Quando leggo un articolo di giornale, un essay o un libro scritto bene, la prosa e la narrazione si armonizzano nitidamente e il tutto viene squisitamente incorniciato in un’architettura leggera e trasparente. Quando leggo, credo ingenuamente che la persona che scrive si sia messa di fronte alla tastiera del portatile, abbia scritto di getto il testo e poi abbia riletto facendo giusto un po’ di editing. Credo molto nel talento e nella facilità che può dare nel fare le cose, forse troppo. In questo momento mi trovo di fronte alla tastiera, una tastiera che sto torturando disperatamente da quattro giorni nella speranza di riuscire a mettere in fila dei pensieri che nella mia testa sono confusi. Mi trovo molto spesso a scrivere, ma lo faccio sempre per me. Ho organizzato diverse bozze in gmail e in ognuna di esse scrivo riguardo ad uno specifico argomento: le cose che voglio leggere-ascoltare-guardare, stralci di testi che trovo in giro, il tumore di mia madre, lettere che non manderò mai, “angosce” versione 2018 e appunti sui fumetti che sto scrivendo. Non avevo mai razionalizzato ognuno dei singoli argomenti, ma quando mi viene da scrivere so esattamente quale bozza aprire. Mi piace scriverci perché so che sarò l’unica persona a rileggerle, ma soprattutto adoro il momento in cui scorrendo le righe mi rendo conto di essere un pochettino cambiata. A volte trovo un concetto embrionale di cui ora sono più consapevole, altre volte uno scatto emotivo di cui sono contenta di non aver fatto parola con anima viva. Anche se sembra strano da dire, mi ci è voluto parecchio tempo per riuscire a scrivere in modo sincero, sebbene sapessi che sarei sempre e solo stata io a leggere quelle parole. Credo che questo sia dovuto all’opinione che ho di me stessa. Credo di essere una bella persona e non mi piace sapere che sento e penso certe cose. Scrivere mi ha resa più sincera con me stessa, mi ha permesso di guardare negli occhi delle paure a cui prima non avrei mai nemmeno indugiato a pensare.
Così mi sono ritrovata a credere di amare scrivere, come amo leggere, disegnare e ballare, e di poterlo fare, come faccio tutte le altre cose, anche quando non sono da sola. Ho pensato che con tutte i comunicati stampa che ho pubblicato, i papiri su whatsapp e le lettere (queste spedite davvero) a mia madre, avessi in qualche modo acquisito la capacità di scrivere.
Per fortuna mi sbagliavo. Dico per fortuna perché certe cose dovrebbe farle solo chi le sa farle bene. Tutti gli altri dovrebbero farle ugualmente se questo li rende felici, ma con un’ambizione differente. Essere uno scrittore, un artista, un musicista o svolgere una qualunque altra professione elitaria di questo tipo richiede un allineamento di fattori che solo rarissimamente si può raggiungere. Io per oggi ho deciso di rimanere nelle file di coloro che non sono fra le persone eccezionali e di scrivere e disegnare solo per l’amore e la gioia che provo nel farlo. Forse se qualcuno leggerà mai queste righe potrà sembrare che io mi ponga in questo modo per non alzare troppo le aspettative e per risultare simpatica, eppure non è così. Oggi è il 30 agosto 2018 e sono da quattro giorni in residenza* artistica a Torre Pellice (Torino). Da quando mi trovo qui ho scritto chilometri di parole ottenendo come unico risultato un mal di testa, che per me che non ho mai il mal di testa, è risultato un sconfitta personale come non ne avevo da parecchio tempo. Sono stati quattro giorni di negoziazione interna durante i quali ho cercato di immaginare come creare qualcosa di bello e impossibile in un tempo ridottissimo. Ma non solo volevo creare la fanzine del secolo: volevo a tutti i costi che piacesse. Oggi pomeriggio, dopo aver ricomprato un kit per fumare drum (cosa che faccio periodicamente per poi regalare tutto ad un amica/o fumatore promettendo che
non ci cadrò più) e aver mangiato per la prima volta una granita commovente composta da gelato vegan al mirtillo e ghiaccio alla Gelateria Mollea ho preso consapevolezza di questo errore così banale. Mi sono sentita davvero stupida perché ancora una volta ho lasciato che la parte più insicura di me mi guidasse e che mi facesse perdere tempo, energie e presa bene. Sebbene sia consapevole fino al midollo che tutta la produzione culturale più scadente sia fatta “per piacere”, dall’altra parte mi sento debitrice alla situazione e sento di dover lasciare qui qualcosa di bello. Ho sento sulle mie spalle il giudizio negativo che durante la mia carriera ho dato a tantissime cose e dopo tanto tempo ho sentito il terrore di fallire perché sono da sola al di fuori della mia zona comfort.
