi. Ecco, mi sento un po' come lui. Mantenendo un tono colloquiale è difficile concludere senza sembrare banali o affettati. Morrissey: Be', questo dipende dall'uso di un linguaggio molto elementare, molto essenziale. Cerco di evitare le metafore. Cerco di evitare di essere indiretto o ermetico. Non ha senso. Il tempo è troppo prezioso. Quando ascolti un disco devi capire immediatamente che cosa sta succedendo, anche se ovviamente tanti dischi che in passato mi sono piaciuti non li ho mai capiti, ma ho reagito con una reazione istintiva:

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santo cielo, che voce! In quel caso, ciò che diceva la voce era irrilevante. Come se entrassero in gioco i tormenti del desiderio, un sentimento spontaneo, una sensazione di gioia, emozioni straripanti. Adesso non ne ho più voglia. Lo apprezzo negli altri, ma credo che ci sia già abbastanza gente così. Pochissimi riescono a ottenere un tono colloquiale nelle canzoni. Lou Reed è uno di quelli che mi viene in mente... Morrissey: Il guaio è che c'è un buco di dieci anni tra una sua bella canzone e l'altra. Le vostre mantengono un sottile equilibrio, un umorismo che affiora dalla vicinanza della banalità e della profondità nello spazio dei versi. Morrissey: Questo è dovuto all'uso di un linguaggio essenziale cui facevo cenno prima. Per me ˗ e questo sembra un po' chic ˗ uno dei più grandi parolieri di tutti i tempi è George Formby. Le sue canzoni più oscure sono così spassose, il linguaggio era così piatto e lancastriano e si concentrava sempre su vicende domestiche. Non era un divertimento intellettuale, non era spiritoso, era solo un umorismo scontroso, e questo mi piace molto. Detesto la scrittura intellettualistica per quanto riguarda i temi. Intendo dire, scrivere di amore con un tono intellettuale che in realtà non dovrebbe esistere. Senza voler assomigliare a George Formby, credo che molto di ciò che scrivo sia di un umorismo impassibile. Ma nessuno ci ha mai fatto caso. Forse non funziona! Sicuramente c'è, ancora di più sul nuovo disco, ma credevo che This Charming Man fosse di un umorismo incredibile in senso lirico. Non so se se ne accorgano o meno. Forse sono stati distratti dal continuo utilizzo di parole come «depresso», «sofferente» e «malato» nei vostri titoli, vaghe allusioni che si tratti di argomenti seri, non certo divertenti. Morrissey: Questo probabilmente è vero. D'altra parte, credo che il mio modo di scrivere sia molto del Nord. Non sono per niente contaminato da Londra o dal Sud, anche se non è possibile dividere il linguaggio per regioni: questa parola appartiene al West Country, ecc. Però ho la sensazione che il mio tono sia settentrionale... Cosa c'è al Nord che ti riporta lì? Morrissey: Le ragioni non sono molto evidenti. È semplicemente uno stato d'animo. Non è che sia terribilmente insicuro e debba per forza rintanarmi in un buco a Salford

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per provare una sensazione di sicurezza. Non penso. È più una mancanza di desiderio di viaggiare. Non so come si possa spiegare. Però non è che voglia una coperta di Linus. Ma attingere a quei film realisti degli anni sessanta in cerca di un Immaginario del Nord, associarsi a loro tramite i fotogrammi sulle vostre copertine: sembrava sempre che rappresentassero delle ambizioni negate, sogni limitati (tralasciando il fatto che quell'apice di desolazione del cinema britannico fosse stato poi soppiantato dalla televisione). Morrissey: In un certo senso mi sembra una cosa buona, perché prima di quel periodo i film inglesi che parlavano di situazioni operaie avevano come protagonisti attori estremamente teatrali, l'inglese più forbito che si fosse mai sentito da queste parti, nel centro di Birmingham. Quei film che apprezziamo erano preziosi perché per la prima volta era ammesso l'uso dei dialetti regionali, le persone potevano essere oneste e sincere sulla propria condizione. Johnny Marr: Da quando abbiamo cominciato a pubblicare quelle immagini sulle copertine, a volte mi domando se quei film non sarebbero stati ignorati se non fosse per i testi di Morrissey. Sono molto sorpreso per l'interesse che hanno suscitato. Voglio dire, capisco chi s'interessa di cinema, ma i sedicenni e i diciassettenni che comprano i dischi probabilmente non avrebbero mai pensato a Salford nel periodo '60-'64 se non fosse per quello con cui siamo generalmente associati. A volte mi chiedo se non siamo l'ultimo respiro di quella tetra classe operaia degli anni sessanta! Spesso ho la sensazione di essere l'ultimo solitario baluardo del passato al centro dell' Arndale Centre! Ma perché è importante aggrapparsi a quello? Sicuramente non esistono le stesse circostanze. Morrissey: Credo sia valido in generale, il fatto di prendere sul serio e in termini non seducenti quello che facciamo. La musica pop era arrivata al punto di essere molto scientifica. Il romanticismo era ancora una piccola isola nel cuore di Londra, ancora il luogo più affascinante, ancora partire su un jet, ecc. Siccome noi non l'abbiamo mai fatto, non abbiamo mai capito queste cose. Non è questione di essere depressi, deprimenti, miseri o morbosi. Certo, ma gli Smiths non hanno forse avuto successo, mentre le storie di quei film spesso rappresentavano ambizioni azzoppate?

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Morrissey: Ma sono le radici del gruppo e non si possono negare, a prescindere da quello che accade da adulti. Johnny Marr: A essere sinceri non credo sia questione di essere superiori. Perdere quel filo sarebbe assai pericoloso. Fa parte della nostra vita. Non possiamo perderlo. Non voglio non averci a che fare. Combinando la vostra predilezione per il cinema e gli anni sessanta come fonte d'ispirazione per la vostra musica, i vostri richiami a un'epoca d'oro non sono mai stati adeguatamente spiegati. Prima di ascoltare bene, sospettavo una tendenza luddista. Johnny Marr: Ce l'hanno sempre rinfacciato: se non fosse per la Rickenbacker di Roger McGuinn o la collaborazione con Sandie Shaw... be', di nuovo, si trattava solo di pigrizia giornalistica. Non ci vedo proprio niente di male nell'idea di riprendere quello spirito di ottimismo e di possibile cambiamento e cercare di usarlo nell'84. Ma ancor più importanti sono le immagini con cui siamo cresciuti: ciminiere fumose, vicoli, le impressioni che traggo dai testi di Morrissey. Non si tratta solo di nostalgia, è uno spirito del Nord, uno spirito operaio... e qui cerco di non sembrare Gary Kemp che si spaccia per uno della working class. Ma a noi interessano i valori della classe operaia degli anni sessanta, più che le Rickenbacker e le pettinature alla Brian Jones... Di certo non ci sentiamo musicalmente limitati in alcun modo dal periodo. Nel senso che non confondiamo le radici con la formula. Siamo pronti a fare a pezzi ogni formula, a provare cose che musicalmente non abbiamo mai fatto. Ma le radici sono il motivo per cui siamo qui. È una cosa che non rinnegherò mai. Sono perfettamente consapevole del motivo per cui abbiamo iniziato e credo sia una cosa positiva. Quelle ragioni sono ancora valide. Morrissey: Trovo che le persone dotate di senso artistico e creatività si trascinino fuori da condizioni tremende, mentre chi fa una vita tutta rose e fiori tende a non produrre nulla di radicalmente artistico. Per me la musica leggera resta ancora la voce della classe operaia, di una rabbia collettiva in un certo senso, anche se raramente tormentata dall'angoscia. Ma per chi viene dalla working class sembra la sola e unica opportunità di farsi avanti e aver voce in capitolo. È davvero l'ultimo rifugio per chi sa esprimersi bene ma non ha il becco di un quattrino. Un primo livello di sofisticazione giudicherebbe quel punto di vista piuttosto superato,

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un cliché tramandato con gli Smiths. Morrissey: Può darsi, ma quello che l'ha sostituito mi lascia di sasso. È completamente privo di sensibilità, non ha nulla a che fare con la vita quotidiana della gente comune... Gli Smiths probabilmente sono la più singolare espressione di quella rabbia operaia, eppure questo ha un senso. Dove si collocano gli Smiths in rapporto a chi si è autoproclamato valvola di sfogo dello spleen operaio? Redskins? Seething Wells? Morrissey: Be', non vorrei essere così estremo, anche se sono quasi sempre d'accordo con le cause che appoggiano. Credo che il pubblico si annoi con i gruppi che inseriscono la politica militante in ogni canzone. Non c'è bisogno di essere oltranzista in senso politico. Per me quello difetta di un certo grado di intelligenza. E anche se nei nostri testi non facciamo alcuna dichiarazione politica audace e abrasiva, credo che si riesca a cogliere la nostra posizione. La tua vanità tollererebbe la subordinazione totale a una linea particolare? Morrissey: Sì, penso di sì. Però mi annoierei. Credo che le cose si possano infilare astutamente dentro dalla porta di servizio. Il brano che dà il titolo al vostro nuovo lp, Meat Is Murder, mi sembra alquanto diretto Morrissey: Mmh, sì, è una dichiarazione esplicita. Tra i tanti argomenti politici da analizzare, c'è ancora una conoscenza vaga sul trattamento degli animali. Si crede ancora che la carne sia una sostanza particolare che non c'entra niente con gli animali che giocano nei campi. La gente non si rende conto del modo raccapricciante e spaventoso in cui gli animali finiscono nel piatto... Ah, vedo che hai fatto acquisti da Boots. Hanno il record nazionale di prodotti testati sugli animali, un massacro quotidiano. Questa gente va attaccata perché non accetta di intavolare un dialogo con l'Animal Liberation Front. Perciò... boicottate Boots! Ti prende mai la voglia di parlare in modo così esplicito della sessualità, farti paladino dei diritti dei gay così come hai fatto con Meat Is Murder? Morrissey: No, veramente no. Potrebbe essere noiosissimo. L’età del consenso non mi interessa, e nemmeno quel tipo di propaganda personale. Per quanto riguarda la sessualità, invece, è un tema che sento molto.

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Mi rifiuto di riconoscere i termini etero-, bi- e omo-sessuale. Tutti hanno esattamente gli stessi bisogni sessuali. Le persone sono semplicemente-sessuali, il prefisso è irrilevante. I prefissi precludono troppo. Diresti che il tuo umorismo scaturisce in parte dall'umana commedia dell'accoppiamento? Morrissey: Sì. Ma non è del tutto ridicola. Le persone hanno bisogno di legami. Un distico memorabile dal vostro nuovo disco: «Un letto a due piazze, un amante focoso di sicuro / Sono queste le ricchezze dei poveri». Morrissey: Nasce dalla constatazione che, per quanto possa sembrare banale, quando ci si sposa e si prende un appartamento ˗ neppure una casa, bada ˗ la cosa più importante è comprare il letto matrimoniale. Come se fosse il pezzo forte della collezione: la cucina, la stufa, tutto il resto viene dopo. Nella vita di molte persone di estrazione operaia l'unico momento in cui ci si sente al centro dell'attenzione è il giorno delle nozze. Sposarsi, malauguratamente, rimane l'unico evento importante della loro vita. L'unico giorno in cui si sentono un po' speciali... Non è un’affermazione un tantino altezzosa? Morrissey: Sì, sembra altezzosa, ma è un fatto che ho osservato. Conosco gente che non ha soldi, ma si sposa, vive in condizioni stentate e ha delle basse esigenze. Io sono contento di non trovarmi più in quella situazione. Sembra molto sprezzante, ma che posso dire? Visto che venivi da una famiglia numerosa, non hai avuto subito voglia di trovare un posto tutto tuo per avere un po' di spazio? Morrissey: È uno schema ben noto. Ho cercato di fare tante cose ma di fatto non hanno funzionato finché non ho avuto i soldi, soprattutto perché non facevo nessun tentativo di sorta di guadagnare con dei romanzetti orripilanti. Non potevo proprio sopportare la stufa a gas che non funzionava, le otto coperte sul letto o il ghiaccio alle finestre. Non ero poi così resistente. Vuoi diventare ricco?

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Morrissey: Sì! Ma soprattutto non voglio essere povero. Immagino che chiunque abbia fatto un bel disco la pensi così, ma io credo di meritarlo perché lavoriamo sodo. In questo ambiente ci sono tanti imbecilli palesemente più ricchi di me per aver fatto dischi che non hanno il minimo valore umano. Quindi sì, voglio diventare ricco. A che pro, se a Jim Shelley di Blitz hai detto che non avevi grandi motivazioni per vivere? Morrissey: Be', ma poi penso ai soldi e mi dico: sì, un motivo per andare avanti c'è! Ah ah. Ovviamente non dico sul serio. Sono cose diverse. Perché hai detto così a Jim, allora? Per far colpo? Morrissey: Be', ero serio e la cosa che mi è sembrata più incredibile è che tutti quanti ne hanno riso. È stata proprio una mazzata! Il guaio è che con me confondono sempre le battute, le trovano radicate nella depressione! Però in quel periodo mi sentivo veramente così. Sembrava che non ci fosse motivo di esistere. Per me la vita non è mai stata facile, ma non era nemmeno accettabile fino all'uscita di Heaven Knows l'm Miserable Now. Quel disco mi è piaciuto e sembrava che finalmente arrivassero dei bei momenti. Li ricorderò come giorni piacevoli. Ma prima di allora non mi era mai capitato. Facevo dischi che sebbene avessero successo non mi dicevano molto. Come se avessi ancora i postumi di quegli anni di nulla, col sussidio di disoccupazione, costretto a vivere in quell'atmosfera orribile di colloqui con l'assistenza sociale, gente che ti chiedeva perché scrivevi quelle canzoni assurde. Heaven Knows l'm Miserable Now mi sembrava un'enorme liberazione... Non ti stavi scavando la fossa con le tue mani con tutte quelle interviste di quel periodo, per le quali sembravi entrato nel ruolo professionale del Morrissey sensibile e sofferente da tempo? Johnny Marr:... le cui opinioni erano esattamente le stesse ogni giorno. L’impressione che avevo era che non gli fosse permesso dire che oggi si sentiva diverso, purché avesse queste rigide norme personali a cui aderire rigorosamente, essere nello stesso stato d'animo ogni mattina. Conoscendo Morrissey, sapevo che era inverosimile. È inverosimile pretenderlo da qualsiasi essere umano.

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Morrissey: Si era arrivati al punto in cui ero un personaggio completamente separato dal gruppo. Non mi chiedevano mai di loro o della musica. Avvertivo questo continuo desiderio di rappresentarmi con una caricatura: un prete represso, uno pseudo chitarrista folle, o quello che era... Ma con Heaven Knows... tutto è rientrato in prospettiva. Prima di quello mi limitavo a correre di qua e di là cercando di fare tutti felici. E sono stati più felici di vederti depresso? Morrissey: Esattamente. Più lo facevi, più ti permettevano di farlo. Sull'argomento depressione di Morrissey, allora, consideriamo chiuso il caso. Abbiamo dunque ascoltato il vero Morrissey, senza la camicia di forza professionale? Chissà. Ma credo di sì.

New Musical Express 22-29 dicembre 1984

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Meat Is Murder Tom Hibbert

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Ti senti meglio? È una grossa fatica. Che problema hai? Oh, solo un generale deterioramento mentale... troppe cose, è una lista lunga e appassionante. Sembro malato, vero? Sì hai un pessimo aspetto in effetti. Sei andato a farti vedere da un medico? Non credo nei medici, preferisco curarmi da me. Ho consultato medici generici vetusti e dottori carissimi, e trovo che siano tutti relativamente inutili. Da quanto tempo non mangi carne? Quasi dieci anni. Riesci a ricordare l’ultima volta che l'hai mangiata? Non ci riesco proprio, ma l'ultima volta non mi è piaciuta. Sono quasi sicuro che fosse bacon, perché avevo una discreta passione per il bacon. E mi ricordo che arrivato alla fine del mio periodo bacon ho pensato: oh, questo sapore non mi piace più. È stata semplicemente la presa di coscienza del trattamento orribile che viene riservato agli animali. Prima non me n'ero mai reso conto. Magari avevo una vaga cognizione del fatto che gli animali morissero, ma non sapevo come e non sapevo perché. In genere si pensa che la carne non abbia nulla a che fare con gli animali. È come le patate o qualcosa di simile: non ha il muso di una mucca e non muggisce, e così non pensi che appartenga a un animale. E invece sì, come sicuramente avrai capito anche tu di recente. Le popstar vegetariane di solito non sono molto militanti, Paul McCartney, ecc. Sì, personaggi molto fiacchi, che non alzerebbero mai la voce, il che è inutile. Ogni volta che la stampa popolare si occupa di vegetarianismo, lo fa sempre sottovoce, mai in toni forti. Nessuno si concentra sul serio sui motivi per cui non si mangia carne, invece di spiegare che tizio mangia bla bla bla... Secondo te perché essere vegetariani è considerato quasi una cosa da effemminati? Ozzy Osbourne, Ted Nugent e altri «macho» saranno autentici mangiatori di carne.

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Sì, non ci avevo mai pensato. Non mi viene in mente alcun motivo per cui i vegetariani dovrebbero essere considerati effeminati. Perché? Perché ti stanno a cuore gli animali? È una cosa da effeminati? È una caratteristica da debole? Non dovrebbe, e credo sia una tristissima riflessione sulla razza umana il fatto che spesso lo sia. E i tuoi eroi? Sono sicuro che Oscar Wilde apprezzasse un bel coscio di montone. O una grossa bistecca di culaccio. Sì. Era una persona orribilmente grassa, perciò di sicuro si lasciava andare piuttosto spesso: a lui però è tutto perdonato. E James Dean probabilmente apprezzava un hamburger saporito. Sicuramente sì. Ma tutti quanti abbiamo le nostre debolezze. Allora è accettabile, no? No. Certo che no. Fino a che punto puoi arrivare? Che cosa vuoi ottenere? Be', questo mi rende molto nervoso perché sono serissimo. Per intenderci, non è il tormentone del mese. Non è l'isterismo dell'anno. È una cosa che prendo con la massima serietà. Avevi degli animali domestici da piccolo? Sì, ne avevo uno che ancora ho, in realtà. Un gatto di ventitré anni, che in anni felini sono più o meno un migliaio. È addirittura più vecchio degli altri membri degli Smiths, il che è notevole Come si chiama? Si chiama Tibby, e non è colpa mia. Poteva andar peggio, ma credo fosse un nome molto diffuso per i gatti nei primi anni sessanta. È straordinario, perché abbiamo delle foto di famiglia di quando avevo un anno ed ero avvinghiato a questo gatto, e oggi è ancora lì che zoppica ancora in giro per casa. Che cosa gli davi da mangiare?

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Purtroppo, carne per gatti. Per quanto triste, è carnivoro e ormai non si può fare niente. Di certo se prendessi un animale oggi gli darei da mangiare solo prodotti non a base di carne, come Smarties e fagioli in scatola. È un peccato che Tibby sia così legato alla carne, diciamo così, perché - in effetti - è come se mangiasse altri gatti. Ma i gatti sono carnivori per natura. Non ti sembra un po' egoista imporre le tue convinzioni a un gatto e trasformarlo in un vegetariano? No, perché il cibo per gatti è comunque un animale. Un cavallo, un gatto, un cane o quello che è. Perciò come posso essere egoista se non permetto a un animale di mangiare un altro animale? Faccio solo attenzione. Gli animali possono vivere senza carne. Restiamo violentemente turbati quando gli animali mangiano gli uomini, è orribile, è terrificante. Ma allora perché non dovremmo provare orrore quando gli uomini mangiano gli animali? Io lo faccio. Fai cosa? Mangi gli uomini? No, mangio gli animali. A proposito di uomini, chi ti piacerebbe mangiare invece? Be', dunque... è difficile, visto che ho passato gli ultimi diciotto mesi a criticare tutti, a stroncare persone, distruggerle, e alla fine mi sono reso conto che non ha senso. Perché poi le incontri, e scopri che alcune di loro sono molto affabili. Altre invece sono veramente nauseanti. Limahl è affabile? No, sicuramente non rientra in quella categoria. Ma ho una nuova politica. Non voglio più demolire nessuno. Tutti quanti, in questa curiosa professione, devono fare come credono, per quanto riprovevole possa essere. E non saranno le mie parole a cambiare la situazione. E poi ho troppi nemici. È veramente angoscioso. È un po' da esaurimento, perché non sei gradito quasi da nessuna parte. Che cosa mangi? Ho un apporto giornaliero di yogurt e pane.

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Credi che potrebbe essere questa la causa del tuo attuale cattivo stato di salute? Un bel Big Mac ti rimetterebbe in sesto in un attimo. Sinceramente ne dubito. Se domani muori, vai in Paradiso e incontri il Colonnello Sanders, fondatore della Kentucky Fried Chicken, che cosa gli dici? Le parole sarebbero inutili. Credo che farei ricorso alla cara vecchia ginocchiata in mezzo alle gambe: «Questa è per tutti quei poveri animali morti solo per causa tua». Era una domanda a trabocchetto. Avresti dovuto rispondere che il Colonnello Sanders non sarebbe in Paradiso. Ah. Okay. È la fine. Grazie al cielo. Non mi hai fatto domande su Band Aid. Che ne pensi di Band Aid? Band Aid è una cosa su cui non si può discutere, temo. Sei stato tu a tirarlo in ballo! Sì e ho anche completato la frase. Punto.

Smash Hits 31 gennaio 1985

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This Charming Man Simon Garfield

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Se mai ci fosse spazio per la sovversione nelle classifiche pop, allora quel posto è occupato da un gruppo di Manchester, gli Smiths. Se mai si è registrato un avanzamento creativo nell'industria musicale nello scorso anno, allora quel progresso è stato merito degli Smiths. Se c'è stato un album d'esordio che può tranquillamente rivendicare di essere «un pilastro nella storia della musica pop», allora è stato The Smiths degli Smiths. E se c'è stata soltanto una band dopo i Sex Pistols a sconvolgere un ambiente vecchio e viziato e a entusiasmare di nuovo, e sul serio, i giovani acquirenti di dischi, allora sono gli... Tutte opinioni di Morrissey, queste, come ci si sarebbe aspettato dal cantante e paroliere degli Smiths. Quello che non ci si sarebbe aspettato ˗ almeno due anni fa ˗ è che il 1985 avrebbe trovato tante persone d'accordo con lui. Peggio ancora, lo adorano addirittura. Non è difficile immaginare che accada a un Boy George o un Simon Le Bon, ma con lui? Uno che si definisce spudoratamente un genio, che scrive incessantemente di quel cupissimo pozzo di disperazione e solitudine, che esprime la sua avversione per la famiglia reale e il progetto Band Aid, che canta dei Delitti della Brughiera e del massacro degli animali, uno che ammette di essere un inguaribile fanatico di James Dean e Oscar Wilde? Sì, a quanto pare, vogliamo tutto questo. Lo vogliamo fino al punto di comprare più di centomila copie del secondo album ufficiale degli Smiths, Meat Is Murder, e collocarlo al primo posto in classifica nella prima settimana di uscita. Al punto di votare gli Smiths miglior gruppo rock del mondo nei sondaggi della stampa musicale. Al punto da far stappare lo champagne alla loro etichetta Rough Trade, una casa discografica strenuamente indipendente e spesso strenuamente disorganizzata che ha finalmente riscosso quel successo che molti ritenevano impossibile. Perfino al punto di mettere Morrissey in forma audace e smagliante ai piani alti del febbrilmente rinnovato Britannia Hotel nella sua fredda città natale. Le sue incursioni sui mezzi d'informazione finora hanno unito un'affascinante e accattivante eloquenza con un elenco apparentemente infinito di sentimenti controversi, e di conseguenza hanno fatto sì che le sue interviste abbiano, probabilmente, contribuito a far vendere più dischi dei suoi testi. «Non sono così superficiale da nascondermi felicemente dietro qualche slogan» afferma, quasi a disagio per essere diventato non solo il portavoce del gruppo, ma anche dell'ennesima generazione perduta di giovani britannici. Una volta erano Joe Strummer, Bob Geldof o Paul Weller.

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Morrissey ama essere paragonato a nessuno di loro... «A rigor di logica, gli Smiths non dovrebbero essere qui» suggerisce. «La gente vorrebbe cancellare ogni minimo accenno agli Smiths, e gli addetti ai lavori passano tutto il tempo a negare che siamo un fenomeno. Forse perché abbiamo un briciolo di intelligenza, e quando un gruppo cerca di imporre le sue regole finisce per guastare la festa a tanti mediocri di mezza età che controllano tutta la sfera della musica pop. Lascia che te lo dica, l'industria musicale detesta assolutamente gli Smiths.» Morrissey ha appena raggiunto quel sottile gradino della scala per il successo su cui aveva sempre sognato di salire, ma con la speranza di non dover mai averci a che fare. Per molti il successo arriva facilmente, Morrissey e i suoi fan invece sanno che gli Smiths non potrebbero mai muoversi agevolmente nel regno dell'opulenza, e lui spera di aver recentemente compiuto un ulteriore passo per distanziarsene trasferendosi da Kensington a una nuova casa nel Cheshire per mantenere un contatto più ravvicinato con le forze che lo hanno plasmato. «Morirò per ciò che dico» si vanta, ed è assolutamente convincente. Gli Smiths sono stati protagonisti di un'ascesa fenomenale e strana al tempo stesso. Formati dall'(allora) adolescente chitarrista e coautore Johnny Marr, si sono presentati nel settembre '82 con una formazione a quattro elementi improntata sulla chitarra e hanno destato interesse quasi subito. Si distinguevano nettamente. Tanto per cominciare era il periodo dei sintetizzatori, e le band chitarristiche erano passate di moda (così come i gruppi a quattro erano poco comuni quando i Beatles fecero un provino alla Decca). Era un periodo di toni soft, belle facce, testi insulsi e smielati che si collocavano almeno a una generazione di distanza dai sentimenti brutali e realistici espressi da Morrissey. Anche gli Smiths facevano canzoni d'amore, ma erano angosciosi, intelligenti e credibili. Anzi, spesso erano angosciosi fino all'assurdo, e molto spesso sembravano innaturali, quasi grotteschi. Jhon Peel e il produttore Jhon Walters ne hanno tessuto le lodi, diverse major hanno espresso il loro interesse, ma la band come al solito ha firmato con la Rough Trade per un anticipo relativamente esiguo, e il loro primo singolo è apparso poco meno di due anni fa. Hand In Glove era una bella canzone, ma ha incasinato tutto. Impegnandosi meno di quanto avrebbe potuto, la Rough Trade apparentemente ha deluso gli Smiths. Morrissey sapeva che sia gli Aztec Camera sia gli Scritti Politti avevano lasciato

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la Rough Trade per passare alle major, e ha cominciato a capire il perché. «Ma con noi dovevano fare qualcosa, eravamo davvero il loro ultimo residuo di speranza. Sono convinto che se non ci fossero stati gli Smiths, la Rough Trade sarebbe sparita.» La presa di coscienza a quanto pare è avvenuta all'unisono da entrambe le parti. La Rough Trade ha spinto sull'acceleratore, Morrissey ha eliminato dai discorsi le sue collanine bianche da effeminato, e le loro fortune hanno spiccato il volo insieme. I singoli successivi hanno scalato le classifiche e le controversie spesso estremamente insignificanti, ma sempre intriganti, che circondavano la band sono quadruplicate in numero e dimensione. Morrissey aveva davvero la mania dei fiori? Solo perché lanciava cinquanta sterline di gladioli al pubblico tutte le sere? Perché insisteva a pavoneggiarsi a Top of the Pops con un apparecchio acustico e un mazzolino che spuntava dalla tasca posteriore dei jeans? Praticava davvero la castità? Ed era veramente gay, come insinuava Rolling Stone? Indossava davvero camicette da donna prese al negozio per taglie forti Evans? Da dove venivano i nomi Morrissey e Johnny Marr, tra l'altro? Era solo una coincidenza che fossero rispettivamente la vittima di un omicidio e il protagonista di un romanzo di Cornell Woolrich, Appuntamenti in nero? Morrissey era davvero un adolescente disperatamente solitario che non usciva mai dalla sua umida stanzetta di Whalley Range, una camera coperta dal pavimento al soffitto di foto di James Dean? Davvero l'eroe di lunga data di Morrissey, Terence Stamp, non ha permesso l'uso di una sua immagine sulla copertina di uno dei singoli della band? Il grosso era vero. Il primo album ha ottenuto il disco d'oro (oltre centomila copie vendute) e i mini scandali sicuramente devono aver giocato un ruolo nel suo successo. «Basta scandali!» ha detto Morrissey quando il peggio era passato. Ma i tabloid non gli hanno creduto. «Mi perseguitano» dice «ed è molto sgradevole. Quel che mi rende pericoloso per loro più che per tutti gli altri è il fatto che conduco uno stile di vita alquanto religioso. Non sono un personaggio rock'n'roll. Disprezzo le droghe, disprezzo le sigarette, sono casto e vivo una vita molto serena.Ma faccio anche delle affermazioni molto forti nei testi delle canzoni e questo è molto preoccupante per le figure autoritarie. Non possono dire che sono annebbiato dalla droga o in preda ai fumi dell'alcol, e che ne uscirò. Probabilmente mi ritengono una specie di mostro affamato di sesso. Ma non c'è

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problema, ossono pensare quello che vogliono. A me interessa solo l'evidenza, e loro non possono produrre alcuna prova che rovini il mio personaggio.» Pericoloso? Questo venticinquenne in blazer nero, camicia di cotone verde acido, calzoni a sbuffo beige tutti sgualciti, scarpe marroni e un ciuffo sulla fronte alla James Dean, un mostro affamato di sesso e un corruttore della gioventù? In verità, c'è qualcosa che mette molto a disagio in sua presenza: è quasi troppo tenero, troppo gentile, troppo nervoso, e non è lontanissimo da quel patetico ragioniere archetipo dei Monty Python. Si inchina quando ti stringe la mano, ed è una cosa che non ti aspetteresti mai da un cantante rock con un album al primo posto. «Il motivo principale della mia pericolosità è che non ho paura di dire quello che penso. Non ho paura di dire che Band Aid per me era diabolico. O di dire che per me Bob Geldof è un personaggio nauseante. Molti si trovano a disagio, ma io continuerò a dirlo, forte e chiaro quanto vi pare. «Nel primo caso il disco in sé era assolutamente disarmonico. Si può avere grande preoccupazione per il popolo etiope, ma altra cosa è infliggere una tortura quotidiana al popolo inglese. Era un disco atroce, considerando il numero di talenti coinvolti. E non l'hanno fatto neanche con discrezione: era il progetto più ipocrita che si sia mai visto nella storia della musica pop.» Ma è l'ennesima sparata di Morrissey: è difficile resistere alle iperboli e non gridare a l complotto, se sa che così facendo per lo meno raddoppierà l'impatto di certe dichiarazioni alquanto coraggiose. Che possono sembrare un'enormità, o ben poca cosa, a seconda del vostro grado di idealismo e della portata della vostra memoria. Se analizzate nel dettaglio gli album e i singoli, e troverete canzoni appassionanti, talvolta divertenti, spesso commoventi, ma, come l'uomo che le canta, tutt'altro che pericolose o allarmanti. In verità sono più un'istigazione all'apatia che alla ribellione. I sentimenti sono spesso ermetici, astratti e perfino codardi in ciò che non dicono. Un verso di Morrissey che recita «fammi mettere le mani sulle tue ghiandole mammarie» è davvero più scabroso di un jingle radiofonico di Tony Blackburn che lo vede «tirar fuori i suoi trenta centimetri»? Direi di no: è una miscela di elementi innocenti, imbarazzanti e comici. È anche una bella rima. O spesso si tratta semplicemente del vecchio trucco di Dylan: mantieni vaghe le canzoni «spinte» e sempre più gente crederà che li stai prendendo di mira.

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Ma rendete vaghe le canzoni «spinte» e sempre più gente crederà che li stai prendendo di mira. Ma l'arma più minacciosa di Morrissey è nascosta tra le pieghe dei testi: la sua ostinata, provinciale ossessione per Manchester. Le sue languide descrizioni di Rusholme, Whalley Range e la Manchester che nelle sue rime sembra sempre avere «tanto di cui rispondere», sono impressioni esplicite dello squallore e dello sfacelo industriale settentrionale che mostra qualche aspetto in più del mondo rispetto alle opere profumate dei vari Wham!, Duran Duran, Madonna e Prince. E per quanto riguarda la musica di Johnny Marr, neanche questa è nulla di clamorosamente originale... e forse è un aspetto del suo fascino. Per essere appena ventenne, Marr certamente mostra di saper maneggiare con perizia un ampio ventaglio di tecniche chitarristiche: sequenze acustiche eteree e semi classiche, brani elettrici squillanti e pungenti, accordi bloccati puliti e taglienti che spesso si distanziano dal cantato. Nel migliore dei casi, si tratta di un buon vecchio garage con venature country, con una strizzatina d' occhio ai soliti grandi della chitarra. Uno dei nuovi brani dell'album, Rusholme Ruffians, per esempio, assomiglia moltissimo all'interpretazione di (Marie’s The Name Of His Latest Flame, composizione di Doc Pomus e Mort Shuman, incisa da Elvis Presley nel 1961. Ma ha comunque un sound formidabile. Strano, allora, che Morrissey e Marr sembrino spesso due uomini disperati che si aggrappano saldamente al loro prezioso brevetto, affidandosi a quell'ingrediente magico che solo in rari casi rende così speciale il rock. «Devi tenerti saldo e non rinunciare mai a portare avanti il tuo discorso» spiega Morrissey «perché c'è tanta gente che cerca di farti lo sgambetto e buttarti giù, coglierti in fallo e sputtanarti. «L’industria discografica è piena di odio e gelosia. Tutti quelli che ne fanno parte sono bassisti mancati. Tutti quanti vogliono salire sul palco: non importa che cosa fanno, vogliono tutti stare al posto tuo. Ma il solo fatto che tu sia lì e nessuno possa cacciarti è la loro arma definitiva. Grondano gelosia, acidità e rancore.» Vendetta per non essere stati invitati a partecipare, forse? Un modo per rifarsi, con autentico stile ostentato e meschino da rockstar, per quello che altri hanno detto in precedenza di lui? Morrissey afferma che alcune persone chiamate in causa hanno pubblicamente ammesso un'assoluta avversione nei suoi confronti. Compreso Geldof, ovviamente. «L’ha detto alla radio l'altro ieri, assolutamente senza motivo. Come se non vedesse l'ora di stroncarmi. Il fatto che Bob Geldof possa fare affermazioni del genere nei miei riguardi e sentirsi anche protetto, mi sembra assolutamente ingiusto.

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è questo che mi dà fastidio... » Esattamente come il nuovo album mostra Morrissey per nulla disturbato dalle percosse ai bambini, dalla strage degli animali o dalla famiglia reale. Ma ormai è partito, è un fiume in piena. Scegliete un argomento, e vedrete Morrissey arrotolarvi attorno una lingua secca... Chiedo a Morrissey di uno di quei versi sull'album che apparentemente recita: «Mi piacerebbe calarmi i calzoni davanti alla Regina... / I poveri e i bisognosi sono egoisti e avidi ai suoi occhi». «Provo solo disprezzo per la famiglia reale. È una assurdità da favoletta!» ˗ e tutto questo nella decadenza del Britannia Hotel ˗ «l'idea stessa della loro esistenza in questi tempi, in cui c'è gente che muore quotidianamente perché non ha abbastanza soldi per accendere il riscaldamento in casa, per me è immorale. Per come la vedo io, i soldi spesi per la famiglia reale sono soldi bruciati. Non ho mai conosciuto nessuno che sostenga la famiglia reale. Magari a Hartlepool ci sarà qualche vecchio pensionato sordo che ha appiccicato le foto del Principe Edoardo pure sulla tavoletta del cesso, ma conosco una marea di gente che non vede l'ora di sbarazzarsi dei reali. È una falsa devozione. La trovo fascista e molto, molto crudele. C'è qualcosa di drammaticamente abietto in qualcuno che può mettersi un abito da seimila sterline quando nello stesso momento c'è gente che non può permettersi di mangiare. Quando indossa quell'abito da seimila sterline, il messaggio che manda alla nazione è: "Noi siamo la famiglia reale che può permettersi tutto, e voi i contadini piagnucolosi". L’idea stessa che qualcuno si possa interessare ai dettagli di quell'abito è decisamente offensiva nei confronti del genere umano.» In poche parole, Morrissey appartiene alla vecchia scuola della contestazione radicale, quella in cui il cantante dice le cose come stanno facendo nomi e cognomi. Ce ne sono pochi come lui , ma il progetto Band Aid, a suo giudizio, non rientrava certamente tra questi. «Il presupposto era quello di salvare la popolazione etiope, ma a chi chiedevano di salvarli? A una tredicenne di Wigan! Gente come la Thatcher e la famiglia reale potrebbero risolvere i problemi dell'Etiopia in dieci secondi. Ma Band Aid si guarda bene dal dirlo: si rivolgeva quasi direttamente a gente disoccupata.»

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Morrissey ha l'impressione di aver portato alla luce un profondo pregiudizio controgli Smiths, una trama dell'industria contro l'indipendenza. Sostiene che i suoi dischi sono stati ignorati «da ogni singolo canale d'informazione esistente». A dire il vero, sbaglia di grosso: ogni singolo canale d'informazione esistente ha cercato smaniosamente di accaparrarsi la musica della band, almeno come mezzo per arrivare al loro impudente leader. Anzi, attualmente sta rifiutando richieste di interviste a palate. Morrissey, al contrario, attualmente è straripante di magnanimità, gentilezza e comprensione. Sa che gli Smiths saranno qui ancora per molto. E se gli Smiths si sciogliessero domani, il modesto Morrissey ritiene già di aver fatto abbastanza per i libri di storia. «Voglio un briciolo di immortalità. Credo che sia meritata. Me la sono guadagnata.» Davvero? In due anni? «Oh sì! Oh sì! In due giorni! In due giorni!»

Time Out 7-13 marzo 1985

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Bighmouth Strikes Again Max Bell

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Tanto tempo fa, agli albori del glam rock, un adolescente di nome Steven si recò al Manchester Apollo per vedere i Roxy Music. Gironzolando davanti alla porta del backstage prima dell'inizio, Steven fu ricompensato con una visione che lasciò un'orma indelebile su tutta la sua vita. Quel che vide non furono i Roxy Music nella loro gloria decadente, ma il tour bus dei Roxy. E appeso allo sportello, il boa di struzzo psichedelico di Brian Eno. Morrissey, per giovane che fosse, ricorda quell'episodio con un brivido. Tredici anni dopo, ormai ventisettenne, Morrissey incontra per caso il cantante dei Roxy Music, Bryan Ferry, in uno studio di registrazione. Solo che stavolta le distanze si sono ridotte. «Non mi sono preso la briga di chiedergli l'autografo. Ce l'avevo già da quando avevo quattordici anni.» Per concludere il racconto, Ferry ha chiesto a Johnny Marr di suonare la chitarra sul suo nuovo lp poche settimane dopo che Keith Richards dei Rolling Stones aveva chiamato lo zazzeruto ragazzo prodigio. Dimostrazione del fatto che se fai il bravo e mangi tanti spinaci, un giorno riuscirai a emulare i tuoi eroi. S.P. Morrissey è un vero maniaco intellettuale. Anche se non tiene un diario, ricorda qualsiasi cosa del suo passato e la conserva: non solo i reperti musicali di gioventù come il biglietto in prima fila per David Bowie («sette scellini e sei pence!») e i suoi dischi, ma anche aspetti della sua educazione che la maggior parte di noi archivierebbe opportunamente alla voce Obsoleto. Esistono diverse versioni della storia di Morrissey. Quella che recita «non sono mai stato adolescente. Ero quello sempre accigliato con il New Statesman arrotolato in tasca. Adesso mi sono rimesso in pari con gli anni della mia adolescenza e posso dirti che è un grosso imbarazzo sociale» è ormai risaputa. Ma naturalmente Morrissey non è solo il ragazzo che si aggirava per parchi e cimiteri leggendo poesia. C'è anche l'appassionato di pop. Nell'età d'oro del Top of the Pops glam Morrissey si faceva confezionare dalle amiche dei costumi alla David Bowie. Il 1986 sta appena cominciando per gli Smiths. «L’impertinente» è tornato in gran forma con un nuovo lp, The Queen ls Dead, segno che Morrissey non è un appassionato della famiglia reale. «Sono così scialbi e privi di interesse. Diana ha mai pronunciato una frase di qualche vago interesse o utilità per il mondo? » «Il sistema - la Monarchia e il governo - se ne fregano, per come la vedo io. Molti di loro sono in età avanzata ma non fanno niente per gli anziani. In Gran Bretagna si muore di povertà e di freddo perché non ci si possono permettere i riscaldamenti. C'è chi non lavorerà mai più. Ma se lo dici, ti guardano come se fossi matto.

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Se il Live Aid avesse riguardato la miseria che c'è in Inghilterra non sarebbe mai decollato, non avrebbe ricevuto neanche un minuto di spazio sui media. Invece, siccome parlava di cose lontane e più alla moda, ci si poteva perdere nell'ipnosi caritatevole.» Nel 1985 gli Smiths hanno avuto i loro guai. Il bassista Andy Rourke aveva dei «problemi personali. Stava male e aveva un effetto negativo anche sugli Smiths, ci contagiava. È rientrato nel gruppo perché andarsene sembrava peggio che restare. Era troppo facile trattarlo come un pacco e dirgli: "Sei inutile! Vattene!". Adesso che è entrato nel gruppo anche Craig Gannon abbiamo un sound ancora più impressionante, come sentirai nel prossimo singolo Panic, perciò forse il breve allontanamento di Andy è stato un bene» . Ai problemi di Rourke si sono sommate le dispute legali tra la band e la casa discografia Rough Trade, che ha impedito l'uscita di The Queen ls Dead a febbraio. Anche l'album dello scorso anno, Meat Is Murder, ha agitato troppe coscienze suscettibili e gli Smiths ne hanno pagato lo scotto su un trio di singoli, Shakespeare's Sister, That Joke lsn't Funny Anymore e The Boy Wìth The Thorn In His Side. In The Queen Is Dead Morrissey protesta ancora con veemenza, ma è più rilassato. Nell'interno copertina dell'album la band si trova davanti al Salford Lads Club nella vera Coronation Street e Morrissey sorride! «Abbiamo rischiato la vita per scattare quella foto.» Morrissey ha scelto quel luogo perché lo associa a un altro suo idolo, l'attore Albert Finney, star del magnifico film degli anni sessanta Sabato Sera Domenica Mattina. «Finney era il ragazzo del Nord diventato buono ed è per questo che riesco a immedesimarmi ancor di più in lui. Trovo che lo stato d'animo di una persona del Nord che va a Londra e poi ritorna a casa sia molto struggente. È impossibile descrivere quello che si prova quando vai dal Sud al Nord, durante le soste alle stazioni di servizio. Tocca una nota assordante. La bellezza di Finney era la sua spontaneità di attore. Neanche quando dormo riesco a sembrare così spontaneo.» Nonostante affermi di detestare la nostalgia, Morrissey ammette che non c'è molto che lo esalti degli anni ottanta. Più sente sul collo il fiato del Ventunesimo secolo, più è colto dal panico. Morrissey è talmente distante dall'immagine del miliardario pop spensierato tipica del jet set da far presumere che sia un depresso cronico. Quando lo incontri, non è affatto così. È estremamente simpatico e fa molte affermazioni sapendo bene che non dovrebbero esser prese come oro colato.

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«Personalmente mi ritengo più cinico che romantico e apprezzo molto il valore del sarcasmo. Non sono un allegrone, uno di quelli che diventa l'anima della festa, e suppongo che l'etichetta di deprimente me la sia cercata io. Solo che non mi aspettavo una risposta così generosa! Comunque sia, contesto il fatto di essere l' Ambasciatore dell'Infelicità. «Sono ancora irretito da un certo fascino per il suicidio e la depressione più acuta. Dentro di me provo una quantità di emozioni che vanno sfruttate. Devo cantare di quello che è intrappolato in me.»

No. 1 28 giugno 1986

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Il ragazzo nella bolla Stuart Bailie

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Nonostante una quantità di intoppi, condizioni e disdette, alla fine la nostra prima intervista con Morrissey in un anno e mezzo viene portata a termine. In verità, a tratti è sembrato che i negoziati per il disarmo globale sarebbero stati un'impresa più semplice e più felice. E poi, a mo' di gran finale, ci siamo imbattuti in un servizio fotografico inusuale perfino per i criteri di Morrissey. Le diapositive che sono arrivate (sulle quali per la maggior parte il cantate ha poi messo il veto) lo mostravano spanciato e imbronciato, con un «tatuaggio» disegnato a matita sull'avambraccio. Il proposito, apparentemente, era quello di somigliare a Elvis Presley, ma ne veniva fuori più simile a Coco the Clown. Che cosa stava architettando? Questo, unito alla sua leggendaria solitudine e alle illazioni sul suo equilibrio mentale, ha reso ancora una volta inevitabile la domanda. Si stava trasformando in una sorta di Michael Jackson nostrano, il nostro ragazzo nella bolla? In poche parole, che Mozzer fosse definitivamente partito per la tangente? Grazie al cielo, il giovane che incontro la settimana dopo sembra nel pieno possesso di tutte le sue facoltà. Forse è solo un po' guardingo, ma considerato il suo turbolento rapporto con la stampa, è piuttosto comprensibile. Gli stringo calorosamente la mano, gli porgo alcune bottiglie di birra scura (offerta di pace di un collega) e gli chiedo di quelle curiose immagini scartate dal servizio fotografico. «Ero molto soddisfatto del servizio, in quel momento» spiega mestamente «ma quando ho visto le diapositive, sembravo... una checca, ecco. Avevo troppo trucco, sembravo la tipica popstar in studio. E allora ho detto no, non se ne parla proprio.» Dalle foto sembrava che avessi messo su peso, non trovi? Il tempo passa per tutti. Non sono più un adolescente, anche se forse ti sorprenderai. Negli ultimi tempi sono invecchiato parecchio, soprattutto con tutte le preoccupazioni» ride «e gli stenti economici. Quindi insisti sempre per approvare le tue fotografie? Sì, ma non perché voglia delle fotografie che mi facciano apparire innaturalmente giovane, qualcosa del genere. Solo perché ci sono alcuni aspetti che non vanno mostrati in pubblico, come puoi immaginare. E quindi eccoli. Faresti la stessa cosa se ti scattassero delle foto di una bruttezza sovrumana. Non diresti certo: "Quella sarebbe una bella copertina". Diresti piuttosto: "Quella fatela sparire e trovatene una bella".

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Non è vanità voler apparire accettabile, proprio no. La vanità non c'entra niente. Ma pure se fosse, non c'è niente di male a volere un aspetto decente, no? L’idea era che assomigliassi alla foto di Elvis sulla copertina di Shoplifters? Non proprio, cioè, sarebbe uno sforzo troppo grande. Ma non avevi scelto quell'immagine di Elvis perché ti assomiglia vagamente? Magari fosse anche vagamente vero. No, se sei perspicace capisci che non è così. Qualche somiglianza c'è, però. Questo devi ammetterlo. Be', ne sono assai lusingato. Ma non ho neanche detto cosa vi rende simili! Sì... pensavo che volessi rovinarmi il divertimento. Era il cravattino, no? Shoplifters Of The World Unite è il tredicesimo singolo degli Smiths in quattro anni e quali che siano le vostre opinioni sulla band (assai diverse, spesso) si tratta indiscutibilmente del gruppo inglese più costante emerso in questo decennio. Gli ultimi quattro singoli, per esempio, erano tutti diversi nello stile, nel ritmo e nell'aggressività dei testi, e non è più sufficiente che i loro detrattori li liquidino semplicemente come «deprimenti». Detto questo, Shoplifters è meno immediato di Ask o Panic e i fan più intransigenti stanno già lamentando « Un'altra Shakespeare's Sister! » o tengono duro nella speranza che cresca qualcosa nel solco di How Soon Is Now. Il testo di Shoplifters è apparentemente indecifrabile, e l'autore come al solito è preoccupato all'idea di approfondire il significato della canzone. «Non ho nessuna voglia di spiegare, non mi va di definirlo con precisione. Lo capisci? Cioè, c'è uno a Huddersfield che magari ha una spiegazione appassionata e affascinante, poi arrivo io e la faccio a pezzi dicendo che si parla di corse di levrieri. La loro vita crolla.» Non starai esagerando un po'? «Mah, che ne sai, capita. Voglio dire, potrei anche parlare di armi nucleari, ma poi diventa un discorso noioso, no? Si annoierebbero tutti. Spesso mi domando perché il

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furto nei negozi viene considerato un reato così grave e costruire armi atomiche invece no. Dovrebbe essere quello il vero reato, mi pare, e invece non è così. Viviamo in un mondo malato, con una moralità distorta. Eppure nel mezzo di tutta questa sgradevolezza, Morrissey confessa che il sostegno continuo agli Smiths «alleggerisce il passo» . Esprime gratitudine per i risultati del sondaggio condotto dal Record Mirror che hanno assegnato agli Smiths il premio per la miglior band, il miglior album (The Queen Is Dead) e il miglior singolo (Panic). E che dire del secondo posto in classifica conquistato da lui medesimo nella categoria «Miglior sedere»? «Era perfettamente giustificato» commenta senza modestia. Ma tornando un attimo a Panic, non si è detto che era vagamente simile a Metal Gum dei T. Rex? Mah, è stato sussurrato da qualche parte nei corridoi delle Isole Britanniche, non ricordo dove, ma... non so, ogni cosa ha i suoi punti di riferimento, immagino. Anche i vestiti che portiamo hanno i loro punti di riferimento... La canzone mi sembrava divertentissima, davvero. E mi sembrava divertentissimo sentirla di giorno alla radio in quelle poche occasioni in cui è stata effettivamente trasmessa in un'accozzaglia di mostruosa morbosità... l’ho trovato assai spassoso: a modo suo, una piccola rivoluzione gentile. Dopodiché è stato importante far uscire un singolo che fosse un lieve antidoto a Panic, perché se il singolo successivo fosse stata una vaga protesta, a prescindere dai meriti effettivi del brano, avrebbero detto "Ecco, ci risiamo". È per questo che abbiamo fatto uscire Ask. Il concetto è che... Be', il ritegno è un atteggiamento rispettabile, ma è bello anche dimenticare ogni prudenza e buttarsi allo sbaraglio. La convinzione di Morrissey che «il ritegno è un atteggiamento rispettabile» naturalmente è stata ben documentata nel passato, così come l'idea che i suoi dischi possano «alleviare la paranoia dell'essere casti». Ma un altro settore in cui gli Smiths hanno esercitato grande influenza è stato nel creare un clima migliore per la nuova razza di band indie. Molte band dallo stile strascicato, per esempio, sono in debito con gli Smiths per aver procurato un pubblico per una musica più soft e articolata. Adesso è molto più facile cantare di «affari di cuore», e le spinte a ripiegare su stereotipi

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rock'n'roll non sono più così pressanti. Anche Morrissey ha l'impressione che adesso sia più facile perle band essere musicalmente, come dire... «fiacche» ? Non m'intendo di fiacchezza. Un sacco di gente tira fuori questa parola, e a dire il vero non l'approvo affatto. Perché potrebbero essere "fiacche", secondo una logica da cavernicoli, in termini molto tradizionali e bruschi. Apprezzo molto la storia della musica britannica, e credo che quello sia stato un sentimento molto scarso negli anni recenti. Nessuno vedeva Twinkle o simili come un punto di riferimento intelligente. «Non capivano il significato di Sandie Shaw, neppure di Billy Fury, forse. Trovo che ci fosse una grande abbondanza di creatività in quelle impostazioni da provincia inglese apparentemente semplicistiche. Insomma, non mi sono mai piaciuti James Brown e Chuck Berry. Per quanto concerne il termine "fiacco", non conosco molti gruppi da classifica che intitolerebbero il loro lp The Queen Is Dead: ci sarebbe troppo da perdere. Gli Smiths senza dubbio corrono dei rischi; non mi pare che ci siamo mai resi la vita facile. I dischi di Matt Johnson ti hanno colpito? Ne ho sentito qualcuno distrattamente. Non mi ha entusiasmato granché... La differenza, immagino, e la cosa che rende così unici gli Smiths, sta nel fatto che in certe zone abbiamo raggiunto livelli da stadio. Giunti a quel livello, la tentazione di essere rispettabili e continuare a navigare è molto forte, e non credo che gli Smiths lo abbiano mai ammesso. Non so come scriverebbe Matt Johnson se suonasse di fronte a un pubblico di quindicimila persone. Questo è il lato di Morrissey che alcuni trovano insopportabile: il personaggio tronfio e supponente che ha adottato per contrastare la sua timidezza e le sue insicurezze. Ma questa arroganza porta male, e la sua intolleranza per chi non segue gli Smiths è particolarmente irritante se si considera quante sue canzoni fanno appello all'apertura mentale. Nel corso della nostra breve conversazione, decide che devo essere un «patito di Saint and Greasie», mi accusa di apprezzare la musica «Oi» e dileggia la mia scelta di un biscotto al cioccolato invece del suo assortimento di tortini alla frutta. D'altro canto, si riprende d'animo alla menzione di San Valentino e alla prospettiva di

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«migliaia e migliaia di bigliettini pieni di banalità e grandi criceti gialli». Parla con entusiasmo del programma televisivo Golden Girls e tesse lodi sperticate di un libro intitolato Gelosia di Nancy Friday. «Conosci Nancy Friday? Il suo libro più famoso è Mia madre, me stessa, che ti sarà sicuramente capitato di vedere: è stato dappertutto per anni. Non l'hai letto? Sono sbalordito! Questo invece è un libro sulla gelosia, ed è straordinario, lo sto sottolineando tutto. Di che tratta? Non saprei come descriverlo, diciamo solo che sto imparando tanto» (N.B.: Nancy Friday è una scrittrice femminista). Ti definiresti una persona gelosa? Oh, tremendamente. Però tendo a trovare la gelosia dove non esiste, nelle cerchie di persone, ed è una grande barriera. Credo però che ognuno abbia le sue peculiarità, e non mi pare che la gelosia sia particolarmente negativa. Ma questo l'ho imparato soltanto leggendo Nancy Friday. L’aspetto bigotto del profilo pubblico di Morrissey naturalmente ha indotto numerosi giornalisti a tentare di stroncarlo, anche se nessuno è andato incontro a grande successo. Qualcuno ha provato invano a bollarlo come razzista, tirando in ballo i suoi sentimenti sulla musica nera riassunti in quel «burn down the disco». L’altro metodo è stato quello di indagare alla ricerca di una storia sulla sessualità del nostro, prendendo spunto dalla grafica camp sulla copertina dei dischi degli Smiths e da testi come «Sono il diciottesimo discendente di un vecchia regina, pare». Forse la più «creativa» di queste indagini ha messo insieme Morrissey e il suo amico Pete Burns «documentando» l'esito. «Mah, di questo in realtà non parlo mai.» Ti ha fatto innervosire? Sì, assolutamente, e non ho niente di vagamente spiritoso da dire al riguardo. Non rifletteva in alcun modo ciò che è accaduto effettivamente mi ha fatto passare per una mezza checca... Pete era meno seccato, anche se gli ho detto: "Quello non l'hai mai detto, non mi hai mai chiamato Joan Collins". Il suo atteggiamento è stato "vabbè, lascia perdere", ma per me non è affatto così. Credo che sia stato un servizio

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assolutamente e pateticamente stupido. Siete stati dipinti come due checche che ostentano la loro omosessualità, o sbaglio? Be', certo, sicuramente è quello che traspariva. Ma è stata una giornata veramente triste: ce ne stavamo seduti lì sul sofà a farci interrogare. Trovo che la maggior parte dei giornalisti, quando crea un'atmosfera eccessiva, caricaturale nelle interviste, di solito abbia altri interessi. E più di questo non dico. Per esempio, c'è un giornalista americano che mi ha intervistato due volte, e in America è una voce di spicco del movimento gay. Nelle due occasioni in cui ho avuto delle conversazioni alquanto deludenti con lui, le ha trascritte come "l'alba della liberazione gay" e "gli Smiths sono la voce gay del mondo". Che per me è una stronzata assoluta: mi duole davvero che si scrivano cose del genere. E le illazioni sui problemi di droga di Andy Rourke? Non posso smentire nulla. Non so proprio se spetti a me parlare per conto di Andy, perché è una faccenda assai personale. E questo è quanto. Ci sono ulteriori riflessioni sul fatto che la band abbia firmato per la EMI? Diciamo solo che è un'evoluzione necessaria. È una questione molto delicata e preferirei andare avanti piuttosto che discuterne. E così gli Smiths continueranno sicuramente ad «andare avanti» per la loro strada, prolifici ed estremamente individualisti, tracciando le ultime frontiere del rock con gusto e intelligenza. La squadra Morrissey/Marr non ha rivali in questo settore, e si basa su quella che il cantante vede come una struttura ben definita. «Spesso ho la sensazione che mentre io posso deporre le uova, Johnny può fare le omelette.» E così gli Smiths continueranno sicuramente ad «andare avanti» per la loro strada, prolifici ed estremamente individualisti, tracciando le ultime frontiere del rock con gusto e intelligenza. La squadra Morrissey/Marr non ha rivali in questo settore, e si basa su quella che il cantante vede come una struttura ben definita. «Spesso ho la sensazione che mentre io posso deporre le uova, Johnny può fare le omelette.» La fine del mese vedrà l'uscita di un album compilation, The World Won't Listen, compagno di Hatful Of Hollow con il suo assortimento di singoli e B-side, più il singolo al gusto tandoori You Just Haven't Earned It Yet Baby, già pianificato come

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seguito di Panic. A differenza di The Queen ls Dead, però, quest'album non ha l'armonia di sentimenti e la miscela di serio e faceto che ha fatto dell'ultimo lp un così grande successo. Il secondo lato di questa nuova uscita, in particolare, assicura un ascolto molto deprimente. Sorvolando su questo, però, che ce ne facciamo noi di un personaggio come Morrissey? È una sorta di poeta contemporaneo, un emarginato visionario che indica la strada verso una coscienza più civile? O dobbiamo credere ai cinici che lo reputano un cretino egocentrico con una marea di complessi? Un'ora e mezza in sua compagnia conferma che sia tutto fuorché un uomo comune, ma avvalora con successo tutti i dubbi che restano. Limitiamoci a dire che il giudizio resta ancora sospeso.

