ZERO STORIA. Le origini del rap in Italia

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INDICE

CAPITOLO 1 STORIA DELL’HIP HOP IN AMERICA Dalla nascita dell’Hip Hop alla Old School Hip Hop

P.5

Breve storia del Bronx da quartiere benestante a inferno metropolitano

P.7

Il Bronx quando nasce l’Hip Hop

P.9

L’ Hip Hop rispecchia le emozioni della storia americana

P.12

Negli anni ’60 l’America è in festa

P.13

John Fitzgerlad Kennedy e gli anni sessanta come nuova frontiera

P.14

Martin Luther King fa sognare gli Stati Uniti

P.16

La Golden Age Hip Hop: l’Hip Hop cambia toni

P.18

La Guerra del Vietnam: gli americani iniziano a vedersi in modo diverso

P.21

Le Black Panters: i neri devono difendersi dai bianchi!

P.25

Il modello delle Pantere Nere: Malcolm X

P.28

Ronald Reagan: un presidente che appare distante dal ghetto

P.32

CAPITOLO 2 STORIA DELL’HIP HOP ITALIANO L’ inizio

P. 35

Il nostro Bronx

P. 39

Gli Anni ’90. Anni d’oro

P. 41

Il muro di Berlino. Un punto nella storia

P. 42

Il mondo diviso. La geografia si frantuma

P.43

I Balcani. Le prime vittime

P.44

Si scrive guerra del Golfo, si legge guerra del petrolio

P.46

L’Hip Hop e le Posse: un’affascinante avventura

P.47 2


1992. La mafia dice benvenuti in Italia, l’Italia respinge l’invito

P.48

1993. La mafia e gli ultimi ruggiti in Italia

P.50

Le posse combattono il potere?

P.55

1994. L’anno che ha cambiato l’Italia

P.55

Cronache dall’estero

P.56

C’è rissa nelle posse. L’ Hip Hop si vende?

P.63

1995. Te la ricordi la pubblicità del pinguino?

P.68

Il meglio dell’Italia: nascita di Libera ed Emergency

P.69

La fine e l’inizio. Sangue Misto

P.72

La tregua. Omaggi, tributi e riconoscimenti

P.75

1996. Tutto cambia

P.76

1996-2000. Il rap verso la fine del millennio

P.77

1997. La strage degli albanesi

P.78

1998. La bellezza muore

P.79

1999. Alle porte del nuovo millennio

P.80

2000. Ci sono mafiosi e mafiosi

P.83

2001. Il G8 e le torri gemelle

P.85

2002. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro precario

P.87

2003. La falsa guerra in Iraq

P.91

2004. Arriva Facebook!

P.91

2005. Forse resterà per l’eternità su Youtube.

P.93

2006. La calciopoli di Luciano Moggi e la Gomorra di Saviano.

P.94

2007. L’ Italia balla decadence: la cocaina, la ndrangheta, la Tyssen

P.105

2008 Non si può morire di scuola

P.108

2009. Aquila chiama Italia

P.109

2010 Il rap del disagio

P. 117

2015. Il rap a Novara. Incontro con Stan Smith

P. 134

Bibliografia

P.142

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INTRODUZIONE

Che cosa succede quando Rap e Storia si incontrano? L’ Istituto professionale Filos Formazione insieme alla NKGVNG ce lo racconta in un libro. Un gioco letterario diventato sogno e scrittura collettiva. E’ proprio così. Abbiamo cominciato a fare hip hop nei corridoi e nei bagni della scuola. Crediamo che l'Hip Hop sia la sola lingua in grado di unire talenti, storie, persone e culture diverse a Novara. Noi mettiamo subito le cose in chiaro. Questo non è un libro. Non è neanche l’enciclopedia del rap. Lo spirito è, nel suo piccolo, di aiutarti a capire la storia del rap e la storia d’Italia dagli anni ’80 a oggi. Farlo raccontando storie, fatti e nomi, certo, perché non esiste una Storia degna del suo nome senza mettere in campo alcuni di quelli che sono stati i personaggi e gli eventi che hanno cambiato il nostro paese. Lo faremo con un sottofondo musicale. Quello del Hip Hop e del rap. Il primo è una cultura, il secondo è uno dei mezzi attraverso cui questa cultura si esprime. L’hip hop sarà la lente d’ingrandimento con cui osserveremo la Storia. Lo faremo con quelli che hanno aiutato a diffondere un genere musicale che per l’Italia era alieno. Si va dagli anni d’oro dell’ old school americana fino al rap del disagio in Italia. C’è tanta gente in mezzo alle faccende dell’hip hop in Italia, tanti ruoli diversi che sono stati occupati negli anni da scoprire. Inoltre, questo libro, nasce profondamente ingiusto. Si perché i fatti raccontati sono fatti parziali. La storia è una cosa complessa e ricostruirla è sempre difficile. Allora fai che questo libro continui a raccontarsi. In fondo, troverai della pagine bianche che dovrai riempire tu. “La Storia siamo noi” cantava De Gregori. Siamo noi a farla, ogni giorno.

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STORIA DELL’HIP HOP IN AMERICA Dalla nascita dell'Hip Hop alla “Old School Hip Hop”*

Siamo negli Stati Uniti, nella città di New York, nel quartiere del Bronx. Nel 1967, in una delle case popolari, arriva dalla Giamaica un ragazzino di 12 anni, di nome Clive Campbell. E’ un immigrato, che parla l’inglese imparato in Giamaica. E’ diverso dagli americani “veri e propri” con cui inizia ad andare a scuola. In più ha un’altra caratteristica: è molto grosso, robusto. Subito i compagni di scuola gli danno un soprannome: “Hercules”, poi abbreviato in “Herc”.

Nel giro di qualche settimana, Herc si accorge che non è solo. Il quartiere del Bronx è pieno di persone come lui: immigrati, appena arrivati dall’estero o da altri stati americani. Tutti sono accomunati dal non sentirsi veramente a casa, dal dover prendere confidenza con una città nuova, che non sempre è accogliente con loro. Anzi: che non li vuole, che gli lascia gli spazi più brutti e poveri, quelli che gli “americani veri e propri” hanno abbandonato. Che cosa fanno all’inizio Herc e i suoi amici? Sono arrabbiati, si sentono traditi dal paese in cui sono costretti a vivere. Pensano di doversi vendicare con quella città. Così si mettono a scrivere sui muri. In questo gruppo di amici il nome di “Herc” viene storpiato ancora, e diventa “Kool Herc”. Il nome della banda (crew) con cui inizia a girare per il quartiere è abbastanza esemplare: “Ex Vandali”. Un nome che fa subito capire la condizione di Kool Herc e dei suoi amici. Per adesso questi ragazzi sono solo dei vandali, delle persone che “si sfogano”, 5


senza di fatto combinare nulla di nuovo, che non hanno niente da dire. Sono privi di identità e privi di un progetto, e si annoiano. Non hanno una “loro cultura”. Di cultura ne esiste ancora una sola: quella degli “americani veri e propri”, che abitano nei quartieri benestanti. Una sola cultura, di cui Kool Herc e i suoi amici non fanno parte. Perciò la cultura non li riguarda: non parla di loro, racconta uno stile di vita in cui non si riconoscono, distante dalla loro esperienza e dai loro problemi personali Ma un giorno a Kool Herc viene un'idea nuova. E' fondamentale, perché da qui in poi nasce l'Hip hop. La storia è più o meno questa. Un pomeriggio il padre di Kool Herc gli fa un regalo: il disco, singolo, contenente la canzone Sex Machine di James Brown. E' un album vecchio, che era uscito anni prima, e in più il disco contiene una canzone sola, ma per Kool Herc e i suoi amici è una festa. Succede che tutti i pomeriggi, dopo la scuola, gli amici di Kool Herc vanno a casa sua per ascoltare quel brano. Siccome sul disco di canzone ce n'è – appunto – una sola, Kool Herc è costretto a continuare a far ritornare il disco d'accapo, per tutto il pomeriggio, mentre i suoi amici ballano. Allora Kool Herc ha un'intuizione: al posto di far girare il disco d'accapo per mille volte, inizia con le mani a fermare il disco mentre va, facendo durare di più i momenti della canzone che è più divertente ballare. Kool Herc fa durare di più i momenti del brano in cui si sentono i bassi e le percussioni. Inoltre quel movimento di mano sul disco crea un suono stridente, ma nuovo, che fa divertire i ragazzi, diventando a sua volta “ritmo”. E' una rivoluzione! L'idea fa impazzire i suoi amici, la voce inizia a spargersi per il Bronx e nei giorni successivi molti più ragazzi si presentano a casa di Kool Herc chiedendo di poter ascoltare Sex Machine con il “break” e ballarci sopra. E molti di loro vogliono contribuire alla musica: portano i dischi che hanno a casa e uno porta addirittura un altro vecchio giradischi. Kool Herc ora può fare il break su due dischi contemporaneamente e questo rende ancora più divertenti i pomeriggi a casa sua, e la gente inizia a presentarsi anche nei sabati sera, sempre più numerosa. A questo punto Kool Herc ha una seconda grande idea. Siccome si sente il “padrone di casa”, pensa di dover intrattenere i suoi ospiti, crede di doverli far star bene mentre ballano nella sua sala. Così inizia a parlare, fare battute, presentare i pezzi che fa sentire: con le mani mette i dischi, mentre con la voce parla alla sala, e cerca di farlo a ritmo. E lo fa con il suo linguaggio “sporco”, che mescola l'inglese degli americani al giamaicano, oltre allo slang giovanile che ha imparato coi suoi amici. In poche parole: nascono l'Mc's, e lo spunto del rap. L'effetto è quello di una bomba! Ora Kool Herc e i suoi amici hanno una loro musica, un loro linguaggio, in generale hanno una loro cultura: l'Hip hop. Ora non si limitano a guardare “da fuori” la cultura degli “americani veri e propri”, 6


provando rabbia e frustrazione, ora hanno propria cultura, con la quale esprimersi, divertirsi, raccontare le proprie storie, dire la propria opinione sul mondo. Si crea una spaccatura: da un lato le radio americane, che fanno sentire la musica tradizionale, dall'altro lo spazio protetto della casa di Kool Herc, in cui i ragazzi del Bronx sentono la propria musica e si sentono a casa propria.

Breve storia del Bronx: da quartiere benestante a inferno metropolitano

Il quartiere del Bronx, nel momento in cui Kool Herc vive la storia appena raccontata, è un inferno. Ma non è sempre stato così, anzi.

Il Bronx negli anni Trenta Solo una trentina di anni prima, il Bronx rappresentava uno dei quartieri migliori di New York. L'americano modello (quello da cui venivano scelti i presidenti, i politici, gli attori, i grandi uomini-simbolo dell'America...) era definito “WASP”, ovvero White, Anglosaxon, Protestant: Bianco, Anglosassone, Protestante. Era sulla base di queste tre caratteristiche che gli americani 7


benestanti si distinguevano dagli immigrati o dagli americani “impuri”. Era facile distinguere un americano bianco da un africano, ma come si poteva distinguere un americano tradizionale da un italo-americano? O da un irlandese-americano? O da un polacco-americano? Per questo accanto alla W (bianco), si aggiungono due caratteristiche che devono avere gli americani ritenuti “puri”: la religione protestante (gli italiani e gli irlandesi, per esempio, non sono protestanti, ma cattolici) e l'origine anglosassone, cioè inglese. Far parte di questa classe, i WASP, significava far parte degli americani che contavano: quelli che avevano il potere, il prestigio, la tradizione e, soprattutto, la possibilità di fare carriera e conquistarsi un posto al sole nella società americana.

Oggi può sembrare strano, ma negli anni Trenta questi WASP, cioè questi americani “puri”, ricchi e lanciati verso la carriera politica, sognavano di vivere nel Bronx. Il Bronx era già abitato, in alcune parti, da immigrati italiani e irlandesi che cercavano una vita tranquilla, simile a quella degli americani benestanti. Mentre in altre sue vie più ricche, il Bronx era uno status symbol per gli americani di prestigio. Queste zone del quartiere del Bronx erano quelle più ricche, attraenti, simbolo degli americani importanti. Chi non poteva permettersi un appartamento in queste vie del Bronx, si accontentava di andare a passeggiarci la domenica. Era un rito della New York benestante: la domenica bisognava indossare i vestiti migliori e andare a fare una passeggiata nel Bronx, camminando a fianco alla “gente che conta”, sognando di poterci abitare, in un futuro. 8


Queste vie del Bronx erano il simbolo dell'America ritenuta “pura”: quella più vicina alle tradizioni e quella più lanciata verso il prestigio e il potere. Ne è una dimostrazione lo Yankees Stadium. L'americano WASP aveva un ulteriore segno di identità: il baseball. L'americano “puro” lasciava gli altri sport (per esempio il calcio) agli immigrati e ai poveri, mentre pensava che il vero sport dei veri americani fosse il baseball. E dentro al baseball, la squadra ritenuta più forte, quella che faceva sognare tutta l'America, era quella dei New York Yankees. Guarda caso: dove è stato costruito lo stadio dei New York Yankees? Proprio nel Bronx. Tutto questo per dire che il Bronx era un quartiere simbolo dell'America che dava possibilità a tutti (italiani, irlandesi, polacchi...) in alcune vie, mentre addirittura una sorta di torre d'avorio in altre. Un olimpo a cui potevano accedere solo degli eletti. Un posto che tutti gli altri guardavano da lontano, con un po' di malinconia e invidia. Tutti sognavano di finire lì, ma sapevano che era un privilegio di pochi.

Il Bronx quando nasce l'Hip Hop Come è possibile che nel giro di neanche trent'anni il Bronx sia cambiato così tanto? Oggi la parola “bronx” è simbolo di “giungla”, di “inferno metropolitano”, di “luogo brutto”. Non solo in America. Anche in Italia capita di sentir dire: “quel quartiere è pericoloso come il Bronx”, oppure: “quel ragazzo è cresciuto in un ambientaccio, è cresciuto in un Bronx”. Tutto ciò è ancora più evidente nel cinema. Basta infatti pensare a quanti film americani usino lo sfondo del Bronx per raccontare storie di delinquenza, droga, sparatorie, odio e risse tra etnie di immigrati. Cosa ha fatto sì che il quartiere del Bronx cambiasse così tanto in così poco tempo?

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Tutto dipende dalla costruzione di una strada: la Bronx Expressway, alla fine degli anni Cinquanta. La Bronx Expressway era un'autostrada, che fu costruita come un “ponte” che passava sui tetti del Bronx, per collegare la periferia della città al centro. Per costruirla furono distrutti dei parchi e delle case. Ci furono scontri e tensioni. Quando poi la costruzione giunse al termine tutti guardarono la nuova immagine del quartiere: era brutto. C'era questo ponte che passava sulla testa delle persone, fatto di cemento armato, che buttava ombra sulle case, in mezzo al rumore delle macchine e dei camion che sfrecciavano sopra. Di colpo le case persero di valore. Chi aveva comprato una casa al doppio del prezzo dieci anni prima, si trovava adesso ad avere in mano una casa priva di valore. La gente benestante iniziò a fuggire verso quartieri migliori. Per poter recuperare i soldi delle case, prima di scappare, gli abitanti del Bronx le incendiarono, così da strappare qualcosa alle assicurazioni. Questo modifica radicalmente il paesaggio. Il Bronx, dalla fine degli anni Cinquanta, è un quartiere fantasma. Al colpo d'occhio si vedono muri diroccati e impregnati di fumo nero. Carcasse di macchine incendiate. Macerie accantonate. Alcuni giornalisti europei, giunti lì per vedere coi propri occhi la situazione, dissero che se li avessero bendati e portati lì avrebbero giurato di essere in una città vittima di un bombardamento aereo della II Guerra Mondiale, non a New York, nel pieno boom economico. 10


I New York Yankees rimangono il simbolo sportivo dell'America, ma diventano sempre più una squadra che gioca in mezzo all'inferno. Un fatto simbolico è quello del 1977 (quindi dieci anni dopo la storia di Kool Herc): tutti gli Stati Uniti sono collegati alla TV per guardare una partita, quando sentono il telecronista balbettare imbarazzato, smettere di seguire la partita e infine dare il collegamento a un giornalista fuori dallo stadio, che mostra immagini disastrose e pronuncia questa frase: “signore e signori, il Bronx sta bruciando!” Da questo punto in poi le case iniziano a costare pochissimo, molto meno che in qualunque altro quartiere di New York. Nessuno vuole più vivere lì. E' così che il Bronx diventa la meta di chi è disperato e si accontenta di un posto con un tetto. Dall'inizio degli anni Sessanta, un sacco di portoricani e giamaicani scappano dai loro paesi e giungono in America. Non hanno soldi, né un lavoro e non gli resta che trasferirsi in quel quartiere che non vuole nessuno (tra questi c'è Kool Herc con la sua famiglia). Chi può, compra le case semiincendiate coi pochi soldi che ha, chi non può occupa, attirando polizia e generando scontri. Nel giro di pochi mesi si sparge la voce: in tutta l'America, chiunque abbia perso il lavoro, sia immigrato, senza soldi e non sappia dove andare, raggiunge il Bronx per cercarsi una casa. A metà degli anni Sessanta il Bronx è un ammasso di macerie che puzzano di fumo, stracolmo di persone giunte dappertutto e ammassate nei palazzi disastrati. Molti di loro non parlano neanche l'inglese e cercano di vivere secondo lo stile che fino a pochi mesi prima seguivano nei loro paesi d'origine. Altri invece sono nati in America e trovano insopportabile condividere il pianerottolo con qualcuno così “diverso” da loro. La tensione è alta, la convivenza difficilissima. L'ambiente, così brutto, non aiuta. Siamo agli inizi della storia del “secondo” Bronx, quello che poi negli anni Settanta diventerà famoso nei film e nella cultura come inferno metropolitano.

L'Hip hop rispecchia le emozioni della storia americana 11


Ciò che sorprende è il tono allegro e pieno di festa della musica di Kool Herc. Infatti, l'immagine dell'Hip Hop come musica dai toni cupi e arrabbiati è successiva. Nel momento in cui nasce, l'Hip Hop è una musica che serve per fare festa. Una musica ottimista, coraggiosa e piena di speranza. Sia Kool Herc, sia alcuni autori a lui contemporanei (per esempio Afrika Bambataa) tengono a rivendicare la loro anima scherzosa, divertente e il fatto che l'Hip Hop sia nato per consentire agli afroamericani di New York di esprimere la propria allegria e la propria voglia di far festa. Notiamo così due “toni” presenti nell'Hip Hop: quello appena descritto (scherzoso, ottimista, allegro e persino festaiolo) e quello più conosciuto da noi oggi (arrabbiato, aggressivo,che fa uso di parolacce e volgarità per raccontare storie di delinquenza, malessere, abbandono...). Per comprendere queste due anime dell'Hip Hop, bisogna inserirle nella storia americana: fatta di alti e bassi, di momenti di ottimismo e di momenti di depressione, di anni in cui sembra sia possibile migliorare il mondo e anni in cui il mondo sembra cattivo e immodificabile. L'Hip hop non è sospeso, non è fuori dalla storia. L'Hip Hop nasce per strada, in mezzo al mondo e alle sue emozioni, dunque riflette i toni che il mondo ha, nei diversi momenti storici, esprimendo a volte allegria, a volte rabbia.

Negli anni Sessanta l'America è in festa

L'Hip Hop nasce come musica degli immigrati e dei poveri che abitano nel Bronx. Se il primo Hip Hop è così allegro, bisogna immaginare che i poveri e gli immigrati degli anni Sessanta fossero, almeno un po', allegri. Com'è possibile che qualcuno sia allegro e ottimista quando si porta addosso il dolore di aver lasciato la propria terra per vivere in un mondo razzista, che non offre altro posto che un quartiere abbandonato e pieno di macerie e fumo? Da dove nasce la speranza di Kool Herc? Bisogna a questo punto comprendere l'America dei primi anni Sessanta. E' un paese in subbuglio culturale e politico, in cui sembra che sia possibile conquistare di colpo un mondo nuovo e migliore. I passi avanti sono sotto gli occhi di tutti e la speranza e l'eccitazione sono il tono che tutti avvertono. Facciamo qualche esempio. Gli afroamericani erano sì vittime di razzismo, ma sentivano che c'erano molti segnali di cambiamento. Li vedevano: 12


conquistavano quotidianamente diritti e importanza sociale. Alla fine degli anni Cinquanta Rosa Parks aveva concluso con una vittoria lo sciopero dei bus. Nel 1963 si era svolta la Marcia su Washington contro il razzismo e tutta l'America si era commossa nell'ascoltare il discorso di Martin Luther King “I have a dream...” Insomma, gli afroamericani erano ancora esclusi dalla società, ma ogni giorno questa esclusione si riduceva e li vedeva attivi nelle manifestazioni, nelle piazze, sui giornali... Inoltre, nel 1960, gli americani votarono Kennedy come presidente: un uomo che rappresentava la voglia di cambiamento. Kennedy, prima di tutto, non era WASP: era bianco, sì, ma non protestante e non inglese. Era cattolico e irlandese: praticamente un immigrato. E non appena ebbe il governo, dichiarò di voler collaborare con Martin Luther King: per gli afroamericani fu come vedersi aprire le porte della politica americana, per la prima volta da sempre. Lo stesso clima di ottimismo riguarda i poveri e i ceti meno abbienti. I senzatetto, i disoccupati, gli emarginati. Appena viene eletto, Kennedy dice al Congresso degli Stati Uniti che lo Stato Americano ha il dovere di aiutare i poveri, facendoli diventare cittadini con gli stessi diritti e le stesse libertà dei ricchi. Per fare un esempio, Kennedy creò ospedali e scuole nei quartieri disagiati.

Questo ci fa comprendere il tono allegro e coraggioso del primo Hip Hop. In poche parole: le persone come Kool Herc sono povere ed emarginate, ma credono che qualcosa stia cambiando e dunque si sentono di festeggiare il cambiamento vicino. Questo è il clima tipico degli anni Sessanta, frutto della politica americana in quegli anni. 13


Per comprenderlo meglio, si può ora approfondire la storia dei due personaggi già anticipati: John Fitzgerald Kennedy e Martin Luther King.

Jonhn Fitzgerald Kennedy e gli anni Sessanta come “nuova frontiera” Kennedy fu eletto Presidente degli Stati Uniti nel 1961. Le sue parole furono da subito molto forti e cercarono di far passare il messaggio di un grande cambiamento della società americana. Il concetto che cercò di radicare nella mente di tutti era quello di una “nuova frontiera”. Cercò cioè di spiegare agli americani che nulla del vecchio mondo andava dato per scontato: gli anni Sessanta, diceva, rappresentavano un nuovo inizio, pieno di sfide e occasioni. In questo nuovo inizio tutti potevamo immaginare il mondo da zero, costruendolo come meglio credevano. Parlò di una vera e propria guerra, che gli americani onesti dovevano combattere contro la povertà, la violenza e le malattie. Il suo slogan ricorrente era: “non chiedetevi che cosa l'America può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per l'America”. Queste parole spinsero molte persone alla partecipazione, a prendere parte attiva alla società: in quegli anni le strade e le piazze erano piene di manifestazioni e di proteste, di slogan, di idee e di canzoni per migliorare il mondo. Con il suo progetto chiamato “Nuova Frontiera”, Kennedy fece leggi che aumentavano i salari minimi, facendo crescere il benessere dei lavoratori più disagiati. Inoltre fu sua l'idea di creare scuole per aiutare i disoccupati a trovare lavoro. Come funzionano queste scuole? Kennedy nota che molte fabbriche chiudono perché la loro tecnologia è vecchia, mentre ne aprono di nuove con tecnologia più moderna. Crea così della scuole a cui possono iscriversi solo i lavoratori licenziati dalle fabbriche vecchie, per imparare la tecnologia nuova ed essere subito riassunti nelle fabbriche nuove. E' uno dei primi presidenti a promuovere dei progetti di “formazione professionale”. Si occupò anche dei diritti delle donne. Per esempio, prima degli anni Sessanta, le donne americane guadagnavano quasi la metà degli uomini. E' una legge di Kennedy che costringe i datori di lavoro a creare stipendi uguali.

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Quello che è importante capire è che la presenza di Kennedy al governo, cambiava l'immagine che gli immigrati e i poveri avevano dello stato. Lo stato smetteva di essere un loro nemico e diventava un loro alleato. Lo stato non era più rappresentato dalla polizia che picchiava i manifestanti o gli immigrati, lo stato era diventato quello che cercava di comprendere i problemi degli afroamericani e dei poveri, per risolverli, per andargli incontro. Lo stesso vale per la legge: da quando la Corte Suprema aveva dichiarato illegale la segregazione razziale, gli afroamericani avevano iniziato a pensare che la legge, pur avendo tanti difetti, in linea di principio era una protezione e un aiuto, non una gabbia. Kennedy favorì l'immagine della legge come uno strumento che può essere tolto dalle mani dei potenti per essere restituito ai cittadini e usato per la difesa dei diritti. La sua alleanza con Martin Luther King è l'apice di tutto questo percorso. Gli afroamericani prima percepivano lo stato come separato da loro. Lo stato era lo strumento in mano ai bianchi, anglosassoni e protestanti e loro, i neri, ne erano esclusi. Grazie all'alleanza tra il Presidente Kennedy e Martin Luther King, sentono che anche loro stanno partecipando allo stato. Sentono che lo stato è tanto dei bianchi quanto dei neri, che lo stato è di tutti. Il clima di speranza e allegria dipende anche da questa sensazione: i problemi sono ancora tanti, ma ora anche i poveri e i neri hanno voce in capitolo, hanno un posto a sedere nello stato. Un evento sconvolgente, che per qualche mese porta tutti a credere che le speranze siano finite, è quello del 22 novembre 1963, a Dallas. Kennedy è sull'auto presidenziale, quando si sente uno sparo. Tutti vedono la macchina 15


del Presidente accelerare, ma è troppo tardi: Kennedy si accascia e tutti lo vedono morire in diretta, ucciso da un colpo di fucile. * La storia del rap americano è stato scritto da Elia Rossi

Martin Luther King fa sognare gli Stati Uniti Martin Luther King era nato nel 1929 in Georgia, uno stato in cui il razzismo era particolarmente forte. I neri dovevano usare persino fontanelle diverse da quelle bianchi. King aveva vissuto sulla sua pelle tutta l'aggressività della separazione razziale americana. La sua vita, però, conosce un punto di svolta quando legge l'opera di Gandhi. Gandhi aveva infatti liberato una nazione intera, l'India, dall'occupazione razzista degli inglesi. Era riuscito a far riconquistare agli indiani la fiducia in sé e l'idea di essere uguali agli inglesi, con la stessa dignità e la stessa forza. King rimase impressionato da questi ideali: si immedesimò negli indiani degli anni Trenta e capì che lui avrebbe dovuto compiere la stessa grande liberazione per il suo popolo, quello dei neri americani. Da Gandhi ricavò anche la grande idea della non-violenza. Infatti, cosa diceva Gandhi? Secondo Gandhi ciò che rende grandi gli uomini in guerra non è tanto il fatto che uccidano il nemico, quanto che per andare a ucciderlo (rischiando a loro volta di essere uccisi) stiano mostrando coraggio. Per Gandhi il coraggio era la chiave di tutto: chi è coraggioso conquista il rispetto dell'avversario, la sua stima. Dimostra di essere un grande uomo che va trattato con dignità. Così Gandhi concluse che per vincere le guerre non serviva uccidere, sarebbe bastato essere coraggiosi. La tecnica di Gandhi era quella della “disobbedienza civile”: Gandhi violava una legge, ma poi non scappava. Rimaneva lì ad aspettare la polizia: Si faceva picchiare, arrestare, incarcerare senza mai reagire, ma non appena usciva dal carcere violava di nuovo la legge, alla luce del sole, senza mai scappare. Una volta disse a dei poliziotti che lo minacciarono di morte: “potete rompere le mia ossa e torturare le mie carni: otterrete il mio cadavere. Ma rassegnatevi: non otterrete mai la mia obbedienza!” Per Gandhi era questo tipo di coraggio che faceva conquistare la libertà, portando a un certo punto il nemico ad ammettere di aver davanti una persona più coraggiosa e giusta di lui e a vedere, di riflesso, la propria ferocia e il proprio errore.