Nella mia vita ho organizzato mostre ed eventi, ho lavorato come curatrice, come artista, ma sempre ho avuto la situazione sotto controllo e quasi sempre ero in compagnia di persone straordinarie ad aiutarmi. Oggi sono qui in un paesino che non conosco, dove le persone non hanno nessuna buona ragione per interessarsi al lavoro cosiddetto “artistico” di una sconosciuta milanese. Ho provato ad immaginare come avvicinarmi, come fare qualcosa che potrebbe interessare queste persone e qualcosa che in qualche remotissimo modo potrebbe servire. Ora, posso affermare con certezza che è stata una pessima idea. Se c’è una cosa sicura è che nemmeno se stessi qui un anno potrei arrivare a capire cosa mettere in una fanzine per far sì che la popolazione Torrese se ne interessi e questo perché è un intento del tutto assurdo. Io non sono qui per scrivere il giornale del paese o per fare qualcosa che possa avere un impatto sulla vita di queste persone, perché non ne sono in grado e non mi interessa farlo. Io sono qui innanzitutto per caso e in secondo luogo per fare qualcosa di bello ed incredibile al di là dell’approvazione che questa cosa potrebbe ricevere. Stasera, mentre mi bevevo una birra a Villa Olanda da sola guardando il tramonto, mi sono ricordata che non mi interessa che mi si dica che sono brava. Mi interessa pensare di me stessa che ho dato il massimo e che sono andata avanti nella mia ricerca quel tanto che mi basta per accettare un fallimento completo.
Ripensandoci adesso credo che mi abbia aiutato un video di pochi secondi che è apparso sul mio feed di instagram: l’intervistatore chiede a Lana Del Rey quali sono i compromessi a cui un artista deve scendere quando rende pubblico il proprio lavoro; lei risponde che lei personalmente non scende a nessun compromesso perché la sua musica è qualcosa che viene dal suo cuore, è una necessità, e che se questo la porterà a perdere tutti i suoi fan, chi se ne frega. (Lana Del Rey On “Lust for Life,” Avoiding Cultural Appropriation, and Politics | The Complex Cover —> https://www.youtube.com/ watch?v=q3ReJi0bXCs?rel=0 ) Io non sono così intensa e stupenda come Lana, però non voglio comportarmi diversamente. Non ho mai accettato me stessa: il mio fisico non mi è mai piaciuto, non mi sono mai sentita né abbastanza brillante, né abbastanza colta. Questa insoddisfazione mi ha portata a diventare una perfezionista, maniaca del controllo e workaholic, ma anche alla consapevolezza che se ti cimenti in una di quelle famose professioni elitarie, l’unica cosa che puoi fare fino ad un certo punto è semplicemente cercare di ascoltare le necessità del tuo lavoro. Dopo questa lunga premessa è ora per me di riprendere le fila iniziali del mio discorso, anche se mi piacerebbe molto indugiare ancora in questa zona di over-sharing emotivo. Mi sono guardata allo specchio e ho dovuto constatare che è totalmente evidente anche ad un occhio poco esperto che mi sono tagliata la frangia con le forbici per la carta e che l’unico modo che ho di scrivere, è convincermi che l’unica persona che leggerà queste parole (non più di una volta in ogni caso) sarò io. Questo testo sarà prezzemolo di inglesismi e milanesismi indecorosi, ma perfettamente pertinenti; farà ridere solo me e si riferirà ai miei amici come se fossero celebrities e alle celebrities come se fossero miei amici.
