Giovanni Lissandrello Opere
1954–2011
Museo della Cattedrale Palazzo Garofalo, Ragusa 22 maggio-2 giugno 2011
Giovanni Lissandrello Opere 1954–2011
a cura di Andrea Guastella
Giovanni Lissandrello Opere 1954-2011
Testo e coordinamento Andrea Guastella
Realizzazione, progetto grafico e impaginazione Centrocopie, Ragusa via S. Anna 122
Fotografie Giuseppe Leone, Aldo Sortino
Stampa Centrocopie, Ragusa via S. Anna 122
Il catalogo è stato realizzato col sostegno di:
Comune di Ragusa
Provincia Regionale di Ragusa
Cattedrale San Giovanni Battista Ragusa
Impresa Ecologica
BUSSO SEBASTIANO
In copertina Fossile, 1991 (particolare)
La nostra Comunità ha l'onore e l'orgoglio di ammirare una delle collezioni più belle realizzate da un figlio di Ragusa. Calore, amore per il paesaggio, per la nostra natura e per l'uomo che in essa opera. Grazie Giovanni per aver immortalato e migliorato agli occhi di noi tutti questo grande patrimonio. Una città è grande grazie al contributo di ciascuno. Anche grazie al tuo.
Nello Dipasquale Sindaco di Ragusa
Questa antologica offre una sintesi ampia e approfondita del lavoro di Giovanni Lissandrello, dai suoi, ormai lontani, esordi fino alle ultime opere, testimoniando così un legame indissolubile con la terra iblea. Vi ritroviamo infatti i colli e le vallate degli Iblei, i fossili che il tempo vi ha depositato, le edicole votive che ornano le strade della nostra città e della nostra provincia. L'arte di Lissandrello trasfigura il tutto in una dimensione poetica dove la memoria dei capolavori del passato e uno stile contemporaneo si fondono in una sintesi matura. È dunque un piacere per l'Amministrazione Provinciale di Ragusa patrocinare questa mostra, che saprà suscitare – ne sono certo – la massima attenzione ed a cui auguro un meritato successo.
Giovanni Franco Antoci Presidente della Provincia Regionale di Ragusa
Sono un pittore autodidatta che ha sempre lavorato con paziente tenacia per cercare di conoscere se stesso. Lavoro con pochi colori, rapidi accenni di disegno e prediligo i colori rarefatti e antichi, come se custodissero i segreti del tempo e il fascino di questa allegoria della vita, in uno spazio di mistero. Io amo soprattutto le linee delle montagne iblee, luoghi che mi affascinano e mi commuovono. Mi piace quel sentimento sacro che oggi è quasi smarrito. Ho incominciato a dipingere a otto anni, quando, affascinato dai colori mescolati da un mio fratello imbianchino, ne rubai un po' e li provai come primo esperimento su un muro. Fu la scoperta di un mondo nuovo, un rapporto con il colore che è stata la mia continua ricerca e ha dato senso alla mia vita. Tutto qui.
Giovanni Lissandrello
Sommario 11 Nel magma della materia, di Andrea Guastella 13 Tavole 61 Antologia critica 71 Bio-bibliografia
Nel magma della materia Andrea Guastella
Un cataclisma è avvenuto. Non ci sono più case, né città. Forse, da qualche parte, uomini vivono ancora. Ma l'umanità non è più padrona della terra. A questo scenario apocalittico vanno ricondotte le visioni di Giovanni Lissandrello, ed è augurabile che la realtà plasmata nei suoi quadri sia, più che una profezia, un avvertimento, un invito a lasciarsi alle spalle il clamore del mondo per cercare in una disposizione contemplativa una possibile salvezza. L'avvento di cieli nuovi e terra nuova, di una finale redenzione: questo l'auspicio dell'autore, che non fa mistero alcuno del suo credo religioso. Tuttavia, anche non conoscendone la fede, appare chiaro che la ricerca di Lissandrello è rivolta a una dimensione interiore in cui il senso del sacro coincide con quello dell'arcaico, rinvenuto in prima istanza nel paesaggio, nelle curve familiari degli Iblei. Potrebbe sembrare strano ma, nonostante l'abusivismo selvaggio e l'inquinamento dilagante, la campagna ragusana conserva ancora un che di primitivo, un'aura che la apparenta a spazi desertici o dove l'uomo ha vissuto in sintonia perfetta con l'ambiente, adattandosi ad esso piuttosto che piegarlo ai propri scopi poco curandosi delle conseguenze. Persino i muri a secco che in lungo e in largo la percorrono paiono il frutto di una sedimentazione naturale e non di un lento, ciclopico lavoro di bonifica. Quale luogo quindi più adatto a un temperamento ascetico per cui l'assenza dell'uomo, intesa come diminuzione di sé, sottrazione del proprio nulla per dare spazio alla pienezza dell'Altro, è condizione essenziale alla palingenesi attesa. Si tratta, del resto, di un sito ricchissimo di fossili, di testimonianze tangibili del muto scorrere del tempo, che Lissandrello non esita ad accogliere nel suo scarno immaginario; quasi la prova provata che la presenza individuale è destinata a farsi pietra, polvere, e che l'arte (i fossili) e la vita non sono opposti inconciliabili quanto aspetti di una continuità sola. Infine, i capolavori del passato, specie del Rinascimento italiano. L'autore finge di rinvenirli in condizioni pietose, corrosi dalla muffa, sbiaditi. Eppure gli ampi squarci sulla loro crosta non sono altrettante proteste contro il divenire, colpevole di sottomettere il creato al giogo della morte. Sono piuttosto aperture sulla parete che separa il visibile dall'invisibile, la tenebra attuale dallo splendore della trascendenza.