Record Mirror 14 febbraio 1987

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Mr Smith: tutto fumo e niente arrosto? Dylan Jones

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Oh, quanto adorano detestare Steven Patrick Morrissey. Da quando gli Smiths hanno trovato una miniera d'oro nel 1983, la critica ha rimproverato a Morrissey di essere un deprimente «esteta propugnatore della castità», che si crogiola della propria disordinata malinconia. Ma per quanto la critica disprezzasse questa persona apparentemente scontrosa, Morrissey è diventato un portavoce popolare dei disillusi del lassismo imperversante del pop moderno. Gli Smiths, dal canto loro, hanno prodotto parte della migliore musica rock degli anni ottanta, sedici singoli e sei lp degni delle opere ambientate nelle case popolari di Manchester: dalle ballate sdolcinate all'implacabile frastuono moderno, fino al music-hall psichedelico e al raro, semplice pop. Il loro nuovo lp, Strangeways, Here We Come è in uscita questo mese. Ovviamente il successo degli Smiths è sempre dipeso dall'abrasiva collaborazione tra Morrissey e Johnny Marr. Negli ultimi cinque anni sono stati elevati al rango di altre grandi accoppiate: Jagger e Richards, Laurei e Hardy, Whiskey e Soda, Morrissey e Marr: Morrissey nella parte del bibliotecario, Marr la groupie del rock'n'roll. Da poco tempo, quel rapporto è stato troncato. Johnny Marr ha lasciato ufficialmente il gruppo alla fine di luglio, a causa delle leggendarie «divergenze musicali». Sia Morrissey che Marr dicono che la separazione sia avvenuta in modo amichevole, ma questo sembra improbabile: pare che Marr avesse formato una propria band nell'ottobre 1986 e fosse già pronto per un concerto di lancio al Marquee finché Morrissey non lo ha convinto a ritornare sui suoi passi. Fonti vicine al gruppo sostengono che Marr abbia già inciso un lp d'esordio. Circolano strane voci su Morrissey e la sua vita in cameretta da film di serie B: pare che condivida part-time la stessa guardia del corpo del Primo ministro irlandese; c'è chi dice che non sia casto come vuole far credere, e che abbia un «amico» piuttosto conosciuto; altri dicono che sia ossessionato dalla madre. Potrebbe anche darsi, ma di certo non ha molto tempo da dedicare al padre: quando gli Smiths hanno visto crescere la loro fama al di fuori dei circuiti locali, nel 1984, il papà di Morrissey (un alcolizzato nullafacente) invadeva spesso il palco ai loro concerti; Morrissey ha dovuto chiedergli di restare a casa. Altre storie probabilmente verranno presto alla luce visto che almeno cinque persone strettamente legate alla band stanno già tentando di vendere i loro racconti. Non si sa se gli Smiths saranno in grado di resistere o meno alla perdita di Marr; ma nonostante tutto, Morrissey rimane uno dei migliori parolieri in circolazione. Avrà forse

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un atteggiamento infelice da vecchia zia bisbetica, e sarà pieno di leziosa presunzione, ma ha l'arguzia e la saggezza di un autentico artista di varietà britannico. Mozzer ha la capacità di iniettare un'ampia dose di ironia in gran parte di ciò che scrive. Strano a dirsi, si rifiuta di riconoscere il valore di Prince, eppure ucciderebbe per riuscire a scrivere un brano straordinario come If I Was Your Girlfriend. In generale, credi che la musica britannica sia meglio di qualsiasi altra? Sì, in passato sicuramente. La storia della musica britannica non ha rivali. Negli anni settanta l'America a malapena esisteva dal punto di vista musicale: era una cosa abominevole. Negli anni sessanta era passabile, ma questo si doveva soprattutto a Elvis Presley. Ci sarà sicuramente un motivo se ancora oggi, per un artista che incide a livello internazionale, è importante riscuotere successo in Gran Bretagna. È una questione di gusto: si sa che gli inglesi hanno più gusto... Che dischi hai comprato nell’ultimo anno? Non molti, ma qualcuno sì: i Primitives, i Christians, gli A-ha [lo pronuncia Ahhaaaaaaaaaaaaa]... pop commerciale, per lo più. Non ho mai una buona impressione dei parolieri moderni, lo so che sembra incredibile, ma è vero. Che cosa ne pensi di Prince? È molto più sensuale di te... È freddo e impersonale... ma sensuale? Non mi pare... Sul piano dei testi non lo trovo poi così interessante. Ma non mi dispiace, lo trovo divertente, arrogante e provocatorio. A conti fatti, però, è l-e-g-g-e-r-m-e-n-t-e sopravvalutato. Molti dicono la stessa cosa a proposito degli Smiths... Lo so, ma non è vero! L'anno scorso è apparso un articolo su un giornale musicale che apparentemente ti accusava di razzismo. Sei rimasto molto turbato all'epoca, ma col senno di poi in fondo stavi dicendo soltanto che non ti interessava particolarmente la musica dance. Niente di speciale, insomma... Non credo che le mie opinioni fossero particolarmente eccentriche. Dopo quell'articolo mi ha telefonato e mi ha scritto un sacco di gente, dicendo: «Finalmente qualcuno lo

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lo dice: siamo stanchi di questa roba...». Ma i giornalisti mi hanno fatto sembrare categorico. Ma non ho mai accettato del tutto la musica dance. Non sono mai andato in discoteca, non ho mai ballato, o cose simili. Andavo ai concerti, andavo a vedere dei gruppi dal vivo. Però possiedo anche dei dischi di persone che si dà il caso siano neri. È successo! Com'è cambiato il tuo atteggiamento nei confronti di Londra? All'inizio avevo le tipiche idee sul Sud, e vedevo Londra come un territorio nemico. Ma una volta stato qui per un lungo periodo di tempo tutti quei miti sono stati sfatati. Ho ancora una sana ossessione per Manchester. Dove vai, quando esci? Non esco mai in pubblico. Non vado mai nei club o cose del genere. Ogni tanto mi aggiro per Sloane Square e vado a fare compere, ma niente di più. Mi piace Kings Road perché ha una piacevole atmosfera da passerella. Mi piace osservare la gente su Kings Road, tutti quelli che hanno una perfetta simmetria... quelli con i vestiti che gli vanno a pennello. Sono piuttosto invidioso... tutta questa gente con un'aria così elegante e precisa, mi ispira. Mi piacciono soprattutto le scarpe. Immagino che non usi più i mezzi pubblici... Ogni tanto prendo il treno, perché sono costretto, ma sono quattro anni che non salgo su un autobus. Non mi mancano. Come si rilassa Morrissey? C'è qualcosa che fa subito appena arriva a casa? (Inarca un sopracciglio e fa un sorriso d'intesa...) Dunque, la tv sicuramente aiuta a rilassarmi; non mentalmente, ma mi fa scaricare la tensione. Però ho un'immensa collezione di videocassette tutte pre-1970, generalmente film inglesi. Che cosa riassume la Gran Bretagna, per te? Mi piace molto il lato piuttosto oscuro della Gran Bretagna. La pioggia, la nebbia e la campagna, il quartiere dei teatri di Londra. Non mi piace nulla di particolarmente progredito. Avere un televisore e un videoregistratore è completamente in contraddizione con questi sentimenti, ma non si può mica avere un videoregistratore antiquato, dico

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antiquato, dico bene? Ma tu vivi costantemente nel passato. In certa misura penso di sì, però è soltanto una questione di gusti. Semplicemente, trovo che le cose sepolte nel passato siano molto più interessanti di quello che c'è in giro oggi. Detesto cose tipo McDonalds: al mondo dei fast food preferisco quello delle sale da tè e dei misteriosi chioschetti di fish and chips. Che cosa ci fai con i soldi? È evidente che non li spendi... Li metto in banca, ho un conto con la Halifax. Sono una persona umile... non ho uno yacht, per intenderci. Ho una macchina ˗ una Consul del 1961 ˗ ma non so guidarla. È in garage in attesa del giorno magico in cui imparerò a guidare... Immagino che non viaggi molto, quando non sei costretto... No, non faccio mai vacanze. Non mi va di andare in altri paesi, per essere sincero... Capita di rado. Hai mai preso la tintarella? Sì! Sì, l'ho presa sul serio. Di recente sono stato a Los Angeles e mi sono abbronzato, ma non sono riuscito a riportarla in Gran Bretagna. Mi hanno fermato alla dogana: di fatto non è consentito passare la dogana con l'abbronzatura. Da alcuni critici gli Smiths sono considerati il gruppo inglese per eccellenza, mentre altri ritengono che sia tutto studiato a tavolino così come i primi singoli degli Who erano fatti apposta per dare l'impressione della Swinging London Mod. Mi piace l'idea che gli Smiths siano considerati un gruppo britannico in tutto per tutto, ma del resto è una cosa naturale. Non era una merce supplementare, non lo è mai stata. Inoltre, quell'affermazione implicitamente sottintende che non avrai successo in altre parti del mondo, che nel nostro caso non è poi così lontano dalla verità. Però mi piace molto l'idea di essere un fenomeno esclusivamente britannico. Siamo innegabilmente britannici. Il tuo atteggiamento nei confronti del sesso è cambiato? Ti sei rilassato? A un certo

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punto eri molto nervoso sull’argomento... Bah, in realtà non ho mai avuto un atteggiamento nei confronti del sesso. Non è mai stato il mio forte… Non ho avuto molto tempo per coltivare un atteggiamento. Non ho mai voluto fondare un nuovo movimento, non ho mai voluto sventolare la bandiera della castità. A dirti la verità non penso al sesso così spesso, perciò non capisco perché dovrei diventare il portavoce di chi non lo fa così spesso! Quante cose hai fatto di cui ti vergogni? Nessua... proprio niente. Lo dico con un certo rammarico, perché suppongo che l'aver fatto cose che ti fanno star male per l'imbarazzo sia una misura di aver vissuto davvero una vita quasi entusiasmante. Ma non io. Quand'è stata l’ultima volta che hai provato un autentico amore travolgente? Praticamente mai. No, non mi sono mai trovato in quella situazione. Ma davvero? Non l'hai mai desiderato? I tuoi testi lasciano intendere di sì. Sì, l'ho desiderato. Ma nella realtà non capita mai. Per pensare, l'isolamento è un male necessario. Devo stare da solo. Non riesco proprio a sopportare la compagnia degli altri per troppo tempo. È terribile, ma non posso proprio condividere. A volte avverto la necessità di un coinvolgimento fisico, che però, potrei aggiungere, non accade mai. Adesso è tutto così complicato che spesso mi domando se capiterà mai. Non credo, se proprio devo dirla tutta. Insomma, non molti arrivano a ventotto anni nella mia condizione. Quando hai perso la verginità? Questo non me l'hanno mai chiesto. A dire il vero all'inizio dell' adolescenza. Ma è stato un episodio isolato, un evento fortuito. Dopodiché è iniziato il declino. Non ho alcun ricordo piacevole di sorta. Hai mai desiderato una vita più stabile e normale? Sì, ma ovviamente come puoi desumere ci sono alcuni grandi ostacoli che a quanto pare non riesco proprio a superare. Sembra che non riesca a spingermi oltre l'amicizia con quasi tutti. E per la maggior parte neanche ce la faccio. Ho soltanto un paio di amici,

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che conosco da dieci anni. Sarai preoccupatissimo ora che Johnny Marr ha deciso di lasciare il gruppo. Legati a vita? Fino a un certo punto sono turbato ed è piuttosto straziante, ma in realtà mi ci devo rassegnare. Di certo non mollerò, assolutamente. Mi spiace. Tanto la maggior parte di quello che provavo per gli Smiths veniva comunque da me, e non può essere toccato, diciamo, da arrivi e partenze. Era una cosa che covava da tempo, e anche se molti non se n'erano accorti, io sicuramente sì. In realtà non è stato un gran colpo... e nemmeno una grande sorpresa... Avrai sicuramente pensato a una carriera solista, sì? Ci sto meditando. Ho ancora molto da fare e tanto contro cui lottare. Ma la carriera solista è qualcosa a cui sto pensando. Quando si passa alla carriera solista, ci si aspetta un album dance o religioso... Penso che farò una combinazione dei due. Potresti fare un disco alla Freddie Mercury. Magari. Ma non credo di avere così talento... Mi piacerebbe fare un disco molto tranquillo, magari solo con chitarre, voce e pianoforte: un disco molto delicato, molto meditato. Ma la voglia di fare canzoni brevissime, fragorose e chiassose è solo l-e-g-ge-r-m-e-n-t-e più forte. Non hai mai studiato musica, vero? Non ho mai studiato musica perché ho sempre voluto conservare un approccio da appassionato. È un'ingenuità che conservo tuttora. Non ho mai voluto approfondire la tecnica.. Ma scrivo testi di continuo. Scrivo tutto il giorno, butto giù appunti su centinaia di taccuini e ho degli scatoloni pieni di pezzi di carta da usare. Quindi non credi che ci sarà una riconciliazione con Johnny? A giudicare da quello che ha dichiarato alla stampa da quando se n'è andato, no. Sarei stato ben felice di continuare, ma... per quello che posso giudicare, sembra altamente

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improbabile. È avanti, avanti avanti... Hai dichiarato che non ti piace suonare dal vivo. Sembri impacciato sul palco... Non mi piace essere tirato, spinto e trascinato di qua e di là... In genere mi piace stare sul palco, ma tutto quello che precede quell'ora e mezza è molto logorante. Quando canto sul palco scivolo quasi in una modalità di pensiero totalmente separata: non perché sia una persona diversa, ma è quasi come se diventassi davvero me stesso. Molti dicono che quando sono sul palco si trasformano in un'altra persona... una sorta di finzione. Ma per me non è così. Forse sul palco mi trasformo nel vero Morrissey, nel vero me stesso, la persona autentica... e quando scendo in realtà trovo piuttosto utile recitare... lontano dal palco. È lo spettacolo! Non so se c'entri lo spettacolo. Non si tratta solo di quello. Non voglio citare la parola «missione» perché è un t-a-n-t-i-n-o e-s-a-g-e-r-a-t-a, ma senz'altro è qualcosa che va al di là dello spettacolo. Vedere i gruppi dal vivo per il pubblico è una grande valvola di sfogo, e i concerti degli Smiths spesso e volentieri sono dei raduni piuttosto eloquenti, che danno la possibilità di uscire fuori da uno stile di vita malsano. Si dà sempre per scontato che il tipico fan degli Smith sia un adolescente deperito barricato nella sua cameretta a scrivere poesie cariche d'angoscia ma i tuoi concerti sembrano popolati da combriccole di giovanotti imbottiti di birra. Ebbene sì, sono persone molto sane. Non sono pazienti da ospedale... sanno comportarsi benissimo fisicamente! Quest'immagine del tipico fanatico degli Smiths rappresentato come un giovane musone e semiparalizzato è esagerata... non è per niente vero. I concerti degli Smiths sono molto violenti, in realtà: c'è perfino gente che si rompe le gambe e la schiena. Se il pubblico fosse un'accozzaglia di babbei deperiti tutto questo non succederebbe. Sono eventi palesemente espressivi. Ne sono molto felice… Non voglio che la gente se ne stia seduta a gambe incrociate, mezza appisolata. Quando ho visto David Bowie nel 1972 e nel 1973 non c'era traccia dell'isteria di questi tempi. Non impazziva nessuno, ed è una cosa che trovo molto difficile da comprendere. Ci s'immagina che gente come Bowie e Bryan Ferry fosse venerata ciecamente, ma io non ricordo niente del genere. Mi ricordo dei concerti dei Roxy Music con gli spettatori

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seduti per terra. Oggi invece quelle manifestazioni di affetto pazzesco capitano quasi a tutti. I concerti sono più sfrenati, più forti, più disperati di quanto siano mai stati prima. Anche se devo dire che l'unico motivo per cui si va a vedere David Bowie oggi è quello di poter morire dicendo di aver visto «David Bowie: la leggenda», non perché si apprezzano i suoi ultimi dischi. Parlami del nuovo lp, Strangeways Here We Come. Ha dei grandi momenti, ma non è propriamente un'innovazione radicale, no? Ah ah! Detto con molta gentilezza. Hai ragione, non è un'innovazione radicale: è meglio, ma non è un'innovazione radicale. Presti molta attenzione alle critiche che vengono rivolte a te e alla band? Quando sono sciocche e deprimenti, sono molto noiose. Ma quando vengono da persone intelligenti, mi preoccupo... Posso capire che il mondo degli Smiths non piaccia a tutti: questo è abbastanza chiaro, non sono così ottuso. Ma non ho mai letto nulla che abbia fatto venir voglia di cambiare. Molti di quelli che non ti apprezzano ti detestano perché pensano che sia tutta una grossa finzione: un ruolo falsamente modesto che ti sei cucito addosso. Devo ammettere il mio scetticismo. Lo so. Non posso proprio biasimarti, ma a dire il vero c'è ben poco che possa fare al riguardo, eccetto andare a trovare tutti uno per uno nelle loro abitazioni e passare un fine settimana con loro. Non mi vengono in mente altri rimedi. Sarai preoccupato di diventare un cliché... Veramente no, perché anche se non mi pare di star per fare clamorosi mutamenti improvvisi, ho intenzione di restare sempre me stesso. Non credo che potrei mai cambiare volutamente, anche per paura di diventare ripetitivo. Non potrei mai essere una popstar confezionata su misura, assolutamente no. Devi startene per conto tuo... Devo stare da solo. Ho ancora soltanto due amici veri, e li conosco entrambi da quando avevo diciassette anni. Stare negli Smiths e l'intera esperienza non ha cambiato

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praticamente niente. Sinceramente, non ho rapporti sociali. Faccio una vita molto isolata. Ho uno stile di vita molto poco spettacolare. È un aspetto molto particolare da maneggiare. Sono una persona profondamente riservata, eppure nelle interviste non traspare perché parlo così spesso e in modo così personale. Forse dovrei ritirarmi, sparire e diventare una specie di uomo dietro le quinte. Che altro potresti fare? Niente. Sono completamente privo di talento... è successo tutto per caso: sono uscito dall'ascensore sbagliato. E se domani finisse tutto? Sparirei silenziosamente nel Devonshire, in un posto cupo, verde e tranquillo. L’unica ambizione che mi è rimasta è scrivere opere teatrali... ma non accadrà per un po'. Lo farò, ma al momento questa cosa mi avvolge come un sudario. Ti ringrazio molto, siamo alla fine. In più di un senso...

i-D ottobre 1987

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Wilde Child Paul Morley

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La prima domanda, quando finalmente ci siamo incontrati, è stata assolutamente semplice e ovvia. Mentre la ponevo, ho provato una gioia enorme. Se genio significa avvertire un'ispirazione o un impeto di idee provenienti da fonti apparentemente sovrannaturali, o un desiderio ardente e smodato di compiere un determinato scopo, non è pericolosamente vicino alle voci sentite dai malati di mente, alle loro tendenze suicide, alle loro monomanie? La risposta naturalmente è stata molto esauriente. «Dio mio... Non possiamo discutere della rinascita del glam rock?» Ricordo chi e che cosa eri una volta. Sembravi lo scemo del villaggio, quello eccentrico a tutti i costi, un ragazzo ritardato. Non sarebbe dovuto succedere, vero? E cosa è successo? Qualsiasi cosa fosse, è stato uno sbaglio. Uno sbaglio per il divertente solitario, ossessivo, sognante alieno di Manchester, riuscire a esprimere con tale capacità i sentimenti della vita, e la vita dei sentimenti. E così popolare, poi! II triste solitario ossessivo... No, ovviamente non è stato uno sbaglio, in quanto tale. Forse era addirittura destino. Ma è difficile descrivere quanto fossi di mentalità ristretta. Specie quando avevo ventuno, ventidue, ventitré anni... Ero completamente solo. La sola idea di diventare quello che sono diventato era impensabile. A volte trovavo la vita insopportabile. È dura quando le persone proprio non ti piacciono. Si dovrebbe fondare un sindacato per proteggerci... Ero un adolescente molto profondo, a dir poco... Che cosa intendi per «profondo»? Sai benissimo che cosa significa. Vuoi solo una frase da mettere a caratteri cubitali all'inizio dell'intervista. Be', per me profondo significava non accettare niente, che fossero le classifiche pop o le basi della vita. Significava che ero perennemente tormentato, credo. Non ti esortavano a reagire?

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Sì, ma contava assai poco. Ero in una condizione particolare, tutto qui. Prendevo molto sul serio cose insignificanti e forse prendevo le cose serie... sul serio anche quelle. E poi che cosa è successo? Ho iniziato a fare dischi. Quando finalmente ci incontriamo, Morrissey è come ho sempre voluto immaginarlo: un'assurda miscela tra l'abbastanza ordinario e il deliziosamente ostentato. Per uno che confessa ripetutamente di avere un tumulto interiore cronico di questo tipo, sembra molto calmo, in un certo senso addirittura beato di sé. «Dunque» esordisce mentre ci stringiamo la mano «l'ultima volta che ci siamo visti ruzzavamo insieme tutti nudi all'asilo nido...» Forse ha ragione. Quando ci incontriamo da adulti, la seconda domanda che sono destinato a porgli è assolutamente inevitabile. L'odio è un sentimento naturale? C'è gente simpaticissima. C'è gente atletica. C'è gente odiosa... Dipende da quello che hai nel sangue. Non potrei provare altro che volgare ammirazione per Morrissey. Il suo talento è mirabile e perverso quanto basta per farmelo considerare un vero grande scrittore. Non mi infastidisce nemmeno quando è all'apice dell'affettazione. Se Horses di Patti Smith è il mio album preferito, This Charming Man è il mio singolo preferito. Non è che quei dischi mi abbiano impedito di diventare un assassino, o cose del genere, ma in qualche modo hanno significato qualcosa per me. Morrissey inoltre mi fa ridere, come se la sua vita fosse la rappresentazione scenica di una sua commedia violenta, stranamente divertito all'idea stessa della felicità umana. Sono molto toccato da questa trasformazione da perdente assoluto a scaltro playboy della frustrazione. Patti Smith e i T.Rex gli hanno messo a soqquadro la mente. Quando il mondo esterno lo ha bollato come uno stravagante mentre sbandava pericolosamente sulla superficie della vita, lui ha reagito creando i suoi piccoli mondi. Mondi di straniamento, inventati con tanta intensità da costituire per lui un particolare insieme di regole, disposizioni e sogni. Gli altri diventavano semplicemente voci attraverso una nuvola. Stava con la gente, eppure era lontanissimo, profondamente deluso dal modo in cui parevano tollerare la loro

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squallida condizione. Quando scrive canzoni sulla propria inadeguatezza, su una mente messa continuamente sotto pressione dall'esperienza, canzoni che potrebbero comicamente diagnosticare la tragedia inglese, non posso fare a meno di capire il suo punto di vista. Ha resistito fieramente alla tendenza del moderno mondo commerciale a trattare le persone come oggetti e, forse perché cresciuto in quelle strade in quel periodo particolare, raggelato dall'impotenza, la sua scrittura ha il senso del male. Sordide sfacciate e dignitose, le sue canzoni sono state molto importanti per me. Come vedete, Morrissey eccita tutto ciò che di cupo, nostalgico e ansioso è in me. Però sono piuttosto perplesso da quello che tutti gli altri vedono nella sua opera: come a me sembra personale, da molti viene facilmente interpretata come malinconica e intollerabilmente sfinita. Nel momento in cui la musica pop è la minigonna di Carol Decker e un giro di basso dei Pet Shop Boys, il successo e l'adulazione di Morrissey, uno scrittore impegnato a denunciare la stupidità umana, che si presenta, a volte in modo dozzinale è davvero straordinario. È come se il fantasma del quattordicenne sdegnosamente rinchiuso nel magico isolamento della sua stanzetta, rimpinzando l'immaginazione sulle glorie impossibili delle star predilette, stia ossessionando e dileggiando il pallido e decadente sistema del pop. Accennando un sorriso tra i rumorosi ingranaggi della macchina, i devastanti motivi del profitto, librandosi tra avvocati e commercialisti, giocando a fare l’uomo di strepitoso successo con il carisma di un ladruncolo, Morrissey come sempre è quello eccentrico a tutti i costi, si lamenta direttamente delle mode del tempo, apparentemente sembra idiota e primitivo, eppure... è la musica pop come il quattordicenne Morrissey voleva che fosse, da sempre, senza risorse. Si è imposto di esserlo con la volontà. Morrissey sta facendo un'ultima risata piuttosto sinistra a nome di chi ha amato, di chi è stato rifiutato, ignorato e massacrato. Non è affatto drastico o pomposo come sembra. È semplicemente... interessante, per chi potrebbe ancora interessarsi, per chi ha sempre saputo. Qualcuno può ritenere comodamente che le classifiche pop siano tutto ciò che debba esistere. Per Morrissey, ci dev'essere sempre di più. Odia talmente il mondo, che per lui è prezioso. E per Morrissey, il mondo era la musica pop. Dai la colpa a qualcuno o a qualcosa per il fatto di essere vivo? Assolutamente no. Ma non vorrei infliggerlo a nessun altro... Non riesco a capire l'idea

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di avere dei figli. Anche se capitasse l'opportunità, rifiuterei categoricamente. No, non do la colpa a nessuno per avermi messo al mondo, ma sono convinto che la vita sia eccessivamente sopravvalutata. Perché ti sta così a cuore la musica pop? La risposta probabilmente è più semplice di quanto immaginiamo entrambi. Se rimani piuttosto isolato al suo interno, tendi a sparare a zero contro l'industria discografica. Se ti fai tanti amici e vieni invitato a un sacco di feste, magari non ti va di pensare a tutta quell'idiozia, magari ti piace pure, e allora tendi a non essere così ipercritico. Mi sento isolato e non sopporto quello che succede. Di cosa ti preoccupi? Io mi preoccupo perché ho sempre amato appassionatamente la musica pop. Anche se ogni giorno che passa la musica pop diventa sempre più ripugnante, la sua storia effettiva diventa sempre più importante. Non mi piace vederla invasa, calpestata... Per me significava tanto. Perché dopo Patti Smith, Television, Roxy Music, New York Dolls, Joy Division, Brian Eno, David Byrne, Morrissey... la musica pop si trova in uno stato simile? C'è qualcosa che non ha funzionato. Sì, qualcosa non ha funzionato. Per quanto mi riguarda, però, era assolutamente importante e mi ha toccato sia nella mente che nel fisico. Dopo aver sentito Horses non ero più la stessa persona, e non lo dico alla leggera. Ovviamente non è normale pensare che questo tipo di musica sia quella più importante, i Velvet Underground, eccetera, ma per me era così e questo è tutto ciò che conta davvero, in quanto tale. Non cambio certo idea se gli altri non sono d'accordo con me, in linea di massima. È successo qualcosa di orrendo, sì. Non riesco proprio a spiegarlo, se non dicendo un'ovvietà: è stata infiltrata da idioti. Sono molto proprio a spiegarlo, se non dicendo un'ovvietà: è stata infiltrata da idioti. Sono molto infastidito perché non c'è abbastanza odio nel pop, non c'è abbastanza rabbia. Se ci sono segni di intelligenza, si stancano presto e abbandonano la lotta. Non vengono incoraggiati come si deve. Immagino che ormai la musica pop sia in mano a gente sciatta e indifferente che non ha mai avuto la fantasia di individuare o desiderare la vera

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natura del pop e capire perché potrebbe essere così speciale. Comandano le persone sbagliate. Avvocati e commercialisti sono diventati troppo importanti. Sei solo uno difficile da accontentare, una critica naturale della vita? Mi hanno sempre incuriosito scrittori, cantanti e giornalisti che avevano opinioni e posizioni apparentemente impopolari, ma che conseguivano un certo status esattamente per il loro scontento nei confronti del mondo. Non vedo niente di male nell'essere difficile da accontentare. Ha un suo decoro, è il minimo che dovremmo pretendere. Sono dell'avviso che le opinioni di chi non si accontenta siano quelle che contano davvero. Sono pronti al cambiamento. L’idealismo è una follia? Be', è questione di gusti, questo è certo... Sono convinto che la qualità della vita cambierà perché c'è chi non si accontenta. Ti preoccupi in modo totalmente egoista, o per il beneficio collettivo? Penso sempre che essere egoisti sia una cosa positiva. Non è affatto negativa, è utile. Chi non è egoista e non ha cura di sé ha sempre un aspetto tremendo. Ho sempre pensato che l'egoismo fosse il primo passo verso la maturità. Credi sul serio che la musica pop sia attualmente così vuota e superficiale perché gli ottimisti, che hanno assunto il controllo, scrivono male? La parola esatta è «con monotonia», non male. Magari scrivono anche bene, ma essenzialmente è ripetitiva, banale e noiosa. Quando ti accorgi dell'intensità della vita diventi immediatamente più... eccitante. Se quell'intensità sia davvero possibile all'interno della musica leggera, be', verrebbe da pensare di no. Ma ho sempre pensato di sì. E alla fine non capisco le persone che non sono serie come me... Probabilmente non vogliono deprimersi. Ma sappiamo che non è vero... sono inclini a deprimersi e far deprimere altri, ma non vogliono ammetterlo. La serietà per me è normale. Fare dei semplici dischi dance non è mai stato lo scopo. Per me sarebbe completamente futile. Devo fare dei dischi che trascendano la presunta importanza del pop.

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è mai stato lo scopo. Per me sarebbe completamente futile. Devo fare dei dischi che trascendano la presunta importanza del pop. È una presunzione ridicola? Può darsi. Un altro modo di guardarla è dire che sia totalmente coraggiosa. Quindi stai dicendo che la decisione di fare quello che fai, date le circostanze, è eroica? Sì. Molto eroica. Molto solitaria. Mi guardano sempre di traverso e dicono: «Allora, vuoi davvero fare così? Non ti va di fare così?... Ma dici sul serio?». Ma in un certo senso ho anche la capacità di ridere di me stesso, anche se tra chi mi considera troppo elaborato questo apparentemente è deplorevole. Ho sempre dovuto ridere di me stesso. Se non avessi trovato la mia condizione sociale da adolescente così divertente, mi sarei strangolato. Trovo addirittura incredibile che ce la stia facendo. E che cosa fai? Non me la cavo male con le parole. Dici sul serio? Mi pare di vedere la serietà in ogni cosa. Perfino nella musica pop. Dicono che non c'entri niente, che non si tratti di questo... Ma noi siamo qui. Eccomi. Devo essere davvero eccezionale! Cosa c'è di così speciale? Dimmelo tu. Le mie ragioni potrebbero essere troppo spensierate. Mi interessava introdurre nel pop un nuovo linguaggio, usando certe parole che mi sembravano assolutamente rivoluzionarie, e all'interno degli Smiths credevo di esservi riuscito. Sono ancora molto orgoglioso che parole come «coma», «taccheggiatore», «maldicente», perfino «suedehead», siano reperibili nella musica pop. Se si considera la realtà delle classifiche, mi pare raro e straordinario trovare un qualche linguaggio nuovo... e forse sono unico perché gli altri sono così spenti.

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Sai, tutte queste domande e risposte sembrano solo mettere in risalto quanto sono strano. Perché ti piaceva sentirti strano? Non so perché mi piacesse essere strano nel senso che intendi... Mi sentivo strano perché non ero mai impressionato dalle cose semplici che sembravano piacere agli altri. E così ti sei innamorato delle immagini. Non era colpa mia se le immagini mi attiravano più delle persone. Avevo un sacco di gente intorno... Sono andato a scuola, per un breve periodo ho anche lavorato, le persone le vedevo. Abitavo in un quartiere di case popolari densamente popolato. C'era gente da tutte le parti. Sì, ero egoista. Ma ero anche, e tale rimango, quel tipo di persona che non molti vorrebbero conoscere. È difficile da credere! Sei stato costretto a costruire una realtà tutta tua? Sì. C'è voluto tanto. Ma cosa ancora più importante, credo che quando non si goda di molte simpatie, quali che siano le ragioni, si tenda a sviluppare delle forme di sopravvivenza. Una sopravvivenza che esclude gli amici, che esclude le attività sociali. In un certo senso, è così che ho organizzato la vita. Se non riesci a impressionare gli altri semplicemente facendo parte della grande e inutile razza umana, allora devi per forza sviluppare altre capacità. E se non impressioni gli altri con l'aspetto che hai, allora devi assolutamente sviluppare altre capacità. E se adesso hai intenzione di chiedermi se tutto quello che ho fatto è solo un modo per guadagnare una qualche attenzione, ti rispondo che non è del tutto vero. In piccola parte sì, ma è nella natura stessa della vita. Voler essere amato? Essere visto, soprattutto. Volevo farmi notare, e il modo in cui vivevo e vivo tuttora è disperatamente nevrotico proprio per questo motivo. Tutti gli uomini hanno bisogno di una certa attenzione. C'è chi la ottiene al momento giusto; quando si ha tredici o quattordici anni, si viene amati nelle fasi giuste. Se questo non accade, se non c'è l'amore, puoi facilmente spegnerti. Poteva capitare benissimo anche a me. Diverse volte sono stato vicino a spegnermi. Non mi dà grande sollievo parlarne. Non ho voglia di rivivere quelle esperienze. Ma ci sono arrivato vicino. In un certo senso ho sempre

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sempre avuto la sensazione che le inquietudini adolescenziali fossero una cosa normale. Non ero sicuro di essere clamorosamente unico. Conoscevo anche altri che all'epoca erano disperati e pensavano al suicidio. isprezzavano la vita e detestavano tutti gli esseri viventi. In un certo senso quello mi faceva sentire un po' più tranquillo. Perché pensavo, be', forse non sono così emotivo dopo tutto. Ovviamente, lo ero. Disprezzavo praticamente tutto della vita umana, che limita le proprie attività al fine settimana. Il ricordo di quegli anni è stato annientato? No, affatto. Ricordo tutto per filo e per segno, mi sembra di ricordarlo tutte le notti e riprovare quel disagio. Era una cosa orribile. Tutta l'esperienza scolastica, una scuola di avviamento professionale a Stretford chiamata St Mary's. Il suo orrore non si potrà mai esagerare. Ogni santo giorno era un incubo. La paura e l'angoscia di svegliarsi, di doversi vestire, farsi tutta la strada a piedi, entrare in classe, fare lezione... Sono sicuro che a scuola siano quasi tutti molto depressi. Io sembravo più depresso di chiunque altro. Lo notavo di più. Dimmi, sei mai andato da uno psichiatra? Ah... veramente no. Ne ho visti due. Ma se ne stanno lì seduti, annuiscono col capo e fanno disegnini. Forse se mi curassero, per così dire, affronterei amabilmente e a occhi chiusi ogni situazione, e non credo che sarei veramente io. Forse l'infelicità continua a farmi andare avanti. Che cosa ti infastidisce di più, di te? Praticamente tutto. Rimpiango di non essere in grado di star dritto. Tendo a infilarmi nelle stanze e sedermi sulla sedia dietro la porta. Non sarà semplicemente grossolana autocommiserazione? No, per niente. È la risposta a tutto quello. Non è così semplice. E allora, dopo tutto questo, com'è arrivata la «grande chiamata»? La grande chiamata... bella questa. In un certo senso, è sempre stata lì. Ma arrivato a ventuno, ventidue, ventitré anni, pensavo che fosse impossibile. Non capivo come potesse essere nella musica pop. Tanto per cominciare ero paralizzato. Non riuscivo a

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a muovermi. Non riuscivo a immaginare di ballare, e credevo che il movimento fosse quasi tutto il senso di quel rituale assurdo. Riuscivo appena appena immaginare di cantare, ma anche allora non sapevo proprio fare con il microfono e con l'asta. Però avevo questa strana vocazione mistica. Non c'è bisogno di ridere! Ancora una volta, siccome ero così sensibile all'idea di togliersi la vita, immaginavo che fosse quella la mia vocazione, il suicidio, nulla di più spettacolare o interessante. Ero convinto che chi alla fine si toglieva la vita non avesse maturato la consapevolezza di quella scelta solo nelle ultime ore o settimane della propria vita. Ne era sempre stato cosciente. Si era rassegnato al suicidio molti anni prima di compierlo effettivamente. In un certo senso anch'io, sì. Che cosa ti ha fermato? Ho fatto dei dischi. Ho avuto l'opportunità di fare dischi, e miracolosamente ha funzionato tutto. Quindi essere Morrissey ti ha salvato la vita? È stata una fortuna e un fardello. Mi ha salvato e mi ha catapultato in una serie di problemi completamente nuovi. Dai sempre l'impressione di trarre piacere dall'ansia. È sempre stato un piacere molto limitato. Era sempre questione di ritirarsi ella propria stanzetta, trovare la macchina da scrivere e ascoltare musica pop sentendo più di quanto ci fosse davvero. Il punto è che avevo sempre accarezzato l'idea di fare dischi e proprio nel momento in cui sembrava che le porte si chiudessero e io pensavo sempre meno alla possibilità di farcela, mi è capitata l'occasione. All'improvviso si sono aperte delle strade e le ho seguite. Ritieni di aver fatto qualcosa di costruttivo? Le persone possono adulare ed essere solidali, ma questo non significa che capiscano. Raramente si congratulano con te come vorresti. A volte ho la sensazione che ciò che faccio potrebbe andare e venire senza che nessuno ci faccia caso. Mi sembra un'affermazione abbastanza ingrata.

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Certo. È difficile lamentarsi quando ti approvano... ma io ci riesco. Quando mi criticano, li capisco. Quando mi attaccano annuisco e sorrido più di quando ricevo recensioni meravigliosamente positive. Non è detto che sia utile che ci sia gente così impaziente di darti recensioni a cinque stelle e non capisce la cosa più importante. C'è stata gente in passato che non poteva soffrirmi, e trovo che il loro punto di vista sia assolutamente interessante. Non è molto utile avere qualcuno seduto accanto che annuisce tutto il tempo. Ho giocato contro la tradizionale simpatia del pubblico. E questo mi ha ispirato quando ho iniziato, perché non mi veniva in mente nessuno che mi assomigliasse anche lontanamente. È stato facile? Il successo non è mai facile. Poteva andare decisamente peggio. Tutto ha preso forma con il quarto singolo. Se non avesse funzionato, adesso saresti morto? Sarei sicuramente in terapia intensiva. Che tu attiri soltanto una valanga di adolescenti disorientati è solo un cliché? Oh sì. Si è ampliato ben oltre quello. All'inizio ero sconcertato quando scrivevano che le mie canzoni erano adolescenziali. Avevo ventiquattro, venticinque anni, perciò non erano adolescenziali, erano qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che non era mai stato espresso prima. Non erano adolescenziali. Non era così semplice. Che effetto ha la tua musica sui fan? Indossano cappotti e contemplano lampadine rotte. Per me è sempre stato così! Che cosa blatera oggi Morrissey? Quando finalmente ci incontriamo, sta facendo seduto in una suite dello splendido e imponente Hyde Park Hotel. Sta dedicando un po' di tempo alle interviste per promuovere il suo nuovo disco solista, e racconta a un assortito caravanserraglio di giornalisti che le autentiche verità sono quelle che si possono inventare. I giornalisti sono seduti difronte a lui, metà in soggezione, metà sbigottiti, e tentano di inquadrarlo, di capirlo, di fargli ammettere che anche lui è un

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uomo, che in fin dei conti anche lui, come tutti, è coinvolto nella caccia al denaro, camuffando la sua avidità dietro un'analisi isterica. E lui, con santa pazienza, accenna un sospiro, soffoca una risatina angosciata e risponde: «Nel contesto del pop c'è effettivamente spazio per un grande individualismo. Scrivendo le canzoni che scrivo io, potrei capire qualcosa in più di me stesso.» Quando finalmente ci incontriamo, c'è una terza domanda che devo proprio porre. Non sono molto aggraziato quando glielo chiedo, e Morrissey dolcemente mi osserva balbettare, assecondandomi per quel che vale. Hai sofferto per amore della conoscenza? Ma ribadisco, per me non si tratta semplicemente di conoscenza in quanto tale. Se così fosse, attraverserei la vita con il sorriso sulle labbra. Possiedo una conoscenza inesplicabile. In senso scolastico sono senza speranza. Sul serio. Non ho fatto neanche gli esami di maturità. È un sapere perverso. Una visione strana. Sorride piacevolmente quando si rende conto che gli sto chiedendo di spiegare con precisione che cosa intende per «visione strana». Sì, bisogna spiegarlo con molta cura, ma d'altronde non lo capisco neanch'io. Posso spiegarlo soltanto dicendo che è lì tramite la mia esistenza, la mia scrittura, le canzoni e i dischi. E naturalmente, è risoluto e categorico ogni volta che i giornalisti iniziano a preoccuparsi del suo sofferto preziosismo, temendo che forse Morrissey pensi un po' troppo. «No, non faccio il prezioso. E non credo sia possibile pensare troppo.» È il suo mondo, e non si può toccarlo. Se qualcuno chiede perché, se è perennemente infelice, non si uccide e la fa finita, la risposta è ben collaudata: «Be', ci sono cose da fare... per esempio, scrivere le canzoni di Viva Hate.» Viva Hate è la prima opera post-Smiths. Solo chi è ottusamente schizzinoso si domanderà se ci potrà essere o meno differenza tra il lavoro di gruppo e le canzoni soliste. Come in tutte le canzoni di Morrissey, ci sono modi per essere coinvolti, c'è molto da investigare. Per un motivo o per l'altro, probabilmente sarà perfino

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controverso. È un disco che si può amare facilmente. Lo ritieni una grande opera? Ci si avvicina. Ho delle opinioni molto chiare di cosa devo fare, diciamo così, per esserne all'altezza. Credo che Viva Hate sia un prodotto eccelso, ma non sono ancora incline a battere troppo la grancassa per ora. Devo ancora rasentare la perfezione... Quando sarà il momento lo capirò, e sarà assolutamente incantevole influire sulla vita altrui con una forma di perfezione. Sarà come il matrimonio! Il primo singolo tratto dall'album, nella settimana in cui ci incontriamo, è entrato in classifica al numero sei, spinto dal grande sostegno della EMI. Morrissey è ormai sul ciglio di una melodrammatica supercelebrità. Potremmo anche prenderlo sul serio. La prossima fase sarà la più interessante, il passaggio definitivo dai ciottoli dell'odio alle stelle nel cielo. Ce la farà? Il punto, la pretesa di Morrissey sarà messo in discussione forse per la prima volta. È veramente pronto? Al pensiero, ridacchierà. Pare che non vi possa venire in mente niente a cui non abbia già pensato, niente per cui non abbia una risposta. Di cosa parla oggi Morrissey, viziato, iperdiffidente, divertito? Mentre brontola continuamente e spiega con sicurezza, conservando i veri segreti, c'è sempre l'impressione, lasciata intendere, che stia ridendo sotto i baffi. Morrissey è stato cotruito con cura, come se fosse tutto pianificato in camera da letto. Perciò immagino mi dirai che la frase «la vita è esagerata» non significa niente per te? Sì. Mi sento sempre intrappolato dalla vita. Quando ho sentito il titolo Fermate il mondo, voglio scendere, ho pensato: perfetto. Da dove vengono l'angoscia e l'odio? Come per molte cose, sto ancora cercando di scoprirlo. Perché riesci a innamorarti così facilmente delle immagini, ma non delle persone? Sto ancora cercando di scoprirlo. Che tipo di difficoltà hai con le persone? Parliamo del lavavetri. Sono ancora nella situazione in cui quando chiama il lavavetri,

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devo andare in un'altra stanza mentre lui pulisce. È assurdo. In quel momento mi sento un bambino di sei anni con gli occhiali. Quando suona il campanello della porta la mia reazione automatica è sempre quella di nascondermi o scappare. È una di quelle futili paure ossessive, come quella di prendere l'aereo... che mi crea enormi problemi. Quando sono su un aereo penso sempre che devo essere torturato dalla paura fisica, e solo così arriverò sano e salvo. Sono convinto che se mi rilasso, bevo un whisky, scambio due parole, l'aereo precipiterà. Devo essere nella massima agitazione o l'aereo non ce la farà. Sono fatto così, e sempre sarà (ridacchia). Il brutto è che invecchiando le cose non migliorano affatto. Credi che questi problemi e la natura della tua sessualità si ripercuotano sulla forma e sul significato delle tue canzoni? Che cosa vorresti dire? Si fanno molte congetture sulla tua sessualità, ma sembra che abbia molta importanza nella tua opera. Cercano di unire i puntini per trovare una risposta. ...Può darsi pure che non ci sia una risposta. Devo dire, anche se sembrerà preparato, che mi sono sempre sentito più vicino alla transessualità che ad altro. Qual è la tua esperienza sessuale ideale? Non ne ho la minima idea. Perché mi si fanno domande del genere? Perché te le cerchi tu. Sei l'unico a cui si possono porre domande simili. Oh, ma dai. C'è del sesso in Morrissey? Assolutamente no. Il che in sé è alquanto sexy. Che fine ha fatto il sesso? Non c'è mai stato. Non del tutto, per così dire... Che cosa è successo? Risale al fatto di essere una persona impopolare. Nessuno me lo chiedeva.

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Tu l'hai mai chiesto a qualcuno? Una o due volte. Ragazze e ragazzi. Mandavo dei bigliettini... Dopo un po' mi son detto basta. Non voglio più saperne niente. In un certo senso, sono vergine. O meglio, in un senso molto completo, a dire il vero (ridacchia). La senti come una perdita? Tendenzialmente sì, direi. Ma così sia. Forse se ci fosse stato il sesso, non mi sarei messo a scrivere. Niente sesso. Niente amore. Che razza di persona sei? Orribile, senza dubbio. La prossima risposta apparirà di nuovo a caratteri cubitali all'inizio dell'intervista. Mi sono sempre sentito superiore al sesso e all'amore. Un'affermazione forte. No, è incredibilmente lieve, e tanto stai facendo comunque del sarcasmo. Da un certo punto di vista, credo che tutte queste cose come l'amore, il sesso, condividere la vita con qualcuno, siano veramente molto vaghe. Essere soli con se stessi può essere un'esperienza molto più intensa. Personalmente mi sono sempre sentito ingabbiato dalla sensazione di essere continuamente deluso dagli altri. Sotto un certo aspetto provo delle cose che plausibilmente sono meglio e più importanti delle situazioni sessuali. Voglio dire, il sesso presumibilmente è il punto finale a cui si giunge, non so. Per me non ha importanza. Tutte le emozioni che ho bisogno di esprimere vengono dall'interno, non vengono da altri. Mi sembra di provare dei sentimenti assai più intensi e definiti rispetto a chi esprime un guazzabuglio di emozioni e sopravvive, a malapena, a un mucchio di relazioni. Vedo tutte le situazioni, anche quando non sono coinvolto e non hanno nulla a che fare con me, in modo molto drammatico. Come fai a resistere a quella particolare pressione a soccombere all'inevitabile? È durissima. Ti annoi sentendoti ripetere sempre le stesse cose in continuazione. Mi sono stancato. Ma tutto sommato mi pare di aver mantenuto il controllo. A volte anche comportandoti in modo piuttosto infantile?

