14 minute read

PIERO GEMELLI interview

Next Article
NEJA singer

NEJA singer

PIERO GEMELLI

“Non ritraggo una persona, ma ciò che quella persona fa vivere in me”

ELEONORA ANNA BOVE: Hai affermato che la bellezza, per te, è un “punto di equilibrio tra due imperfezioni”. Come sei giunto a questa conclusione e come si è evoluto, mediante la tua ricerca, il concetto di bellezza attraverso gli anni? PIERO GEMELLI: Io credo che la contrapposizione degli opposti generi energia: è cosi che il pensiero si evolve, da contrapposizione di idee si generano nuove idee. Così particolari, caratteristiche, estetiche, ma non solo, che potrebbero apparire come imperfezioni o difetti, “non belli” comunque; quando entrano in relazione gli uni con gli altri e trovano un giusto punto di equilibrio e dialogo questi generano un canone diverso, di bellezza anch’esso. E’ quel punto di equilibrio che va cercato, inseguito e vissuto. Ho fotografato persone, modelle, cose, luoghi, paesaggi. Tutto ciò è sempre considerato bello, fotografabile, da ricordare per quella supposta perfezione. Ma la bellezza perfetta è staticità e dopo il primo o secondo diretto contatto con essa, che stupisce e affascina, è noia. È sempre staticamente e dialetticamente ferma, immobile, morta. In ognuna di quelle bellezze io cercavo ed ero attratto dalle piccole imperfezioni che lì, erano la chiave di quella bellezza che mai stanca e che mai è sempre la stessa. Un angolo della bocca un po’ storto, un labbro appena irregolare, un occhio leggermente angolato diverso, un’espressione istintiva e non composta o perfettamente controllata possono divenire elementi unici e interessanti. E nel “costruire” la bellezza, come spesso per il mio lavoro mi sono felicemente trovato a fare, in uno still life o in un ritratto, l’errore, il difetto può essere creato ad arte, perché il bello del soggetto o dell’idea possa, da quello, essere esaltato e incorniciato.

ELEONORA ANNA BOVE: You said that beauty, for you, is a “point of balance between two imperfections”. How did you come to this conclusion and how has the concept of beauty evolved through your research over the years? PIERO GEMELLI: I believe that the juxtaposition of opposites generates energy: this is how thought evolves, from the juxtaposition of ideas new ideas are generated. So particular, characteristics, aesthetic, but not only, that could appear as imperfections or defects, “not beautiful” anyway; when they enter into a relationship with each other and find the right balance and dialogue, they generate a different canon, one of beauty too. It is that point of balance that must be sought, pursued and experienced. I photographed people, models, things, places, landscapes. All this is always considered beautiful, photographable, to be remembered for that supposed perfection. But perfect beauty is stillness and after the first or second direct contact with it, which amazes and fascinates, it is boredom. It is always statically and dialectically still, immobile, dead. In each of those beauties I was looking for and was attracted by the small imperfections that there were the key to that beauty that never tires and is never always the same. A slightly crooked corner of the mouth, a slightly irregular lip, a slightly different angled eye, an instinctive and not composed or perfectly controlled expression can become unique and interesting elements. And in “building” beauty, as often for my work I happily found myself making, in a still life or in a portrait, the error, the defect can be artfully created, because the beauty of the subject or of the idea can, from that, be exalted and framed.

EAB: Un aspetto frequente nei tuoi progetti è sicuramente la compenetrazione degli spazi, ma anche la coerenza tra le parti. Cosa accomuna l’architettura, la scultura e il design alla tua fotografia? Cosa, invece, la fotografia ti consente di esplorare rispetto le altre arti? PG: Essere architetto non è semplicemente una professione, è una “forma mentis”: un modo di essere, di vedere, di pensare e di IMMAGINARE. L’immaginazione come diceva Munari è il mezzo per visualizzare ciò che la fantasia, la creatività e l’invenzione pensano. Sapere immaginare permette di generare il nuovo, dare concretezza ad una visione personale, corpo ai sogni, raccontarsi. Cosi io ho usato la fotografia come un mezzo, uno dei tanti possibili per raccontare dei miei sogni, dei miei “momenti desiderati“ e immaginati. In questo modo persone, oggetti, paesaggi diventano strumenti interpretati, usati per raccontare, di loro, la mia personale visione. Still life, Milano, 2020 - © Piero Gemelli