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Quando Martin Luther King lesse queste parole e scoprì sui libri di storia che con questo metodo Gandhi ha liberato una nazione intera senza ferire neanche un uomo, rimase sconvolto. Era il 1954 e pochi mesi dopo scoprì che, senza saperlo, una signora afroamericana si era comportata proprio come Gandhi, su un bus in una città americana. La donna, che si chiamava Rosa Parks, si era seduta in un posto riservato ai cittadini bianchi, nonostante fosse contro la legge. Qualcuno aveva chiamato la polizia e lei era rimasta lì apposta: per aspettare di guardare in faccia il poliziotto, senza alzarsi. Martin Luther King capì che quello era l'inizio di qualcosa di nuovo. Gli afroamericani erano pronti a conquistare i loro diritti, attraverso la nonviolenza. Pochi giorni dopo, in un comizio, disse queste parole: "siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione. Se protesterete con coraggio, ma anche con dignità, nel futuro gli storici dovranno dire: laggiù viveva un grande popolo, un popolo nero, che iniettò nuovo significato e dignità nelle vene della civiltà." A partire da questa idea, unì tutti i neri intorno a un progetto: boicottare i bus di tutta la nazione americana. Lo sciopero durò 382 giorni. Nessun afroamericano mise piede su un pullman per più di un anno. Nel frattempo i giornalisti di tutto il mondo venivano attirati a documentarsi, la descrizione della vita di un nero in America faceva il giro del mondo. Alla fine anche molti americani bianchi espressero la loro solidarietà, unendosi allo sciopero. La polizia e il governo erano sempre più imbarazzati: non sapevano come gestire una situazione così difficile e siccome non c'erano violenze, non potevano liquidarla con degli arresti. Il 13 novembre del 1956 la Corte Costituzionale dichiarò illegale la segregazione sugli autobus, sancendo la vittoria dello sciopero non-violento di King e di tutti gli afroamericani. Martin Luther King fu il primo a unire tutti i neri in un'unica grande protesta sparsa per tutta l'America. L'evento più famoso è quello della Marcia su Washington, in cui King unì quasi 300 mila persone e insieme marciarono sulla città di Washington reclamando i propri diritti. La novità fu che queste persone solo all'inizio erano esclusivamente afroamericane: durante la marcia molti 17


bianchi si unirono a King e agli altri. Fu un messaggio di grande speranza, che si collegava alle politiche di Kennedy: lo stato non è né dei neri, né dei bianchi, lo stato è di tutti e tutti partecipano alla vita politica. Tutti si devono sentire a casa propria. E' alla fine di questa marcia che King ha pronunciato il discorso che è passato alla storia: “I have a dream!” Qualche passaggio: “cento anni dopo, il nero ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del nero è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il nero ancora vive su un'isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il nero langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra”; “io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell'arroganza dell'ingiustizia, colmo dell'arroganza dell'oppressione, si trasformerà in un'oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!. Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E' questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l'America vuole essere una grande nazione possa questo accadere”. 18


Nel 1964 King ricevette il Premio Nobel per la Pace. Era l'uomo più giovane ad averlo mai vinto. Nel suo discorso disse che quel premio era solo ritirato da lui, ma era stato vinto da tutti gli americani – bianchi e neri – che insieme a lui avevano lottato uniti per i diritti civili. Purtroppo anche la storia di King ha un finale violento, simile a quello del Presidente Kennedy. Il 4 aprile 1968, Martin Luther King era a Memphis, in un hotel assieme ad altri attivisti. Stavano organizzando una manifestazione per il giorno dopo. King uscì sul balcone per prendere una boccata d'aria, quando gli altri attivisti sentirono uno sparo. Si precipitarono sul balcone e lo videro a terra, con un foro di proiettile in testa. Cercarono di tamponare la ferita, aiutati da un poliziotto accorso sul posto, ma poche ore dopo i medici furono costretti a constatare la morte per lesione cerebrale. Nei giorni successivi molte comunità di colore, nei ghetti di alcune città, iniziarono saccheggi e lanci di sassi contro la polizia. Era il segno che qualcosa si era rotto: gli anni Sessanta volgevano alla fine, quasi tutti i leader nonviolenti e progressisti erano stati uccisi, mentre giungevano immagini di sempre maggior ferocia dello stato americano in Vietnam. L'ottimismo e la speranza iniziavano a lasciar spazio alla rabbia e alla frustrazione, che progressivamente emergeranno negli anni Settanta, per poi esplodere negli Ottanta.

La “Golden Age Hip Hop”: l'Hip Hop cambia toni

Abbiamo visto come il primo Hip Hop (riassumibile nell'idea di una “Old School”) rispecchi i toni della società americana degli anni Sessanta e dei primi Settanta. Una società non priva di problemi, però ottimista. Chi abitava nei ghetti delle grandi città americane viveva sulla propria pelle il razzismo, l'emarginazione, la miseria economica, ma allo stesso tempo vedeva dei propri rappresentanti all'interno della politica e credeva che i propri problemi potessero essere affrontati tramite le istituzioni. Il Presidente Kennedy e Martin Luther King sono il segnale di questa speranza. Per alcuni anni dopo la loro morte, rimane vivo lo slancio che li aveva creati: tutti pensano che Kennedy sia stato ucciso, ma che presto ne arriverà un altro che porterà avanti la stessa battaglia. Lo stesso, si dice, varrà per Martin Luther King. Quello che è importante è mantenersi tutti uniti, all'interno del grande contenitore rappresentato dalla società americana e dalle leggi. Lo stato, avevano insegnato Kennedy e King, è di tutti, neri e bianchi, poveri e ricchi. 19


Lentamente, però, nel corso degli anni Settanta questa speranza inizia a vacillare. Diversi avvenimenti storici la mettono in crisi. Un ruolo-chiave spetta alla Guerra del Vietnam, che nella prima metà degli anni Settanta porta i giornalisti a rovesciare sui cittadini americani immagini di violenza compiuta da soldati americani dall'altra parte del mondo. I cittadini americani iniziano così a provare sospetto verso i loro politici che hanno progettato e consentito quella guerra così assurda e piena di morte. Inoltre cambia l'immagine dei politici stessi: dai primi anni Settanta si fa strada la figura di Nixon, che poi diventerà Presidente e che tutti associano a posizioni razziste e poco aperte ai problemi dei ghetti. Vero o no che fosse, non importa: importa che la gente lo abbia percepito così e che, di conseguenza, gli afroamericani abbiano pensato che il Presidente degli Stati Uniti fosse loro “nemico”. Il passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta sarà poi segnato dalla figura di Ronald Reagan: un ritorno alla figura del WASP, bianco e benestante, che taglierà 25 miliardi di dollari alle spese per l'assistenza sociale dei cittadini poveri (riducendo così scuole, ospedali, assegni familiari...) e aumentando così il senso di abbandono dei ghetti. Tutti questi fattori hanno generato il movimento opposto a quello creato da Kennedy e King: l'immagine della società americana non come “unità” di bianchi e neri, ricchi e poveri, in lotta per gli stessi diritti e lo stesso benessere; ma come luogo di conflitto e guerra di tutti contro tutti. Gli afroamericani iniziano a pensare di doversi creare uno stato proprio, con una propria storia e delle proprie leggi, per difendersi dal potere ingiusto dei bianchi. E' così che nascono le Black Panthers e che ritorna il modello di Malcolm X. Inoltre si pensa allo stato come a un nemico, controllato da bianchi ricchi che in nome dei propri affari organizzano guerre inutili e usano la polizia per contenere le proteste dei cittadini. Si pensi ad alcuni pezzi dell'Hip Hop nell'epoca della “Golden Age”: esprimono questa visione. Questa disillusione, questa rabbia, questo senso di ingiustizia. La seconda metà degli anni Ottanta è quella in cui i rapper hanno maturato del tutto questa idea e la esprimono ormai senza particolare enfasi. I titoli delle loro canzoni sono spesso amari e rassegnati (si pensi a “I buoni muoiono giovani”, di Tupac, in cui peraltro si sente proprio dire: “potete usare i soldi delle mie tasse per mandarmi in guerra, ma non potete nutrirmi?”), oppure feroci (si pensi a “Combatti il potere!” dei Public Enemy, ovvero “nemici pubblici”). Ci sono gruppi che hanno cambiato tono nella loro stessa carriera musicale, come i RUN-DMC. In una delle loro prime canzoni (It's tricky!) il videoclip li raffigura che si spostano come dei super eroi, che salvano le persone dai ghetti insegnando loro a ballare. E' un video pieno di ironia. Gli stessi toni allegri con cui duettano insieme agli Aerosmith poco dopo, unendo il rap dei neri con il rock dei bianchi. Pochi anni dopo però un loro nuovo video clip li raffigura in 20


un'immagine simile all'Hip Hop arrabbiato che conosciamo noi: che sbraitano verso la macchina da presa, mostrando i denti e i muscoli allenati in palestra. Il titolo della canzone è “Wattcha gonna do?” e nel ritornello dice: “non lasciare che un punk scappi dopo aver commesso un omicidio! Le pistole hanno sparato, non avete sentito?” Vediamo ora nel dettaglio le vicende degli anni Settanta e Ottanta che hanno portato a questo cambiamento di mentalità.

La guerra del Vietnam: gli americani iniziano a vedersi in modo diverso

La guerra del Vietnam iniziò nel 1960 e terminò nel 1975. Furono quindici anni lunghissimi, caratterizzati da un enorme dolore che lentamente si insinuò nella società americana: circa 60 mila cittadini americani non tornarono più a casa, generando madri, padri, mogli e figli sempre più arrabbiati con il Governo che li aveva costretti a vivere questa sofferenza. La società americana visse una tensione molto forte, che mise in discussione il rapporto tra cittadini e stato. Anzitutto fece scandalo la ragione del suo inizio. Il Vietnam era diviso in Nord e Sud. Il Vietnam del Sud si sentiva vicino agli americani e con loro faceva accordi commerciali e politici. Al contrario, il Vietnam del Nord si sentiva antiamericano e faceva di tutto per rimanere fuori dalla politica degli Stati Uniti. Ma a partire dagli anni Sessanta questa divisione iniziò a venire meno: si crearono unioni tra Nord e Sud e gli americani iniziarono a temere che anche il Sud si dichiarasse anti-americano. E' così che, senza dichiarare guerra, aumentarono la presenza di soldati americani nel territorio, per controllare il Vietnam del Sud. Ma questo non fece altro che far crescere il conflitto: i vietnamiti del Nord (chiamati “vietcong”) si addestrarono per affrontare quei soldati americani, iniziarono a chiamarli “invasori” e organizzarono azioni di guerriglia per spingerli a lasciare libero il Paese. Nel 1960 ci fu una vera e propria dichiarazione di guerra: nel Vietnam del Sud accorsero soldati giunti dal Vietnam del Nord e soldati giunti dagli Stati Uniti, per scontrarsi nella giungla e nelle città. Chi avesse vinto la guerra, avrebbe ottenuto il controllo del Vietnam del Sud.

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Ma bastò questo a modificare l'immagine che i cittadini americani avevano dei loro politici. La domanda era: chi siamo noi per decidere di controllare un paese dalla parte opposta del mondo? Se crediamo nella libertà di ogni popolo, perché non lasciamo che sia il Vietnam del Sud a decidere, liberamente, con chi stare? I cittadini americani iniziarono a pensare che la parola “libertà” sempre presente nei discorsi dei loro politici, fosse in realtà una bugia, che non corrispondeva al vero pensiero del governo americano. Iniziarono a modificare l'immagine che avevano di se stessi. Da anni si vedevano come il popolo che aveva liberato il mondo da Hitler, ora iniziavano a temere di essere un popolo che cerca di modificare le vicende degli altri paesi per non perdere il controllo del mondo intero. Per la società americana, rivedersi sotto questo punto di vista fu un vero shock. E questo fu solo il primo dei problemi. Il secondo fu la durata della guerra. L'esercito americano era infatti quello tecnologicamente più avanzato. Avevano armi potenti e strumenti di orientamento all'avanguardia. Al contrario i vietcong combattevano con scarpe ricavate dai copertoni delle biciclette, annodate intorno ai piedi con lo spago, e usavano armi vecchie comprate dai russi. Gli americani pensavano perciò che la guerra sarebbe durata pochi mesi: le forze erano troppo sproporzionate. Ma non avevano calcolato un aspetto, ovvero la giungla. La giungla era un ambiente ostile, indecifrabile e del tutto nuovo per gli americani. Molti di loro venivano calati dagli elicotteri e morivano pochi minuti dopo aver toccato il suolo, senza neanche aver capito dove fossero e verso che direzione sparare. Ci sono storie di soldati impazziti, morti da soli, senza neanche aver sparato un colpo. O storie di soldati uccisi dagli animali feroci. 22


In questa situazione, al contrario, i vietcong erano fortissimi. D'altronde loro conoscevano il territorio, erano abituati all'umidità, a prevedere gli animali, a orientarsi nella giungla. Erano abilissimi a scavare tunnel. Spesso passavano sotto agli accampamenti americani, infilati in cunicoli di terra in cui un americano (più robusto di un vietcong) riusciva a malapena a infilare le spalle. L'ambiente della giungla traumatizza gli americani. L'alcool e la droga si diffondono tra i soldati, i quali senza essere ubriachi o drogati non trovano il coraggio per uscire dalle tende. Molti reduci, anche dopo anni che sono rientrati dalla guerra, si sveglieranno nel cuore della notte, angosciati al pensiero di animali, trappole e imboscate dagli alberi. Ma soprattutto non riusciranno mai a disintossicarsi fino in fondo dalla tossicodipendenza e dall'alcolismo, morendo “a causa della guerra”, nonostante la guerra sia finita da un pezzo. Questo trauma attraversò le distanze e, tramite le lettere dei soldati alle famiglie, giunse negli Stati Uniti. I genitori dei soldati, o le loro mogli, iniziarono a vivere col pensiero dei loro figli o mariti abbandonati in quell'inferno. Ci furono padri che arrivarono a consigliare ai figli più piccoli di mutilarsi apposta, per essere risparmiati dalla guerra e salvarsi dal destino dei loro fratelli più grandi. Altri iniziarono ad andare nelle piazze, incendiando le bandiere americane in forma di protesta, o stracciando le cartoline che li invitavano a presentarsi in caserma per l'addestramento. La reazione del Governo fu dura: chi incendiava la bandiera venne arrestato, insieme a chi stracciava la cartolina, ci furono casi in cui la polizia ricevette ordine di assaltare i manifestanti, malmenando padri che chiedevano che i loro figli venissero lasciati in pace dall'esercito. Per la seconda volta, cambiò l'immagine che i cittadini americani avevano dei loro governanti. Videro la loro faccia autoritaria, pronta a usare la forza per costringere dei ragazzi ad andare in guerra. Parole come “libertà” o “diritti”, che negli anni di Martin Luther King sembravano sicure negli Stati Uniti, iniziarono a perdere di significato. Lo stato fu percepito come un nemico, un potere che calpestava la libertà delle persone.

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Il trauma più grosso, però, è rappresentato dalle foto che a partire dai primi anni Settanta iniziarono a circolare negli Stati Uniti. Gli americano scoprirono l'esistenza del Napalm: una bomba micidiale buttata dal loro esercito sui villaggi vietnamiti. Questa bomba è a base di acido e il suo effetto è quello di incendiare la pelle delle persone. Ci furono cantanti rock che, pur di farlo sapere al mondo intero, misero filmati del Vietnam bombardato col Napalm nei loro video clip. Gli americani furono costretti a vivere nell'angoscia: accendere la televisione, ascoltare una canzone, significava correre il rischio di vedere immagini raccapriccianti, che ricordavano a tutti cosa stava succedendo in Vietnam. La foto passata alla storia è quella di una bambina che corre nuda, dopo che una bomba al napalm le ha strappato i vestiti, lacerato la pelle costringendola a scappare, unica superstite, dal suo villaggio bombardato. Quando la guerra del Vietnam finì, nel 1975, gli Stati Uniti erano stremati. Psicologicamente e politicamente. Era stato un trauma fortissimo, che aveva messo in discussione la fiducia nella politica, nel governo e nelle parole d'ordine (libertà e diritti) sui cui si reggeva la società americana. Gli americani ora erano feriti nella coscienza, non riuscivano più a guardare se stessi con gli occhi con cui si guardavano quindici anni prima.

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Le Black Panthers: “i neri devono difendersi dai bianchi!” Alla fine della guerra del Vietnam, gli afroamericani tirarono le somme: dei 60mila uomini uccisi in quei quindici anni, una buona parte era di colore. I primi ad essere mandati in guerra erano stati gli abitanti dei ghetti. Ed era nei ghetti che ora si riversavano maggiormente i postumi della guerra: la tossicodipendenza e l'alcolismo. Inoltre, nel corso della guerra, le energie si erano concentrate sul quel problema, rallentando la lotta per i diritti civili che sembrava così forte all'epoca di Martin Luther King. Cosa significava tutto questo? Gli afroamericani sentirono di colpo di essere stati usati dall'America. Pensarono che non fosse più vero che lo stato americano fosse di tutti, anche loro, ma che lo stato americano, piuttosto, li avesse chiamati solo quando aveva in programma di usarli, come nel caso della guerra del Vietnam. Si sentirono cittadini di serie B, forme moderne dei vecchi schiavi: persone relegate nei ghetti, che però contribuiscono alla ricchezza di chi comanda. Il punto importante è questo: molti smisero di sentirsi americani e iniziarono a pensare a se stessi come a degli stranieri presenti in America. Si sentivano simili ai vietcong. Decisero di ispirarsi ai nemici dell'America e di porsi come un esercito straniero, interno ai confini americani. E' così che nascono le black panthers. Gli elementi per capire le black panthers sono due: 1) l'idea di “militanza”; 2) l'idea di “esercito straniero” rispetto agli Stati Uniti. Due elementi che si colgono molto bene in un video clip che ha fatto la storia della Golden Age Hip Hop: “Fight the Power”, dei Public Enemy. In questo video infatti si nota subito che l'ambiente è molto circoscritto: la piazza di un ghetto. Non è una novità, visto che l'Hip Hop di Kool Herc era nato con i bloc party, ovvero le feste nel ghetto del Bronx. Ma se nei bloc party si notavano tante persone entrare e uscire dalle vie e dalla festa, ora si vedono i perimetri del quartiere circondati da afroamericani in divisa, che arrivano marciando a ritmo e si schierano in modo ferreo, a recintare lo spazio della festa, barricandolo. Nei bloc party di Kool Herc si vedeva il ghetto in festa, disordinato e pieno di gente che ballava a proprio modo (e infatti è così che nacque lo stile libero della break dance). In questo video, invece, la coreografia cerca di esprimere le idee di ordine, di organizzazione ferrea e di protezione dello spazio dal “fuori”. Le black panthers, nella simbologia, sono come un esercito che difende i neri del ghetto dai bianchi che arrivano da fuori. Il secondo elemento è dato dall'estetica delle divise. Non si ispirano alle divise dei soldati americani, ma indossano un cappello che si chiama “basco” e alcuni di loro hanno capelli lunghi e barba. Questo stile era molto simile a quello dei nemici degli Stati Uniti: per esempio i cubani, ma anche gli stessi vietcong. 25


Questo perché le black panthers dovevano esprimere la più radicale contrapposizione agli Stati Uniti, dovevano ispirarsi ai nemici stessi degli Stati Uniti. Qual era il più grande nemico degli Stati Uniti in quegli anni? Il comunismo (rappresentato dalla Russia, poi da Cuba e dal Vietnam). Così le pantere nere decisero di ispirarsi agli eserciti comunisti, come quello di Cuba e quello del Vietnam del Nord. Nel corso degli anni Settanta crebbero sempre di più, mettendo lentamente a fuoco i loro obiettivi. Erano nate nel 1966, come diverso modo di compiere la lotta per i diritti rispetto a Martin Luther King. King proponeva la non-violenza, loro invece affermavano il principio dell'auto-difesa: secondo i fondatori del movimento, la comunità afroamericana subiva la violenza sociale e psicologica di essere relegata nei ghetti, data in pasto alla droga e alla povertà, e aveva perciò tutto il diritto di usare le armi per difendersi dalla società americana che la condannava a questa vita. Il solo fatto di essere un nero nato negli Stati Uniti, dicevano, è già aver subito violenza, dunque qualunque atto di violenza commesso dai neri contro i bianchi è solo una risposta, una forma di difesa. In secondo luogo, King parlava di integrazione: affermava che bianchi e neri fossero uguali e dovessero avere gli stessi diritti. Per le pantere nere, invece, i neri non dovevano lottare per l'uguaglianza coi bianchi, ma al contrario per differenziarsi del tutto da loro. Dicevano che diventare uguali significava accettare lo stile di vita dei bianchi, dunque subire i loro valori e il loro modello. Al contrario, i neri avrebbero dovuto ispirarsi al loro passato in Africa, prima di essere rapiti e portati in America come schiavi. Per questo molti di loro, prima di entrare nelle pantere nere, si convertirono all'Islam. Era un modo per ritornare alla religione originale dei neri: il cristianesimo l'avevano imparato dagli schiavisti, dai WASP. Le pantere nere più radicali arrivarono addirittura a cancellare il proprio nome anagrafico, in inglese, e a ridarsene un altro di origine araba. Si pensi al famoso pugile, Cassius Clay. Un giorno pensò che quel cognome inglese probabilmente era stato dato a suo nonno dallo schiavista bianco che lo aveva liberato. Pensò che non voleva portare su di sé un nome ricevuto da uno schiavista. Pensò che voleva cancellare del tutto le tracce dei padroni che la sua famiglia aveva avuto nel passato, per “rinascere” come uomo radicalmente libero. Per questo si chiamò Mohammad Alì, nome con il quale è poi diventato famoso. In poche parole, le pantere nere facevano l'opposto di quello che faceva Martin Luther King. King cercava di combattere i razzisti dicendo che i bianchi e i neri erano uguali. Le pantere nere cercavano invece di sottolineare le differenze tra bianchi e neri, per restituire orgoglio ai neri. Ai tempi di Kennedy e Martin Luter King, le idee delle pantere nere rimasero minoritarie. Gli afroamericani erano ottimisti, credevano che il governo 26


americano li potesse aiutare e che bianchi e neri potessero collaborare. Ma la guerra del Vietnam cambiò questa immagine. L'ottimismo finì, i ghetti si trovarono devastati dalla droga e dall'alcool. Il governo di Nixon e, anni dopo, quello di Reagan apparivano sempre più distanti dai bisogni degli afroamericani. In questo clima, le idee della pantere nere ripresero piede. Si radicarono nella popolazione afroamericana, sempre più arrabbiata e sfiduciata. Gli afroamericani, poi, contarono i propri morti nella guerra del Vietnam e pensarono che erano troppi. Il governo dei bianchi, dicevano, ha mandato i nostri fratelli a morire. Dunque il governo dei bianchi ci ha ucciso. Il governo dei bianchi, pensarono infine, è in guerra con noi e noi abbiamo diritto a essere in guerra con il governo dei bianchi. Dalla metà degli anni Settanta, dunque, iniziarono a sentirsi come un esercito nemico, giunto da fuori e penetrato nel territorio americano per conquistare un proprio territorio da dichiarare autonomo, in cui fondare un proprio stato, composto da soli afroamericani, governato da soli afroamericani e con leggi per soli afroamericani. E' un passaggio importante: gli afroamericani delle pantere nere volevano un proprio stato, dentro al territorio americano. Si sentivano dei militari rivoluzionari che prima o poi avrebbero fatto una guerra contro l'esercito americano. Siamo molto distanti dal clima di Martin Luther King, di Rosa Parks e della Marcia su Washington. Basta ascoltare alcune parole della canzone “Fight the Power”, dei Public Enemy, per capire questa nuova mentalità.

“Combatti il Potere! Combatti il Potere! Noi siamo uguali? No, non siamo uguali! Elvis Presley è stato un eroe per gli americani, ma non per me. Per me è stato un razzista e un imbecille. Io mando a fanculo lui e John Wayne, perché sono nero e ne sono orgoglioso. La maggior parte degli eroi della mia gente non appare su nessun francobollo. Noi guardiamo la storia di questo paese è vediamo solo dei razzisti, per 400 anni.”

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Quello che stanno dicendo i Public Enemy è che per le pantere nere la storia dei bianchi coincide con la storia delle ingiustizie subite dai neri. Non è una storia di eguaglianza, non può essere “condivisa” come sognava Martin Luther King. Stare nella stessa storia dei bianchi significa subire il loro potere. Compito delle pantere nere era cioè far uscire gli afroamericani dalla storia americana, per ricominciarne una propria, sulla base di propri modelli, di propri valori e di propri sogni.

Il modello delle pantere nere: Malcolm X

In un certo senso, Malcolm X elabora tutte le idee che poi saranno delle pantere nere, anche se, da un punto di vista storico, è vissuto qualche anno prima. Malcolm X era un coetaneo di Martin Luther King e condivideva la stessa battaglia contro il razzismo, anche se con ideali opposti. Ma finché era in vita Martin Luther King, la figura di Malcolm X appariva poco vicina alla sensibilità delle persone. Saranno le vicende legate alla guerra del Vietnam e a ai suoi postumi a far rinascere le parole di Malcolm X e a radicarle nel movimento delle pantere nere.

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Nacque con un altro nome: Malcolm Little. Fin dalla sua infanzia provò sulla propria pelle tutta la durezza del razzismo americano. Sua madre era per metà bianca, perché nata da uno stupro subito dalla nonna di Malcolm da parte del proprio padrone. Il padre di Malcolm morì giovanissimo, ufficialmente investito da un tram, ma, secondo Malcolm e altri testimoni, ucciso da alcuni attivisti dell'associazione “Supremazia Bianca”. Malcolm sbandò per molti anni, in preda alla rabbia e all'incertezza e finì per essere un ladruncolo e uno spacciatore. L'esperienza che gli cambiò la vita fu il carcere. Qui Malcolm iniziò a leggere e a documentarsi. Elaborò così il proprio pensiero. Quando uscì dal carcere compì quello che poi diventerà il percorso tipico delle pantere nere. Anzitutto rinnegò il proprio cognome, “Little”, che era stato deciso a tavolino dagli schiavisti bianchi anni prima. Pensò che idealmente avrebbe dovuto recuperare il cognome originale della sua famiglia prima di lasciare l'Africa, ma siccome era impossibile, decise di darsi un cognome provocatorio: X. Ovvero: sconosciuto, assente. Era un modo per ricordarsi ogni giorno della ferita presente sul suo passato, interrotto dalla schiavitù. Successivamente si convertì all'Islam e iniziò a predicare nei ghetti, invitando gli afroamericani a prendere coscienza della propria storia. Diceva loro che per ottenere dignità dovevano smettere di copiare i bianchi, anzi dovevano ritornare se stessi nel modo più radicale possibile: ritornando africani. In quegli stessi anni, un altro afroamericano stava lottando per i diritti dei neri. Si chiamava Martin Luther King e Malcolm X lo attaccò duramente. Disse che King stava insegnando ai neri a diventare dei buoni imitatori di bianchi. Sostituì il nome “marcia su Washington” in “farsa su Washington” e la descrisse così: “una manifestazione fatta da bianchi, davanti alla statua di un presidente bianco a cui non piacevano i neri”. Mentre King pronunciava il discorso “I have a dream”, Malcom X affermava invece:

“Fratelli e sorelle, sono qui per dirvi che accuso l'uomo bianco. Accuso l'uomo bianco di essere il più grande assassino della Terra. Accuso l'uomo bianco di essere il più grande rapinatore della Terra. Dovunque l'uomo bianco è andato, ha portato guerra e conflitti. Ovunque è andato ha portato rovina e distruzione. Per questo lo accuso. Lo accuso di aver perpetrato i più efferati crimini su questa Terra. Lo accuso di essere il più ignobile carnefice della Terra. Lo accuso di essere il più 29


violento schiavista della Terra. Accuso l'uomo bianco di essere il peggiore ubriacone della Terra. Lui non può negare le accuse. Noi neri siamo la prova vivente di queste accuse. Noi non siamo parte dell'America: noi siamo le vittime dell'America. Noi non abbiamo scelto di lasciare l'Africa per venire qui. Lui non ci ha chiesto di aiutarlo a costruire l'America. Lui ci ha detto: “sporchi negri, salite su quella nave. Io vi incatenerò e vi costringerò a costruire l'America”. L'essere nati qui non fa di noi degli americani. Noi non siamo americani. Noi non siamo cittadini di questa democrazia. Noi siamo vittime di questa democrazia. La democrazia non è arrivata nei nostri ghetti. Noi non viviamo nessun sogno americano, noi viviamo quotidianamente l'incubo americano.”