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Contorcendo le sagome dei corpi, sfarinando i colori, simulando lacune che rendono difficile la lettura dei fondali, l'artista distoglie infatti l'attenzione dai modelli – e dalla relativa nostalgia – per concentrarla sull'oggettività della pittura, principalmente sulla fascinazione materica delle superfici, secondo un'attitudine informale che, unitamente all'uso conclamato di supporti minimalisti (il legno, la carta) e di una tecnica artigiana, spoglia la citazione dei classici o la riproduzione di soggetti convenzionali da ogni sospetto di retorica e di banale illustrazione. Del resto, proprio come Francis Bacon, che del ritratto di Velázquez a Innocenzo X dichiarò di non averlo mai voluto vedere da vicino per non lasciarsene troppo influenzare, anche Lissandrello lavora su immagini di seconda mano, senza preoccuparsi troppo del confronto con gli originali. Se dunque l'arte come categoria storica non può esistere né è mai esistita, esiste solo una bellezza assoluta che risiede nel magma della materia, al confine tra catastrofe e ricreazione. Di questa bellezza, la presente antologica offre uno spaccato diacronico tendenzialmente esaustivo. Tutte le fasi della produzione di Lissandrello vi sono raccolte: dai primi paesaggi, ai fossili, ai finti affreschi, sino alle ultime opere che ripercorrono le orme del passato. Chi vuole potrà anche seguirvi gli sviluppi dello stile dell'artista, dall'iniziale cupezza al luminismo degli estremi approdi. I più accorti non potranno fare a meno di meditarli – di rispecchiarvisi – in un silenzio devoto.
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Tavole
La casa, 1960 olio su cartone telato 26 x 34 cm
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Composizione, 1965 olio su tela 100 x 70 cm
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Figura, 1970 olio su carta 50 x 27 cm
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Luoghi della memoria, 1970 olio su carta 40 x 55 cm
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Nudo, 1970 tecnica mista su carta 23 x 17 cm
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Il volto, 1972 olio su cartoncino 29 x 24 cm
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Radici, 1972 olio su carta 70 x 50 cm
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Autoritratto, 1990 olio su tela 35 x 25 cm
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Fossile, 1991 olio su tela 90 x 60 cm
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Fossile, 1992 olio su tela 120 x 100 cm
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Frammento, 1994 olio su tela 120 x 100 cm
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Nicolò, 2001 olio su carta 40 x 30 cm
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Meditazione, 2002 olio su cartoncino 24 x 15 cm
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Frammenti, 2002 tecnica mista su tavola 35 x 21 cm
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Frammento, 2003 olio su tavola 25 x 24 cm
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Frammenti, 2004 olio su carta 27 x 21 cm
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Combattimento, 2007 tecnica mista su tavola 65 x 140 cm
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L'albero della vita, 2008 tecnica mista su tavola 19 x 24 cm
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La scuola di Atene, 2008 tecnica mista su tavola 40 x 150 cm
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Sacra conversazione, 2008 tecnica mista su tavola 38 x 110 cm
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Paesaggio ibleo, 2008 tecnica mista su tavola 127 x 112 cm
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Paesaggio ibleo, 2008 tecnica mista su tavola 115 x 158 cm
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Figure nel paesaggio, 2009 olio su tela applicato su tavola 61 x 47 cm
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Da Benozzo Gozzoli, 2009 tecnica mista su tavola 81 x 92 cm
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Gianmaria, 2009 olio su carta 42 x 30 cm
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Intersezioni, 2009 tecnica mista su tavola 100 x 118 cm
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L'incontro, 2009 tecnica mista su tavola 90 x 110 cm
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Autoritratto, 2010 tecnica mista su tavola 123 x 92 cm
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Da Giotto, 2010 tecnica mista su tavola 33 x 40 cm
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Dittico, 2010 tecnica mista su tavola 54 x 29 cm
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Frammenti, 2010 tecnica mista su tavola 11 x 73 cm
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Interno-esterno con figure, 2010 tecnica mista su cartoncino 22 x 11 cm
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La valle, 2010 tecnica mista su tavola 72 x 92 cm
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Lo studio del pittore, 2010 tecnica mista su cartoncino 21 x 26 cm
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Paesaggio ibleo, 2010 tecnica mista su tavola 40 x 140 cm
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Paesaggio ibleo, 2010 tecnica mista su tavola 70 x 103 cm
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Paesaggio, 2010 tecnica mista su cartoncino 20 x 22 cm
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Paesaggio della memoria, 2011 tecnica mista su tavola 88 x 123 cm