Italo Calvino e David Foster Wallace Domanda: A cosa stavo pensando quando ho deciso di ascoltare come ultimo libro (si, sono una di quelle persone che ascolta gli audiolibri, embè?) prima di partire per questa residenza “Una cosa divertente che non farò mai più” di David Foster Wallace? David Foster Wallace mi annichilisce perché era un genio. Quando mi piace lo scrittore non leggo mai la trama prima di cominciare il libro, quindi si può dire che sia stata una coincidenza fortuita che questo saggio sia un reportage del 1996 su una settimana di crociera extra lusso nel Mar dei Caraibi, commissionato a Wallace dalla rivista Harper’s. In ogni caso è stata una scelta funesta perché il progetto che avevo proposto a B.R.A.C.T (Breve Residenza Artistica di Comunità e Territorio), l’associazione che ha organizzato la mia permanenza qui, si basava su “Le città invisibili” di Italo Calvino*. Quindi in buona sostanza avevo detto che avrei delineato l’atmosfera e l’essenza stessa del luogo nel quale avrei fatto la residenza (che per la cronaca sarebbe dovuto essere l’Isola d’Elba, ma poi per una questione di disponibilità e per le caratte-
ristiche del progetto stesso è diventato un paesino piemontese); per poi partire con la testa totalmente frastornata dalla più tagliente, schietta e cruda narrazione del peggior turismo americano degli anni ’90. Da una parte Marco Polo, il Viaggiatore per eccellenza e dall’altra l’inconsapevolezza di massa del post colonialismo e del razzismo becero. Avevo decisamente perso l’orientamento, ero completamente confusa. Però come sempre il destino aggiusta le cose se gli si sa dare un aiutino. Stamattina ero nella camera 7 di Villa Olanda, dove risiedo, e per combattere la magnifica solitudine di un ostello deserto ho ascoltato “Pagina 3” su Radio 3 (mi annovero orgogliosamente nella poco nutrita schiera degli ascoltatori under 35 di questo programma). Nella puntata del 16 Agosto 2018 (https://www.raiplayradio. it/audio/2018/08/PAGINA-3-lanima-delle-citta-cc66dabf-16d1-4f8c-b2b0-6e79e827b6a5.html) la voce di Silvia Bencivelli legge un articolo di Paolo Berdini pubblicato dalla rivista Left che mette a fuoco il problema della monocultura del turismo di massa e l’effetto devastante che questo ha avuto sull’anima delle grandi città d’arte italiane, principalmente di Venezia. Da questo ascolto mi parte un trip:
*Riassunto della trama da Wikipedia: Questo romanzo fa parte del periodo combinatorio dell’autore, dove è evidente l’influenza della semiotica e dello Strutturalismo. Nella letteratura combinatoria centrale diventa il lettore, che si trova a “giocare” con l’autore, nella ricerca delle combinazioni nascoste nell’opera e nel linguaggio. Il punto di partenza di ogni capitolo è il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, che interroga l’esploratore sulle città del suo immenso impero. Marco Polo descrive città reali, immaginarie, frutto della sua fantasia, che colpiscono sempre più il Gran Khan. Il libro è costituito da nove capitoli, ma c’è un’ulteriore divisione interna: ognuna delle 55 città è divisa in base a una categoria, 11 in totale, dalle “città e la memoria” alle “città nascoste”. Il lettore ha quindi la possibilità di “giocare” con la struttura dell’opera, scegliendo di seguire un raggruppamento o un altro, la divisione in capitoli o in categorie, o semplicemente saltando da una descrizione di città a un’altra. Calvino stesso ha affermato, in una conferenza del 1983 alla Columbia University a New York, che non c’è una sola fine delle Città invisibili perché “questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”.
Uno dei motivi principali della mia ansia da prestazione dipende dal fatto che mi trovo a Torre Pellice durante la settimana più importante dell’anno: la settimana del Sinodo*. Cerco di concentrarmi su ogni dettaglio, ma fino a che non ascolto il podcast di Radio 3, dimentico di guardare qualcosa di importante, qualcosa che manca: i turisti. Trovo abbastanza inutile definire in questa sede cosa sia un turista, credo che tutti i non-turisti abbiano perfettamente in mente di cosa sto parlando. L’eccezionalità dell’evento risiede nel fatto che qui è pieno di forestieri fra persone che arrivano da tutta Italia e dall’estero per assistere all’assemblea e i rifugiati africani. Io stessa sono evidentemente una straniera e questa per me è una condizione che da una parte dipende dalla mia attitudine di vita e dall’altra da una constatazione empirica della mia incongruenza con questo ambiente.