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No. Chiudendomi a riccio. Sarebbe molto infantile dire, bene, datemi una spinta e dove atterro canto. Sono stato molto attento e molto prudente. C'è qualche possibilità che tu consideri l'idea di correre dei rischi veri? Sto già rischiando parecchio. La fama è un rischio. Non riuscirò a cambiare con la fama, mi turberanno sempre le stesse cose, e questo si intensificherà facendo affermazioni forti e desiderando essere totalmente umano all'interno di tutto questo. Quando sei famoso pensi di non doverti preoccupare di cose come l'urgenza della vita, non sei tenuto a esprimere la tua delusione perché la gente non capisce la terribile brevità della vita. Non farò le tipiche cose che sei tenuto a fare quando sei famoso. Per quanto mi sforzi, non può essere così scontato. E poi che succederà? Non ne ho la minima idea. Ma non mi sento vittima della fama. Ho sempre pensato che ci fosse un motivo per la mia celebrità, per così dire. Non credevo che la mia fama fosse così superficiale da finire al primo sbadiglio di qualcuno. Hanno detto addirittura che i miei dischi non vendevano più. Avrei sempre un profilo molto alto. Mi piacerebbe confidare in quell'osservazione. Hai mai la sensazione che questa ossessione per Morrissey sia piuttosto ridicola? Sì, probabilmente, sotto un certo aspetto. Ma d'altronde se ti impegni puoi far sembrare ridicola qualsiasi cosa. Pensi mai che i problemi della fama siano problemi immaginari con cui tendi ad eccedere? No, sono problemi molto reali. Assolutamente reali. Perciò quando i giornali scandalistici scrivono sciocchezze, ti offendi sul serio? Mi fa male, perché non è vero. Riportano frasi inventate. Non la prendi troppo sul personale? Che altro posso fare? Mi fanno passare per una persona molto sciocca e sconsiderata,

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e questo mi secca, perché non è così e ce ne sono già abbastanza al mondo. Non sono affatto sconsiderato, mi ripeto continuamente. Ma se sai di non essere sciocco e sconsiderato, che problema c'è? Be', io me ne faccio una ragione... ma c'è gente che lo legge, e pensa che magari è vero, e questo non mi va. Non bevo per dimenticare. Vorrei che mi rappresentassero in modo più affascinante di quanto sia in effetti, invece che sminuirmi. Quando pubblicano frasi inventate, perché non sono favolose? Non dipende da te. Appunto, e non mi piace. Potrebbe rovinare tutta la mia opera preparata con tanta cura! Adesso che finalmente ci siamo incontrati, l’ultima domanda semplice e scontata. Con tutto quello che sei riuscito a controllare, i minimi dettagli, le espressioni afflitte, tutti questi tasselli di un fascino improbabile, ti stai preparando vistosamente a una grandiosa e devastante uscita di scena, ritagliandoti il ruolo di protagonista in una storia drammatica e maledetta che il giovane Morrissey avrebbe assolutamente apprezzato? Non so proprio cosa intendi! (risatina)

Blitz aprile 1988

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Diario segreto di un uomo di mezza etĂ Shaun Philips

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Dopo aver visto il Messia e i suoi Smiths dare da mangiare a cinquemila persone con una confezione di pancarré e una scatola di sardine, non c'è dubbio che i suoi discepoli siano rimasti lievemente delusi quando da solo è riuscito soltanto a tramutare l'acqua in rosso della casa e non nello champagne che tutti aspettavano. Quando Morrissey ha pubblicato Viva Hate, primo album della sua carriera solista, a marzo, perfino il Padrino della Malinconia ha condiviso la delusione. «Dal punto di vista dei testi non è stato il meglio, ne sono ben consapevole» ammette. «Era un periodo molto particolare per me, il disco è stato fatto all'improvviso, in fretta e furia, e volevo provare a fare qualcosa di diverso.» «Per colpa dello status particolare che ho, con tanta gente che si concentra con precisione quasi scientifica su ogni virgola, sono arrivato al punto di voler essere completamente spontaneo senza scrivere materialmente le parole e memorizzarle. Piuttosto, entrare in sala di incisione e cantare come viene. Ma non credo che ci riproverò... torno alla macchina da scrivere.» Nel rumore del furioso traffico del venerdì che aggredisce l'Hyde Park Corner di Londra, Morrisey si azzarda a svestirsi fino al maglione a collo altro. Sembra un posto poco adatto a stimolare il protagonista della desolata stazione balneare, il campione della domenica piovosa e silente che arriva e resta per sempre. Una stanza d'albergo umida e impersonale alla fine di un corridoio fetido sarebbe stata senz'altro più appropriata. Ventinove anni appena compiuti, Morrissey si sente già sulla «tremula soglia» dei trenta. Il suo compleanno, naturalmente, è stato un giorno infelice. «Faccio una vita di privazioni. Non esco, non mi ubriaco, non vomito addosso ai poliziotti.» Coltiva solo qualche capello grigio e un occhio rosso infiammato, effetto di una lente a contatto ballerina. Gli dà fastidio, ma non giustifica il rischio di una visita correttiva al gabinetto pubblico più vicino. Il suggerimento spontaneo viene accolto con uno sguardo di disappunto. «Credo che l'età personalmente mi faccia sentire un po' meglio, perché la gioventù per me era ribellarsi, essere giovane e sentirsi giovane, cosa che ho sempre detestato. Adesso mi sento meglio, mentre brancolo alla cieca nella mezza età.» La celebrità pop, a quanto pare, non ha bisogno di finire nella delusione schiacciante con la scomparsa dell'acne. E nemmeno lo spirito.

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Come la sua eroina, Maggie Thatcher, Morrissey ogni tanto rende difficile distinguere tra realtà e finzione. Insomma, ma davvero canta: «era una bella scopata» alla fine di Suedehead, il suo primo singolo solista? No, "era una copia pirata". Ma insomma, santo cielo, nel mio vocabolario? Sul serio? Ho mai mentito? Pensano davvero che sia "una bella scopata"? Io sì. Ed è così scabroso? Eh sì. E va bene, effettivamente era "una bella scopata". E c'è stata? No, pensavo solo che potesse divertire qualcuno che abita a Hartlepool. Nelle questioni di grave importanza, Morrissey si attiene all'adagio del suo idolo Oscar Wilde: ciò che è vitale è lo stile, non la sincerità. Per quanto Morrissey scelga di rispecchiarla con leggerezza, la sua carriera solista non è filata proprio liscia. Se la consistenza della qualità si è interrotta bruscamente dopo l'uscita nel giugno '85 dell'album The Queen Is Dead e degli eccellenti 45 giri Panic e Ask che l'hanno seguito, il profilo di Morrissey sembra fiorito. La sua popolarità deve molto alla sua ammiccante rivoluzione; una settimana schernisce gli spettatori di Top of the Pops con lo slogan «Sposatemi», quella seguente mima il gesto di sparar loro addosso mentre ballano. Al paragone, la sua carriera solista è decisamente più mite. «Tanta gente è stata ispirata dall'etica della Rough Trade: tentare di lottare e in molti casi vincere, ed era entusiasmante. Ovviamente con la EMI tutto questo non esiste.» Può sembrare irrilevante che Morrissey non compri più biancheria intima da M&S, ma riflette come tutto quello che riguarda la sua presentazione sia cambiato.

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Una volta sulle copertine dei suoi dischi campeggiavano le immagini di vecchie glorie cinematografiche, adesso ci sono ritratti di se stesso, e nell'ultimo singolo uscito, Everyday Is Like Sunday, somiglia a un George Michael sbarbato. È allettante pensare che i suoi giorni in veste di rivoluzionario da monolocale siano pressoché finiti. Morrissey, tuttavia, si sente ancora il Che Guevara del pop. «Se ti concentri bene sulla Top 40 non è che ci siano poi tanti personaggi che colpiscono, perciò è abbastanza facile in quel contesto essere semi-anarchico. Ma non credo neanche per un secondo che mi si consideri davvero completamente attendibile. Penso ancora che potrebbero sospettarmi di dire le cose sbagliate o, meglio, aspettarsi che io dica "la cosa sbagliata". Ma non mi sento istituzionalizzato, non mi sento neanche lontanamente simile a George Michael o al suo mondo, se è per quello. Se George Michael dovesse fare la mia vita per cinque minuti, si strangolerebbe con il primo pezzo di corda che gli capita a tiro.» Si potrebbe pensare che la rivoluzione di Morrissey sia entrata nella clandestinità con l'uscita dei suoi singoli da solista, dato che nessuno dei due ha incontrato reazioni ostili come alcuni dischi degli Smiths. Handsome Devil (il lato B di Hand In Glove) per qualcuno conteneva allusioni alla pedofilia. Panic era un attacco razzista; Girlfriend In A Coma era volgare cattivo gusto. Viva Hate invece segue una linea decisamente più incerta. Eppure Morrissey respinge le accuse di essere in cerca di polemiche. «Non c'è nessuna controversia su Viva Hate, per quel che mi risulta, forse il titolo. Ma non sono mai stato volutamente controverso. Capita semplicemente che visto il clima e gli standard di scrittura nella musica pop di oggi, se hai un giudizio personale sulle cose che si scrivono sei destinato a essere considerato non controverso ma per lo meno... ho dimenticato la parola... Tesco's!» Se le accuse di razzismo per Panic erano pretestuose, imperniate sui motivi per cui Morrissey voleva «impiccare il dj», il testo privo di tatto di Bengali In Platforms, uno dei brani dell'album, si presta a un'interpretazione razzista. «Stavi per dire Bob Geldof In Platforms» ironizza Morrissey, trattando la questione con ben più disprezzo di quanto meriti. Il possibile doppio senso era voluto? No, assolutamente no. C'è un sacco di gente talmente ossessionata dal razzismo che

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non si può nemmeno pronunciare la parola "bengalese"; diventa subito una canzone razzista, anche se dici: "bengalese, sposami". Io comunque non ci vedo nessun razzismo sottinteso. Nemmeno nel verso «Life is hard enough when you belong here?» Be', non è così? Sì, ma questo implica che i bengalesi non siano di questo posto, e non è una visione del mondo particolarmente inclusiva. Ma in un certo senso è vera. E secondo me può valere per tutti. Se domani andassi in Jugoslavia, probabilmente ti sentiresti fuori luogo. In ogni caso, Morrissey non fa nessuna ritrattazione per l'ultimo brano dell'album, Margaret On The Guillotine. Originariamente, era il titolo di lavorazione per l'album The Queen Is Dead. Il testo di questa versione abbreviata è stato accantonato perché «non si adattava alle musiche che erano state presentate in quel momento». Ma non ci sono molti dubbi sulle opinioni del cantante nei confronti della Lady di Ferro. «Seguo la sua carriera» spiega Morrissey. «Ovviamente, trovo che la sindrome da Thatcher sia molto stressante, deleteria e tutto quello che vuoi. Ma credo anche che ci sia ben poco da fare. L’esempio più calzante, immagino, è il Clause 28, l'articolo di legge che vieta agli enti locali di "promuovere intenzionalmente l'omosessualità". Incarna perfettamente la natura della Thatcher e il suo odio spontaneo.» Si avvicina il momento in cui Oscar Wilde verrà messo al bando? Temo di sì. Ma protestare secondo me è inutile, perché la gente ha questa errata convinzione che la questione del Clause 28 non c'entri niente con il popolo. Non hanno niente da dire. È sempre la stessa storia che si ripete da quando è iniziato il regno della Thatcher, perciò non vedo il senso di andarsene in giro per Marble Arch con una maglietta rosa a distribuire libri di Andrea Dworkin. E affidare i tuoi sentimenti ai dischi non è altrettanto inutile? Assolutamente no, perché rimangono lì per sempre.

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Ma se il mondo non ascolta oggi, appare altamente improbabile che lo faccia in futuro. In un certo senso, questo offre quasi dei titoli per scrivere di più e in tono più forte. Chiunque abbia vagamente presente la carriera di Bob Geldof, saprà che anche con una pubblicità mondiale gratuita, la scelta solista può essere disastrosa. E dato che gli Smiths hanno avuto un finale deludente con lo scialbo Strangeways, Here We Come, Morrissey temeva che con la sua prima uscita da solista, Suedehead, «avrebbe arrancato un po' tra gli ultratrentenni e poi si sarebbe disintegrato» . Non voleva nemmeno far uscire la canzone come singolo, ma è stato «trascinato da un'ondata di entusiasmo generale». Non era una canzone al livello dei migliori Smiths, ma aveva una bella melodia riflessiva, dimostrando che l'ex coproduttore degli Smiths, Stephen Street, poteva entrare nel ruolo che era stato già di Marr come compositore, il disco ha ripagato la fiducia dei colleghi di Morrissey entrando nella Top five mentre nessun singolo degli Smiths era mai arrivato oltre la decima posizione. «Pensavo che a questo punto mi avrebbero distrutto» confida Morrissey. «È straordinario che i dischi abbiano avuto successo senza neanche un'apparizione in televisione, un tour, eccetera.» Uno di questi «eccetera» era una Peel session per Radio One, registrata ma mai andata in onda. «È stata una cosa atroce, orribile» dice Morrissey, riflettendo sul trattamento ricevuto dai tecnici degli studi Maida Vale. «Sono abituati a trattare tutti come se fossero un gruppetto di dilettanti allo sbaraglio. Quel giorno mi sono sentito come se non avessi mai visto un disco, figurarsi inciderlo. Sono stati molto sgarbati e non riuscivo a cantare perché ero arrabbiato. O stringi i denti o te ne vai.» Quindi hai dei progetti in cantiere? Neanche uno. In effetti, gli unici preparativi live di Morrissey sono stati per l'imminente album live degli Smiths in uscita per la Rough Trade. Ha deciso il titolo, scelto i brani (la scaletta è stata approvata da Johnny Marr) e ha disegnato la copertina. Ma non è detto sia l'ultima

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volta che ascolterete Morrissey cantare una canzone degli Smiths. Dovesse esibirsi di nuovo in futuro, è categorico sul fatto che canterebbe canzoni tratte dal repertorio degli Smiths. «Ero lì quando sono state incise, le parole le ho scritte io. Solo perché il gruppo è finito non significa che all'improvviso tutte quelle sensazioni si dissolvano.» Che Stephen Street componesse le musiche nella carriera post-Smiths di Morrissey è stata una sorpresa per molti, ma a posteriori il cantante aveva poche alternative. Le capacità musicali di Morrissey iniziano e finiscono con una prestazione al pianoforte suonato con un dito solo in Death Of A Disco Dancer, sull'ultimo lp degli Smiths. Non potendo comporre tutto da solo, l'unica alternativa di Morrissey era un demo tape procuratogli da Street. «In quel momento non c'erano altri che proponessero cose e, tutto sommato, quello che aveva fatto Stephan mi piaceva. È successo tutto molto in fretta. Voglio dire, un anno fa di questi tempi l'ultimo album degli Smiths non era neanche lontanamente vicino all'uscita. È stato un anno molto movimentato. Lo so che è molto allettante pensare che in certa misura sto procedendo per inerzia e non suono dal vivo, le solite cose, ma non mi sono mica fermato.» La collaborazione è aperta? Assolutamente aperta, non siamo i nuovi Smiths o cose del genere. Non esiste un gruppo fisso. E ti sta bene così? Mah, sì. E le voci di una reunion con Marr? «Girano queste voci? Non lo sento e non so niente di lui da un anno. L’ultima volta che gli Smiths sono stati insieme era il 21 maggio 1962, o chissà quando, cioè un anno fa. Da quel momento tutto tace, come si dice.» In effetti, l'unica persona del passato che ha espresso interesse per le composizioni post-Smiths di Morrissey è Sandie Shaw. La sua collaborazione con Morrissey ha visto la luce nell'aprile '84, quando la cantante ha prodotto la sua prima hit in quindici anni con una cover del primo singolo degli Smiths, Hand In Glove. L’ultimo acquisto della

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apparirà sul suo prossimo album imminente. «Sì, si intitola Please Help The Cause Against Loneliness e in origine era stata scritta per Viva Hate. Non c'era abbastanza spazio ed è stata congelata. Sandie l'ha presa e l'ha messa nel forno a microonde.» Forse non ci sarà una fila di musicisti che implorano di lavorare con Morrissey, ma non c'è dubbio che la sua opera con gli Smiths sia estremamente apprezzata dai colleghi. L’ex bassista degli Smiths Andy Rourke esegue regolarmente sul palco un duetto di The Hand That Rocks The Cradle (tratta dall'album d'esordio degli Smiths) con Sinead O'Connor (anche l'ex batterista degli Smiths, Mike Joyce, fa parte della sua band) e molti altri artisti hanno espresso il loro interesse a reinterpretare canzoni degli Smiths. Ancor più sorprendente, forse, è la voce che Dave Stewart degli Eurythmics voglia reinterpretare Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me. «Dici davvero? » chiede Morrissey, piuttosto sorpreso. «Ricevo diversi nastri da persone che li stanno valutando e resto molto deluso quando non li fanno uscire.» Johnny Marr una volta ha detto che la sua ambizione era vedere qualcuno che portasse una cover degli Smiths al primo posto in classifica. Sì, sarebbe fantastico, a prescindere dal posto in classifica, però sarebbe bello. Non saresti geloso? Non sono una persona gelosa. Mi è piaciuta la versione dei Dream Academy di Please Please Please Let Me Get What I Want. La disprezzavano tutti ed è arrivata all'ottantunesimo posto, cioè quasi un successo. Due cover in cantiere che entusiasmano Morrissey sono There Is A Light That Never Goes Out di Hope Augustus, e You Just Haven't Earned lt Yet, Baby, proposta da Kirsty MacColl per il suo prossimo singolo. La MacColl ha già collaborato con Morrissey come corista in Ask e Golden Lights degli Smiths. Ma questo entusiasmo impallidisce di fronte al desiderio di collaborare, o per lo meno incontrare, Shirley Bassey. «Ieri sera sono andato a vederla. Mi è sembrata in forma smagliante. Mi piacerebbe tantissimo incontrarla.» Chiaramente, Morrissey invidia la statura di Shirley Bassey. «È una posizione a cui non aspiro.Non credo che mi considerino una superstar, una celebrità planetaria, una rockstar o qualcosa di simile. Al massimo mi considerano un

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fenomeno Britannico... oltre che un sex symbol.» Quindi ti piacerebbe fare... la colonna sonora di un film di James Bond? No, perché mai? Perché l'ha fatta lei? Ah, ho capito. Allora seguirai la strada di Shirley Bassey? Santo cielo, questo significa che dovrei restar vivo per altri ventidue anni. Ma te l'immagini? È un pensiero spaventoso, tutti quegli special natalizi... La carriera solista di Morrissey fino a oggi non sarà ancora sbalorditiva, ma se non altro non ha cercato semplicemente di imitare gli Smiths. Anzi, ha avuto l'audacia di cambiare e adottare stili diversi. Il risultato, Viva Hate, è stato deludente ma aveva dei momenti perfetti, tra cui il nuovo singolo Everyday ls Like Sunday: un netto rifiuto alla sindrome da tormentone. Ma in realtà i segreti del futuro di Morrissey sono custoditi nel lato B. Wìll Never Marry, Sister l'm A Poet e soprattutto Disappointed indicano un punto di svolta nella sua nuova carriera, un ritorno all'eloquenza, alla satira, al disprezzo e allo spirito. I marchi di fabbrica di Morrissey prima che li abbandonasse per l'elegante tranquillità di Viva Hate. Incisi due mesi fa, vedono anche il ritorno del suo vecchio stile di scrittura: le prime canzoni fresche di macchina da scrivere. «Sono le prime tre canzoni che ho buttato giù con soddisfazione. Probabilmente è brutto ammetterlo, ma ero arrivato a un punto in cui non volevo più lasciarmi coinvolgere dalle emozioni. Volevo una scrittura semplice, e per altri versi volevo quasi che il resto prendesse il sopravvento. Ma non è andata così, nell'accoglienza che ha avuto il disco. Tanta gente che ha comprato Viva Hate e comprava i dischi degli Smiths addirittura si studiava per giorni il foglio dei testi prima di mettere il disco. Perciò mi rovo in una posizione esclusiva, ma che momentaneamente cominciava a soffocarmi leggermente.» Morrissey rifiuta l'idea che Street abbia tenuto da parte questi pezzi più vigorosi nel timore di vedersi crocifiggere dalla critica per l' eccessiva somiglianza con Marr. A suo parere, le nuove composizioni sono un «evoluzione di Viva Hate» e «assolutamente stupende». Nega anche che il cambio di atmosfere sia legato alla propria influenza,

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o che sia una decisione consapevole di Street «per fare qualcosa di più aggressivo». Ma ha dato a Morrissey una nuova fiducia in se stesso. «Sì, mi sento un po' più felice con un sound frenetico e frammentato.» Ironia della sorte, Disappointed riassume perfettamente il nuovo mood. «Questa è l'ultima canzone che canterò / No, ho cambiato di nuovo idea / Buonanotte e grazie...» Tipico di Morrissey. Proprio quando pensavi che ormai fosse destinato a sparire, quando credevi che l'onnipotente fosse impotente, l'impertinente colpisce ancora.

Sounds 18 giugno 1988

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Il playboy dell'Occidente Eleanor Levy

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Morrissey si mette una mano sullo stomaco, strizza gli occhi simulando dolore e - con la signorilità che contraddistingue questi gesti - rutta. «Oh, perdonami» si scusa. Una bottiglia verde di Perrier si erge colpevolmente sul tavolo tra me e lui, il suo ex contenuto ricevuto dall'apparato digerente di Morrissey con la stessa accoglienza riservata dal sistema musicale alle sue esternazioni più ispirate. Il Morrissey del 1989 è un personaggio molto diverso da quello che agli esordi agitava un mazzo di gladioli in una sala da concerti di Manchester. La camicia a righe bianche e rosa è ben stirata (e infilata nei pantaloni), i jeans sono immacolati, le scarpe e i capelli brillano di un benessere raggiunto da poco. Ma quando l'acqua minerale, in fin dei conti insapore, viene messa da parte e Mozz versa una confortante tazza di tè ordinato senza indugio, è bello vedere che le sane tradizioni di una volta alla fine vincono sempre. Gli Smiths non esistono più, Morrissey potrà anche essere, per usare le sue parole, «recentemente diventato ricchissimo», ma il Morrissey divertente, esasperante, brillante, arrogante eppure autodenigratorio che abbiamo sempre conosciuto non vuole saperne di andare via. Con l'uscita della sua migliore proposta solista fino a oggi, The Las Of The Famous International Playboys, è confortante sapere che nella lista della spesa del supermarket pop, la marca Morrissey è ancora affidabile come sempre. Il momento delle domande:

Perché The Last Of The Famous lnternational Playboys cita i gemelli Kray? Non è strano inserire due «eroi» così palesemente meridionali in una canzone? Sì, be'... sono conosciuti anche al Nord, sai. Ormai abbiamo anche noi la televisione, anche se c'è un leggero disturbo durante le pubblicità. Che cosa ti affascinava di loro? Il livello di notorietà che li circondava, il livello di fama che avevano raggiunto, la loro inarrivabile celebrità. Quando arrivi a quel punto, sei da ammirare. E quello che hai fatto non conta? Di fatto no. Peggio è meglio è. C'è un certo fascino nell'essere un personaggio tristemente noto... come ovviamente so per esperienza!

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Ma tu lo trovi affascinante? Io? No, io no ma i media sembra di sì. Pare che apprezzino molto, e pare che lo apprezzino di più se l'aggressione riguarda le donne, in particolare le donne giovani. La copertina del singolo ti mostra a sei anni, in cima a un albero. Sei cambiato molto da allora? Be', ho un maglione nuovo. Quali erano le tue speranze e le tue aspettative a quell'età? Non ne avevo, sapevo che era troppo tardi. Ecco perché mi arrampicavo sull'albero. L'albero genealogico

Desideri ardentemente un singolo al primo posto in classifica? Be', sopravvivo anche senza. In effetti è l'unica cosa che non ho ancora ottenuto. Ma non è così fondamentale. Ormai al primo posto arrivano tanti idioti che è difficile considerarla una posizione sacra. Però sarebbe bello. Gli Smiths sono già considerati parte della storia del pop britannico. È abbastanza per te? Non del tutto, ancora non basta. Che cosa ci vorrebbe ancora? Questa è una domanda molto insidiosa. Che cos'è abbastanza? Io credo che sarà il giorno in cui avrò dei colleghi seri e potenti, e avrò l'impressione di essere finalmente scalzato dal trono. È quasi ora che si faccia avanti qualcun altro. Qualcuno avrebbe dovuto rimpiazzare gli Smiths, qualcuno dovrebbe rimpiazzare me. Si cerca disperatamente qualcuno. Sì, ma puoi sostituire Stan Laurel? Puoi sostituire Judy Garland? Puoi sostituire Shirley Bassey? Puoi sostituire Mrs Mangel? La lista prosegue… Non dico che mi piacerebbe essere sostituito, ma è importante per l'evoluzione del pop che ci siano continuamente voci nuove. Ma non se ne vedono da nessuna parte, non arrivano e forse non potrebbero essere più lontane di quanto siano oggi.

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Il momento della caricatura

Diresti che le sopracciglia siano la tua caratteristica più riconoscibile? Oh, hanno quasi le dimensioni di quelle di Denis Healey, in effetti. Non si arricciano alle estremità, però. Sono molto educate. Fanno esattamente quello che gli dico di fare. Quando disegnano tue caricature, si soffermano tutti su due cose: le sopracciglia e il mento. Be', il mento di solito occupa metà pagina. Il mento è senz'altro al centro della scena. Mi rende molto cosciente di questo grosso pezzo di arredamento appiccicato alla metà inferiore della mia bocca. L’ora del tè

Se potessi dare il tuo nome a un oggetto inanimato che recherebbe per sempre l'etichetta «Morrissey», che cosa sarebbe? Dovrebbe essere qualcosa di buon gusto. Il tè, forse. Sì, quello non sarebbe male. Il tè Morrissey. Infine, se in passato avessero detto a qualcuno che negli anni ottanta ci sarebbe stato un tizio di nome Morrissey che andava in tivù con un apparecchio acustico, un mazzo di fiori e un cardigan da vecchio, agitando le braccia di qua e di là... e sarebbe entrato nella Top Ten, avrebbe pensato: a) tu sei matto e b) sarebbe impossibile. Giusto? Bah, forse per qualcun altro. Se tu mettessi un cardigan da vecchio, come lo chiami, e un apparecchio acustico, probabilmente non entreresti nella Top ten. È un puro caso di natura, non posso aggiungere altro... e non parliamone più!

Record Mirror 11 febbraio 1989

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Tatto e delicatezza Mat Snow

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Per uno che a suo tempo faceva spuntare un mazzo di fiori dalla tasca posteriore, si avvolgeva in ampie camicette da donna di Evans Outsize, attorcigliava fili di collanine di plastica luccicante attorno al collo e sfoggiava un apparecchio acustico vistosamente grande, antiquato e del tutto superfluo, l'icona che chiamano Morrissey sembra così lievemente innervosita quando gli si chiede del suo ultimo contributo al mondo della moda e della cura personale. «Aah, la domanda è talmente semplice che è difficile rispondere: perché ti depilavi le ascelle? Lo trovo molto affascinante. L’ho fatto per parecchio tempo, per tutta la carriera degli Smiths e ancora lo faccio di tanto in tanto. Non mi ricordo com'è iniziata. Non credo ci siano grandi motivi. È una cosa naturale» dice ridendo l'eccentrico hitmaker mancuniano, a disagio. «Sicuramente lo farai anche tu, no?» Non posso dire di sì. Allora non sai che ti perdi, ah ah! E qual è il motivo? Solo un'estrema bellezza fisica, ovviamente. Sicuramente questo lo capisci. È la prima volta che qualcuno me lo chiede e sono molto imbarazzato. Non è per dire qualcosa, o perfino prendersi troppo sul serio e cercare di proiettare un'affascinante immagine pop. È solo un capriccio curioso. Mi stupisce che sia di qualche vago interesse... Ha un non so che di stranamente rasserenante, una dolcezza. Allora ti piace la sensazione di radersi? No, la odio. Ma non c'è giorno in cui non mi rada. Ho cominciato a tredici anni. Abbastanza piccolo, no? Però non mi sono mai depilato le gambe... Nel febbraio del 1988 il singolo di Morrissey Suedehead è stata la prima uscita su etichetta HMV della EMI. A marzo gli ha fatto seguito il suo primo lp solista, Viva Hate. Da allora, gli avvistamenti di Mozzer sono stati pochissimi. L’unica parentesi live è stato un concerto gratuito pochi giorni prima di Natale lo scorso anno, nella Civic Hall di Wolverhampton, dove l'unica condizione di accesso era che si indossasse una T-shirt con il volto di Morrissey stampato sopra: sono entrati in 1700, ma altri duemila sono stati mandati via tra scene di lieve pandemonio.

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Mentre lui ha mantenuto negli ultimi diciotto mesi un insolito silenzio, si sono diffuse le voci più disparate. Quel che sappiamo è che dopo un'astiosa separazione dal suo collaboratore musicale Stephen Street, adesso Morrissey sta incidendo con Clive Langer e Alan Winstanley, più noti per aver prodotto i Madness e Elvis Costello. Dopo aver oscillato tra Londra e Manchester dalla prima ondata di successo degli Smiths alla fine dell'83, Morrissey è tornato nella sua città natale, almeno per il momento, tra le sue radici. Ouija Board, Ouija Board indica forse un interesse per l'occulto? Ho sempre avuto un interesse per l'occulto, ma non è un interesse inesauribile, solo passeggero. Ho provato a infondere un po' di umorismo nel disco. Lo so che non traspare granché, ma lo trovo divertente. La canzone parla essenzialmente di me, tanto per cambiare, che perdo la fede nell'umanità e penso quasi di rivolgermi all'aldilà in cerca di comunione e amicizia. Hai mai cercato conforto nella religione? In nessuna circostanza. Sono un cattolico non praticante sul serio. Riesco ad avere fede soltanto nelle cose che vedo. Il nuovo singolo segna la tua prima collaborazione con Langer e Winstanley. Perché proprio loro? Ero un grande fan dei Madness anni fa, ed è per questo che li conoscevo. Mi piaceva molto soprattutto quel loro senso di divertimento perverso. I dischi non li ho mai considerati la solita solfa pop. Mi piaceva molto la loro peculiarità. Corre voce che guidi una Golf GTi bianca. Effettivamente ne possiedo una, ma di solito la guidano altri. So guidare, ma non ho la patente: non ho mai fatto gli esami. Ma anziché noleggiare macchine in ogni occasione, mi risulta molto più semplice assumere una persona che sa guidare, e mi sposto così. Hai uno staff personale? No, non ho neanche un manager. Non ho nessuno che lavora per me. Ogni tanto però ho un amico che pago per un certo periodo quando devo fare qualcosa, e lui mi fa da autista.

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Hai uno staff personale? No, non ho neanche un manager. Ogni tanto però ho un amico che pago per un certo periodo quando devo fare qualcosa, e lui mi fa da autista. È un lavoro a tempo pieno essere Morrissey in modo professionale? Sì, perché se non sono impegnato nella realizzazione di un disco vero e proprio, ci sono tante altre cose da fare. Devo vedere una marea di avvocati: ci sono continue cause in tribunale. Attualmente, siamo in giudizio con Mike Joyce, e c'è una causa aperta con Craig Gannon. Tutti e due pretendono percentuali e via dicendo. Mike Joyce chiede il venticinque per cento di tutti i guadagni degli Smiths. C'è sempre un tour manager che salta fuori all'improvviso chiedendo di più, c'è sempre qualcuno che dice di averti fatto da manager e pretende di più. Credo sia ordinaria amministrazione. Tutte le società degli Smiths sono sciolte, ma fanno causa a me come individuo, in quanto ex direttore. Ogni giorno ricevo lettere dagli avvocati, miei o di altri. Il tuo tempo e le tue energie devono essere messe a dura prova. Non so dove trovo la forza d'animo per affrontare queste cose, e di conseguenza, per quanto riguarda l'aspetto pubblico, le mie attività sono alquanto rallentate. Con gli Smiths avevo la grande necessità di supervisionare tutto il possibile, fisicamente e mentalmente, e la mia vita è continuata su quella strada. È una situazione che non posso soffrire e vorrei trovare un insieme di persone con cui poter lavorare. Sarebbe più facile fare di più. Ma non riesco a trovare gente così, il che potrà anche sembrarti vagamente assurdo. O ti ritrovi con il manager che vuole il novantanove per cento dei tuoi guadagni e ti vede soltanto nell'ottica di guadagnare e lavorare quanto più possibile, cosa che disprezzo con tutto me stesso, oppure fai come me, cioè tratti direttamente con un avvocato e un commercialista. Ascolti le radio da classifica? No, non ascolto mai la radio, ma la musica pop è senza dubbio la colonna sonora della mia vita. Se ascolto Pretty Flamingo mi torna in mente un periodo particolare. In un modo o nell'altro finisco per sentire quasi tutto quello che c'è nella Top 40, anche se per essere sincero la maggior parte non so nemmeno chi sia. Però per un motivo o per l'altro finisci sempre per incappare in questi dischi; li senti alla televisione, in altri

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programmi, e questo è un fenomeno rigorosamente di fine anni ottanta. Quindi sei ancora un fan del pop? Moltissimo. Ultimamente ho comprato un sacco di cose tanto per ascoltarle e poi buttarle via. Sono ancora un grande appassionato di dischi. Mi è piaciuto molto il singolo dei Black Box. E la rivelazione che la voce della cantante in realtà non sia sua? Mi interessano di più le voci che sia un transessuale. Spero sia vero, perché rende tutto più interessante. Pensi che i tuoi fan che hanno fatto la fila a Wolverhampton in pieno inverno, sotto la pioggia, al freddo e al gelo, maltrattati dalla polizia, senza nemmeno riuscire a entrare, se la siano presa per questo? Non ho incontrato nessuno che se la sia presa. Non erano obbligati a venire, se non volevano; evidentemente erano consapevoli che ci fosse un certo elemento di rischio. Non è colpa mia se all'ultimo minuto è arrivato un energumeno dal retro e li ha allontanati. Quel concerto è stato un tentativo da parte tua di ricreare la stessa isteria che circondava i tuoi idoli degli anni sessanta e settanta? Che tu ci creda o no, con gli Smiths succedeva sempre. Perfino all'estero, dove si esprimeva in forme estreme e addirittura violente. Un concerto gratuito però mi sembrava un bel gesto. Non mi viene in mente nessuno che lo abbia fatto negli ultimi anni. Nessuno mi ha tirato calci, pugni o mi ha trascinato, anche se tutti erano su di giri. Me la sono cavata senza lividi. Quindi percepisci un'affinità tra i tuoi fan e i raver dell'acid house? Sì, ma credo che negli Smiths e nel mio pubblico non ci sia mai stato un fattore droga. lnteresting Drug parla di qualsiasi droga, legale o illegale che sia. Dobbiamo guardare in faccia il semplice fatto che la droga può aiutarti in molti modi. Anche questa storia delle feste acid house e le continue irruzioni della polizia... ogni volta che la classe operaia cerca di divertirsi o di evadere dalla realtà che gli viene imposta, la reprimono.

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Quasi come se il governo attuale volesse tutti depressi e invisibili, e ogni volta che tentano di sfondare quella bolla, si prendono una botta in testa. Non credi che i poteri costituiti stiano dando «una stretta di vite» agli acid parties soprattutto perché il rumore e il traffico provocano fastidi pubblici? Anche questo è vero, ma secondo me c'è dell'altro: un elemento leggermente inquietante, quello di voler tenere tutti al proprio posto, che poi è la regola di base quando c'è di mezzo la droga: non ci si può drogare perché altrimenti si vede o si vuole fare più del consentito. Però non ho alcuna esperienza degli acid parties, non ci sono mai stato. Il tuo pubblico è cambiato nel corso degli anni? Ho notato un considerevole numero di facce nuove e mi sono accorto che parecchi dei vecchi fedelissimi si sono allontanati, in un modo o nell'altro anche dalla musica. Anche all'inizio c'erano persone più grandi e persone più giovani. Adesso però ne incontro tanti che non hanno mai visto gli Smiths perché hanno quindici anni e per loro sono semplicemente una leggenda. Che ne pensi di Madonna, che una volta snobbavi? Ho cambiato un po' idea, su Madonna. Mi pare che la sua carriera sia molto ben definita, è una persona che fa assolutamente ciò che le garba, e questo è molto positivo. Non concede interviste, e questo fa molto effetto, e lavora tantissimo. Passerà alla storia del pop come una leggenda. Si ritiene spesso che la motivazione più comune di una popstar sia il desiderio di superare un'adolescenziale carenza di autostima. Vale anche per te? Per me era il fatto di essere ignorato. E in più, c'era una fortissima timidezza che si univa a un bisogno disperato di fare, come uno che ha una voglia matta di cantare ma prega che nessuno glielo chieda. Ero molto confuso. All'inizio c'era un forte elemento di vendetta. Con mitezza ho tentato per anni di fare qualcosa di utile e visibile, e nessuno voleva mai aiutarmi o rispondere alle mie telefonate, sia che si trattasse di provare a farsi strada nel giornalismo musicale o tentare di formare un gruppo.

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E la fama? Si dà per scontato che se entri in questo turbine sei circondato da amici, sei ricchissimo, il mondo è ai tuoi piedi, vivi in un'immensa agiatezza tra la crème de la crème, che nel mio caso non è mai stato vero, né in quello di altri musicisti che conosco di persona. Potrei telefonare a certa gente che, se vuoi, è famosa ogni lunedì sera alle otto in punto e li trovi a casa in poltrona. E magari sono frustrati, vorrebbero uscire, vedere gente e fare amicizie, ma non è per niente facile. Eppure vendono cifre enormi di dischi. Diventa impossibile per colpa del metodo di approccio del pubblico. Personalmente, comincio a chiudermi a riccio. Hai l'ansia che un disco potrebbe rivelarsi un flop? No, anche perché mi dicono che è impossibile: a quanto pare ho un pubblico molto fedele, che non aspetta altro che il giorno dell'uscita. Non credo che la longevità sia una cosa particolarmente positiva. Certi artisti danno il massimo di sé in un arco di tempo limitato. Ma non capisco proprio perché certi artisti continuino ad andare in giro ad applaudirsi da soli soltanto per il fatto di essere ancora lì, magari al centesimo singolo. Forse non si rendono conto che il loro lavoro è ormai sotto lo standard. Tu te ne accorgeresti? Sì, penso di sì perché ho un pubblico abbastanza serio, che riflette a fondo sulle cose che dico. Mi criticano tantissimo e il più delle volte sbagliano. In altri casi hanno ragione.

Q dicembre 1989

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Il re delle parole Steven Daly

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Il fuoco crepita nel camino, un fax ronza in lontananza e una manciata di riviste di moda italiane riposano su uno scaffale, mentre Morrissey si adagia sulla sua chaise longue preferita, riflettendo sulla vita senza gli Smiths. «Non mi aspettavo granché dalla mia carriera solista. Ci sono tanti cantanti di gruppi che tentano la carriera solista e non ce la fanno. Mick Jagger non è riuscito a vendere un disco solista per salvarsi la vita, perché doveva capitare a me? Tanta gente è rimasta assai sorpresa dal fatto che abbia continuato a vendere dischi. Secondo l'opinione generale, appena Johnny Marr ha staccato il cordone ombelicale mi dovevo sgonfiare come un palloncino.» C'è poco compiacimento in questa pacata affermazione, ma forse non guasterebbe. Dopo lo scioglimento di quel prolifico sodalizio, Morrissey è rimasto, come sempre, semplicemente «Morrissey», mentre è il chitarrista Johnny Marr, dato per certo come talento di grande avvenire, a portare su di sé l'etichetta di «ex Smith» mentre languisce tra i rami cadetti del rock, un Jeff Beck degli anni novanta, diciottesimo pretendente al trono dei Traveling Wilburys. Già nell'ultimo album degli Smiths, Strangeways Here We Come, c'erano forti indizi che Marr avesse ormai spolpato fino all'osso la sua collezione di dischi e Morrissey potesse cercare proficuamente nuove cornici per i suoi distici raffinati e le sue emozioni nervose. Considerando la prodigiosa produzione degli Smiths, tuttavia, per Morrissey sono stati due anni di allarmante tranquillità. Il periodo dopo Viva Hate è stato segnato soltanto dalla sporadica uscita di quelli che il cantante ha definito «singoli estemporanei» Non sarà che per il nuovo album in studio, Kill Uncle, dovremo ricorrere alla spinosa espressione «ritorno sulle scene» ? Be', non sono andato da nessuna parte, ma immagino che qualcuno lo giudicherà un nuovo inizio. Come definiresti, domando, i progressi fatti rispetto a Viva Hate? Mi sembra un disco decisamente migliore, soprattutto dal punto di vista dei testi. Al di là di questo non ti so dire molto, perché in fondo è sempre la mia voce, ed è la sola che ho. Anche l'assetto musicale è rimasto molto tradizionale.

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Ti senti mai limitato da questa ortodossia? No, assolutamente. Non ho nulla da spartire con l'industria discografica. Non possiedo strumenti né amplificatori. Non ho uno studio di registrazione nel seminterrato. Allargare i confini musicali non mi interessa affatto, mi limito a seguire un istinto particolare. Che non dipende tanto dalla musica, quanto da altri aspetti come la voce e le parole. Capisco perfettamente la struttura di una canzone, ma da qui a creare una nuova forma musicale che non si è mai sentita prima... Pensavo però alle differenze tra i metodi di produzione. Gli Smiths non hanno mai avuto una produzione particolarmente curata, ricercata, questo non significa che i dischi fossero brutti, ovviamente, perché così non è, ma quando riascolto la discografia degli Smiths spesso mi capita di sobbalzare e maledire il fatto che tante volte siamo stati costretti a fare le cose in condizioni piuttosto difficili. Non dirmi che dopo un paio di album di successo non potevate pretendere un minimo di lusso? Veramente no, perché eravamo terribilmente impazienti e fin troppo disponibili, perciò ti mettevi al lavoro appena aprivi gli occhi. Solo dopo ti rendi conto che le cose potevano andare meglio. Come presumo accada oggi. Sì, mi trattano senz'altro in modo più decente. Ti riprendi quello che ti spetta, insomma. Be', era anche ora. Nonostante la tendenza ad attingere a un'ampia sfera di riferimenti musicali risulti a volte esasperante, Morrissey è certamente uno degli autori prodigio del nostro tempo, e può legittimamente rivendicare il merito di aver ampliato il vocabolario poetico della canzone pop, trascinandola in un regno finora inesplorato di parrucchieri in fiamme e ragazze in coma. Per non parlare di tutti gli altri argomenti scabrosi e tabù che ha affrontato. «Non so perché siano tabù… Non me lo spiego. Sono argomenti estremamente reali.

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Non mi è mai capitato di ricevere delle direttive, ma ovviamente si sa in che tipo società viviamo, e si sa che cosa può irritare. Qualsiasi cosa di vagamente reale tende a mettere in agitazione.» Ci sono altri colleghi degni della tua attenzione? Sì, qualcuno ce n'è. Avevo una grande passione per Paul Weller. «Mi sono abbastanza calmato, dopo gli Smiths», afferma Morrissey. «Non smanio più come una volta e ne sono molto felice. Direi che ho trovato un certo equilibrio.» Contemplando il curatissimo giardino di Villa Morrissey, alla periferia di Manchester, mi domando se questo recente appagamento non rischi di compromettere la sua vena creativa. «No, perché compio ancora l'errore madornale di credere che i dischi siano la mia vita. Ma ultimamente vorrei essere un po' più metodico. Mi rendo conto di avere un pubblico che magari vorrebbe vedermi in televisione molto più spesso, ma riesco a organizzare le cose soltanto se vengono spontanee. Non concedo nulla allo spettacolo, assolutamente nulla. A volte mi stupisco di quello che riesco a fare, se penso a quanto sono distante da quel mondo. Non mi sembri molto convinto...» Certo, il discorso sull'isolamento ha sicuramente un fondo di verità: non si può far a meno di sentire storie su Morrissey che rompe amicizie e lo fa «in grande stile». «Sono una persona di gran classe, sai: mi piace fare tutto in grande stile. Ma quando tronco i rapporti con qualcuno di solito ci sono di mezzo beghe contrattuali.» Sicuramente, provo a chiedere, il patrimonio accumulato ai tempi degli Smiths, sommato ai quattrini della major discografica di oggi, avranno modificato significativamente il punto di vista dell'uomo che una volta scavava nella miseria piccolo borghese in cerca di preziosa verità. «Non ho uno stile di vita esotico. Tutti pensano che basti un minimo di fama per far parte automaticamente della comunità dei vip, ma è inutile dire che io non ho compilato moduli di adesione. O meglio, sì, ma è stato rifiutato.» Una cosa che sicuramente non impensierisce Morrissey di questi tempi è creare polemiche a effetto per i giornalisti. Una manciata di recensioni non troppo positive sui quotidiani pop britannici hanno portato a un vero e proprio embargo sulle interviste, privando gli apostoli di Morrissey

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delle epistole epigrammatiche che una volta dispensava con regolarità. «Le ultime volte in cui sono stato intervistato c'è stata enorme cordialità tra me e il giornalista, eppure quello che esce sulla stampa è di solito poco piacevole, per colpa delle recenti tendenze. Credo che in Inghilterra la simpatia per la mia persona sia leggermente svanita. Penso ci sia una regola generale: hai un certo tempo a disposizione, dopodiché tocca un altro. La qualità dell'opera non conta: quando hai il vento a favore puoi fare anche dei dischi pessimi, per dire, ma avrai comunque recensioni entusiastiche. Poi ti capita di fare dischi in un momento diverso e nessuno ti fila più.» Sicuramente è stato Morrissey a stabilire il tenore del suo rapporto con la stampa, vista la sollecitudine, al minimo stimolo, con cui lancia battute piene di fiele contro gli effimeri talenti del giorno. Non sarà che fare la parte dell'intrattabile alla fine gli si è ritorto contro? Veramente no, perché se dici "Non m'interessa", oppure "Non ho opinioni su...", si dà subito per scontato che stai perdendo colpi e non sei in sintonia coi tempi come dovresti. Non sono obbligato a tenermi aggiornato, e non mi sento a disagio se non so una cosa. Non me ne frega niente di essere al passo coi tempi e con le mode. Prima dell'attuale morsa della stampa, una costante delle interviste a Morrissey era la chiamata all'insurrezione, l'appello alle giovani generazioni perché prendessero le armi e imponessero la propria egemonia, un colpo di Stato estetico come quello che lui e i suoi compagni del punk avevano ordito in passato. Ma chissà, a giudicare da gruppi come gli Happy Mondays, gli Stone Roses e la loro progenie in perenne espansione, sembra che l'invocata rivoluzione sia finalmente arrivata, con epicentro, ironia della sorte, proprio nella sua amata Manchester. O no? «Sono tramortito dalla delusione» dice Morrissey con il consueto understatement. «Sinceramente non mi pare che i dischi siano un granché. Anche se è difficile giudicare quando c'è tanta grancassa pubblicitaria. Come se a un certo momento la stampa musicale, da cui è partito tutto, avesse deciso di creare un fenomeno per allungare la vita ai giornali, visto che in quel periodo c'era un grande piattume.» Con questi vergognosi sviluppi sulla soglia di casa, sarebbe difficile criticare Morrissey

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per aver imboccato semplicemente l'unica via d'uscita rimasta a un gentleman inglese. Ebbene sì: una tournée americana. Nonostante il rovescio di fortuna nel Regno Unito, la sua stella ancora in ascesa oltreoceano, dove i fan serbano ricordi confusi dell'ultimo trionfale tour degli Smiths nel 1986. Attualmente, le lettere dei fan «più toccanti» hanno un timbro postale americano, mentre lui descrive come «veramente emozionante» l'esibizione in diretta dello scorso anno alla radio di Los Angeles KROQ. Morrissey appare sul punto di avere un impatto significativo sul mercato discografico più grande del mondo, eppure la prospettiva non sembra esaltarlo più di tanto. «Volevo assolutamente essere un artista pop inglese, con tutto me stesso, ed è quello che sono diventato. Volevo solo il successo in Gran Bretagna perché non viaggio molto volentieri, quando entro in un aeroporto mi vengono i crampi allo stomaco; non sono capace di fare una valigia, e non lascio molto spesso l'Inghilterra. Perciò l'idea di fare il giro del mondo con un paio di pantaloncini da ciclista di lycra addosso non mi attira molto.» Presumo che prima o poi dovrai affrontare anche questo, nella tua carriera solista... Be', sì. Ma senza i pantaloncini di lycra. Abbigliamento a parte, ti spaventa il pensiero di una sfacchinata del genere? No, no, non mi spaventa, anzi, mi piacerebbe. Solo che mantenere il controllo personale sulla situazione è molto faticoso. Questo significa che non hai molta voglia di farti tutta l'America? Mah, tutta... al massimo arriverò in Connecticut. Non penso che facendo una tournée americana diventerò all'istante uno degli artisti più venduti al mondo. Non potrei mai richiamare masse enormi e soffocanti, anche perché, tanto per cominciare, sono troppo intelligente. Anche se questo lo dici tu... No, è l'opinione di altri! Sono sicuro che se e quando andrò in America sarà un successo, ma non potrei mai diventare un'ottima rockstar americana. Purtroppo, Morrissey sostiene di non essere neanche lontanamente vicino a trovare

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quell'indefinibile «insieme di persone» con cui potrebbe intraprendere un tour in tranquillità. «È molto difficile perché non ho rapporti sociali e non mi passerebbe mai per la testa di mettere un annuncio. Perciò se non hai rapporti sociali e non metti annunci» s'interrompe ridendo «sei abbastanza limitato. Ho dei princìpi molto rigidi, regole di buongusto molto ferree sia per gli uomini che per la musica, e questo mi limita alquanto. O la situazione va bene oppure, come nella maggior parte dei casi, va male. Ricevo molte proposte da aspiranti manager, ma pare sempre che pronuncino male il mio nome o dicano qualcosa che non va. Non m'interessano geni dell'economia o gente che vuole impormi per forza al pubblico. Non sono mai stato imposto con la forza a nessuno e forse è per questo che il pubblico mi è rimasto fedele. Apprezzano il fatto che il mio successo fosse molto sincero.» Chi sono questi «fedeli» sostenitori che hanno tenuto a galla le fortune di Morrissey anche quando se ne pronosticava apertamente la bancarotta artistica e il declino commerciale? Non lo so, non ti saprei dire. Preferisco pensare che non siano tutti dello stesso genere. Non credo sia così. Anzi, sono molto sorpreso dallo stile di certe persone che mi seguono. Ovviamente, c'è anche l'immagine stereotipata del tipico fan di Morrissey. Sì, sì, il maniaco depressivo che non esce mai dal ripostiglio nel sottoscala. Ti risulta diversamente, invece? No. Scusa? Mi è sembrato di sentire... Sì, certo. Allora sono persone normali? Sono restio a usare la parola normale, ma visto che l'hai fatto tu, sì. Gente comune... Morrissey pensa di avere un ruolo importante nella vita dei suoi sostenitori, così come

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i New York Dolls e Patti Smith erano importanti per lui a suo tempo? Credo di essere più importante, perché innanzitutto vendo molti più dischi di quanti ne abbiamo mai venduti loro, e a giudicare dal tono delle lettere e delle conversazioni molti miei fan mi conoscono più intimamente di quanto conoscano i loro stessi amici. O meglio: credono di conoscermi in modo più intimo, anche se in realtà non mi conoscono affatto. Non lo trovi un po' sconcertante? È una situazione molto delicata. Mi mette molto a disagio, perché ho l'impressione che se dovessi storcere il naso quando ne incontro uno la notizia farebbe il giro di mezza America. Ormai avrai accettato il fatto che per molti di questi fan ossessivi il sesso è una parte importante del tuo fascino. La tua indisponibilità, spesso ribadita, serve ad accentuare questo aspetto? Non credo che lo incrementi, credo che ne faccia parte. È l'aspetto della confessione a farne parte. Rivelare con assoluta franchezza i sentimenti più intimi credo sia abbastanza inconsueto. Se qualcuno mi dice che fisicamente sono quello che ha sempre desiderato, io semplicemente non ci credo. Se non mi conoscono di persona, come avviene di solito, diventa un discorso astratto. Di certo,mai e poi mai, nemmeno nei momenti di massima presunzione, mi sono sentito un sex symbol. Ma per qualcuno lo sono. ipeti spesso che l'energia che altri prodigano per l'amore e per il sesso, tu la metti nel tuo lavoro... È assolutamente vero, perché l'essere umano è in grado di concentrarsi solamente su una cosa... in linea di massima. O vai da una parte o dall'altra. Considerate le propensioni intellettuali di Morrissey e la sua nota avversione alla musica dance, lo ha infastidito vedere l'ex complice Johnny Marr collaborare con gli Electronic? Non ho chiuso occhio per tre notti al pensiero (commenta sarcastico) No, non mi pare mi sia passato niente per la testa. Non controllo i movimenti di Johnny.

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Continuando su queste dolenti note, Morrissey lamenta la scomparsa di un altro bene molto magnificato: l'inglesità. L’Inghilterra non è più Inghilterra in alcun senso della parola, si è internazionalizzata, e basta guardarsi in giro per cogliere questa clamorosa evidenza. Il popolo inglese non ha più la forza necessaria per difendere il suo senso della storia. Il patriottismo non conta più niente. Perciò, credo che l'Inghilterra sia morta. L’anno scorso i suoi sentimenti anglocentrici hanno trovato un'eco inaspettata nel luogo più improbabile: «L’unica volta in cui la signora Thatcher ha fatto una dichiarazione sensata in tutta la sua carriera è quando ha difeso la sterlina. È uscita dal Parlamento subissata di risate». E qual è stata la reazione di Morrissey quando la Lady di Ferro è stata finalmente spedita alla rottamazione? Non è la reazione che ci si aspetterebbe da me. Il modo in cui è stata letteralmente decapitata in pubblica piazza mi è sembrato scandaloso. L’ho trovato sorprendentemente poco inglese e molto strano. Scusa un attimo: ma in tutti questi anni abbiamo sempre frainteso Margaret On The Guillotine, allora? Le sue politiche per me erano opera del demonio. La ritenevo una donna puramente e volontariamente malvagia. Ma non si può negare che fosse un fenomeno, e non si poteva fare a meno di discuterne sopra le righe. La bestialità non sta nel fatto che l'abbiano decapitata, ma che non sia stata sostituita con efficacia. Credo che nessuno possa immaginarsi John Major come Primo ministro: non ha neanche un aspetto umano. Con mia grande vergogna riporto una voce che circola riguardo la vita sessuale dell'apparentemente privo di personalità Major. Be', è la prima cosa interessante che sento dire di lui. Allora merita di essere Primo ministro. Mentre metto le galosce per ritornare a piedi al centro di Manchester, domando a Morrissey se ha avuto già occasione di vedere The Krays - I Coroi, la biografia in celluloide dei gangster gemelli londinesi citati nella raffinata The Last Of The Famous International Playboys. Non l'ha visto, ma è incuriosito dal suo contenuto. Viene fuori che Morrissey a sua volta è stato citato da Reggie Kray nel libro che ha pubblicato di

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recente. Estrae il tomo dalla sua invidiabile libreria e mi mostra il passo in questione: «Nel gennaio del 1989 uscì perfino un singolo di successo che parlava di noi, The Last Of The Famous lnternational Playboys di Morrissey. La melodia mi piaceva, ma il testo nel complesso era un po' carente. C'era andato abbastanza vicino... «La mia solita fortuna!» sospira Morrissey. «Non riesco a evitare le critiche.»