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Figure, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Figure, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Figure, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Fossile, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Fossile, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Figure, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Figure, 2011 tecnica mista su carta 100 x 70 cm (particolare)
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Antologia critica
La luce del mutamento
Ma, ahimè, quelle cose si rivelano mute e senza importanza, incapaci di servire all’artista, al poeta. Eppure una sera d’estate il ragazzo fa una scoperta che lo trasforma. Osserva durante una passeggiata in carrozza le torri del campanile di un villaggio vicino. Il suo sguardo si posa a lungo sulle superfici assolate finché queste scoppiano come una corteccia che si fende: qualcosa del contenuto nascosto esce alla luce e insieme nel ragazzo si fa strada l’idea - un attimo prima non esisteva ancora - un’idea che si riveste di parole, di parole che risuonano internamente come una musica sconosciuta e familiare al contempo, e che accresce fino all’ebbrezza il piacere di quello sguardo sulle torri. Nel volo del suo entusiasmo e insieme sentendo di dovere in qualche modo alleviare la sua coscienza, il ragazzo prende carta e matita e scrive un brano di prosa. Il segreto delle cose si lascia, dunque, forzare per mezzo delle Parole! Se l’esperienza delle torri del campanile di Martinville fu per Proust la via dell’eccitazione artistica fino alla figurazione espressiva, anche per Giovanni Lissandrello al di là di questo stupendo esempio letterario l’esperienza della sua figurazione pittorica sembra muoversi tra due momenti di ricerca in cui l’imprevedibile fluire della vita cerca davvero un senso compiuto nelle cose o nei luoghi che lo sommergono e lo commuovono. Questo pittore appartato, silenzioso e severo come le belle linee delle montagne iblee da cui il suo sguardo ha forse attinto l’intensità e l’evidenza di certi suoi disegni, ha raggiunto nelle sue ultime prove artistiche una così struggente e placata evocazione fantastica da non riconoscere più i suoi esordi, dove la dolente corposità delle figure e degli oggetti si esprimeva in un colore fissato da una solitudine in attesa. Quei componimenti, già originali per un impasto del colore disteso e percorso da ombre segretissime, erano la fresca traccia d’un temperamento assorto in una sorta di autodisciplina della forma priva di sbavature, di ripetizioni, di ornamenti superflui. Erano il segno della forza e di un’ispirazione imperiosa. E tuttavia il colore tendeva a fondere la sua luce con l’ombra fino a creare atmosfere
...Solo grazie all’arte ci è dato uscire da noi stessi, sapere quel che un altro vede di un universo non identico al nostro e i cui paesaggi ci rimarrebbero altrimenti ignoti come quelli che possono esserci sulla Luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi. Marcel Proust, Il Tempo Ritrovato
I n una intramontabile pagina della recherche di Marcel Proust in La strada di Swann, il Narratore racconta quella esperienza singolare che fu per lui l’aspirazione alla creazione artistica: è ancora un ragazzo e il mondo dei libri lo affascina misteriosamente. Si arricchisce e si eleva nei pensieri e nei sentimenti che dai bei libri lo sommergono e lo commuovono. Anche lui vorrebbe scrivere libri, ma crede sia necessario avere una «grande idea» da comunicare al mondo. Crede di amare i libri, «l’idea» che è contenuta in loro, ma lo sa: lui non sarà mai in grado di trovare un’idea simile. Inutilmente si tormenta per scoprire un’idea da cui potrebbe fare un libro. «In fondo non ho talento» dice di sé con molta tristezza: seppellisce i sogni di un avvenire artistico e si proibisce anche di pensarvi. Ma nello stesso tempo ha un’esperienza che si rinnova stranamente: ci sono cose, cose di nessuna importanza, che appaiono improvvisamente – un tetto, un raggio di sole su una pietra, l’odore di una strada – e danno una strana felicità. Al contempo sembra che quelle cose nascondano una realtà segreta, un significato particolare che non si esprime nella loro apparenza esteriore, che si vorrebbe capire e non si riesce ad afferrare. Sarebbe forse possibile avvicinarsi pensando a questo segreto che le cose insieme offrono e nascondono? Il ragazzo chiude gli occhi, imprime nella memoria il contorno preciso del tetto, il tono di colore della pietra, s’immerge nella forma delle cose che sembrano così stranamente ricolme, quasi volessero aprirsi a liberare il loro contenuto segreto.
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pace ritrovata e rinnovata. Esse trasmettono un senso medianico di quiete e al contempo d’inquietante interrogativo, quasi il segno d’un mondo sommerso, ma vitalissimo, in una luce mutevole e dorata, oltre il tempo, di cui non riusciamo a trovare la chiave ma che presentiamo assai vicina quando riusciamo a lasciarci prendere da quelle evocazioni che simili ad un lampo nella notte ci rivelano una bellezza conclusa e placata: ecco le strade che l’artista ha varcato una volta per sempre, e che nessuno più varcherà, ch’egli stesso più non saprà varcare. Resta questa bella maturità artistica raggiunta da Giovanni Lissandrello e quelle porte del sogno così addormentate nella vecchia Ibla in attesa che anche il Tempo finalmente s’inventi una sua foce.