Malcolm X fu spesso accusato di avere una posizione ambigua nei confronti della violenza. Lui l'ha sempre respinta e non l'ha mai usata, ma non ha mai condannato i neri che la usavano. Uno di loro, infine, lo uccise. Malcolm X è l'unico leader di questi anni ucciso non da un razzista, ma da uno stesso 30


afroamericano. Infatti negli ultimi anni aveva ammorbidito le proprie posizioni, arrivando ad ammettere che si sentiva vicino a Martin Luther King. Disse che ad averlo illuminato era stato un viaggio alla Mecca. In un'intervista svoltasi al suo rientro dal pellegrinaggio affermò: “da quando sono stato alla Mecca ho scoperto di avere amici anche tra gli uomini diversi da me. Non mi sento più vicino solo ai neri, ma anche ai gialli e ai bianchi”. Alcuni suoi seguaci si sentirono traditi da questa affermazione e lo uccisero. Era il 1965, dieci anni dopo, alla fine della guerra del Vietnam, le pantere nere decisero di ritornare al suo modello. Poco importa se le sue ultime parole furono parole di non-violenza: le pantere nere le cancellarono dalla storia e si ispirarono solo al “primo” Malcolm X, quello più vicino alla loro rabbia.

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Ronald Reagan: un presidente che appare distante dal ghetto

Il tono cupo e aggressivo che lentamente si impone nell'Hip Hop deriva dal più generale tono cupo dei ghetti americani. Abbiamo visto come la guerra del Vietnam abbia cambiato la mentalità, favorendo questa disillusione e questa rabbia. Il clima dei ghetti americani è sempre più appesantito dalla poca fiducia nel futuro, dai problemi della droga e della violenza che nel corso degli anni Settanta si fanno sempre più pesanti. Questo percorso raggiunge il suo apice negli anni Ottanta. Da questo momento in poi, la festa di Kool Herc e Afrika Bambataa lascia definitivamente spazio alla disillusione dei Public Enemy e di Tupac.

Gli anni Ottanta americani sono segnati dalla figura del Presidente Ronald Reagan. La sua politica contribuì a dare a chi abitava nei ghetti l'immagine di una politica distante, che non percepiva il ghetto (e soprattutto la povertà) come un problema di cui doversi occupare. Il suo ideale era quello del “neoliberismo”, un'idea secondo la quale lo Stato deve ridurre al minimo le spese sociali. Esempi di spese sociali sono le scuole, gli ospedali, i trasporti 32


come il treno o i bus, gli assistenti sociali, gli assegni di disoccupazione... Secondo i neoliberisti questi servizi devono essere gestiti non dallo stato, ma dai privati, da aziende che liberamente stabiliscono i prezzi del servizio. E' una visione che ha dei pregi e dei difetti. Il principale pregio è che siccome lo Stato non deve gestire le spese degli ospedali o delle scuole, o delle ferrovie e dei bus, può ridurre in modo molto forte le tasse. In effetti è dimostrato che sotto la presidenza Reagan le tasse diminuirono del 25% e gli americani “medi” aumentarono il loro potere d'acquisto: a fine mese gli restavano i soldi che prima versavano in tasse e, con questi soldi avanzati, potevano uscire a cena, andare in vacanza, comprare un'automobile. Il principale difetto è che le aziende private non hanno come obiettivo l'interesse collettivo, ma quello personale. Quindi gli ospedali e le scuole iniziano ad avere dei costi che non tutti possono permettersi. Si indebolisce quello che si chiama “stato sociale”, ovvero l'insieme delle strutture con cui lo stato offre i diritti (alla salute, all'istruzione, agli spostamenti...) anche a chi non possiede denaro. Per esempio Reagan fece allo stato sociale un taglio di 25 miliardi di dollari. Si creò una radicale differenza qualitativa tra scuole pubbliche e scuole private, ma anche tra ospedali pubblici e ospedali privati che aumentò il senso di esclusione di chi abitava nei ghetti. E' in questo clima che si diffusero l'eroina e l'Aids. Nel frattempo lo stesso Reagan aumentò i soldi a disposizione dell'esercito e delle armi. Per tutti gli anni Ottanta e parte dei Novanta, gli americani meno ricchi si sentirono abbandonati e l'Hip Hop raccontò la rabbia di questa situazione. Si pensi ancora una volta a Tupac, nella canzone “I buoni muoiono giovani”:

“Stiamo ignorando l'Aids, finché un giorno non capiterà anche a noi”; “mi sento abbandonato: potete prendere le mie tasse per mandarmi in guerra, ma non potete nutrirmi?”

O ancora più chiaramente alla canzone “It's like that”, dei RUN-DMC: “disoccupazione a livelli record, gente che nasce per morire. Non chiedermi perché, ma è così che stanno le cose.”

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“I conti da pagare aumentano. Serve denaro per tutto. E noi riceviamo una busta paga sempre più bassa.” “Si combattono guerre da un posto all'altro, che fine ha fatto il sogno dell'armonia?”

Anche se nei RUN-DMC è ancora presente l'anima del vecchio Hip Hop, quella combattiva e ottimista. Infatti la canzone si chiude così: “Saresti potuto andare a scuola, avresti potuto imparare un mestiere, invece sei rimasto nel letto dei fannulloni. Ora non fai che lamentarti, è vero? Una cosa che so è che la vita è breve, quindi pensaci fratello: la prossima volta che qualcuno insegna, perché non impari? ”

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STORIA DELL’HIP HOP IN ITALIA L’INIZIO. Bene. Ora avete un po’ di elementi base. Giusto quelle due tre cose fondamentali. Si perché non si capisce il rap se non ne comprendiamo le origini. Ci si diverte e si gode a metà. Ma già con queste, potrete godervi appieno le parole che seguiranno. Abbiamo girato l’Italia cercando di rispondere a queste domande: Quali sono le origini del rap? Quali sono stati i suoi artisti più importanti? Come si è evoluto l’hip hop in Italia? Nelle prossime pagine parleremo proprio di questo. Seguiranno alcune interviste che abbiamo fatto ai protagonisti della scena dagli anni novanta al duemila. Insieme a loro percorreremo la storia di questa cultura che non è solo rap. Cominciamo subito allora. Maurizio Cannavò, classe 1969, in arte the Next One. Maurizio è uno dei pionieri della cultura hip hop in Italia. Non solo: uno dei più grandi breakd….ops, b-boy al mondo. Non in Italia: al mondo. La sua è una visione parziale, come quella di chiunque. Le sue parole non sono vangelo. Ma pochi altri in Italia, probabilmente nessuno, ha avuto più contatti di Next con la scintilla originaria, con l’hip hop degli Stati Uniti d’America, con il carisma dei pionieri; quindi le sue parole valgono a prescindere. E aiutano chi di voi ha finora solo sfiorato il rap e l’hip hop, più o meno distrattamente.

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Vorrei partire proprio dall’inizio: come diavolo ti sei messo in testa di avvicinarti alla cultura hip hop, una cosa all’epoca – parliamo degli anni ottanta –assolutamente aliena in Italia? “Di recente ho trovato delle foto insieme a mio padre – lui è morto poco tempo fa - volevo raccogliere ricordi, conservare la memoria. In una di queste c’era lui che mi teneva in braccio, e io che impugnavo dei 45 giri…45 giri io? Com’è stata storia? Quando i miei genitori si sono trasferiti dalla Sicilia a Torino, io in qualche modo ho dimenticato tutto quello che era stata la mia vita pretorinese. Invece è saltato fuori che quando avevo ancora 3 anni, ancora non torinese quindi, i miei genitori mi avevano regalato un mangiadischi. E pare che io conoscessi a memoria tutti i miei 45 giri. Vedi? Evidentemente c’era già qualcosa dentro di me! Però bisogna dire che già di base io ero un ragazzino estremamente vivace, sempre pronto a misurarsi fisicamente, facevo arti marziali, a scuola con certi compagni di classe ci misuravamo nelle “12 fatiche di ercole”, praticamente quello che oggi è il parkour. Andavamo in giro e facevamo sfide acrobatiche usando gli spazi più impensabili e improvvisati.

Esattamente quale fu la scintilla in chiave hip hop? “Buffalo Gals” di Malcolm McLaren, pezzo uscito nel 1982 con cui il famoso e famigerato McLaren faceva per una volta un’opera buona: diffondeva in Europa gli elementi stilistici della cultura hip hop, stregato com’ era stato ad un party di Afrika Bambaata visto poco prima; nel brano ci sono anche degli scratch, che per altro non sono opera dei dj newyorchesi coinvolti nell’operazione, ma di Trevor Horn, che qualche anno più tardi diventerà uno dei produttori avantpop più famosi del pianeta. Poi? Poi vennero Wild Style e Style Wars (sono due documentari sull’hip hop americano). Li troviamo tutto. Ancora oggi. Trovi il passato, il presente e il futuro. Come li intercettasti? Li vidi sicuramente in televisione la prima volta. Da li mi sono messo furiosamente a cercare le VHS. Subito dopo uscì anche qui nei cinema Beat streets: molto più fumettone hollywoodiano, però comunque rappresentativo, visto che c’erano i Bambaata, Herc, c’erano insomma i personaggi reali. Andai a veder al cinema pure Body Rock una boiata totale. Ti dico solo che il protagonista era Lorenzo Lamas, però nella sigla inziale e in quella finale c’erano delle vere e proprie evoluzioni di breaker. Ma si tratta di industria 36


culturale. L’industria prende l’energia e la credibilità di strada della cultura hip hop, ma al momento del dunque, le ignora. Come in questo film. Del resto i breaker non sono stati mai bravissimi a comunicare con l’esterno e far valere davvero il loro talento. Di sicuro non quanto gli mc. L’hip hop è il contributo di tante persone. Sicuramente, di tutte le sue discipline, la musica è quella più efficace, quella a cui ruota intorno tutta la cultura. Nell’hip hop la musica è come un oceano. Il punto fondamentale però è che tutta questa storia è nata nel South Bronx, in determinati modi e grazie a determinate persone. Con elementi in primis della cultura afroamericana e poi quella latina. Senza poi negare influenze e contributi da parte delle culture italoamericane (e quindi italiane), asiatiche, ebree, a questo perché nei quartieri dove è nata l’intera scena girava appunto un grande mix di culture. Un secondo punto è che si tratta di un messaggio universale, fatto per includere non per escludere. Un terzo punto è che non bisogna avere fretta e non bisogna avere l’ansia di sfruttare le opportunità che l’hip hop ti dà il più velocemente possibile e solo per scopi personali. E poi bisogna ricordare che l’hip hop oggi è un fenomeno globale e alla portata di tutti, è facile essere musicali: le fonti sono a disposizione, hai tutti gli strumenti e tutte le indicazioni per fare bene la tua cosa. Ma il risultato è che se si fanno le cose in maniera meccanica -s’impara e poi si esegue – non faremo ma niente di nuovo. Sai qual è il problema? Dimmi Il linguaggio. Questo è il primo gap. Non poter recepire il messaggio in maniera diretta. Già parlando la stessa lingua è difficile capirsi, figuriamoci quando devi importare concetti da una lingua diversa. In Italia questo è stato un problema particolarmente sentito, vista la scarsa dimestichezza con l’inglese. Ecco che quindi qui da noi, per un sacco di tempo, ci si è limitati ad adottare solo la forza di impatto della cultura hip hop, il motivo per cui è immediatamente riconoscibile e quindi coinvolgente.

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Quando sei tornato in Italia, cosa hai trovato? Per molti anni,, dal 1991 in avanti, ho fatto avanti indietro tra il mio paese e l’altra parte dell’oceano, più appunto le varie tourné mondiali. Le mie presenze a casa erano solo toccata e fuga, non avevo bene modo di capire cosa stesse succedendo qui da noi. Quando però finalmente mi sono fermato, e l’Italia è tornata ad essere casa mia, mi sono detto: “Ok, vediamo qua come siamo messi con la scena hip hop. E cosa ho trovato? Ho trovato le Posse”.

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IL NOSTRO BRONX Già. Il nostro South Bronx, per molti versi, sono state le Posse. E’ nei centri sociali che il linguaggio dell’hip hop ha preso a diffondersi realmente con crescite a ritmi esponenziali. E li che l’hip hop è stato accolto e incoraggiato a diventare adulto e autonomo. E’ li che ha trovato le strutture per essere praticato e propagandato. I writers hanno trovato i muri per disegnare. I breaker hanno trovato un posto dove non ci fossero direttori artistici pronti a cacciarli perché facevano robe strane ed erano vestiti male. E’ questa stessa scena ad aver messo l’hip hop sulla mappa, nella società italiana. Senza di essi la storia del rap e dell’ hip hop in Italia sarebbe stata diversa. Quando iniziano le posse? Possiamo mettere una data 1 Giugno 1990. L’inizio della storia si chiama “Batti il tuo tempo” singolo di Onda Rosse Posse. Ventiquattro anni fa. Un’autoproduzione nata non solo fisicamente nel contesto dei centri sociali, ma anche spiritualmente. La parola ora a Militant A, che dell’Onda Rossa Posse era il leader carismatico.

Oggi a distanza di anni, come ricordi la nascita dell’Onda Rossa Posse? 39


La ricordo come un’avventura tanto intensa e gioiosa quanto in realtà inaspettata – almeno all’epoca. I primi concerti li facevamo ovviamente dentro i centri sociali, ma più che concerti credo sia meglio parlare di performance – stavamo tutti quanti dietro un pannello su cui erano proiettati diapositive, filmati. Ovviamente i legami con la scena hip hop c’erano, eravamo molto aperti e abbiamo dato voce a un sacco di persone, non solo quindi quelle del nostro giro, quelle che comunque erano intrecciate con l’attivismo politico. Mi ricordo ad esempio di Mc Shark, lui ancora oggi fa cose. Però ecco, questi della scena hip hop dell’epoca, se facevano rap, lo facevamo gioco forza in inglese: e per noi questo era, francamente imbarazzante. Ci sembrava ridicolo. Ok, pure il nostro programma era in americano, Funk Teology, lo avevamo preso da un disco degli Shango, un super gruppo che metteva insieme l’intellighenzia avantjazz newyorchese con Afrika Bambaaata. Io comunque di mio ero in fissa con i Public Enemy, mi ricordo che feci di tutto per avvicinarli e conoscerli durante il loro primo concerto a Roma, era il 1988. Riuscii a lavorare alle luci e poi a fine concerto entrai nel backstage, volevo assolutamente parlare con loro…anche e soprattutto di cose politiche più che di musica. Ricordo che con Professor Griff discutemmo dell’organizzazione rivoluzionaria di fine anni sessanta chiamata Wether Underground, guidata da afroamericani. Lui fu molto sorpreso che la conoscessi. Un anno più tardi era arrivato da noi Fa la cosa giusta di Spike Lee, e la canzone simbolo del film era Fight the Power. Noi stavamo già lavorando a quella che poi sarebbe diventata Batti il tuo tempo, e il ritornello diventò “Batti il tuo tempo/per fottere il potere” anche come omaggio a quel pezzo lì. I primi concerti ufficiali di Onda Rossa Posse furono nella primavera del 1989. La primavera a Roma ti fa prendere bene. Tanto più che ad essere esplosivo era il contesto: nel febbraio 1990 iniziarono le occupazioni delle università fatta dalla Pantera, tutta la città era in subbuglio. Pochi mesi dopo – giugno - il vinile dell’Onda Rossa Posse era realtà. Qualche mese dopo l’uscita del vinile ci fu una serie di rilanci: lo scoppio della guerra del Golfo all’inizio del 1991 aveva radunato un sacco di voci attorno al progetto autoprodotto Bagdad 1.9.9.1., io personalmente avevo lanciato un appello per incidere qualcosa legato al rap che testimoniasse l’opposizione alla guerra e avevano risposto in tantissimi. Mi ricordo che nella prima versione del pezzo c’era addirittura Don Rico dei Sud Sound Sistem, che in quel momento si trovava a Roma. Sempre nello stesso periodo, da Bologna veniva 40


fuori Stop al panico dell’Isola Posse All Stars. La questione è che in quei tempi la distribuzione dei dischi autoprodotti lavorava in modo superficiale, non aveva tra l’altro nessuna abitudine a lavorare con i media, e noi come Onda Rossa non avemmo quindi nessun contatto con radio o riviste. Va detto, questo modo di fare musica non era nuovo. L’autoproduzione era già praticata già da parecchio tempo all’interno della scena punk.

Gli anni 90. Anni d’oro. Sicuramente il decennio 1990, rappresenta un importante periodo di crescita per il movimento .Ma cosa furono gli anni 90 nel mondo? Negli anni novanta inizia l’era della “comunicazione globale”. Cresce enormemente il potere dell'immagine e delle pubblicità. I media (televisione e radio) acquistano in questi anni un potere tale da influenzare a dismisura la nostra vita quotidiana. Le tv entrano nelle nostre case proiettandoci in tempo reale le notizie o gli avvenimenti più importanti, rendendo oltremodo spettacolari le immagini dal vivo e gli eventi più crudi. Ma ciò che ha caratterizzato di più in assoluto questo decennio di fine secolo è l'avvento di internet. Con l’avvento della rete non esistono più confini per chiunque voglia comunicare con il mondo intero stando comodamente seduto davanti al proprio computer.

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Il muro di Berlino. Un punto nella Storia.

Gli anni novanta, segnano soprattutto la fine della guerra fredda. Con la caduta del muro di Berlino, il 9 Novembre 1989 si da ufficialmente inizio ad un nuovo mondo. Solo pochi anni prima sembrava impossibile che quel Muro potesse andare giù. Di solito, quelli che cadono sono i muri fatti male, nei quali si infiltra l’acqua che fa marcire tutto. Invece il muro di Berlino no. Il monumento alla lotta permanente e mortale tra i due blocchi usciti dalla seconda guerra mondiale l’ America e Urss, cade. L’avevano fatto con cemento armato, impastato con l’arroganza più armata ancora di chi vuole ridurre il mondo intero al proprio punto di vista. E’ infatti il muro di Berlino non è caduto da solo, è stato abbattuto: meno male! Un’altra liberazione. Sotto le macerie del muro rimane un’ impero, una visione del mondo: l’Urss. Il tentativo di trasferire nella storia l’utopia comunista, un sistema economico il cui funzionamento si basa sulla possibilità di redistribuire la ricchezza a tutti. Ma è un’utopia appunto. Impossibile da applicare. Il capitalismo - sistema economico il cui funzionamento si basa sulla possibilità di accumulare e concentrare ricchezza per pochi - stravince. Insomma Rocky 42


Balboa vince contro Ivan drago. E non è un caso se il film, sia proprio di quegli anni. Il mondo diviso. La geografia si frantuma Nel 1989, viene giù tutto. Come un’onda sismica , gli avvenimenti di Berlino si propagano in tutta l’Europa comunista demolendo i regimi della Cecoslovacchia, della Bulgaria, dell’Albania. Crolla alla fine di dicembre anche il regime romeno. Nicolae ed Elena Ceausescu, i coniugi che avevano governato il paese dalla seconda metà degli anni sessanta, vengono detronizzati, processati sommariamente e brutalmente uccisi nel giorno di natale del 1989. La morte dell’Urss ebbe come risultato la frantumazione di una grande area geopolitica su cui i russi avevano esercitato tradizionalmente il loro potere imperiale. Appare sulla scena europea una nuova potenza nucleare e marittima, l’Ucraina. Appaiono due potenze petrolifere, il Kazakistan e l’Azerbaigian. Appaiono stati prevalentemente musulmani che confinano con le potenze islamiche della regione: Turchia, Iran, Pakistan e che ne subiscono subito l’influenza. Ritornano antichi contenziosi territoriali sui quali la Russia aveva esercitato una sorte di mediazione pacifica. Le conseguenze di questa graduale disintegrazione, sono ancora oggi manifeste: la crisi russo ucraina per la flotta del mar nero, la Crimea e il possesso delle armi nucleari, la guerra della Georgia contro le minoranze abcase e ossete, i conflitti tribali nelle repubbliche islamiche dell’Asia centrale (Afghanistan e Pakistan).

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I balcani: le prime vittime

Ma soprattutto la crisi della Jugoslavia. Crisi che precede nel tempo quella dell’Urss. Lo Stato costituito alla fine della seconda guerra mondiale, sulle rovine dell’impero austro-ungarico era stato polverizzato. Per lungo tempo, in quel territorio vissero croati di Bosnia, serbi di Bosnia, bosniaci di Bosnia musulmani, ortodossi e cristiani. Difficile unire in unico sentimento nazionale, popoli che avevano diverse tradizioni politiche, religiose e culturali. L’unica vera unità jugoslava, paradossalmente fu quella che il dittatore Tito (capo di stato jugoslavo e membro del partito comunista sovietico) impose dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ma la morte di Tito nel maggio nel 1980, il declino del comunismo, le pessime condizione dell’economia nazionale e la fine della guerra fredda, distrussero progressivamente tutte le ragioni che avevano indotto i popoli della penisola a convivere nell’ambito di uno stesso Stato. Le relazioni fra serbi e croati, furono sin dall’inizio difficili. Ad esempio, quando nel 1918, quando l’impero austro-ungarico volle occupare la Serbia o nel 1941 quando l’Italia e la Germania si spartirono alcuni territori jugoslavi, rimpicciolendo la Serbia, per creare lo Stato indipendente di Croazia. Alla fine degli anni ottanta, i due paesi trovarono il terreno preparato dall’ostilità e dall’odio che si era 44


andato accumulando. Mentre croati e sloveni reclamavano una totale autonomia, i serbi soppressero quella di due regioni, il Kosovo e la Vojvodina, che appartenevano formalmente alla loro Repubblica, ma erano prevalentemente abitate da albanesi e ungheresi. Iniziano le tensioni nazionaliste. Negli anni ottanta, si fa strada rapidamente un comunista serbo, Slobodan Milosevic, che proveniva da una tranquilla carriera burocratica nel sistema bancario federale. Slobodan ha tutte le caratteristiche giuste: retorica nazionalista e carisma popolare. Eletto alla presidenza della sua repubblica nella primavera del 1989, Milosevic cominciò ad agitare di fronte all’opinione pubblica il drappo rosso del nazionalismo serbo con accenti che inquietarono soprattutto la Croazia dove un’intera regione, la Krajna, era abitata da serbi. Il nazionalismo serbo, creò sospetti e timori agli stati adiacenti. Onde evitare l’espansione del nazionalismo, il 25 giugno 1991, la Slovenia proclama la propria indipendenza. L’esempio viene seguito dalla Croazia, poi dalla Bosnia e dalla Macedonia. Ma ad azione, corrisponde reazione. Inizia un’altra guerra nei balcani. La guerra in Slovenia durò meno di due settimane, quella in Croazia terminò non appena i serbi s’impadronirono della Krajna, ma quella in Bosnia (dove la minoranza serba rappresentava un quarto della popolazione) divenne sempre più aspra e si combatté per molti mesi sino alla spartizione delle repubblica , a dispetto della presenza di un forte corpo delle Nazioni Unite e della mediazione dell’Europa Comunitaria. Tra l’11 e il 21 Luglio 1995, viene perpetrato il più brutale atto di genocidio dai tempi della seconda guerra mondiale: ottomila persone massacrate dalle truppe serbo-bosniache in soli dieci giorni, ad un ritmo di oltre trenta all’ ora. L’obiettivo dei generali Radovan Karadzic e di Ratko Mladic, i due leader serbo-bosniaci che guidavano le milizie paramilitari in Bosnia, era “ripulire” una città che, fino ad allora, era abitata per due terzi da cittadini musulmani.

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Si scrive guerra del Golfo. Si legge guerra del petrolio Il 1990 è anche l’anno della guerra del Golfo. Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein, presidente dell’Iraq dal 1979, occupa il Kuwait nel Golfo Persico. Gli Stati Uniti si oppongono poiché il Golfo Persico era una delle maggiori regioni petrolifere del mondo. Ricordiamoci che dopo la seconda guerra mondiale, il medio-oriente era territorio d’interesse anglo-americano per i rapporti energetici e militari. Gli Stati Uniti erano allora il maggiore produttore mondiale di petrolio, ma i giacimenti più promettenti di petrolio e gas erano situati, con qualche eccezione in: Algeria, Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Indonesia, Iran, Iraq, Libia e Nigeria. Fu questo uno dei motivi di contesa tra l’Iraq e le potenze atlantiche. In breve tempo gli americani ottennero dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (alle quali partecipa anche l’Italia) la condanna dell’iniziativa irakena e l’ autorizzazione all’uso della forza. L’iniziativa fu approvata anche dalla maggior parte dei paesi della regione (sauditi, egiziani, siriani, marocchini, pakistani). Per rompere l’unità dei suoi nemici Saddam, cercò di riattizzare l’ostilità araba per Israele e invocò la mediazione dell’Unione Sovietica, ma non poté impedire che la coalizione americana entrasse in azione nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 46


1991. Il 28 Febbraio, dopo una campagna militare che era durata esattamente cento ore, l’Iraq dovette accettare una tregua.

L’hip hop e le posse: un’affascinante avventura Come abbiamo già detto, Il 1991 è l’anno in cui esce l’album 1.9.9.1. Baghdad (capitale dell’Iraq). Canzone denuncia alla Guerra del Golfo. “Batti il tuo tempo” diventa il brano degli Onda Rossa più ascoltato. Ristampa dopo ristampa, arriva a vendere attorno alle diecimila copie. Un numero assolutamente pazzesco per un’autoproduzione, per un disco che non gode del minimo supporto industriale (promozione e distribuzione). Le rime dirette, la suggestione di una intro rubata al Morricone più western e la versione strumentale di I go to work di Kool Moe Dee, si rivelano una miscela esplosiva, quanto irresistibile. E’ con questo disco che si battezzano le Posse italiane. E’ un’onda in piena. In questo inizio di anni novanta la produzione di rap si diffonde nei centri sociali. Il rap diventa strumento immediato, diretto. Il rap è la musica dei neri oppressi. Il rap è la musica delle nuove generazioni . Il rap è musica di rottura. Con le posse, il rap entra in ebollizione e diventa presto fenomeno nazionale. E cosa più importante, secondo i migliori canoni della cultura hip hop, era qualcosa che partiva dal basso, non una faccenda teleguidata dall’industria culturale del periodo. Note di rime dirette, questo titolo dell’autoproduzione rigidamente in musicassetta, riuniva i padroni di casa della Lion Horse Posse (che nel 1992 avevano sfornato il loro Ep, Vivi e diretti, di cui occorre citare la leggendaria e ferocissima Papapolacco) con la napoletana 99 Posse (così chiamata in onore del centro sociale in cui era nata, 47


l’Officina 99, al 99 di via Gianturco a Napoli), con la bolognese Isola Posse All Stars impreziosita dal basso di Alessio Manna (colonna dei Casino Royale), con i siciliani Nuovi Briganti, con i cosentini Truscia Posse, con gli abruzzesi Lou X e Dj Disastro, con il romano King (colonna degli AK47). Escono due volumi della raccolta Italian Posse, uno del 1992 e uno del 1993. Ci sono pezzi assolutamente hip hop come Fight the faida di Frankie HI-NRG, La casa è un diritto dei milanesi Comitato, Fratelli d’Italia e il posto dove vivo dei napoletani Possessione, Fotti la censura degli Articoli 31, Fantasmi dei napoletani A.M.N.K (parte dei quali divenne poi la Famiglia, realtà fondamentale nell’hip hop nazionale). Nel 1992 ci saranno due eventi incredibili: a Torino La notte dei marziani italiani, con quasi seimila persone a riempire il Pala Ruffini. C’è l’hip hop di Frankie HI-NRG, ma poi ci sono i Mau Mau, i Niù Tennici, gli Africa Unite, i Pitura Freska, I Casino Royale, Lelé Gaudì (si proprio lui, uno dei giudici di X-Factor). L’universo delle Posse, si da appuntamento per un concerto allo stadio Olimpico di Roma. Un concerto epico.

Tutto perfetto? In realtà no. Nella fretta e nella meraviglia di star dietro questo fenomeno, tanto i media e la stampa di settore quanto molti dei semplici fruitori la tirano un po’ troppo semplice e cominciano a incasellare il rap e la cultura hip hop sotto il cappello “posse”, in cui mettono di tutto. Il criterio per definire la categoria posse? Fare testi in italiano, fare qualcosa che musicalmente non sia 48


pop rock, ma abbia richiami (anche vaghi) a rap, ska e ragga, infilare nelle parole delle tracce un linguaggio piuttosto diretto.