Spin aprile 1991

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Morrissey esce allo scoperto! (Per un drink) Stuart Maconey

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A giudicare dall'aspetto, le voci di una sua morte sono state di gran lunga esagerate. Se ne sta distrattamente seduto su uno sgabello, sorseggia boccali di Pils e sorride. È una figura inconfondibile, anche se si notano dei particolari insoliti: la birra, lo smalto magenta sulle unghie, la T-shirt, su cui campeggia l'immagine di un paio di gambe con i jeans arrotolati a metà polpaccio per mostrare un paio di spaventosi anfibi Doctor Martens a sedici buchi, e la scritta «Skins: Alive and Kicking». È seduto al centro di un gruppo di gente allegra e chiassosa. Potrebbe essere una qualsiasi comitiva del sabato sera che fa bisboccia nel bar. E invece no. «Questo è quel che s'intende per entourage» dice scherzando, indicando il gruppo che lo circonda con un ampio gesto della mano; il giornalista, l'addetto stampa, gli assistenti personali e, alla sua destra, la band: quattro ragazzotti con il ciuffo sulla fronte, tatuaggi e pantaloni a tubo, che si godono la birra e l'atmosfera, identici in tutto e per tutto ai personaggi di quei film su cui Morrissey ha costruito la sua iconografia: Sabato sera domenica mattina, Sapore di miele, The Leather Boys. Lui sembra perfettamente a suo agio. Anzi, se non fosse per la conversazione che gravita naturalmente e nervosamente attorno a lui, per gli occhi che schizzano facilmente verso di lui, per il peso in più che portano le sue parole, Morrissey potrebbe essere tranquillamente «uno della combriccola». Una sera di primavera a Berlino. Una serata libera per Morrissey, il personaggio più interessante nel mondo della musica e l'uomo su cui è obbligatorio avere un'opinione. Vi garantisco che nulla, neanche l'ultimo disegno stampato sulla maglietta dei Manie Street Preachers, può incendiare il NME di iperboli, insulti, calunnie, accuse e minacce quanto questo uomo. Per alcuni è un damerino mistificatore con delle pretese impossibili, per altri un dio decaduto che ora mostra i suoi piedi d'argilla. Per pochi, invece, è un talento enorme e capriccioso e rimane uno dei tesori più preziosi della musica pop. Ho detto poco? Non faccio mistero di appartenere a quest'ultimo partito. La croce che Morrissey deve portare, ovviamente, è quella di aver fatto parte del più importante e originale gruppo pop inglese dai tempi del punk, un gruppo che ha cambiato le opinioni di un'intera generazione sull'essenza dei dischi pop, sul loro significato e sul posto che potevano occupare nella vita (Qui ci sarebbe da fare una grande battuta su Ed Banger e i Nosebleeds, ma non ho il coraggio di dirla). I fan degli Smiths, ovviamente, vengono inesorabilmente derisi dalla lobby del rock in

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servizio permanente effettivo. Quando i ragazzi bianchi scoprirono la musica dance nel 1986, i fan degli Smiths finirono per diventare l'immagine del ragazzino «indie»: tappezzeria anemica e provinciale nell'immaginario dei neoconvertiti al culto del rave. Pregiudizi come quello avevano perseguitato gli Smiths a ogni passo dopo Panic e tormentano Morrissey tuttora. Per lui è una storia finita, ma sia gli amici sia i nemici non intendono seppellirla. Solo uno sciocco può giudicare Ouija Board, Ouija Board superiore a This Charming Man, ma, allo stesso modo, solo un cretino non si renderebbe conto che Suedehead o Driving Your Girlfriend Home, o l'imminente singolo Pregnant For The Last Time danno del filo da torcere a Never Had No One Ever o Death Of A Disco Dancer. Ma ritorniamo a Berlino. Il tour europeo di Morrissey, baciato da uno strepitoso successo, volge al termine dopo accoglienze entusiaste a Dublino, Parigi, nei Paesi Bassi e a Colonia. In calendario ci sono altre tre date in Scozia e poi a seguire un tour di due mesi negli Stati Uniti, che culminerà con un'esibizione al Madison Square Garden. La sua stella è ancora in grande ascesa dall'altra parte dell'Atlantico, come conferma il fatto che i quindicimila biglietti per il concerto al LA Forum di Los Angeles siano andati esauriti in meno di un quarto d'ora. A questo si aggiunga che i primi brani realizzati con la nuova band, smentiscono clamorosamente chi lo dichiarava ormai morto, e forse capiamo perché chi gli sta attorno afferma di non averlo visto così di buon umore da anni. Morrissey non ha mai voluto essere un artista solista e non ha mai tentato di nascondere il suo dolore per la morte degli Smiths. Ma adesso guarda avanti, con buon umore ed evidente piacere, e bisogna essere proprio strani, per non dire stupidi, per negarlo. Mentre la notte cala su Berlino, ci accomodiamo in una stanza d'albergo diversi piani sopra la città. Quella che segue è una generosa fetta della nostra conversazione, riportata quasi alla lettera in ragione del fatto che preferirete sicuramente ascoltare la sua voce, piuttosto che la mia. Allora, come va la vita «on the road»? Mah, sto come mi vedi, bene o male che sia. Se lo facessi di mestiere, dio santo, lo troverei deprimente. Però c'è qualcosa di magistrale in questo travolgente passaggio europeo. Me se qualcuno avesse la temerarietà di descrivermi come una «rockstar» gli

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sputerei dritto nell'occhio. Sono quegli strani momenti frammentati a dare un senso a tutto. Ieri uno mi è passato sopra la testa con una bicicletta. Mi stavano scattando una foto sdraiato sul marciapiede, con gli occhi rivolti al cielo. E mi hanno investito con la bicicletta, così non sapevo se prenderla e gettarla nel Reno, o come accidenti si chiama, oppure fare il signore, cosa che peraltro mi riesce benissimo. Adesso finalmente capisco lo stato d'animo dei cosiddetti «hooligan». E vorrei aiutarli come posso. (ride) Perché hai deciso di fare un tour adesso? Mah, potevo partire in tromba anche due anni fa ma non sarebbe stata la scelta giusta. Sarebbe mancato l'amalgama con i musicisti che mi accompagnavano. E il mito degli Smiths mi stava ancora avvinghiato alle caviglie come alghe bagnate, mi impediva di muovermi... poi all'improvviso è sparito tutto. E ho conosciuto dei musicisti che, be', mi hanno fatto vedere la luce e mi hanno reso molto soddisfatto di quello che sto facendo. E così eccomi qui! «Vedere la luce» mi sembra un'espressione decisamente forte. Devi ricordare che ero perseguitato in modo orribile dall'assurda ombra degli Smiths. E mi sono arrabbiato. Per anni ho dovuto conciliare il genio, o la grandezza, degli Smiths, con i giornalisti e con il pubblico. Ne sono uscito con le ossa rotte. Ma dopo la fine prematura del gruppo, sembrava che tutti quanti volessero analizzare, nei minimi particolari, ogni retroscena degli Smiths. E mi sono infuriato. È la temuta nostalgia. Non tenere in conto una cosa finché non c'è più. Se vuoi dire che non ti va di parlare degli Smiths, certo che è possibile. Al momento reputo gli Smiths un gatto morto che va seppellito in una scatola di scarpe in fondo al giardino. E questo non significa sputare addosso a chi magari dovesse entrare qui con una maglietta degli Smiths. Questo non lo farei mai. Ma il mio passato mi nega quasi un futuro. L’ironia è che, ai tempi, mi accusavano sempre di essere immerso nel passato, tra Will Hay e i New York Dolls. Oggi che invece voglio parlare del presente, i giornalisti continuano a chiedermi del passato. Un curioso capovolgimento. Quindi, per quanto riguarda gli Smiths, ho indossato l'elmetto... e impongo l'oscuramento.

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I tuoi fan rappresentano una categoria a sé? Direi di sì. Sono un gruppo abbastanza atipico all'interno del pubblico pop. Non me ne vengono in mente altri, come loro. Se guardi il pubblico del pop, molto spesso riesci a intuirne le opinioni. Ma se guardi le persone che mi apprezzano, sono un fenomeno unico e strano... a parte quelli che mi hanno abbandonato! Ma riesci a capire che cosa li spinge a buttarsi sul palco e sfiorarti l'orlo dei vestiti? Se devo fare un ragionamento freddo e analitico, ti direi che succede semplicemente perché il mondo del pop lo permette. Se mi trovassi da Marks & Spencer e incontrassi cinque-sei di queste persone, sarebbero molto gentili. L’atmosfera di un palasport invece permette di esprimersi. Mi dicono tutti che sei molto su di morale in questi giorni. Mi do talmente tanti pizzicotti che le gambe sono diventate marroni di lividi. Sono paurosamente felice. Ogni cosa per cui ho lavorato negli ultimi ventiquattro mesi è venuta bene, e al cuore di tutto ci sono le quattro persone con cui collaboro, che spero non trascurerai. Sono essenziali per tutto quello che faccio e sono, anche se non mi crederai ˗ be', magari tra cinque anni sì ˗ sono i migliori musicisti con cui ho avuto la gioia di lavorare. Pensi sia vero che hai sfruttato le interviste meglio dei tuoi colleghi: per esempio, per proseguire un dialogo con i tuoi fan? Non necessariamente. So perfettamente che questa conversazione non è soltanto tra te e me. C'è qualcuno che origlia dal buco della serratura, e sappiamo entrambi chi è! Ma, sinceramente, la falsa intimità dell'intervista per me è sempre difficile da gestire. Un po' come apparire in televisione. Non è che dica cose non vere, ma sai quanto artificio c'è in un'intervista. Pensa alle interviste che fai per il NME!.. anzi, no. Sono sicuro che è troppo sordido! Secondo l'opinione generale, sei la miglior intervista del mondo. Oh, sei troppo gentile e scommetto una sterlina che questo non lo scriverai. Ma, per essere autocritico, sono giunto alla conclusione che questo è perché tutti gli altri sono dei mostruosi buffoni! Vista la concorrenza, è facile fare bella figura... o almeno brillare

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di luce propria. La stampa rock attualmente è obbligata a creare dei personaggi da un noioso branco di nuovi gruppi e artisti. Io non ci casco. È giusto dire che avevi una storia d'amore con la stampa musicale inglese che poi è finita male? È capitato, ma non è detto che debba per forza continuare così. Si è rovinato tutto nel settembre dell'89 quando mi sono semplicemente stancato di rispondere sempre alle stesse domande ripetute mille volte. In più il vento era cambiato e cominciavano a prendermi a pesci in faccia. Credo che nei media ci sia una precisa convinzione: hai cinque anni di tempo dopodiché pensano che siamo sicuramente ricchi e felici quanto basta per continuare senza la trivialità dei nostri affetti. Disprezzi i giornalisti adesso? No. Anzi, da piccolo avevo la grande ambizione di fare esattamente quello che fai tu adesso, ma per fortuna ho trovato qualcosa con un po' più di... libertà d'azione. Ci sono certi giornalisti che professano di reputarmi inutile e poi non riescono a compilare nemmeno il modulo di richiesta della patente senza citare il mio nome. Si vede che per loro conto più delle loro stesse madri. E con quell'odio incessante e poetico nei miei confronti, mi hanno reso importante. Al punto che non fa niente se Sing Your Life entra nella Top 30 o meno, o se le vendite dei miei dischi in Inghilterra diminuiscono o meno. Come valuti il tuo presunto «declino»? (ride) Be', un articolo sul mio «declino» finisce sulla copertina di ogni rivista patinata. Certo, se fossi sul serio in declino nessuno scriverebbe una parola su di me perché sarebbero troppo impegnati a scrivere di altri gruppi. Presumo che tu stia mettendo tra virgolette la parola «declino», e questo «declino», a quanto pare, è più importante di ogni altro gruppo o artista al mondo. E comunque, chissà perché, gli articoli che mi riguardano, elogi o stroncature che siano, non sono mai noiosi. È sempre una lettura piacevole. Ma tu stesso hai fatto riferimento ai «singoli estemporanei» che hai fatto uscire ultimamente. Non è un'espressione che li svilisce? No, non necessariamente. Li trovo molto divertenti, ma senz'altro è un umorismo

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reevesiano. Conosco Vie Reeves e mi ritrovo molto in lui. È una forma di follia. E noi abbiamo la fortuna di poterla esprimere in modo divertente e socialmente accettabile. Anziché follia, la chiamano eccentricità. Ce ne sono milioni come me in giro che vogliono cantare, scrivere e scavalcare il muro. Ma non lo faranno mai. Temo che il buco nella rete sia largo solo quanto basta per fame passare uno o due. E così, anche se mi si gelano le labbra quando lo dico, suppongo di essere uno dei fortunati. (ride) E cosa ti rende così speciale? Be'... perché tutti gli altri sono noiosi da morire, suppongo. Devo continuare? Se esamini la mia posizione, e so che l'hai fatto, vedrai che la posizione di Morrissey nel pop inglese è assolutamente centrale ma decisamente problematica. Sei una persona diversa dal ragazzo che cantava Hand In Giove? Sì, ho molta più fiducia in me stesso. Ho fatto tanto, direi. Ho fatto un enorme investimento emotivo sugli Smiths e qualcosa... be', qualcosa è andato leggermente storto, per modo di dire (soffoca una risata). I risultati che ho ottenuto da solista mi sembrano scandalosamente sottovalutati, mentre quelli di certi altri ex Smiths sono stati scandalosamente sopravvalutati. Forse nei miei confronti c'è stata meno simpatia perché sono sopravvissuto. Sono venuto fuori e ho mantenuto un seguito riconoscente e di notevoli dimensioni. Se fossi diventato un patetico sfigato che nel 1987 era finito a iscriversi nelle liste di collocamento nelle cupe viscere di Manchester Sud, mi avrebbero messo su un piedistallo irraggiungibile. Ritieni che ci sia stata slealtà nei tuoi confronti? Assolutamente sì. So che un sacco di gente vive di stampa musicale e quando leggono che Morrissey è un cumulo di macerie nell' angolo, se ne convincono assolutamente e ritirano il loro appoggio. Una parte del pubblico degli Smiths si è comportata così e mi ha abbandonato. Ma una fetta consistente è rimasta e di questo sono molto grato. Sono stato avvicinato da gente con la maglietta degli Happy Mondays e i capelli lunghi fino a terra che mi ha detto: «Così siamo infelici. Odiamo gli Happy Mondays. Non ci va di fare questo. Ma dopo di te non c'è stato più niente. Vorremmo che rispolverassi l'uniforme da battaglia». Perfino David Bowie, fra tanti, mi ha detto: «Devi tornare all'attacco». E io ho pensato: «Perché?». Ma ultimamente ho capito perché.

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E quale sarebbe il perché? (con enfasi) Perché è tutto di una noia mortale! Mi sono rotto le palle di prendere il NME e non conoscere chi c'è sulla copertina. D'altra parte, sai che sono un tipo all'antica. Sai che credo nel talento. Sai che ho degli standard e non li abbasserò certo per adeguarmi alla tendenza. Non mi spaventano le persone solo perché si presume che siano di moda. Credo assolutamente nel talento e non mi imbarazza dirlo, anche a costo di sembrare Eric Morley. E non ne vedi molto in giro...? Sai anche tu che quei gruppi di Manchester non sono un granché, o i loro contemporanei se è per quello, già dal modo in cui Radio One li ha lanciati con tanto entusiasmo. La censura del pop è in vigore, qui e in America, e io ne sono oggetto. L’altro ieri ho visto un programma americano in cui si elencavano gli artisti che si dovrebbero censurare, e dopo Ozzy Osbourne c'era la copertina di Kill Uncle. So di essere sulla lista nera, ma lo prendo come un onore, perché tutti i gruppi che hanno avuto qualcosa da dire sono stati censurati. I più grandi scrittori inglesi sono finiti in esilio, anche se non ho la sfacciataggine di inserirmi in quella compagnia. Sei francamente orgoglioso dei tuoi dischi solisti oppure pensi: «Be', quello era abbastanza buono, ma questo proprio non va»? Sì, ma l'ho sempre fatto. Quello che mi stupisce è il numero di persone che dicono che i miei dischi solisti non sono belli come quelli degli Smiths. È una logica che non applicano alle incisioni di nessun altro ex Smith. Perciò praticamente stanno dicendo: «Morrissey, riteniamo che gli Smiths fossi tu». Se do retta a tutta la baracca che mi circonda, pare che il mondo intero pensi che io fossi gli Smiths. Ed è un'ipotesi ragionevole? Sì, penso di sì. Stai dicendo che quell'indefinibile qualcosa che rendeva gli Smiths più speciali di ogni altro gruppo, sostanzialmente fossi tu? Se la metti così sarei d'accordo con te. Ma non voglio entrare nel perché e nel per come degli Smiths perché sarebbe bello seppellire quel gatto morto di cui ti parlavo prima.

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Credi di aver esercitato un influsso? Hai davvero, come ho letto di recente, «ampliato il vocabolario della canzone pop»? Oh sì. Sento la mia influenza in certi gruppi moderni di successo, ma prima che me lo chiedi, non ti dico quali perché è giusto così. Anch'io sono stato fortemente influenzato da altri artisti. È affascinante e perfettamente ammissibile scavare nelle idee degli altri. Anzi, è vitale per la creatività. Ma che ne pensi del sound che impazza nelle classifiche pop di oggi? Non è la completa antitesi di quello che rappresenti tu? Oh, hai perfettamente ragione. Il bello è che nell'arco di vita degli Smiths la musica indipendente non veniva mai trasmessa di giorno alla radio. E sembrava che tutto questo fosse cambiato esattamente il giorno dell'amputazione degli Smiths. Quindi sì, sono addolorato per il successo di questo nuovo gregge... tranne i James. So quanto si sforzano. Il loro successo è il primo veramente meritato di tutti i nuovi gruppi di Manchester, anche se quando ho saputo che sarebbero andati al talk show di Wogan per poco non facevo cadere la teiera, inorridito. Ma mi pare che sia andata molto bene, se devo esser sincero. Ma il tuo genere di pop è morto? Sì. Circa centoventi anni fa, quando The South Bank Show ha prodotto un' «iniziativa» sugli Smiths, ho pronunciato una frase impercettibile sulla «morte del pop» e tutti hanno detto: «Oh, questo lo dici tu, lascia una possibilità anche a noi». Ma io credo davvero che sia morto e sepolto. Non c'è niente di nuovo, nessuno che dia un contributo autenticamente originale. Il pop inglese ha ceduto alle influenze americane, e non a quelle positive, ma quelle più basse, sciatte e ottuse. Lo trovo criminosamente triste. Ma continuo a sperare. Non è il «modo che ho scelto per guadagnarmi da vivere», per usare le tue parole. È una vocazione, alla peggio una malattia. A un certo punto ho anche pensato di sparire semplicemente nella Foresta di Dean... no, non quella foresta, un'altra! Adesso invece mi rendo conto che andrò avanti finché la EMI non sarà costretta a portarmi in un campo e fucilarmi. Ma non voglio far parte della bolla del pop. E lei non vuole me. L’industria non vuole sfiorarmi nemmeno con un dito. Come mai?

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Perché ho una voce terribile, naturalmente. Terza verità di Moz. «Ha una voce terribile», «è deprimente» ecc. Sono sicuro che qualcuno ti accuserebbe di essere deprimente anche se facessi un disco comico in tutto e per tutto. Oh, ma guarda che l'ho fatto, Stuart! Non hai sentito November Spawned A Monster? Agli inizi della carriera… Ma davvero? Una carriera? Detta così sembra che sia andato all'Ufficio di collocamento per chiedere se avevano dei posti da «tremendo piantagrane». Ai tempi degli Smiths hai fatto dei commenti e dei dischi esplicitamente politici: sulla famiglia reale, la Thatcher, ecc. Sei ancora «politico»? Mah, la tv la guardo di rado. Non leggo giornali. Mi sento completamente separato dal mondo della politica. Trovo sempre più difficile interessarmene. Quindi non ho speranze nella politica e, stranamente, l'«omicidio» di Margaret Thatcher è stato l'ultimo momento di interesse. John Major non mi dice niente. Della Guerra del Golfo non m'importava niente, né volevo saperne. Quindi sono certamente meno politico di prima. Certe canzoni come Asian Rut e Bengali In Platforms hanno spinto alcuni critici a tacciarti di razzismo. Be', certo, sono gli stessi che tremano all'idea che scriva di una persona costretta sulla sedia a rotelle. Non si può dire «asiatico» o «bengalese», a prescindere da quello che poi segue nel testo, a prescindere da ciò che vorresti dire in merito. Non sarei mai capace di essere razzista, anche se porto questa maglietta e anche se sono molto contento che un numero sempre maggiore del mio pubblico sia composto da skinhead con le unghie smaltate. E non sto scherzando, quello è veramente il pubblico perfetto per me. Ma non sarei mai capace di essere razzista, e chi mi accusa di esserlo fondamentalmente è la stessa gente che non sopporta la vista della mia persona. Non è il caso di concedergli la nostra attenzione. Possiamo tornare un attimo indietro? Il tuo pubblico perfetto sono gli skinhead con le

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n le unghie smaltate? Sì, stanno spuntando come funghi ed è molto incoraggiante. Come sai benissimo anche tu, il pubblico di tutti quei gruppi che arrivano dalla piccola isola di Manchester si veste con uno stile totalmente americano che trovo sconcertante. Perciò vedere una marea di skinhead con lo smalto sulle unghie... in qualche modo rappresenta la Gran Bretagna che amo. Non sarebbe orribile ritrovarsi «seguiti», per così dire, da gente che non volevi? Dovresti scoprirlo da te... In che senso gli skinhead rappresentano la Gran Bretagna che ami? Be', correggimi se sbaglio, ma mi pare che lo skinhead sia una creazione interamente britannica. Se mai mi dovesse chiedere un autografo uno che indossa quelle orrende scarpette da baseball dei Cure, lo interpreterei come un monito dagli Inferi che il sipario sta calando. Sarebbe il marchio a fuoco dell'Inferno. Aneli a una Gran Bretagna mitica? Forse. Ormai non c'è più di certo. L’Inghilterra non solo non domina più i mari, ma è addirittura affondata. E rimane soltanto un relitto. Ma tra quei resti splendono squarci di positività. Se non sei razzista, allora sei un patriota? Sì. Ho molte difficoltà a viaggiare. Mi manca l'Inghilterra. Ma le ultime interviste che ho concesso si sono concentrate soprattutto sul declino degli studi Ealing e di Alastair Sim. Do l'impressione di non fare altro che pensare dalla mattina alla sera alla fiera Europa di un tempo, ma non è affatto così. È un altro fantasma che bisogna esorcizzare, come quella diceria che i miei fan siano tutti pateticamente devoti Virginia Woolf che non sanno ballare. Qual è stato l’ultimo disco che ti ha entusiasmato? Ehm... Rockin' In The Cemetery di Ronnie Dawson. È il primo brano sulla cassetta che abbiamo messo. Ah, rockabilly. La tua presunta nuova passione! Be', ho dei vaghi ricordi di canzoni come Vicar In A Tutu, Shakespeare’s sister e

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Rusholme Ruffians e mi pare che nelle prime interviste parlassi di Elvis. Ingigantiscono sempre tutto. Se cito un artista rockabilly non ne consegue necessariamente che me ne vada in giro con pantaloni a tubo e un codino enorme. Trovo semplicemente che molto rockabilly sia entusiasmante, a differenza delle canzoni pop moderne. Come vorresti essere ricordato dai posteri? Se non suonasse troppo alla Malcolm Muggeridge, mi piacerebbe che dicessero che scrivevo col sangue, non con l'inchiostro. Sembro Malcolm Muggeridge? Alan Bennett? La mia reputazione mi precede e posso soltanto seguirla. E non è particolarmente studiata. Non sono mai andato da un agente teatrale. E dicano pure quello che vogliono, io ho vinto. In un certo senso, la battaglia è finita. È finita quando Viva Hate è arrivato al primo posto. tutto il resto è stato un fantastico bonus continuo. Quando Oliver Stone troverà il tempo di girare il film, sarai lusingato? Direi proprio di sì. E mi piace molto la tua idea di farmi interpretare da Dirk Bogarde. In fondo, Dandy Nichols è morto. E le altre, diciamo così, figure centrali del tuo dramma? Non ce ne sono. Ma se proprio insisti, sono sicuro che certi membri dei New Order sarebbero perfetti! Ami i tuoi nemici? Li comprendo. E poi do disposizioni perché gli spacchino la faccia. Ma quando vuoi vivere, come inizi, dove vai, chi hai bisogno di conoscere? Quando il miglior compositore e il miglio cantante/paroliere di una generazione si incontrano, volano inevitabilmente scintille. La dissoluzione degli Smiths ha lasciato sia Morrissey sia Marr improvvisamente soli, e tutti e due sono passati da una collaborazione all'altra, a volte anche spiacevole. Le uscite soliste di Morrissey hanno coinvolto una nutrita schiera di personale dietro le quinte: Stephen Street, Vini Reilly, Andy Rourke, Langer e Winstanley, Mark Bedford e ultimamente Mark Nevin. Questa mancanza di un collaboratore regolare, con cui fare «coppia fissa», ha destato una certa ilarità nella stampa musicale. E l'altezzoso sospetto non ha mai raggiunto vette così alte come

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quando Morrissey ha annunciato che la sua nuova band era una gang di ribelli rockabilly di Londra Nord, tra i quali l'ex Polecat Baz Boorer. L’entusiasmo di Moz per «la combriccola», come li chiama con una certa ironia, è palese. Quando la nostra intervista si conclude verso le undici di sera, ci diamo appuntamento al bar dell'hotel, ma prima mi ripete gentilmente ma con fermezza la richiesta di scambiare qualche parola anche con la band. Ci conosciamo tra un bicchiere e l'altro e immediatamente, per quanto sia dura la tua corazza di cinismo, il loro entusiasmo ingenuo ti contagia. Il passaggio dal circuito dei pub della capitale alle orde in delirio negli stadi europei è stato rapido; un cambiamento che li ha lasciati confusi e riconoscenti. Boorer è quasi una piccola leggenda nel mondo del rockabilly, mentre gli altri ˗ il chitarrista Alan, il bassista Gaz e il batterista Spencer ˗ sono quanto di più distante ci sia dallo stereotipo «indie». «Non siamo mai stati fan degli Smiths» dice Alan allegramente «e secondo me è uno dei motivi per cui ci siamo trovati così bene con Moz. Il fatto che stesse negli Smiths non significa molto per noi. Penso che questo gli faccia piacere, perché significa che lo prendiamo per quello che è, cioè un tipo in gamba, più che per il suo passato. Non vedeva l'ora di avere alle spalle una band, una vera band, invece di un mucchio di turnisti. E come band, ce la caviamo benissimo.» Per il batterista Spencer, gli anni dell'adolescenza implicavano «gli Who, i Kinks, Jimi Hendrix e le tumultuose scorribande con i mod e gli skin su Carnaby Street.» Per Gaz, era «il punk, lo ska e il rock'n'roll degli anni cinquanta». Hanno tutti una vaga consapevolezza che gli Smiths e Morrissey significassero qualcosa di smisuratamente speciale per un gran numero di persone, ma al di là di quello, come fa notare Gaz: «Mi piace molto quello che suoniamo sul palco. Ma non avevo mai sentito bene le cose di Morrissey prima. Se qualcuno me l'avesse fatto conoscere meglio, magari ci avrei preso gusto prima, ovviamente». Spencer non ha mai ascoltato gli Smiths, ma conosceva vagamente il nome. «Era il tipo di musica che se passava alla radio, spegnevo.» Anche Alan mantiene una posizione neutrale per quanto riguarda gli Smiths, ma ritiene che Bona Drag sia un ottimo disco. «Sono un grande fan del suo materiale più recente.» Si sono imbattuti in Morrissey tramite un «club rock di Kentish Town». A quello hanno fatto seguito alcune collaborazioni come turnisti e, alla fine, Morrissey ha deciso di usarli come band fissa. Il sound è grintoso, organico e chitarristico, ovviamente una sonorità che Morrissey adora. Spencer mi mostra le mani coperte di vesciche e mi ricorda, in modo surreale, che «l'unica velocità che conosco è "a tavoletta"».

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Boz è abbastanza pratico del mestiere. Dopo aver fatto del lavoro in studio con Morrissey prima di Natale, aveva sentito parlare di un tour ma non ci aveva più pensato fin quando non è stato richiamato in tutta fretta dalla moglie mentre guardava un vecchio veterano del blues a Bumley. «Mi ero appena preso un periodo di pausa dagli studi di registrazione dove lavoravo, ed eccomi qua! All'inizio vivevamo alla giornata, ma adesso pare che la band abbia un futuro.» Lavorare con tanti artisti, da Sinead O'Connor ai Deep House, lo ha reso abbastanza flessibile, ma riempie di lodi i compagni più giovani: «Considerato che finora avevano suonato soltanto musica rock, si sono adattati benissimo» . Tutti sono comprensibilmente felicissimi della scatenata reazione mostrata finora dal pubblico. «Un orgasmo multiplo» , per usare le parole di Spencer. Non sono minimamente imbarazzati dall'ovvia e intensa concentrazione degli spettatori su Morrissey. «Il protagonista è lui» dice Gaz. «Lo spettacolo è il suo, e io sono ben contento di farne parte.» Il «protagonista» arriva e prende posto al bancone, stroncando sul nascere ogni possibilità di vederlo già sotto le coperte per le dieci con una tazza di latte al malto, dei fiori schiacciati e una copia di The People's Friend. Invece, ci aspetta un geniale bevitore, sarcasticamente trascinato in una girandola di battute e simpatica cordialità. Preso dallo spirito di gruppo, tento di mettere in conto alla mia stanza un giro di consumazioni spaventosamente consistente. Oh, come rideva la nostra ostessa teutonica quando ci siamo ricordati che io alloggiavo in un altro hotel! Dopodiché i nostri ordini sono arrivati con glaciale velocità e sguardi di tacita disapprovazione, e così ci è venuto in mente di saggiare altri aspetti della vita notturna berlinese. La decadenza di Berlino deve essere ben nascosta di questi tempi, riflettiamo tra noi, mentre sfiliamo lungo le strade in cerca di emozioni. Moz e la cantante spalla Phranc fanno i buffoni per strada in maniera incoraggiante, fingono di picchiarsi, lottano giocosamente uno con l'altra, e generalmente si beccano con affetto. Qualcuno scorge delle luci stroboscopiche «da discoteca» in cima a un palazzo di uffici, ma senza ascensori funzionanti e nessuna scala visibile, possiamo solo restare lì sotto a immaginare l'orgia di depravazione in corso lassù. Qualcuno nota un uomo con un ciuffo sulla fronte, che immediatamente, e a mio parere erroneamente, viene subito preso per un maestro di stile, fine conoscitore della vita notturna. Ho ragione. Ci indirizza verso un postaccio spaventoso dove l'unico divertimento è vedere Moz che

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fa la fila con herren und frau per farsi mettere il timbro sulla mano. Dentro, giovani corpulenti giocano a biliardo mentre alcune ragazze palesemente dementi si trascinano svogliatamente al ritmo di una vecchia B-side di Donna Summer. È l'ultimo ricordo che ho della band. Spero sinceramente che siano usciti. Fuori, Franc si ricorda di un bel club accanto alla vecchia casa di David Bowie. Tragicamente, nessuno ricorda dov'è, ma conoscendo la precisione tedesca, probabilmente sarà su «Vecchiacasadidavidbowiestrasse». Quando la pizzeria storce il naso alla nostra presenza, il buon senso ci dice che è ora di chiudere la serata. Diverse domande rimangono senza risposta: sul futuro, sullo smalto alle unghie e sul perché i tedeschi mettano quei centrini di carta sul gambo dei bicchieri di birra, ma l'esuberanza di Morrissey è indubbia, sia per i fan sia per il cinico. Quando lo porteranno in quel campo per fucilarlo, Popstrasse sarà un posto infinitamente meno interessante.

New Musical Express 18 maggio 1991

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Oh la la! Adrian Deevoy

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«Monsieur Morrissey?» domanda perplesso il portiere dall'aspetto giovanile. «Un gruppo pop, non? » Di sopra, nella sua stanza al terzo piano di questo hotel parigino sfarzoso fino alla nausea, monsieur Morrissey, gruppo pop, ha appena ricevuto la grafica definitiva del suo nuovo lp, Your Arsenal. In copertina c'è una fotografia del cantante dal vivo, con la lingua di fuori e la camicia aperta (la cicatrice sullo stomaco è un gentile omaggio del Davyhulme Hospital), mentre scuote allusivamente il microfono all'altezza della patta. Morrissey la studia attentamente, poi la allontana a distanza di un braccio e strizza gli occhi con fare imperscrutabile ˗ sarà forse la miopia? ˗ per osservare meglio la sua immagine. «Che te ne pare? » chiede alla fine. Si può usare la parola «omoerotico»? «È questa l'impressione che ti dà?» domanda, inarcando un sopracciglio con aria divertita. «Sei il primo che lo dice e mi fa piacere.» Poi lo sguardo si fa pensieroso: «Qual era la domanda?». Be', una volta eri pelle e ossa e adesso sei diventato tutto muscoli. Che ti è successo? «Niente» alza le spalle con ritrosia. «È successo tutto all'improvviso, è stato un miracolo. Non ho seguito nessun corso di cybergenetica. Per una volta, la natura è stata generosa.» A giudicare dal titolo, sei ancora un cultore delle allusioni. «Non so proprio di cosa stai parlando.» Di Your Arsenal, veramente. «Non mi chiederai mica che cosa significa?» dice con aria sprezzante, per poi ammettere: «In parte, c'è qualcosa di piacevole nelle allusioni. Mi piace pensare che a volte siano fatte in modo abbastanza brillante. Di certo non sono stupide». E l'unico scopo della copertina è una diffusa eccitazione sessuale? «Ma via» sospira, evocando una battuta finale tipicamente morrisseyana. «E a che servirebbe?» Morrissey è en France e in piena forma. La sua carriera da solista ha appena superato di poco la durata di quella con gli Smiths. A volte dice di avere la sensazione che negli ultimi dieci anni non abbia fatto altro che scrivere, incidere e interpretare canzoni. Ma così facendo è diventato uno dei più acclamati cantautori britannici e sicuramente il paroliere più raffinato che abbiamo. La sua vita passata ˗ che è stata fonte di ispirazione (o di disperazione, direbbe lui con

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apparentemente inesauribile per le sue canzoni ˗ è stata recentemente passata al setaccio per una sorta di biografia non autorizzata dal titolo altisonante, Morrissey & Marr The Severed Alliance: The Definitive Story of The Smiths. Prima della sua pubblicazione, Morrissey ha rilasciato una dichiarazione come al solito decisamente sopra le righe, auspicando la morte immediata dell'autore, Johnny Rogan, in un tamponamento a catena sull'autostrada. Oggi, mentre il sole splende sulle rive della Senna, Morrissey è in vena di clemenza. Basta solo che Rogan faccia una fine lenta e dolorosa, dice sorridendo, e lui sarà felice lo stesso. È passato molto tempo dall'ultima volta che hai concesso un'intervista. Date al pubblico quello che vuole. Lo dico sempre. Pensi che il nuovo disco aumenterà il tuo appeal? Ci scommetterei una sterlina. A quanto pare hai una percezione molto precisa del tuo mercato. «Mercato» è una parola orribile. Mi fai sembrare Pete Beale. Ma sei consapevole della tua grandezza? Non ho le dimensioni esatte. (ride) Non ti senti eccessivamente protetto? È molto difficile contattarti. Ma io abito a Primrose Hill. Il servizio d'autobus è pessimo. Sono una persona molto riservata e protettiva. Non so cosa significhi essere una rockstar. Non vado in giro a comprare yacht con una guardia del corpo. No, sono fatto semplicemente così. È la mia personalità. Evitare gli altri? Non evitare gli altri, ma non ho tutta questa voglia disperata di fare presenza alle feste, ecco... Non ricevo neanche inviti, ma questo c'entra poco. Morrissey & Marr: The Severed Alliance. L'hai letto? Un mio amico ne aveva una copia, l'ho guardato di traverso per tre giorni dall'altra parte

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della stanza, ma poi la curiosità mi ha spinto a consultare l'indice. Giusto per vedere chi aveva parlato troppo. Sei rimasto traumatizzato? Certe cose mi hanno shoccato. Lo pubblicizzano come la storia definitiva degli Smiths. Ovviamente, l'unica storia definitiva degli Smiths è la mia, se mai verrà raccontata. Sembra che questo tipo ˗ Johnny Rogan ˗ essenzialmente abbia intervistato tutti quelli che ce l'hanno con me. Le persone che mi sono state accanto negli ultimi dieci anni non le ha neanche avvicinate. Poi ho visto altre recensioni e mi sono rattristato, perché dicevano tutte «Finalmente! Ecco la verità! Quante informazioni portate alla luce!». Sostanzialmente, per tre quarti sono palesi bugie. Il resto è abbastanza veritiero. Quando è stato pubblicato il libro ho rilasciato una dichiarazione che diceva: Chiunque compri questo libro vuole mettere alla prova la sua intelligenza. Per quello che posso dire, viste le cifre di vendita, ce ne sono parecchi che hanno bisogno di mettere alla prova la loro intelligenza. L’ha comprato un sacco di gente e ovviamente tanti crederanno a quello che leggono. A maggior ragione spero che l'autore muoia nell'incendio di un hotel. Presumo che ti sia stato proposto di contribuire al libro. Be', ovviamente Johnny Rogan va raccontando alla stampa di avermi contattato. Non l'ho mai incontrato e non c'è stata nessuna conversazione. Una sera è squillato il telefono e lui ha detto «Sono J...», al che ho messo giù. Mi ha scritto varie lettere nell'arco di tre anni, ma a stento le ho aperte. Ha contattato tua madre? Il libro non è troppo lusinghiero nei suoi confronti. Sì, l'ha contattata, ma lei non ha voluto saperne. Questo Rogan non ha sentito nessuno della mia famiglia. Ha parlato solo con persone ai margini della vicenda e con Johnny Marr. Poi, dopo che l'aveva intervistato, ne ho discusso con Johnny Marr e lui si è pentito di avergliela concessa. Tua madre l'ha letto? No. Basti dire che se avesse un bastone fra le mani...

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I testi di Your Arsenal sembrano meno nevrotici e impacciati. È dovuto a dei cambiamenti dell'autore? Non so, glielo chiederò... Comunque sì. Non volevo usare un testo scritto. Volevo fare un disco quanto più fisico possibile, invece di starmene continuamente raggomitolato ai piedi del letto. Sei più a tuo agio con te stesso? Sì. A dire il vero sono a metà strada verso i sessantasei anni. Non posso essere classificato come particolarmente giovane. Il tempo è passato e non sono più la persona di una volta. Penso di essere cambiato, per certi aspetti. Forse il mondo in cui vivo non è più angusto come una volta. Noterai che ho detto «forse». Non ne sono del tutto convinto. (ride) Sei sempre stato ossessionato dall'incedere del tempo, vero? Tantissimo. Lottiamo tutti quanti contro il tempo, ciascuno a suo modo. Io tendo a... farmi un panino al formaggio e rilassarmi. Tutto si risolve. Il tempo passa. Verrà il giorno in cui io e te non saremo più su questa terra. Credo che chi ha questa consapevolezza del tempo, e quindi un'urgenza, sia una persona assolutamente affascinante. Com'è cambiato il tuo atteggiamento nei confronti della morte? Ti hanno accusato di irriverenza nei confronti del passato. Di più. Mi hanno accusato di prestare troppa attenzione alla morte in genere. Ho insistito leggermente sull'argomento, ma che male c'è? È una questione abbastanza seria. Ancora una volta hai scherzato pericolosamente con il razzismo nella nuova canzone The National Front Disco. Mi piace pensare, nel mio piccolo, di limitati. Se decidi di scrivere di persone costrette sulla sedia a rotelle (November Spawned A Monster) o di affrontare il tema del razzismo (The National Front Disco) il contesto della canzone viene spesso trascurato. Tutti guardano il titolo, rabbrividiscono e dicono che qualunque cosa ci sia in quella canzone non dovrebbe esistere perché è un argomento che per milioni di persone è spaventoso.

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Credi che il razzismo sia innato, nelle persone? Sì. Non voglio sembrare spiacevole o pessimista, ma non credo proprio, per esempio, che i neri e i bianchi riusciranno mai ad andare d'accordo o a piacersi. Non credo succederà mai. I francesi non ameranno mai gli inglesi. Gli inglesi non ameranno mai i francesi. Il tunnel sotto la Manica crollerà. La canzone We'll Let You Know sembra solidarizzare con gli hooligan. È così? Be', hanno decisamente un gran gusto in fatto di scarpe. (ride) Capisco il livello di patriottismo, il livello di frustrazione e quello di esultanza. Nel complesso, li capisco. Capisco la loro aggressività e capisco perché devono sfogarla. Non sarà semplicemente che Morrissey ha trovato un altro argomento destinato a suscitare polemiche? È difficile da credere, ma non è così. Non lo so spiegare in modo dettagliato. Quando vedo dei servizi al telegiornale sulle violenze degli hooligan in Svezia, in Danimarca o altrove, a dire il vero mi diverto. È una cosa così brutta da dire? Si potrebbe interpretare come tale. Finché non ci scappa il morto, la cosa mi diverte. In questo disco piangi ancora la morte dell'«inglesità». Come sempre, no? Sono fatto così. Fa parte della mia indole complessiva. Non riguarda soltanto questo disco. Probabilmente qualche anno fa avrei parlato in tono più scontroso di questa grande tradizione che muore. O meglio, è morta. Queste sono le macerie, ormai. C'è bisogno di una guerra per riaffermare la nostra identità? Credo che ce ne sia già una. Io non voglio essere europeo. Voglio che l'Inghilterra rimanga un'isola. Parte della grandezza del passato è dovuta al fatto che l'Inghilterra fosse un'isola. Non voglio il tunnel sotto la Manica. Non voglio che la sterlina sparisca. Non voglio che i conduttori televisivi britannici parlino con un accento americano. Non voglio la televisione europea. Ma questo non vuol dire che sono un povero scemo che vive in una capanna e mangia paglia. Non vengo da un'altra epoca. (ride) Anzi, sono

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assolutamente moderno per certi aspetti. Da vecchio fan della musica pop, che ne pensi della sua condizione attuale? Di fatto, il pop è morto. È finito. Secondo una teoria, è stata fatta musica a sufficienza. Esatto. Perché come forma d'arte ˗ e io non l'ho mai considerata altro, anche la componente più trash ˗ ha fatto il suo tempo. La musica dance ha messo fine al pop? Sì, decisamente. E non lo dico solo perché odio la musica dance. Non sarà che questo ragionamento significa semplicemente che stai invecchiando? No, questo non lo accetto. Non voglio sembrare ridicolo, ma una parte di me è sempre stata vecchia, e a dire il vero sono abbastanza intelligente per tenerne conto. È di più. È vero, effettivo deterioramento. Verrebbe da pensare che ormai hai riordinato la tua vita affettiva. Pensavo, e invece no. Ci sei andato vicino? Per niente. Per niente. So che c'è una comprensibile sensazione generale che, una volta passati i ventun anni, certe cose acquisteranno un senso, ma per una qualche curiosa piega del destino sono rimasto sempre sulla stessa strada.. Ti rendi conto che per la gente è difficile da credere? Be', per nessuno più di me! Spesso ho la sensazione che le cose debbano andare così per forza. Non dipende esclusivamente da te se hai una relazione con un'altra persona. O è una cosa reciproca, o l'altro decide che cosa succederà. E non lo fa. Hai delle opinioni sulla creazione di Vic Reeves, Morrissey la Scimmia Consumista? L’ho visto per una frazione di secondo e ho immediatamente provato disgusto per il suo creatore. Era fatta apposta per offendere. Ho incontrato Vic Reeves qualche volta e non

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e non è andata troppo bene. È uno che non riesce a tenere la bocca chiusa per tre secondi perché ha paura di disintegrarsi in una ciotola di polvere. Deve dire sempre qualcosa. Veramente disgustoso. Bob Mortimer, lui sì che mi sta simpatico. Dovrebbe sbrigarsi a uscire da quel duo. Senti quanto veleno? È come Tony Wilson che rilascia una dichiarazione per dire che sono una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Lui invece è un maiale intrappolato nel corpo di un uomo. Se dovessi scegliere tra l'uno e l'altro non saprei quale preferire. Ti ha dato del «coglione». Bah, lui vuole diventare la più famosa popstar di Manchester e deve calpestare chiunque ne minacci la posizione. Si è sempre circondato di gente che sa a malapena parlare e non rappresenta alcuna minaccia alla sua «personalità». Il giorno in cui qualcuno lo ficcherà nel bagagliaio di una macchina, porterà il corpo a Saddleworth Moor e lo abbandonerà lì, sarà il giorno in cui la musica di Manchester si ravviverà. Hai troncato ogni legame con Manchester? Fisicamente sono stato costretto. Sono stato obbligato ad andarmene perché avevo gente alla porta ventiquattr'ore al giorno, scavalcavano il cancello, bussavano alle finestre ed era diventata una situazione insostenibile, e così mi sono trasferito. C'è un ferocissimo senso di competizione a Manchester, inoltre. E quindi tanti personaggi vili e gelosi. Manchester, ti accettano finché sgomiti. e sei in ginocchio. Me se fai un minimo di successo o sei indipendente o uno spirito libero, non ti possono soffrire. Quando ripensi agli Smiths oggi, nei vai orgoglioso? Molte cose non mi piacciono, a dire il vero. Non mi piacciono le immagini, per essere sincero. Non mi piacciono i video e le riprese televisive. Non mi piace quello che vedo dentro di me. Non mi piace quello che vedo anche negli altri tre. Con questo non voglio essere severo. Ci sono un paio di canzoni che non mi piacciono. Anzi, non mi piacevano neanche all'epoca. What Difference Does lt Make la trovavo assolutamente orrenda il giorno successivo alla pubblicazione del disco. Non guardo indietro pensando che siamo stati perfetti in tutto quello che abbiamo fatto e detto. Però penso che poco più di metà della produzione, secondo me, è veramente... bella. È una parola sciocca?

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Billy Bragg ha detto che deve essere difficile essere Morrissey, questo favoloso e spiritoso personaggio goliardico, ventiquattr'ore al giorno. Oh, ma ogni tanto stacco. Stacco e mi faccio un tè. Ma il sottinteso è che Morrissey è un personaggio leggermente costruito. Be', io non m'infilo in un completo e provo un certo tono di voce, no. Non esiste un personaggio del genere. C'è solo quello che vedi da questa parte del tavolo. E adesso tu come ti sentiresti? A proposito di intrappolati! Secondo te perché provochi reazioni così estreme? C'è gente che ti odia davvero. Perché ho un'identità specifica. Ho un'idea molto chiara di quello che voglio dire nei miei testi e l'approccio che ho è semplicemente troppo diretto per la maggior parte delle persone. Una canzone come Interesting Drug parlava della cultura della droga, e credo che l'establishment del pop possa affrontare la cultura della droga nella sua forma presente perché non trasmette nulla. È molto vaga, fumosa. Hai mai preso l'Ecstasy? Sì, l'ho presa un paio di volte. La prima volta è stato il momento più incredibile della mia vita. Perché mi guardavo allo specchio e vedevo una persona molto, molto attraente. Ovviamente era l'effetto della droga, che poi svanisce. Ma per un'ora o giù di lì è stato incredibile, guardarsi nello specchio e apprezzare veramente l'immagine che mi tornava. Oggi anche se ho avuto quell'esperienza meravigliosa, e solitaria ˗ non era presente nessun altro ˗ non mi interessa alcun tipo di droga. Non mi scandalizzo, non ho nulla in contrario se altri le prendono, ma non fa per me. Proprio non m'interessa. Visto che sei periodicamente casto, come gestisci la voglia di fare sesso che sicuramente avrai? Sembrerà incredibile ma fino a ventotto anni (sussurra) non ho mai avuto voglia. Non ho problemi a dirlo, anche se mi rendo conto che risulterà ridicolo. Non l'ho mai fatto. Forse ero troppo preoccupato per qualcos'altro. E che cosa è successo a ventotto anni? Improvvisamente sono cambiato. Non so spiegare perché, ma le cose sono diverse

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adesso. Capisco addirittura che le persone abbiano dei rapporti fisici. E capisco perché ne hanno bisogno. A parte questo, hai altro da dichiarare? Soltanto i miei jeans. «Allora, Moz! Una birretta? » Non t'immagineresti mai di sentire qualcuno che si rivolge così all'unica mammoletta a livello olimpionico della Gran Bretagna. E mentre il chitarrista Boz Boorer si prepara a ordinare un giro di consumazioni in un rozzo francese, come risponde il suo datore di lavoro? «No grazie, bestione impomatato, ma vorrei tanto una tazza di Red Label e un pasticcino al cioccolato fondente.» «Quando arrivi a questa età devi accettarti per quello che sei. Grazie alla posizione che ho raggiunto, le persone mi tratano esattamente nella stessa maniera.» Con aria scoraggiata. «Non c'è mai nessuno che mi afferri e dica: "Andiamo nel quartiere a luci rosse, voglio farti vedere una cosa".»

Q settembre 1992

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Hand In Glove Andrew Harrison

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«Signore e signori... Ci siete? Signore e signori, a nome del personale e degli iscritti della York Hall Gymnasium vorrei ringraziare tutti voi per essere venuti qui ad assistere a quella che si preannuncia come una splendida serata di pugilato. Più tardi avremo per voi il campione britannico dei pesi mosca Francis Ampofo, lo sfidante dei pesi medi Derek Edge e il campione in carica dei supermedi britannici John «Cornelius» Carr, ma prima... » La luce del riflettore si sposta rapidamente dal ring a una sedia in seconda fila, dove una figura in giacca marrone scuro e camicia a quadri socchiude gli occhi e li nasconde. «...vorrei dare il benvenuto a un ospite d'eccezione che abbiamo qui stasera. Non solo un grande frequentatore degli incontri di boxe, non solo un amico della comunità dell'East End e di questa palestra in particolare...» La folla si volta e la figura si alza, avvolta dal fumo di sigaretta. È di media statura e di bell'aspetto, con le sopracciglia folte, le basette scolpite e la mascella da pugile. I capelli hanno visibili chiazze di grigio sui lati e sul bavero campeggia un enorme distintivo con la scritta «FAMOSO DA MORTO». «...ma forse il più grande artista del canto popolare che questo paese abbia espresso dai tempi di Lennon e McCartney. Sempre originale, inesorabilmente controverso e provocatoriamente in contrasto con la critica, è riuscito a conquistare l'America senza mettersi in ginocchio. Siamo onorati di averlo qui con noi alla vigilia dell'uscita del suo quarto e migliore album solista, Vauxhall And I. Signore e signori, vi prego di alzarvi tutti in piedi per salutare il nostro ospite d'onore, Steven Patrick Morrissey...» Naturalmente, lui sarebbe scappato a un chilometro di distanza se fosse andata così, e non ci sarebbe da biasimarlo. Non ci sono molti piaceri privati da godere quando si occupa la rara posizione in cui si trova Morrissey nel panorama intellettuale britannico, ma un incontro di pugilato il venerdì sera dovrebbe rientrare fra questi. Con tutto ciò, un paio di uscieri della York Hall, vicino Bethnal Green, sono rimasti incuriositi quando si è presentato sul posto per il servizio fotografico di Select, domandandosi: «Ma non è quello degli Smiths?». E in ogni caso, come mai quest'anima notoriamente sensibile si interessa attivamente a dei ragazzotti che si riempiono di botte imbrattandosi di sangue, muco e liquidi craniali? Che cosa avrebbe pensato il Moz pacifista di una volta? «A dire il vero è una cosa a cui mi sono avvicinato da un bel po'» ha dichiarato poi.