d’una cupa ansietà, ricreava paesaggi, figure e oggetti come i fantasmi di una preesistenza, come le ombre di amici spariti. Ma oggi Giovanni Lissandrello dal visibile delle cose è passato ad un invisibile, un ineffabile della poesia ottenuto con pochi colori e rapidi accenni del disegno tentato su colori rarefatti e antichi. Non a caso sono mutati i luoghi della sua fascinazione pittorica: alle nature morte, alle figure della sua iniziale esperienza, l’artista ha sostituito le visioni di quella Ragusa raccolta intorno alle cupole e ai campanili delle sue splendide chiese, agli angoli della vecchia Ibla dove umili porte, nella disfatta degli anni, sembrano davvero custodi d’un segreto del Tempo. Dopo tutto, il segreto vero e il fascino di queste allegorie della vita è nel loro ritmo pacato e insieme mosso da inevitabili raffiche di vento, nella luce che dorme in uno spazio immateriale e misterioso, nel racconto infine di questi luoghi trasognati, ma sempre rigorosi, che sfuggono miracolosamente al gusto illustrativo del facile effetto. Ormai anche le tonalità, un tempo accese, sono divenute struggenti e profonde, come nei sogni. Forse perché noi troviamo la legge del nostro essere soltanto quando l’urgenza della giovinezza, colma del suo oscuro germinare, è ormai svanita. In gioventù eravamo ricchi e non sapevamo della nostra ricchezza. Nell’età matura siamo forse consapevoli e poveri. Eppure, quello che poi ci riesce come affermazione o formazione è sempre un ritornare ai primitivi stadi della nostra esperienza. Qualcosa di imprevedibile, un soffio d’aria, un incontro, una fuggevole impressione dei sensi risveglia una zona della nostra vita passata e riporta alla luce una parte dei nostri tesori immersi nel passato e l’energia del nostro spirito, affinata e sensibilizzata, riesce allora a trattenere in una tensione dolorosa una parte della vita già vissuta e da lungo tempo sparita. «La poesia – ha scritto Baudelaire – non è che l’infanzia ritrovata dalla volontà». La luce del mutamento ha colto le figurazioni pittoriche di Giovanni Lissandrello in uno stupore del senso che registra le illuminazioni del cuore in una
Carmelo Mezzasalma
Il realismo di Lissandrello
Nell’affrontare la pittura di Giovanni Lissandrello credo che il dato di una sensibilità poetica delicata e sognante contraddistingua la sua personalità. Lissandrello, autodidatta in pittura, ha sperimentato fin da ragazzo un confronto con l’arte che non è mai stato di pura e semplice imitazione accademica della realtà circostante, passando costantemente dal dato imitativo a quello inventivo nell’evocare un ambiente col filtro della memoria, del sentimento che ammanta le cose. È questo che si coglie fin dai suoi primi paesaggi, ancora di adolescente, con le antenne orientate verso quel realismo degli anni Cinquanta, per il quale molti avvertivano un fascino rispondente ad una condizione socio culturale di una realtà contadina meridionale ancora non toccata dal processo omologante di una società del terziario, o se si vuole consumistica, o se si vuole postmoderna. I nudi e i paesaggi elaborati negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta vanno in quella direzione con un segno grumoso
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scheggiato e talvolta tenebroso, ma nello stesso tempo di notevole plasticità. Un’attenta osservazione verso un panorama più ampio della cultura figurativa italiana farà approdare Lissandrello nell’ultimo decennio verso esiti nuovi, con uno schiarimento della tavolozza, unitamente a nuove iconografie di paesaggi, di fossili, di muri scrostati con sagome di affreschi di temi religiosi, frammenti, ruderi di una civiltà figurativa lasciata in abbandono. Il dato nuovo è quello di una maggiore libertà nei confronti del soggetto in termini materici; il disegno duro e marcato si attenua per dar maggior rilevanza alla qualità preziosa della materia, più libera e densa di luminosità; gli spazi urbani sono ripercorsi con la memoria, luoghi di nostalgia, di malinconie, scenari anche di sogni. La patina realistica che in altri tempi, in certi casi, sconfinava nel pittoresco di una immagine siciliana come felice isola di un mon do contadino, viene ad es sere soppiantata da un contatto più vero e immediato con le cose, con esiti di felicità cromatica molto delicati, contestualmente a organizzazioni strutturali delle tele di solido impianto. Nell’intero percorso un dato unitario si coglie: l’aderenza a quanto l’artista percepisce intorno, la fiducia di un rapporto sincero con le cose, un colloquio lirico svolto sempre in modo trepidante, consapevole di un’anima che c’è dentro ogni creatura.
***
Per anni ho creduto che il talento, quello perentorio e riconoscibile a prima vista, fosse l’indispensabile essenza di ogni vocazione destinata a farsi largo nel mondo. Poi, col passare del tempo (gran Riformatore delle coscienze) e il conseguente accumularsi dell’esperienza su uomini e cose questo benefico quanto ambiguo dono, di cui l’individuo può essere fornito a sua insaputa, non voglio dire che ha perso di essenzia lità ma risulta certamente ridimensionato nel suo carisma di assoluto naturale. Può assumere valenze apparentemente più modeste; coincidere o integrarsi con altre istanze o più precisamente, con altre virtù di derivazione etica quali la costanza, la tenacia, la fedeltà finalizzate al bene, all’impegno e alla bellezza: concetto, bisogna dire quanto mai inattuale nel mondo dell’arte e, tuttavia, nelle forme più diverse, meta eternamente sognata dagli artisti. Diceva Maurice Ravel a proposito del suo lavoro rispondendo ad un giornalista: «... lavoro troppo e dormo due ore per notte. Ora, la resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dell’esistenza consiste nell’incalzare la perfezione sempre un po’ più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita». È questo che penso del lavoro di Giovanni Lissandrello. Artista fra i tanti che conosco di particolare qualità, appartenente a coloro che al non perentorio talento hanno integrato una mite paziente tenacia per compiere il tragitto verso la conoscenza di sé; per tentare (nonostante gli orrori e gli oltraggi, e i divieti più o meno legittimi della postmodernità) un sentimento residuo sulla visibile bellezza delle cose; per trovare e se possibile restituirne il loro fremito segreto.