1992 Benvenuti in Italia

In Italia, l'inizio del 1992 è caratterizzato da alcuni importanti avvenimenti politici e giudiziari. Nel mese di febbraio prende il via l'operazione denominata "Mani pulite", che porta alla ribalta delle cronache il giudice Antonio Di Pietro nei panni di un implacabile giustiziere contro la corruzione ed il malcostume diffuso nel sistema politico italiano. Tra il 1992 e il 1993 la crociata contro le tangenti, ribattezzata in seguito "Tangentopoli", si abbatterà come un ciclone sul mondo della politica italiana, sommersa da un numero impressionante di avvisi di garanzia nei confronti dei suoi più autorevoli rappresentanti tra i quali, i più coinvolti, risulteranno i Socialisti e il loro leader Bettino Craxi, ormai in declino. In aprile si va a nuove elezioni. Il 25 maggio viene eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. In base all'esito delle elezioni politiche di aprile Giuliano Amato forma in giugno un nuovo Governo che, in autunno, avrà il difficile compito di fronteggiare il tracollo della lira dovuto ad una forte speculazione internazionale. La situazione politica e sociale è instabile. Cosa Nostra (organizzazione 49


criminale siciliana) lancia la sua sfida allo Stato: il 23 maggio il giudice Giovanni Falcone assieme alla moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro) vengono uccisi da una terribile esplosione sull'autostrada che va da Punta Raisi a Palermo. Non si fa in tempo a riprendersi dall'emozione e dal cordoglio per l'accaduto che, neanche un mese dopo, il 19 giugno stessa sorte tocca al giudice Borsellino e a 4 agenti della scorta (Agostino Catalano,Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie

Cosina e Claudio Traina).

Un' autobomba esplode sotto casa della

madre di Paolo, in via d’Amelio a Palermo. Si apre l'era delle grandi stragi di stampo mafioso.

1993. Ultimo atto? Nel 1993 continua la vasta operazione denominata tangentopoli. Molti sono i ministri costretti a dimettersi. Desta scalpore l'avviso di garanzia per associazione a delinquere di stampo mafioso che viene consegnato a Giulio Andreotti, chiamato in causa dalle confessioni dei soliti pentiti. Il 22 aprile Amato rassegna le sue dimissioni da Presidente del Consiglio. Ciampi viene incaricato di formare il nuovo Governo. La procura della Repubblica di Milano chiede al Parlamento l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. Le stragi continuano. Durante la notte del 27 maggio un'autobomba esplode nel cuore di Firenze in via dei Georgofili, nei pressi degli 50


Uffizi, che subisce ingenti danni . Cinque persone vengono uccise, tra cui una neonata e una bambina di nove anni, e 48 rimasero ferite. Altri due attentati simili avvengono in via Fauro a Roma, vicino al teatro Parioli (qualche istante dopo il passaggio di Maurizio Costanzo che si salva per un soffio) e in via Palestro a Milano. in quest'ultimo attacco perdono la vita altre 5 persone (quattro vigili urbani, intervenuti sul posto, e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina).

Nota bene. L’esplosivo per Firenze, 250 chili di Tritolo, fa parte di uno stock ordinato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano per ordine di Leoluca Bagarella, che voleva scatenare un’offensiva contro lo Stato. Oltre ai due, sono “operativi” quattro fidati killer del quartiere: Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano. Da Palermo viene trasportato a Roma, dove viene depositato in un condominio di via Ostiense 895. Di lì viene smistato per le azioni da compiere a Firenze, Roma e Milano. La bomba fiorentina viene trasportata su un Fiorino da Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza e scaricata a Prato, nella casa di Antonino Messana, cognato di un vecchio capomafia, Giuseppe Ferro. Da qui, nella sera dell’attentato, l’esplosivo viene consegnato a Pietro Carra, vicino alla sala del tempio dei testimoni di Geova. E da qui trasportato lungo le stradine strette di Firenze. E’ appurato che 51


l’esplosivo per gli attentati è lo stesso, ed è stato usato per la prima volta contro Maurizio Costanzo; che l’idea di ricattare lo Stato colpendo i suoi monumenti è maturata in Cosa Nostra alla fine del 1992; che come dice il procuratore Vigna, “ci sono mandanti a volto coperto”. Il tritolo è salito per l’Italia con molte connivenze, fino ad arrivare a quei fratelli Graviano arrestati mentre facevano shopping a Milano. Chi sono questi mandanti a volto coperto?

Le Posse combattono il potere? In questo clima ad alta tensione si sviluppano le Posse italiane. Per questo l’hip hop all’inizio, viene adottato come strumento rivoluzionario, di denuncia e critica sociale, così come nelle old school in america (vedi Public Enemy). Un’affascinante avventura, ma allo stesso tempo un equivoco. L’hip hop viene gradualmente ingoiato dal linguaggio politico e in particolare dalle culture della sinistra non istituzionale. Quale ruolo avranno le Posse negli anni 90? Quanto dureranno? Diamo la parola a Dj Skizo, noto soprattutto come turntablist, è uno dei nomi storici della scena milanese e nell’arco degli anni si è sempre distinto nella scena nazionale. Dj Skizo non ha un carattere facile. Rigidissimo nelle prese di posizione. La sua storia attraversa tutte le vicissitudini dell’hip hop in Italia, dai primissimi inizi al presente.

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Dall’alto di venticinque anni di esperienza, un patrimonio non comune, come giudichi l’evoluzione complessiva dell’hip hop in Italia? Se una cosa è potente, è potente. E’ la cultura hip hop lo è. Questo è un dato di fatto incontrovertibile. Ma per tornare a respirare la feroce energia che questa cultura è in grado di donare e che in passato per lungo tempo ha donato, ci sarebbe bisogno qui da noi di una spinta nuova. La progressione delle persone che si sono via via succedute nella scena italiana è stata negativa: chi è arrivato dopo si è progressivamente allontanato dallo spirito delle persone che c’erano all’inizio. Quand’è che le cose hanno iniziato ad andare, almeno leggermente, storte? Mi prendo la responsabilità delle mie opinioni, ora (molti non lo fanno). La mia convinzione è che l’hip hop anche qui da noi sia nato come qualcosa di estremamente potente, e chi ha iniziato sotto l’effetto di quell’energia originaria non a caso è sopravvissuto a tutto. 53


L’hip hop era stile che nasceva dalla strada, senza filtri, nasceva dalla tua storia personale e dai luoghi in cui era nato e cresciuto. All’estero così è stato e così è sempre rimasto, mentre da noi a un certo punto sono sopravvenute delle interferenze. Ecco: io disconosco completamente le posse italiane. Non fanno parte della nostra storia. Drastico. Il problema è che a un certo punto ci siamo rassegnati a una perdita del territorio. Non riuscivamo ad accedere ai grandi palchi, e non riuscivamo nemmeno ad accedere ai palchi piccoli. Però ai palchi politici improvvisamente abbiamo avuto libero accesso. Non è stato comunque un bene? Per nulla. Ne abbiamo approfittato tutti all’epoca, compreso il sottoscritto. Non lo nego. Ma questo ha voluto dire soggiacere a qualcosa d’altro, qualcosa che non rappresentava noi stessi e che non rappresentava la cultura hip hop. Una cultura che non sta né a destra né a sinistra – sta nella realtà di chi se la vive. Abbiamo dovuto vestire un colore . Ci dicevano che eravamo finalmente liberi dalla dittatura e dalla vacuità del commerciale, ma quella dei centri sociali era una dittatura tanto quanto quella dell’industria culturale mainstream. Ma poi, soprattutto: è stato veicolato il principio che l’hip hop era la cultura solo del ghetto, solo dei poveri, e che solo in posti specifici poteva essere veicolato. Ma quando mai! Sono scemenze. C’è infine un ultimo punto fondamentale, conseguenza di tutto ciò. Prego. Tutto questo ha fatto si che si sviluppasse – per la comunicazione di ciò che l’hip hop era e rappresentava – un’anima triste. Priva di muscoli. La comunicazione era apparentemente forte, perché negli anni delle posse avevamo esposizione, posti dove esibirci e fare cose, attenzione dei giornali, ma il ricatto era che abbracciassimo ideali di tristezza, di povertà, di rancore, di depressione, ma da tutto ciò voleva uscire ambendo esattamente al contrario, e facendolo con i muscoli, con un piglio muscoloso. Tutto ciò è stato profondamente castrante. Sai cosa invece conta veramente per un’artista, sia hip hop o meno?

54


Cosa? Che la sua arte venga fruita con attenzione da più persone possibili, uno; che lui si possa esprimere in una situazione logisticamente adeguata, due; e tre, ciò che separa un professionista da uno che fa le cose tanto per, che la sua prestazione artistica venga adeguatamente retribuita. La retribuzione deve essere corretta, in nessun modo la retribuzione deve essere politica. L hip hop, mettiamocelo bene in testa è andare con orgoglio dal peggio al meglio, potendo contare su mezzi limitati. Questa è la sua forza. Questo è il motivo per cui dopo trent’anni e passa siamo qua a parlarne. E’ molto importante soppesare bene le parole di dj Skizo. Si sia d’accordo o no con esse, o con solo parte di esse. Perché quando il fenomeno Posse si esaurirà, sarà questa la posizione dominante nella scena rap in italiano: quella più vicina a un “orgoglio di appartenenza esclusiva” alla cultura hip hop, e quella di grande ostilità verso tutto quello che sa di posse, di centro sociale, eccetera.

1994. L’anno che ha cambiato l’Italia La situazione politica italiana cambia. In Italia a gennaio si dimette il Governo

Ciampi.

E'

l'anno

della

scesa

in

campo

di

Silvio

Berlusconi. Politico e imprenditore italiano, conosciuto anche come "il Cavaliere". Berlusconi ha iniziato la sua attività imprenditoriale nel campo

dell'edilizia.

finanziaria Fininvest e

Nel 1975 ha

costituito

nel 1993 la

produzione multimediale Mediaset.

Nel

1994,

la

società

società

di

Silvio

“scende

in

campo” e fonda il partito di "Forza Italia". Un'ondata di rinnovamento invade

il

Parlamento

italiano.

Berlusconi

assume

l'incarico

di

Presidente del Consiglio. La compagine di Forza Italia si conferma vittoriosa anche alle elezioni europee nel mese di giugno. Intanto il pool di mani pulite emette quest'anno un mandato di arresto nei confronti di Bettino Craxi, che si trova ormai in esilio ad Hammamet in Tunisia. A novembre Silvio Berlusconi riceve un avviso di garanzia mentre si trova alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite a 55


Napoli. Un mese dopo il Presidente del Consiglio rassegna le sue dimissioni, dopo che Bossi gli ha negato la fiducia. Il 6 dicembre, a sorpresa, si dimette anche il giudice Di Pietro dal suo incarico di magistrato. La sua intenzione, in realtà, sarà quella di entrare in politica.

Cronache d’Italia Il 20 Marzo 1994, Ilaria Alpi, giornalista RAI e inviata di guerra, viene uccisa in Somalia. La sua scomparsa rimane uno dei grandi misteri irrisolti della storia d'Italia. Indagando a Mogadiscio, capitale somala, su un traffico internazionale d'armi e di rifiuti tossici illegali, rimane vittima di un agguato assieme all'operatore Miran Hrovatin. Tra le ipotesi sul suo assassinio, l'aver scoperto il coinvolgimento di personalità italiane dell'esercito e delle istituzioni, ma il velo definitivo sulla sua vicenda potrà essere sollevato con la caduta del segreto

di

Stato,

annunciata

nel

2014

dal

governo

Renzi.

56


Un’altra tragedia, investe l’Italia. Il giorno prima, Don Giuseppe Diana

viene

ucciso

dalla

camorra,

organizzazione

criminale

campana. Ecco quello che dice in una delle ultime messe: «Per amore del mio popolo non tacerò» . Ma in quegli anni il clan dei Casalesi era in piena ascesa, destinato, sotto il controllo del boss Francesco Schiavone, detto Sandokan, a diventare uno dei più sanguinari

della

storia

d'Italia.

Don Diana divenne per i suoi fedeli un punto di riferimento contro le violenze e i soprusi del potere criminale, denunciando più volte dall'altare e nei vari incontri l'assenza delle istituzioni di fronte a quello scenario. Il culmine di questo impegno fu il celebre manifesto distribuito a Natale del 1991, a tutte le parrocchie della città. In esso richiamò la Chiesa a non rinunciare «al suo ruolo "profetico" affinché 57


gli strumenti della denuncia e dell'annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà,

dei

valori

etici

e

civili».

Entrato nel mirino dei clan, la mattina del 19 marzo 1994 venne ucciso nella sua sagrestia, con cinque colpi di pistola sparati da un solo killer. Ricordato da associazioni e iniziative intitolate a suo nome, Don Diana è diventato un simbolo del movimento antimafia. In particolare, la cooperativa "Le Terre di Don Diana" gestisce la produzione agricola nelle terre sottratte ai clan, dando lavoro a diverse persone.

Cronache dall’estero 58


Fuori dai confini italiani, il mondo è scosso dalla sanguinosa guerra civile

che

divampa

in

Ruanda.

Le

nazioni

Unite

assistono

vergognosamente inerti allo sterminio delle centinaia di migliaia di Tutsi. Più a nord invece, scoppia la “guerra di Cecenia”, combattuta tra Russia e Cecenia dal 1994 al 1996, a seguito delle dichiarazione d’indipendenza della Cecenia dalla Russia e alla nascita della Repubblica Cecena d’Ickeria. Dopo la campagna iniziale del 19941995, culminata con la devastante battaglia di Groznyi, le forze federali russe cercarono di controllare le varie aree montuose della Cecenia ma vennero respinti dai raid ceceni condotti in pianura, nonostante la preponderante maggioranza di uomini, la superiorità negli armamenti ed il supporto aereo. La diffusa demoralizzazione delle forze federali e la quasi universale opposizione pubblica russa riguardo al conflitto, portarono il governo di Boris Elstin a dichiarare il cessate il fuoco nel 1996 ed a siglare un trattato di pace l’anno seguente. Le vittime civili furono tra le 30.000 e le 100.000 e più di 200.000 feriti; più di 500.000 persone costrette a lasciare la loro terra e le città, così come molti villaggi, vennero lasciati in rovina lungo tutto il paese.

59


Si aprirono crateri di violenza come quello che comprende Cecenia, Ossezia del nord e Ossezia del Sud. Sangue chiama sangue. Odio chiama odio. Fino al massacro del 1° settembre 2004: Beslan, Ossezia del nord, una scuola che diventa un lager, una strage in cui, alla fine oltre centottanta bambini restano uccisi, insieme a centinaia di altri morti e più di settecento feriti.

Una guerra che Anna

Politovskaja, (giornalista russa assassinata, nell’aprile 2006) ha ben raccontano nel suo libro “Proibito parlare”.

Il meglio dall’Italia In questo sfondo terribile, non mancano eventi positivi e figure di grande esempio. Una domenica sera del maggio 1994, Gino Strada e sua moglie Teresa Sarti, insieme ad un gruppo di amici e colleghi si dà appuntamento al ristorante "Il Tempio d'oro" di Milano (nella zona di viale Monza). Nasce Emergency, un’organizzazione che riunisce medici, infermieri ed esperti di edilizia e logistica, in sostanza i «professionisti dell’emergenza», per dirla con le parole di Strada, «capaci di portare aiuto alle vittime delle zone di guerra e soprattutto

alle

vittime

della

guerra

in

tempo

di

pace».

«Se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo 60


momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti. Ci deve riguardare tutti, perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi». In questa riflessione (ripresa dal libro "Buskashì. Viaggio dentro la guerra"), è racchiuso lo spirito di quel gruppo di uomini e donne che opera

sotto

la

bandiera

di

Emergency.

Nel corso della cena vengono raccolti i primi 12 milioni di lire da investire a favore della prima missione in Ruanda (1994), a Kigali, dove viene restaurata una clinica belga abbandonata e riattivati i reparti di chirurgia e di ostetricia e ginecologia. Ma la bandiera con le "tre

barre" che

formano

una "E" nel

cerchio

rosso

(simbolo

dell'associazione) sventola in quegli anni su un altro campo cruciale: la Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antiuomo, nell'ambio della quale Emergency spinge l'Italia (tra i maggiori produttori

di

mine

antiuomo)

a

sottoscrivere

il

Trattato

di

Ottawa (1997), per la messa al bando dell'odiosa arma. Nemmeno il 61


tempo di festeggiare la grande vittoria di civiltĂ , che Emergency si trova a operare nel Kurdistan iracheno e di qui in Sierra Leone, Sudan, Afghanistan. Aumenta l'impegno ma cresce e si rafforza parallelamente il sostegno all'associazione (riconosciuta come ONG dal 1999), attraverso campagne di raccolta fondi sponsorizzate da personaggi noti della cultura, dello spettacolo e dello sport. Di contro, la ferma posizione di rifiuto della guerra, la porta a scontrarsi con governi e politici di vari paesi. A conclusione di questa lunga esperienza matura l'idea che l'attivitĂ umanitaria debba coniugarsi con un netto rifiuto della guerra, in tutte le sue forme dall'intervento militare all'attacco terroristico. In nome di questo obiettivo cerca di coinvolgere altre persone, disposte a impegnare tempo e risorse in una nuova associazione umanitaria.

.

62


C’è rissa nelle Posse. L’hip hop si vende?

E mentre il mondo brucia, noi ci facciamo la guerra. Intendo, nel rap italiano. I primi momenti di feroce contrasto nel movimento sorge attorno al fatto che l’hip hop si venda o meno al sistema capitalista. Leggi: le multinazionali della discografia. Le cosiddette “major”. A portare avanti questa bandiera sono stati più di tutti gli Assalti Frontali. Coerentemente. Loro arrivano dalla corrente più politica (la loro storia nasce negli spazi

di via dei Volsci, luogo storico per

l’autonomia e la sinistra antagonista romana più dura), loro – in modo anche molto hip hop – portano avanti con forza la propria idea di come andassero fatte le cose. Anche tutto il giro dell’Isola ci diede dentro, probabilmente più per riflesso ed eredità della lezione del punk,

e

quindi

dell’autoproduzione

e

del

crearsi

canali

di 63


distribuzione propri. L’obiettivo preferito da tutti era un rapper nato a Torino, con origini siciliane, poi trasferitosi a Città di Castello, e che inizialmente si era fatto conoscere con il singolo Fight the faida, uscito per un’ etichetta indipendentemente, la bolognese Irma Records. All’anagrafe Francesco Di Gesù, sul palco Franki HI-NRG. Uno che non proveniva dalla scena dei centri sociali romani, ne dall’Isola, né dal Leoncavallo – non aveva mai sfiorato quelle storie. Quando la BMG gli propose un contratto , tra il 1992 e il 1993, disse semplicemente di sì.

Fate attenzione perché alcuni concetti si

ripetono rispetto alle parole di dj Skizo. Facciamo allora il punto della situazione. Non essere saltati sul carro dell’industria musicale è stata un’occasione persa? Senz’altro. Una lunga fila di occasioni. Occasioni per i singoli, così come una grande occasione collettiva. In quegli anni tutti volevano preservare la propria integrità. Un’integrità però malata, ossessiva, slegata anche dal concetto di realtà. Come a dire: “tu mi vuoi fottere, io ti ho capito. Invece non mi ruberai un cazzo”. Però dai, magari era solo una specie di autodifesa e allo stesso tempo un modo per essere indipendenti? Un bella idea, romantica, vero? Peccato che questo romanticismo sia stata un stupida coperta di Linus: il via libera a una serie di comportamenti stupidi, infantili e distruttivi. Se invece di star lì a pensare e a ripetere quanto fosse orribile il mondo della discografia, si fosse pensato alla costruzione di un credibile e concreto progetto di distribuzione alternativa, o anche al modo per penetrare una delle major con uomini propri, ora racconteremo probabilmente una storia diversa, e anche molto migliore. Invece no. All’epoca la parola d’ordine era: “bisogna essere poveri”, bisogna essere staccati da tutto – e quindi emarginati. A quelli bravi era vietato fare i soldi; meno soldi prendevi più eri credibile. Tra l’altro questo è l’esatto contrario di quello che insegna la cultura hip hop. L’hip hop americano insegna che anche se parti dal fondo puoi arrivare in cima, non che se stai sul fondo su questo fondo ci devi rimanere per forza, cacciando via tutti che non sono i tuo compagni di sventura e di disperazione. L’hip hop ce lo insegna così bene che ora il rap è 64


diventato il pop del nuovo millennio, trasformandosi così in cancro della cultura hip hop.

Frankie HI-NRG fu crocifisso per essere andato con la BMG, ma qualche anno più tardi ci andarono anche i 99 Posse con “Cerco tiempo” e perfino gli Assalti Frontali. Per tutti, a domanda precisa la risposta più o meno era: “Si, vero, stiamo con un major, ma abbiamo autonomia completa, non c’è nessuna interferenza sul nostro messaggio e sul nostro contenuto artistico. “Quindi si può fare”. Sensatissimo. Peccato esserci arrivati solo dopo qualche anno. Tutti anni persi. Per il resto cala il silenzio. Nella seconda metà degli anni novanta, di movimento posse non si parla praticamente più. I centri sociali continuano ad esserci, ma non sono più esclusivamente dedicati a rap e raggamuffin. Il ventaglio espressivo si è arricchito, è arrivata l’elettronica con la techno e i rave a scompaginare tutto (ne parla con grande lucidità Militant A nel suo libro). Non c’è più quel senso di rivoluzione imminente. La galassia del movimento alternativo di sinistra italiano e la frangia più intellettuale e politicizzata dei media improvvisamente perde interesse nel rap, nel raggamuffin, nei Public Enemy.L’ hip hop comincia ad essere mal sopportato. La gente normale si volatilizza verso i rave, i concerti techno più o meno intelligenti, la sperimentazione digitale e altro ancora. Sui muri dei 65


Link di Bologna appaiono scritte tipo: “L’hip hop ha rotto il cazzo!”. E poi, altro problema, i centri sociali ti toglievano il microfono se dicevi cose con cui loro non erano d’accordo. Torniamo a Bologna. Una session rap è in pieno svolgimento al Livello 57, microfono aperto, sfide di freestyle in atto; insomma tutto nella norma delle jam. Ad un tratto prende il micorfono J-Ax degli Articolo 31. La sua voce non arriva. Ci si volta tutti verso il fonico del Livello. Il fonico guarda J-Ax, con aria sprezzante: “ho abbassato io il cursore. Tu, qua, non canti. Tu e i tuoi testi sessisti qua non entrano”.

Ora – ma questo è un mio giudizio – si possono giudicare gli Articolo 31 in molte maniere, ma di sicuro non sono mai stati più sessisti della media dei gruppi americani. Erano molto peggio gli N.W.A. di Dr. Dre (dai quali guarda un po’, era stata presa la base che faceva da ossatura a Stop al Panico). Sia come sia, questa è una cosa che non si fa. Togliere la parola preventivamente è contro natura. Nella cultura hip hop, le dispute vengono risolte con una sfida diretta. Senza freni, ossessiva, arrogante, talvolta miope e infantile, ma comunque una sfida. Una sfida per vedere chi è più bravo. Questa di J-Ax è l’immagine finale di un’epoca. Il punto di rottura tra hip hop e centri sociali. Cosa lascia questa rissa. Poco. Nel disconoscere completamente l’esperienza delle posse, la scena hip hop più pura non si accorge di avere nel frattempo incorporato alcuni geni caratteristici dell’esperienza dei centri sociali. E dell’autoproduzione punk. 66


E’ il motivo per cui in Italia il sospetto verso le major si è trascinato comunque per anni (perché l’autoproduzione è buona, l’etichetta indipendente è accettabile, la multinazionale è il nemico). E’ il motivo per cui il successo altrui in molti casi viene osteggiato a prescindere, a mò di riflesso condizionato, perché avere successo significa essere funzionali al sistema, e quindi al nemico. Invece, la scena hip hop, una volta esaurita la bolla delle posse, con gli Assalti Frontali che hanno impiegato quattro anni a sfornare un seguito a “Terra di Nessuno”, con molte altre esperienze minori in chiave rap che si sono presto sgonfiate, ha preferito mettere una croce sopra tutto. Buttando via il bambino con l’acqua sporca. E’ proprio in questo periodo (1995) che nasce Aelle (acronimo di Alleanza Latina) una magazine vero e proprio, punto di riferimento assoluto per tutta la scena hip hop. L’unico media sentito come proprio. Odiato, certo. Criticato, ma anche amato da molti. Quando i giornali e le tv sinistroidi hanno smesso di occuparsi di rap, il grosso dell’informazione a livello nazionale è circolato su Aelle. Non è stato l’organo unico: a livello mainstream Radio Deejay ha fornito per un po’ di anni uno spazio importante, poi c’erano gli appuntamenti con Master freeze e Match Music.

67


1995. Te la ricordi la pubblicità del Pinguino? Il 1995 inizia di domenica. Non so dire se sia un buon auspicio. Sicuramente curioso: la domenica fa pensare alla settimana che finisce, più che a quella che inizia. Un anno che comincia di domenica è un anno che serve a ricapitolare. Il 1995 è l’anno del battesimo di una storia che è stata concepita decenni prima. Precisamente il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino. Il cosiddetto Occidente, vince la partita. Un continuo e infernale carosello di macchine, clacson e trombe per strada. Ovunque: dagli Usa, all‘Europa, dal Medio Oriente all’Oceano Pacifico, un unico grid: liberi tutti! Ora, pensa a cosa succede quando si vince un campionato del mondo: la superiorità atletica dimostrata in partita diventa metafora del popolo rappresentato dalla nazionale stessa. Insomma, esaltazione pura.

Inizia il nuovo mondo. Un mondo che viene battezzato il 1° Gennaio 1995 con il WTO: il “World Trade Organization” o anche Organizzazione Mondiale del Commercio. Un’organizzazione internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli stati membri. Finalmente il denaro può andare dove vuole, le industrie possono andare dove vogliono. Di conseguenza prodotti, beni e servizi, devono poter circolare liberamente eliminando dazi e protezionismi di sorta. La convenienza è chiara, facciamo un esempio: sono un imprenditore che vive in Italia, la sede legale della mia azienda la metto in un paradiso fiscale (Lussemburgo, Svizzera, Lichtenstein, Irlanda, come hanno fatto 68


Dolce e Gabbana, Google, Amazon, Apple), le fabbriche le impianto dove posso pagare operai e lavoratori il meno possibile, dove i sindacati non esistono, la burocrazia e le tasse sono minime, la tutela dell’ambiente un optional (vedi il caso Foxcoon della Apple a Shangai). Colpo di scena finale: ciò che produco, però lo vendo ovunque e quindi anche in Italia e né Italia, ne altri Paesi analoghi possono imporre dazi ai miei prodotti, ne tanto meno restrizioni alla loro commercializzazione. Nessuno quindi può chiedermi conto del giochetto globale che ho messo su. Il conto è presto fatto: se prima producevo a 7 e vendevo a 10, oggi produco a 3 e vendo sempre a 10. Queste le nuove regole del gioco, questo ciò che si chiama “maggior retribuzione del capitale di rischio”: prima rischiando 7, guadagnavo 10, ora rischiando soltanto 3, guadagno comunque 10. Ecco il premio ai vincitori della guerra fredda. Ora possiamo vendere liberi! Da quel momento in avanti è stato tutto una logica conseguenza: la globalizzazione dei mercati, la precarizzazione del lavoro, il taglio alla spesa pubblica, il debito pubblico, fino alle crisi finanziarie del 2008.

E mentre tutto cambia, noi guardiamo la tv. I personaggi dell'anno sono Paolo Bonolis e Fabrizio Frizzi, che godono in questo periodo di grande popolarità. La pubblicità più divertente è quella dei condizionatori DeLonghi. Contesto arroventato da estate western, comparse boccheggianti. Poi la scoperta del prodotto imperdibile e la conclusione in slogan, perfetto: “Tutti volere pinguino Delonghi”. Tutti volere il Pinguino!