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«Non sono assolutamente un esperto di pugilato, ma lo seguo da abbastanza tempo per parlarne con cognizione. «Quello che mi attira è la passione, il romanticismo ˗ che ovviamente è enorme, come sa bene chiunque abbia assistito a un incontro ˗ ma è soprattutto l'aggressività che mi interessa. Mi fa scattare dalla sedia e dirigermi verso le corde per entrare sul ring. E mi dà un accresciuto senso di soddisfazione, perché nella mia vita ovviamente non c'è ombra di aggressività. C'è pochissima espressione fisica, a parte quando sono sul palco e canto. Altrimenti il corpo è saldamente sotto controllo. È un vascello, ma alla fonda con un'ancora molto pesante...» La domenica seguente, il giorno prima che esca Vauxhall And I, ho un appuntamento con Morrissey presso lo studio ospitato nell'Hook End Manor vicino Reading, dove lui e la band stanno registrando due B-side per il prossimo singolo tratto dall'album, Hold On To Your Friends. Un enorme complesso di stalle e cascine ristrutturate, nascoste in un dedalo di stradine sprovviste di indicazioni, Hook End è quasi un rifugio per Morrissey, anche se con una storia eterogenea: qui ha registrato sia il disastroso Kill Uncle sia il trionfale Your Arsenal. È una brutta giornata a Hook End. Il motivo, come sempre, la stampa. L’assistente personale di Morrissey che gli fa anche da segretario, Jake ˗ un ex pugile, con un taglio cortissimo da skinhead, una polo Fred Perry bianca e due occhi di un azzurro intenso ˗ è furioso per la «porcata» scritta da Julie Burchill sul Sunday Times di quella mattina. Ha dovuto farsi quindici chilometri di corsa «per sfogare la rabbia» dice, e mette in chiaro che la Burchill deve considerarsi fortunata di non essere un uomo, perché sennò... La devozione di Jake nei confronti di Morrissey non potrebbe essere più incrollabile. Mentre mi accompagna nel salottino dello studio, mi confida tutta la sua frustrazione perché non ha mai letto niente su Morrissey che riesca a comunicare la grandezza umana, oltre che il talento, di Moz, e aggiunge che non merita le cose che hanno scritto su di lui. E specifica che se quest'articolo è un colpo basso simile a quello della Burchill, farei meglio a guardarmi le spalle. La sala è grande e su uno dei tre divanetti c'è un giradischi con un avviso scritto a mano che recita:

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"NON LO USATE QUANDO MOZ DORME PERCHÉ ORMAI È VECCHIO E HA BISOGNO DI RIPOSARE" «L’ho scritto io, ma non lo leggere» dice Jake sorridendo mentre esce. Alain Whyte, chitarrista, corista e autore delle musiche, porta un vassoio con del tè e due biscottini lunghi ricoperti di cioccolato e lo posa sul tavolino. Quando osservo che Vauxhall è un disco fantastico dal primo all'ultimo brano, lui è quasi in imbarazzo e risponde dicendo che tutto quello che Morrissey ha fatto è assolutamente fantastico, come se fosse la prima volta che qualcuno si complimenta con lui. Un'idea bizzarra, considerando che ha composto lui anche gran parte dell'urticante Your Arsenal. Poi sparisce, e appare Morrissey. Si è detto spesso che Morrissey ha carisma, ma senza mai specificare quanto. È un campo di forza che irrompe nella stanza, un magnetismo personale di proporzioni quasi epiche, e se una cosa è certa, è che ˗ malgrado dichiari di essere antipatico ˗ lui lo sa. Qualunque sia il fascino che trasuda dal vinile, o il fascino rapace che emana sul palco, a quattr'occhi Morrissey è completamente diverso. Ha un bell'aspetto, molto bello, e per di più sta facendo quello che le popstar non sarebbero tenute a fare: migliora man mano che invecchia. Si stenta a capire come abbia fatto quel ragazzo smunto e segaligno nelle prime foto degli Smiths a trasformarsi in questo personaggio alla Gregory Peck. (Tè, Morrissey? Altroché.) Anzi, tra il pugilato, i ciondoli pesanti e i tatuaggi sulle copertine dei dischi a qualcuno potrebbe venire il dubbio che Morrissey stia sviluppando un lato da macho. «No, non è vero! Non ho assolutamente intenzione di trasformarmi in un maschiaccio di cinquantadue anni» dice, sputando fuori la parola mentre si adagia sul divano. «E non riesco a immaginare cosa ci sia di attraente, ma allo stesso modo non ho più legami con il gruppo di Studi Femminili della libreria Waterstones su Kensington High Street giorno e notte, come molti sembrano ancora credere. Il mondo in cui vivo è piuttosto ampio. Per esempio, quando posso e ne vale la pena, vado allo stadio. Soprattutto se posso entrare gratis.» Morrissey, ti nascondi dietro boutade e battute di spirito? Non lo considero spirito, per essere sincero. Penso di essere alquanto noioso, in realtà.

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Mi vedo più come un vecchio straccio da buttare. Non nego, per capirci, che se mi metti accanto ai Primal Scream me li mangio vivi ˗ e so che tu adori particolarmente come portano i capelli ˗ ma vicino a gente come loro non c'è competizione. Intellettualmente non c'è assolutamente più competizione nella musica pop! Sono tutti così noiosi! Inesorabilmente noiosi! Anche chi non viene considerato tale, mi annoia a morte. E posso perdonare tutto, tranne la monotonia. Non mi dire che è partita la sfuriata...? Ormai nel pop si guadagna facile. Nel 1994 è un lavoro che può fare chiunque, e da qui si spiega l'ascendente degli Suede nonostante il fatto evidente che non abbiano fatto alcun tirocinio. In questo momento, se hai capacità di resistenza, spirito d'iniziativa e grinta, il pop è a tua disposizione. E spero che qualcuno si faccia avanti alla svelta. Stai suonando la carica per gli Echobelly. In un mondo sano di mente, il nuovo singolo degli Echobelly meriterebbe indiscutibilmente di entrare nella Top five. È straordinario e ai miei occhi sono una band incredibile. Sono spontanei, semplici, bravissimi, suonano benissimo e le canzoni sono molto belle, cosa che purtroppo capita molto di rado... Scusa, ma anche gli Suede hanno delle canzoni niente male... Sì, ma gli Suede hanno delle canzoni niente male, mentre gli Echobelly hanno delle canzoni magnifiche. Abbiamo degli standard molto bassi di questi tempi. Se analizzi la stampa musicale degli ultimi sei anni trovi un'infinità di spropositi da parte di giornalisti ridicoli. Schiere di cavalli su cui si puntava moltissimo che si sono spezzati le gambe prima del via. I nuovi Smiths! Vacillavano, si fermavano e crollavano prima che finisse l'estate. Tutti quei critici rock che riempiono gli articoli di superlativi esotici e aria fritta... non devono mai alzarsi in piedi e dire "Sì, in effetti ci sbagliavamo sui Wheelchair Muggers From North Manchester o chicchessia. Non devono mai scusarsi.» Povero me... di nuovo la stampa. È stato faticoso essere un fan di Morrissey per la gran parte degli anni novanta: se non per la stasi creativa di Kill Uncle, quanto meno per le «polemiche» che hanno coinvolto

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Your Arsenal, su cui ci soffermeremo in seguito. In ogni caso, Vauxhall And I («È un'allusione a una certa persona di mia conoscenza nata e cominciata a Vauxhall» , dice) è un risultato a cinque stelle, con alcune delle migliori canzoni che abbia scritto, insieme alla cosa più rara da trovare in un disco di Morrissey: un barlume di ottimismo. Sebbene canzoni come Now My Heart ls Full siano disseminate di personaggi usciti da La roccia di Brighton, il disco è tutt'altro che il rituale lavoro di scavo nel passato che serviva sempre meno da fonte di ispirazione. È anche un disco di intensa bellezza. «Be', io sono una persona estremamente bella» dice scrollando le spalle. «E non sto solo cercando una battuta, in questo caso. Sì, è veramente un bel disco e sono partito con l'idea di farlo così. Mi sembrava ora di riporre parecchie cose nel cassetto e lasciare che l'età esigesse il suo tributo naturale, nel bene o nel male» . È stato descritto come l'inizio della Maturità di Morrissey. Che ovviamente è un grave insulto. Maturare alla tenera età di trentaquattro anni è come se Doris Day fosse la più vecchia vergine vivente del mondo. Sicuramente però ero davvero stanco del passato. Now My Heart Is Full esprime un senso di giubilante sfinimento per il continuo guardarsi alle spalle ed esaurire i propri punti di riferimento. Forse ho sfruttato eccessivamente le mie fonti e adesso è finito tutto, sostanzialmente. Ho una vasta collezione di dischi, film e cassette, ma adesso la vedo in una luce diversa. Non è più una cosa in cui sento la necessità di essere coinvolto giorno e notte. Mi sono reso conto che il passato è finito davvero, e per me è un grande sollievo. È come sentirsi dire che ti hanno curato dalla tubercolosi cronica o dall'artrosi al ginocchio o qualcosa del genere. Eppure non sei mai apparso una persona che guarda avanti al futuro con un senso di attesa. Be', ho sempre cercato di plasmare il futuro ˗ lo so che sembra decisamente troppo intellettuale per una rivista pop ˗ ma non lo faccio più. Mi sento libero di non fare assolutamente niente, ed è elettrizzante. In passato avvertivo sempre un enorme senso di responsabilità e di perenne auto... realizzazione. Adesso è svanito. Mi sono reso conto che non conta più niente. Non starai mica sviluppando un debole per le persone che una volta deridevi e mettevi

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in ridicolo? No, no, tutt'altro. Sarò sempre sul ring. Su Vauxhall fai anche una cosa che non hai mai fatto prima nella tua carriera solista, cioè puntare vagamente il dito contro gli Smiths, in particolare in Hold On To Your Friends. Come mai? Ti senti più a tuo agio con l'eredità degli Smiths, adesso? No, non c'è nessuna intenzione di questo tipo. C'è questa credenza generale che dopo la fine degli Smiths io abbia fatto relativamente poco, eppure se analizzi la discografia degli Smiths e la mia vedrai che ormai sono quasi alla pari. A volte mi stanco di ritornare sugli Smiths, perché non è che sia rimasto a girarmi i pollici su una sedia a dondolo dopo che Strangeways Here We Come è svanito dalla scena. Ho continuato e ho fatto dei progressi veri. In ogni caso per me è molto difficile dirlo perché non c'è mai stata un'altra parte della mia vita. Da Hand In Glove a Hold On To Your Friends, è semplicemente la mia vita. Su Q del mese scorso, hai tracciato un ritratto piuttosto crudele di Andy Rourke e Mike Joyce, dipingendoli come Rick e Bruce dei Jam. Come hai potuto dire una cosa simile dei tuoi vecchi compagni? I Rick e Bruce originali li adoravo, a dire il vero! I Jam sono uno dei miei gruppi preferiti di tutti i tempi. Ma perché non posso dirlo? Ma erano dei ragazzi eccezionali! Il giro di basso su Barbarism Begins At Home, l'introduzione di batteria a The Queen Is Dead... erano così leali e, e... Ma non hanno trascinato te in tribunale, giusto? Vediamo che ne pensi, se ti dovesse capitare. Posso provvedere io, se vuoi! D'accordo. È ormai risaputo che la presunta acredine fra te e Johnny Marr non è più una preoccupazione. Quando vi siete sentiti l'ultima volta? Sì, quel capitolo è definitivamente chiuso. L’ho sentito ieri, tra qualche sera ci vedremo, giusto per parlare del più e del meno e lamentarci a vicenda... Lo scorso autunno, Marr ci ha detto, dopo molte sollecitazioni, che se vi capitasse mai di fare di nuovo qualcosa insieme sarebbe come Morrissey e Marr, non come Smiths. Tu

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avresti voglia di fare di nuovo qualcosa insieme sarebbe come Morrissey e Marr, non come Smiths. Tu collaboreresti ancora con lui? Certo, sì, ma attualmente non ne vedo il senso, e neanche lui. Quindi perché? Ovviamente è un'idea che prenderei in considerazione. Mi piacerebbe risentire la sua musica. E a volte mi intristisce che la regali a certa gente che non sa nemmeno scrivere tanto bene... ah ah! Sembri molto più felice del Morrissey che ci aspettiamo di solito ˗ la caricatura dell'inesorabile miserabilismo ˗ eppure Vauxhall And I è un album piuttosto malinconico e introspettivo perfino per i tuoi sobri standard. Ha un tono di rassegnazione. Sì, ma non è una sorpresa, sicuramente. Non sto cercando di inventarmi una nuova, sorprendente svolta nel modo di procedere. Non direi mai di non essere attanagliato da una depressione cronica per giorni e giorni, perché è così. Ma una volta che hai fatto così tanti dischi, certi cambiamenti avvengono in ogni caso. Non è vero? Altrimenti scompari dalle scene. Cosa che a me non è mai capitata, nonostante gli enormi sforzi bellici da parte di certe riviste, non sono mai sparito. Le riviste che vorrebbero fucilarmi all'alba sono ancora in ginocchio a dire Per favore, ti chiederanno umilmente, potresti, per favore... La stampa, la stampa, la perfida stampa. Come l'ago di una bussola che inevitabilmente finisce per puntare fisso verso nord, la conversazione di Morrissey finisce sempre per tornare ai giornalisti e ai mali che hanno perpetrato contro di lui. Morrissey non riesce né a perdonare né a dimenticare. Non sarà che queste ultime siano inevitabili, considerato che non ha mai detto molto della sua crescente fascinazione per la cultura e l'immaginario skinhead, o delle canzoni in questione, Asian Rut, Bengali In Platforms e The National Front Disco? Ogni volta che lo faccio vengo lapidato. Non si può proprio parlare di queste cose in questo paese. Per esempio, alla fine dell'anno scorso ci sono stati una marea di programmi televisivi sul British National Party, e mi è balzato agli occhi il fatto che al National Front non fosse mai, e dico mai, stato concesso il diritto di parola o di tribuna. Mai. E questo mi lascia perplesso.

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Qualcuno direbbe anche «Meno male». Però il vero motivo per cui The National Front Disco è stata presa di mira era che in realtà era una bellissima canzone. Se fosse stata una gran cagata, nessuno se ne sarebbe interessato. Sono stato fermato da tantissimi giornalisti che ovviamente sollevavano la questione in tono accusatorio, e io rispondevo Per favore, adesso, elencatemi i versi della canzone che vi sembrano razzisti, pericolosi e carichi d'odio. E loro non ci riuscivano. Puoi travestirti da Papa, e ce l'avranno lo stesso con te. Questo pomeriggio ha rivangato troppi argomenti per Morrissey. Quando è entrato nella sala sembrava pimpante. Adesso non più. Mi dispiaceMa quando te ne stai seduto per un paio d'ore a ripetere, io, io, io, io, io, ti trasformi in una cosa brutta e avvizzita. Ce l'ho con me, non con te. Sei mai stato in analisi, Morrissey? Sì, diverse volte, e sono andato via estremamente disgustato. Mi macero nella depressione personale da talmente tanto che temo non ci sia niente che un medico o uno psicanalista mi possano dire. So tutto della depressione e dell'indebolimento dello spirito umano e della lotta, e non c'è nessuno che può dirmi altro al riguardo, e non c'è nessuno che può aiutarmi. Si alza in piedi e va al grande stereo nell'angolo della stanza, sceglie un album e lo mette sul piatto. «Ti faccio sentire una canzone. Questa è la mia giovinezza in un brano musicale. Non parlare, mentre va.» La canzone è Innocent And Vain di Nico: un lungo sibilo di harmonium, simile al verso di un delfino, con la voce gelida e catacombale di Nico che si incrina in un arrangiamento che rappresenta il culmine dell'ascolto doloroso. Verso la fine, il brano collassa in un montaggio di urla di origine ignota ed echi casualli. Ogni stolto che ha liquidato il repertorio di Morrissey dovrebbe essere costretto ad ascoltare questa tortura e riflettere sul fatto che questo è ciò che passa nella testa di Morrissey. E per tutto il tempo Morrissey resta seduto all'angolo del divano, la testa china, gli occhi chiusi, le braccia conserte, e i pugni piantati nelle ascelle. Ha appena realizzato forse il suo migliore lp, e ha tutta l'aria di essere all'inferno. Alla fine va tutto per il meglio. La settimana seguente Morrissey quasi muore schiacciato dalla ressa di gente che ha preso

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d'assalto i negozi di dischi HMV a Londra e Manchester per farsi firmare un autografo (e in tutti e due i casi fa mettere Nico come sottofondo dagli altoparlanti del negozio). Vauxhall entra in classifica direttamente al primo posto, come non succedeva dai tempi di Viva Hate.

Select maggio 1994

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Cerchi rogne? Stuart Maconie

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«Non sono l'uomo che credi» dice alla ragazza, ma naturalmente non è così e lei lo sa. L'espressione che ha sul volto è qualcosa da ammirare. Ferma due passanti per chiedere indicazioni per un pub di Camden e uno di loro, pensate un po', è proprio lui. Il ciuffo sulla fronte. La mascella più famosa del pop. Tutto quanto. «No, davvero, sono un muratore di Balham» dice lui con fare evasivo. Ma lei non demorde e la sua ostinazione viene premiata quando se ne va stringendo fra le mani un foglio di quaderno sul quale è scarabocchiato, con una calligrafia da bambino: «Morrissey». Lui abita in un quartiere di Londra squallido ma alla moda, anche se non c'è nulla di squallido nella sua abitazione: ben arredata, ariosa, l'enorme e vistoso televisore nero opaco potrebbe lasciare perplesso Loyd Grossman, ma i dischi d'oro e la gigantografia della copertina di Boxers farebbero capire il gioco a Eamonn Holmes o Eve Pollard o perfino a uno dei membri più stupidi del cast di The Bill. L'aria umida e pesante della sera però ci costringe a uscire all'aperto, sullo spiazzo di un giardino pubblico. E almeno una turista americana ringrazierà il cielo per sempre. Southpaw Grammar è il nuovo album di Morrissey, il primo per la RCA e, diciamolo pure senza riserve, è roba che spacca. Il brano d'apertura, The Teachers Are Afraid Of The Pupils, è forse la cosa migliore che ha fatto dopo la fine del suo ex gruppo. Cupa, drammatica, rappresenta un capovolgimento dei sentimenti caustici di The Headmaster Ritual, con Morrissey che compatisce un insegnante vessato e maltrattato dai suoi studenti. Ci sono degli archi inquietanti e, incredibilmente, accordi di un volume, un'ampiezza e una quantità tali da far dimenticare Pearl Jam e Nirvana. In altri brani, scaglia colpi contro i giornalisti che sguazzano nei bassifondi e i giovani piloti che «hanno il mondo nelle mani e se ne stanno in piedi davanti all'orinatoio». C'è perfino, per quanto inverosimile, la seconda canzone nella storia del rock ad avere come titolo Dagenham Dave. Dire che il nuovo singolo di Mozzer è migliore dell'omonima canzone degli Stranglers significherebbe rovinare questo magnifico pezzo con timidi elogi. Come sempre, Morrissey dispensa battute e cattiverie su tutto e tutti: da Liz Hurley ai Jesus and Mary Chain, da Paul Weller a quei poveri illusi che apprezzano i fuseaux... Perché hai lasciato la EMI?

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Già, chissà perché... sette anni, sette album... Gente simpaticissima. Ho degli ottimi amici che lavorano lì, ma mi sembrava la cosa più giusta da fare. Andavo così spesso nei loro uffici che è strano che non mi abbiano messo a lavare i pavimenti. Ma con la EMI non c'era più altro da fare. Era giunto il momento di capire se potevo conquistare il pianeta oppure no. E prevedo di no. Quindi passare ad altro fa parte della tua campagna per la conquista del mondo? Neanche per idea. Immaginati una cosa così noiosa come la conquista del mondo. Che cosa faresti nel tempo libero? Southpaw Grammar contiene un brano di undici minuti e uno di dieci. Ti sei convertito al progressive? No, semplicemente non sapevamo come fermare il nastro. Non c'è nessun motivo particolare. Insomma, sono pur sempre canzoni pop, no? Non c'è bisogno di aggiungere altro. Come musicisti, abbiamo fatto enormi progressi da quando abbiamo cominciato, siamo diventati un gruppo e si vede. Non è che dico: «Voi andate avanti così, mentre io me ne vado a sciare da qualche parte». Stiamo semplicemente migliorando. Tanto semplice, così complicato. Un'altra allusione al pugilato, vedo. Southpaw Grammar è la scuola della vita. È un'esperienza dura e se ne portano i lividi addosso. Quindi ti ritieni un dipinto della scuola della vita? Be', non è stato facile. Mettiamola così. Sia che stiamo parlando della vita o della cara vecchia industria discografica. Ma naturalmente, questo ci trascina su un terreno estremamente deprimente. Non so molto del pugilato. Ho fatto uscire un singolo intitolato Boxers e tutti danno per scontato che io sia un'autorità in materia, quando non è così. Non sono un esperto dell'arte virile o la «scienza dolce», come la chiamano. Ne apprezzo solo l'aspetto violento. Lo trovo seducente.Non vedo l'ora che mi capiti l'occasione di partecipare. No, no, non penso di essere pronto a salire sul ring. Diranno che è solo una posa, come la moda borghese del momento, il calcio.

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Ci sarà sempre qualcuno che avrà da ridire. Non sono un esperto. Sono solo uno spettatore come tanti che si diverte, forse per una mia debolezza. Eppure, ne apprezzo proprio l'aspetto sgradevole. E l'aspetto proletario, che non c'è bisogno di menzionare, no? Hai visto molti incontri? Tutti quelli che potevo. Alcuni veramente noiosi. Altri invece interessanti. Ci sono un sacco di personaggi strani. Quali sono i vantaggi di essere ricco? In realtà, nessuno. Per questo trovo triste conoscere gente che pensa soltanto ai soldi. So per certo che è completamente inutile. Certo, per me è facile dire così mentre me ne sto qui a oziare. Però è vero. Puoi anche essere miliardario, ma se ti viene un tumore non fa differenza se abiti in un monolocale di Birmingham. Reader Meet Author sembra che parli del «turismo dei bassifondi». Mi è capitato diverse volte. È un fenomeno affascinante. Specialmente tra i giornalisti musicali che pretendono di conoscere ogni aspetto della vita, per quanto degradante. Mi diverte il fatto che questa gente sia di estrazione borghese, ne conosco qualcuno, e la loro preoccupazione è quella di mischiarsi per hobby ai poveri e ai disperati. Gli scrittori borghesi sono affascinati da chi fa fatica a sopravvivere. Lo trovano virtuoso e divertente. «Vite disperate» è il termine giusto per le situazioni che descrivi nei tuoi testi? No, a dire il vero è la mia vita. Non è assolutamente una posa. La cultura operaia non ha più prospettive. Nella canzone che hai citato, canto: «L’anno 2000 non cambierà nessuno» ed è vero. Non cambierà la vita dei proletari. Non saranno catapultati nell'era dei viaggi nello spazio e della tecnologia a portata di tutti. I poveri restano poveri. Qualcuno deve per forza lavorare da Woolworth's. E potevi essere tu. No, non ho le gambe giuste.

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Ti diverti a provocare? Per niente. Non ci ho mai provato... vero? La vicenda della Union Jack era abbastanza provocatoria. Non l'ho inventata io la Union Jack, te ne rendi conto, sì? Non l'ho messa io su un filatoio a mano nella stanza d'ingresso. Non posso dar conto delle reazioni altrui. Alcuni la adorano, altri ne sono imbarazzati. Non lo capisco, mi sfuggono le implicazioni fasciste che ci sarebbero. Secondo me è successo perché era il momento di prendersela col vecchio Mozzer. Ti riconoscono quando sali in un taxi? Mi riconoscono anche se scendo! Ma ho imparato la lezione. La celebrità non mi crea molti problemi perché non faccio nulla di estremo. Quando vado in giro ci sono continui colpetti di gomito, strizzatine d'occhio e cenni del capo. Ma si può sopravvivere. Il denaro non può compensare la mancanza di libertà. Sono felice del livello di fama che ho raggiunto. La celebrità non è utile o attraente come una volta. Se oggi sei famoso, devi scontare la tua fama e rispondere della tua esistenza. E qualsiasi cosa fai, per quanto innocente, può passare per equivoca. L’unico interesse che abbiamo è nel rivelare gli aspetti più ripugnanti dei personaggi famosi. So che certe persone famose sono personaggi veramente ignobili, ma non tutti. Ecco perché non compro mai giornali. Non m'interessa veder distruggere le persone, che mi piacciano o meno. Eri più felice da adolescente? No, mai stato felice. Neanche per un giorno. Ma probabilmente in passato è una condizione che ho sfiorato. Da qualche parte l'ho anche detto! Non ho mai pensato che fosse possibile arrivare a quest'età. Pensavo che una volta giunto ai trentacinque, ti spedissero sull'isola di Anglesey. Ma non voglio tornare indietro. Non c'è niente di felice nel mio passato. Sono più felice ora che invecchio, ma è solo per pura e semplice perseveranza. Mi ci sono dedicato anima e corpo. Non mi sono mai goduto la vita a vent'anni, neanche un minuto. Era una prova di resistenza che ho superato con mia stessa sorpresa. Professionalmente, certo, andavo benissimo, ma sul piano personale non sarebbe potuto essere peggio o più difficile per me se avessi vissuto in una capanna

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Hai mai avuto uno slancio religioso? No, in tutta sincerità no. Mi piacerebbe, ma non ce l'ho. Dev'essere consolatorio e confortante, perché milioni di persone non possono sbagliarsi, ma penso di essere un apocalittico realista. Che ne pensi degli Oasis? Mi sono sempre piaciuti. Li trovo molto divertenti, molto mancuniani, sono il miglior gruppo di Manchester dai tempi degli... (scrolla le spalle con un sorriso) Ma vorrei che il cantante non fosse così scazzato. «Ma davvero devo cantare anche la prossima strofa?» Potrebbe sempre tornarsene a fare il pittore o il decoratore a Burnage. Su Club International ho letto un commento attribuito a me in cui li definivo noiosi elettricisti, parole che non sono mai uscite dalle mie labbra. E così mi hanno demolito, ovviamente, devono farlo per forza, però mi piacciono. Noel è molto simpatico. Si vede che è una piccola peste e si capisce che scapperebbe con le otturazioni d'oro della nonna, ma questo non significa che non le voglia bene. Supereresti il test del cricket proposto da Norman Tebbit per verificare l'integrazione delle mionranze etniche? Sì, certo. Tutto ciò che ha a che fare con Norman Tebbit è sempre una pessima idea, ma se qualcun altro dovesse formularla in modo diverso probabilmente la sosterrei. Se fossi costretto a lasciare l'Inghilterra con una pistola piantata addosso, dove andresti? Jersey, Guernsey, qualsiasi posto con un servizio postale decente. Los Angeles no? No. Ho bisogno di realismo e di lotta, e Los Angeles è bellissima ma una volta che si va lì si smette di essere veri. L’appagamento continuo e ripetitivo non fa bene allo spirito umano. Abbiamo tutti bisogno di pioggia e della sana vecchia depressione. La vita non può essere solo birra e birilli. Che ne pensi di Martin Rossiter dei Gene? A sentirlo parlare, ti somiglia incredibilmente. Di nuovo, cadrai dalla sedia, ma non ho mai sentito parlare dei Gene finché non mi hanno passato una cassetta del loro album e mi hanno detto: «Hai mai visto Stars in

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Their Eyes? ». Al che ho risposto: «Non lo conosco» e loro mi hanno detto: «Be', adesso lo conoscerai». Mi è sembrato un bel disco. Non mi ha ricordato molto gli Smiths, quasi quanto (timidamente)... me. Quando cantano come me, e grazie al cielo lo fanno in pochi, tutti pensano che siano come gli Smiths, ma i musicisti dei Gene non sono gli Smiths. Parliamoci chiaro, quando si comincia, tutti quanti prendiamo qualcosa delle persone che ci influenzano, finché non troviamo il nostro terreno. Non voglio essere cinico, vecchio e scontroso. Perché dovrei criticare i Gene? Non ne ho voglia. Ma nemmeno sento che dovrei corrergli incontro agitando un mazzo di gladioli e dicendo: «Adesso tocca a voi». Dove vai in vacanza? Io non vado in vacanza. No, mi limito a bighellonare per l'East End con un lungo mantello nero. Una volta hai detto che il tuo pubblico ideale erano skinhead con lo smalto sulle unghie. È ancora così? Sono sicuro che ci fosse una certa leggerezza in quel commento. Quando l'ho fatto non battevo un martello sul tavolo. Ma scherzando si dicono molte verità. Non da me. No, mi sono veramente stancato di essere considerato un tipo timido e impacciato, reputazione che ancora mi perseguita. Eppure ascolto la musica degli altri e non mi dà mai l'impressione di essere dura o provocatoria come la mia. Però mi considerano ancora uno smidollato. Mai pensato al Prozac? So poco del Prozac. L’ho provato, certo. Come tutti. Ma con me non ha funzionato. Perciò non c'è nessun fascino in una cosa che non funziona. Ti sei interessato alle elezioni per la leadership dei conservatori? Sì. Mi entusiasmava molto John Redwood. E mi sono intristito quando non ce l'ha fatta. Ma è tutto irrilevante perché Major è destinato a fallire e non importa quanti Eurofestival vinca e quanto si sia pulito gli occhiali. La sua vita ha il destino segnato.

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Ma è tutto irrilevante perché Major è destinato a fallire e non importa quanti Eurofestival vinca e quanto si sia pulito gli occhiali. La sua vita ha il destino segnato ed è giusto così perché è incredibilmente debole. Redwood era divertente e, nella vita politica, questo è straordinario. Sembrava divertito da quello che succedeva e aveva un barlume di vita, fatto incredibilmente raro. Persone così non hanno successo in politica, che adesso è così incolore. Dove compri i tuoi vestiti? Al mercatino dell'usato di Camden. Ho una straordinaria capacità di camuffarmi. Mi travesto da tramviere. Non compro mai capi nuovi. I vestiti nuovi sono anche belli, ma poi penso al West End e a Comme Des Garçons e mi passa la voglia. Appena varchi la soglia sei assediato da commessi affascinanti e questo non va bene. È molto intimidatorio. Guardi ancora Top of the Pops? No. A che serve? Mi è capitato di vederla per caso e sembra sempre la stessa canzone dance, e io sono sempre stato dell'avviso che non si dovesse permettere alla musica dance di infiltrarsi nella classifica pop. Dovrebbe essere separata, com'era in America negli anni settanta con il country, ecc. Così è impossibile ascoltare la radio o guardare The Cult Show. È sempre e soltanto dance o rap o quello che è. Jungle? Jungle! Non so cosa sia. Qualcuno che urla cose incomprensibili su ritmi meccanici. Pensavo che quelli fossero i Jesus and Mary Chain. Che ne pensi del Criminal Justice Bill? Credi che le persone con i fuseaux abbiano il diritto di vivere dove preferiscono? Non credo che le persone con i fuseax abbiano diritto di vivere. Non credo che si debbano organizzare rave perché la musica rave non mi piace. Il Criminal Justice Bill è una mia proposta, perciò sono contento che sia stata accolta. Mai comprato un biglietto della lotteria?

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Assolutamente mai. Se qualcuno parla della lotteria mi sento male. È una delle cose peggiori che siano mai capitate all'Inghilterra. Per colpa sua la gente diventa incivile e fastidiosa. Facciano qualcosa di utile, piuttosto. E detesto con tutto me stesso Anthea Tumer. Se mi regalasse un assegno da venti milioni di sterline glielo restituirei. È spaventosa. Quel sorriso fisso, quell'allegria fraudolenta. Appare in televisione a prima mattina, e anche se ti sta dicendo che un aereo dell' Air India pieno di bambini si è schiantato nel peggior disastro aereo di sempre, continua lo stesso a sorridere. Come ha fatto a trovare quel posto? La sua felicità mi rende veramente depresso. Mai stato a una serata di karaoke? Sì, al Little Driver a Bow ed è stato uno shock. Perché? Lo sai perché. Mi piacciono i piaceri semplici e le persone poco complicate, ma questa le batte tutte! Non capisco proprio per quale motivo uno dovrebbe aver voglia di fare una cosa simile. Ci sono modi più facili per mettersi in imbarazzo. Che cosa ha significato per te il suicidio di Kurt Cobain? Ho provato tristezza e invidia. Lui ha avuto il coraggio di farlo. Ammiro le persone che si autodistruggono e non è la prima volta che faccio un commento del genere. Assumono il controllo. Rifiutano di continuare a convivere con l'infelicità, e questo dimostra una tremenda determinazione. Deve essere terrificante sedersi, guardare l'orologio e pensare «Tra mezz'ora non ci sarò più». Pensare che si intraprenderà quel viaggio nell'ignoto. La vita moderna è molto stressante. Siamo tutti sull'orlo dell'isteria. In giro c'è gente che ti spara in faccia perché ti sei dimenticato di mettere la freccia. Potresti sopravvivere in carcere? Soltanto come cabarettista. No, il carcere probabilmente segnerebbe la mia maturazione. Sarebbe il principio della vita. La libertà non significa sempre libertà. Probabilmente fiorirei. Abbiamo tutti bisogno di un po' di restrizione. Sei mai stato in uno Yates’ Wine Lodge? Sì, ce n'era uno a Manchester ai vecchi tempi, pieno di uomini ubriachi incappottati con

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macchie di vomito sul bavero. Mi piacciono i pub: sono uno degli ultimi bastioni dell'inglesità. Mi piacciono i pub tranquilli, pieni di anziani. Cioè, mi piacciono i pub tranquilli, non gli anziani. Hai mai avuto noie con la polizia? Mai. Va bene, è una bugia. Tanto tempo fa sono venuti da me per una canzone che avevo fatto. Allora la storia di Margaret On The Guillotine è vera? Certo. Sì, per motivi ridicoli. Ma a loro non servono motivi, hanno un cappellino buffo e uno sfollagente. Hanno registrato un'ora di conversazione e hanno perquisito la casa in cerca di una ghigliottina. Curiosamente, ne hanno effettivamente trovata una. Mi consideravano il nemico pubblico numero 72. E dopo avermi torchiato ben bene mi hanno chiesto addirittura di firmare qualche autografo per i nipoti malati, il che mi è sembrato un po' perverso. Sono tornati i disordini di piazza. Approvi? Sì, certo. (ride) No, non è vero. Gli anni settanta persistono, no? Ho visto delle biciclette Chopper davanti a un pub l'altro ieri, e le ho trovate estreme. Ho sempre trovato attraente la violenza soltanto a distanza, che è un po' patetico, lo so, ma immagino che se ti ci trovi in mezzo, sia un po' preoccupante. Tra parentesi, cerchi rogne? Suppongo che tu sia un fan di Quentin Tarantino. Quello di Pulp Fiction? Non l'ho visto. Non sono ancora pronto per John Rivoltante. Ho altro a cui badare. Sei iscritto a qualche associazione? Il Fondo Assistenza Skinhead. No, sono poco socievole. Non faccio mai amicizia. Non ne vedo il motivo. Però hai degli amici, perciò da qualche parte li avrai conosciuti. Non complicare le cose. Abbiamo tanti amici quante personalità. Sai chi l'ha detto?

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Emerson. Keith Emerson. Ti tieni in allenamento? No, assolutamente. Non faccio niente. Non mi sento a mio agio in una palestra. Spingo il carrello della spesa da Waitrose. Ti metti mai davanti a un orinatoio e pensi di avere tutto il mondo nelle mani? Non ho bisogno di andare in un orinatoio, lo so giĂ . E dovresti avere il buonsenso di non fare queste domande. Ăˆ una risposta enigmatica. Si fa quel che si può.

Q settembre 1995

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Il re dell'angoscia esistenziale è diventato grande Will Self

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Di Morrissey sappiamo bene che i suoi contratti discografici stabiliscono varie condizioni stravaganti, tipicamente da star. Una di queste è la presenza di uno specifico assortimento di snack e bevande durante le interviste. Capita così che la prima cosa che vedo quando entro nella sala di rappresentanza nell'attico della RCA sia un tavolo apparecchiato; sopra, disposti in bell' ordine, dei piattini di patatine (semplici, almeno così ho letto) e alcuni KitKat; di lato, bottiglie di gazzosa. All'inizio dell'intervista Morrissey sorseggia una tazza di caffè, e durante la discussione di tanto in tanto trova il modo di eludere qualsiasi argomento che possa vagamente somigliare a un vicolo cieco proprio alludendo ai cibi del buffet: «Ottimo, questo caffè» esclama a un certo punto, e quando gli chiedo a cosa pensa, lui risponde: «A questo KitKat». Sono i tipici espedienti che Morrissey escogita da un minuto all'altro, rivoltando le frasi come fanno le insegne girevoli dei distributori di benzina. Per molti, Morrissey è irrimediabilmente legato agli anni ottanta, e già dire questo contribuisce a mettere meglio a fuoco quel decennio. Negli anni ottanta lo Zeitgeist era pervaso da un particolare tipo di angoscia e di autocommiserazione adolescenziale maschile, e Morrissey ne era l'icona. Era la prima popstar di sesso maschile che si rivolgeva a un'intera generazione di ragazzi cresciuti con il femminismo, pesante sottofondo a un periodo di naturale inadeguatezza e inutilità. Il suo miserabilismo veniva da Manchester, archetipo della città cupa, devastata e provinciale. Isolatosi da una cultura popolare di contorno senza alcun elemento più o meno intellettuale, o sfumatura politica, Morrissey formò gli Smiths, il gruppo pop destinato a farsi portavoce dei Miserabilisti, e compose il loro inno nazionale, Heaven Knows l'm Miserable Now. L’originalità e la qualità artistica di Morrissey si è sempre unita a un gusto squisito per il kitsch più delicato del recente passato inglese, ricoperto da ampie dosi di venerazione yankee. A questo mix si aggiungeva la sua ostentata ambiguità sessuale. Tra gli osservatori della stampa musicale più noiosi e monomaniacali, la rottura con Johnny Marr, coautore dei brani degli Smiths, è stata ripetutamente considerata la sua morte creativa. Eppure, una parte del materiale inciso da solista ha la stessa potenza di tutto quello che hanno prodotto insieme: e per lo stesso motivo, all'infuori degli addetti ai lavori, chi ha sentito parlare di Johnny Marr negli ultimi cinque anni? In completo scuro, stivaletti pesanti e una di quelle camicie di jersey che sono quasi l'emblema dell'impegnato rétro, Morrissey è molto affascinante in carne e ossa. Gli

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occhi azzurri infossati scintillano sotto una fronte alta, intelligente, e considerando la sua professata castità, uno dei primi istinti di un intervistatore coscienzioso è provare a valutare la qualità della sua presenza fisica, il suo peso specifico. È forse un uomo tormentato dalla propria sessualità e da quella altrui? È forse un uomo sul quale aleggia ancora un vago sentore di repulsione per la carnalità? La risposta è no, in entrambi i casi. La sua stretta di mano è energica, addirittura calorosa. Il suo linguaggio corporeo è tutt'altro che timido. Anzi, in lui c'è qualcosa di palpabilmente concreto. Durante la nostra conversazione a un certo punto ha fatto un commento sul mio viso: «Hai la stessa faccia di un criminale che conoscevo... una faccia molto forte. Una faccia molto determinata». Tralasciando il contenuto, non mi è parso il tipo di osservazione che potrebbe fare una persona decisa a negare la corporeità. E ovviamente, malgrado il suo sbandierato incoraggiamento alla devozione fisica ed eccessiva dei suoi fan abbia una caratteristica a doppio taglio (si può toccare, ma soltanto in questo modo anomalo e perverso), di persona si fa continuamente beffa delle parole d' ordine che lui stesso ha creato. Quando gli suggerisco che le invasioni di palco squarciano il velo della celebrità e lo mettono di fronte a fan che al 98 per cento sono fatti d'acqua, lui replica: «Che si squarci pure, questo è il mio motto». La settimana dopo, alla Wembley Arena, la star si spinge fino al punto di trascinare quasi di peso un aspirante invasore di palco sfilandolo dalle braccia dei buttafuori, oltre la schiera dei monitor, tra le sue braccia. Riceve baci su entrambe le guance come non fosse altro che il suo dovere. Poi si china su una selva di braccia tese verso di lui e impartisce la benedizione, ricevendola allo stesso tempo. C'è una incongruenza sommersa, qui, ma che opera a nostro favore. Forse una delle ironie principali del più ironico dei performer è il fatto che cerchi chiaramente l'adulazione da chi è meno disposto a concedergliela ˗ i Dave di Dagenham e la teppaglia di Rusholme che popolano i suoi paesaggi ˗ ed evita le avance di chi considera essenzialmente poetico il suo talento. Quando gli chiedo se è mai stato attratto dal mondo dell'intellighenzia, risponde con enfasi: «Assolutamente no. Anzi, forse provo soltanto disprezzo. Gente simile mi dà profonda tristezza. Tutto quello che c'è da vivere si aggira sui marciapiedi da qualche parte. L’ho sempre creduto e lo credo tuttora».

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Il che rende inevitabile la domanda: e lui, di preciso, quali marciapiedi ha battuto alla ricerca delle sue meravigliose e impassibili descrizioni icastiche? Accenna a «certi pub dalle parti nord ed est di Londra. Ma non sono uno che si nota facilmente, anche perché non vado in giro per farmi vedere...Mi infilo dentro e me ne vado senza dare nell'occhio, e anche se mi cercassi non mi troveresti mai». Mi spiega che la performance per lui rappresenta l'«esuberanza» e quando gli faccio notare che questo in qualche modo contraddice la sua finta contrarietà al divertimento, lui sorride e lo ammette. Detto questo, l'idea che ha Morrissey degli stravizi post-concerto non coincide esattamente con quella che ci aspetteremmo da una popstar: «Puro silenzio». Ho trovato piacevole questo atteggiamento, ma per Morrissey è servito da trampolino di lancio per spiattellare alcune delle sue pose più abusate: «La vita è una noia incredibile. Non lo dico nel tentativo di sembrare vagamente divertente, ma il segreto della vita è che non c'è nessun segreto, è solo noiosa fino all'eccesso». Ho la sensazione che queste esternazioni per Morrissey siano una forma di bluff, e che le butti lì più o meno allo stesso modo in cui gli aerei della Seconda guerra mondiale sganciavano strisce di metallo per ingannare i radar. Se i suoi interlocutori insorgono per queste sciocchezze, allora non sono veramente degni di considerazione. Però è anche esperto a schivare le solite stoccate psicanalitiche dell'intervistatore. Quando accenno alla vexata quaestio della sua sessualità, risponde: «Non è una questione che mi assilla. Non credo assilli nessuno, tutto sommato. Ognuno ha le sue opinioni e io non ho problemi. Voglio dire, c'è un limite a quello che si può effettivamente ipotizzare sulla sessualità, e questo se non altro mi risolleva. Non credo si facciano più illazioni sulla mia persona. Più o meno mi classificano in modo non sessuale, asessuale, ed è una considerazione sbrigativa che non mi dispiace affatto». L’aspetto interessante di questo discorso, naturalmente, è che la verità è l'esatto opposto: la questione è ancora dibattuta, a lui dà fastidio, non ci sono limiti alle ipotesi che si possono fare sulla sessualità (il che è tutt'altro che un sollievo), ed è lui ad aver assunto una posa asessuale. Varrà la pena ricordare, a questo punto, che fu uno degli eroi di Morrissey, Oscar Wilde, a definire la castità «l'unica perversione sessuale che si conosca». Forse sarebbe troppo banale suggerire che il lamentoso ritornello di The Teachers Are Afraid Of The Pupils, brano d'apertura del suo ultimo album Southpaw Grammar, sia

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per certi versi un'eco di quell'atteggiamento: «Farla finita sarebbe un sollievo» proclama il cantante, incessantemente. La stoccata va a segno quando gli chiedo: «Pensi di avercela fatta?». E lui con un altro sorriso risponde: «Sì. Abbastanza bene. Mi pare che la bravura abbia dato buoni risultati. Sono riuscito a passare tra le maglie, qualunque sia la rete». Poi c'è un efficace giro di parole, analogo nella lingua di Morrissey al tergiversare di un pugile al centro del ring. Intervengo dicendo: «Ma...» e lui mi scavalca: «Lo so che stai per dire "ma", ma anch'io. Non è questo il punto, non c'è niente da dire e non c'è niente da chiedere, non divaghiamo». Ha ragione. A meno che non decida di fare il maleducato e tentare di fare irruzione nella sua vita privata, non c'è proprio niente da chiedere. Questa è la «bravura» che Morrissey ha perfezionato ed è una qualità che in ogni altro sarebbe definita maturità. Sì, è questa l'unica rivelazione che posso farvi su Steven Patrick Morrissey: contro ogni previsione, è diventato adulto. Come sia esattamente avvenuta questa maturazione, è difficile dirlo. Gli elementi biografici danno l'impressione di un passaggio diretto dalla chitarra immaginaria che fingeva di suonare di fronte a uno specchio alla periferia di Manchester, alla chitarra immaginaria che fingeva di suonare di fronte a una folla in delirio all'Hacienda, seguite da tredici anni di celebrità, per quanto atipica. Dove avrà trovato esattamente quelle normali interazioni, quei rapporti normali, necessari alla maturazione affettiva? Certo, nell'ambiente non è un segreto che il suo personaggio «intoccabile» abbia poco a che vedere con l'uomo che custodisce gelosamente le sue amicizie più intime; ed è evidente che qui sta succedendo qualcosa. Una volta si disse di Edward Heath che se mai avesse fatto sesso, sarebbe stato soltanto nel caveau della Banca d'Inghilterra. Non vorrei entrare nel merito se Morrissey faccia sesso o meno, ma in caso affermativo, si può presumere con una certa sicurezza che il «caveau» abbia una doppia funzione: un'incrollabile dedizione al mantenimento di un'autentica vita privata, e una capacità di generare un'immensa lealtà personale... una cassetta di sicurezza, se volete. Quando si affronta la questione dell'ambiguità sessuale che permea tanta parte della sua sensibilità artistica, fino al titolo di uno dei suoi album solisti: Bona Drag («bona» significa attraente o sexy, nel gergo gay), lui devia il discorso sui diari di Kenneth Williams: «Raccapricciante, veramente raccapricciante. L’ho letto un paio di volte e ogni volta è stato un pugno nello stomaco. Un libro deprimente in un modo

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straordinario. È incredibilmente spiritoso e ben scritto, ma il vuoto che riecheggia dall'inizio alla fine è micidiale, assolutamente micidiale. Credo che abbia sempre sofferto di depressione perché i diari coprono un arco di quarant'anni e già all'inizio si domandava: "perché sono vivo, a che serve?". E questo nel 1952. È stupefacente che sia durato così a lungo». Lo pungolo dicendo che qualcuno potrebbe trovarvi delle analogie con la sua vita, e lui risponde: «No, direi proprio di no», con un'enfasi profondamente sentita. Talmente sentita che mi spinge a proporgli l'antitesi più estrema alla sterilità sessuale ed emotiva della vita di Williams: «Hai mai pensato di avere dei figli?». «Sì» dice seccamente, con un marcato accento di Manchester. Quando approfondiamo la questione appare chiaro che ciò che lo preoccupa di più, del fatto di avere bambini, riguarda il timore tutto sommato legittimo di identificarsi eccessivamente in loro: «Chissà che farebbero. Nel senso, che cosa faranno a undici anni? Che cosa farebbero a diciassette anni? Che succede quando tuo figlio si gira e ti dice: "Papà, questo mondo non mi piace. Perché mi hai portato qui? Non voglio farne parte. Non voglio andar via da casa. Resto qui. Io non voglio crescere"?». Ma se ci sono ombre della sua (presunta) voluta infantilità, si scorgono anche i lineamenti del Morrissey adulto, quel Morrissey che ha fatto tesoro della sua «bravura». Sembra comprendere fin troppo bene l'impatto dell'immagine ambigua che ha creato. Morrissey, ora mi è chiaro, è una persona che trova doloroso e opprimente il suo amore per gli altri. In questo, naturalmente, è come tutti, ma forse di più. Ha smesso di seguire la sua serie televisiva preferita, Coroootion Street, ma quando parla di quella che ne ha preso il posto nelle simpatie, EastEnders, si lascia sfuggire il desiderio di un'arcadia molto popolata e assai poco infelice: «La gente vorrebbe una vita così, dove ogni giorno ti ritrovi a parlare con quaranta persone che sanno tutto di te, sei continuamente coinvolto in queste relazioni e c'è sempre qualcuno che bussa alla porta di casa. È così che segretamente vorremmo vivere tutti. Dentro EastEnders, dentro Coroootion Street, non ci sono barriere d'età. Anziani, bambini, vanno tutti d'amore e d'accordo e hanno tante cose da dire, mentre la vita non è così». Forse qui la complessa maschera di rituali, segni, segnali e riferimenti culturali che Morrissey ha concepito per cancellare il personaggio umano assai poco costruito che c'è sotto, scivola un po'. Ma mi guarderei bene dal tirarla via del tutto. A me ha detto:

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«Vorrei che qualcuno si facesse l'idea giusta. Non m'importa se mi odiano, purché si facciano l'idea giusta». Eppure, «farsi l'idea giusta» sarebbe completamente distruttivo per l'immagine, anche se liberatorio per l'uomo. In tutta la sua carriera solista c'è stata una strenua fusione del concetto di «inglesità» con quello di un'ambigua, grottesca, predilezione per i «rudi giovanotti». Forse che Morrissey, come William Burroughs, mi domandavo, fosse posseduto da una fede eterna nella bontà di questi rudi giovanotti? E questa atmosfera, resa in modo così vivido in Southpaw Grammar, veniva vista come un'arcadia o solamente come una nostalgia? «È pura nostalgia, in realtà, e c'è ben poca verità. Ne sono ben consapevole. So che è tutta pura fantasia in realtà, e il cinquanta per cento stupidaggini. Tutti hanno i loro problemi e non c'è modo d'essere che sia assolutamente libero e divertente e senza responsabilità orribili. Non è vero. E credo di averne avuto il meglio, personalmente. Non credo di essermi perso niente, perché non sono un muratore di Ilford.» Ci aspettavamo altro? Ogni presunta immagine «arcadica» che Morrissey esibisce, in realtà è iniettata di ironia. Il protagonista di Boy Racer è descritto così: «Davanti all'orinatoio / Crede di avere il mondo in mano». E per quanto riguarda il povero Dagenham Dave, «Con la testa in una camicetta / Tutti gli vogliono bene / E capisco perché». Eccome se si capisce! Ma poi, allo stesso modo: « Vorrebbe tanto toccare, ma ha paura di restare scottato / Potrei dire di più, ma ci siamo capiti» . Qual è il sottinteso? Omosessualità repressa cronica? O solamente il tedium vitae del cantante di fronte al guscio vuoto della cultura operaia inglese? L’intento in questo caso è di sovversione, sovversione e ancora sovversione. E questo viene mostrato nel modo più esplicito quando Morrissey, trentasette anni compiuti, sale sul palco alla Wembley Arena (di supporto a David Bowie) con i suoi musicisti molto più giovani. O è un Happy Days con Morrissey nei panni di Fonzie e il chitarrista dalle orecchie leggermente a sventola in quelli di Richie, oppure qualcosa di decisamente più sinistro. Sullo sfondo è proiettata una gigantografia della copertina di Southpaw Grammar, il volto un pugile sconosciuto che Morrissey ha strappato all'anonimato di una vecchia copia di The Ring. Si sente un sibilo e uno scricchiolio dalla montagna di altoparlanti sospesi in alto, e parte Jerusalem, cantata dal coro di una scuola che non esiste più da

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tempo. L’effetto, in tandem con le figure in giacca e capelli rasati che si muovono a grandi passi sul palco buio è estremamente inquietante. Sta forse iniziando un bizzarro raduno fascista? Poi la band attacca con fragore gli accordi iniziali di Reader Meet Author e Morrissey comincia a sferzare l'aria con la corda del microfono, tra piroette e ancheggiamenti, tale e quale a una versione effeminata di Roy Rogers. Verrebbe espulso dal British National Party in un secondo, se lo sorprendessero ad agitarsi in questo modo! Ha di nuovo sovvertito la politica in un modo particolarmente personale. Nel corso del set, Morrissey e la band eseguono The Operation, una canzone cupa ed estremamente deprimente. Come molti suoi brani, anche questo si rivolge a una persona senza nome. Morrissey deve essere uno dei pochi autori che usa la seconda persona più della prima. «Combatti con la mano destra» gorgheggia «e accarezzi con la sinistra» e mentre unisce il distico mima il gesto di pulirsi il sedere con una mano flaccida. Probabilmente è questo che intende per Southpaw Grammar, e la evidente e continua preoccupazione per «l'altro» nella sua opera è così antitetica alla sua posa di recluso in casa che mi domando di nuovo quanto sia davvero mutevole una persona del genere. A me ha detto: «Non mi sento intrappolato nel tuo registratore e su quei cd. Assolutamente. Posso fare quello che mi pare e posso diventare quello che voglio, e se la prossima settimana mi viene voglia di avere tredici figli e abitare a Barking, posso farlo tranquillamente, e nessuno me lo impedirà». È un discorso ambiguo, che si presta a più interpretazioni. A un primo livello di lettura, sa di volontà di onnipotenza adolescenziale, ma su un altro livello è indice di grande lucidità e un rifiuto di credere completamente all'immagine che ha creato. Mentre nella sua prima incarnazione, frontman degli Smiths impegnato a rompere tabù, Morrissey era propenso a usare la sua tribuna per lanciare diktat su ogni tipo di questione scollegata dalla musica pop, la sua fama adesso appare ben consumata, come un vecchio cappotto tanto amato. Lo ha confermato quando gli ho chiesto come riuscisse a mantenere un controllo così ferreo sull'impero che ha creato: «Ci riesco soltanto dicendo ripetutamente "no". E poi ti si accumula attorno l'ovvia reputazione che sei un problema, perché sei goffo, sei difficile, e non hai nessuna voglia di diventare famoso. Ma io non voglio essere famoso in nessun altro modo che non sia quello che mi si addice naturalmente». Ossia diventare un peso crescente. È una persona molto divertente, ma sa mantenere a freno il suo spirito. Un esempio è venuto quando abbiamo analizzato la vexata quaestio

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di non avere un televisore. «È una dichiarazione politica?» mi ha domandato, e quando ho riposto di sì lui ha replicato: «Ma i tuoi vicini lo sanno che non hai un televisore?». Credo che lo spirito sia tenuto a freno perché rischia di distruggere l'edificio ironico che ha creato. La celebrità richiede un certo grado di stupidità a suo sostegno, e Morrissey è tutt'altro che stupido. Ha il merito della celebrità con altri neonati creativi. Una volta ha cantato in modo memorabile, castigando l'ennesimo misterioso interlocutore per i suoi peccatucci sessuali: «Il giorno in cui le tue capacità mentali / Si metteranno in pari con la biologia». Ma credo che il giorno della resa dei conti, per Morrissey, arriverà quando consentirà al suo sense of humour di mettersi in pari con la sua ironia. Anche alla Wembley Arena sembrava quasi che la band avesse invitato lo zio per fare qualche numero insieme a loro. Morrissey ha un'opinione troppo alta di sé per diventare uno di quei nonnetti del pop, che vagano sul palco con le calze elastiche, perennemente rinchiusi in una limousine ormonale a carrozzeria allungata. Mi ha detto che potrebbe «fare» qualsiasi cosa, e lo spero vivamente. L’Inghilterra ha bisogno di lui.