Paolo Nifosì
Piero Guccione
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Tenera e tenebrosa la notte sugli Iblei
Il Lissandrello: e i nomi, si sa, hanno una loro segreta intensità di destino. Certo, un Lissandrello non potrebbe dipingere mai, colorato e fiammante, come un Renato Guttuso. Felpati si avanza del resto nelle sue paste, un poco serali, come scoprendosi importuni, se non proprio esclusi da quella cera intemporale: e accanto, addentrandoci intimiditi nel colore, ci par d’esser sfiorati, silentemente, da un gattopardesco prevosto che va a distribuire, riluttante, una delle sue scabre, ultime estreme unzioni. O da un pastore che deve ancora faticare il suo quotidiano dovere. Perché Lissandrello è pittore antico, davvero, assorto dal contemporaneo, indifferente ai rumori di lambretta della modernità: anche se poi ha particelle, particole anzi, che potremmo grattar via da tavolozze ben più à la page della sua (come stona, giustamente, questa formula, in un contesto così catafratto, inchiavardato. Non c’è nessuna ‘moda’ nella vernice stanca di questo artista raccolto. Perché Lissandrello è inchiavardato nella sua natura di penombra: nei suoi irreperibili soli di pietra siciliana). Nulla, in lui, però e per fortuna, della scolastica anacronistica, così di moda in questi anni, nulla di ricalco dell’antico, di d’aprés, di citazionismo post-modern: il suo è proprio un istintivo, connaturato ‘far antico’, senza dilemmi o giochi di pastiche. Come se alla finestra di campagna Lissandrello, impermeabile, si fosse rifiutato di ascoltare i petardi asmatici della Storia: anzi, meglio: non se ne fosse nemmeno accorto. Un’adesione senza intermediari o mediazioni direttamente contaminandosi alla pelle della pittura classica, cinquecentesca, come per gemmazione, auscultandone le vibrazioni, accostando l’orecchio o l’occhio alla parete gonfia di salnitro. Semmai, una sacra conversazione con quelle fonti inestinguibili di pittura veneta, lagunare, innestata nella luce antonellesca del Meridione (ma c’è più ombra che solarità, nel vedutismo melanconico di Lissandrello). Un calco da guancia a guancia, di nostalgia
Lissandrello. Strani sortilegi dei nomi. Non molte ore fa, dialogando amabilmente di pittura, il venerando Balthus, evocando i suoi rapporti con Cézanne, raccontava placido: «Ero piccolo, non avevo forse nemmeno tre anni. Mio padre era un collezionista accanito, di Daumier, Delacroix, Courbet, pittori che sono stati molto importanti, per me. Ma ancor prima di vederlo, di capirlo, io sentivo sempre parlare in casa, con molto rispetto e circospezione, di un certo Cézanne. Insomma, ho incominciato ad ammirarlo e venerarlo prima ancora di imbattermi in una sua tela. Soltanto per quel nome, pronunciato con tanto rispetto, ed è da allora che ho incominciato ad amarlo». Quel puro suono fonetico: Cézanne. Il nome degli artisti: inutile disturbare Proust, per riconoscere il fascino cieco eppure riverberante di certi nomi di luoghi, certi appellativi di persone, che talvolta abbiamo sentito soltanto evocare, nella geografia piatta di una mappa o nel reticolo di un pettegolezzo. Ebbene, io credo di esser stato colpito dal flatus vocis di Lissandrello (così, senza nemmeno l’appendice scodinzolante del suo nome Giovanni) prima ancora di riconoscerne davvero i tratti. E ancora non lo conosco di persona: ho frequentato talvolta le sue tele, ma fuori da ogni contesto, isolate sul bianco spersonalizzante di stand peregrini, o sulle pareti affettuose della Galleria di Acqui Terme. (E mi è piaciuta soprattutto quella luminosità sommersa e petrosa, che non vuoi affacciarsi provocatoria sulla tua retina, che non vuole ‘adescarti’ catturando il tuo consenso: anzi, che tende a nascondersi, a dialogare basso e come perplessa, sospesa. Scontrosa quasi. Borbottando, entro la schiuma di nebbia urticata della memoria). Eppure quel suo cognome così antico dall’umile diminutivo monacale me lo rese subito familiare e fraterno: lo diresti il nome di un pittore lombardo del Seicento, lo pseudonimo penitenziale di un fraticello pittore, che ha nascosto le sue opere tra i muschi poco eroici di un eremo in disarmo.
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nuovo rispetto ai vicini di tela (come se poi oggi gli epigoni della monocromia da saponetta o del concettuale da tinello, fossero così rivoluzionari!). E com’è rilassante talvolta invece vedere qualcuno che sa rimettere tetragono sul fuoco il pentolino della pittura e che ci ristora così, con la semplicità di un mestiere senza esagerate ambizioni. Non si può vivere soltanto sulle ‘vette’ sgorbiate di Schnabel o negli igloo di Merz! (se ci si passa l’ironia). È come se non si potesse più fare umilmente l’amore, attendendo i sermoni di Bataille o cercando di emulare le facezie di Erica Jong: uno s’accontenta, come può. Ma almeno quel ‘può’ è meno grottesco e gradasso di tanti falsi sperimentalismi trionfanti dell’attuale regime dell’arte (senza emulare, per carità, il linguaggioBerlusconi). Su mia sollecitazione, per esempio, Lissandrello mi ha scritto una lettera semplice ed esemplare: «Sono un pittore autodidatta che ha sempre lavorato con paziente tenacia per cercare di conoscere se stesso. Lavoro con pochi colori, rapidi accenni di disegno e prediligo i colori rarefatti e antichi, come se custodissero i segreti del tempo e il fascino di questa allegoria della vita, in uno spazio di mistero». Tutto qui, anzi, tra ‘molto’ qui. L’umiltà può diventare un martello nicciano assai devastante, senza nemmeno ricorrere all’ironia. E non sempre uno si crede assurto a missioni grandi, a inventare il Nuovo. Gli basta saggiare via via il ‘proprio’ piccolo nuovo, modesto quanto grandioso. Perché ogni nuovo sguardo può risuonare rivoluzionariamente originale, ogni ripetizione-variazione di uno stesso squarcio di natura può trasformarsi in invenzione, in avvicinamento modulante alla verità. Come naufragare in quei luoghi spettrali, che infondono una pace ritrovata e rinnovata, sempre nuova ed eguale a se stessa, come il mare di Valéry. Sensibilmente, per introdurlo nel mondo dell’arte, il suo conterraneo Guccione cita Ravel: «Lavoro troppo e dormo due ore per notte... La resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dell’esistenza consiste nell’incalzare la perfezione sempre un po’