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Io non so dire quanto ci sia stato di premeditato nella scelta registica, quanto di diabolico, ma insomma, quello che a me pare ancora oggi lo slogan psicologicamente più allusivo ed evocativo della società consumista e capitalista viene messo in bocca niente meno che a un capo pellerossa, un nativo americano vittima per eccellenza del sistema stesso. Ecco la risposta ai nostri desideri. Tutti volere il pinguino. Anche gli indiani d’ America. La società dei consumi viene ufficialmente battezzata.

L’Italia migliore. Nasce Libera. “Loro sono morti perché noi non siamo stati abbastanza vivi”. Questa frase arriva nel 1993 a Palermo. La pronunciò Gian Carlo Caselli, da poco diventato capo della procura, che avrebbe guidato fino al 1999. “Loro”: le vittime degli attentati del 23 Maggio e del 19 Luglio 1992, cui si sarebbero aggiunte le vittime degli attentati del 1993. Lo stato d’animo dell’Italia, colpita dalla violenza mafiosa è quello interpretato da Nino Caponnetto il 19 Luglio che, dopo aver incontrato la mamma di Borsellino, disse: “E’ finito tutto”. Come dire: è inutile non c’è più niente da fare. “La mafia ha vinto. Noi, lo Stato abbiamo perso.” Le parole di Caselli e Caponnetto, separate cronologicamente da pochi mesi , danno già la misura dell’elaborazione, della capacità di reagire. Lo stesso Caponnetto all’indomani della disparata dichiarazione si rivolgerà agli italiani, 70


superando quel mobilitazione.

momento

di

debolezza

e

incoraggiando

la

Mi hanno raccontato una storia, che è una storia di amore e coraggio. Si svolge a Torino nei giorni immediatamente successivi al 19 Luglio 1992. Ci sono due amici che si incontrano insieme ad altri. Ragionano sul da farsi, perché in quella situazione bisognava pur fare qualcosa. I due amici sono Luigi Ciotti e Gian Carlo Caselli, entrambi da lungo tempo impegnati per la giustizia in questo paese. Prendono corpo in quel confronto la determinazione di Gian Carlo a chiedere il trasferimento al tribunale di Palermo e la consapevolezza di che cosa avrebbe significato sul piano personale, famigliare e collettivo e di Luigi Ciotti nel fondare il giornale Narcomafie , un mensile di informazione, analisi e documentazione dedicata al narcotraffico e alla criminalità organizzata. Giovanni Falcone era stato chiaro nello scrivere: “si resta uccisi quando si rimane soli, quando si entra in un gioco troppo grande”. E per questo motivo che i due amici insieme a tanti altri, decidono di spendere le proprie energie e le proprie forze per combattere la mafia. Dopo due complessi anni di gestazione nasce anche Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie". Libera nasce il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera.

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La fine e l’inizio: Sangue Misto Nel 1995, l’hip hop rischia di scomparire dal panorama italiano, tranne che in un posto: Bologna. A Bologna il successo inaspettato di Stop al panico aveva posto le basi per creare l’avventura discografica della Century Vox. A Bologna ad un certo punto si era trasferito più o meno stabilmente anche dj Gruff, uno dei pionieri della scena, il più matto dei pionieri, il più geniale dei pionieri. Nel 1995, a Bologna nasce il miglior album hip hop di sempre: SXM dei Sangue Misto. In una scena ancora litigiosa come quella dell’hip hop italiano, SXM è l’unica cosa che mette d’accordo tutti. Nel momento in cui avveniva il passaggio da una fase morente (quelle delle posse) a una nascente (la cultura hip hop come forza autonoma nel produrre e veicolare il rap) c’è stata la congiunzione astrale ed energetica giusta, ed è nato il capolavoro assoluto. La parola adesso a Deda, membro sei Sangue Misto. 72


E quindi SXM… Ancora oggi continuo a incontrare gente in fissa per quel disco, incredibile. Con SXM abbiamo creato con il nostro rap dei modi di dire che sento ancora adesso usati in giro per l’Italia, e questa per me è una grandissima soddisfazione, sono molto affascinato dal linguaggio, dal modo in cui si crea e si struttura. In questo album credo abbia giocato un ruolo molto importante la nostra provenienza nei centri sociali, è li che siamo cresciuti. Al tempo stesso, SXM non era un album politico, o comunque non era solo politico: quel dogma ci aveva stufato, era il momento di trovare qualcosa di diverso. Poi sai, noi che provenivamo dall’Isola eravamo considerati dei gran fighetti, nella galassia dei centri sociali.

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A cosa vi siete ispirati? Anche li procedemmo molto disordinatamente. Per dire: il campione che sta alla base di “La porra” ce lo portò Gruff su una musicassetta non etichettata, e nemmeno lui sapeva bene cosa fosse. Solo molti anni più tardi ho scoperto, per caso, che si trattava di Pierre Henry. Comunque in generale nel disco c’è molta musica nera: parecchio Bitches Brew di Miles Davis, c’è del funk, ci sono gli O’jays. Robe italiane mi pare che non ce ne fossero, ma potrei sbagliarmi, perché in ogni caso abbiamo disseminato tutte le tracce del disco di piccole chicche.

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La tregua. Omaggi, tributi e riconoscimenti Con SXM sembra che il rap cerchi una tregua. Un momento di riconciliazione. In un mondo hip hop famoso per i dissing, gli insulti recapitati via rap, trovare un artista che usa un pezzo intero per omaggiare dei colleghi è cosa ara. Frankie HI-NRG nel suo LP d’esordio lo fece: Omaggio, Tributo, riconoscimento era infatti dedicata agli OTR (Originale Trasmissione del Ritmo), poi diventati Otierre.

Inizialmente un collettivo aperto che era arrivato a contare quasi una quindicina di elementi – poi via via assottigliatosi a quattro – aveva in Esa il leader carismatico ma sorridente, in Polare l’ mc sempre ammodo, in Vez il maestro dell’ingegneria del suono, in Vigor il dj. Accanto a loro a un certo punto era diventata una presenza costante (anche perché fidanzatasi con Esa) La Pina, milanese che per anni 75


aveva vissuto a Bologna e a Bologna si era fatta sedurre dall’energia dell’hip hop, diventando una delle prime mc di sesso femminile in Italia. In quegli anni, in cui c’era da ricostruire le fila del movimento hip hop, Esa fu la presenza sorridente, entusiasta, tecnicamente abilissima (davvero bravo come mc, anche in freestyle, e poi pure writer occasionale) e costante all’interno di ogni jam e di ogni evento hip hop. Mai aggressivi, sempre ben disposti, gli Otierre hanno rappresentato veramente l’energia positiva. 1996. Tutto cambia L'anno inizia all'insegna dell'ottimismo: finalmente l’ Italia inizia a respirare una boccata d'ossigeno grazie alla ripresa dell'economia, settore che aveva conosciuto una forte crisi negli ultimi anni. La situazione politica è ancora instabile. Con la crescita di Mediaset e la sua conseguente entrata in borsa, Silvio Berlusconi viene travolto da una serie di pesanti accuse sul presunto pagamento di tangenti alla Guardia di Finanza attraverso la Fininvest, la finanziaria di sua proprietà. Si parla inoltre di altrettanti presunti versamenti misteriosi su alcuni conti esteri di Bettino Craxi (ormai in esilio ad Hammamet dopo lo scandalo Tangentopoli). Nel 1996 Internet fa il suo ingresso nelle case e nelle aziende italiane. Molte di queste si dotano di siti commerciali atti a pubblicizzare i propri prodotti e servizi attraverso la rete. Internet cambia il mondo dell’informazione colpendo uno dei settori più importanti, quello dell'editoria: sono molti i quotidiani in perdita e quelli che registrano un forte calo nelle vendite. Alcuni di questi saranno costretti a chiudere la propria attività. In America, l’hip hop viene sconvolto dalla morte di Tupac Shakur. Il rapper più famoso al mondo, viene ucciso da un agguato a Las Vegas, il 13 settembre 1996, dopo aver assistito a un incontro di boxe del campione Mike Tyson. Aveva solo venticinque anni. Nella sua breve carriera pubblicò 24 album, toccando i temi della denuncia sociale e del razzismo, dell’abuso di alcool e droga e delle guerre tra gang di strada. Successi planetari come California love e "Ghetto Gospel" gli valsero prestigiosi riconoscimenti postumi, come l'inserimento, nel 2003, all'86° posto tra i "100 artisti immortali nel mondo della musica" da parte di Rolling Stone.

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Il rap verso la fine del millennio

Intermezzo. 1995-2000. Con la morte di Tupac Shakur, inizia per il rap un periodo di disorientamento chiamato “sindrome di fine millennio”. E questo sia in America che in Italia. Qui da noi, l’hip hop così come l’abbiamo conosciuto lentamente si sbriciola. Viene un brivido a pensare che un po’ di persone, oggi come oggi, in Neffa vedranno solo il cantante pop di classe in grado di sfornare singoli che restano melodicamente impressi nella mente. Destino bizzarro, per uno dei più grandi rapper che l’Italia abbia mai avuto. Articolo 31 idem, con la loro svolta pop rock. I Sottotono si sfaldano, poco dopo lo sfaldamento di Area Cronica (a Novara), e Tormento da solista non sfiorerà mai nemmeno lontanamente il successo di anni prima. Franki HI-NRG non solo fa più dischi con Ice One, ma intraprende un percorso verso il pop nei suoni e una linearità nei testi che lo porterà a dichiarare: “questo rap mi ha stufato, smetto!”

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1997. LA STRAGE DEGLI ALBANESI 28 Marzo 1997. E’ venerdì santo e una barca lunga venti metri naviga nel canale di Otranto. Sulla barca ci sono molti albanesi, che si avvicinano all’Italia per tentare la fortuna. Molti di loro hanno pagato 800 mila lire per il viaggio. Da sette-otto anni guardano la nostra televisione. Conoscono Alba Parietti, Mike Bongiorno e le merendine del mulino bianco. Sono quasi arrivati, ma di colpo vedono che una corvetta italiana, la “Sibilla” (90 metri di lunghezza) si avvicina pericolosamente. Una voce da un megafono urla “Pericolo! pericolo!”, ma non c’è niente da fare. La barca albanese si capovolge e precipita a 790 metri di profondità.

Muoiono circa in cento, i superstiti sono solo 34. Alessandro Greco, ventiduenne di Valona, è sulla barca. Si salva ma vede morire suo 78


figlio Cristi, di tre mesi. Disperato riesce a dire: ”Ci sono venuti contro all’improvviso, lo hanno fatto apposta”. Passa poco e in Puglia si precipita Silvio Berlusconi. Piange e in tv accusa d’insensibilità il governo italiano. Arriva anche Romano Prodi, promette ai superstiti il recupero dei corpi e della nave. Ma la polemica scoppia soprattutto per il blocco navale imposto dall’Italia già da una settimana. Berlusconi dice che non ne sapeva niente, Prodi replica che il leader di Forza Italia è un bugiardo perché aveva condiviso la linea del governo. Di fatto il 25 Marzo un articolo de giornale Repubblica a pagina 3 intitola: “Blocco navale per fermare gli albanesi”. Emma Bonino, commissario europeo per gli aiuti umanitari, grida l’allarme: “Nel nostro paese si assiste a rigurgiti di xenofobia. E questa psicosi viene alimentata dalla latitanza degli intellettuali, sia di destra che di sinistra”. Anche la chiesa reagisce. Domenica 31 Marzo papa Giovanni Paolo II durante la benedizione, suggerisce il blocco navale “vergognoso, inutile e dannoso”. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, commenta le lacrime di Berlusconi: “Non posso giudicarle, ma credo che su questi drammi non si debba recitare. Ma come si fa a piangere se prima si è contribuito a creare un clima di rifiuto per i profughi? Non si può andare a piangere, dopo averli cacciati”. Anche lui invita il governo a togliere il blocco navale. Poi conclude: “Questo è uno dei venerdì santi più vergognosi della storia, simile a quel venerdì di 2000 anni fa in cui Gesù Cristo fu sbeffeggiato e ucciso in croce”. 1998 La bellezza muore E come se non bastasse, la catastrofe. La notte del 5 Maggio una violenta alluvione nel Salernitano provoca una valanga di fango che, partendo da Pizzo d’Alvano, in poche ore travolge Sarno e i comuni limitrofi, causando 160 vittime, 137 nella sola Sarno. Centinaia di volontari accorrono per portare soccorsi e liberare il paese da 750 metri cubi di melma. Sono italiani, ma anche austriaci e ungheresi. Ritorna l’incubo del Vajont. Marco Paolini, “l’Omero del Vajont” afferma in un’intervista al giornale “Repubblica: “ finché un paese di montagna come l’Italia, continuerà a pensarsi e programmarsi come un paese di pianura, l'acqua dei fiumi continuerà a caderci addosso a tradimento. La montagna non è il nostro pittoresco, non il nostro passato, non il nostro svago. E' il settanta per cento dell'Italia, lo è sempre stato e lo sarà ancora per qualche era geologica. Viviamo in pendenza. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è”.

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1999. Alle porte del millennio Count down finale. Ci avviciniamo al 2000. Ecco in successione la cronaca di eventi: Il primo Gennaio 1999 si raggiunge un grande accordo. Il valore della moneta unica, l’euro, viene fissato a 1936,27 lire. Il passaggio all’euro sarà graduale fino alla sua definitiva adozione nel 2002. La lira italiana (così come il franco francese, il marco tedesco, la peseta spagnola) cessa di esistere. A ottenere l’entrata dell’euro è stato Romano Prodi. Battuto nell’ottobre del 1998 in un cruciale voto di fiducia, a causa dell’opposizione dei comunisti di Fausto Bertinotti, Prodi ha abbandonato la politica italiana ed è stato eletto a marzo di quest’anno presidente dell’ Unione Europea. L' 11 Gennaio 1999. Fabrizio De André, musicista e poeta genovese muore a 58 anni per un tumore ai polmoni. Figlio dell’amministratore delegato dell’ Eridania, ha scritto 15 album di canzoni ed è stato paragonato a Brassens, Brel, Prévert. I suoi funerali genovesi - nelle strade che sono state lo scenario delle sue canzoni - sono pubblici e affollati; ci sono ragazzi e signore in pelliccia, fiori, bandiere anarchiche e stemmi del Genoa Football Club.

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Una bella notizia 13 Gennaio 1999. Albako Paul Bernardi Wekouri del Burkina Faso, operaio alla Sev Zoppas Miane è il primo sindacalista africano eletto quasi all’unanimità dagli operai della sua fabbrica. Ha lasciato il suo paese nel 1987, dopo il colpo di Stato che ha ucciso Thomas Sankara, il giovane presidente che aveva creduto nell’Africa degli africani. Ha attraversato il deserto per raggiungere la Libia ed è rimasto solo con mezzo litro d’acqua. Senza soldi ha chiesto un passaggio a un libico alla guida di una jeep. Una volta varcato il confine è stato arrestato come clandestino e portato in un campo nel deserto insieme a centinaia di altri africani. Dopo mille lavori in Italia, si sposa con Kossia Kouamé, anche lei operaia della Sev, hanno un figlio di 4 anni, Eric. La Cisl che ha apprezzato la sua lotta contro lo sfruttamento degli immigrati in un dormitorio di Treviso, lo propone ai 600 operai della Sev (gruppo Zoppas, resistenze per elettrodomestici) e il 90% mette il suo nome sulla scheda, insieme ad altri dieci rappresentanti sindacali.

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20 Maggio 1999. Il professor Massimo D’Antona (51 anni, romano) viene ucciso alle 8.30 di mattina, mentre si reca a piedi al lavoro nello studio di via Salaria. Ritorna lo spettro delle Brigate Rosse. Le BR sono un' organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo. D’Antona è consulente del ministro del lavoro Antonio Bassolino e docente di Diritto del lavoro all’Università La Sapienza, oltre che amministratore delegato dell’ Enav fino al 1998. Due brigatisti, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, lo aspettano dentro un furgone Nissan. Scendono dalla vettura, lo chiamano, Galesi spara nove colpi con un’automatica calibro 9 x 19 senza silenziatore (il colpo di grazia al cuore), poi scappano in motorino. Poche ore dopo, arriva la rivendicazione: 14 pagine stilate nel gergo enigmatico delle Nuove Brigate Rosse e sormontate dalla stella a cinque punte. L’ultimo omicidio delle Br era avvenuto undici anni prima, vittima Roberto Ruffilli. Senatore democristiano ucciso nella sua casa a Forlì.

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2000. Ci sono mafiosi e mafiosi. 19 Gennaio. Il leader socialista ed ex presidente del consiglio Bettino Craxi muore per un infarto a 65 anni nella sua villa di Hammamet Tunisia, dove si era rifugiato da 6 anni. In una località imprecisa degli Stati Uniti, Il 2 Aprile, Tommaso Buscetta muore di cancro. Tommaso uomo d’onore di Cosa Nostra, considerato l’eroe dei due mondi e top narcotic man per il suo passato di narcotrafficante internazionale. Buscetta “disse quanto bastava” è passò alla storia come l’uomo che rivelò a Giovanni Falcone la struttura e i segreti di Cosa Nostra, permettendo così di mandarla a processo e di condannarla. Il 23 Luglio, muore anche Vittorio Mangano. Esponente dell’ala dura di Cosa Nostra palermitana. Mangano passa a casa gli ultimi, pochi giorni della sua vita, rilasciato dal carcere duro per un cancro terminale al fegato. Il 19 Luglio era stato condannato per il duplice omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovan Battista Romano, quest’ultimo considerato vittima della “lupara bianca” nel gennaio 1995. Nella sua lunga carriera criminale Vittorio Mangano è stato inviato a Milano, proposto da Marcello Dell’Utri come fattore della villa di Arcore di Silvio Berlusconi e da questo accettato; presta servizio in villa dal 1973 al 1976, diventando una specie di membro di famiglia; continua la sua attività a Milano come narcotrafficante; lascia la metropoli lombarda dopo il blitz di San Valentino del 1983 e diventa capo del mandamento di Porta Nuova a Palermo. Sia la sua morte, sia i suoi funerali passano inosservati; questi ultimi sono seguiti da pochissime persone. Sulla lapide c’è scritto: “Hai dato un valore alla storia degli uomini non barattando la dignità per la libertà. Hai dato un significato alla nostra vita vivendo con i tuoi insegnamenti i nostri cuori colmi dell’amore che ci hai donato e fieri della dignità lasciata.” Otto anni dopo, sia Marcello Dell’ Utri sia Silvio Berlusconi, “ormai culturalmente egemoni” in Italia, ne rivendicano “l’eroismo” per le stesse ragioni incise nel marmo: “Non parlò”. Ed ebbe anche il senso 83


della Storia degli uomini.

Intanto i motori della campagna elettorale si scaldano e tutti i segnali portano a prevedere una vittoria della destra. Silvio Berlusconi ha macinato parecchio, portando in piazza centinaia di migliaia di persone: ha indetto un “No-Tax Day”, contro l’insopportabile carico fiscale; un “No Crime Day” contro l’insopportabile ondata di rapine a ville e tabaccherie (tirandosi così l’alleanza con Umberto Bossi). Nel campo del centro sinistra il candidato premier è Francesco Rutelli, sindaco di Roma. Sarà il candidato premier con la speranza di prendere il voto del centro, o dei giovani. Non c’è partita. Stravince Berlusconi con la Casa delle libertà. Vota l’81,4 %, Forza Italia è il primo partito con quasi 11 milioni di voti e il 29,4 %. I Ds si fermano a poco più di 6 milioni di voti (16,6%). Il dato siciliano è il più clamoroso. 61 collegi su 61 vanno alla Casa delle Libertà.

2001. Il G8 e le Torri Gemelle 21 Luglio. Carlo, mi raccontano i suoi genitori, era un bambino “rodariano”, ovvero cresciuto con i racconti di Gianni Rodari. Era precoce, ed era stata sua sorella Elena a insegnarli a leggere e scrivere. Era un biondino, dai bellissimi capelli forti . Non era cresciuto in altezza. Al liceo scientifico aveva avuto un’ importante storia d’amore. La casa della famiglia Giuliani sta in alto, molto in alto. E’ “la casa della vita”, quella che si lascia ai figli : solida, in pietra. Vi si arriva all’ingresso attraverso rapidi 84


scalini, tre terrazzamenti di un piccolo orto. Pomodori, mentuccia, erba cipollina, lavanda, rosmarino, ulivi, limoni, basilico per il pesto, il tavolo bianco di plastica per mangiare fuori con gli amici. Si entra in casa lasciando le scarpe e infilando le pattine. Non si fuma. Scaffali di libri rivestono un lungo corridoio e due pareti del salotto, che ha un camino funzionante. I figli Elena e Carlo hanno le loro stanze, pre-Ikea. Adelaide Gaggio, sposata Giuliani, maestra a tempo pieno e ora in pensione, di famiglia svizzera, il pomeriggio di venerdì 21 Luglio sta nell’orto. E’ stupita perché i rumori che provengono dalla città di sotto sono diversi dal solito: al posto dell’usuale brusio che lassù arriva continuo e attenuato, sente solo i silenzi dell' assenza del traffico, rotti dai botti. Molti elicotteri sono in volo. Dalla zona di Corte Lambruschini si alza del fumo: sa benissimo quello che sta succedendo, è la battaglia contro il G8. La famiglia Giuliani si trova, in quel pomeriggio di Luglio, nella condizione di circa 1000 altre famiglie italiane: con una casa che ha messo su negli anni, con una storia lunga alle radici. E’ in apprensione per un figlio.

Per il G8 di Genova sono stati accreditati 4700 giornalisti, fotografi e operatori, la stragrande maggioranza dei quali non è intenzionata a seguire le cerimonie ufficiali, quanto piuttosto la piazza. Il cinema italiano (33 registi) è presente con l’imperativo di documentare. Il Genova Social Forum (finanziato con 3 miliardi dal governo Berlusconi) ha organizzato l’accoglienza dei manifestanti, un centro stampa e alcuni servizi 85


specifici (medici, infermieri e avvocati). Questi invece provvedimenti amministrativi messi in atto dal governo italiano per la gestione del G8 di Genova: 1) Viene stabilito che ci sarà una “zona rossa” dentro la quale sarà vietato l’accesso ai non residenti. 2) Viene stabilito l’impegno di 18mila uomini per la pubblica sicurezza. E’ il più ampio schieramento di polizia mai messo in campo in Italia. Comprende reparti di polizia, carabinieri, guardia di finanza, corpi scelti dell’esercito, guardia forestale. 3) Viene deciso l’uso di armi da fuoco, mentre accantonata la proposta di usare proiettili di gomma.

viene

E altri 13 ferree disposizioni. “Si aspetta Putin, che adesso arriva, eccolo. Putin scende da una mercedes, ha una grisaglia pallida con i pantaloni troppo lunghi. Berlusconi lo accoglie sulla soglia. Benvenuto presidente. Poi ancora un’ora, un’ora e un quarto di conversazione. Escono. In piazza ci sono i giornalisti dietro le transenne. Bruno Vespa si avvicina a Roberto Gasparotto, consigliere di Berlusconi, gli sussurra qualcosa, fanno qualche passo a braccetto. Berlusconi è ancora dentro. Lo raggiunge Paolo Bonaiuti, un tempo su portavoce, ora sottosegretario a Palazzo Chigi. “Presidente” gli dice “c’è il morto”.

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Il mio 11 Settembre. Vi racconto il mio 11 Settembre da una chat su kataweb. Chick: Beppe, ma non leggi? Beppe: Non sto leggendo, chick. Devo controllare una cosa… Beppe: Cazzo! Un aereo si è schiantato contro le Torri Gemelle a New York Andre86: Quando Beppe Moosh88: Beppe scherzi? Beppe: www.news.yahoo.com. Sulla rai stanno iniziando con l’edizione straordinaria Chick: Beppe, straparli. Come al solito Mosh 88: Beppe dimmi che non scherzi, se no vado in panico. Kri78: New York. Un aereo si è schiantato su World Trade Center. Alte fiamme si sono levate da entrambi i grattacieli all’altezza dell’87esimo piano, 88esimo piano. Il velivolo sarebbe un Boeing 737. Dopo una prima esplosione, un’altra ha praticamente mandato a fuoco la seconda torre. Wall Street è stata evacuata ed è sospesa. 87


Mosh88: Cazzo Kri...morti? Chick: Cazzo, io lo dico sempre che gli aerei non dovrebbero volare sulle città Andre86: Esatto Chick. Chick: odio gli aerei. Kri 78: New York - Due aerei si sono schiantati contro le torri gemelle del World Trade Center. La notizia è stata data dall’emittente televisiva Cnn. Dopo l’esplosione, nell’edifico sono scoppiati due distinti incendi: le immagini televisive mostrano infatti colonne di fumo nero che si alzano all’altezza dell’88esimo piano di una delle torri. Ma anche sull’altra sono divampate le fiamme. Non è chiara la dinamica della drammatica sciagura aerea: fra la prima e la seconda esplosione. Nibbio: Ciao raga! Apposto? Kri78: Fra la prima e la seconda esplosione sarebbero passati 18 minuti. Tra le prime ipotesi sulle cause del doppio incredibile incidente si fa strada quella di un attentato terroristico. L’ FBI sarebbe comunque già a lavoro per accertare come siano andate le cose. Spengo il computer. Accendo la tv. Mi sembra tutto un videogioco.

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2002. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro precario. A 51 anni, il professor Marco Biagi, bolognese, docente di Diritto e lavoro all’Università di Modena, è uno dei consulenti del ministro del lavoro Roberto Maroni. Benché il suo nome sia conosciuto praticamente solo dentro la cerchia dei giuslavoristi, il professore avverte intorno a sé una brutta aria: minacce telefoniche soprattutto. La richiesta di poter avere una scorta avanzata in ben cinque lettere all’autorità - non viene accolta. Spostamenti abitudinari: la bicicletta, il treno andata e ritorno per Modena, una vaga sensazione di essere seguito. Vaga ma tragicamente giusta: le Nuove Brigate Rosse, dopo aver già ucciso il professor Massimo D’Antona, che si occupava per il precedente governo degli stessi temi, hanno intenzione di ucciderlo e l’obiettivo non pare loro troppo difficile. Le proposte del governo hanno incontrato una vasta opposizione: si parla di formalizzare, in varie forme, il lavoro precario; di affidarlo a ditte di allocazione del lavoro temporaneo; è prevista anche 89


una deroga dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che è diventato legge nel 1970 sull’onda delle lotte operaie. Che cosa dice l’articolo 18? Esso stabilisce che gli assunti di un’azienda con più di 15 dipendenti “non possono essere licenziati senza giusta causa o giustificato motivo e se succede, se ne ordina il reintegro”.

Sulla base di questo articolo di legge, in trent’anni decine di migliaia di lavoratori licenziati si sono rivolti ai giudici, ottenendo il reintegro. Il nuovo piano del governo propone invece una deroga dell’articolo 18. Il lavoratore, nel caso fosse licenziato potrà avere un indennizzo, ma non potrà più essere 90


reintegrato anche con sentenza del giudice. L’opposizione dei sindacati è netta. La protezione contro il licenziamento senza giusta causa viene infatti giudicata un diritto fondamentale dei lavoratori, che altrimenti sarebbero in balia del potere del datore di lavoro. Hai scioperato? Ti licenzio. Hai distribuito volantini? Ti licenzio. Ti sei opposta alle mie molestie sessuali? Ti licenzio. L’aria comincia a farsi incandescente. Il professor Marco Biagi torna in treno da Modena. Toglie il lucchetto alla bicicletta che ha lasciato alla stazione e si avvia verso casa, in Valdonica 14, nel centro di Bologna. Li lo aspettano tre membri delle Nuove Brigate Rosse, che lo avevano seguito per mesi e lo uccidono sul portone di casa. Sono da poco le otto di sera: le foto mostrano la bicicletta del professore attorniata dai carabinieri del Ris in tuta bianca alla ricerca delle tracce più minuscole che possano portare gli autori dell’assassinio. Il ministro dell’Interno Claudio Scajola, dichiara subito: “E’ la stessa arma che uccise D’Antona”; un intervento televisivo quasi a reti unificate di Silvio Berlusconi afferma che “Marco Biagi è stato ucciso da una campagna d’odio”, con evidente riferimento alla manifestazione della Cgil. L’omicidio di Marco Biagi, accomunato da tutti i media a quello di Massimo D’Antona, viene visto come un ulteriore attacco al movimento sindacale.