Life/The Observer dicembre 1995

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L'importanza di essere Morrissey Jennifer Nine

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«Sono completamente imprevedibile» dice a un certo punto, sorridendo «..soprattutto il venerdì sera.» E poi, ovviamente, non aggiunge altro. Si chiama Essere Morrissey. E infatti abbiamo pensato tutti a Essere Morrissey. Le band che non sarebbero state la stessa cosa se non fosse per le sue canzoni di provocatorio amore e odio per se stesso. I giornalisti impressionati, esasperati e ingannati dalla stanca grandiosità con cui controlla il gioco ogni volta che si accende un registratore. Le centinaia di fan a un recente convegno di gay e lesbiche su Morrissey, culminato con The Queen Is Dead cantata in massa davanti ai cancelli di Buckingham Palace. Ogni adolescente introverso di sempre, o per lo meno dal 1982 a oggi. Dal sublime al ridicolo. E infine me. Tutto questo fa sì che l'incontro con Morrissey sia ancor più snervante. E lui è qui, straripante. Inaspettatamente alto, inaspettatamente bello, inaspettatamente in forma («le persone della mia età hanno quasi tutte un aspetto tremendo; io di me direi che probabilmente sono "niente male"»), seduto di fronte a me, mentre parla con il tono sommesso di chi è abituato a essere ascoltato. Ed è di ottimo umore. Ha una nuova serie di etichette discografiche nel Regno Unito e in America. Ha in classifica un nuovo singolo di disinvolta agilità e qualità chiaramente superiore, intitolato Alma Matters, che alla radio sembra magnifico. E ha un nuovo album imminente, Maladjusted (i devoti e i pignoli potrebbero far notare che la scaletta dei brani nell'edizione Americana è leggermente diversa e include una canzone che potrebbe anche parlare degli ex compagni di band. Non è particolarmente clemente). Due cose mi colpiscono. La seconda è che sono fermamente decisa a non scoppiare in lacrime, anche quando scherzando gli consiglio di mettere una botola per liberarsi degli intervistatori che si dilungano troppo e lui risponde dolcemente: «Be', una ce n'è, ma non funziona: sto premendo il pulsante da un quarto d'ora». La prima, ovviamente, è la bravura con cui Morrissey riesce a Essere Morrissey. Meticolosamente affabile; spensieratamente eloquente; disinvoltamente autoironico... tagliente come una lama, non perde mai un colpo. Sorride, ride, dispensa cenni di elogio - «hai assolutamente ragione» disinvoltamente autoironico... tagliente come una lama, non perde mai un colpo. Sorride, ride, dispensa cenni di elogio ˗ «hai assolutamente ragione» annuisce con indulgenza a un certo punto ˗ e poi mi interrompe con uno sconcertante e perentorio: «Qual era la domanda?». Oppure sogghigna, mentre tento di

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trarre delle conclusioni dai suoi commenti, e dice: «Sì, ma il mio ragionamento era molto più interessante». Il che, nel suo Essere Morrissey, probabilmente è vero. Gli domando se ha compassione per le persone che partecipano al gioco della celebrità. «Non ho compassione per nessuno» dice Morrissey piegando la testa all'indietro. «È un sentimento sprecato. Preferisco tenerlo tutto per me. Dio sa quanto ne ho bisogno» aggiunge, tornando di nuovo a Essere Morrissey. Ma sicuramente le tue canzoni non avrebbero significato tanto per così tante persone, se non fossero state intrise di compassione, no? «Forse significano più di quanto volessero significare» ribatte. «In ogni caso, preferisco il buon vecchio rancore.» E la canzone He Cried? Quando hai pianto l'ultima volta? Non da molto. Una volta piangevo con una certa regolarità. È un metodo di purificazione fantastico; dopo mi sento venti chili più leggero. Ma ultimamente non mi è capitato. Ne avevo anche motivo, ma in realtà non piango da parecchio. Piangi da solo, o di fronte ad altre persone? (Sgrana gli occhi) Da solo, ovviamente. Ho una dignità. Ma sicuramente ci sono persone che ti conforterebbero. Sì, ma sono tutte nel braccio della morte. Ah. Ma i francobolli di posta aerea per l'America non ti costano una piccola fortuna? Ci hai provato anche tu, evidentemente. Quando è stata l'ultima volta che hai incontrato qualcuno che non sapeva chi fossi? Un paio di giorni fa. Stavo cercando di noleggiare una macchina e mi hanno chiesto qual era la mia professione. Un sacco di gente non sa perché mi conosce, ma riconosce la mia faccia. Non vado mica in giro tutto impettito sperando che mi riconoscano. Non cammino per la strada cercando di tenere il conto di quante persone mi riconoscono e non scoppio in lacrime se non succede.

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La fama provoca agorafobia? Un po' sì. Certi giorni mi sembra di avere tutti gli occhi puntati addosso. E quando vai avanti così per trentacinque minuti di seguito, cominci a pensare: "Allora, ma dovrei andare lì, mettermi quel cappello, salire su quest'autobus?" e alla fine concludi: "Al diavolo" e te ne tomi a casa. Non so perché, ma quando ti capita di incrociare lo sguardo delle persone che incontri per strada, pensi sempre di dare l'impressione che le stai guardando con la curiosità di sapere se ti riconoscono. E così cominci a evitare i volti degli altri e il contatto visivo. Maladjusted contiente una delle canzoni di Morrissey più belle di tutti tempi, Wide To Receive, cantata con voce angelica e vorticosa. È una canzone d'amore, non è vero? Sì, dovrebbe, ma non vorrei cacciarmi nei guai. Dovrebbe essere una canzone su internet. Sai, te ne stai sdraiato davanti al computer in attesa che qualcuno si colleghi con te, ma scopri che non c'è nessuno, e quindi rimani lì, pronto a ricevere. E ovviamente è atroce, essere pronti a ricevere e scoprire che non ce n'è motivo. Hai un computer? Questa è una domanda tranello, e mi rifiuto di rispondere. Quindi hai scritto una canzone su internet, ma non mi vuoi dire se hai un computer. Non ti darò soddisfazione. È possibile che tu sia sempre consapevole di quali cose siano «da Morrissey» e quali no, e mi dia soltanto le risposte che rientrano nel personaggio? No. Non sono solo i nerd a usare i computer, sai. Li possiedono anche persone di bell' aspetto. Devo ancora incontrarne uno. Stai apprezzando il fatto di invecchiare? O se non altro più di quanto ti aspettassi? Il bello di avere diciassette anni è che non riesci a credere che il tempo voli e che presto, molto presto, ne avrai trentotto. Non mi sarei mai aspettato di arrivare a questa

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età, ma non è niente male... anche se con qualche tensione. C'è qualcosa per cui ti senti troppo vecchio? Sì, mi sentivo troppo vecchio per il Britpop. Ma forse semplicemente non mi piaceva. La retorica da circoletto chiuso, tipo "Sei troppo vecchio per stare qui", anche se i trentenni stanno ringiovanendo, fa parte dello snobismo britannico, no? "Dove vai?", "Non sei autorizzato a stare lì", "Che diritto hai?". Lo dicono a proposito dell'età, e lo dicono a proposito dell'uso della bandiera» aggiunge, alludendo sia alla polemica di qualche anno fa sul suo presunto razzismo, quando si esibiva sul palco con una Union Jack sullo sfondo, sia alla successiva assenza di polemiche quando una schiera di artisti da Noel Gallagher a Ceri Spice, tempo dopo hanno adottato esattamente lo stesso emblema. E non ha torto. A detta di alcuni colleghi della stampa musicale, i diciassettenni dovrebbero ascoltare soltanto musicisti di diciassette anni. Ah sì, quel tipo di snobismo è straordinario. Quindi, quando ero più giovane, avrei dovuto pensare che non avevo nulla da dire a chi era più grande di me? Non ha senso. Cantare solo per persone nate tutte nel tuo stesso mese e nel tuo stesso anno... che idea meschina! Ma è comunque più facile provare maggior affinità per le persone della propria fascia d'età. Ti allarmerebbe la prospettiva di uscire con qualcuno molto più grande o più piccolo? Mi allarmerei di fronte alla prospettiva di uscire con qualcuno. E questo pone fine alla questione. Ma spezzerai il cuore di qualcuno se dici «Non sono mai uscito con nessuno». Ci sarà qualcuno che leggerà questa intervista e dirà: «Ma l'ho visto per quattro anni, come fa a dire così?». Non esiste essere vivente sul pianeta che possa affermare una cosa del genere. Quindi... Be', io non ci credo che tu non sia mai uscito con nessuno, Steven.

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«Be', è così, quindi mettilo nella tua cassetta Sony e...» Ride di colpo, quasi con severità. «Davvero, è così.» Ma sei un essere umano. Non ne hai nessuna provaGli artisti non sono persone. E io addirittura sono al quaranta per cento cartapesta.» Ti sei mai innamorato? Oh sì. Di persone vere, in carne e ossa, con due occhi. Ma sono talmente abituato alla fantasia e al mondo del rock che non potrei mai uscire dal cinema e ricollegare tutto al mondo concreto. È sempre stato a distanza. Sempre un sogno. E ormai ci sono abituato. Capisco la vita dei libri, dei film e della musica. Quand'è stata l'ultima volta che hai fatto una passeggiata mano nella mano con qualcuno? Mai fatta. Quand'è stata l'ultima volta che hai pomiciato al cinema? Mai. Mi sopravvaluti proprio, eh? Mi ci vedi davvero seduto nel fondo di un cinema a pomiciare? Be', dovresti smettere di leggere Cosmopolitan. Non è il mio forte. Puoi anche sbattere la testa contro il muro dell'hotel, ma non c'è niente da dire. Proprio niente.» Altro silenzio gelido. I tuoi amici non hanno mai suggerito che nel momento in cui saresti arrivato alla fine dei trenta avresti avuto voglia di sistemarti? No. Pensavo che volessero vederti felice. Può darsi. Non lo so. Ma non lo dicono. Perché non sono così grevi?

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«Esatto. Non sono così grevi.» S'interrompe e guarda il soffitto. «Sai, questa conversazione è drammaticamente degenerata.» Forse potremmo parlare di cosa - scusa, del nuovo album - Maladjusted, allora. «Il metodo usato su questo disco è stato molto spartano» dice Morrissey, che fa sempre la parte di Morrissey, ovviamente, ma si diverte di più. «E quello che viene prima di tutto per me sono le melodie vocali, ancor più del contenuto dei testi. È quello il vero segreto della sopravvivenza di una canzone. Nel bene o nel male, quelloche faccio mi distingue. È questa è una cosa assai inconsueta nel pop degli anni novanta, perché si assomigliano quasi tutti, sembrano tutti uguali... Puoi stare con una persona che parla con un accento inglese perfettamente normale, e appena si mette dietro a un microfono tira fuori questa pronuncia nasale e strascicata da West Coast. Non riescono a cantare come parlano. Mentre io canto completamente come parlo.» E devi avere la sensazione che la tua voce si rafforzi sempre di più. Sì. Quando riascolto i primi dischi, sembrano molto deboli, urlati, e la voce sembra lievemente isterica, come se fossi in equilibrio su un cornicione. Adesso invece la mia voce è molto più potente, e sono sicuro che c'entri qualcosa l'esofago. Oppure la forza fisica: a quei tempi ero estremamente denutrito. Anche se questo non era un ostacolo per Edith Piaf, suppongo. È una voce più appassionata di prima. Oh sì, lo penso anch'io. E non voglio dire: "Penso sia il miglior disco che ho fatto questa settimana". So benissimo di aver fatto un bel po' di schifezze. Ma questo, penso, è il meglio di me. E tutti inevitabilmente dicono: "Ah, ma gli Smiths... ". Lo trovo così monotono, così noioso. Nulla contro gli Smiths, ovviamente, ma ormai sono dieci anni che non esistono più.» Ma perché non canti mai canzoni degli Smiths dal vivo? Erano belle canzoni. «Sono belle canzoni» corregge scrupolosamente. «Sai, ogni tanto, quando spiano la pastasfoglia per i dolci, mi ritrovo a canticchiare Death Of A Disco Dancer. Ho il sospetto che tutti e due siamo compiaciuti di quanto fosse deliziosamente «da

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Morrissey » quest'ultima frase. Ma perché negare il tuo repertorio? Non lo so. Sicuramente non è una decisione sofferta. Non chiudo il sipario dicendo: "Non canterò più quelle orribili canzoni che appartenevano agli Smiths". Anche perché le sento ancora parte di me. Preferisco cantare le canzoni che ho inciso di recente, perché le trovo meravigliose. Se oggi incontrassi un perfetto sconosciuto e volessi fargli ascoltare le mie cose migliori, sinceramente metterei Vauxhall And I, Maladjusted o Your Arsenal. Non metterei mai Meat Is Murder. E dico davvero. Ho una mia teoria, sai, dico mentre metto via le mie cose. Probabilmente giudicheremo sempre i tuoi dischi con più severità di quanta ne riserviamo ad altri, perché per noi hai sempre contato molto di più. Perché, per certi versi, ci hai spezzato il cuore e non ti sei mai scusato. Morrissey sorride. «Perché non avevo nulla di cui scusarmi.» Guardo l'uomo che non solo ha inventato la specialità di Essere Morrissey, ma ne è ancora l'indiscusso campione del mondo. E inizio a ridere. In questo sei veramente bravo, sai, dico ridendo a crepapelle. Morrissey strabuzza gli occhi. «Ohhh, è impossibile contenere un vecchio professionista.»

Melody Maker 9 agosto 1997

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L'uomo con la spina nel fianco Lynn Barber

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La Colorado Music Hall. Che nome affascinante! Che posto squallido! Uno spoglio capannone di cemento sull'autostrada a pochi chilometri da Colorado Springs, che ha tutta l'aria di essere nato come stalla per il bestiame. Fuori c'è un'insegna al neon, ma non funziona: distinguo a stento le lettere sparse che compongono la scritta MORRISSEY. All'ingresso c'è un lungo bancone dove la gente si azzuffa per prendere una birra in bicchieri di plastica; c'è un tavolo poggiato su dei cavalletti con il «Merchandising di Morrissey», che consiste in un vecchio poster e qualche T-shirt grigia. Nessuno sembra interessato all'acquisto. Nel retropalco, il camerino di Morrissey è poco più che un gabinetto con un paio di buste di plastica sul pavimento (non c'è neanche un tavolo) che contengono del pane tagliato a fette. Nel periodo d'oro degli anni ottanta, con gli Smiths, il suo contratto stabiliva che nel camerino dovessero essere presenti cibo vegetariano, vino, succo di frutta e «fiori per un valore approssimativo di cinquanta sterline, compresi gladioli, escluse rose o fiori con spine», anche se poi tutto questo era stato sostituito dalla richiesta di «un albero vivo con un'altezza minima di novanta centimetri e massima di un metro e mezzo». Il tour manager portava una sega nella valigetta nel caso in cui l'albero fornito fosse stato troppo alto. Ma stasera, nel camerino, non c'è nessun albero. Il concerto di Morrissey comincia con una registrazione di John Betjeman che legge la sua poesia A Child Ill. Poesia che potrebbe anche essere in urdu, visto l'effetto che provoca. Morrissey vaga sul palco, corpulento, con un lungo cardigan marrone. Qualche fan in prima fila applaude, ma la maggior parte degli spettatori è ancora accalcata attorno al bancone della birra. Poi inizia a cantare, e all'improvviso capisco tutto il senso di Morrissey, che fino a quel momento per me era un mistero. È straordinario ˗ non solo per i testi e la voce, i bizzarri gridolini e le urla ˗ ma anche per i suoi strani movimenti: si accarezza il corpo come fosse una diva, si contorce a terra, inarca il collo quasi alla Greta Garbo. È sfrenatamente ambiguo, follemente provocatorio per un paesotto di provincia degli Stati Uniti d'America. Quando intona il suo inno vegetariano, Meat Is Murder, hai quasi paura che tutti quei cowboy cresciuti a bistecche in mezzo al pubblico possano balzare sul palco e ucciderlo. La grandiosità, il coraggio allo stato puro della sua performance, trascende lo squallore che lo circonda. Sono seriamente tentata di correre sul palco e baciargli i piedi.

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Mi avevano avvertito che Morrissey poteva essere eccentrico e difficile. Ma quando l'ho intervistato qualche ora prima, l'ho trovato eccezionalmente gentile, amichevole e tollerante nei riguardi della mia ignoranza in fatto di musica pop. Ce l'ha messa tutta per spiegarmi per quale motivo Jarvis Cocker non valesse una cicca rispetto a lui fondamentalmente perché non sa cantare, ha detto - pur affermando di non aver mai ascoltato i Pulp. Ha fatto delle battute divertenti, comprese alcune rivolte contro se stesso. Quando gli ho chiesto perché fosse così contrario all'alcol e alla droga, ha risposto: «Si tratta solo di autocontrollo, no? Non mi dispiace ubriacarmi, ma non è una cosa che faccio spesso. Insomma, sono umano anch'io. Da lontano». Ha quarantatré anni e li dimostra tutti: un po' appesantito sui fianchi, un po' ingrigito sulle tempie. Indossa un completo in denim piegoline grottescamente attillato, sicuramente di qualche stilista famoso, ma per il resto ha un aspetto abbastanza normale. Ha un accento di Manchester e un pungente spirito mancuniano, ma spesso esclama anche un bejaysus! che presumibilmente è un retaggio dei genitori irlandesi. Spiega che è nel pieno di un tour di tre mesi che farà tappa in varie città americane, poi tornerà in Inghilterra per due concerti alla Royal Albert Hall e da lì proseguirà per l'Australia e Parigi. I tour gli piacciono, dice, perché si diverte a cantare di fronte alla platea: tanto semplice. Ammette che Colorado Springs è un po' fuori dalle rotte consuete, ma per lui «è una prova della propria forza personale, se riesci a raggiungere i mercati più sconosciuti». La sua carriera è a un punto strano. Alla stampa inglese dichiara sempre di andare «forte negli Stati Uniti» ma a dire il vero non ho mai incontrato nessuno che avesse sentito parlare di lui, qui in America. D'altra parte, i due concerti alla Royal Albert Hall della prossima settimana hanno fatto registrare il tutto esaurito, il che lascia intendere che abbia ancora un nutrito bacino di fan nel Regno Unito. Saranno forse vecchi fan degli Smiths, che tengono ancora alta la fiaccola? Lui nega: sostiene di attrarre un pubblico di adolescenti che all'epoca degli Smiths non erano neanche nati. Ma se è così, è un po' un mistero come faccia ad attirarli, visto che non ha un contratto discografico dal 1996, quando la Mercury lo ha ingaggiato per tre album, salvo mollarlo subito dopo il primo. Continua a vedere case discografiche alla ricerca di un contratto: «Però mi chiedono tutte se sono disposto a scendere a compromessi, e io rispondo: "Non se ne parla". Una

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casa discografica mi ha detto: "D'accordo, ti mettiamo sotto contratto, ma vorremo che facessi un album con i Radiohead", che per me non significa niente. E diverse etichette mi hanno detto: "Sì, ci piacerebbe farti un contratto, ma non abbiamo intenzione di ingaggiare anche i tuoi musicisti". C'è sempre qualche condizione assurda, che non ha assolutamente senso. E in più le etichette americane mi chiedono sempre: "La tua musica può conciliarsi con quello che va adesso nelle classifiche americane?". Al che rispondo: "Santo Dio, spero di no!". Dopodiché, alzo subito i tacchi. Se mi vedessi in una di quelle riunioni, ti sentiresti pietosamente dispiaciuta per me». Nessun contratto discografico, allora. Il che significa niente passaggi radiofonici. Il che significa niente nuovi fan. Certo, al momento percepisce ancora buone entrate dalle royalties degli Smiths, ma ammette: «Non so se continueranno ad arrivare, non sta a me dirlo. Non cerco di far succedere niente, non voglio imporre niente. Non mi sento nel mezzo di una carriera e non penso "Oh Dio, devo fare soldi". Quello non mi passa mai per la mente. Si evolve tutto in modo abbastanza naturale, come se una mano invisibile mi guidasse nell'ombra». In ogni caso, può ancora permettersi una vita molto agiata. Ha una casa in Irlanda, ma negli ultimi quattro anni ha vissuto a Los Angeles, sul Sunset Boulevard, in un'abitazione fatta costruire da Clark Gable per Carole Lombard. Quando gli chiedo se è vicino d casa di Johnny Depp, come riporta spesso la stampa, lui mi corregge: «No, è lui che è mio vicino di casa» . Los Angeles gli si addice, afferma, perché «è una città particolarmente asessuata. Tutti hanno dei corpi dall'aspetto così sano, spalmati di ogni crema, profumo e balsamo possibile, non hanno più traccia di alcun tipo di sessualità, niente di vero e terreno. Perciò mi sono ambientato benissimo!». Oggi le sue visite a Manchester sono piuttosto rare: qualche puntata volante per vedere la madre, la sorella e il padre che abitano tutti nella zona, ma non si trattiene mai molto a lungo. per vedere la madre, la sorella e il padre che abitano tutti nella zona, ma non si trattiene mai molto a lungo. «Provo delle emozioni tumultuose quando vado lì: una città che mi ha respinto e poi mi ha accettato in circostanze molto particolari. Durante l'adolescenza è stato sempre molto difficile. A dodici anni andavo a vedere David Bowie e i Roxy Music, ed è un'età molto giovane per andarsene in giro per Manchester da soli. Ho visto tutti i concerti più importanti di quel periodo, ma era un'esperienza molto solitaria, non c'era un gruppo,

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un affiatamento, nessun tipo di unione. Nessuno capiva la musica che mi piaceva. A volte ci si dimentica di quanto fossero austeri i primi anni settanta. Non c'erano tante persone che avrebbero confessato di apprezzare David Bowie, figurarsi poi i New York Dolls, di sicuro non tra i personaggi più difficili di Manchester.» Era il classico maniaco del pop da cameretta, ma ovviamente ancora più ossessivo degli altri. A dieci anni cominciò a comprare tutte le riviste musicali ed era «inconsolabile» se ne perdeva un numero. Scriveva continue lettere di critiche minuziose e pedanti al NME e ad altre riviste musicali, per correggerne gli errori e biasimarne in modo pungente le opinioni. Già prima dell'adolescenza, era un esperto ambulante di musica pop. «Non mi innamoravo mai di persone o di posti: mi innamoravo sempre di singoli a quarantacinque giri. Prendevo la musica pop molto sul serio. Mi sembrava il cuore di tutto, mi sembrava che influisse su tutti e muovesse tutto. Mi ha fatto nascere come persona. Da bambino cantavo tutte le notti perché avevo questo folle desiderio di cantare. Ero ossessionato alla melodia vocale, e lo sono tuttora. È il mio chiodo fisso. E a scapito di qualsiasi altra cosa ti venga in mente.» Malgrado una breve parentesi punk con un gruppo chiamato Nosebleeds, sembrava però che fosse destinato a cantare per sempre contro il muro della sua cameretta. Finché, nel 1982, Johnny Marr non entrò nella sua vita. Marr aveva quattro anni meno di Morrissey, ma aveva già dei buoni contatti nella scena musicale di Manchester. Morrissey gli mostrò i testi che aveva scritto; Marr li musicò; reclutarono altri due musicisti, si diedero il nome Smiths (una scelta singolare, visto che la maggior parte di loro aveva genitori irlandesi) e nel giro di un anno erano diventati famosi. «È stato un successo immediato» concorda Morrissey. «E allontanarmi dalla timidezza di una vita ripiegata su se stessa - non avevo mai avuto una vita, un conto in banca, una macchina - per ritrovarmi a fare un passo avanti, a spiegare questo magnifico piano d'azione che esisteva soltanto nella mia testa, è stato un fantastico processo di apprendimento.» Nei cinque anni del loro regno, gli Smiths produssero cinque album di grande successo e quattordici hit da classifica. Per dirla con Morrissey, fu «una storia di puro e assoluto successo». Nel 1987 però Johnny Marr annunciò l'addio al gruppo, e questo segnò la fine degli Smiths. Morrissey era distrutto: per quel che lo riguardava, era successo tutto

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di punto in bianco. Da allora non ha più visto Marr, se non nelle aule di un tribunale, e afferma di non aver alcun desiderio di incontrarlo. «Perché dovresti avere voglia di vedere uno che ha detto tante cattiverie sul tuo conto? Non mi passa neanche per la testa. Non ha mai detto niente di carino sulla musica che ho fatto da solo. E lui sa che alla fine degli Smiths ero molto depresso... e che forse il fatto di aver mandato in pezzi gli Smiths avrebbe potuto uccidermi. Invece in qualche modo sono riuscito a trionfare: e lui non ha mai avuto una parola di apprezzamento.» Morrissey sostiene che «nessuno è rimasto più sorpreso di me» quando ha iniziato una fortunata carriera solista. Il suo primo album, Viva Hate, è stato un successo. Gli album successivi però sono andati meno bene, e l'ultimo, Maladjusted, quasi non ha venduto. Non ha giovato neanche il continuo cambio di manager e l'abbandono di un tour con David Bowie nel 1995. A detta del suo assistente di allora, Joe Slee, perché «soffriva di una fortissima depressione. Era sul punto di crollare». Secondo Morrissey invece, il motivo era che Bowie continuava ad assillarlo perché cantasse una delle sue canzoni. Poi c'è stata la causa giudiziaria. Ho fatto l'errore di sollevare la questione chiedendo ˗ di sfuggita, credevo ˗ se ormai avesse composto la lunga disputa legale con Mike Joyce, l'ex batterista degli Smiths. Di colpo Morrissey è esploso, lanciandosi in un monologo che diventava sempre più assurdo man mano che andava avanti. Ha detto di non essersi «mai trovato faccia a faccia con la malvagità umana» finché non ha incontrato il giudice John Weeks. Usa il nome John Weeks come un incantesimo o una maledizione. La causa giudiziaria è nata perché, dopo che gli Smiths erano finiti nel 1987 e Morrissey e Marr avevano intrapreso carriere separate, li altri due membri del gruppo, Andy Rourke e Mike Joyce, hanno cominciato a pensare di essere stati sottopagati, in quanto avevano percepito soltanto il dieci per cento dei guadagni degli Smiths, invece del venticinque percento. La situazione era complicata perché Joyce e Rourke non avevano mai avuto un contratto: anzi, dal punto di vista legale, non esistevano neanche. In ogni caso, Rourke e Joyce hanno intentato causa a Morrissey e Marr per recuperare gli arretrati. Rourke si è ritirato poco dopo, mentre Joyce ha perseverato e la causa è giunta in tribunale nel 1996. Pronunciandosi a favore di Joyce, il giudice ha definito Morrissey «equivoco, crudele e inaffidabile» e ha disposto che lui e Marr versassero a Joyce un milione e duecentocinquantamila sterline di arretrati. Marr ha pagato subito, mentre

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Morrissey ha presentato ricorso in appello, che è stato respinto. Ovviamente deve essere stato un brutto colpo. Ma sono passati sei anni, e ormai dovrebbe essersi ripreso. Macché! «È stato un clamoroso errore giudiziario» sbraita. «L’unico scopo di quel processo era dire che il signor Joyce è un povero cristo che ha disperato bisogno di soldi, trattato malissimo da Morrissey e Marr, quando la realtà è che è stato trattato con assoluta generosità, considerando il ruolo minore che aveva. Suonava il suo strumento e andava a casa. Pensava solo a scopare. Io e Johnny Marr, per tutta la storia degli Smiths, non ci siamo mai portati a letto nessuno, e prendevamo gli Smiths molto sul serio. Facevamo le ore piccole per perfezionare e preparare tutto. Joyce era l'esatto opposto: non aveva nessun senso del dovere. E così quando questo personaggio, dieci anni dopo la fine del gruppo, ha cominciato a pretendere un milione di sterline...» Marr e Morrissey erano in tribunale insieme, ma non si sono rivolti la parola se non attraverso i propri legali. Alla fine, Marr ha accettato la sentenza, mentre Morrissey ha fatto ricorso in appello, dove non se l'è cavata meglio. « Vai in corte d'appello e ti trovi tre giudici che hanno la stessa età, colore, provenienza e atteggiamento del giudice del quale ti stai lamentando. E la loro posizione è: "Come osa dissentire da uno dei nostri amici?".» Allora Morrissey ha presentato un reclamo al Primo ministro, alla Regina («Tony Blair se n'è completamente disinteressato; la Regina è stata molto gentile»), al Lord Cancelliere, al difensore civico, all'Ordine degli Avvocati ... «Ma si limitano solo a raccogliere i reclami per poi proteggere i giudici.» Joyce nel frattempo ha posto un'ingiunzione sulle case della madre e della sorella di Morrissey (presumibilmente perché Morrissey non ha proprietà nel Regno Unito), che ne impedisce la vendita finché non viene saldata la somma da risarcire. Morrissey ha deciso di portare il caso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, anche se ammette che gli sta costando una fortuna «perché ogni nuovo avvocato che assumo per difendermi, dopo aver valutato la situazione complessiva e la trova talmente straordinaria che immediatamente mi piazza davanti una fattura da centomila sterline prima di fare alcunché». Non sarebbe più sano, ragionevole e conveniente abbandonare l'impresa prima che sia troppo tardi? «No. Non mi arrenderò mai. Combatterò finché non mi spillano l'ultima goccia di sangue. Affonderò con tutta la nave. E mia madre con me. Ma nel frattempo, sembra che questa causa gli stia rovinando la vita. «No. Ha rafforzato la mia determinazione. Non mi sono rintanato in un buco di Manchester circondato da bottiglie di birra vuote. Dovranno combattere a lungo e con forza, per abbattermi.»Non

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bottiglie di birra vuote. Dovranno combattere a lungo e con forza, per abbattermi.» Accidenti! Mi pento di aver sollevato quell'argomento perché è stata mezz'ora di veleno quasi allo stato puro. E più tardi, quando l'assistente di Morrissey, Blossom, mi ha chiesto di cosa abbiamoparlato e io le ho risposto «Della causa giudiziaria, in larga parte», ho visto che ha fatto una faccia... Scommetto che tutti i suoi amici ˗ non che ne abbia, a sentir lui ˗ sanno di non dover toccare quel tasto. Comunque, ho cambiato volentieri argomento per chiedergli della sua inesistente vita affettiva, un tema che sembra sempre felice di approfondire. Ha mai delle relazioni? Relazioni fisiche, no. Voglio dire, su questo pianeta ci sono anche persone che non sono fissate con il sesso, e io sono una di queste. Non m'interessa. E non nascondo niente, non vado da qualche parte col favore delle tenebre per condurre una sfrenata vita segreta. Non m'interessava a diciassette anni, non mi interessava a ventisette, mi interessava meno a trentasette e m'interessa ancora di meno adesso. Apprezzo enormemente la compagnia di me stesso, perciò non avverto un grandissimo vuoto. Me ne sto a casa la sera e mi sento assolutamente onorato di non dover badare a nessuno, o ascoltare o sopportare qualcuno. Ritengo che sia un grande privilegio vivere da soli. Chi è il suo miglior amico? Ride in modo derisorio. «Il mio migliore amico? A quarantatré anni? La mia carta di credito penso!» Nemmeno un gatto? No. Il mio miglior amico sono io. So badare benissimo a me stesso. Posso contare su me stesso per non essere mai deluso. Sono l'ultima persona che vorrei vedere la sera e la prima al mattino. Sono infinitamente affascinante: alle otto di sera, a mezzogiorno, sono affascinato da me stesso. È un rapporto che dura da una vita e non ci sarà mai un divorzio. Ecco perché, come ho detto, mi sento un privilegiato. È questa è una risposta sincera. Gli credo. Ma visto il suo dichiarato narcisismo, sembra incredibile che si muova in un ambito come la musica pop, che per definizione comporta il fatto di essere conosciuto

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di comunicare con gli altri. «Sì» ammette. «È una contraddizione enorme, in effetti. Ma gli elementi superficiali della celebrità pop, se vuoi, non sono il motivo per cui sono qui. In generale mi interessa la scrittura e il cambiamento del panorama poetico della musica pop, e credo di esserci riuscito. Con gli Smiths, ho introdotto un romanticismo aspro che poi è stato ripreso da molti e che prima non esisteva. Ed è piacevole essere una singolare nota in calce alla storia della musica leggera britannica. E non essere accondiscendente, sorridente, scialbo.» E con queste parole se ne va, sorridendo, per il suo concerto alla Colorado Music Hall, dove improvvisamente - troppo tardi - scopro il senso di Morrissey.

The Observer 15 settembre 2002

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Chi è il padre? Keith Cameron

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Morrissey è stanco. Come lui stesso ammette, è stanco di sentire la sua stessa voce. In una suite al Dorchester Hotel di Park Lane, a Londra, si scusa con Mojo per quello che stiamo per ascoltare, per così dire. «Vi avverto. Sono nella fase della chiacchiera a ruota libera: me ne sto seduto, le labbra si muovono, sento il suono delle parole che arriva da qualche parte e poi mi rendo conto che in realtà sono io a pronunciarle. Mi piacerebbe tanto riuscire a fare un passo indietro o di lato e gridarmi contro! Purtroppo, soltanto perché ti capita di mettere insieme un album di cui sei terribilmente fiero, si dà per scontato che tu abbia una risposta per tutto, e possa spiegare tutto con fantastica fluidità.» Soffoca una risatina nella gola, con un fare benevolo e autocritico, che alle orecchie di Mojo ricorda stranamente i toni delicati di John Arlott, leggendario commentatore di cricket e poeta; un pupillo di Betjeman, un intenditore di vino e di parole, e soprattutto, considerato l'ambiente conservatore a cui apparteneva, un precursore della campagna per l'abolizione dell'apartheid. Un uomo considerato la quintessenza dell'Inghilterra, che tradiva anche una profonda vena antisistema, Arlott era cresciuto in una famiglia di umili origini, nella casetta del custode del cimitero di Basingstoke. Forse la somiglianza non è poi così strana, in fondo. A due mesi dal suo quarantacinquesimo compleanno, l'età e il contemporaneo leggero aumento di circonferenza del girovita fanno parte di Steven Patrick Morrissey. È in forma smagliante, anche se un po' affaticato dai rigori della campagna promozionale. Sono passati sette lunghi anni da quando il suo ultimo album «messo insieme», il deludente Maladjusted, è passato via quasi inosservato, più o meno nello stesso periodo in cui Morrissey lasciava l'Inghilterra via Dublino per trasferirsi definitivamente a Los Angeles, dove risiede tuttora. Una condizione che dalla prospettiva britannica sembrava sempre più simile a un esilio. Senza un contratto discografico, dopo che il rapporto con la Mercury si era disintegrato nel 1998, si è fatto strada tra vari manager e ha comunicato con il suo pubblico tramite due tour mondiali nel 1999-2000 e nel 2002. Le dimensioni di queste tournée hanno dimostrato che Morrissey godeva ancora di un notevole bacino di pubblico, soprattutto negli Stati Uniti e in America Latina, dove il suo culto della personalità rasenta l'idolatria religiosa, attraversando tutto lo spettro demografico, sia esso di genere, di età

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o di nazionalità. Eppure l'industria discografica lo scansava. Nel settembre 2002, senza pubblicità preventiva, ha fatto registrare il tutto esaurito in due serate alla Royal Albert Hall. Com'era possibile che l'uomo che aveva cantato le canzoni degli Smiths, la band che più di ogni altra dopo i Beatles e i Sex Pistols aveva contagiato il vocabolario della cultura pop britannica, non riuscisse a fare dischi? Era una cosa che non aveva senso. Stiamo parlando di Morrissey, la voce che aveva intonato This Charming Man, William lt Was Really Nothing, How Soon ls Now, That Joke lsn't Funny Any More, Meat ls Murder, The Queen ls Dead, Bigmouth Strikes Again, Panie, Shoplifters Of The World Unite, Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me, Everyday ls Like Sunday, November Spawned A Monster, The More You lgnore Me The Closer I Get, The Teachers Are Afraid Of The Pupils, Satan Rejected My Soul... Doveva essere per qualcosa che aveva detto. Dopo l'uscita senza entusiasmo di Maladjusted, a parte qualche sporadica intervista alla radio o sui giornali, per l'ascoltatore casuale del Regno Unito Morrissey era solamente una presenza spettrale nell'etere dello spettacolo, sorretta dalla continua ristampa del catalogo dei dischi degli Smiths e dalla concomitante celebrazione retrospettiva di uno dei gruppi più straordinari di sempre. Nell'aprile del 2001, Mojo pubblicava un ampio servizio sugli Smiths, accompagnato da alcuni articoli che esaminavano tre aspetti determinanti della carriera solista di Morrissey: la denigrazione da parte di elementi della stampa per presunti sottintesi razzisti di alcuni suoi brani; la causa giudiziaria del 1996 in cui il giudice si pronunciò a sfavore di Morrissey e del coautore dei brani degli Smiths, Johnny Marr, in una disputa sulle royalties intrapresa dall'ex batterista Mike Joyce; la sua incredibile popolarità negli Stati Uniti, dove nel 1992 aveva fatto registrare il tutto esaurito per due serate all'Hollywood Bowl in meno tempo di quanto occorra per preparare una tazza di tè. Nello stesso numero della rivista c'era una nuova intervista con Morrissey, in cui rifletteva sull'ostracismo da parte dell'industria discografica («Che cosa c'è in Morrissey che nessuno vuole toccare?») e spiegava la sua decisione di non rispondere alle accuse di razzismo mosse dai media («tutte stronzate») come mezzo per mantenere la sua dignità. Quando l'intervistatore, Jaan Uhelszki, gli domandava «Possiamo parlare di quello che stai facendo adesso per quanto riguarda la tua carriera?», Morrissey rispondeva: «Allora sarà una conversazione molto breve. Sto cercando un contratto, visto che non ce l'ho... Ho un album che vorrei tanto incidere,

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se qualche anima pia me lo permettesse». Più di due anni dopo, qualcuno finalmente ha risposto. Il 20 maggio 2003, Morrissey ha firmato per la Sanctuary Records Group, un agglomerato di etichetta e management con sede a Londra ovest, sotto la cui egida il primo mecenate di Morrissey, Geoff Travis, attualmente gestisce la riorganizzata Rough Trade Records. Il sottinteso era chiaro: Morrissey è un patrimonio nazionale e noi lo abbiamo disconosciuto, lo abbiamo ignorato e alla fine lo abbiamo costretto ad andar via. Le sue ultime parole, nel documentario, erano: «Sono padrone di me stesso e va bene così. Non cedo... e va bene così». E adesso è tornato, con un nuovo album dal titolo battagliero, You Are The Quarry ˗ la copertina raffigura Morrissey con un mitra in mano, che contempla l'arma un po' troppo affettuosamente, per i gusti di qualcuno ˗ e tiene corte al Dorchester con portamento regale, dopo essersi fatto fotografare nella sala da tè e sulla balcone della suite dove alloggiava il presidente Eisenhower. La fila di intervistatori conferma la sua disponibilità a prendere pienamente parte ai meccanismi senz'anima del business discografico, un riflesso della sua opinione che il nuovo disco sia «assolutamente l'album definitivo di Morrissey ». Ma è anche il risultato di un ritorno di interesse nei suoi confronti: un riconoscimento collettivo del fatto che la sua assenza si fa sentire e che in primo luogo non gli si sarebbe mai dovuto permettere di andar via. Come al solito, quando c'è di mezzo Morrissey, è una cosa che ha dei pro e dei contro. «Mi hanno chiesto di fare una quantità eccessiva di discorsi, diciamo così, e purtroppo le interviste, per me, sono sempre dei controinterrogatori abbastanza intensi, diventano estremamente personali e mi prosciugano le forze. A dire il vero sono una persona estremamente personale, perciò destreggiarmi con interviste che rivelano qualcosa di me mi risulta molto difficile. Perché per essere sincero preferirei non dire nulla. Preferirei assolutamente lasciare che la musica parlasse da sé e facesse quello che può fare. Ma ho provato tante volte e non è successo niente. Scompare semplicemente. La casa discografica però vuole che faccia molto di più, e non credo di essere in grado. Insomma, non sono Britney Spears.» E allora perché è qui? Perché lo fa? «È una vocazione in tutto e per tutto, davvero. Perché, purtroppo, io non esisto altrove, nella vita.»

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Tre settimane dopo, Morrissey sta male veramente. L’8 aprile, Mojo arriva a Los Angeles per la seconda parte dell'intervista, e apprende che a Morrissey è stata diagnosticata una meningite, e non vedrà nessuno, né tanto meno parlerà, finché non si ristabilisce. Sarà pure crudele, ma istintivamente ci sentiamo scettici. Costringere Morrissey a fissare un appuntamento non è stato facile finora, e non sarebbe la prima volta che evita gli impegni scomodi semplicemente rendendosi irreperibile. Proprio come le sue interviste sono combattimenti di allenamento, con questo appassionato saltuario di boxe e maestro della finta, della parata e del contrattacco a sorpresa ˗ per non parlare dei colpi sotto la cintura sferrati di soppiatto ˗ allo stesso modo Morrissey si diletta a condurre un'allegra danza con il mondo all'esterno della sua finestra. Per lui, l'importanza di essere Morrissey gli garantisce che nessuno sappia davvero chi è Morrissey, o che cosa fa (e con chi). E questo, ovviamente, è uno dei motivi del suo fascino duraturo. Nell'album d'esordio degli Smiths affermava: «Non sono l'uomo che credi» e vent'anni dopo, l'intenzione di confondere le acque che si nascondeva dietro quelle parole resta la stessa. Il 15 aprile, Mojo parla con lui al telefono. Un po' rauco, ma per il resto apparentemente a posto, spiega di aver contratto un virus sul volo di ritorno da Londra a Los Angeles e successivamente di aver avuto un'emicrania per cinque giorni, che ha sconvolto tutti i suoi piani, e in particolar modo le prove generali per la tournée americana. «È seccante, perché tra quarantotto ore dovrò salire sul palco a Las Vegas per cantare, si spera» dice. «Sono un po' nervoso. La meningite c'entra solo in parte. Mi hanno fatto due scintigrafie cerebrali in due giorni. Dopodiché, nell'ultima analisi, martedì scorso, mentre stavano per prelevare un campione di fluido spinale, mi sono alzato e ho detto "Basta, è ridicolo". Assolutamente ridicolo. I medici americani non sanno niente di niente. Ti amputano una gamba solo per prevenire che ti venga una cancrena in futuro. Non sto scherzando. Sono finito in ospedale con la flebo, ed è stato estremamente umiliante e imbarazzante. E a un certo punto sono andato a fare una scintigrafia cerebrale e mi hanno lasciato in una stanza per un quarto d'ora con un sottofondo di musica hip hop a tutto volume. Io però ero legato al letto e con la flebo al braccio, perciò non potevo fare niente. E così mi ritrovo con questa emicrania fortissima, ad ascoltare hip hop. Può succedere solo in America.»

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Era la musa di Morrissey, Oscar Wilde, che a quanto pare riteneva: «La coerenza è l'ultimo rifugio delle persone prive d'immaginazione» . Vale la pena tenere a mente queste parole quando si sentirà dire ˗ come sicuramente avverrà ˗ che You Are The Quarry è un «trionfale ritorno in forma», e cose simili. Certo, è di buon auspicio. Morrissey non fa un album decente da Vauxhaull And I del 1994. Le trame e gli arrangiamenti strumentali sono ricchi e vari, la produzione dura ma gradevole, mentre la voce di Morrissey è semplicemente magnifica, il suo caldo baritono mai così perfettamente intonato e fraseggiato. Ma stilisticamente e in molte delle specifiche preoccupazioni narrative e ossessioni tematiche, non pare allontanarsi molto da Maladjusted o dal suo predecessore, Southpaw Grammar del 1995, allo stesso modo sdegnato dalla critica e accolto con riserve da tutti, salvo che dai fan più irriducibili. Lungi dalle catastrofi artistiche che il giudizio suggerirebbe, questi due album sono affascinanti, in quanto documentano la crisi di mezza età di metà anni novanta del loro autore: passato rapidamente da una nuova etichetta all'altra (RCA e poi Mercury/ Island), demoralizzato per il trattamento subito dalla stampa, sconfitto nelle aule di tribunale e solo il cielo sa da quali altri e più profondi traumi personali. A tratti, sia Morrissey che la musica sembrano imbavagliati, incerti. Per uno che parla con il cuore in mano sulle copertine dei dischi, c'erano degli indizi anche nella grafica: non tenendo conto della raccolta World Of Morrissey, Southpaw Grammar era l'unico album solista di Morrissey a non presentare il suo volto in copertina mentre Maladjusted era frettoloso da non credere, un poco lusinghiero ritratto di Moz in bianco e nero ritagliato e appiccicato alla meglio su uno sfondo argentato. Significativamente o meno, Morrissey concesse relativamente poche interviste nel periodo d'uscita dei due dischi. Perciò basta un'occhiata all'opulenta copertina di You Are The Quarry per capire che la forza è di nuovo con lui. Si potrebbe sostenere che se Morrissey non fosse ritornato con un disco che si avvicinava al suo meglio dopo uno iato di sette anni allora non era davvero l'uomo che credevamo, in fin dei conti. Invece ha superato se stesso. Mentre gli esperti di studi morrisseyani apprezzeranno una serie di vividi esempi da elencare nella loro infinita e futile ricerca per accertare la sua vera natura maschile/femminile (vale a dire, I'm Not Sorry, dove Moz ammette: «La donna dei miei sogni, be', non c'è mai

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stata»; o All The Lazy Dykes, un commovente appello a una donna sposata e infelice a «liberarsi» [...] «e unirsi alle ragazze»), ciò che rende così splendido il suo settimo album solista è l'eleganza musicale all'altezza dell'armamentario narrativo. Riguardo a quest'ultimo, c'è da dire che non viene sprecata neanche una pallottola. Se il tono è aggressivo, è perché Morrissey si sente chiaramente offeso. C'è spirito, passione e pathos in ogni verso, meticolosamente misurato. Il singolo Irish Blood, English Heart è una dichiarazione straordinariamente convincente del suo patriottismo («Ho sognato di un tempo in cui / essere inglesi non significa essere nefasti / e si può stare in piedi vicino alla bandiera senza vergognarsi / sentirsi razzisti o di parte»). How Can Anybody Possibly Know How I Feel afferma: «Mi hanno trascinato la faccia per venticinque chilometri di merda / e non è / e non è / e non è che mi piaccia». E il solido brano di chiusura, You Know I Couldn't Last, è il suono di un uomo gravemente in conflitto che entra nel saloon dell'ultima possibilità e ne esce con tutte le armi che aprono il fuoco. Fa fuori i suoi fan, i critici, i manager, gli ex compagni («le sanguisughe del Nord continuano a succhiare») e alla fine rimane a contemplare ciò che rimane della propria immagine riflessa: «Le tue royalties ti portano i lussi / Ma anche, oh... lo squallore della mente». Nella sua florida grandiosità ricorda nientemeno che i Queen. Oltre che «definitivo», per il Morrissey pre-meningite che sorseggia tè al Dorchester, «è un disco talmente perfetto e risoluto che il mio compito su questa terra può dirsi concluso». Hai molti conti in sospeso là fuori? Sì, perché sono stato una preda per tanti anni. E mi hanno sparato contro a casaccio ripetutamente. Perciò sì, mi sento gravemente ferito. Ma stavolta ho la sensazione che l'album rappresenti qualcosa di più profondo, rispetto al semplice sentimento di vendetta, e che riesca a superare anche l'idea di saldare tutti quei conti in sospeso. Mi sento come se fossi stato, in qualche modo, reso vittima. E non è una sensazione molto divertente. Hai qualche idea sul perché sia accaduto? La base di partenza non è nulla di più sinistro della gelosia, in realtà. E di nemici ne ho molti. In più, a quanto pare, riesco a stimolare una reazione nelle persone. Non c'è nessuno sulla faccia della terra a cui io vada bene. O sono estremamente pro o

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estremamente contro. Non sono il tipo di persona che tende a passare inosservato. Non è detto che sia necessariamente una cosa negativa, no? Lo è quando attraversi una folla di gente che non ci tiene più di tanto a te: allora preferisci passare inosservato. Perché hai tanti nemici? Forse perché sono una persona forte, e non faccio affidamento sugli altri. E non chiedo aiuto. E quindi non hanno pietà di me. Ma la vorresti, in un certo senso? No, affatto. È un ambiente di gente piena di sé. Se ti allontani da loro, cercano di vendicarsi per il resto della vita, contro di te. Ho avuto tanti manager, tante case discografiche e tanti musicisti, e non perdonano mai, anche se magari se ne sono andati via per conto loro, non perdonano mai. Fanno tutto ciò che è in loro potere per impedirti di realizzare i tuoi sogni. Ho tanti nemici. Ma va bene lo stesso. Sarebbe giusto dire che odi l’industria discografica? Sì. Eppure continui ad essere legato a lei. Sono intrappolato. Davvero? Ma perché continuare, se provi tanta avversione per questa macchina? Mi pulsa nelle vene, e non posso farci niente. Sono nato in un baule, uno di quelli all'antica... Insomma, semplicemente mi piace cantare. Le trappole in alcuni casi sono necessarie. E se fai un bell' album vuoi che lo senta più gente possibile, perché vuoi che alla gente... piaccia, davvero. Perciò è molto difficile, perché tante cose che mi si chiede di fare, tante attività collaterali, le affronto con l'orrore più assoluto... ma che ci posso fare? Non sei mica costretto a far uscire dischi secondo le convenzioni. Mmm.