della pittura. Ho un amico, artista, che mi mette continuamente in guardia: fai benissimo a smontare questo sistema di finzioni museali, a protestare contro questa omologazione critica che accetta tutto quanto di misero le gallerie propongono, solo per paura di passare da reazionario, ben venga questo tuo irridu cibile donchisciottismo (lui dice, anzi, divertendosi: “estetismo dell’incorruttibile”) nel combattere questo dilagante e ormai enfisematico inganno dell’arte presunta contemporanea e che invece è soltanto scadente scolastica dell’originalità postumo-avanguardistica, emporio armani del poverismo pompier. Fai benissimo, mi ripete: poi però non devi occuparti di quei tuoi ‘pittori minori’, così terribilmente vieux jeux e caparbiamente appartati, che potrebbe sembrare tu voglia contrapporre come alternativa, come soluzione risolutoria. Forse è vero, a livello teorico e soprattutto a livello di inattaccabilità polemica ma sarebbe anche un po’ vigliacco tacere: troppo facile. L’arte si dirama anche e resiste per piccole missioni modeste, consapevolmente riduttive, artigianali (certo, questo forse è men vero per la musica e soprattutto la letteratura, dove in effetti la ripetizione di stilemi è insostenibile. Ma forse alla pittura – e spero che non sia una considerazione che un poco la degrada – bisogna lasciare invece quel margine di godimento artigianale, di pastosità del mestiere, piacere materiale e fisico del masticare i colori, di ricominciare ogni volta da capo). Così, a livello più umano, provocatorio quasi e passionale, io che non ho e non cerco formule solutorie, e che soprattutto non vorrei mai dire io trovo invece che sia giusto proprio difendere queste strenue resistenze appartate, questi gentili fortini un po’ anacronistici della passione materica, che se ne impipano di reinventare il mondo dell’arte, di proporre manifesti salvifici o di ribaltare il deja vu dell’estetica, facendo Assolutamente e Caparbiamente del Nuovo (questa sirena del pelago positivista-novecentesco). Un Manet o un Van Gogh non si sono probabilmente mai preoccupati di fare del
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più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita». Quel mistero, appunto, di cui parlava Lissandrello. Che poi si può scoprire anche in una minima, vertiginosa piccolezza: «ho incominciato a dipingere a otto anni, quando, affascinato dai colori mescolati da un mio fratello imbianchino, ne rubai un po’ e li provai come primo esperimento su un muro. Fu la scoperta di un mondo nuovo, un rapporto con il colore che è stata la mia continua ricerca e ha dato senso alla mia vita». Dare un senso alla propria vita, non un’ambizione al mondo. Lissandrello dipinge, lo dice lui stesso, “l’incanto dei luoghi”, in quelle finzioni staccate d’affresco: quell’atmosfera rappresa ed indecifrabile da Tempesta giorgionesca, quando il tempo si sta rabbuiando, ma non ha ancora consegnato al mondo la certezza della metamorfosi: quei tempi indecisi, in cui indugi sull’androne di casa incerto se portare con te una protezione qualsiasi. Perché sono ‘interni’ d’esterno, i suoi, abitati da presenze umane raccolte in icone sabbiose e sommerse, recuperate nel ventre di una memoria che si sta disfando, come l’impronta labile di un fiato sullo specchio dei moribondi. Interlocutori filosofici d’una conversazione al crepuscolo, ritagliati come decalcomanie della melanconia, entro la pasta buttirrosa e scalcitante di un declino di luce al colore di sale. A differenza di tanti pittori contemporanei (primo fra tutti il siciliano Isgrò, ma anche il siciliano d’adozione Sarnari) Lissandrello non propone le sue cancellazioni, o delle disparizioni fluttuanti di forme. Le sue, anzi, sono semmai riesumazioni, resurrezioni istantanee di immagini smarrite nel gorgo della materia. Personaggi che com-battono indolentemente per tenere un attimo la scena nella timbrica delle forme svanenti: Illuminazioni (così suggerisce un titolo) di affreschi perduti, sinopie spumeggianti in un mare di bitume. Il bianco attonito di una Annunciazione moderna, dopomacchiaiola. Il formicolare ramarro di molti Luoghi della memoria.
Il lento declinare di una Meditazione lottesca. Come se Lissandrello portasse in pastura degli algidi ritagli di Memling o di Rogier van der Weyden (appunto, il Rogelet de la Pasture) depositandoli con distratta connivenza su quelle distese brulle color di bolo, chiazzato di pietre, di pecore di selce e di talco. Ed è bello perché, se il suo ‘dirimpettaio’ di Comiso, La Cognata, ha assorbito tutto il sole dell’estate, lo stridio delle cicale, l’incandescere delle stoppie, Lissandrello racconta invece l’altra Sicilia, quella aspra, dura, bianca di penombre degli Iblei, che fa da sfondo a certe pagine di Mastro don Gesualdo, da sipario al folle rapimento di Turi Ferro, nel Tu ridi dei Taviani. Sicilia rocciosa e sterrata. Come un chiromante in attesa di millenarie mutazioni anatomiche, dice: «io amo soprattutto le linee delle montagne iblee, luoghi che mi affascinano e mi commuovono. Mi piace quel sentimento sacro che oggi è quasi smarrito». Tamponi di cespugli biancastri, ricami informali di licheni alle soglie dell’informale, cieli brevi ed avari come sfuriate matrimoniali, le linee inesplicabili dei terrazzamenti che disegnano come un’indecifrabile trama di scrittura naturale (nessun almanaccamento di parapsicologia, da linee alla Nazca, qui). Semplicemente strade che si perdono nelle montagne sorde: ad ogni richiamo. Anche i radi interni d’appartamento, dallo Studio del pittore alla Mensola in salotto, sono come intasati di luce, di materia, soffocati da questa smania di strappare le figure al bordino incalzante della notte. Poltiglia di conversazioni, di confidenze rapprese, nel silenzio meticoloso della pittura. Nel silenzio raschiato, come un soprassalto notturno. Memorie appese e messe in fila come festoni di dagherrotipi. Disinvolte spatolate alla De Stäel per fare l’antico. Questo è, a suo modo, originalità. Marco Vallora
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ancora attuale, vicino nello stile al mio modo di dipingere di oggi. A undici anni partecipai a un concorso di pittura: feci, barando, due quadri, uno per me e uno per mia cugina, che per poco non vinse il primo premio. Lo vinsi io. Lei, con l’altro mio dipinto, arrivò seconda. L’ambiente culturale di Ragusa era allora molto vivo. C’era un gruppo di pittori che insegnavano presso la scuola d’arte e che erano soliti riunirsi presso l’associazione culturale “Il Convegno”. I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Ferma, di Spadola, di Cannì.