2003. Le falsa guerra in Iraq New York. 6 Febbraio 2003. Il segretario di Stato americano Colin Powell annuncia alle nazioni che gli Usa hanno le prove della presenza di armi di distruzione di massa Baghdad. Estrae dalla giacca una misteriosa fialetta, annunciando che il veleno lì contenuto basterebbe alla distruzione di una città. Cinque giorni prima che l’ambasciatore alle Nazioni Unite John Negroponte scandisce poche parole per giustificare la necessità di un intervento immediato: “Perché l’Iraq nasconde l’acquisto di uranio in Nigeria?” e il presidente Bush aggiunge: “Il governo inglese ha appreso che Saddam Hussein ha recentemente cercato di acquisire significative quantità di uranio dall’Africa”. E’ tutto falso, come si sa. Colin Powell, cinque anni dopo, dichiarerà che quel giorno all’Onu fu la sua più grande umiliazione e che l’intelligence lo aveva ingannato. 20 Marzo. Inizia l’invasione via terra del Kuwait e il contemporaneo 91


bombardamento di Baghdad. Comincia la guerra irachena. Sarà la battaglia più lunga dalla Seconda Guerra mondiale.

Il governo italiano partecipa all’avventura irachena solo a partire dal 15 Luglio, quando vengono inviati circa 3200 soldati nel Sud del paese, soprattutto a Nassiriya, zona di importanti giacimenti petroliferi, con compiti di “peacekeeping” e di “ricostruzione”. Il 12 Novembre un camion cisterna pieno di esplosivo guidato da un kamikaze di Al-Qaeda fa esplodere il deposito munizioni della caserma maestrale. Muoiono 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari e 2 civili) e 9 iracheni. Cinque anni dopo gli ufficiali responsabili del posizionamento della santabarbara italiana - colposamente troppo esposta a causa del grande numero di vittime -sono rinviate a giudizio. 2004. Faccialibro Nasce ufficialmente Facebook. Il diciannovenne Mark Zuckerberg, studente di informatica al secondo anno, è da sempre affascinato dalla mole di informazioni, immagini e dati personali raccolta negli annuari che alcuni atenei americani destinano ai propri iscritti per aiutarli a socializzare. L'anno dopo cambia il dominio assumendo la versione definitiva facebook.com. La corsa al successo inizia da qui e più passa il tempo, più aumenta la sua portata. L'exploit si verifica tra settembre 2006 e settembre 2007, arco di tempo nel quale FB passa dal 60° al 7° posto nella classifica dei siti più visitati al 92


mondo. Amato e odiato, come il suo fondatore, Facebook è presente nella quotidianità di gran parte del pianeta e, forte delle 70 lingue in cui è disponibile, rappresenta uno dei mezzi di comunicazione più utilizzato da giovani e adulti. Un fenomeno sociale di portata eccezionale su cui si sono accesi i riflettori della tv e del cinema, producendo tra gli altri un film nel 2010, The Social Network, diretto da David Fincher.

2005 Forse resterà, per l’eternità su Youtube. Con lo slogan «Brodcast yourself», "trasmetti te stesso", fa il suo esordio sul web YouTube, uno dei primi siti di video sharing che in pochi anni arriva a meritarsi la fama di TV del terzo millennio. Come per altre imprese legate al web, tutto ha inizio in un garage di San Francisco. E' qui il quartier generale di tre dipendenti di PayPal, impegnati nella messa a punto di un nuovo sito che consenta di caricare velocemente un video, prodotto con la propria videocamera digitale, e condividerlo con tutto il mondo. La tecnologia Adobe Flash viene incontro alle attese di Chad Hurley, Jawed Karim e Steve Chen che acquistano il dominio www.youtube.com e martedì, 15 febbraio del 2005, lo mettono online. Il salto di qualità sul piano economico avviene con l'acquisizione da parte di Google (già in voga dal 1997) nel 2006, all'esorbitante cifra di 1,65 miliardi di dollari. Nello stesso anno YouTube comincia ad affrontare in maniera più incisiva quello che costituirà il suo perenne cruccio: la violazione di copyright. A dispetto dello slogan del portale 93


che invita a postare video realizzati in prima persona, in molti caricano spezzoni o intere parti di programmi, film e cartoni animati, violando la normativa sul diritto d'autore. Il 2007 segna l'attivazione delle versioni in altre lingue, tra cui l'italiano. Secondo le stime piÚ recenti, YouTube supera i tre miliardi di visualizzazioni al giorno, il che lo rende il terzo sito piÚ visitato al mondo dopo Google e Facebook. Il primo video a superare il miliardo di visualizzazioni è Gangam Style del rapper coreano PSY, nel dicembre 2012, che nel maggio del 2014 raggiunge la soglia dei 2 miliardi.

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2006. La calciopoli di Luciano Moggi e la Gomorra di Saviano E’ il 2 Maggio 2006. Non è ancora finito il campionato italiano, ma c’è attesa soprattutto per i Mondiali che, ogni quattro anni, riuniscono tutto il paese. Ma verso sera le tv danno la notizia: la Federcalcio sta indagando su un dossier arbitri. Sembra che, almeno per due stagioni, Luciano Moggi, dirigente della Juventus, abbia lavorato con i designatori Pierluigi Pairetto e Paolo Bergamo per assegnare gli arbitraggi della settimana. La Juventus è la squadra con il maggior numero di tifosi in Italia, circa uno su quattro. Gli altri tre pensano da sempre che vinca perché ruba i risultati. Moggi è uno dei personaggi più popolari del mondo del calcio. Detto “er paletta” perché da giovane faceva il ferroviere, o “Lucky Luciano”, perché sospettato di gangsterismo sportivo, ha girato per parecchi squadre prima di approdare alla Juventus. Si dice che Gianni Agnelli lo chiamasse “il nostro stalliere”, con evidente riferimento a quello di Berlusconi. Ma sotto accusa non c’è solo la Juventus, imputata con Moggi e Antonio Giraudo, c’è il patron della Fiorentina Diego Della Valle, quello della Lazio Claudio Lotito, che in tv parla sempre di onestà, quello della Reggina Lillo Foti. Ci sono poi Leonardo Meani, addetto agli arbitri del Milan, più arbitri come Paolo Dondarini, Paolo Bertini, Domenico Messina, Gianluca Rocchi, Paolo Tagliavento, Pasquale Rodomonti. Sono coinvolti tutti, anche i giornalisti Aldo Biscardi, che al su Processo rimprovera sempre le ingiustizie arbitrali, Tony Damascelli, Franco Melli, Lamberto Sposini, Guido D’Ubaldo, Ignazio Scardina, Ciro Venerato. C’è di mezzo anche la Gea World - società che gestisce calciatori - accusata di essere un’ associazione a delinquere: viene accusato tra gli altri anche Davide Lippi, il figlio di Marcello, che tra un mese guiderà la nazionale ai Mondiali. Nei giorni di Maggio le voci si inseguono. I giornali parlano di “Calciopoli”, “Sistema Moggi”, “Moggiopoli”. E’ una rete di illeciti che abbraccia non solo tutto il calcio ma tutto il paese. Si scopre una telefonata del ministro dell’Interno Beppe Pisanu a Moggi: chiede che la Torres, che gioca in serie C1, vinca finalmente anche fuori casa. Qualche giorno dopo il presidente della Torres Rinaldo Carta chiama Moggi e lo ringrazia: “Erano due anni che non vincevamo in trasferta”. Emerge che Moggi, ha perfino rinchiuso nello 95


spogliatoio l’arbitro Gianluca Paparesta, dopo RegginaJuventus, dove aveva concesso un rigore ai calabresi. Insomma è crollato il mondo. Non c’è più religione, nemmeno quella che nel nostro paese aveva più seguaci del cattolicesimo.

Ci sono i mondiali? “Anche li è uno schifo” dice la gente. Lippi viene accusato di ascoltare, per le convocazioni, i “consigli” di Moggi: cioè convocare i giocatori sotto il dominio Gea. Il più forte portiere del mondo, Gianluigi Buffon, viene accusato di fare scommesse sulle partite. Come nel 1982, la Nazionale italiana partecipa ai Mondiali fresca di scandali. Ma si fa strada fino alla finale del 9 Luglio. Luca Toni, Andrea Pirlo, il capitano Fabio Cannavaro, Rino Gattuso, Marco Materazzi e il portiere Buffon sono i suoi uomini più rappresentativi. Il 9 Luglio si gioca la finale Italia-Francia all’ Olympia-stadio di Berlino. Segna per prima la Francia, con un rigore al 7° messo a segno con un cucchiaio da Zidane, l’algerino marsigliese considerato il miglior giocatore del mondo. Pareggia il terzino italiano Marco Materazzi al 19° del primo tempo. Poi la partita resta ferma per tutto il secondo tempo, con grandi parate di Buffon davanti agli attacchi di Zidane e Thierry Henri, il martinicano che non sorride mai. Al 3° del secondo tempo supplementare le televisioni inquadrano un fatto inaudito: Zidane colpisce a gioco fermo, con una testata al petto, marco Materazzi e viene espulso. I tempi supplementari finiscono in parità, i mondiali si decidono ai rigori. Per la Francia, l’errore fatale è di David 96


Trezeguet, il gol della vittoria dell’Italia e del terzino Fabio Grosso, 24 anni dopo la vittoria di Madrid, l’Italia è di nuovo campione del mondo. Calciopoli per un attimo viene come cancellata. Un ricordo lontano. Ma la giustizia sportiva è tutto sommato rapida. Il 27 Ottobre, questa è la sentenza definitiva: Juventus: confermata la retrocessione in B con 9 punti di penalizzazione da scontare nel 2006/2007 (invece dei 17 imposti dalla sentenza di 2° grado) Fiorentina: 30 punti di penalizzazione da scontare nel campionato 2005-2006 (confermati); 15 punti di penalizzazione da scontare in serie A nel 2006-2007 (invece degli 11 precedenti) Milan: 30 punti di penalizzazione da scontare nel campionato 2005-2006; conferma degli 8 punti di penalizzazione da scontare in serie A nel 2006-2007 Claudio Lotito (28 Novembre 2006): 4 mesi (contro i 2 anni e 6 mesi nella sentenza della Corte Federale) Adriano Galliani (21 dicembre 2006): 5 mesi (contro i 9 nella sentenza della Corte Federale) Luciano Moggi (13 Marzo 2007): 8 mesi (contro i 3 anni e 9 mesi nella sentenza della Corte Federale) Andrea Della Valle (27 Marzo 2007): 1 anno e 1 mese (contro i 3 anni nella sentenza della Corte Federale) Saranno coinvolti poi, nel secondo filone d’ indagini, anche Reggina (11 punti di penalizzazione e 100mila euro di ammenda) e Arezzo (6 punti di penalizzazione). 1 anno e 1 mese a Pasquale Foti, 2 anni a Gennaro Mazzei, dell’ associazione italiana arbitri.

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Roberto Saviano è un giornalista napoletano di appena 27 anni con la passione e il talento per le inchieste e una forte personalità letteraria. Pubblica per Mondadori il libro Gomorra, con una copertina in cui si stagliano su fondo nero sei minacciosi coltelli rosa. Il sottotitolo dice: Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra. Saviano gira in motorino, segue processi dimenticati da tutti, frequenta i grandi quartieri dello spaccio di droga, scarica container nel porto di Napoli, vive con gli immigrati cinesi, ricostruisce la filiera clandestina della moda italiana, conta i morti sull’asfalto. Il libro che presenta è uno shock: a partire dal piccolo paese di Casal di Principe, in provincia di Caserta, segue i destini e gli affari della banda camorristica locale, per scoprirne l’insospettata potenza economica e la normalità della ferocia. E’ il ritratto di un pezzo d’Italia che nessuno aveva mai fatto prima. Saviano viene immediatamente minacciato di morte e costretto a vivere sotto pressante scorta dalla polizia. Per lui e la sua libertà si mobilitano scrittori e premi Nobel. Il libro venderà più di un milione di copie, verrà tradotto in tutto il mondo e sarà la base per il crudissimo, tragico film omonimo. Ma la sua denuncia muove poco per quanto riguarda il mondo politico, la cui moralità dovrebbe essere l’antidoto al crimine.

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2006. L' Italia balla decadence. Esce il singolo di J-ax Deca-dance. Si balla la decadenza italiana. Ancora adesso si discute sulle cause che portarono alla caduta dell’impero romano. Si era allargato troppo? Un sottile veleno lo aveva consumato dall’interno? E da decenni che si sostiene che l’Italia, prima di avere un Piave, deve passare da una Caporetto. Questo sarà l’argomento delle nostre discussioni future, chissà per quanti anni ancora. Quindi non rimane che mettere insieme alcuni fatti, alcuni sintomi 99


osservati negli anni che arrivano fino a noi.

Cocaina. E’ il prodotto di maggior successo venduto in Italia. Illegale, coltivata in Colombia e distribuita qui dalla quasi monopolista Ndrangheta calabrese, il suo consumo è lievitato più di qualsiasi altro. Il ministro dell’Interno Giuliano Amato si dice impressionato da dati che riceve: “C’è un consumo gigantesco di cocaina. C’è una spaventosa domanda di droga”. La usano due milioni di italiani che spendono per questa loro abitudine continuativa o saltuaria- quattro miliardi di euro l’anno. “Se c’è una domanda che viene dalle famiglie, dagli italiani adulti, dai giovani, non potete poi chiedere alla forze dell’ordine di contrastarne il traffico”. La cocaina viene trovata ovunque: nelle acque del Po, nelle banconote che arrotolate, servono per sniffare, sugli specchietti retrovisori delle motorette di Genova, sui lavandini dell’autogrill delle autostrade dove i camionisti si fermano. I giornalisti delle iene la trovano anche in parlamento. I giornali pubblicano mappe dettagliate dei punti di spaccio e l’andamento del mercato: il prezzo della coca continua diminuire ed è arrivato a soli 30-40 euro al grammo, dai 100 dell’anno precedente. Secondo Saviano “ la cocaina è diventata il vero miracolo del capitalismo contemporaneo. L’azienda coca è sena dubbio alcuno il businness più redditizio d’Italia. La prima impresa italiana, l’impresa con maggiori rapporti internazionali. Può contare su un aumento del 20 % di consumatori, incrementi impensabili per qualsiasi altro prodotto. Solo con la coca i clan fatturano 60 volte la Fiat e 100 volte Benetton”. Purtroppo i dati macroeconomici non 100


suscitano particolare interesse, né nei cultori della materia, né tra gli studiosi della finanza, né nel governo che, a parte la dichiarazione di impotenza del ministro Amato, non ne fa cenno. Eppure il calcolo è abbastanza semplice. Questi due milioni di consumatori di cocaina pagano regolarmente in contanti, quindi in un anno ci sono quattro miliardi di euro contanti che girano. Dove vanno? Vengono “lavati”, certo; molti saranno usati per spese correnti, molti andranno all’estero, ma moltissimi restano in Italia a costruire le fortune economiche della patria del futuro. Cantieri, negozi, case, partecipazioni in Borsa, campi da golf , residence. Ma è soprattutto l’enorme massa di denaro liquido ed esentasse che fa girare l’economia italiana, la plasma e guida la trasformazione della sua classe dirigente. Ndrangheta al nord. Chi ha in mano il mercato della cocaina? La locomotiva del Nord. La Ndrangheta. Un organizzazione criminale internazionale su base familiare di origine calabrese. Nel rapporto Eurispes del 2007 la ndrangheta risulta avere un giro d’affari di 43,8 miliardi. Il core businness resta la cocaina, ma la mafia calabrese è molto presente nell’impresa e negli appalti pubblici, nella prostituzione, nell’estorsione e nell’usura e nel traffico delle armi. Gli esperti della Direzione nazionale antimafia parlano ormai di una “terza generazione” di criminalità mafiosa e tutti concordano sul ruolo prevalente di Milano e della Lombardia nella destinazione degli investimenti. A Duisburg c'è uno dei migliori ristoranti italiani, Da Bruno. “Da Bruno si mangia benissimo e il servizio è ottimo”. Cucina raffinata, servizio scrupoloso, gentile, ma molto discreto. Atmosfera buona, tempi di attesa brevi. Alle pareti ci sono le foto e gli autografi di Marcello Lippi e dei nostri calciatori campioni del mondo. E’ il 14 Agosto. Il padrone del locale e quattro dipendenti hanno riassettato le sale e ora si siedono per una riunione provata. C’è anche un uomo venuto da San Luca, un commerciante d’armi. Si tratta dell’affiliazione di un nuovo adepto della ‘ndrangheta, un cerimoniale simile a quello di Cosa Nostra, con la santina che brucia sul palmo della mano e la formula: “Possa io bruciare come questa santina, se tradirò”. Ma la festicciola ha un finale tragico. Quando i sei escono, un commando di killer mette in atto la più spettacolare carneficina della malavita organizzata italiana in Europa: 101


mitragliette Uzi, timing perfetto, colpo alla nuca per tutti e sei, fuga nella notte. La mattina dopo, una pietosa mano (forse una avventore) pone un cartello: WARUM? (“Perché?”). Altri depositano i fiori. Le prime indagini ricordano che il locale era segnato già da sette anni come base logistica della ndrangheta, centrale operativa di traffico di droga, armi ed euro falsificati. Due dei sei ammazzati risultano essere i giovani figli di uno stimatissimo poliziotto antimafia in pensione di Sidereo. Sono aiuto cuochi. Inquadramento della strage: un’azione volutamente sfacciata e “mondiale” del gruppo NirtaStrangio contro il gruppo Pelle-Vottari. I primi hanno bruciato la base dei loro avversari in Germania.

L'inferno della classe operaia. Sono quasi l’una. E’ il 6 Dicembre 2007. La linea 5 dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino prende fuoco. In pochi istanti si scatena l’inferno. Muoiono sette operai: il primo sul colpo, l’ultimo dopo ventiquattro giorni di agonia. La proprietà ha risparmiato sulle misure di sicurezza dato che l’impianto è in dismissione. E’ la più grave strage sul lavoro mai avvenuta in un impianto industriale. E’ una tragedia che risveglia d’improvviso la città dal sogno dei successi olimpici e che tocca 102


l’Italia del lavoro, dove le “morti bianche” hanno smesso da tempo di fare notizia. Potrebbe venire la tentazione di raccontare l’incidente come il complotto di un fato cinico, che si diverte, per esempio a incrociare il destino del giovane operaio che quella notte festeggia l’assunzione con quello del veterano che conta sulle dita delle mani i giorni che mancano alla pensione. Ma non è così: quella tragedia non è stata una disgrazia. E’ figlia della ricerca del profitto ad ogni costo, dello sgretolamento del tessuto produttivo, di una burocrazia ottusa e inutile, di leggi sulla sicurezza tanto buone sulla carta quanto ignorate nella quotidianità. Ed è in qualche modo figlia della fine del concetto di fabbrica e classe operaia, almeno come la si intendeva un tempo. Programmi razzisti e scuole che cadono. A meno di due anni dalla sua formazione, cade il secondo governo presieduto da Romano Prodi. Per il professore bolognese, che per due volte ha battuto Silvio Berlusconi e ha ricoperto la carica di commissario europeo, è l’addio alla politica. Il panorama politico si è semplificato: da una parte il popolo delle libertà, formatosi per decisione improvvisa di Silvio Berlusconi, dentro il quale è confluito Alleanza Nazionale (la Lega Nord è alleata, ma autonoma). Dall’altra il Partito Democratico di Walter Veltroni che ha stretto alleanza elettorale solo con l’ Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Il voto del 13-14 Aprile riserva poche sorprese. Vince la coalizione tra Pdl e Lega Nord. Il nuovo governo vara una serie di norme per la sicurezza dei cittadini: militari in pattuglia nelle città, leggi antimmigrazione; a Napoli sospensione dei diritti civili nei luoghi deputati a ospitare nuove discariche sui rifiuti; leggi e normative anti-rom. Tra queste, particolarmente odiosa la proposta (alla fine non attuata, per le proteste di Chiesa e Unione Europea) di prendere le impronte digitali addirittura ai neonati rom. Un’altra legge (fortemente voluta dalla Lega) prevede la formazione di “ronde” (con tanto di divisa, mezzi di trasporto e di comunicazione) per il pattugliamento del territorio in funzione anticrimine. Ed ecco che succede a Ponticelli, prima periferia di Napoli. Cittadini napoletani danno l’assalto a un campo rom: le loro baracche vengono prima devastate poi bruciate. I rom si danno a una fuga precipitosa, la Rai è presente e trasmette le immagini di donne rom inseguite dagli sputi delle donne napoletane. La versione 103


ufficiale è questa: indignazione di un quartiere napoletano per il tentato rapimento di un bambino messo in atto da una ragazza zingara. In realtà era vero che gli inquilini della palazzina che diedero vita al pogrom da giorni si riunivano per organizzare lo sgombero del campo rom.

Segue Milano. Domenica mattina, ore 6. Tre ragazzi hanno passato la notte in un locale di Corso Lodi con i mezzi pubblici sono arrivati in stazione Centrale. Camminano in via Zuretti, il bar Shining sta chiudendo le saracinesche, i tre entrano. Il proprietario, Fausto Cristofoli, li vede rubare un merendina dal bancone. I tre scappano. Cristofoli chiama il figlio Daniele e insieme prendono il loro furgone e li vanno a cercare. Li trovano, i due Cristofoli scendono urlando “sporchi negri, vi ammazziamo tutti”. Sono armati di spranghe. John K., ventunenne del Ruanda e Samir R. nato a Reggio Calabria, riescono a fuggire. Abdul Salm Guibre 19 anni, inciampa e resta sull’asfalto per alcuni secondi fatali. I Cristofoli lo finiscono a colpi di spranga e si allontanano sul furgone. Poche ore dopo, grazie alla testimonianza dei due sopravvissuti, vengono fermati e accusati di omicidio. Abdul Salam Guibre, 104


detto Abba, era un bellissimo ragazzo arrivato bambino a Milano con la famiglia, dal Burkina Faso. Abitava a Cernusco sul Naviglio. Al funerale di Abba ci sono più di 600 persone. Gli amici di Abba, scesi dalla casa popolare portano tre mazzi di fiori nel cellophane davanti un murales. Sono una trentina. Le ragazze sono vestite con stivali e jeans attillati, sfoggiano stupende chiome di riccioli neri brillanti; i ragazzi sono in felpa, giubbotto, tuta o giacca nera da cerimonia. Improvvisamente Cernusco sembra una piccola Brooklin. Tom, Frank, John, Jackson, Prince hanno fisici e volti familiari per chi guarda la televisione: uno ha la statura, le spalle e l’andatura di Barack Obama, uno mima il gesto di vittoria di Bolt, il giamaicano che ha vinto 200 metri alle Olimpiadi, due o tre ricordano Le Roy di Saranno Famosi, uno ha la maglietta con la scritta 100% negro. Si mettono in posa per le televisioni e per i fotografi. In una Milano che vanta 1628 centri estetici, 437 centri benessere e 260 palestre, sembrano gli unici a non averne bisogno. E ancora Castelvolturno. Gli attacchi razzisti continuano. Il 18 Settembre, verso le 21, la camorra passa alla strage. Un commando di cinque uomini appartenenti al Clan dei Casalesi (quelli del libro di Saviano), in divisa da poliziotti, entra in azione contro un ex affiliato, Antonio Celiento: per lui sessanta proiettili all’ingresso della sua sala giochi, in località Baia Verde. Venti minuti dopo, sulla statale Domiziana si presenta di fronte alla Ob Ob Exotic Fashion, una sartoria gestita da un immigrato ghanese. Il commando spara almeno trenta secondi consecutivi, con kalashnikov, mitragliatrici calibro 9 parabellum e pistole semiautomatiche: restano sul terreno sei corpi. Gravemente ferito alle gambe e all’addome si finge morto, ma vede tutto il ghanese Joseph Ayimbora: riconosce nelle foto segnaletiche i membri del gruppo di fuoco comandato da Giuseppe Setola, latitante, a capo dell’ala stragista del clan.

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Kwame Antwi Julius Francis: ghanese di trentun’anni, era riuscito ad arrivare in Italia attraversando il deserto del Niger e poi la Libia. Da cinque anni a Castel Volturno, lavorava come muratore e seguiva un corso professionale per saldatori. Abitava sopra la sartoria ed era sceso perchĂŠ il suo amico Eric gli aveva suonato il clacson. Affun Yeoba Eric: ghanese, in Italia da cinque anni, da poco a Castel Volturno, carrozziere. I proiettili lo hanno inchiodato al sedile di guida della sua auto, con ancora la cintura allacciata. Samuel Kwako veniva dal togo, lavorava come muratore e nelle campagne. Togolese anche El Hadji Ababa: in Italia da cinque anni. Gestiva la sartoria Ob Ob Exotic Fashion. Il suo corpo è stato ritrovato senza vita accasciato sulla macchine per cucire; quella sera stava terminando di lavorare per poi consumare il pasto serale del periodo di Ramadan, insieme a due amici che lo avevano raggiunto. James Alex era il terzo togolese, venedeva i vestiti della Ob ob Fashion. Cristopher Adams: aveva 28 anni ed era ghanese. Era in Italia dal 2002 e aveva ottenuto il permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Adams faceva il barbiere a Napoli, in piazza Garibaldi. La sera della strage era andato nella sartoria per un saluto agli amici. Quattro delle sei vittime erano cristiani, due musulmani. Le salme, in attesa di un rimpatrio 106


difficoltoso, rimangono per diverse settimane nell’obitorio di Santa Maria Capua Vetere. Il 19 Settembre è rivolta. Gli immigrati africani sono i primi a ribellarsi al potere della camorra in questi paese. Migliaia di loro, lavoratori nei campi in condizioni di semi schiavitù, operai in nero dei cantieri edili, disoccupati clandestini occupano la via Domiziana, di cui percorrono i dieci chilometri verso Caserta: sul loro percorso rovesciano e incendiano i cassonetti dell’immondizia, auto parcheggiate, vetrine di negozi e due autobus comunali. Solo la sera, il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo (un ex magistrato che guida una giunta di centro di centrosinistra) e il prefetto di Caserta riescono a trattare con gli esponenti della comunità africana. Il 20 Settembre il ministro degli Interni Maroni invia nella zona 400 agenti speciali e investigatori. I paracadutisti della folgore presidiano bivi e quadrivi nei paesi di Gomorra.