Non mi riferisco solo al fatto che non conosco nessuno e che vengo da un posto che sebbene disti solo a due ore e mezza di macchina da qui, è completamente diverso; che sono nella capitale della Chiesa Valdese sebbene due settimane fa ne conoscessi a malapena l’esistenza: mi riferisco a qualcosa di più tattile. Sento il mio corpo che non riesce ad abituarsi a mangiare il cibo locale, mi fanno male gli stinchi perché non sono abituata alla pendenza delle strade, o forse perché martedì mattina ho percorso il Sentiero
*Definizione copia/incollata da chiesavaldese.org: Il Sinodo è l’assemblea generale che esprime l’unità di tutte le chiese. Nello svolgimento delle sue attività agisce nell’obbedienza alla Parola di Dio, come assemblea di credenti che ricerca la guida dello Spirito Santo. Esso è la massima autorità umana della Chiesa in materia dottrinaria, legislativa, giurisdizionale e di governo. (DV, art. 27). Esso è costituito dai deputati delle chiese locali, da un numero di pastori equivalente e dai responsabili di particolari settori di attività. Ai membri con voce deliberativa si aggiunge un numero variabile di membri con voce consultiva. Si riunisce ogni anno a Torre Pellice, nelle Valli Valdesi, in provincia di Torino, a partire dalla domenica che precede l’ultimo venerdì di agosto. Si apre con un culto durante il quale i futuri ministri, al termine dei loro studi e dopo un esame pubblico, si impegnano a servire nella Chiesa e vengono consacrati con l’imposizione delle mani. I lavori si svolgono secondo lo stesso schema delle conferenze distrettuali naturalmente nella prospettiva della unione delle chiese valdesi e metodiste nel loro complesso. Di competenza del Sinodo sono di conseguenza i rapporti con lo Stato, con gli organismi ecumenici, le norme che regolano il culto (le liturgie in vigore), la nomina dei professori di teologia e in particolare l’esame dell’operato degli organi amministrativi.
naturalistico della Ghiandaia, e nonostante venisse definito “turistico” dalla brochure che mi hanno dato all’ufficio turismo, per me che vengo dalla pianura padana la salita è stata ripida, e ho avuto il fiatone per la maggior parte del tempo, ed è stata una sensazione davvero piacevole perché a Milano quando ho il fiatone, mi bruciano gli occhi. A Milano pedalo indossando un cappuccio e una mascherina neri per proteggermi dall’aria nera. Secondo le statistiche di numbeo.com del 2018, Milano è al 113° posto della classifica mondiale e al 16° posto nella classifica europea delle città più inquinate. Cerco di proteggere il mio corpo, ma non si può essere impermeabili all’ambiente in cui si vive, ne si è intrisi. Io sono qui fra i boschi e il paese solo da qualche giorno, pochissimo è penetrato e so che qui mi sentirò sempre straniera. Sette giorni nella camera 7 di Villa Olanda sono troppo pochi per smettere di essere straniera. Quanto ci vuole allora? Anni? No, non credo sia una questione di tempo. Sono straniera e lo sarò sempre perché ho il privilegio di poter scegliere se esserlo o meno. Sono straniera a Milano, sono straniera qui e lo sarò ovunque, perché è la condizione che ho scelto per me. Cerco sempre di circondarmi di persone che in qualche modo reputo straniere: tutti i miei amici sono stranieri e ognuno di loro lo è in un modo completamente diverso. La diversità non dipende dalle loro origini o dalla loro cultura, ma da come affrontano la solitudine. Scegliere di andare via da casa significa cominciare la ricerca di un futuro migliore, ma molte volte significa anche scegliere la via più ripida. Le persone che ho incontrato finora nella mia vita hanno scelto di andare via per motivi diversi, vengono da ceti sociali e luoghi del mondo diversi, ma tutti hanno dovuto lottare da soli, lontano da casa.