L’apocalisse di Giovanni Lissandrello Colloquio con Andrea Guastella
La Sicilia non è solo arance e campi di grano distesi a seccarsi sotto un sole cocente; c’è, tra le sue pieghe, tra i recessi delle sue valli ombrose, tutto un mondo ctonio di fossili e pietre in cui la terra sembra celare le sue ossa, la sua sostanza numinosa e oscura. È questo il mondo di Giovanni Lissandrello, pittore apocalittico se mai ve ne fu uno, che, dal suo osservatorio di abitante della provincia ragusana, non si stanca di mostrarci reperti archeologici, affreschi in rovina e colline silenziose che esistevano da prima che noi fossimo, e che continueranno forse ad esserci ben oltre il nostro passaggio sulla terra. L’uomo e le opere dell’uomo sono infatti soggetti a un comune destino di corruzione e morte; tanto vale, perciò, filtrarne le apparenze attraverso un velo di grezzo tessuto; tanto vale ricoprirne le fattezze mediante una materia ruvida e grumosa, anticipando nella dissoluzione delle forme gli effetti del trascorrere del tempo. Tempo che, alla fine, si chiuderà come un libro sull’intero creato, vanificando ogni gesto e ogni parola. Persino le poche, centellinate, di questo mio colloquio con l’artista.
Hai imparato qualcosa da costoro? Ero molto interessato alle loro opere e non mi perdevo una mostra. Ma le mie esperienze più importanti le ho fatte viaggiando. Rimasi a bocca aperta quando, all’età di sedici anni, potei recarmi ad ammirare la Cappella Sistina. Eri solito copiare i capolavori dei maestri? No. Dipingevo dal vero. Andavo in campagna in autobus con Francesco Baglieri, un impiegato di banca che era anche un pittore ma che, pur potendolo fare, poiché era molto bravo, non vendeva mai i suoi quadri. Tu invece li vendevi? Li regalavo! È stato Ferma a indurmi a conservali per me o a cederli a collezionisti. La mia prima personale si è svolta a Ragusa nel 1985, ma solo nel 1994, in occasione di una mostra a Modica presso Palazzo De Leva, ho esposto una scelta di queste prove “iniziali”. Un’altra personale che ricordo volentieri fu quella allestita nel 1988 presso la Gallery Expo Toyota di New York.
Quando e come hai iniziato a dipingere? Sono un pittore autodidatta, che cerca di conoscere se stesso. Ho iniziato all’età di otto anni quando, affascinato dai colori mescolati da mio fratello imbianchino, ne rubai un poco e li provai come primo esperimento su un muro. Fu la scoperta di un mondo nuovo, un rapporto con il colore che è stata la mia continua ricerca e ha dato un senso alla mia vita. Da allora in poi non ho mai smesso di lavorare; mi recavo nell’orto di questa casa dove tuttora risiedo, e ricoprivo di segni una nicchia. Quando quello spazio non mi bastò più, presi a esercitarmi su fogli e cartoncini, che acquistavo da Casabella, un negozio a pochi isolati da qui. Risale a quegli anni un piccolo quadro, che conservo, cui mi sento particolarmente legato: rappresenta, guarda caso, un muro. Ti sembrerà strano, ma è
Hai esposto anche insieme al Gruppo di Scicli. Prima di conoscere il Gruppo di Scicli, anzi prima che esso si formasse, ho conosciuto Piero Guccione. Appena ventenne sono andato a cercarlo a Roma all’Accademia di Belle Arti insieme a Salvatore Chessari, per sottoporgli i miei disegni e i miei dipinti. Avevo bisogno di un consiglio, di un orientamento.
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Un approccio molto fisico, il tuo. Sì, ma il risultato a cui miro è di natura spirituale.
Piero fu, come al solito, di una gentilezza squisita. Ebbe per me parole di conforto e mi esortò a continuare sulla strada che avevo intrapreso. Franco Sarnari, invece, lo conobbi dopo una mia mostra allo Studio Nuova Figurazione, una galleria di Ragusa. Fu lui stesso a chiedere di me, facendomi pervenire un biglietto in cui mi scriveva di essersi mostrato scettico, avendo visto solo delle immagini, riguardo la qualità dei miei lavori, ma di essersi ricreduto subito osservandoli dal vivo. Venne poi a casa da me e ci scambiammo un quadro.
Alcuni tuoi dipinti ricordano Sironi. Hai ragione. D’altra parte Sironi, con Morandi e Van Gogh, è uno dei miei artisti preferiti. Condividi, con Sironi, certe atmosfere plumbee. Soprattutto i tuoi primi lavori erano bui. Io e mio fratello abbiamo trascorso un’infanzia difficile. Mia madre stava sempre male, e ci lasciò che aveva trentotto anni. Era inevitabile che tale sofferenza gettasse un’ombra sulla mia pittura. Di tanto in tanto, però, si accendeva un bagliore. Quando infine ho scoperto la fede, è cambiata la mia vita, e con essa anche la mia arte, che è diventata più luminosa, meno oscura.
Un altro tuo sostenitore era Salvatore Fiume. Anche lui visitò il mio studio. Si trovava a Ragusa per una sua mostra e, la sera stessa dell’inaugurazione, Bertini, un pittore ragusano suo amico cui piacevano le mie cose, lo invitò a visionarle. Fiume le apprezzò così tanto che mi propose di seguirlo a Como. Non accettai il suo invito – mi ero sposato e mi ero da poco impiegato alle Poste – ma ne fui lo stesso lusingato.