Miriam Makeb, 76 anni, sudafricana, la favolosa Mama Africa, è a Castel Volturno per cantare in un concerto collettivo contro la camorra e il razzismo, in ricordo degli africani uccisi due mesi fa. Ma dopo mezz’ora di performance, la stella internazionale si accascia sul palco. Trasportata alla clinica Pineta Grande, muore per gli effetti di una crisi cardiaca. Nelson Mandela, suo compagno politico, la ricorda con passione: “Giusto così, giusto che negli ultimi momenti di vita 107


di Miriam, siano passati sul palcoscenico. Le sue melodie hanno dato voce al dolore dell’esilio che provò per 31 lunghi anni e, allo stesso tempo, la sua musica effondeva un profondo senso di speranza”. Non si può morire di scuola. Rivoli. 22 Novembre ore 9.45. Un ragazzo chiude la porta della classe per andare in bagno. Vuoto pneumatico. Crolla improvvisamente il controsoffitto. Muore uno studente di di 17 anni, Vito Scafidi, altri due rimangono gravemente feriti. Vito avrebbe compiuto 18 anni il prossimo agosto. Frequentava la 4 G del liceo. I genitori di Vito raggiungono immediatamente la scuola. «Non si può morire così, non si può morire a 17 anni»: è un urlo di dolore. La mamma di un ferito «Non è possibile che succedano cose così a scuola, ci vogliono dei controlli, Andrea mi diceva sempre che si staccavano i pezzi dai muri e dagli stipiti. Perché devono succedere cose del genere», è la mamma di uno dei ragazzi più gravi a parlare. Il ragazzo ha riportato una frattura vertebrale che avrebbe coinvolto anche il midollo. «La nostra paura è che possa rimanere paralizzato» dice in lacrime il padre. Il giovane ha riportato la frattura e la lussazione della terza vertebra lombare con lesione del midollo spinale. Obiettivo dell'intervento è togliere l'osso che comprime il midollo. I medici hanno confermato che il rischio di una paralisi completa è concreto ma per capire se ci sarà il recupero della mobilità bisognerà aspettare da alcune settimane a sei mesi. A Federica è stata diagnosticata una prognosi di 60-90 giorni per fratture alla prima vertebra ma senza lesione del midollo. Cinzia P. ha invece contusioni e una trauma cranico lieve. Tutti e tre i ragazzi sono sotto choc post traumatico ma sanno che un loro compagno è morto. Di lui tuttavia non riescono a parlare. Un insegnante: ho visto la polvere uscire dall'aula «È successo nell'intervallo. Stavo per rientrare in aula quando ho visto la polvere che usciva dall'aula». È il drammatico racconto di uno dei testimoni della tragedia. È l'insegnante di Italiano della classe in cui è avvenuto il crollo. «C' era panico e confusione - ha aggiunto - è stato terribile». Cedimento strutturale. I vigili del fuoco hanno ipotizzato un cedimento strutturale e non il vento o il maltempo come cause del cedimento. C'è anche chi ha parlato di scricchiolii avvertiti prima del crollo. Al vaglio degli inquirenti l'ipotesi che sia stato il cedimento di un tubo di ghisa, tra il soffitto e la controsoffittatura, a causare la tragedia. 108


Il sindaco: una morte bianca «La tragedia di oggi è una morte bianca»: è il primo commento a caldo del sindaco di Rivoli, Guido Tallone. «Non si risparmia sulla sicurezza nelle scuole - aggiunge - bisogna mettere da parte le tante inutili parole che sono state fatte ultimamente sulla scuola»

2009. Aquila chiama Italia Alle ore 3.30 circa del 6 aprile un terremoto di magnitudo 6,3 scuote violentemente l’Aquila, le sue frazioni e i suoi comuni limitrofi. si contano 309 morti, oltre 1600 feriti e 65 mila sfollati. Il centro storico della capitale abruzzese è ridotto in macerie; crolla la casa dello studente seppellendo otto ragazzi. Lesionato e inagibile l’ospedale appena ultimato. Raso al suolo, e praticamente sterminato, lo storico paese di Onna. Nel primo pomeriggio Gagliardi Pierfrancesco esorta il cognato Francesco Maria Piscicelli a prendere contatti con i suoi referenti presso gli uffici di via della Ferratella per approfittare dell’emergenza terremoto per partire rapidamente con dei lavori. Piscicelli: Si. 109


Gagliardi: Oh ma alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogno partire in quarta subito...non è che c’è un terremoto al giorno. Piscicelli: No, lo so (ride) Gagliardi: Così per dire, per carità… Poveracci Piscicelli: Vabbuò. Ciao. Gagliardi: O no? Piscicelli: E certo. Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto. Gagliardi: Io pure. Vabbuò. Ciao Gagliardi e Piscicelli sono due imprenditori legati al sistema degli appalti pubblici. Piscicelli sente la scossa dalla sua casa a Roma, ma ne comprende immediatamente il risvolto economico abruzzese.

Uno stato di polizia? La notte del 25 Settembre di quattro anni fa, all’ippodromo di Ferrara, viene trovato riverso a terra Federico Aldrovandi, 18 110


anni, per “arresto cardiorespiratorio e trauma cranico facciale”. Le immagini del giovane in giubbotto di jeans, circondata dal sangue, senza vita potrebbero fare il giro del mondo, ma non lo fanno abbastanza. Secondo una prima perizia medico legale le cause della morte risiedono in “un’insufficienza mio cardiaca contrattile acuta, conseguente all’assunzione di eroina, ketamina ed alcool” ma da un’indagine risulterà che l’assunzione di droga e alcol non è sufficiente a causare un arresto respiratorio. Il 15 Marzo 2006 quattro agenti che avevano arrestato Aldrovandi vengono iscritti nel registro degli indagati. Il 6 Luglio 2009 arriva la condanna: tre anni e sei mesi per gli agenti Paolo Frolani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Non li sconteranno; c’è l’indulto. Non saranno radiati dalla polizia.

2010 I nuovi schiavi L’anno si apre il 7 Gennaio con le notizie che arrivano da Rosarno, grosso paese nella pina di Gioia Tauro, in Calabria. Secondo il Corriere della Sera: “Centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull'asfalto, 111


ringhiere di abitazioni danneggiate. Scene di guerriglia urbana a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro, per la rivolta di alcune centinaia di lavoratori extracomunitari impegnati in agricoltura e accampati in condizioni inumane in una vecchia fabbrica in disuso e in un'altra struttura abbandonata. A fare scoppiare la protesta il ferimento da parte di persone non identificate di due extracomunitari con un'arma ad aria compressa e pallini da caccia. I feriti, tra i quali c'è anche un rifugiato politico del Togo con regolare permesso di soggiorno, non destano particolari preoccupazione, ma la volontà di reagire che probabilmente covava da tempo nella colonia di lavoratori ammassati nella struttura di Rosarno in condizioni ai limiti del sopportabile, e di altri nelle stesse condizioni a Gioia Tauro in locali dell'Ex Opera Sila, era pronta a esplodere. In totale circa 1.500 extracomunitari, tutti impiegati nella raccolta degli agrumi e degli ortaggi. Armati di spranghe e bastoni, gli extracomunitari, in gran parte provenienti dall'Africa, hanno attraversato la cittadina distruggendo centinaia di auto, in qualche caso anche con persone a bordo (le schegge dei vetri hanno ferito all’orecchio destro un bambino, che si trovava in auto con i genitori. Il bimbo è stato medicato e subito dimesso), abitazioni, vasi e cassonetti dell'immondizia. Questo nonostante l'intervento di polizia e carabinieri schierati in assetto antisommossa davanti ai più agguerriti, un centinaio di persone tenute sotto stretto controllo. Nel corso della serata sono arrivati rinforzi e, in un clima di forte tensione, si è intavolata una trattativa nel tentativo di fare rientrare la protesta. Ma poi la tensione è tornata a salire: polizia e carabinieri hanno fatto una carica di alleggerimento e alcune persone, cinque o sei, sono state fermate. Alcuni immigrati sono rimasti contusi in un contatto con le forze dell'ordine dopo che dal gruppo di stranieri era partita una sassaiola. I feriti sono stati portati in ospedale a Polistena. Anche un gruppo di giovani di Rosarno, un centinaio, è sceso in strada per seguire la situazione. Sul posto è arrivato il commissario prefettizio Francesco Bagnato che regge il Comune dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose avvenuto alla fine del 2008. Erano stati gli immigrati a chiedere di parlare con Bagnato. Dopo la fine della protesta, la tensione non è scesa e alcuni stranieri hanno organizzato un'altra manifestazione 112


sulla strada statale 18 a Gioia Tauro, al confine con il territorio di Rosarno. Hanno bloccato un'auto con a bordo una donna e i due figli. La donna è stata colpita alla testa ed ha riportato una ferita lacero contusa e costretta a scendere insieme ai figli. Quindi la vettura è stata incendiata. Lungo la strada sono stati accesi dei focolai. La zona è presidiata dalle forze dell'ordine. Il presidente della Calabria Agazio Loiero ha espresso forte preoccupazione: «Quello che sta avvenendo è il frutto di un clima di intolleranza xenofoba e mafiosa che non riguarda ovviamente la popolazione di Rosarno, giustamente allarmata per la situazione di tensione che si è determinata con la rivolta degli extracomunitari sfruttati, derisi, insultati e ora, due di loro, feriti con un'arma ad aria compressa. Auspico che dal ministero dell'Interno arrivi una forte iniziativa che tutelando i cittadini di Rosarno tuteli anche quei tanti disperati contro cui per la seconda volta si è indirizzata la violenza criminale».

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Il 10 Gennaio 2010 Adriano Sofri riprende in mano la poesia di Primo Levi sulla condizone umana nei lager e la riadatta così: Di nuovo, considerate di nuovo Se questo è un uomo, Come un rospo a gennaio, Che si avvia quando è buio e nebbia E torna quando è nebbia e buio, Che stramazza a un ciglio di strada, Odora di kiwi e arance di Natale, Conosce tre lingue e non ne parla nessuna, Che contende ai topi la sua cena, Che ha due ciabatte di scorta, Una domanda d'asilo, Una laurea in ingegneria, una fotografia, E le nasconde sotto i cartoni, E dorme sui cartoni della Rognetta, Sotto un tetto d'amianto, O senza tetto, Fa il fuoco con la monnezza, Che se ne sta al posto suo, In nessun posto, E se ne sbuca, dopo il tiro a segno, "Ha sbagliato!", Certo che ha sbagliato, L'Uomo Nero Della miseria nera, Del lavoro nero, e da Milano, 114


Per l'elemosina di un'attenuante Scrivono grande: NEGRO, Scartato da un caporale, Sputato da un povero cristo locale, Picchiato dai suoi padroni, Braccato dai loro cani, Che invidia i vostri cani, Che invidia la galera (Un buon posto per impiccarsi) Che piscia coi cani, Che azzanna i cani senza padrone, Che vive tra un No e un No, Tra un Comune commissariato per mafia E un Centro di Ultima Accoglienza, E quando muore, una colletta Dei suoi fratelli a un euro all'ora Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto Alla sua terra - "A quel paese!" Meditate che questo è stato, Che questo è ora, Che Stato è questo, Rileggete i vostri saggetti sul Problema Voi che adottate a distanza Di sicurezza, in Congo, in Guatemala, E scrivete al calduccio, né di qua né di là, Né bontà, roba da Caritas, né 115


Brutalità , roba da affari interni, Tiepidi, come una berretta da notte, E distogliete gli occhi da questa Che non è una donna Da questo che non è un uomo Che non ha una donna E i figli, se ha figli, sono distanti, E pregate di nuovo che i vostri nati Non torcano il viso da voi

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Il rap del disagio. Ecco l’Italia che il rap respira dal 2000. L’Italia più brutta, orrida, grottesca. Dopo anni e anni di rap prevedibile, magari fatto bene però sempre serenamente prevedibile, il Truce Klan e i Club Dogo sono esattamente ciò di cui c’è bisogno: racconto reale di questo disagio. Una perturbazione stilistica ed emotiva che porta, finalmente una ventata di aria nuova – aria putrida, aria sporca e pericolosa certo. Ma ascoltandoli per la prima volta si ha l’impressione che dopo un lungo letargo il rap italiano sia uscito dalle sue coazioni a ripetere e abbia qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che - nel bene e nel male- ha un impatto oggettivo e reale non soggettivo (cioè, non rivolto solo alla propria cerchia). A conferma di questo, la popolarità dei Klan è fin dall’inizio trasversale. Il Klan e il Club sono una questione seria. Da una parte i testi sono giocati sul filo dell’esagerazione, ma allo stesso tempo il loro appiglio è reale, vero, viscerale, significativo.

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Onestamente : se qualcuno nel 2000 ci avesse anticipato lo stato delle cose che avremmo visto nel rap dieci anni più tardi, molte cose poi effettivamente successe le avremmo trovate prevedibili. Incontro Dargen nel 2008, all’epoca dell’uscita di quel DI VIZI DI FORMA VIRTU’ che ottenne molto interesse da parte di magazine più vicini a rock, elettronica e sperimentazione. Intervista dove si inizia parlando proprio dei suoi ex soci nell’avventura Sacre Scuole di Milano: Jake la Furia e Gue Pequeno, ovvero i Club Dogo. Apparentemente agli antipodi, i due: immerso in un suo particolarissimo viaggio astratto strano e intellettualoide Dargen, espliciti, cattivi e incredibilmente popolari i Dogo.

Credo che per molti potrebbe essere sorprendente scoprire che tu e i Dogo un tempo formavate un unico gruppo. Chi segue l’hip hop italiano da tempo lo sa, ma il pubblico degli intellettuali indie che ti apprezza assai (vedi la copertina sul magazine “Blow up”) – oppure quello molto più b-boy e al tempo stesso mainstream dei Dogo – potrebbe restare quasi a bocca aperta. Non credo ci sia nulla di sorprendente nel fatto che facessimo rap tutti assieme. Capirei la sorpresa se i Dogo fossero entrati in politica e io fossi diventato un missionario. Io, il Guercio e Fame avevamo un gruppo assieme, il gruppo si chiamava Sacre Scuole. E’ stato un periodo molto intenso, scrivevamo continuamente, e fondamentalmente siamo cresciuti assieme perché quell’esperienza ha occupato un passaggio cardine, non solo artisticamente, a cavallo tra l’adolescenza e l’inizio della maturità. Qual è il tuo parere sui Club Dogo oggi? Il mio parere è sempre positivo, e per i motivi vedi la domanda sopra; nei loro riguardi non la penso molto diversamente da come la pensavo qualche anno fa. E’ chiaro, abbiamo preso strade diverse, ma per me loro due rimangono le Sacro Scuole. Non saprei proprio cosa dirti per ravvivare la curiosità riguardo ai nostri rapporti. Provo a chiedere anche a loro, magari scopri qualcosa di più interessante.

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Quindi i club dogo. L’album MI FIST del 2003, era già una mezza rivelazione, ma da lì in avanti la crescita come impatto sulla scena è stata devastante: intere nuove generazioni di appassionati di rap sono cresciuti ascoltando PENNA CAPITALE (2006), VILE DENARO (2007), e DOGOCRAZIA (2009). Eccessivi, arroganti e piuttosto politically uncorrect, a vederla in un modo; consistenti, astutamente sarcastici e bravissimi a rispecchiare lo Zeitgesit (lo spirito del tempo) del nuovo millennio secondo altri. Due quindi, le diverse interpretazioni. Voi da che parte state? Nell’aiutarvi a decidere, e nel fornirvi più informazioni possibili, facciamo una cosa molto semplice: riproponiamo lettera per lettera una querelle pubblica fra i Club Dogo e gli Assalti Frontali divampata nel 2009 e apparsa in Rete. Apre la partita Militant A, risponde Gue Pequeno; entrambi gli interventi hanno il merito della chiarezza, quindi eccoli direttamente qua, senza troppi preamboli:

“Ieri ricevo un sms amico che mi dice: i Club Dogo hanno fatto un rap in cui ti mandano “affanculo”. Vado ad ascoltare la canzone su Youtube e trovo questo turpiloquio che mi riguarda e che un po’ fa ridere e un po’ mette tristezza. Si chiama “XL Rockit dissing”. Non me l’aspettavo perché arriva a freddo. Rifletto qualche secondo in silenzio, poi penso che nel mondo del rap la polemica è sale e può 119


diventare crescita collettiva se indirizzata in un verso positivo. Così scrivo queste righe per il movimento. Dei tre componenti dei Club Dogo, è Gue Pequeno (spalleggiato da Dj Harsh, sedicente promoter di concerti al Leoncavallo), che si prende la briga di offendere in modo diretto ed esplicito me, femministe e giornalisti che si azzardano a criticarli. Il loro problema con me, in particolare, nasce da un articolo apparso sulla rivista “XL” di giugno. Una lunga intervista uscita anche in versione video (richiesta e organizzata dalla loro casa discografica), in cui in veste di “inviato” domandavo loro il perché di alcuni “rumors” che girano nella scena dei centri sociali, in particolare il linguaggio sboccato dei loro testi riguardo le donne spesso definite “troie” e il fatto che il massimo della vita nel loro immaginario è “pippare cocaina”. In tutto l’articolo faccio spiegare liberamente cosa pensano e alla fine mi prendo la libertà di scrivere un paio di righe di mio pugno riguardo il fatto che un rapper, a mio avviso, in quanto comunicatore deve sentire la responsabilità di quello che dice. “Si è fatto tardi ed è ora di ripartire. Mentre vado non posso non pensare alla piazzetta sopra il centro commerciale vicino a casa mia dove i ragazzi sentono le canzoni dei Club Dogo sui loro cellulari. Convinti di essere ribelli, ma schiavi. Ribelli schiavi. Dei soldi, dei vestiti, dell’idea che rimbalza da tutti i cartelloni e le televisioni che la donna sia una merce come le altre. Schiavi della coca. Schiavi a vita. Io un po’ di responsabilità me la sento, soprattutto per i più deboli e soli. Cioè quasi tutti. Ma spira un vento forte e contrario”. Questo è quanto. Invece di ringraziarmi per essermi sbattuto a Milano (su loro invito) per incontrarli, dopo 4 mesi di silenzio, all’improvviso, mi ritrovo offeso in pubblico da questi galantuomini. Non è solo un problema di insulti, è che sento aleggiare una sorta di violenza intimidatoria nel loro fare. Che pensare? Che chi entra in un nido di vipere non può che uscirne in qualche modo morso. Certo. E poi? Molti mi dicono di lasciar perdere, ed è quello che farò, ci sono cose più importanti nella vita di queste cazzate. Non risponderò con altre offese, né con imboscate alla Tupac Shakur, né con una riconciliazione per tornare a mangiare anche una volta alla stessa tavola. Ma tengo a precisare un paio di cose. Il problema è capire da che parte stiamo. La nostra condizione di precari a vita è stressante e bisogna pensare e ripensare sempre a quello che si fa 120


e si dice. Perché possiamo finire in una guerra tra poveri oppure organizzare un sentire comune. A noi tutti la scelta. I Club Dogo dicono che Militant A è di Famiglia Cristiana perché faccio la morale e posso andare a fare in culo, ma la mia unica religione è quella di difendere il debole. E su questo non si transige. Nelle strade del nostro paese è in corso una caccia al diverso che si materializza con teste spaccate, accoltellamenti, incendi di locali omosessuali e di centri sociali. Nessuno può pensare di esserne estraneo nel degrado culturale in corso. La fobia dei Gay, del cazzo nel culo, degli insulti ai froci, passa dai camerati a Papa Ratzinger alle battute dei rapper e legittima mani assassine. E questo per me non passa. Io combatto il potere nelle sue mille forme odiose. E non sono quello che parla e basta. Se parlo di Carlo Giuliani nei miei concerti è perché stavo davvero a Genova in quei giorni a fianco a lui. Se parlo di comunità che resistono è perché ci vado davvero davanti alla base americana di Vicenza con i No dal Molin, o in Val di Susa a difendere le montagne dal business dell’alta velocità. Se parlo di droghe è perché so che vuol dire diventare tossici da cocaina. E se abbiamo occupato i centri sociali negli anni ’80 (dove tutti i rapper e i gruppi musicali cominciarono ad esibirsi) fu per dire: “No eroina”. Se parlo di chance nella vita la occupo davvero la scuola pubblica per difenderla dai capitali privati. Questa è la realtà di Assalti Frontali. La nostra vita. Se dovessimo incontrarci su queste strade, cari galantuomini del ‘2000, benvenuti, ci berremo un bicchiere insieme. Altrimenti dimenticate il mio nome. E cercate un altro nemico. Io sto in un altro gioco.” Guè Pequeno risponde poco dopo: Cari

amici“rivoluzionari”,

ecco

la

risposta

del

vostro

“schiavo”.

Sono appena tornato dal carcere di San Vittore dove i Club Dogo e altri rapper della Dogo Gang hanno tenuto un live per i detenuti. Così mi metto una stellina anche io… Nel frattempo il blog di Militant A in cui si offende per essere stato mandato “affareinculo” in un mio rap ha fatto il giro di portali come Indymedia ecc. e ovviamente è stato pubblicato in simultanea sul sito della nostra rivista preferita, XL Di Repubblica. 121


Andiamo per ordine: mesi fa la nostra “malvagia” casa discografica multinazionale si mette d’accordo con XL (che fino ad allora ci aveva sempre “dissato”) per dare uno spazio al gruppo. La redazione, evidentemente senza gli attributi per voler comprendere da sola l’universo-Dogo, pensa di utilizzare un traduttore, e quindi paga il nostro Militant che si “scomoda” per venire a farci un’intervista (di cui si possono facilmente ascoltare e vedere alcuni estratti digitando su Youtube le parole chiave

assalti

dogo

intervista

xl).

La versione pubblicata su carta, però, è ben diversa: la band viene “inquisita”, le sue risposte vengono per la maggior parte omesse e il risultato è un quadretto infernale di un gruppo di drogati, sessisti, destrorsi e soprattutto corruttori di giovani. Non che ci dispiaccia troppo, del resto la nostra attitudine è un pò maledetta, e per noi è meglio essere finiti con tre pagine su Playboy che avere una recensione come quella

che

Intendiamoci e

se

Ma

abbiamo

un un

che

cd

può

giornalista un

letta

su

piacere

vuole

traduttore

ci

o

non

stroncarci metta

XL…

, pure

piacere ci

sta…

del

suo…

Le critiche vengono fatte partire da una serie di demenziali ed ipocriti rumors di alcuni centri sociali anonimi contrariati dai nostri atteggiamenti e dall’abbigliamento firmato: un pò di parte come spunto, forse era il caso di sentire anche altre campane per

raccogliere

delle

informazioni

più

complete!

Penso che le rime dei Dogo vadano ascoltate e vissute e non semplicemente sentite. Tutta la merda di cui parliamo è esasperata perchè la realtà italiana odierna lo è. Siamo

controversi

La Ne

cocaina scorre

a

fiumi

perchè è OVUNQUE

il

mondo il e

è

fumo anche

negli

in

contraddizione. del

2000.

ambienti

alternativi…

Dite pure che non vi piacciamo, ma non metteteci in bocca frasi non nostre (gravi), visto che nella famigerata intervista ci vengono attribuite delle rime fasciste sulla 122


strage del Circeo(!!).Cito: “In questo tipo di rap mi sembra ci sia un’assenza completa di responsabilità che riempie la testa di ragazzi di 13 anni. Si può scivolare fino ad evocare il massacro del Circeo( stupro e omicidio compiuto da neofascisti nel ’75)” . Di cosa stai parlando Militant? non di rime dei Club Dogo!!!! Abbiamo passato la vita andando a ballare negli squat e iniziato là la nostra carriera artistica, siamo cresciuti fortemente attaccati a certe realtà, e mi fa ridere che una giacca di Gucci o un paio di Nike disorientino e irritino così “l’opposizione”. Tutti quelli

che

ci

conoscono

sanno

da

che

parte

stiamo,

E di come gestiamo in maniera assolutamente Alternativa la nostra storia e il nostro lavoro. E volutamente non uso il termine che a voi farebbe piacere “Autogestiamo”. Ho pubblicato sul mio nuovo mixtape (autoprodotto) un pezzo in cui cito in modo agro-dolce il grande Militant e la redazione di XL, un dissing nella più tipica tradizione hip-hop, in cui rappo del fatto che sia assurdo che una rivista alternativa ci faccia la morale (alla fine…it’s only rap ‘n roll), e che la stragrande maggioranza dei miei amici/ascoltatori non conosca minimamente l’intervistatore, con un paio di frecciate su ex musicisti ora giornalisti e su femministe un pò troppo severe. Nessuna minaccia, aggressione e tono intimidatorio, soltanto un pò di spocchia e arroganza

hip-hop,

quello

che

in

America

chiamano

“swagger”.

Trovo davvero meschino, assurdo e fuoriluogo associarci al clima di omofobia(??!!) violenta degli ultimi fatti di cronaca italiana e farci passare per picchiatori e antigay, consigliando tra le righe al Leoncavallo di non chiamarci più a suonare, solo perchè la compilation è assemblata da Dj Harsh, promoter di eventi rap al Leo (probabilmente chi muove le critiche è più ferrato sull’attivismo in Val Di Susa e molto meno su dinamiche classiche dei prodotti hip-hop, come i cd mixati in questo caso). Il nostro eroe dice di stare dalla parte dei più deboli, ma gli sfugge che nelle nostre liriche ce la siamo sempre presa con i più forti, coi potenti, con i politici, con i 123


corrotti dalla bella faccia, con l’ipocrisia e la finzione del mondo dello spettacolo, e le “troie” sono solo le donne mercificate propagandate per anni dalla tv italiana, non tutte

le

ragazze.

Quando ho letto su XL “Una donna non può ascoltare i Dogo a meno di dimenticare di

essere

donna”

pensavo

di

essere

su

Scherzi

A

Parte.

La tv-spazzatura, la mala-scuola, e la musica di merda fanno indubbiamente più male a un ragazzino di quanto gli possano fare i Club Dogo, che a quanto pare hanno però l’esclusiva nazionale sulla responsabilità di quel che dicono quando prendono un

microfono.

Sono estraneo dall’ idolatria di una certa old school italiana che trovo sopravvalutata,

non

ho

nessuna

divinità

personale

e

nessun

maestro.

Faccio il rapper, non l’opinionista, nè l’attivista, nè vengo pagato da un giornale per fare Da

traduzioni sempre

dico

quello

che

simultanee.

voglio

quando

e

come

voglio.

Rappo le mie rime davanti a migliaia di ragazzi dal vivo, non le scrivo su un forum come la filastrocca incomprensibile che mi ha dedicato quel dj-macchietta anni ’80 o su facebook come un altro ex-artista in disgrazia, che mi ha addirittura definito “non hip-hop”, e che dopo essere fallito sotto una major vestito sgargiante su ritmi club con

diamanti

finti

ora

si

riscopre

underground

purista

e

militante.

Ho sempre rispettato umanamente Militant e lo spessore della sua storia passata con gli Assalti, pur non essendone un gran conoscitore. Ho apprezzato quando nel 2003 mi telefonò personalmente per complimentarsi del nostro primo disco. Ora sono deluso da tutto questo: perché questa indebita traduzione è il problema , perchè mi è sembrato di leggere le prediche da oratorio di Mc Frankie Di Gesù riguardo ai Truceklan, non a caso forse l’unica nuova realtà rap nazionale di dimensioni simili ai Dogo. Ho trovato triste l’ultimo capoverso in cui il nostro esalta il suo

curriculum

di

alta

moralità

e

impegno. 124


Penso che le vendite dei dischi, il riscontro di pubblico nei live, ma soprattutto il seguito

“carnale”

parlino

più

di

quelle

belle

parole..

Non ho mai apprezzato il calcio e non me ne frega niente di fare squadre nè di fare lo “sborone” parlando dei sold-out e del fanatismo che insegue i Dogo facendone un fenomeno di costume quantomeno interessante. Noi non abbiamo la virtù e non vogliamo essere guide, ma posso assicurare al dubbioso Militant che sappiamo bene di cosa parliamo, che quello che facciamo è a nostro modo molto sociale, perchè rappresenta Realmente questa realtà e questa società, e nel bene e nel male, questi ragazzi. Se l’hip-hop è dare voce trasversalmente a tanti tipi di gente, i nostri concerti

sono

la

prova

che

lo

siamo.

Anche se abbiamo gli occhiali fashion e non rappiamo “piove governo ladro” con l’ipocrisia di molti. Dopo il live nelle case circondariali per il terzo anno consecutivo, i Dogo parteciperanno a una campagna di sensibilizzazione dei giovanissimi alla prevenzione E

se

dell’HIV. volete

ci

metteremo

un’altra

stellina.”

Dove sta la ragione? La risposta in realtà è semplice: da entrambi le parti. Sono due concezioni diverse di etica e arte, e di etica nell’arte. Sono percorribili entrambe. Non si può non dar ragione a Militant A, razionalmente, ma non si può nemmeno ignorare la risposta di Gue Pequeno, perché ha il pregio di trasudare da tutti i pori quello che l’hip hop è veramente, nel bene e nel male. Ovvero una cultura dove l’impegno sociale c’è, ed è concreto, ma che è nata e vive in mezzo a molte contraddizioni. Anzi, di essa se ne nutre (anche economicamente. Su questo ci prendiamo un’altra lezione).

125


I Dogo hanno un successo reale, soprattutto hanno allargato in quantità e in classe di età la demografia degli appassionati del rap. La nuova generazione insomma anni di silenzio su questa esperienza, da “Aelle” in poi, l’hanno quasi eliminata dalla storia orale dell’hip hop in Italia, ora che i giornali generalisti parlano d’altro - e il rap è sempre più un’ esperienza vicina stilisticamente a ciò che arriva dagli Stati Uniti. I Dogo hanno il forte merito di aver preso questa impostazione molto americana, trasportandola però su rime che sono profondamente italiane, nel senso che lavorano e indagano sulla realtà fattuale del nostro paese (e non su utopie rivoluzionarie o su resistenze etico-economiche che giocoforza sono minoritarie). Oltre a questo, il loro legame con la scena hip hop è reale, non sono degli ufo paracadutati dall’alto: prova ne sia la stretta vicinanza con il Truce Klan, o anche le molte collaborazioni. Ecco a proposito di collaborazioni ad esempio quella con il bolognese Inoki nella fase in cui le major avevano ripreso a investire sul rap italiano, il suo NOBILTA' DI STRADA del 2007 è stato una buona prova, senza acuti, lineare, ma complessivamente più efficace di quanto fatto da altri contrattualizzati major come Mondo Marcio, Amir, Two Fingerz. Due anni più tardi, per Inoki, ecco la disillusione. Me l'ha raccontata, durante una lunga serata in un circolo poker bolognese.