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Ti piacciono le luci forti... Be', le luci forti non riesco a sopportarle, però... mi piace l'urlo del cerone. Qualche anno fa Paul Weller, esprimendo un'avversione simile per le trame dell'industria discografica, ha detto che stava seriamente meditando di troncare ogni rapporto e limitarsi a suonare una volta alla settimana nel pub sotto casa sua… È interessante. Perché probabilmente si è spinto fino al limite massimo, direi. Il problema di tutte le trame dell'industria discografica è che se non hai una personalità spumeggiante, e io non ce l'ho, così come tutto il mondo sa che neanche Weller ce l'ha (ride), allora non riesci proprio a inserirti nel meccanismo, meccanismo, e quindi se non sei disposto ad adattarti la casa discografica non si prenderà certo il disturbo di provare a spingere il tuo nuovo cd in giro. È un equilibrio delicatissimo. Chi sono le «sanguisughe del Nord» a cui fai riferimento? Lo sai benissimo. Una di loro sarà Mike Joyce. Mmm. Sarebbe sicuramente perfetto per la parte, no? Le schermaglie scherzose e le digressioni impertinenti lasciano il posto a lunghi e lucidi soliloqui sull'ingiustizia di ciò che è accaduto in tribunale sotto la giurisdizione del giudice John Weeks alla fine del 1996. «Equivoco, crudele e inattendibile» , è stato il giudizio di Weeks nei confronti di Morrissey nella sua arringa finale alla corte. Come avrebbe detto uno dei vecchi testi degli Smiths scritti da Morrissey, è una storia vecchia, ma continua... perché, a suo dire, Weeks ha emesso una sentenza viziata, assegnando a Joyce un risarcimento di un milione e duecentocinquantamila sterline, dopo aver stabilito che Joyce era socio al venticinque per cento, ma senza dare disposizioni sulle modalità con cui Joyce avrebbe dovuto ricevere il denaro. «E siccome Joyce non compare in nessun contratto degli Smiths, di qualsiasi tipo, nessuno gli verserà soldi perché in base al contratto non ne ha alcun diritto.» Così, spiega Morrissey, ogni volta che suona in Inghilterra, Joyce emette un decreto ingiuntivo per tentare di spillare denaro. «Andrà avanti così per il resto dei suoi giorni, un parassita di tutti quelli che fanno parte della mia vita. Ormai il suo scopo di vita è questo. E gli

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permette di continuare a far parte della mia storia. È diventata una farsa assoluta, c'è soltanto una vittima e sono io. Il giudice non dovrebbe pronunciare giudizi personali. Perché magari sarò anche una persona antipatica, ma questo non significa che non sia attendibile in tribunale. Evidentemente il giudice voleva farmi pagare per tutte le cose che ho detto sulla Thatcher, sulla regina o sulla caccia alla volpe, perché questo giudice ovviamente appartiene alla lobby della caccia ed evidentemente ci sono dei dossier personali che fanno circolare tra loro. Mi sembra un'ottima teoria del complotto, e mi piacerebbe crederti, da questo punto di vista, però... Devi assolutamente, per forza, è talmente semplice! Se esamini le carte del processo è chiaramente ovvio che il personaggio Morrissey andava demolito. Perché tutta la vicenda ha finito per riguardare soltanto Morrissey? Non Morrissey e Marr, che erano soci, ma soltanto Morrissey e la distruzione di Morrissey. Perciò è chiarissimo, a chiunque abbia un minimo di intelletto, che si è trattato di un accanimento premeditato. Come hai affrontato la situazione, all'epoca? L’ho affrontata credendo che avrei avuto sufficiente determinazione per tirarmi fuori dalla situazione. E liberarmene. Cacciarla via. E ho sempre creduto che non fosse finita, e anche se stavo con delle etichette discografiche tristi e inutili ho sempre creduto che ci sarebbero stati tempi migliori. Ci sono stati, e ci sono tuttora. Credi che i lavori usciti per quelle etichette siano i più validi? Ehm... No, non credo. Ma non chino il capo per la vergogna. Oggi sono giorni più felici. E non ho più quelle vecchie persone dimenticate, quei rimasugli da ringraziare. È una situazione che Frank Sinatra ha vissuto due volte in vita sua, quando si trovava in una posizione elevatissima, musicalmente, per poi cadere a picco, e sembrava che non avesse più un amico sulla faccia della terra. E tutte le persone che avevano lavorato con lui, o avevano avuto rapporti con lui, gli si erano rivoltate contro, saltando sul carro di chi lo disprezzava. Credo che in definitiva sia stato quello a renderlo un personaggio così duro. Perché era caduto. E sapeva che cosa significa essere preso a calci e criticato da persone che lui aveva aiutato. In misura minore, mi sembrava che ci fossero dei paralleli diretti. (lunga pausa) E questa è la mia spiegazione ingarbugliata. Ti ho appena

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sentito russare. Oppure hai un'insufficienza renale. Mi brontola lo stomaco è vero... Il tandoori special di ieri sera. Ma passiamo a cose più allegre... Credi che gli Smiths dovessero morire per forza? Era inevitabile che finisse tutto? Mah, per me no. Quindi la fine della band è stata decisa da altri? Sì, è così. Ero convinto che saremmo arrivati almeno allo stesso livello dei Queen. (pausa) Stai ridendo. Non sto ridendo! È una nobile aspirazione... Sai, spesso mi dicono «Allora, i R.E.M.». E io penso «No, per niente». Ci dirigevamo nella direzione dei Queen con la «Q» maiuscola, ovviamente. Quindi eri sinceramente deluso quando è finito tutto? Ero sconvolto. Assolutamente sconvolto. Ma ormai mi è passata! (ride) Ho avuto il tempo per farmene una ragione, ho ricevuto fin troppi consigli, mi sono sforzato di tornare alla normalità e adesso cammino a passo spedito verso... l'abisso. Ma c'è tanta gente che non si rassegna alla morte degli Smiths. Ho saputo che Q sta preparando un numero speciale sugli Smiths, radunando tutti quei residuati bellici che mi hanno incontrato sulle scale nel 1986 per un'ora, per approfondite e preziose riflessioni. Che noia. In tutte queste retrospettive, sia in televisione che sulle riviste, intervistano sempre la stessa compagnia di giro, la solita aria fritta, mentre c'è una marea di gente che era coinvolta nella faccenda e non è stata mai contattata. Sempre le stesse facce, ogni volta, sempre le stesse... persone, per così dire. C'era qualcosa che avresti potuto fare per convincere Johnny Marr a restare? Non abbiamo avuto neanche il tempo di discutere. Se n'è andato in fretta e furia, e mi pare che abbia cominciato subito a collaborare con i Talking Heads e Bryan Ferry. Il che mi sta anche bene. Forse però lui aveva in mente di risollevarsi subito dalla situazione, mentre poi non è andata così. E allora sono venute fuori tutte quelle

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innominabili cattiverie gratuite. Lo senti ancora? Abbiamo parlato un po' l'estate scorsa. In toni molto cordiali. Ma è difficile affrontare la questione della causa giudiziaria, perché è una cosa mostruosa che va ancora avanti ed è complicatissima. Lo strascico degli Smiths è tremendo. Credo che sia l'eredità peggiore che abbia lasciato qualsiasi gruppo nella storia nella musica. È una vicenda brutta e contorta. Sono convinto che potrà finire soltanto con... un omicidio. E tu stai parlando con il probabile cadavere. (ride) Dico sul serio. Stiamo arrivando a quel punto. Insomma, chi è che ha detto Viva Hate? Ma presumo che tu sia fiero dell'eredità musicale. Sì, vado estremamente fiero della musica, ma tanto non se ne parla mai. E quando Marr, Rourke e Joyce vanno in televisione non parlano mai della musica, parlano solo della tremenda esperienza di aver fatto parte degli Smiths. Lo trovo molto triste. (Allegramente) Ma ormai non possiamo farci niente! Forse, paradossalmente, Morrissey prova un certo piacere perverso nell'ingiustizia subita nei tribunali. È una giustificazione per tutto il vetriolo e la bile che ha sfogato sull' establishment britannico. Eterno estraneo, vittima del paese che ha esaltato e criticato fin dall'inizio. In questo contesto, Irish Blood, English Heart è un personalissimo cri du coeur che chiarifica la sua posizione ambivalente nei confronti della nazionalità in modo assai più conciso, e meno polemico, rispetto a tentativi del passato come Bengali In Platforms («La vita è già abbastanza dura per chi è del posto»). Cresciuto nella Manchester operaia degli anni sessanta, figlio di due immigrati irlandesi, Morrissey ha acquisito una acuta consapevolezza delle origini ibride della Gran Bretagna. «Ovviamente gli irlandesi provano risentimento verso l'Inghilterra, perché l'Inghilterra storicamente è stata spaventosa, per l'Irlanda» dice. «Perciò sono cresciuto con una certa confusione.» Il luogo in cui vive Morrissey, ovviamente, non è l'Inghilterra, né l'Irlanda, ma Los Angeles, la città che Michael Stipe una volta ha descritto come una colonia di lemming

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sul precipizio di un continente, in attesa che un terremoto la separi definitivamente dal resto del mondo. definitivamente dal resto del mondo. Quale luogo migliore per conservare una visione idealizzata della cara vecchia Inghilterra? Morrissey dice: «Sinceramente, comincio ogni giornata soltanto con l'intenzione di evitare la gente» e a questo scopo Los Angeles è certamente il posto ideale. Gli piace l'architettura, il paesaggio, il clima. E questo raffinato voyeur trova che l'America sia infinitamente affascinante, anche se gli manca la «semplicità» della televisione britannica. «Sarei potuto tranquillamente restare» dice, fissando quel che resta del suo tè. «Ma era arrivato il momento di cambiare aria. Dovevo andare altrove. Ero stato a Dublino per parecchio tempo, ma, per quanto fosse piacevole, non era un cambiamento abbastanza drastico. Dovevo andare in un posto ragionevolmente lontano, per scoprire la mia natura nascosta. (fa un largo sorriso). Ed è stato uno shock! Non potrei dare una spiegazione migliore.» Nonostante ami tornare in Inghilterra, fare una passeggiata e incontrare gente, non fa previsioni su un possibile ritorno definitivo. «È una decisione che lascio al destino. Mi limito a seguire il destino, dovunque mi trascini. C'è un detto - sono certo al novantadue per cento che sia di Thomas Mann che recita: non si può mai tornare a casa di nuovo. Ogni secondo della vita è una scelta di tempo, e l'atmosfera del presente. Pensi che il passato sia un luogo a cui si può fare ritorno, ma non è così. Anche se si dice che non è mai troppo tardi per avere un'infanzia felice, no? Ma suppongo che si possa avere anche senza tornare da qualche parte. Puoi ritrovare la tua infanzia in un altro luogo. Non è mai troppo tardi per correggere gli incubi che hai nella mente.» Si alza in piedi. «Chiedo scusa.» C'è una telefonata per lui nella stanza accanto. È Chrissie Hynde. In veste di curatore del Meltdown Festival di Londra di quest'anno, Morrissey vuole radunare di nuovo i membri superstiti della sua prima illuminazione pop, i New York Dolls, e sta cercando persone che prendano il posto dei Dolls passati a miglior vita. Vorrebbe che la Hynde diventasse «Chrissie Thunders». «Bisogna stimolarla un po', ma credo che accetterà. Lei è un'altra che impazzisce per i Dolls. A te sono mai piaciuti? Hmm... Quindi, vuoi addirittura venire a Los Angeles per farmi domande sull'Inghilterra? Ci deve essere un modo più semplice!» Mojo e Moz si stringono la mano e ci congediamo, contando di rivederci a casa sua fra

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fra poche settimane. Invece non è così. Le sue ultime parole vengono pronunciate al telefono, con voce stridula, alla notizia di essere uno dei mancuniani famosi scelti per rinnovare l'immagine dell'aeroporto di Manchester. «Wow! Ma non ti pare assurdo? Splendidamente assurdo. La vita riserva sempre delle sorprese. Insomma, poi che cosa succederà, secondo te? Quindi in Inghilterra stanno mandando Irish Blood, English Heart? Davvero? In America sta passando su tutte le radio, una cosa del genere non mi era mai capitata. È incredibile, assolutamente incredibile. È veramente un bel periodo per me.» In definitiva, vuoi soltanto essere amato? Mi piacerebbe anche essere apprezzato. Ma mi accontenterò dell'amore, se non c'è altro in offerta. Hai qualche consiglio per me? Sii te stesso, liberati... Ci proverò.

Mojo giugno 2004

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Felice adesso? Andrew Male

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Morrissey non ha un'aria felice. D'altronde, si sa, le apparenze possono ingannare. È seduto al bar dell'Hotel de Russie di Roma (imponente facciata ottocentesca, interni moderni), sorseggia una vodka Grey Goose con acqua tonica, e valuta la proposta del fotografo di Mojo: un servizio, domani, accanto alla tomba di John Keats nel cimitero protestante della città. È impressionante constatare che in carne e ossa, a quarantasei anni, Morrissey non somiglia quasi per nulla a quel ragazzo cattolico degli anni ottanta, esile e impacciato, con le camicie da donna e i jeans sformati, che si domandava quand'è che la natura l'avrebbe reso uomo. Oggi è più robusto, ha la vista acuta, sfoggia scarpe su misura, una camicia azzurra di sartoria, un invidiabile pullover di cashmere e un paio di jeans scuri, e somiglia a uno di quegli attori inglesi degli anni cinquanta dalla mascella quadrata. È un look perfettamente in linea con l'atmosfera di splendida frustrazione che si respirava l'ultima volta che lo abbiamo incontrato, nel giugno 2004. Dopo sette anni di ascetico esilio a Los Angeles, seguiti all'uscita dello sfibrato Maladjusted («È la mia vita / da distruggere a modo mio»), eravamo nel vortice inebriante di un rinascimento di Moz, con una nuova etichetta, la Sanctuary, un nuovo album, You Are The Quarry (il migliore dai tempi del suo capolavoro del 1994, Vauxhall And I), e un documentario di Channel 4 che vedeva una parata di celebrità di prim'ordine (Bono, Nancy Sinatra, Alan Bennett, Noel Gallagher) celebrare le lodi di questo formidabile poeta. Doveva essere una rimpatriata per festeggiare, ma poi il discorso è passato presto sui conti in sospeso, l'ostilità dell'industria discografica e grandi teorie del complotto, scaturite tutte dalla causa giudiziaria del 1996 in cui il giudice John Weeks ha disposto che Morrissey e Johnny Marr risarcissero all'ex batterista Mike Joyce un milione e duecentocinquantamila sterline di arretrati. Poi, nel maggio 2005, dopo che Quarry aveva venduto più di un milione di copie, una serie di straordinarie date dal vivo e l'uscita dall'album live di Morrissey definitivo, At Earls Court, la Sanctuary ha prima annunciato e poi smentito la presenza di Morrissey nel cartellone del Festival dell'Isola di Wight che si sarebbe svolto a giugno. Il cantante ha emesso un comunicato in cui affermava: «Non ho mai, in alcuna occasione, concordato una mia presenza al Festival dell'Isola di Wight. L’annuncio di una mia esibizione è stato diffuso dalla Sanctuary, ed è stato un loro errore. Provo molta rabbia, ma non esercito alcun controllo sulla Sanctuary. Per il prossimo album ci sarà un nuovo contratto, per cui vi prego di attendere la notizia dalle mie labbra. Tutto il resto sono solo chiacchiere».

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Come sempre, l'impressione era che chi contrastava Morrissey lo faceva a suo rischio e pericolo. Oggi, alla maniera di politici, papi e gangster, sussurra qualcosa con fare cospiratorio all'orecchio di un aiutante di campo. «È un posto molto bello» afferma. Sarà felice di farlo. Eh sì: «Felice». Strano a dirsi, è una parola che ritornerà spesso nelle prossime pagine. Si sporge verso Mojo. «Siete già stati a Roma? È bellissima, in ogni angolo.» Forse è stato il consiglio con cui Keith Cameron aveva salutato Morrissey nell'ultimo servizio di Mojo - «Sii te stesso, liberati» - ma è successo qualcosa dopo quei giorni tormentati del 2004. Basta un ascolto del nuovo album, Ring leader Of The Tormentors, per convincersene. Registrato al Forum Music Village di Roma cè sicuramente il disco più intransigente dell'ex Smith dai tempi di The Queen Is Dead. Ma nei testi di Morrissey si avverte anche una freschezza corroborante, se non proprio sconvolgente. Le stancanti allusioni alla causa giudiziaria e le feconde immagini di esausta frustrazione sono sparite, rimpiazzate da canzoni di incoraggiamento emotivo e generosità, attacco e difesa, e in Dear God Please Help Me, orchestrata da Ennio Morricone, addirittura delle disarmanti allusioni esplicite al sesso. Nell'eterna battaglia romantica tra ragione e sentimento, Ringleader Of The Tormentors ci presenta un Morrissey che è finalmente evaso dalla prigione dell'intelletto e si è abbandonato al fuoco, alla passione e ˗ udite udite ˗ alla carne. Cosa gli è successo? «È Roma» spiega Morrissey prosaicamente, sorseggiando un'altra vodka tonic. Siamo seduti in una sala convegni dell'albergo, tipicamente austera, piena di lavagnette e matite omaggio dell'Hotel de Russie, ma l'atmosfera è sorprendentemente calorosa, perché Morrissey, dopo aver scoperto che prima di Mojo il vostro inviato si occupava di cinema, si è messo a parlare con entusiasmo di Bande à part di Godard e mi ha caldamente consigliato un musical del 1955 con Jimmy Cagney e Doris Day, Amami o lasciami. («Guarda, lo trovi dappertutto a tre sterline e novantanove. La migliore interpretazione di Cagney in assoluto!»). «Un anno fa sono venuto a Roma è sono rimasto ossessionato dal posto. C'ero già stato qualche altra volta, ma non era mai scattato nulla. Vagavo senza meta, non vedevo nulla e non facevo caso a niente, mentre quest'anno è stato completamente diverso. Forse perché avevo passato gli ultimi sette anni chiuso in casa a Los Angeles, una città in preda alla paura, dove tutto è mirato a evitare il contatto umano. Ho lasciato la casa dove stavo perché troppa gente sapeva dove abitavo.

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Ogni giorno c'erano persone fuori dalla porta. Che è anche piacevole... ma difficile. A Roma mi sembrano tutti così liberi ed eleganti. Non si dà importanza a niente, il futuro non ha importanza, per strada ti urtano e non ti dicono niente, mentre a Los Angeles è un reato gravissimo.» Un aspetto negativo c'è: Roma è la capitale mondiale in quanto a pellicce indossate. «Questo rovina un po' la città» commenta, «e forse anche il paese, perché non è necessario. Ma è affascinante che le donne che portano la pelliccia abbiano un'aria veramente stupida.» Pellicce a parte, tuttavia, è rimasto completamente sorpreso. Il passato, e Los Angeles, sono «completamente svaniti». «È successo tutto nel centro di Roma» dice «dove siamo adesso. È lì che abbiamo registrato l'album. A poco a poco, ogni tassello ha trovato il suo posto.» Tra questi tasselli, figurano Visconti, Morricone («Aveva detto di no a tutti... poi ha ascoltato le canzoni e ci ha ripensato!») e il chitarrista texano di Alanis Morissette, che ha collaborato a comporre cinque degli undici brani dell'album. «È un nuovo acquisto incredibile» dichiara Morrissey entusiasta. È facile lavorare con te? Sì. Non mi aspetto scherzi o battute sceme, però mi considero accomodante in modo spaventoso, assai poco esigente... Ma anche Mussolini era così. Hai appena detto niente battute. Non riesci proprio a resistere, vero? Veramente no. Sono nato per andare al Benny Hill Show. Il nuovo disco sembra influenzato dall'accoglienza dell’ultimo album. È più sicuro, meno difensivo... Be', quando ti prendono a schiaffi in faccia lo spirito si indebolisce. Non ti senti gradito, hai la sensazione che non ci sia tanta voglia di sentire quello che hai da dire. Quando invece ti fanno sentire gradito, la forza e la sicurezza aumentano. È stato facile accettare quell'accoglienza? Non eri un po' diffidente? Certo. Non riuscirei mai a rilassarmi del tutto, e ne sono felice. Resterò sempre diffidente. Non sono uno che si crogiola nella buona sorte. Quando le cose vanno in un certo modo, qualcuno deve spezzare l'incantesimo.

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In tutto quel bailamme per l'Isola di Wight hai rilasciato una dichiarazione in cui dicevi che il prossimo album di Morrissey non sarebbe uscito per la Sanctuary. Come mai sei ritornato sui tuoi passi? Qualcuno della Sanctuary ha detto che avrei suonato all'Isola di Wight. Da lì è scoppiato un comprensibile putiferio e nessuno della Sanctuary si pronunciava a mio favore. Non sono tipo da cacciarsi in certe situazioni. So benissimo che cosa voglio fare e che cosa non voglio, e lì era un casino. Comunque, ormai credo sia acqua passata. Si sono scusati? Assolutamente! Ma tanto il contratto era comunque scaduto. Era solo per un album, e sostanzialmente con la Sanctuary avevo chiuso, ma dopo l'Isola di Wight mi hanno fatto un'offerta e, be', eccoci qua. Ma c'è stato qualche casino nella mia vita... Rimpiangi mai di non aver avuto un manager inflessibile, uno di quei duri col sigaro in bocca? Sì, in una certa misura sì. Avrei sempre voluto qualcuno da guardare con ammirazione, capace di camminare davanti a me. L'impressione iniziale che ho avuto ascoltando l'album è che si tratti di un uomo... (colpo di tosse) «felice»? Meno male che hai tossito. Hai cambiato modo di scrivere, c'è un maggiore senso di apertura... Di mondanità? Be', è vero. Quando ho cominciato ero spaventosamente provinciale. Schiavo dell'Inghilterra. Nell'album non si fanno allusioni alla causa legale. L'hai finalmente esorcizzata dall'animo? Più o meno, direi di sì. Ma se continuo ad andare a ruota libera... Ho scoperto che se cominciavo a parlarne diventava il punto centrale dell'intervista... Quando è troppo è troppo. Questo non significa che mi sia ammorbidito. I testi di Morrissey sono come le pagine di un diario? «Perché dovrei attenermi a quello

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che scrivevo nel 1987?» Esattamente. Ormai quelle emozioni sono state espresse. È successo. C'è stato, ma non mi sento né legato, né intrappolato, e non mi sento neanche la stessa persona. Non voglio fare una cronaca degli avvenimenti. Ma c'è mai stato un periodo in cui lo facevi? L'immagine di Morrissey comunemente accettata dai media è quella di una persona che ha sempre tratto profitto dall'infelicità... (Mi interrompe) Grazie, questo è un complimento. Pensano di criticarmi, e invece non è così. D'accordo, allora permettimi di insultarti. Potresti affermare di aver fatto i tuoi album più belli quando sei amato e soddisfatto? E quando sarebbe successo? Be', all'apice degli Smiths, quando ti sei reso conto che stavi lavorando con una grande band? L'adunata di gente mobilitata per la realizzazione di Vauxhall And I e quest'album? Sì, è vero. E che c'è di male? Niente. Perciò Morrissey lavora meglio quando è... (Sussurra) Felice... in questo c'è un briciolo di verità. Ma soltanto un briciolo. Il coro di bambini che canta: «La normalità non esiste!» in The Youngest Was The Most Loved deve essere stato uno dei momenti più alti. Specie quando vedi tutti questi bambini italiani di sette anni che cantano, tutti contenti e perfettamente eloquenti, senza che ci sia bisogno di spiegare niente. Il mondo sarebbe un posto più felice, se sposassimo tutti quell'idea? Credo sia necessario, perché ne siamo tutti ossessionati, ma è soltanto una perdita di tempo. Ascoltare quest'album è stato un po' come guardare un film di Hollywood dopo

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l'allentamento del Codice Hays, un mondo di decoro improvvisamente inondato dal sesso. Non mi sarei mai aspettato di sentire da Morrissey frasi come [in Dear God, Please Help Me]: «Lui mi fa un cenno con la mano sul mio ginocchio... E adesso ti allargo le gambe, con le mie nel mezzo...». (ride) È buffo sentirtelo dire... Be', non ho mai pensato che ci fossero argomenti che non potevo trattare, ma a meno che non parlassero di me, non avevo voglia di avventurarmi su altre strade. Una canzone deve essere vera, altrimenti non ha senso. E questa è verissima. Ma non c'è stato un periodo in cui, anche se fosse stata vera, non l'avresti scritta comunque? In cui non saresti mai arrivato a tanto? Be', prima non ero stimolato. Non posso parlare per tutti, ma è stato un viaggio gratificante e non pensavo certo di arrivare fino a questa... età. Almeno sono la prova vivente che le cose possono migliorare. Perché non pensavi di arrivare a questa età? Morte per noia, esaurimento o semplice voglia di smetterla? Tutte queste cose. E altre. È strano, non trovi? Fin dagli esordi con gli Smiths hai imparato a parlare con leggerezza di cose serissime, per non sembrare noioso. Avevi l'impressione di rivelare troppo di te stesso in quelle interviste? Sì, ma sentivo che non poteva essere diversamente, altrimenti saremmo stati i come i vari Nightingales, June Brides o Jasmine Minks, allegri e giocondi. Il mondo non aveva bisogno di un altro gruppo così. Sentivo che dovevo semplicemente gettarmi nella mischia, fregandomene di quello che poteva succedere. Di conseguenza, però, parleremo con leggerezza della tua depressione... Ci sono stati dei momenti in cui hai pensato: Basta, mi sono rotto le palle? Be', forse a un certo punto sì, quando hanno cominciato a scrivere tante cattiverie sul mio conto. Il processo agli Smiths è stato sicuramente una prova difficile da superare. Una persona meno forte sarebbe crollata. Da quel momento in poi ho pensato: Bene, allora dillo e basta, fallo e basta, e vivi come sei. Insomma, quando tanta gente ti dice

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che non ballerai più... E sei tornato alla fine dell'ultimo atto, da star! Oddio, sono davvero così banale? Quali sono i tuoi meccanismi di difesa? La malattia improvvisa. Funziona sempre. C'è una grande tradizione critica che associa la creatività artistica alla depressione. Prenderesti una pillola che potrebbe renderti sempre felice? Prenderei tutto il flacone! Tu scherzi, ma non sono mica fesso! Non avresti paura di perdere la tua marcia in più? Al diavolo la marcia in più! Ma che tipo di canzoni scriveresti poi? Oh, non scriverei mica! Avrei ben altro da fare. In You Have Killed Me annunci: «Pasolini sono io! » e fai riferimento a due suoi film, Accattone e Anna Magnani in Mamma Roma. Che cosa ti attira di questo inquieto cattolico marxista...? Be', tante cose... ho visto tutti i suoi film... Non c'è niente di artificioso. Si vedono persone vere, senza distrazioni, solo le persone nude e crude, e tutto si svolge in strada. Un genio estremo. Ma aveva anche un'ottima presenza, e non si faceva condizionare dagli altri. Non aveva bisogno di essere qualcun altro, era se stesso nel suo mondo e anche se era ossessionato dalla vita dei bassifondi, era esattamente quello che voleva. Non voleva altro. Potrebbe esserci un altro punto di connessione? Credi che seppur non praticante, resterai sempre cattolico? Non credo che si possa scegliere. È una cosa che ti inculcano dentro. Ci vorrebbe un saldatore per liberarsene. Non succederà mai, a prescindere dai tuoi sentimenti e a prescindere dalle tue intenzioni.

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Quali canzoni sono più evidentemente una conseguenza della tua educazione cattolica? Tutte. Non c'è assolutamente nient'altro. Qual è la tua posizione nei confronti della psicanalisi? Vedevi un analista a Los Angeles? Nooo, mai. Cioè, ci sono andato prima di andar via, perché ero in partenza per Los Angeles. E loro mi hanno detto, ovviamente, «Per favore, non lo fare». Adesso non vedo nessuno. Tanto siamo tutti messi male. E prima o poi finirà tutto, perciò non ha proprio senso sprecare soldi in analisti. Che c'è da dire? Sei infelice? E chi è felice? Ma questo che parla è il Morrissey di oggi. Non c'era anche un altro Morrissey, che invece la trovava utile? Ho mai detto questo? No, anche se in effetti sono stato in analisi per un po'. Non ne ho avuto una grande impressione. Se ne stavano seduti lì senza dire niente? E che altro possono fare? Si limitano solo a porgerti la fattura. Ma la terapia serve a liberare e purificare il sé e permettere a tutto quello che hai dentro di uscire... E non l'hai fatto già? Appunto. La ricerca dell'amore sembra uno degli argomenti principali degli ultimi due album. Be', un argomento secondario... Hai trovato l'amore? Sì, l'ho trovato, ebbene sì. Tanto è tutto falso, ovviamente... Che cosa? Tutto l'amore è falso, o è falso l'amore che hai trovato? La seconda che hai detto. Ma non c'è problema. Tu hai trovato l'amore? Come fai a dire che è amore? Perché mi sento incompleto, senza. Bah, quello è sempre uno scambio. Tu hai qualcosa che io non ho, e io ho qualcosa che

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tu non hai. Ma va benissimo. C'è ancora un freddo razionalismo in te, non trovi? Lo analizziamo troppo, credo. Questo significa che non ti innamorerai mai perché sarai sempre... Ho ottant'anni! Non è rimasto tanto tempo. Ma la persona che ami, o di cui sei innamorato, che ne penserà di questo? Perché è evidente che dovrà saperlo. Be', sì, perché gli scrivo e glielo dico. Il giorno dopo, nella hall dell'Hotel de Russie, Morrissey dona un «piccolo presente» a Mojo: un dvd di Jimmy Cagney in Amami o lasciami. Più tardi, avvolto in un cappotto di lana pesante, Morrissey passeggia con Mojo nei fatiscenti giardini di Villa Borghese, un caotico e meraviglioso mondo di grandeur rococò ottocentesca, decadimento naturale e graffiti moderni, donato al popolo di Roma nel 1901 come parco pubblico di proprietà dello stato. «Se fossimo in Inghilterra» borbotta Morrissey «sarebbe pieno di cartelli "Vietato calpestare il prato" e vedremmo un mucchio di adolescenti che incombono minacciosi. Di' alla gente di non fare qualcosa, e hanno ancora più voglia di farla. Qui sono liberi, e quindi non ci fanno caso.» Morrissey ha sempre con sé un taccuino durante queste passeggiate, e annota in fretta brandelli di conversazioni origliate qua e là. «Sono tremendo» ammette. Più tardi, accanto alla tomba di Keats nel cimitero protestante, prima del servizio fotografico, Morrissey si sofferma sull'epitaffio che campeggia sulla lapide mentre un trio di paciosi gatti randagi, parte dei trecentomila felini protetti dal comune di Roma in quanto «patrimonio biologico» cittadino, si aggirano con aria soddisfatta attorno alle sue gambe. Recentemente, sul sito di fan True To You, gli è stato chiesto quanto influisse l'ambiente sul suo lavoro. La sua risposta? «Queste cose non mi fanno nessun effetto. Io sono un'isola.» Mi sembra una sciocchezza, azzardo. Gli Smiths non hanno mai avuto sonorità da band dell'Anglia orientale, ma erano chiaramente del Nord, e quest'album è palesemente frutto del suo amore per Roma.

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«Sì, c'è un fondo di verità» ammette «ma d'altra parte io mi sento davvero un'isola, al punto che potrei essere quasi ovunque, non soggetto agli influssi del luogo, eppure profondamente influenzato.» Cresciuto nella Manchester degli anni sessanta, Morrissey ritiene che l'ispirazione lo abbia colpito quando aveva sette o otto anni. «Non mi crederai» spiega poi, tornati in hotel «ma sicuramente stavo covando qualcosa, e mi sentivo a mio modo una piccola opera d'arte. Tutti i ricordi che ho della vita non sono di persone, ma di canzoni o di film. Da bambino ero ossessionato da You've Lost That Lovin' Feelin', con quelle due voci che saltellavano qua e là, e quando li ho visti a Top of the Pops, il fatto che non si guardassero mentre cantavano quelle due parti mi sembrava straordinario. Le cose che mi influenzavano di più, nei film e nella musica, erano sempre accidentali e stravaganti, e avevo la sensazione che si potessero riunire e miscelare per ottenere un risultato finale eccezionale.» Se c' era bisogno di un catalizzatore, arrivò nel novembre del 1973 con l'esibizione dei New York Dolls a The Old Grey Whistle Test, che spronò il giovane Morrissey a scrivere lettere al Melody Maker e al NME per elogiare e difendere i tanto dileggiati eroi glam della parte bassa di Manhattan. «Per un po' sono stato un gran rompiscatole» dice. «Scrivevo lettere e sognavo di fare il giornalista, ma è stato un fallimento completo. Certo, anche fare la popstar a undici anni e mezzo, ricoperto dall'acne, è ridicolo [ma] a quei tempi sembrava una cosa formidabile. Ero impacciatissimo, e determinato, ma sapevo, dentro di me, di essere abbastanza affascinante, anche se non se ne accorgeva nessuno.» Quando uscì This Charming Man nel 1983, molti pensarono che il ragazzo sulla copertina fosse Morrissey, invece di Jean Marais, pupillo di Jean Cocteau. «Spiritualmente era così » dice oggi Morrissey. Si trattasse del caratterista inglese degli anni cinquanta Sean Barrett o del compianto Patrie Doonan, citato in Now My Heart Is Full, l'impressione era che questa intima convinzione del suo fascino avesse come risultato una ricerca dell' «immagine di Morrissey» su altri volti, altre persone... La sensazione era che, sicuramente, le emozioni che provavo, le persone in cui vedevo grande bellezza e fascino, forse non valevano niente.» Morrissey non si è mai disinnamorato dei suoi eroi. Nel 2004, in occasione del Meltdown Festival, ha invitato i membri superstiti dei New York Dolls a esibirsi dal vivo. È sembrato un autentico momento di rivincita per il ragazzino di Manchester dai

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gusti stravaganti che non aveva mai abbandonato. Considerato quanto le tue prime canzoni fossero influenzate da scrittrici di grande ispirazione come Shelagh Delaney ed Elizabeth Smart, qual è stata la prima canzone che hai scritto senza vincoli, in cui hai pensato: queste persone mi hanno aiutato, ma adesso posso volare libero? È una bella domanda e probabilmente non è successo se non molto tardi perché una piccola parte di me è sempre stata, come dire, insicura e questo probabilmente succede quando fai affidamento sulle idee altrui. Insomma, lo so che con Shelagh Delaney ho esagerato. C'è voluto tantissimo tempo per disfarmene. Ma nessuno è mai così originale come crede di essere. Ho sempre pensato che la grande rete di tutte le mie influenze fosse affiorata dentro di me come qualcosa di abbastanza unico. Il primo articolo importante sugli Smiths lo ha scritto Dave McCullough su Sounds nel 1983. Che effetto ti ha fatto leggerlo? Fantastico, perché ardeva d'entusiasmo, c'era una serie di fotografie fantastiche e fino a quel momento avevo sempre creduto di non essere... neanche lontanamente fotogenico, perciò sono rimasto stupito di vedere quella strana creatura... non riuscivo a credere di trovarmi in quel corpo, e in quella situazione. Era un'emozione indicibile. Domanda sciocca: gli Smiths sarebbero potuti esistere soltanto in quel momento? Assolutamente, mentre il resto dmondo era distratto. È l'unico modo per sorprendere. Non stupisci nessuno se il tuo arrivo è annunciato con squilli di tromba da una casa discografica. Devi dargli un colpetto sulla spalla e cogliere l'espressione che hanno quando si girano. Come faccio spesso. È ora di ascoltare la tua versione della storia? Corrono voci di un'autobiografia... Non sono voci. Purtroppo è impossibile dedicarsi a un'autobiografia seria se sei in viaggio e il tuo tempo viene continuamente spezzato da un cambiamento di ambiente. Mi sono ripromesso di farla. Ma non c'è nessun contratto. Sui giornali ho letto che mi avrebbero dato dei milioni. E che avevo chiesto di più! Sono tutte stronzate. Non mi è stato mai offerto niente! E non ho mai avuto colloqui con un editore.

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Come ti senti quando queste storie apparentemente si propagano da sole? È sempre molto seccante perché, nel mio caso, la formulazione è sempre molto estrema e pare sempre che io abbia una reazione estrema a qualcosa che, in primo luogo, è completamente inventata. È esasperante, ma arrivi al punto che la vita non ti appartiene più. Nel film di William E. Jones sui fan statunitensi di Morrissey, Is It Really So Strange?, i fan dicevano che i tuoi testi in passato sono stati raramente caratterizzati da una specifica identità sessuale, e questo ha permesso che una vasta pluralità di gruppi diversi si identificavano in loro. Oggi, con brani tipo Dear God, Please Help Me sul nuovo album... l'identità è specifica. Sì. Perché? Sto scappando via spaventato adesso? Qualsiasi cosa ti attribuiscano, è quello che sei e non posso farci niente. Possono dire quello che vogliono. Non ho nessun controllo su come gli altri vedono una situazione, e allora perché ossessionarsi? E perché mettersi a correggere tutto il pianeta per la visione che hanno di te? Sarebbe spossante. Ed è impossibile. Ma occorre un Morrissey forte e soddisfatto per mostrare una specifica identità sessuale in una così bella... canzone d'amore? Molte delle più belle canzoni d'amore di tutti i tempi non sono caratterizzate da una specifica identità sessuale. Le mie, sinceramente, sono innocenti espressioni di una persona alquanto primitiva. Questa innocenza ti impedisce di andare oltre. Se scrivi senza tener conto dell'identità sessuale, puoi dare l'idea di voler evitare la netta verità, o di parlare in codice, oppure di lanciare un ammiccamento d'intesa: lo capisco benissimo, naturalmente. Ma non credo che sarei meno di un enigma per le persone se in realtà scrivessi o cantassi in un modo fragorosamente specifico. Come ho detto prima, sono semplicemente e imperdonabilmente me stesso. Che cosa ti ha portato la maturità? Sicuramente mi ha stupito. Ho sempre pensato che la via per i trent'anni fosse orrenda

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e quella per i quaranta fosse quasi sopportabile, ma negli ultimi anni ho la sensazione che ci sia della gioia da trarre nella vita. Probabilmente è un'affermazione che non avresti mai immaginato di fare. Mai. Ma non ho mai immaginato di arrivare a questa età. Avevi deciso di uscire di scena? Mi avrebbero chiesto di andarmene. Per cosa scenderesti a compromessi? Niente. Che cosa ci potrebbe essere? Sul nuovo album, in To Me You Are A Work Of Art, canti: «Vedo il mondo / Mi fa vomitare / Ma so che da qualche parte c'è qualcuno che mi può calmare». È questo il nucleo essenziale di Morrissey oggi? Sì. Non avrei mai pensato di sentirtelo dire. Se resti ancora un po', vedrai che peggiora. Questo significa che finalmente hai incontrato quella persona speciale che aspettavi davanti ai negozi? Sì... Babbo Natale. E in futuro? Non vedo mai oltre sette giorni. Non capisco perché, ma non ci sono mai riuscito. Resterai a Roma nel prossimo futuro? Sì. È nella mia natura esagerare con tutto. Una volta hai detto che saresti scappato a gambe levate se ti fossi trovato di fronte allo Steven Morrissey del 1983. E secondo te lui come avrebbe reagito incontrandoti adesso?

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Credo che resterebbe terribilmente impressionato. Davvero. E questo è tutto. Il tempo a nostra disposizione è scaduto. Dico a Morrissey che mi sono veramente divertito («Scommetto che lo dicevi anche a Jimmy Krankie») e chiedo se ci sarà modo di risentirci. «È una vita massacrante» borbotta, e l'uomo che una volta comunicava con i collaboratori e il management soltanto via fax, scarabocchia il suo indirizzo e-mail in cima al mio elenco di domande. «Tienilo sotto lo Stetson» dice. È andato tutto stranamente bene e me ne vado con il mio dvd di Cagney, una discreta conoscenza dei gatti soriani e la strana sensazione che l'uomo con cui ho parlato, il vero Morrissey, è finalmente (colpo di tosse) felice. A sorpresa, due settimane dopo, mentre andiamo in stampa, Mojo riceve nove diverse e-mail da Morrissey, che si scusa per il ritardo e risponde di buon grado a una serie di domande supplementari. Mondano, collaborativo,soddisfatto? Parliamoci chiaro, Steven Patrick Morrissey scapperebbe a gambe levate.

Mojo aprile 2006

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L'ultima tentazione di Morrissey Paul Morley

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Ho incontrato Morrissey per la prima volta nel 1976, in coda sotto la pioggia davanti all'Electric Circus di Manchester. Eravamo lì per vedere i Ramones. Gli domandai se si era accorto di avere ai piedi un paio di scarpe spaiate. «Certo» rispose. Fu la nostra prima intervista. Trent'anni dopo, recensisco il nuovo disco di Morrissey in termini molto positivi, identificandolo correttamente come un classico moderno, energico ed eloquente. Lui chiede di vedermi, forse solo per verificare che non lo stia prendendo in giro. Mi accoglie sulla porta della sua suite al quarto piano del Dorchester con uno sguardo vigile, vagamente diffidente. È vestito in modo semplice ma costoso, con una giacca antracite perfettamente in tono, un maglioncino di cashmere con scollo a V, jeans freschi di bucato e dei deliziosi mocassini italiani in tinta: l'acquisto attentamente ponderato di un uomo che non odia l'idea della vita come potrebbe lasciar intendere. Il celebre ciuffo sulla fronte, del colore di una nuvola bassa, ora spunta giocosamente da una stempiatura imperturbata. Dritto come sempre. «È bello rivederti» dico, prima di rendermi conto dell'errore. «Perché?» rabbrividisce, allungando la parola attorno ad alcune sillabe turbate e infastidite, scosso dalla mia sfacciataggine. Morrissey risponde alle domande a voce bassa, in perfetta serenità, come se fosse l'uomo più equilibrato del pianeta. Per molti versi in effetti lo è, ma il prezzo da pagare per mantenere questo equilibrio è stato una sorta di follia. (Più o meno allo stesso modo, la sofisticata maturità è legata a doppio filo a un'immaturità in apparenza incorreggibile, la robustezza combatte contro una salute cagionevole, la cortesia si batte con la cattiveria, e la fiducia crescente nelle proprie capacità si avviluppa attorno a un'agghiacciante insicurezza.) Il tono colloquiale è più divertente di quanto traspaia sulla stampa, e Morrissey ride spesso, di sé e tra sé, a volte nello stesso momento in cui sembra soffrire in modo terribile. Non offre facilmente informazioni in modo spontaneo. L’intervistatore deve scavare a fondo per trovarle, come se, proprio davanti ai suoi occhi, e con il suo aiuto, anche se si è affabili o adulatori, o addirittura innocui, gli stesse scavando la fossa chiedendogli di sdraiarsi dentro per poterlo seppellire vivo con i suoi discorsi. Di conseguenza, dopo essere stato quasi sepolto in questo modo tante volte negli ultimi ventitré anni, è comprensibilmente riluttante a fornire volontariamente il materiale che

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potrebbe completamente ricoprirne il corpo e il volto. Si limita a dispensare una manciata di terriccio, che potrà facilmente lavar via più tardi. E se non crede che lo stiano seppellendo, potrebbe pensare che lo stiano pugnalando. Dopo un rifiuto o una deviazione particolarmente elegante di fronte a questa, quella o un'altra domanda, sorride ˗ più o meno ˗ e ti invita a riporre il coltello. È un modo interessante di considerare E così, tu continui a pugnalare e lui riesce abilmente a evitare i fendenti. Alcune domande ˗ per esempio, il nuovo disco è il tuo capolavoro, sei felice, ti sorprendi a ripeterti, quali sono state le ultime tre voci sul rendiconto della tua carta di credito, che cosa ti entusiasma di questi tempi, hai un disperato bisogno della nostra attenzione, tutto questo è un atto di vendetta nei confronti di Marr, sei tutto preso dalla saga di Preston e Chantelle? - ricevono una delle seguenti risposte, talvolta accompagnate da un sorriso accattivante meravigliosamente forzato, uno sguardo assente, una pausa marcata e un sottile, inquietante ghigno sul viso: 1) Tu che ne pensi? 2) Non saprei proprio che dire. 3) Non mi pare. Di tanto in tanto non c'è risposta, ma solo uno sguardo, brutale e artistico, per far capire che la domanda è di una stupidità colossale, troppo profonda o incerta per trattarla in modo adeguato. Uno sguardo che contiene elementi di stanca ma stranamente felice rassegnazione, un timido sorriso come se stesse davvero per svenire, uno sguardo assente, quasi all'antica, un lampo di noia e/o di stizza, un barlume di disprezzo e un impercettibile sorriso radioso. Nel resoconto del nostro incontro, uso la dicitura «smorfia» per comunicare questo silenzio. Di tanto in tanto c'è un sospiro seccato, ma in qualche modo gentile, che sembra prolungarsi dall'inizio alla fine del tempo. Lo indico con la dicitura «sospiro». Sempre per la cronaca, durante l'intervista sono andato al bagno tre volte ˗ solo per controllare la mia espressione allo specchio ˗ e ogni volta che sono tornato, Morrissey aveva cambiato sedia e sfoggiava un'espressione vagamente colpevole sul volto, che non riesco proprio a definire. Allora sarai gentile? (smorfia) Hai letto la mia recensione di Ringleader of The Tormentors... Significa no...

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Solo perché ti ho definito tenacemente originale. È una cosa che non prenderei nemmeno in considerazione... Essere gentile, o non essere gentile? Oh, ma dai... Secondo me dovresti essere gentile. Hai un bell'aspetto. Non so perché, considerato tutto quello che ho passato. Oggi, in generale, la settimana scorsa, negli ultimi anni... Dal 1959. Come stai invecchiando, come ti senti? Oh (sospiro), è una domanda a cui non si può rispondere... perché è un mistero anche per me. Sono qui. Ancora. Al di là di questo, non so proprio che dire, per essere sincero. Gli ultimi anni sembra che siano stati molto piacevoli. Sei prolifico come non mai. Hai l'attenzione di tutti. L'età ti fa bene. Alla fine diventa una questione di costanza. Vai avanti e basta. Non hai scelta, una volta superata la soglia dei quaranta. Non c'è quasi niente al mondo che abbia più importanza. È troppo tardi per preoccuparsi sul serio delle cose, perché sei già in una condizione incomprensibile. Stordito da un travolgente accumularsi di esperienze? Be', puoi ben dirlo. Non avrei mai pensato di arrivare a quarant'anni, poi all'improvviso ritrovarmi a quarantasei, mentre nel mondo della musica hanno tutti la metà dei miei anni... è affascinante. Ed è affascinante che ragazzi di diciassette anni mi fermino per strada esclamando: «Oh mio Dio». È una situazione curiosa. Entri nel mondo della musica che sei un ragazzino imberbe, cerchi di impressionare tutti quelli che sono più grandi di te e poi all'improvviso, come se niente fosse, svolti quindici angoli in una volta sola e ti considerano un vecchio senatore o qualcosa del genere, e la persona che più di tutte non riesce a spiegarselo sei proprio tu.

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Mi ricordo che anche a trentatré anni eri un po' sconvolto. Mi sembrava un'età così irraggiungibile. Non credevo possibile vivere tanto a lungo. Ricordo un'intervista a Radio One, in cui dissi che tutti i cantanti pop dovrebbero essere fucilati a trent'anni. La cosa inquietante è che ne ero convinto davvero, con tutto il cuore. Ma non adesso, ovviamente. Ah, quelli sì che erano tempi. E poi che è successo? Non sono morto. (sospiro) È tanto semplice. Be', in realtà è molto complicato. No, è veramente così semplice. Che fine ha fatto l'idea di una morte prematura? C'è tempo... Non l'ho ancora scartata. Sei tentato di morire nel magnifico Nord? Assolutamente. Come sai, Manchester è un città completamente rinnovata. Ma è una novità attraente. E che te ne pare? Non ha nulla a che vedere con la città che conoscevo una volta e con quella che conoscevi tu. Da una parte mi intristisce, perché non sono scomparse solo le generazioni più vecchie, ma anche la generazione seguente, e camminando per Manchester non si vede neanche un anziano. All'improvviso, sono tutti giovani. Presumo che i mancuniani più vecchi siano stati spazzati via, quelli che ricordano le cose che noi vorremmo dimenticare. Sotto quell'aspetto è triste. Ma negli anni settanta non era certo un posto piacevole. Ecco perché tu sei diventato un giornalista e io sono diventato quello che sono diventato. Altrimenti saremmo stati felicissimi di abitare a Denton e... completa tu la frase. Questa nuova modernizzazione non era quello che volevamo? Sì. Ma non credo che immaginassimo di vederla davvero, e la realtà fa sempre un po' paura, sembra che si prenda via tanto, se non di più, di quanto porta in cambio. È molto

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molto triste che l'elemento archeoindustriale di Manchester, la vecchiaia, stia svanendo, perché nel fatto di non avere una possibilità di scelta nella vita c'è anche un non so che di gratificante. C'è un non so che, nel fatto di essere intrappolati... Quindi non l'avresti voluta in nessun altro modo? Be', nessuno me l'ha chiesto, e non ho avuto possibilità di scegliere, caso mai ci fosse stata una scelta... ma c'è un non so che di gratificante nel fatto di restare incastrati, ti dà quasi una scarica di adrenalina che non avresti mai, immagino, se abitassi in un'ala del Castello di Windsor. Negli anni sessanta e settanta era il tuo sogno di una vita sofisticata? Una vita agiata. E non significa Alderley Edge. Il fatto che una volta aspirassi a scrivere di musica ha influito sul modo in cui ti sei rapportato alla stampa musicale... quasi come uno che era fuggito nel mondo esterno, rendendo reale l'idea di diventare una popstar, lasciandosi dietro una scia di rancori e tensioni? Non ci sono mai riuscito... mi sono sforzato tanto, e come sai per dodici anni sono stato un gran rompiscatole, e provo assoluta solidarietà per tutti quelli che ho assillato con lettere, articoli e via dicendo, ma avevo solo tre anni e mezzo e volevo far parte di un mondo affascinante. Pensavo di riuscirci in quel modo, ma non faceva proprio per me... e adesso ringrazio il cielo, perché se mi fossi affermato in quel campo forse non avrei mai suonato l'ukulele. A che età ti è venuta voglia di fare il cantante? A due anni. Vidi i Righteous Brothers in televisione. Bill e Bobby. Pensai: «Fantastici». Sono io. Howard Devoto ha esercitato una certa influenza, alla fine degli anni settanta? In quel periodo sì, perché mi assomigliava molto di carattere, o forse ero io che assomigliavo a lui. Ricordo di aver visto i Magazine al Russell Club... Erano tornati da Londra, dove le cose andavano bene per loro, e fu uno spettacolo entusiasmante, con lui che si gettava a terra. Mi sembrava l'apice del glamour intellettuale. Non vedevo molti

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altri come me nella musica pop. C'era Ron Mael... Riuscivo a identificarmi con lui. Ma nessun altro. Che cosa avevano di particolare Mael e Devoto? Erano tutti e due visibilmente timidi e si vedeva chiaramente che erano alle prese con problemi molto complessi. Non sorridevano. Ma avevano dei pensieri. Non erano saliti sull'allegro ottovolante del pop. Una cosa che apprezzavo anche in Nico. A quei tempi c'era ancora la convinzione che per fare il frontman, mettiamo, dovevi essere molto estroverso, tirare fuori le palle e avere un taglio di capelli shock. E alla fine che cosa ti ha spinto a salire sul palco? In realtà non ho avuto molta scelta. Mi sentivo disperato e furioso e non riuscivo più a starmene lì a guardare gli altri. Ho passato un periodo in cui non riuscivo più ad ascoltare musica perché ero furioso e pieno di rabbia. Poi di colpo, proprio al momento giusto, mi sono ritrovato su un palco a fare il sound check. E adesso che cosa si prova, arrivato a questo punto, quando si tratta di fare un disco nuovo? Dopo tutti i sound check e gli album che hai fatto, i posti in cui sei stato, la tranquillità che hai, le aspettative generali... non ne avresti bisogno, eppure decidi di fare un album... Quando dici «bisogno», intendi dire dal punto di vista economico: be', non è per quello, e non lo è mai stato, assolutamente mai. Si tratta di fare qualcosa di cui posso andare fiero, qualcosa a cui puntare per vedere che sono ancora qui. Per me stesso, nessun altro. E tra parentesi, fare un disco è sempre piacevole. Mi piace tenermi occupato. Quella voglia di differenziarti - e c'è la sensazione che il mondo voglia per forza schedarti, classificarti, incasellarti - e realizzare un nuovo album è un modo per proclamare che resisti ancora ai tentativi di catalogazione, che sei ancora diverso e vedi ancora le cose in un'ottica differente. Non c'è nessun proclama. Non si tratta di questo. È una spinta, e io mi limito ad assecondarla. Che cosa ti spinge?

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Un impulso irresistibile. Questo non è un mestiere, o una vocazione. È un'esigenza. Tutte le analisi, la percezione, l'esame minuzioso, l’accumulazione di informazioni che ti riguardano... quanto è difficile andare avanti, resistendo ai tentativi di renderti immutabile? È molto difficile. Una volta si poteva credere che, anche se scoppiava una bomba sulla stampa, nel giro di una settimana sarebbe scomparsa senza lasciare traccia. Oggi con internet non è più così, è tutto lì e ogni giorno divampa un incendio... ne viene fuori una ogni santo giorno. Per me è difficile, perché su di me scrivono senza sosta un mare di cazzate, e le interviste che vengono pubblicate non hanno niente a che vedere con l'incontro che ho appena avuto con il giornalista. Non so perché, purtroppo, ma quando si tratta di me tutti si sentono in dovere di scrivere qualcosa... degno di nota. Non si accontentano di scrivere un semplice resoconto dei fatti. Ci dev'essere per forza un qualcosa di... sorprendente. Sei diventato un'opportunità per i giornalisti di dimostrare la propria ambita eccezionalità. Temo di sì. Che faccia tosta... E lo vedo per giorni prima ancora di incontrare il giornalista. Non posso farci niente. Sono solo una chiave nel mezzo di tutto. Anzi, non sono niente. Una semplice chiave. Niente. Ma continui a farle. A volte fanno piacere. È una cosa che non so spiegare (sospiro). All'inizio degli anni novanta, l'amore delle riviste musicali nei tuoi confronti si era trasformato in odio viscerale, ci sono stati scandali e accuse di ogni sorta, come se il grande eroe romantico inglese fosse diventato un estremista di destra, di simpatie neonaziste. Credi che una parte di quell'ostilità sia rimasta? No. Quando era all'apice ho pubblicato un album entrato direttamente al primo posto, senza fare nemmeno promozione. Il fatto che all'epoca il NME credesse di distruggermi

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era indice della loro presunzione. Ed erano soltanto due persone, due persone che non mi hanno mai sopportato per tutti gli anni ottanta, e stavano sfruttando la loro posizione, la loro nuova posizione al NME per cercare di farmi fuori. il NME era ossessionato da me, tanto che poi si è sentito in imbarazzo, e volevano farmi fuori. In parte lo capisco anche... era diventata una cosa ridicola, s'inventavano storie su me e Charles Hawtrey, stava diventando una farsa. Io non c'entravo niente con gli articoli pompatissimi che mi dedicavano, più o meno come gli Arctic Monkeys non c'entrano niente con tutta la grancassa pubblicitaria che li circonda. Probabilmente sono disorientati, e avranno l'ansia che sia troppo presto. Ai giorni gloriosi di quello che avevano soprannominato il New Morrissey Express, mi sentivo a disagio, e me ne sono andato. Non aveva niente a che fare con me, ma influiva sulla percezione che avevano di me. Non andavo certo nella redazione del NME a dire scrivete questo, presto, fatemi una foto così! E adesso ti amano di nuovo tutti. Anche questo cambierà. L’indifferenza degli anni novanta è stata strombazzata con grande clamore, e non ho dubbi che un momento del genere si ripresenterà. Ma succede in Inghilterra, in realtà, e da nessuna altra parte. In Inghilterra, la maggior parte dei giornalisti ha un atteggiamento di supponenza nei miei confronti, anche se mi apprezzano. Il sottinteso è che devo soddisfare tutte le loro pretese, anche se non hanno nulla a che vedere con me. Ma è una cosa con cui ho imparato a convivere. Forse perché c'è l'impressione che se diventi importante devi essere crivellato, mentre se non conti niente puoi volar via e fare quello che vuoi, incassare il denaro e pubblicare album tremendi e via dicendo. Ti prendono di mira e ti crocifiggono soltanto quando sei importante. Perciò, di fronte a tutti questi tentativi di omicidio, ho una punta di soddisfazione, sapendo che s'interessano al punto di essere così preoccupati per me, anche se questo significa divertirsi con me, farmi a pezzi, farmi passare per un fenomeno da baraccone, una campagna diffamatoria generale. Non si siedono mai con me a parlare del canto o della voce, e molto raramente vogliono parlare delle canzoni, ma vogliono sapere di politica, vogliono sapere perché sono ancora vivo, fanno domande sulla mia vita sessuale, Dio, perfino sulla mia vita affettiva... Te la sei voluta...