È quello il periodo in cui hai iniziato a dipingere i fossili. L’idea mi venne da un viaggio a Trento. Salito in montagna, fui colpito dal fossile di un pesce, che mi fece pensare alla Bibbia, al racconto del diluvio universale.
Col passare degli anni i ruoli si sono invertiti. Sei stato tu, se non sbaglio, a scoprire Giovanni Iudice. Teneva una mostra al dopolavoro delle Poste e io rimasi colpito dalla sua sapienza nel disegno. Fatta la sua conoscenza, gli diedi qualche piccolo consiglio e lo presentai a Cassiano Scribano, gallerista e conoscitore d’arte ragusano. Il resto è storia recente. Con Giovanni siamo rimasti buoni amici. Ha l’abitudine, tra l’altro, di inviarmi foto di paesaggi che mi servano da spunto per qualche mio quadro.
E i tuoi finti affreschi, a quale altra avventura rimandano? Se fai un giro per l’isolato, vedrai che è pieno di edicole votive. Alcune le ho dipinte io stesso in giovinezza. È chiaro, però, che i miei finti affreschi non parlano, con ardore giovanile, di fede e devozione. Parlano del trascorrere del tempo che rovina ogni cosa. Un tema sempre attuale. Difatti continui ad affrontarlo nella tua produzione recente. Sì. Sto riscoprendo soggetti che praticavo in passato. Penso che tornerò a dipingere anche i fossili.
Quale tecnica prediligi? Dipingo spesso su tavole di legno di pioppo, dopo averle opportunamente preparate con un’imprimitura a base di stucco di mia invenzione. Stendo quindi il colore, lo faccio asciugare e intervengo col diluente, col pennello, con la spatola, gli stracci, a volte con le dita della mano.
(a cura di Andrea Guastella)
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Bio-bibliografia
Giovanni Lissandrello è nato a Ragusa il 26 giugno del 1942. La sua prima partecipazione a una mostra collettiva risale al 1964. Continua a esporre negli anni seguenti in collettive a Catania, Augusta. Dopo un lungo periodo di studio (1973-1980) riprende la sua partecipazione a mostre collettive. Del 1985 è la sua prima personale, a Ragusa. Nel 1987 partecipa alla mostra collettiva “Arte negli Iblei”, presso il Centro Studi Polivalente di Ispica, ed è segnalato nella IV Edizione della rassegna “Ibla Mediterraneo” a Modica. Nel 1988 partecipa a una mostra collettiva presso la Camera di Commercio di Ragusa. Ancora nel 1988 una sua mostra personale viene allestita presso la “Gallery Expo Toyota” di New York. Nel 1990 espone presso lo “Studio Nuova Figurazione” di Ragusa, con una personale. Nello stesso anno partecipa alla collettiva “Omaggio a Leonardo Sciascia” presso la Galleria “L'Androne” di Scicli e presso lo “Studio Nuova Figurazione” di Ragusa. Nel 1991 partecipa alla XXXV Edizione del “Premio Campigna” a Santa Sofia di Romagna presso la Galleria d'Arte Contemporanea “Vero Stoppioni”. Nel febbraio del 1994 tiene una mostra personale alla Galleria “Grimaldi” di Modica, Palazzo De Leva. Nel marzo del 1997 è presente con un gruppo di opere alla MIART di Milano negli stand della Galleria “Bottega d'Arte” di Acqui Terme. Sempre nel 1997 una sua opera è pubblicata nell'Annuario dell'Arte Moderna Contemporanea della De Agostini (1997-1998). Nel dicembre del 1997 una sua mostra personale si svolge presso lo “Studio Nuova Figurazione” di Ragusa. Nel gennaio del 1998 espone con la Galleria “Bottega d'Arte” di Repetto e Massucco all'Arte Fiera di Bologna. Nel febbraio del 1998 è presente con la Galleria “Charta” di Bergamo alla manifestazione “Reggio in Arte”, Reggio Emilia; nel mese di maggio dello stesso anno espone negli stand di Repetto e Massucco alla MIART; nel mese di settembre è tra i selezionati del “Premio Donato Frisia”, Lecco; nel mese di ottobre è in mostra con la personale “Opere Recenti” presso la Galleria “Bottega d'Arte” di Acqui Terme. Nel 1999 una sua personale si tiene negli spazi del Centro Culturale “Brancati” di Scicli, un'altra presso la Galleria “Cefaly” di Catania. Nel 2000 è ospite della Galleria “Charta” di Bergamo, con una personale. Sempre nel 2000, la “Galleria degli Archi” di Comiso lo invita alla mostra “Piero Guccione – Jour de fête”, in occasione del sessantacinquesimo compleanno di Piero Guccione. Nel 2001 è presente alla collettiva “Artisti Iblei per Vittoria” e nel 2003 è a Palazzo Spadaro di Scicli per la collettiva “Le Primavere di Franco Sarnari”, omaggio ai settant'anni dell'artista. Nel 2004, presso la Galleria d'Arte Moderna “Le Ciminiere” di Catania, espone insieme al Gruppo di Scicli nella mostra “Sicilia”. Tra il 2004 e il 2010 partecipa a svariate collettive a tema organizzate dal Centro Culturale “Brancati” di Scicli. Nel 2011 espone a Ragusa presso gli spazi dell'Associazione Culturale “Tratti d'Autore”, in una collettiva. Attualmente Giovanni Lissandrello vive e lavora a Ragusa. Della sua pittura si sono occupati: Carmelo Mezzasalma, Manlio Giannici, Giovanni Occhipinti, Filippo Garofalo, Angelo Campo, Oscar Spadola, Alfredo Campo, Carmelo Arezzo, Paolo Nifosì, Paolo Repetto, Piero Guccione, Marco Vallora, Andrea Guastella.
finito di stampare nel mese di maggio 2011