Milano è una città di immigrati, persone che cercano fortuna, lavoro o un livello di istruzione migliore. Ma se la condizione di straniero dipende dalla percezione dell’appartenenza ad un gruppo o un luogo, è naturale che anche se vivo lì da sempre nella stessa città, per me sia difficile trovare un unico gruppo di appartenenza. Non è possibile sentirmi integralmente parte di un gruppo, perché il mio desiderio è quello di condividere ogni diversa parte di me con gruppi diversi e di stare sempre con un piede fuori e uno dentro dal cerchio. La condizione autoimposta di straniera è sottile e trasparente, è mentale e ha ragioni quasi del tutto funzionali. Infatti se io sono straniera e lo sono tutte le persone intorno a me, allora è come se nessuno più lo fosse, e a quel punto cosa diventiamo? A mio parere, individui che ricercano la propria cultura e la propria morale in un rapporto dialettico con gli altri. Lo straniero, preso come archetipo, è un individuo che si interroga sulla propria diversità e la propria uguaglianza, nonché sul rapporto con il territorio e i non stranieri; è un’entità che per quanto possa essere nomade sviluppa un rapporto ricettivo e curioso e costruisce il proprio essere dal confronto. Il turista è un ladro di risorse che non lascia nulla nei luoghi che visita se non la propria spazzatura, e non in grado di portare con se nulla di valore perché è il consumatore perfetto. Da una parte c’è Marco Polo e dall’altro i passeggeri statunitensi della 7NC Crociere di Wallace. Da quando ascolto Radio 3 a quando scrivo questo trip passano quasi 24 ore e nel frattempo ascolto anche Roxane Gay che legge il suo essay pubblicato su medium. com “What Fullness Is” (https://medium. com/s/playback/roxane-gay-what-fullness-is-8efc5cab3daf). Sta raccontando di tutto il dolore fisico ed emotivo che le ha causato l’operazione di bypass gastrico a cui si è sottoposta dopo tantissimi anni in cui aveva rifiutato di andare sotto i ferri. Fra tutte le cose meraviglio-
se e truci di cui parla, fa una riflessione molto amara sul fatto che non ha potuto più aspettare che le persone smettessero di odiarla e insultarla perché era obesa, non ha più avuto tempo di aspettare che il mondo diventasse un luogo di amore e tolleranza, ha dovuto cambiare lei il proprio corpo, perché la sua vita è troppo breve per cambiare il resto. Per quanto questo sia ingiusto, lei non ha nessuna intenzione di arrendersi, anzi! Continua a lavorare su se stessa e sulla causa antirazzista e femminista. Io per ora vivo in Italia e sebbene non abbia nessuna speranza di cambiare questo paese, ci provo ogni giorno. Venire in uno paesino del Piemonte e scoprire che c’è un’intera comunità che cerca di fare lo stesso e che lo fa orgogliosamente e pragmaticamente, mi fa sentire che riesco a respirare meglio.
Per ricordarmi il nome Torre Pellice mi ci sono voluti alcuni giorni. I miei amici mi chiedevano dove sarei andata in residenza e io facevo tipo <<Torino, sai vicino a Pinerolo…>> e loro <<Ah, ah, ma dove esattamente…>> e io cambiavo discorso. Quindi non è che fossi partita davvero con delle aspettative, però delle conoscenze pregresse in qualche modo le avevo: due storie strane che mi hanno raccontato mia madre e mio padre tanti anni fa. Non ricordo la mia vita prima che mi venissero raccontate, quindi posso dire che queste storie e io siamo nate nello stesso momento, e che le nostre esistenze sono indissolubili. La cosa che davvero mi lascia attonita è che non mi vengo in mente altre storie raccontate con una tale ricchezza di dettagli dai miei genitori, eppure entrambe sono ambientate in Piemonte, una a Torino e una a Pinerolo. Sono storie così assurde da sembrare false, però, forse perché mi sono state raccontate quando ero ancora più ingenua di adesso, sono certa che siano vere.
Specchio
Non ho mai conosciuto nessuno con una memoria come quella di mia madre. Lei ricorda pochissime cose; con questo non voglio dire che abbia pochi ricordi, ma solo che non ha nessuna cura di mantenerli. Un’altra persona forse si preoccuperebbe della natura sabbiosa della propria memoria, penserebbe di avere l’Alzheimer, ma lei invece non ci fa caso. Penso che la sua situazione le dia serenità, perché sulle sue spalle non deve sopportare il peso dei dispiaceri e dei dolori, degli anni, delle gioie passate e della lungimiranza. Mamma non ha mai smesso di essere giovane. Naturalmente il suo corpo, la sua mente e il suo cuore sono cambiati negli
anni, ma questo non ne ha determinato un deterioramento. Credo che questo sia stato possibile per un caso del destino o forse per un incantesimo. Io sono nata nel giorno del suo trentaquattresimo compleanno quindi, in uno modo che noi stesse non siamo in grado di comprendere, siamo gemelle. Siamo due bambine legate da fili elastici gommosi. Siamo le due parti dello specchio, non del tutto simmetriche, ma in equilibrio. Lei non invecchia perché il nostro legame è stretto e ci tiene vicine e simili. Io vivo nella libertà della giovinezza senza angosce perché sento di averla già vissuta una volta attraverso il mio specchio.