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Soltanto un po'. Perché canti di cose molto personali e questo suscita una certa curiosità. Le canzoni non bastano a soddisfare le persone? Hai dato delle direttive per il nuovo disco al produttore Tony Visconti? Che cosa hai chiesto? Qualcosa di innovativo e audace che You Are The Quarry non è riuscito a catturare? (Smorfia/sospiro/angoscia) Gli ho detto che volevo... dettagli... dettagli esaurienti... volevo un certo non so che. Vuoi sapere anche i punti e le virgole di quelle direttive? Be', non si può. Non roviniamo il mistero. Però mettila così, non sono soltanto un bel faccino. Il primo verso del tuo nuovo album - «Nessuno sa cos'è la vita umana» - è diventato per caso il primo verso dell'album, o è una scelta voluta? Oh, è assolutamente il primo verso. Avevo pensato: perché scrivere qualcos'altro, perché non lasciarlo semplicemente così? Dice tutto. Ovviamente c'erano anche altre cose che ho deciso di cantare che dicono tutto. Ascoltando il nuovo disco, è una delle prime cose che l'ascoltatore penserà: è innamorato, e non è curiosità morbosa voler fare una domanda su questo... d'accordo, lo è... ma è anche la voglia di dare alle canzoni un contesto di riferimento più ampio. Perciò, in una situazione come questa, con te qui, insieme a me, in questa bella camera con vista su Hyde Park, nell'importante occasione di un tuo nuovo disco, sembra giusto e opportuno chiedere: sei innamorato? Sono innamorato di qualcosa. Mi capita spesso. Non di qualcuno. Non di un essere umano, no. E in queste nuove canzoni, sono innamorato di qualcosa. Quindi, basta pugnalate. Ti sei trasferito a Roma? Viaggio talmente tanto che in realtà non abito più da nessuna parte Vivo in mezzo

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all'oceano Atlantico. Sono andato via da Los Angeles l'anno scorso dopo sette anni. Sono diventato italianofilo, sì. Ti sei trasferito a Roma per stare con qualcuno. Qualcosa. Per qualcuno? Qualcosa. Una? Cosa. Hai conosciuto una persona e ti sei trasferito a Roma per stare con lei. Questo è il giornalista scandalistico che è in te, come se non ci fosse una storia degna da raccontare senza un piccolo elemento sudicio e scandalistico. Insomma, non c'è nessuno. Non c'è nessuno. (sospiro). Che altro posso dire, se non c'è non c'è. Non fare quella faccia ingenua. In fin dei conti è proprio così importante se c'è, non c'è, c'è mai stato, ci sarà? È successo qualcosa con questo disco: una scoperta sonora, una scoperta musicale, una scoperta sentimentale, un risveglio, una nuova concentrazione ...Forse lo sai tu e io no. Forse dovrebbe andare così. Devi sapere che, come esperienza di ascolto, per persone che forse sono esterne alla passione per Morrissey, quest'album esce fuori dal recinto mitico costruito attorno alla tua persona e ottiene delle atmosfere che non hai mai raggiunto prima. Seguirò il tuo suggerimento... Non sei dello stesso parere? Io sono sempre stato me stesso, e qualsiasi cosa succeda in un disco, sono sempre io, in qualsiasi fase mi trovi, in qualsiasi condizione... sono sempre stato inspiegabilmente me

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stesso e ho descritto con dovizia di particolari ogni minimo dettaglio della mia vita... devo continuare a rispondere a questa domanda non rispondendo come vorresti tu? Improvvisamente... tutto questo ghiaccio sembra essersi sciolto, c'è una, carica erotica nella musica e nel linguaggio. Sono sempre stato erotico. Questo discorso non approderà a nulla, comunque. Forse perché ho l'impressione che tu non sia poi tanto interessato all'argomento ma devi far finta di esserlo. Chissà perché ti considerano uno che vuole avere il controllo di tutto ...Oh, uccidimi, ti prego (smorfia/rassegnazione/pericolo/sfida). Dato che ogni tanto ti capita di lamentarti ad alta voce, si ritiene che tu possa far esplodere guerre tra bande nel mondo delle celebrità, con Jordan, Posh Spice e Beckham o Peter Burns... che tu sia il tipico personaggio famoso supponente che in origine era ossessionato dalla celebrità, e che magari mette bocca su tutto. E se non è così? Se non avessi un'opinione su Jordan o su Posh Spice e Beckham, che cosa cambia nella vita della gente? E se avessi l'opinione più sorprendente su Posh Spice e Beckham o Jordan, che ripercussioni potrebbe avere sul destino dell'universo? Nessuna. Mi interessavano le celebrità intelligenti. Ormai è una parola talmente ignobile e ripugnante, pare che si usi per tutti quelli che sono tutto fuorché celebrità. Quindi... che dovrei dire? Usa la tua immaginazione per decidere che cosa potrei dire di questa gente. Questo deluderà chi conta su di te come persona di spirito in tutte le situazioni. Perché si aspettano che insulti gente del genere. E poi scoppia la polemica. (sospiro) Bene, lascerò immaginare al lettore che cosa penso di quella lista di persone su cui ci si potrebbe aspettare che io abbia un' opinione, oggi come oggi... Pete Doherty sarebbe nell'elenco. È un peccato che lo si associ ai media, alla stampa, agli scandali e alle stupidaggini, piuttosto che alla musica. È una trappola terribile e lui ci è saltato dentro a piedi pari. E Kate Moss non ha fatto altro che trascinarlo in basso al suo livello. Onestamente non ho

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un'opinione su di lui, a essere sincero. Non m'interessa. Questa è la mia opinione. Non m'interessa. Mi dispiace deludere tutti, ma alla fine, non si può pretendere che abbia qualcosa da dire su queste cose solo perché la gente se lo aspetta. Non sono obbligato a credere a tutto il clamore che si crea. In verità, insomma, non me ne importa niente di Pete Doherty, e perché continuare ad alimentare la situazione e farla passare per straordinaria, anche perché se ci pensi, di che cosa si tratta? Che cos'è? Che cosa? Lo chiedo a te. È una domanda. Rivolta a te. Scusa, credevo che fosse una domanda retorica. Stavolta no. Il fermento che si crea attorno è un fermento a sua volta: gli Smiths avrebbero potuto anche influenzare in quelle circostanze, scaraventati di colpo nel mainstream per essere consumati come giocattoli prima di essersi fatti le ossa. Io mi preoccupavo sempre e semplicemente delle canzoni e del canto. Non dovevamo confrontarci con nessuna comunità di personaggi famosi, né per aderirvi, né per ribellarci a essa. Non ho mai cercato di far parte di una comunità di personaggi famosi, e l'idea stessa di apparire nelle rubriche di gossip mi inorridisce, a prescindere da quello che scrivono. Il mio interesse primario è la musica e niente altro. Non voglio premi e non voglio che il mio lavoro sia definito dai premi. Hai rifiutato dei premi? Alcuni. Trovo che la cultura dei premi sia esecrabile e deleteria... lasciamo perdere il culto delle celebrità. La cultura dei premi sta distruggendo la musica e forse ogni altra forma di intrattenimento. È ridicola e inutile. Potresti anche diventare un commesso viaggiatore. I Brit Awards sono disgustosi e non c'è mai stata una volta in cui non abbiano preso abbagli. Per quanto mi riguarda, un Brit non lo accetterei mai, sarebbe come se Laurence Olivier fosse felice di ricevere un premio di Tv Times. E oggi ovviamente, per prendere un premio nella musica, premi della massima importanza, basta soltanto farti vedere. Basta fare un album discretamente buono e avrai premi, fiori, medaglie d'oro, il mondo intero ai tuoi piedi. Se accetti un premio del genere, ovviamente sei complice della mediocrità del tutto, ma tutti hanno cominciato a pensare che ogni cosa ruoti attorno ai premi, e che se non vuoi accettarne uno devi avere

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sicuramente qualcosa che non va. L'ossessione estatica per la cultura pop è partita dal buio della tua cameretta da adolescente e ha conquistato il mondo: tutti reagiscono al pop e alla fama nello stesso modo in cui facevi tu, chiuso nella tua malinconia? Quello che la rende differente è l'accesso facile a ogni aspetto della musica pop di oggi, che non comporta alcuno sforzo. Non c'è nessuna tensione, nessun rischio per l'ascoltatore. Non c'è nessun posto dove nascondersi o dove trovare oggetti nascosti e proibiti, è tutto in mostra, in volgare esposizione. Sicuramente, quando ero più giovane di quanto sono adesso, era molto raro incontrare altri uomini viventi che avevano addirittura sentito i dischi che sentivi tu, ed era molto raro discutere con qualcuno dei testi delle canzoni. Oggi, certo, con internet e via dicendo, e l'ossessione di sapere tutto il possibile, è diventato tutto insignificante, tutti sanno tutto subito. E i blogger ˗ con la loro emozione, passione, narcisismo, l'infinito tiro al bersaglio, il desiderio snobistico di registrare, marchiare, organizzare, celebrare, condannare, amare, odiare, spettegolare, indossare metaforicamente scarpe spaiate ˗ sono tutti tuoi bizzarri discendenti? Sì...sono la mia versione moderna, perché ovviamente io non lo sono. Né voglio esserlo. Hai un iPod? È una domanda tranello? Sì. Che cosa c'è nel tuo iPod? Oh, lo sai che cosa c'è... i soliti sospetti, e qualcuno meno... getto la rete ad ampio raggio... sono come una persona obesa che mangia ma non gusta. Ascolto tanta musica nuova, ma non me la gusto. Che ne pensi del nuovo materiale che ricorda perfettamente il 1983? Puoi già prevedere la risposta. C'è ben poco che non abbia già sentito. È ridicolo che certe cose siano considerate innovative e rivoluzionarie quando non c'è assolutamente possibilità che lo siano.

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Perché ti dà tanto fastidio? Mi dà fastidio perché penso a tanta gente, ripercorrendo tutti gli anni settanta e ottanta, che era molto prolifica e non ha avuto né attenzione né successo, mentre oggi tanti gruppi e artisti non fanno altro che scimmiottare le classifiche indipendenti degli anni ottanta, e portano via premi, corone e fiori, solo perché attorno a loro ci sono abbastanza persone che non ricordano la prima volta in cui è accaduto tutto, o non hanno permesso che accadesse allora. È inevitabile? Non necessariamente, anche perché chi avrebbe mai pensato che le classifiche indipendenti si sarebbero rovesciate nel mainstream? C'erano tanti gruppi fantastici in quel periodo, e tutta quella gente prendeva il sussidio allora e prende il sussidio oggi, se sono ancora vivi. A chi pensi? Oh, tutti amici tuoi. E così gli imitatori moderni, i gruppi che si ispirano ai primi anni ottanta, sono considerati dei profeti. Oggi a un gruppo o a un artista non basta solo avere successo, devono anche essere dei profeti che ci guidano sulla retta via, e anche questo è ridicolo. Sono tutti dei fenomeni. Probabilmente è colpa della stampa, che ha bisogno di sopravvivere e così convince se stessa e il lettori che le cose si stanno muovendo in una direzione culturalmente sensazionale. Il passato è ritornato in auge alla grande negli anni novanta, e questo è tutto molto bello e interessante, ma la stampa ha bisogno di convincerci che siano i fuochi di una rivoluzione e non solo gli echi del passato. Gli Arctic Monkeys... il titolo del loro album, Whatever People Say I Am, That's What I’m Not, sembrava molto alla Morrissey, e infatti è tratto da uno dei tuoi libri/film preferiti, Sabato sera, domenica mattina di Alan Sillitoe. Il titolo dell'album mi ha fatto ricordare di quando Jools Holland mi ha presentato a Later dicendo che qualunque cosa dicessero di me, non ero quello... non sono così possessivo da pensare che tutto quello che ho apprezzato in passato appartenga soltanto a me... sono molto contento che mostrino gusti di un certo livello... a parte questo, non ne so molto di loro.

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Li hai sentiti? Li ho visti una volta in televisione. Li ho trovati molto gradevoli, così come erano gradevoli i Jasmine Minks. Gli Arctic Monkeys rappresentano la rivincita di quelle idee dei primi anni ottanta? L'ingresso nel mainstream di una musica più intelligente, più localizzata... Prima o poi era tutto destinato ad accadere, ma questo non significa che accada nel modo giusto, al momento giusto. Ha creato una scena in cui ti inserisci perfettamente... ancora sulla copertina del NME alla tua età... come mai? Perché la gente non si è ancora annoiata del tutto dell'argomento. Da essere umano che vive e respira quale sono, quando tutto è stato detto e fatto, non è così offensivo. Non sono entrato nel mondo di Bello e Richard and July. Non mi sono reso la vita facile sparendo nel mondo delle celebrità. Credo che in qualche modo questo me lo riconoscano. Certe persone nella mia posizione vacillano. Mettono i vestiti sbagliati, si fanno fotografare con le persone sbagliate. Certo, io le persone sbagliate non le ho mai nemmeno incontrate. E spero di non incontrarle. Come fai a non incontrare le persone sbagliate? Be', un paio di volte l'ho scampata per un pelo. C'è anche chi mi ha evitato. Keith Richards. Qualcun altro che ha fatto finta di non vedermi in modo clamoroso, mi ha completamente ignorato come se non esistessi. Non mi ricordo chi era. Si limitano a fare un sorriso di saluto e voltano subito le spalle. Forse Keith Richards non sa nemmeno chi sei. E qui ti sbagli. Mi conosceva. Ma non gli stavo simpatico. Io però raccolgo i cocci, vado avanti con la mia vita e vivo per vedere un'altra alba. Che cosa ne pensi della iPodifìcazione del mondo? Fa parte del generale processo di annacquamento, per quello che posso capire. È l'ultimo atto di una cosa bella e meravigliosa. Io non ascolterei mai a caso. Preferisco ancora il vecchio e antiquato lettore cd...

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Il vinile? È difficile trovare le puntine. (ride sotto i baffi) Tu lo usi? Non è anacronistico, ormai? Sì e non m'importa se questo mi fa sembrare antiquato. È quello che dicono sempre le persone di mezza età. Pensi che potresti avere la tendenza a prenderti troppo sul serio? (smorfia/ allarme/ angoscia) ...Perché in queste situazioni di solito si chiede, con la massima serietà: se fossi il Primo ministro, come sistemeresti il paese? Se me lo chiedi, mi sembra una scortesia non rispondere... Intanto, non sarò mai Primo ministro, perché non sono corrotto. Non si può credere sul serio a quello che dice Tony Blair. Ha una faccia che non mi piace. Non mi piace la sua espressione. E credo che non piaccia a nessuno. In più, non sopporto la faccia di Cherie Blair, e mi domando se ci sia almeno una fotografia in cui tiene la bocca chiusa. Purtroppo, i politici non sono dei poeti e non rinunciano mai al potere. Quello che sta accadendo in Iraq secondo Tony Blair e quello che sta accadendo in Iraq veramente sono, ovviamente, due cose completamente diverse. Perciò non potrei mai vedermi in politica, perché ho l'impressione che per fare successo in politica, o addirittura per stare in politica, bisogna essere completamente corrotti. Non ne vedo uno di politico, in tutto il mondo, che sia sano di mente. Per la maggior parte della gente la politica è una cosa raccapricciante. La famiglia reale... Perché li tiri in ballo? Mi stai chiedendo se ho un'opinione su di loro? Se qualcuno ha un'opinione su di loro? E loro? Vedi, questo è un classico esempio di giornalismo ozioso. Insomma, lo so chi sono. Non sono così fuori dalla realtà. Condividete lo stesso destino: costretto a vivere la tua vita intrappolato nel personaggio Morrissey finché non morirai? Siamo tutti diretti verso lo stesso traguardo, e sono pochi quelli che possono cambiare il cavallo in corsa. Siamo tutti intrappolati dentro le nostre identità, qualunque esse siano. La monarchia è un ricordo. Non esiste più, e giustamente. Si può vedere il terrore sul

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terrore sul volto della regina ogni volta che deve inaugurare un ospedale. È terrorizzata perché vede la nave che affonda, che si inabissa come il Titanic. L’arroganza di Carlo e Camilla è indescrivibile. Non li sopporta nessuno. Nessuno li vuole. Con la copertura televisiva del loro matrimonio si è visto che non c'era nessuno. Quindi non sta a me mettermi qui a dire che la monarchia è un ricordo che non interessa più a nessuno, perché è evidente. Lo sanno tutti che lo spettacolo è finito. L’idea stessa che Carlo diventi re è ridicola. Puoi anche dire che Ronnie Corbett un giorno sarà re, allora. Alla gente farebbe più piacere. C'è una dicotomia tra la tua nostalgia per certi elementi dello spettacolo e della società, e il fatto che ti interessino musica e idee che parlavano di rifare il mondo, di progredire, di creare un futuro migliore? Oh, certamente. Ma sarebbe bello avere l'una e l'altra cosa. C'è un lato intimo del cervello che ha bisogno di essere consolato e ce n'è un altro che ha bisogno di essere sollecitato e stimolato. Ti piacciono le persone? Veramente no. Non vedo nessun motivo per cui dovrebbero piacermi. Gli esseri umani, per natura, non sono interessanti. Perché vuoi essere coinvolto, allora? Perché vivo su questo pianeta e ne sono circondato, e l'alternativa sarebbe farsi confinare in una tomba. The Smiths è stato il miglior album d'esordio degli ultimi venticinque anni? Che domanda straordinaria. Quanti soldi ci vorrebbero per riformare gli Smiths? (smorfia)... (sospiro)... (cerca un coltello o un fazzoletto nel taschino)... (si alza in piedi in un gesto di improvviso distacco)... Devi capire perché c'è tanto interesse, e quindi la domanda è inevitabile. Indirettamente lo capisco, ma il sottinteso è che sto aspettando che arrivi un

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bell'assegno sostanzioso e vacillerò sul palco... non ha senso. Sono passati diciotto anni da quando è finito tutto, io non li conosco, loro non mi conoscono e non sanno niente di me, io non so niente di loro. Tutto quello che so di loro è sgradevole, e allora per quale motivo dovremmo avere voglia di stare su un palco insieme, a fare musica? È adulazione? Questa sorta di nostalgia naturale per un passato splendido che hai sempre dimostrato nei confronti delle tue passioni predilette? No e no. È una domanda che viene posta a quasi tutti i gruppi più importanti in una situazione simile, ma ˗ e questa non è una risposta preparata ˗ preferirei mangiarmi i testicoli piuttosto che riformare gli Smiths, e questo è tutto dire, per un vegetariano. Ma non ti dispiace cantare le canzoni. Quella è un'altra questione, certo che canto le canzoni, e continuerò a cantarle. Reggono alla prova del tempo. I gusti sono cambiati, quello che all'epoca sembrava marginale adesso è molto più accettato, le canzoni funzionano ancora oggi perché non sono state scritte solo per essere ascoltate allora. Gli Smiths erano nelle classifiche pop ma erano anche in anticipo sui tempi, e questo era un po' anomalo. Parli spesso di mantenere l'integrità. Non è cosa per molti. Che significa? Significa evitare in tutti i modi l'imbarazzo sociale. Cercare disperatamente di non rispondere al telefono al momento sbagliato. Cercare disperatamente di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Cercare di non farsi vedere mentre si fa qualcosa di ridicolo. Non voler essere costretto o manipolato a fare, dire o essere qualcosa che non vuoi. Il mito dice che sei troppo sensibile per vivere, che nessuno può immaginare come funzioni, che sei fin troppo impacciato e troppo infastidito dagli affronti percepiti... Mah... non è vero. Posso solo assicurarti che le cose non stanno così. Ma la percezione è che le cose stiano proprio così invece.

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E da qui nasce la curiosità morbosa, che poi viene alimentata da interviste come questa, dove scivoli a poco a poco in una vena ferocemente scherzosa. La gente vuole sapere se ti diverti, se guardi la televisione, cosa ti fa ridere, chi sono i tuoi amici... Qual è il problema? La verità è nelle canzoni. E ce n'è tanta. Se si parla di un campione di pattinaggio su ghiaccio, queste questioni non interessano a nessuno... o vince, o non vince... Ma le tue canzoni e dove vanno, cosa fanno, ci istigano a scoprire di più, o a scoprire come e perché appaiono È tutto nelle canzoni. Volevi solo diventare Bobby dei Righteous Brothers, e noi invece ti consideriamo una combinazione di Wittgenstein, Dorothy Parker e Oscar Wilde. Be', sono anche quello. Hai detto che saresti stato il primo a criticarti, e il primo a notare qualcosa di te prima dei critici. Dunque, mi correggo e mi flagello esageratamente già da me, quindi non c'è assolutamente nessun motivo perché qualcuno mi critichi, visto che già lo faccio io. C'è voluta una certa dose di volontà, coraggio, accoramento, ostinazione per fare questo disco? Non mi va di essere sempre io, io, io al centro di tutto. Per adesso, godiamoci la gentilezza dei tuoi pensieri. Un'ultima parola? Ormai è troppo tardi per cambiare.

Uncult maggio 2006

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L'insostenibile leggerezza di essere Morrissey Peter Murphy

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A maggio di quest'anno Stephen Patrick Morrissey giungerà alla pietra miliare dei cinquant'anni, ma invece di scivolare silenziosamente ella pace dei sensi (figurarsi!), il cantante ha partorito un album, Years of Refusal, vibrante e provocatorio al tempo stesso. Prodotto dal compianto Jerry Finn (Blink 182, Green Day, Rancid, Sum 41, Offsprings), morto la scorsa estate per un'emorragia cerebrale, il decimo album solista di Morrissey è tra i più impegnati (e icuramente il più duro) della sua carriera. Le spinte apparentemente contrastanti della produzione di Finn, che a volte sconfina verso i Sex Pistols, e l'estensione vocale del cantante ˗ ora vulnerabile, ora incredibilmente appassionata ˗ contribuiscono a creare una raccolta di canzoni di impressionante portata, che vanno dalla disperazione di Black Cloud alla dolcezza di Mama Lay Softly On The Riverbed, fino alla classica impetuosità morrisseyana di I'm Throwing My Arms Around Paris. Ci sono perfino diversi brani epici da grande schermo cinematografico (When I Last Spoke To Carol) abbelliti dalla maestosa tromba di Mark Isham. In breve, l'uomo non era mai sembrato così esuberante e intrepido. In questa intervista esclusiva per Hot Press, il cantante si sofferma sulla collaborazione con Finn, parla della sua infanzia nella Manchester depressa degli anni settanta e della sua passione per le icone cinematografiche losangeline del dopoguerra, spiega perché non imporrà mai la genitorialità a un bambino innocente, dice la sua sulle elezioni presidenziali americane e racconta come si può imparare a perdonare se stessi con l'avanzare dell'età. In ogni album graviti verso un suono sempre più muscolare. Gli arrangiamenti vigorosi di Years of Refusal, più il sound prevalentemente live, ti hanno dato una spinta, come cantante? Sì. Sono salito di diversi gradini con brani come It's Not Your Birthday Anymore, l'm Ok By Myself e Sorry Doesn't Help. Non ero sicuro di farcela, ma è andata bene. C'è una timidezza spontanea quando devi spingere troppo la voce, casomai cominciasse a sembrare troppo rock. Spin ha recensito l'album e ha scritto: «L'estensione vocale di Morrissey si è ridotta con l'età», il che è ridicolo visto che è successo esattamente l'opposto. Siamo costretti a sopportare certi commenti. Ti ricordi che stato d'animo avevi mentre incidevi quelle canzoni?

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Ero un po' spaventato perché, in ogni altra circostanza, non grido mai e nemmeno alzo la voce. Perciò ci vuole un bel po' prima che mi lasci andare. Il minuto finale di I'm Ok By Myself è stato particolarmente snervante, perché in quel momento ero talmente assorto che ho cominciato quasi a ignorare la base. Avevo fatto due prove e mi sentivo particolarmente fiero, ma Jerry Finn, il produttore, è entrato in sala e mi ha detto: «Questa canzone non mi piace per niente». Al che ho pensato: «Oh mio Dio!», ma sono andato avanti lo stesso, anche se è stato difficile perché mentre cantavo mi sono accorto che Jerry era lì seduto con le mani sulle orecchie. Ovviamente ha fatto male a uscirsene così mentre ero dietro al microfono, perché, comunque vada, ci vuole parecchio tempo prima che un cantante lasci andare le redini, per modo di dire, e quando sono andato nella sala di controllo l'ho trovato seduto lì con le mani in mano, invece di stare piegato sul mixer a darsi da fare: era il suo modo per dire che quel brano non faceva per lui. Era il segno che stavo esagerando. Ma non m'importava. Adoro quel brano. È il mio preferito, di Refusal. Dev'essere fastidioso quando il produttore ti dice che non gli piace la canzone su cui stai lavorando... Le persone che sono direttamente coinvolte spesso possono essere quelle più difficili da convincere, ma la voce è uno strumento talmente personale... Ha più realtà di una chitarra o di un trombone. Va trattata con particolare riguardo. La componente sessuale del canto è enorme, anche se canti una canzone che non è particolarmente sensuale. Per questo si giudica la voce in modo molto intimo, perché è una cosa che abbiamo tutti, mentre nessuno ha una reazione erotica, chessò, al basso. La cosa peggiore che puoi fare quando canti è sforzarti di essere interessante. Non funziona. Le parti più importanti del cantato a volte sono i momenti in cui fai calare la voce o la fermi per una pausa. I gesti più delicati richiedono più energia dei passaggi urlati. Alcune canzoni nuove ˗ Black Cloud, When I Last Spoke To Carol, One Day Goodbye Will Be Farewell ˗ hanno un' atnwifera di spavalderia temeraria quasi cinenwtografica, evocata in parte dalla tromba di Mark lsham. Stavamo ascoltando spesso Herb Alpert, e lui aveva accettato di suonare in tre brani, perciò eravamo eccitatissimi. All'atto pratico, continuava a rinviare, e alla fine si è tirato indietro. Ci siamo messi a piangere. Mark però era bravissimo, aveva suonato con

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ed è riuscito a cogliere perfettamente quella galoppata da mezzogiorno di fuoco sotto il sole di Los Angeles. Something Is Squeezing My Skull descrive uno stato di disperazione o di isolamento, accompagnato da una musica paradossalmente trascinante. Riguarda un episodio o un periodo specifico della vita, o si riferisce a un'inquietzuline più generale? Da bambino ero profondamente influenzato dai film, e davo per scontato che tutto quello che si vedeva sullo schermo era quello che alla fine ti sarebbe successo da grande. Durante l'adolescenza mi apparve straordinariamente chiaro che i film ˗ specialmente quelli di Hollywood ˗ erano una colossale bugia. E tale restano. Questo, sommato al fatto che verso i dieci-undici anni avevo scoperto l'esistenza dei mattatoi, per me era insopportabile e così da bambino chiassoso e chiacchierone mi trasformai a poco a poco in un tredicenne emotivo e introverso. Più avanti, la conseguenza immediata di tutto questo furono gli inevitabili antidepressivi. Se non riesci a sobbarcarti il peso di vivere in una società tutt'altro che civile non ti integri assolutamente nella comunità e cominci ad avere troppi pensieri per la testa. A quindici anni non mi facevo illusioni, e pensavo che la vita fosse una cosa terribile. Non ho mai cambiato parere. Credo sia per questo che amiamo tutti dormire: perché è l'unico modo per staccare la spina. Preferivi uno dei tuoi genitori per il carattere o l'aspetto? Tutti e due allo stesso modo, tutti e due incredibilmente. In All You Need Is Me canti: « Ero un bambino piccolo e grasso in una casa popolare / Avevo un sogno soltanto / E il destino me l'ha appena donato». Un lavoro normale è sempre stato fuori discussione? Con quello che era disponibile a metà degli anni settanta, sì. Quando vieni da una famiglia senza possibilità economiche sei costretto ad accettare il tuo destino. Io non avrei mai potuto. Il clima economico era enormemente diverso negli anni settanta, tranne che per la cosiddetta famiglia reale, ovviamente, e tutti quei soldi appartenevano ai lavoratori britannici. Mi ricordo che un episodio determinante fu a diciassette anni, quando andai all'Ufficio di Collocamento. Mi accomodai di fronte a questa donna bassa, grassa e pelosa, brutta come la fame, e lei mi comunicò che avevo richiesto il

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sussidio di disoccupazione per «un po' troppo tempo». Poi mi porse un bigliettino con l'appuntamento per un colloquio di lavoro, spiegandomi che se mi prendevano avrei dovuto ripulire gli argini del canale da tutti i rifiuti che si accumulavano. La guardai e scoppiai a ridere. Mi disse: «Pensi di essere troppo bravo per questo lavoro, vero?», al che mi alzai e me ne andai. Erano tempi patetici. Manchester negli anni settanta era indietro di secoli. Oltre a essere un fanatico dei New York Dolls, da giovane avevi anche fondato un fan club dei Cramps. La scomparsa recente di Lux lnterior ti ha spinto a un momento di riflessione? No, non direi. È inevitabile che nei prossimi dieci anni creperanno tutti. Bowie ha tre bypass, sono morti quattro New York Dolls e tre Ramones, tre membri dei T. Rex non ci sono più. La cosa interessante è che se cominci a suonare da giovane, rimani a quell'età per l'eternità, anche dopo che la terra ti ha chiamato a sé. Sarai sempre com'eri in quella canzone incisa. Almeno per gli ascoltatori. Years of Refusal è stato definito da più parti un album «che seppellisce il rancore». Ti sembra un commento giusto, o diminuisce la gamma di errwzioni espresse nell'opera? Non mi pare un album che seppellisce il rancore. I miei rancori sono già tutti sepolti. Se ascolti i grandi album della tua collezione personale, scoprirai che in quasi tutti la motivazione principale è la rabbia, e quando incidi un disco puoi permetterti di darle libero corso perché ti trovi nel mondo dell'arte e del rumore. Non ci sono limiti e siamo fortunati quando qualcuno lo capisce bene, come hanno fatto per esempio Iggy e gli Stooges con Raw Power. L'arte è un miracolo. La musica che ci colpisce di più di solito ha un impatto violento. Di solito, ma non sempre. La collaborazione con Jerry Finn a prima vista sembrava molto improbabile, considerato il suo curriculum, eppure ha prodotto come risultato una delle tue opere migliori. Puoi descrivere la dinamica creativa che si è instaurata tra voi? Ci siamo divertiti molto insieme e c'era un'ottima intesa. La band gli piaceva molto e ogni session diventava una battaglia di cervelli, il che era sempre uno spasso. Ma se una canzone non gli piaceva la mixava senza passione. È successo con / Like You e How Can Anybody Possibly Know How I Feel su You Are The Quarry. Si tirava indietro e si

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fidava troppo del suo giudizio. Non si piegava mai. neanche io. Alla fine ho vinto sempre io. La sua morte è stata una cosa terribile. Pensavo che la stampa musicale britannica potesse rendergli onore almeno per la sua ultima opera, ma evidentemente ero ubriaco quando mi è passata per la mente quell'idea: sono stati meschini e schifosi come sempre. Su Rolling Stone hanno scritto che Jerry era morto durante la registrazione di Years of Refusal, ma sapevano benissimo che non era così, perché al giornalista erano state date tutte le informazioni sull'accaduto. Probabilmente sgomitavano per fare una battuta squallida alle mie spalle, tipo Morrissey uccide il produttore. È l'unica cosa di cui non mi hanno accusato. Quanto conta un produttore in veste di collaboratore, direttore artistico de facto, psicologo, amico? Stranamente, molto. Jerry era anzitutto un amico. Siamo andati d'accordo dal primo istante, come se fossimo fatti l'uno per l'altro. Io non m'intendo molto di musica, perciò in studio sono un po' stitico di idee: è difficile trovare le parole giuste per spiegare il suono. Quando abbiamo fatto per la prima volta Irish Blood, English Heart non c'era granché dietro il verso «I've been dreaming of a time when...» e così ho chiesto a Jerry se poteva dare alla chitarra di Alan un conato di vomito nordico ˗ come se sorgesse dal fondo dell'oceano ˗ e undici secondi dopo era lì. Momenti come quello basterebbero a giustificare l'indifferenza di Jerry per altri brani. Credo che il ruolo del produttore sia quello di mettere ordine, perfino un ordine caotico, ma comunque diverso. Ci sono tanti fattori che aleggiano in uno studio durante le registrazioni: vanità, inferiorità, ambizione, pragmatismo, ansia, e il produttore è il tramite per riunirli tutti, altrimenti ciascuno si farebbe il proprio album solista nella testa, in linea di massima. Sulla copertina dell'album sei con un bambino in braccio, che mi pare sia Sebastian Pesel-Browne, figlio del tuo vice tour manager. Hai mai pensato alla paternità? Non avrei l'impudenza di dare per scontato che ogni creatura vivente mi vorrebbe come padre. Bel fardello da scaricare su un piccolo bambino innocente. Molti artisti raggiungono una fase in cui cominciano a sentirsi imbarazzati di lavorare nel mondo della musica pop e cercano un modo per continuare a fare quello che fanno, ma con una dignità che si addica all'età. Tu come risolvi questo problema?

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È importante ignorare gli elogi. Se ignori gli elogi, ti verrà spontaneo ignorare anche le critiche. Se lasci passare le critiche, sei finito. In ogni caso, vivi in una situazione per cui i giornalisti musicali che sono inclini a criticarti in realtà non hanno mai provato a fare in prima persona quello che fai tu, perciò ti domandi come possano trovare da ridire su cose che loro stessi non hanno mai conosciuto. Questo può farti perdere facilmente l'equilibrio, soprattutto quando la maggior parte del giornalismo pop è sistematicamente imprecisa, eppure fa sfoggio del suo spirito e della sua posizione nella recensione del tuo disco. La mia posizione, pertanto, è di non tenere in nessun conto tutto ciò che viene detto, positivo o negativo che sia. Non è l'ingordigia di chi è completamente assorbito da se stesso, ma una forma di protezione. È vero che una volta fatto un disco qualcuno lo deve valutare, ma il tuo istinto rimane il miglior giudice di qualsiasi cosa fai. Quando sei agli inizi, prima ancora di incidere, non scrivi ai critici musicali per chiedere che cosa dovresti suonare. E quando finalmente hai l'opportunità di incidere un disco, perché mai dovresti dar retta a loro, una volta che l'hai fatto? A maggio compirai cinquant'anni. Ha qualche significato, oltre il numero? Hai accusato qualcosa che si potrebbe definire crisi di mezza età? Sicuramente è un numero, e bello alto. È bello perché ti libera dagli obblighi. Smettono di chiederti che cosa farai perché o l'hai già fatto o chiaramente non farai niente. La valutazione seria della propria situazione personale, credo, avviene verso i trent'anni. Nella vita ci sono cose peggiori da accettare, che compiere cinquant'anni.

Hot Press 3 aprile 2009

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Autori

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Stuart Bailie È un giornalista e commentatore radiofonico. Ha lavorato a Londra dal 1985 al 1996 ed è stato vicedirettore del NME prima di ritornare nella natia Belfast. Ha scritto per Mojo, Q, Uncut, Times e Hot Press e ha curato una serie di documentari di BBC Radio 2 su U2, Elvis Costello e Glenn Campbell. Dal 1999 conduce un programma musicale ogni venerdì sera su BBC Radio Ulster e attualmente dirige un centro per la musica.

Max Bell Veterano della stampa musicale, appartiene alla generazione di critici formatasi sulle pagine del NME negli anni settanta, come Charles Shaar Murray e Nick Kent. Negli anni ottanta ha lanciato sfx, la prima rivista che proponeva musica e interviste di audiocassetta, ha diversificato le sue attività scrivendo per The Face, Smash Hits, Number One e il Times ed è diventato critico rock dell'Evening Standard di Londra per due decenni. Oggi Max è un collaboratore fisso di Uncut.

Ian Birch Ha girato molto. Si è fatto le ossa alla fine degli anni settanta scrivendo su Time Out e Melody Maker. Negli anni ha contribuito trasformare Smash Hits in un fenomeno editoriale (nell'era Neil Tennant/Mark Ellen/David Hepworth), è passato alla neonata Elle (in rappresentanza della minoranza maschile) e ha concluso il decennio lanciando la rivista Sky. All'inizio degli anni novanta ha lavorato a New York per Jarm Wenner, dirigendo Us, prima di ritornare a Londra e alla EMAP come direttore editoriale, lanciando Red e Closer ( con Jane Johnson), rilanciando Heat (con Mark Frith) e collaborando con Fiona Mclntosh all'edizione inglese di Grazia. Dopodiché è tornato in America come vicedirettore di tv Guide, una rivista che annovera ventuno milioni e trecentomila lettori a settimana.

Lynn Barber Ha vinto cinque British Press Awards per le sue interviste, raccolte in due libri, Mostly Men e Demon Barber. Negli ultimi dieci anni ha lavorato per l'Observer, preceduto da collaborazioni con Penthouse, Sunday Express, Sunday Times, Vanity Fair e Independent on Sunday. È anche autrice di How to lmprove Your Man in Bed e The Heyday of Natural History.

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Keith Cameron Ha visto per la prima volta gli Smiths il 5 marzo 1984, a Edimburgo, all'età di diciotto anni. Si sta ancora riprendendo. Giornalista e viceredattore di Mojo, vive a Hither Green, nel sudest di Londra, dove se ogni giorno fosse come la domenica, sarebbe una cosa gradita.

Steven Daly Ha formato i Nu-Sonics con il concittadino di Edimburgo Edwyn Collins nel 1976, in piena adolescenza. Sono diventati poi gli Orange Juice, classico gruppo post-punk in cui Steven ha suonato la batteria in tutti i singoli dei primi anni ottanta e nel loro primo album. Dopo aver intrapreso una carriera nel giornalismo, si è trasferito negli Usa e ha cominciato a scrivere di musica rock e cultura pop per Rolling Stone, per diventare successivamente direttore di Vanity Fair. Residente a Manhattan, è coautore di due libri: Alt. Culture: An A-to-Z Guide to the '90s Underground, Online, and Overthe-Counter (con Nathaniel Wice, 1995) e The Rock Snob's Dictionary (con David Kamp, 2005).

Adrian Deevoy È un giornalista freelance che abita nella zona ovest di Londra. Ha conosciuto Morrissey nel maggio del 1983 e da allora è rimasto in contatto con lui. Tra gli interessi che hanno in comune si annoverano i Ramones, la maglieria di buona fattura e l'omicidio.

David Dorrell Ha scritto per il NME dagli inizi alla metà degli anni ottanta. Gli si attribuisce il merito di aver definito per primo «goths» i frequentatori del club Batcave, ma i suoi gusti tendono nella direzione della musica dance. In veste di dj e fondatore dei M.A.R.R.S., ha portato al primo posto delle classifiche inglesi l'hit single Pump Up The Volume; ha anche remixato popolari artisti dance degli anni ottanta come Janet Jackson, Snap e De La Soul. Successivamente ha fondato la Dorrell Management, che ha avuto un ruolo determinante nel successo dei Bush negli Usa e vanta come clienti a lungo termine Pet Shop Boys.

Simon Garfield È un premiato reporter dell'Observer autore di otto opere di saggistica, tra cui The of Innocence: Britain in the Time of Aids, The Wrestling, The Nation's Favourite e i bestseller Il malva di Perkin e Our Hidden Lives. La sua canzone degli Smiths preferita

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è There ls A Light That Never Goes Out.

Andrew Harrison È stato direttore di Select, la rivista che ha tenuto a battesimo il Britpop, tra il 1991 e il 1995. Da allora è stato caporedattore musicale a Details di New York, e ha contribuito alla redazione di Q e della premiata testata dance Mixmag. Ha scritto su Mojo, Rolling Stone, The Face, Spin e Blender. Attualmente Andrew è condirettore dell'acclamata Wired, per la quale ha intervistato Morrissey una seconda volta nel 2003 recandosi nella casa del cantante a Los Angeles.

Tom Hibbert È un rispettato giornalista musicale inglese che ha pubblicato numerosi saggi sul rock, tra cui Rare Records, Rockspeak: A Dictionary of Rock Terms, Electro-Rock and Encydopedia of Rock/Pop Stars. Si è fatto notare su Smash Hits a metà degli anni ottanta ed è stato un pilastro sia di Mojo sia di Q, per il quale redigeva una leggendaria scheda mensile intitolata «Ma [inserire nome] chi diavolo crede di essere?». Ha curato per diversi anni una rubrica sull'Observer.

Dylan Jones È il direttore dell'edizione inglese di GQ. Ha studiato alla Chelsea School of Art e alla St.Martins School of Art prima di entrare nella redazione del rivoluzionario style magazine iD dal 1984. Negli anni ottanta ha collaborato a The Face, prima di diventare direttore di Arena nel 1988, vincendo il premio Editor of the Year nel 1993. Negli anni novanta è stato condirettore dell'Observer e del Sunday Times. Dal 1999 è direttore di GQ, e ha vinto per ben tre volte il premio Men's Magazine of the Year. Dylan Jones è anche autore di Jim Morrison dark star (biografia bestseller del 1991), True Brit (una monografia dello stilista Paul Smith, del 1995), iPod dunque sono: un viaggio personale nella musica (2005), e Mr. Jones' Rules for the Modern Man (2006).

Biba Kopf È lo pseudonimo di Chris Bohn ispirato a Franz Biberkopf, personaggio del romanzo di Alfred Doblin Berlin Alexanderplatz. Ha cominciato a scrivere per il NME e Melody Maker alla fine degli anni settanta e agli inizi degli anni ottanta è stato uno dei primi a dedicare ampi servizi a band come i Birthday Party. Nel 1997 è diventato caporedattore di The Wire, subentrando come direttore nel 2004.

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Eleanor Levy Ha ricevuto l'ispirazione a occuparsi di musica dopo aver visto i Clash al Music Machine di Camden, tre giorni prima del suo quindicesimo compleanno. Ha iniziato a scrivere su Record Mirror direttamente al college, fino a diventarne la direttrice. Poi si è rivolta alla sua altra grande passione con il settimanale sportivo satirico 90 Minutes, prima come vice, poi come direttrice. Oggi è vicedirettrice di un settimanale femminile.

Stuart Maconie Ha smesso di insegnare alla fine degli anni ottanta e ha cominciato a scrivere per il NME, come spiega dettagliatamente nel suo Cider with Roadies. Ha scritto 3682 giorni: la candida storia dei Blur e Folklore, la biografia ufficiale dei James, e ha sceneggiato e interpretato Lloyd Cole Knew My Father alla radio e in teatro. È stato premiato come Conduttore dell'Anno al Sony Radio Academy Gold Award del 2001 per i suoi programmi musicali su Radio 2; come conduttore televisivo, è stato autore di After They Were Famous: The Sound of Music per itv, nominato ai bafta, ed è una colonna di I Love the 1970s/1980s di BBC2 e Top Ten e 100 Best/Worst di Channel 4. Attualmente appare al Saturday Review di Radio 4, nel suo programma su Radio 2 e al Cinema Show di BBC2, cura una rubrica sul Radio Times e scrive per Word. L'ultimo libro di Stuart è Pies and Prejudice: In Search of the North e ha recentemente curato un documentario radiofonico su Morrissey e gli Smiths.

Andrew Male È vicedirettore di Mojo. Vive felicemente a Walthamstow, nella zona est di Londra. Ha visto per la prima volta gli Smiths all'Edge Hill College di Liverpool il 18 novembre 1983, e attualmente è orgoglioso possessore dell'indirizzo e-mail personale di Morrissey, anche se pare che non funzioni più.

Neil McCormick È un noto critico musicale inglese, commentatore del Daily Telegraph e ospite regolare della BBC. Ha cominciato a lavorare per Hot Press a Dublino nel 1978, a diciassette anni; dopo aver intervistato Morrissey nel 1984 si è convinto che quel cantante dalle apparenti tendenze suicide non sarebbe durato più di un anno. È lietissimo di essersi sbagliato. In un'altra vita, pare che Neil sia stato la prima persona a lasciare gli U2. Compagno di scuola di Bono, ha sprecato la gioventù cantando in oscure band come i Frankie Corpse and the Undertakers, i Modulators, gli Yeah! Yeah!

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Dave McCullough È approdato alla defunta rivista musicale Sounds nel 1979, dopo aver scritto con il nome d'arte «Dave Angry» per la punk'zine nordirlandese Alternative Ulster. Fino alla metà degli anni ottanta, è stato il paladino di luminari del post-punk come Magazine, Joy Division, Fall, Subway Sect, Scars, dell'etichetta scozzese Postcard... e degli Smiths, che è stato il primo a intervistare per la stampa musicale nazionale. Dopo quel periodo, ha riversato la sua fede su band «neopop» degli anni ottanta come Scritti Politti e ABC, ed è passato alla rivista londinese City Limits, oggi anch'essa defunta. Attualmente risulta irreperibile.

Paul Morley Ha visto cantare «la piccola leggenda locale» Morrissey con Ed Banger e i Nosebleeds nel 1978. «Un frontman di carisma» notava subito sul New Musical Express. «È consapevole a modo suo che il rock'n'roll è magia e ispirazione.» Morley ha scritto di Morrissey nel corso degli anni per il NME, Blitz, Uncut, l'Observer Music Monthly e il Sunday Telegraph, e ha anche parlato con lui in vari programmi radiotelevisivi. Qualunque cosa scriva o dica di Morrissey sembra sempre che alla fine tutto si riduca, in un modo o nell'altro, per un motivo o per l'altro, sempre alla stessa cosa: il carisma. Mentre Morrissey è passato dai Nosebleeds alla leggenda, Morley è diventato uno dei più importanti commentatori culturali britannici e acclamato autore di saggi tra cui Ask, Nothing, Metapop: storia del pop dal big bang a Kylie Minogue e l'imminente Joy Division: Piece by Piece.

Jennifer Nine È stata, variamente, tuttofare e marketing manager di un'etichetta discografica; addetta stampa di rancorosi poeti di mezza età; conduttrice di programmi radiofonici notturni, e ansiosa tour manager. Ha lasciato il Canada nel 1994 per emigrare nel Regno Unito in cerca di lavoro, dove si è guadagnata una discreta fama come giornalista musicale del Melody Maker e di chiunque altro glielo consenta. Vive a Bethnal Green.

Shaun Phillips Ha contribuito a Sounds negli ultimi anni della rivista, prima che chiudesse nel 1990. Nel decennio seguente ha scritto per Vox ed è stato proposto come direttore di Blah, Blah, Blah, corrispettivo inglese della rivista statunitense di musica e cultura Raygun. Attualmente risulta irreperibile.

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Will Self Ha guadagnato la sua reputazione con una serie di opere innovative: non c'è nessuno che scriva come lui al giorno d'oggi. È autore di cinque romanzi, quattro raccolte di racconti, tre racconti lunghi e quattro opere di saggistica. Come giornalista ha contribuito negli anni a una pletora di pubblicazioni; appare regolarmente in programmi televisivi e radiofonici. Vive a Londra con la moglie e quattro figli.

Mat Snow È l'ex premiato direttore di Mojo e FozuFourTwo, che attualmente si occupa di musica, calcio, letteratura e questioni di lavoro per giornali e programmi radiotelevisivi. Quasi coetaneo di Morrissey, ha iniziato la sua carriera giornalistica sulla fanzine di Manchester City Fun nel 1979, e pochi anni dopo è stato uno dei primi paladini degli Smiths sulle pagine del New Musical Express. Nel 1986 è stato immortalato dal suo ex coinquilino Nick Cave nella canzone Scum, di cui ogni parola risulta vera.

Elissa Van Poznak È stata collaboratrice e intervistatrice sul seminale style magazine degli anni ottanta The Face: i suoi intervistati andavano da Morrissey ai giovani attori del «Brit Pack» Tim Roth e Colin Firth, fino al leggendario Tom Waits. Tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta ha collaborato all'edizione inglese di Elle. Attualmente risulta irreperibile.

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Credits

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«Morrissey Needs No lntroduction» di Paul A. Woods, copyright © 2007 by Plexus Publishing Limited. «Morrissey Answers Twenty Questions», da Star Hits Collection, 1985. Copyright © 1985 by Star Hits. «The Morrissey Collection» di lan Birch, da Smash Hits, 21 giugno-4 luglio, 1984. Testi: lan Birch/Smash Hits. Ristampato con il permesso di EMAP London Llfestyle Ltd. «Handsome Devils» di Dave McCullough, da Sounds, 4 giugno, 1983. Copyright © 1983 by Dave McCullough. «The Smith Hunt! » di David Dorrell, da New Musical Express, 24 settembre, 1983. Copyright © 2007 by David Dorrell. Ristampato con il permesso dell'autore. «All Men Have Secrets...» di Neil McCormick, da Hot Press, 4 maggio, 1984. Copyright © 1984 by Neil McCormick. Ristampato con il permesso dell'autore. «Morrissey lnterviewed by Elissa Van Poznak», da The Face, July 1984. Copyright © 1984 by Elissa Van Poznak. «A Suitable Case for Treatment» di Biba Kopf, da New Musical Express, 22/29 dicembre, 1984. Copyright © 1984 by Chris Bohn. Ristampato con il permesso dell'autore. «Meat Is Murder!» di Tom Hibbert, da Smash Hits, 31 gennaio, 1985. Copyright © 1985 by Tom Hibbert. Ristampato con il permesso dell'autore. «This Charming Man» di Simon Garfield, da Time Out, 7-13 marzo, 1985. Copyright © 1985 by Simon Garfield Ristampato con il permesso dell'autore. «Bigmouth Strikes Again» di Max Bell, da No. 1, 28 giugno, 1986. Copyright © 1986 by Max Bell. Ristampato con il permesso dell'autore. «The Boy in the Bubble» di Stuart Bailie, da Record Mirror, 14 febbraio, 1987. Copyright © 1987 by Stuart Bailie. Ristampato con il permesso dell'autore. «Mr. Smith: All Mouth and Trousers?» di Dylan Jones, da i-D, ottobre 1987. Copyright © 1987 by i-D. Ristampato con il permesso dell'autore. «Wilde Child», di Paul Morley, da Blitz, aprile 1988. Copyright © 1988 by Paul Morley. Ristampato con il permesso dell'autore. «Private Diary of a Middle-Aged Man» di Shaun Phillips, da Sounds, 18 giugno, 1988. Copyright © 1988 by Shaun Phillips. «Playboy of the Western World» di Eleanor Levy, da Record Mirror, 11 febbraio 1989. Copyright © 1989 by Eleanor Levy. Ristampato con il permesso dell'autore. «The Soft Touch» di Mat Snow, da Q, dicembre 1989. Testi di Mat Snow/Q. Ristampato con il permesso dell'autore/EMAP London Lifestyle Ltd. «Lyrical King» di Steven Daly, da Spin, aprile 1991. Copyright © 1991 by Spin. Ristampato con il permesso dell'autore. «Morrissey Comes Out! (For a Drink)» di Stuart Maconie, da New Musical Express, 18 maggio, 1991. Copyright © 1991 by Stuart Maconie. Ristampato con il permesso dell'autore/Amanda Howard Associates. «Ooh I Say!» di Adrian Deevoy, da Q, settembre 1992. Testi di Adrian Deevoy/Q. Ristampato con il permesso dell'autore/ EMAP London Lifestyle Ltd. « Hand in Giove» di Andrew Harrison, da Select, maggio 1994. Testi di Andrew Harrison/Select. Ristampato con il permesso dell'autore. EMAP

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London Lifestyle Ltd. «Do You F*@kin' Want Some?» di Stuart Maconie, da Q, September 1995. Testi di Stuart Maconie/Q. Ristampato con il permesso dell'autore/ EMAP London Lifestyle Ltd. «The King of Bedsit Angst Grows Up» di Will Self, da Life/ The Observer, dicembre 1995. Copyright © 1995 by Will Self. Ristampato con il permesso della Wylie Agency (UK) Ltd. «The lmportance of Being Morrissey» di Jennifer Nine, da Melody Maker, 9 agosto, 1997. Copyright © 1997 by Karen Shook. Ristampato con il permesso dell'autore. «The Man with the Thorn in His Side» di Lynn Barber, da The Observer, 15 settembre, 2002. Copyright © 2002 by Lynn Barber. Ristampato con il permesso dell'autore. «Who's the Daddy?» di Keith Cameron, da Mojo, June 2004. Testi di Keith Cameron/Mojo. Ristampato con il permesso di EMAP London Lifestyle Ltd. «Happy Now?» di Andrew Male, da Mojo, aprile 2006. Testi di Andrew Male/Mojo. Ristampato con il permesso di EMAP London Lifestyle Ltd. «The Last Temptation of Morrissey» di Paul Morley. Versione senza tagli copyright © 2006 by Paul Morley. Ristampato con il permesso dell'autore. «The Unbearable Lightness of Being Morrissey» di Peter Murphy. Ristampato con il permesso di Hot Press. È stato fatto il possibile per rintracciare i detentori dei diritti di pubblicazione, e l'editore resta a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.

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Progetto grafico: Giulia Fabbi, 811448 Stampato presso: tipografia Recos, Poviglio (RE) Finito di stampare nel mese di: febbraio 2017 Carta: Favini Shiro Eco 100 gr, Favini Shiro Eco 250 gr. Caratteri: Times New Roman Regular, Times New Roman Italic, Helvetica Lt Regular, Helvetica Lt Italic, Helvetica Lt Bold Titolo originale: Morrissey in Conversation This Edition Copyright Š 2007, 2010 by Plexus Publishing Limited Š Isbn Edizioni S.r.l. Milano 2010

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L’importanza di essere

Isbn Edizioni

€ 27,00

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