126


“Sono stato illuminato dalle luci della ribalta, vero. Il traguardo a cui ambiscono tutti quelli che vogliono venire fuori dalla merda, come da miglior tradizione della cultura hip hop: io c’ero arrivato. Niente da dire. Ma ho imparato a capire che queste luci ingannano. Di sicuro, ti sviano da quella che dovrebbe essere la strada più autentica di un’artista; di sicuro, mi hanno portato verso il mondo della superficialità: quello dove ci sono le belle fighe, c’è l’andare ospite in televisione, c’è il successo, gli autografi” Così parlo Inoki, che per i più è uno dei nomi affiorati alla ribalta nell’ultima ondata hip hop ad aver conquistato il mainstream nostrano, quando cioè si scoprì che mettendo sotto contratto Mondo Marcio c’era modo di fare i numeri, e facendo lo stesso con Fabri Fibra di numeri se ne facevano ancora di più. Ed è così che la major avevano cominciato ad accaparrarsi più mc possibili, sperando nella formula magica che funziona, con scelte oculate (Club Dogo?) e altre disastrose (Two Fingerz?). Fra questi Inoki. Uno che in realtà conosciamo personalmente da un sacco di tempo, perché da un sacco di tempo era fra i principali attori del rap italiano più underground. Un mc con una storia alle spalle, insomma, gravitante soprattutto a Bologna dei Sangue Misto e di Zona Dopa, ma con svariate presenze in giro per la 127


nazione, come da tradizione hip hop, dove come nel punk di una volta esiste e resiste un network alternativo, con regole e circuiti propri. Quell’Inoki il cui disco per la Warner, NOBILTA’ DI STRADA, non è magari stato un trionfo di vendite, ma alla fine a venduto il giusto. Che in tempo di crisi, è oggettivamente già un grande traguardo. Ora però, nel 2009, l’ondata hip hop nel mainstream, l’ennesima è passata. Già successo altre volte, già visto. Ma forse proprio adesso è il momento migliore per farci raccontare da Inoki cosa è stato, cosa è e cosa potrebbe accader da ora in poi. Ora che non ci sono più le fighe, la tv, gli autografi.

Ma a proposito: ci sono state davvero tutto ste cose? Finire su major cambia davvero così la vita? Si, la cambia. Certe cose succedono per davvero. Perché la gente, il grosso del pubblico, è condizionato mentalmente, questo è il punto: gli si dice di amarti, e loro incredibile ma vero obbediscono. Penso a certe imbarazzanti performance televisive, penso a quando sono andato l programma Cd Live e lo scenografo scriveva a pennarello su un cartellone che agitava davanti al pubblico “INOKI NUMERO UNO”, e a tutti a urlare, ad adorarmi, tutti a fare i fan. Peccato che non avevano praticamente idea di chi fossi e di cosa facessi. Hai davanti tutti questi ragazzi, lì per te, è sempre stato un tuo sogno una situazione di questo tipo, ma all’improvviso non riesci a capire se ti amano davvero. Tu che rappi, e nei testi dici cose che per te sono importanti, ma non sai se chi ti stia capendo o no. Alla lista degli aspetti negativi del finire su major, aggiungiamo anche i condizionamenti artistici, tanto per completare il quadro? Non è facile rispondere. All’inizio ci sono zero condizionamenti, zero interferenze. Zero! Tu metti in chiaro che non vuoi rotture di scatole, e loro ti dicono ok, a prima 128


vista questa cosa la rispettano sul serio. Quando ho lavorato a NOBILTA’ DI STRADA non c’è stato nessun reale tentativo di intromissione artistica. E’ dopo che cominciano a chiederti di produrre in un determinato periodo perché c’è l’estate, o c’è l’inverno o c’è non so cosa, ti chiedono di cacciare fuori roba, ma io i miei rap li faccio quando voglio io, o in second’ordine quando lo vuole il mio pubblico, solo in terz’ordine quando me lo chiede un’etichetta. L’ordine è questo. Per invertirlo, vorrei un pacco di soldi. Ma tanto oggi nessuno, nemmeno una major, mette sul piatto cifre irrinunciabili. poi ti dicono: devi ascoltarci, così possiamo lavorare al meglio te, il tuo personaggio, il tuo disco. Sti cazzi. Ci penso io, a lavorarmi, non ho nemmeno bisogno di qualcuno che mi promuova, per anni l’ho fatto da solo e non ho mica dimenticato come si fa. Insomma ho cominciato a farmi i fatti miei. A fare altre duemila cose. Perché all’improvviso fare il rap non mi emozionava più come prima, questo è il punto. Ero sterilizzato, era come se non avessi più il controllo totale su me stesso. Ho capito che non andava bene quando mi sono reso conto che incontrando i miei colleghi che erano sulla cresta dell’onda, quelli che sono momentaneamente baciati dal successo, non ce n’era uno che fosse sereno, contento, felice. No: tutti stressati. Alla fine ho passato tutta un’estate a giocare a poker al circolo che ho davanti a casa, punto. Non è che alla Warner non mi abbiano più cercato, anzi mi chiamavano spesso, mi chiedevano di fare roba. Io nulla. Giocavo a carta. Quando poi mi è venuta la scintilla e gli ho portato delle rime dedicate proprio al poker e ai suoi parallelismi con la vita e con l’hip hop, le risposte sono state: “Mah, sai magari qualcosa di più radiofonico…”, e poi: “Eh, però ora è un pò tardi, perché non ce le hai date prima”. No problem, ragazzi. Va bene così. Voi per la vostra strada, io per la mia. E adesso? Oggi è un gran casino. L’hip hop è qualcosa che va portato avanti dai ragazzi, dagli adolescenti, sono loro che devono portare innovazione e stimoli. E’ stato così anche 129


per me: l’emozione che ho provato quando ero ragazzino io, parlo più o meno della metà degli anni Novanta, non la recupererò mai più. Nas e a Tribe Called Quest mi hanno messo sottosopra, esattamente come oggi i quindicenni sono messi sottosopra da, che so, Lil Wayne, che a me...beh...Mah è giusto così. Quello che posso fare io, che ragazzino non lo sono più, è osservare il mio mondo, anzi viverlo. Portare avanti le mie cose e farlo con chi sento di aver un feeling intenso. Ricordiamolo: la musica, e il rap per quanto genere particolare non fa comunque eccezione, è sempre una storia di Beautiful Losers. Ma si può essere dei Beautiful losers da vincenti. L’abbiamo pensato più volte, trovandoci a parlare con Fabri Fibra. Lui sì il vero vincente, ora che il primo decennio del nuovo millennio è alle spalle. Numero uno in classifica, airplay continui: cerano già arrivati gli Articolo 31, ma a costo di rompere con il resto della scena. Fibra invece fa addirittura cose con il Truce Klan, si permette nel pieno della fama e con un disco in uscita di far uscire mix tape semi-illegali, insomma fa un sacco di cose underground e dichiara, apertamente le sue origini nel contesto dell’hip hop italico underground.E’ però quello che si è autodenunciato come traditore (da qui il titolo TRADIMENTO, suo terzo album ma il primo a uscire per una major): perché “La verità e che se avrò successo/questi fan che mi hanno seguito qui fino adesso/appena vedono che prendo il primo premio/mi grideranno “Vaffanculo scemo!”

130


Una

delle

prime

impressioni

che

ho

avuto

ascoltando

CONTROCULTURA, il tuo ultimo lavoro, è che mai in passato ci sia un doppio livello di lettura. E’ un disco comprensibile a tutti, ma al tempo stesso parla parecchio agli appassionati di rap, alla scena. Vero. Cosa dovuta al fatto che il mio pubblico con il passare degli anni si è davvero ingrandito: nel momento in cui ha cominciato a crescere in modo consistente, ho iniziato a chiedermi se dovevo rivolgermi da allora in poi solo a un pubblico indistinto, o se invece proprio questo era il momento per essere sempre più concentrato a parlare a quello che è il contesto del mio background. Questo è successo con BUGIARDO, il mio lavoro precedente, in cui davvero sono passato dai concerti in club di piccole dimensioni a piazze con migliaia di persone . Li davvero ho toccato con mano quanto stava cambiando il mio pubblico. E li ho imparato a ragionare contemporaneamente su due dimensioni è assolutamente possibile, anzi, è la cosa da fare. Vedi, nel rap il 50 per cento del talento è il modo in cui scrivi e rappi, ma l’altro 50 per cento è 131


farsi capire. Chiaro che con la scena degli appassionati ti puoi permettere un linguaggio che invece per il grande pubblico è più o meno incomprensibile. E quindi, io ho scritto per la scena. Ho scritto anche per il grande pubblico. Ho fatto entrambe le cose, insomma. Del resto bisogna essere sempre svegli, reattivi. Io sono arrivato in una major quattro anni fa, ma questi quattro anni sembrano quaranta, da quanto è cambiato tutto, tra la diffusione di Internet, la crisi del disco, l’evoluzione dei media, ecc. Ci sono ormai palesamente due Italie, quella che fruisce la musica tramite le nuove tecnologie e quella legata alla vecchia scansione di eventi - disco, promozione, ecc. Immagino che tu fra i loro dischi ci sia… Sai, quando eravamo sedicenni noi, non pensavamo tanto ai soldi che potevi fare facendo musica. La nostra prima preoccupazione era trovare informazioni, trovare materiale, visto che all’epoca Internet era inimmaginabile. Oggi tutte queste informazioni e questa musica ce l’hai in un attimo, quindi i ragazzi cominciano piuttosto a chiedersi: “Ok, questa è la sua musica, ma lui che vita fa? Fa i soldi? E’ ricco?”. In Italia la ricchezza è una colossale finzione. Oggigiorno sei ricco, se sei ladro, oppure se sei figlio di genitori che hanno lavorato molto negli anni ottanta. Ma nell’immaginario contemporaneo, benessere e e lusso sono ovunque, ovunque sembra sia possibile avere a portata di mano tutta una serie di benefit. Quando invece nella realtà, la situazione è opposta, basta guardare i dati sull’occupazione giovanile, e poi anche se la trovi questa occupazione è spesso e volentieri precaria e sottopagata. Tutto ciò crea un’enorme quantità frustrazione. E come la sfoghi, questa frustrazione? Un tempo uscivi di casa. Ora, tra ansie di controllo sociale e di ordine pubblico, l’unica scappatoia che hai è buttarti su Internet, e riesci a dare un senso a Internet solo se diventa

un mezzo per distruggere

l’immaginario che la società o anche solo la televisione tendono a darti come vincente. Se io passo in televisione con i miei video, divento anche io un’entità in carne e ossa e una persona con cui discutere, vanno ancora più in confusione. Perché non hanno nessuna figura o nessun media che li aiuti a comprendere le cose con pazienza e profondità. Prendi il rap: dal 2001 al 2010 132


è come un buco nero che quasi nessuno ha raccontato, perché nessuna delle persone che poteva avere i mezzi per raccontarlo si è trovata nelle condizioni di poterlo fare, mentre quelli che avevano le condizioni non avevano le conoscenze, perché dalla scena rap non hanno mai fatto parte, non sanno cos’è una jam, non capiscono tutta una serie di canoni che vanno compresi andando oltre la loro semplice apparenza superficiale. Però ecco, anche se non c’è nessuno che le racconta, le cose ci sono comunque. Il rap dal 2001 al 2010 c’è stato comunque. In effetti la mia impressione è che questo decennio 2001-2010

sia

stato vissuto in qualche modo meno visceralmente - sia dal pubblico, sia dagli artisti. Ci sono molte meno faide di un tempo. Il paradosso è che oggi, rispetto agli anni Novanta, si vendono molti meno dischi, ma ci sono molti più artisti. E’ un panorama affollatissimo. Il risultato è che se sei un artista e hai qualcosa da proporre, la concorrenza anche solo numerica è enorme - devi pensare allora prima di tutto a fare del tuo meglio, non hai più il tempo per stare lì a criticare gli altri e cercare di attaccare briga. Gli anni Novanta sono stati pieni di scazzi fra gli artisti, vero. Ma all’inizio questi scazzi diventavano sana competizione, ti spingevano cioè a migliorare la tua musica; dopo un pò invece c’era solo lo scazzo, e la sua esistenza era completamente slegata dalla produzione musicale. Quanto rimpiangi, del decennio precedente? Mi mancano le jam. Perché li, come dire facevi un pò il punto della situazione. Ed eri costretto a crescere. E’ una situazione pericolosa, perché il rap sentito in casa e il rap visto dal vivo sono due cose veramente diverse, non c’è proprio confronto. Il rap, a un ascolto superficiale alla radio o alla tv, è visto come una cosa simpaticamente infantile, ma se invece lo vedi dal vivo ti capovolge, ha un impatto devastante. Ecco, i ragazzi che si sono al rap adesso si stanno perdendo tutto questo. Un tempo, quando essere appassionati di rap significava anche andare agli eventi, andare alla jam, i tuoi mesi erano scanditi dall’intervallo tra una jam e l’altra. E inoltre se ti muovi in gruppo, e macini 133


chilometri, l’esperienza è comunque molto più intensa che stare da soli chiusi in una stanza con le cuffie in testa. Io oggi non avrei la stessa carica e la stessa motivazione se non fossi nutrito dall’intensità dei ricordi e delle esperienze accumulati durante il decennio precedente; e senza questa carica e motivazione, il quindicenne di oggi non mi cagherebbe, capirebbe subito che sono un falso o valgo comunque la metà di quello che dico di valere. Ecco, concetto interessante. Come fai a farti capire dalle gente? Mi sforzo quanto ne vale la pena. Altrimenti lascio perdere. C’e tanta gente che mi accusa di essere commerciale e di andare in radio, poi quando gli parli scopei che impazziscono per Eminem e 50 Cent, e dimmi se esiste qualcosa di più commercializzato e più trasmesso dalle radio di loro. La scena hip hop italiana, ora come allora, è piena di luoghi comuni. Se ne potrebbe fare una lista più lunga così. Tipo: “Si, quello li è bravo, ma c’è in giro molta gente che merita di più”. Cazzata! Questa è una cosa che potevi dire negli anni Novanta, forse quando era più difficile farsi conoscere; oggi invece affermarlo è ridicolo. Se oggi sei bravo, in un modo o nell’altro ti si sente in giro, con tutta l’informazione che circola. Se non ti si sente, beh, vuol dire che non sei abbastanza bravo. Oggi va così.

IL RAP A NOVARA. Incontro con Stan Smith

134


La sua è davvero una bella storia, di quelle che meritano di essere raccontate. Il giovane rapper novarese è uno che ha talento. Ha già ha nel suo attivo molte aperture ad artisti di alto livello come J-Ax, Guè Pequeno, Emis Killa, Marracash, Dope D.o.d. Damiano in arte Stan Smith lo incontriamo nella sua casa a S. Andrea insieme alla NKGVNG con Ruben Noreaga, JeyZey, Kinzzy, e Jostin Santos. Quando hai iniziato a scrivere Stan? Ho iniziato a scrivere quando avevo 16/17 anni, i miei per lo più non erano testi, ma sfoghi che annotavo abitualmente su un diario di scuola, nelle ore di lezione mettevo in riga tutto ciò che mi passava per la testa, tipo: come passavo le mie giornate, gli umori, chi mi stava sul cazzo, contavo le volte che lo facevo con la mia ragazza, quanto balzavo scuola, i testi di Fibra, le liti dei 135


miei genitori, l’odio per la compagna di mio padre, le volte che scappavo di casa per mesi, dove sarei voluto partire, quale città avrei voluto visitare e cosa avrei voluto fare in futuro.. ecco.. cosa avrei voluto fare in futuro? anzi.. cosa voglio fare nel mio futuro? Ora ho 26 anni e sto andando per i 27, sono passati 10 anni da quel diario, ma non ho mai smesso di scrivere, forse quello è stato l’inizio del mio percorso musicale, quando scrivevo non lo facevo per scrivere canzoni, lo facevo per tirare fuori quello che avevo dentro, volevo trovare qualcuno che si rispecchiasse in quello che stavo provando! Non ricordo bene quando e come ho iniziato a scrivere testi ma.. (leggete bene) non ho mai iniziato per moda, all’epoca quella musica non era affatto una moda! Infatti, di che anni parliamo? Stiamo parliamo del 2005/2006, dove regnava la tamarraggine, soprattutto se sei nato in una città con 100.000 abitanti, dove tutti sono vestiti uguali e frequentano gli stessi posti, quando sei adolescente è facile cadere in questo gioco e diventare una “pecora”, lo fai perché in primis vuoi sentirti accettato. Purtroppo così si finisce per accontentarsi o più che altro adattarsi a questo stile di vita, diventando sempre più pigri, senza obbiettivi. La maggior parte delle nuove generazioni pensano che se fai Rap, devi sfondare per forza! In che senso? Il Rap oggi è una specie di “Corte Suprema” che ha già deciso il tuo destino! “Se non sfondi, sei un fallito!” LOL è come dire ad un giocatore di Serie D, che non varrà mai nulla, perché non ha mai giocato in A.. Cazzo, ma questo è sbagliato! Come fate a pensare una cosa del genere? Sono convito che chi lo pensa è cresciuto guardando troppa, troppa, troppa Televisione. Il Rap prima è arte e passione! Nient’altro, se poi riuscite a fare soldi con la musica tanto di cappello, ma non dare mai del fallito a nessuno.

Chi sono secondo te i “falliti”? 136


l fallito è chi non fa un cazzo tutto il giorno, il fallito è chi non è mai stato indipendente, mette Jordan comprate da mamma, non lavora e si lamenta senza mai uscire di casa! Prediche a parte, creo che se uno vuole raggiungere degli obbiettivi deve essere disposto a sacrificarsi e fare molte, molte, molte rinunce. Già. Il Rap è una cosa faticosa. Raccontaci un po’ il tuo percorso? Dal 2009 ho iniziato a registrare le prime canzoni, essendo molto critico con me stesso, ritengo di essermi evoluto artisticamente solo molti anni dopo (praticamente ora), ho commesso tantissimi errori, non dedicavo al 100% la scrittura, mi perdevo con le canne e la ragazza, pubblicavo pezzi senza nemmeno riascoltarmi bene, avevo solo la fotta di pubblicare. Errore, Errori.. ci dovrete convivere sempre, ma gli errori ci insegnano a migliorare. (Sempre che vogliate migliorare). La mia prima apertura fu nel 2010 ad un Concerto di Vacca al Morgan’s di Bellinzago, fu un totale disastro, non ricordavo le parole, chiesi al Dj di rimettere da capo le canzoni (cosa che non dovete MAI fare assolutamente!), continuavo a chiedere scusa al pubblico, in poche parole ho fatto solo una grande figura di merda! Tornato a casa in paranoia da tutta la sera, dovevo prendere una decisione… lasciar perdere da subito e insabbiare con il tempo, o continuare, crederci, migliorare, rivalutarsi, lo dovevo a me stesso, era quello che volevo. Non mi andava giù che era andata male, avevo impiegato mesi di sacrifici per ottenere quell’apertura. Con il corso del tempo ho eliminato dal web tutti i miei primi singoli, in quanto penso siano solo una parte del mio percorso iniziale, dove stavo ancora cercando uno stile. Tocchi un punto importante: lo stile. Come si costruisce uno stile? Inviterei tutti i lettori che sono alle prime armi con il Rap, di riascoltarsi ed essere molto critici con se stessi, prima di rendere pubblico un lavoro musicale. Una cosa che non capirò mai è l’autostima dei rapper alle prima armi, è talmente alta che puoi salvare tutti i malati di depressione al mondo. La voglia di farsi conoscere c’è sempre, ma evitare figure di merda non è garantito. Avevo smesso di ascoltare Rap Italiano, iniziai a cercare artisti in cui trovavo 137


ispirazione, scaricavo e ascoltavo i loro album fino a “mangiarli”. La voglia di scrivere non è dovuta solo da un momento di rabbia o da un emozione che state provando, per avere ispirazione servono le idee, per avere la “fotta” servono gli stimoli, per avere l’immaginazione devi essere un visionario e non limitarmi mai a nulla. Se volete trovare un vostro stile, non potete ascoltare Rap Italiano, finirete per diventare la brutta copia del vostro artista preferito, anche se avete talento non suscitereste mai, sareste sempre la loro copia. Il consiglio che do e di cercare artisti nuovi e stranieri, che vi possano coinvolgere per avere nuove idee, di scrittura, flow o strumentali. E a Novara? A che punto si trova oggi il Rap? Dopo l’esperienza di Area Cronica e dei Sottotono, sembra non sia successo più nulla… A Novara non esiste una scena rap, ci sono vari artisti che rappano, ma non c’è mai stata una vera grande “Familia”, ma solo persone che si sparlano a vicenda…. e questo è così da per tutto! Non crediate che a Milano lo cose cambino, non è Novara il problema, ma il sentimento che hanno tutti in comune, l’invidia. Non cambieremo il mondo se prima non cambiamo noi stessi. All’Epoca il Morgan’s era il locale che andava per la maggiore con i Live dei Rapper Italiani, in quanto avevano suonato i Dogo, Marra, Emis Killa, e moltissimi altri Big! Ricordo che ai tempi quando Emis non era ancora conosciuto, suonò un paio di volte gratis aprendo concerti con freestyle. Appena scendeva dal palco, la pista si svuotava e lo spettacolo si spostava nella sala fumatori. Quando c’era Vacca invece stavi ore in camerino con lui, alla fine di ogni live non riusciva mai a dire di no ad un suo fan per la foto, ho ricordi bellissimi di quel locale, ho avuto la fortuna di conoscere tantissimi artisti e di vivere tante belle situazioni! Sarò sempre riconoscente a Sonny e ad Enzo, porterò nel cuore le esperienze passate in quel posto! Nonostante questo continuò a ribadire che non esiste una scena rap a Novara.

Secondo te perché? 138


Il 12 Maggio del 2012 organizzai al Morgan’s di Bellinzago una Battle con Ensi come special guest mi ero dato davvero tanto da fare per portarlo come ospite, quella battle di freestyle non l’avevo organizzata per me (avendo quella sera il ruolo di presentatore, non di giudice, senza l’intenzione di esibirmi, ero lì solo per dare spazio agli altri), l’avevo fatto per creare un contesto in modo che gli artisti del posto potessero ritrovarsi, ma quella sera l’aria nel locale era davvero pesante, c’era un invidia così totale che la si respirava, non sono mai riuscito a legare molto con gli artisti del posto, forse non mi sono mai piaciuti i commenti o le cose poco carine scritte sul mio conto, più avanti ne organizzai un’altra con Tormento come giudice, bella serata, ma l’aria rimase la stessa. Non ne organizzai più nessuna, decisi di dedicarmi totalmente a me stesso, mi concentrai solo a scrivere, ad ascoltare artisti nuovi, a cercare nuove idee, nuove location per i video, a pubblicare i miei lavori in modo completo e studiato, evitavo tutti i luoghi dove gli artisti locali si ritrovavano, tutti i contest freestyle che facevano in zona, non volevo respirare la loro aria, volevo solo fare ciò che piaceva a me, ciò che mi faceva stare bene e che mi permettesse di vivere bene quel contesto. Andai a vedere i concerti degli artisti che seguivo, anche da solo, la mia “Compagnia” il fine settimana andava a ballare. E’ bello avere tanti amici, uscire sempre insieme, ritrovarsi! Con chi giravi in quel periodo? Le migliori compagnie (secondo il mio parere) sono quelle d’estate, periodi brevi ma con amicizie ed emozioni intense, serate, storie da raccontare….. ma poi? Finita l’estate? Spariscono tutti! Ho preso come esempio questa cosa, io non sono e non sarò mai un asociale, ma la solitudine mi ha portato a migliorare e a mettermi alla prova! E’ chiaro che la compagnia e le amicizie avranno sempre interessi diversi dai tuoi, con il tempo le persone crescono e si fanno una vita.

Come sei riuscito a farti strada? 139


Se inizi a fare live, non è detto che la compagnia ci sarà sempre a sostenerti. Nel corso degli anni ho aperto tantissimi concerti dei big in Italia come: Guè Pequeno, Marracash, Emis Killa, Noyz Narcos, Salmo, Gemitaiz & MadMan, Ensi, Dope D.O.D., Vacca e molti altri, tutto questo lo devo solo a me stesso. se non avete agganci, conoscenze o se non siete artisti conosciuti, è difficile che i locali vi facciano aprire concerti solo per il puro piacere di farvi esibire. Difficile? Più che difficile è impossibile! Ora più che mai questa musica è diventata un business, la cultura si è andata a perdere e un locale ragionerà sempre come un impresa. Ho iniziato ad aprire i concerti vendendo le prevendite per gli eventi, quando sapevo in anticipo di qualche special guest, mi precipitavo al locale, cercavo sempre di parlare di persona con il proprietario e garantivo un minimo di 50 entrate senza avere nessun ritorno (e per nessun ritorno, intendo niente cash), l’opportunità di poter aprire un concerto, mettendomi alla prova, avendo di fronte un pubblico vasto che non mi conosce, è una cosa a cui non posso e non potrò mai fare a meno. E così, le occasioni non arrivano sole, le devi cercare.

POST FAZIONE 140


Stai attento all' Hip Hop: è una forma pericolosa. Sei poi si mischia con la Storia diventa dinamite. Avremmo potuto iniziare con le parole di Edgar Lee Masters o Fabrizio De Andrè. Ma non è in questo modo che vanno le cose. L' Italia che sembra importare tutto, è un potente immaginario che crea da sé eventi di portata mondiale (come il rap ad esempio), figure trasversali e figurine adesive, esplorazioni e scoperte. C'è un modo di sopravvivere tutto italiano, il che significa che l'italia dispone di una difesa tutta sua contro la morte. L'hip hop può essere una di queste difese. Ma per essere difesa, ha bisogno di essere capito, compreso, studiato, raccontato, rinnovato. Lo ripetiamo ancora. Questa storia

non è una racconto, nè un' antologia o un

libro che finisce. Tocca a te continuarlo. Ma non dimenticarlo mai. L'Hip Hop esige studio cauto e coraggioso. L' Hip Hop esige memoria: nomi, date, identità. Esige capire una cultura che è partita quasi per caso dai ghetti di New York, quarant'anni fa e ha finito con l'essere - piaccia o non piaccia – un fenomeno dall'impatto enorme e giocato a livello globale. Questo documento

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vuole solo aiutarti a ricordarlo. Allora. Che questa sta storia abbia inizio.

Porte Aperte

Ringraziamenti I libri non si fanno mai da soli. Questo compendio è il risultato finale di un dialogo dissato e scannato con gli alunni della 2° Operatori Meccanici e della 2° Operatori d’ impianti termoidraulici iniziato nel 2013. Un dissing che ha visto protagonisti Jason Akossi, Roberto Rossetti, Kevin Kowa e Jostin Santos durante le lezioni di Storia. Hanno talento e meritano il meglio. Ringraziamo l’istituto professionale Filos (Marcella Freddi, Miranda Reino, Sara Cimarolli) per aver dato luoghi, computer, carta e pazienza. Ma soprattutto per aver reso possibile questo dialogo. Ringraziamo Ivan De Domenico (detto “Dedo”) e Kuakasi Glody (detto “El Diglo”) per le magnifiche copertine e le appendici finali. Ringraziamo Stan Smith per il prezioso contributo sulla storia del rap a Novara e per il suo sostegno militante. 142


Ringraziamo Viviana Barucchelli per la preziosa regia e per il suo essere sempre sul pezzo. Ringraziamo la nostra correttrice di bozze Chiara Lavacchielli, il suo italiano supera le Grammar Nazi. Ringraziamo Elia Rossi per aver scritto e curato la parte sulla “Storia dell’ hip hop in America”, una memoria più cazzuta di Foster Wallace.

Bibliografia E. Deaglio, Patria 1978-2010, Ed. Il Saggiatore, Milano 2010 D. Ivic, Storia ragionata dell’ Hip Hop italiano, Ed. Arcana, Roma 2010 S. Romano, Cinquant’anni di storia mondiale, Ed. Longanesi , 1995 F. M. Feltri, M.M. Bertazzoni, F. Neri, I giorni e le idee – Il novecento, Torino, 2002

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