Tastiera
Mio padre ha sempre suonato il piano e poi, da quando sono nata io, la tastiera elettronica. Era vecchio e visto dai miei occhi vecchissimo. Ogni cosa raccontata da lui sembrava provenire da un’epoca tanto distante da non poter nemmeno appartenere a questo pianeta. Per me sarebbe stato del tutto appropriato se lui avesse scelto di introdurre ognuno dei suoi aneddoti con “C’era una volta…”, ma la vecchiaia è troppo pessimista quando non si accompagna alla follia. Ora però alla tastiera ci sono io e sono l’unica persona al mondo a conoscere la sua storia.
Savana Favola di mia madre Mamma arriva prima che cominci il servizio per la cena e Suzy, la scimmia che abita la gabbia in fondo al locale, si mette ad urlare come una pazza non appena la scorge. Mamma si avvicina, si accarezzano attraverso le sbarre e fumano insieme. Il cucciolo di Suzy tira gelosamente i capelli a mia madre, per poi essere sculacciato dalla mamma-scimpanzé. Mio padre è splendente, mia madre è la sua ragazza bionda e io ancora non esisto. Sono gli anni 80’, è estate e loro vivono come vampiri: ogni notte lui si esibisce al Macumba, tutti danzano e lei sospira. All’alba, un tappeto di rane che scintillano alla luce dei fari dell’automobile ricopre la strada verso casa. Vivono la vita con la rilassatezza che solo la consapevolezza di essere stupendo ti può dare. Poi l’assurdità diventa routine, sembra più eccezionale oggi raccontare di vivere in un appartamento al pianoterra con tre gatti, piuttosto che riguardare una foto di mio padre coccola una tigre in Piemonte.
Mio padre è un ragazzino, mia mamma e io ancora non esistiamo. Sono gli anni 40’, Torino è così umida. Lo zio di mio padre è un medico del Cottolengo. Mio padre indossa una giacca Kway viola azzurra e arancione salmone in pile, mamma è al lavoro, io sto facendo merenda con il Kinder Cereali. Siamo in cucina, sono gli anni ’90 e mio padre mi racconta che quando lui era bambino suo zio lavorava in un’ospedale molto strano e lo aveva portato con lui al lavoro per mostrargli una persona speciale: una ragazza con la testa di rana. Io sono confusa <<Come con la testa di rana?>> e lui << Eh, con la testa di rana… un corpo bello, di ragazza giovane e poi la testa di rana.>> In quel momento quella ragazza si è seduta sopra al mio inconscio e non si è mai più alzata.
Una ragazza Favola di mio padre
Lâ&#x20AC;&#x2122;ultimo giorno dâ&#x20AC;&#x2122;estate è una fanzine di Giulia Ratti prodotta a Torre Pellice e dintorni dal 27.08 allo 01.09.2018.
Grazie B.R.A.C.T (Breve Residenza Artistica di ComunitĂ e Territorio) per aver organizzato la mia permanenza qui Camilla, Maciej, Sofia e Alessandro essere stati al telefono con me per un ammontare di tempo indecente Sofia Vineis per avermi accolta e per avermi spiegato tante cose Mohamed per aver passato tanto tempo con me e per avermi fatto visitare Pinerolo Claudio Petronella di RBE per lâ&#x20AC;&#x2122;intervista e il supporto Tutte le persone che si sono occupate di me a villa Olanda, soprattutto Manuela, Ilaria e Susanna Tutti coloro che hanno deciso di leggere e condividere questa fanzine.
Kublai domanda a Marco: — Quando ritornerai a Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me?— Io parlo, parlo, — dice Marco, — ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella di uno scrivano di romanzi d'avventura. (Le città invisibili, Italo Cavino, 1972)
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