EAB: A frequent aspect in your projects is certainly the interpenetration of spaces, but also the coherence between the parts. What do architecture, sculpture and design have in common with your photography? What, on the other hand, does photography allow you to explore compared to other arts? PG: Being an architect is not simply a profession, it is a “mindset”: a way of being, of seeing, of thinking and of IMAGINING. Imagination, as Munari said, is the means to visualize what fantasy, creativity and invention think. Knowing how to imagine allows us to generate the new, give substance to a personal vision, body to dreams, express ourselves. So I used photography as a means, one of the many possible to tell about my dreams, my “desired moments” and imagined. In this way people, objects, landscapes become interpreted tools, used to tell my personal vision about them.

EAB: È interessante l’utilizzo dei fili di ferro nelle tue opere. Da dove nasce la necessità di quest’applicazione? Come mai hai rinunciato alla possibilità dell’utilizzo di effetti? PG: La mia fotografia costruita, piegata ad una visione e costruzione del soggetto personale è comunque giocata sull’ambiguità e l’illusione di essere documento inoppugnabile di un evento realmente accaduto. Per questo motivo, non ho mai amato gli effetti fotografici o interventi “non reali e non tangibili” in una mia immagine. Ho sempre disegnato molto e la linea della matita sulla carta racconta spesso molto più di una frase scritta. Mi sono chiesto come potessi portare una linea grafica, di un mio schizzo di lavoro e preparatore di una immagine che andavo a realizzare, in una foto senza ricorrere a stratagemmi fotografici diversi; ho scelto il fil di ferro perché offriva duttilità, essenzialità e pulizia della sua linea e risolveva problemi statici per le mie costruzioni. Va detto, inoltre, che per fedeltà al vero, tutte le mie foto sono state realizzate “in piedi”, ancora una volta senza alchimie e trucchi fotografici. Se qualcosa sembra in equilibrio, lo è. Perché io non ho mai voluto realizzare una fotografia di una costruzione finta, aleatoria, fatta per la foto e finita di esistere subito dopo lo scatto. Volevo, invece, costruire delle opere tridimensionali che restassero come pietre di una mia ricerca personale e fossero per sempre lì con me. Anche le sculture, quindi, erano modelli soggetto e non oggetti ai miei occhi. Così, il filo di ferro è diventata la mia linea grafica nello spazio e con il tempo da ruolo di gregario ha acquisito un ruolo da protagonista diventando scultura e spesso co-attore nel racconto in una mia fotografia.

EAB: The use of iron wires in your works is interesting. Where does the need for this application come from? Why did you give up the possibility of using effects? PG: My constructed photograph, bent to a vision and construction of the personal subject is in any case played on ambiguity and the illusion of being an irrefutable document of a real event. For this reason, I have never loved photographic effects or “not real and intangible” interventions in one of my images. I’ve always drawn a lot and the pencil line on paper often tells a lot more than a written sentence. I wondered how I could bring a graphic line, of my working sketch and preparer of an image that I was going to make, in a photo without resorting to different photographic stratagems; I chose the wire because it offered ductility, essentiality and cleanliness of its line and solved static problems for my constructions. It must also be said that for fidelity to the truth, all my photos were taken “standing”, once again without alchemy and photographic tricks. If something seems in balance, it is. Because I never wanted to take a photograph of a fake, random construction, made for the photo and ceased to exist immediately after the shot. Instead, I wanted to build three-dimensional works that would remain like stones of my personal research and were forever there with me. Even the sculptures, therefore, were subject models and not objects in my eyes. Thus, the iron wire has become my graphic line in space and over time from being a follower it has acquired a leading role, becoming a sculpture and often co-actor in the story in one of my photographs.

Geidre - Black Book, NYC, 1999 - © Piero Gemelli

EAB: Che rapporto instauri con gli oggetti che ti ritrovi a fotografare? Cosa lo differenzia dal momento in cui ritrai modelle e soggetti? Quanto conta l’utilizzo dei sensi? PG: La fotografia mi ha permesso di trovare una chiave per entrare in relazione con soggetti terzi, con la modella o il soggetto di un ritratto; dialoghi, cerchi di far capire cosa vuoi fare, cosa vedi, cosa trovi di “unico” in loro, perché e come vuoi raccontarla. E intanto lo studi, cerchi di capirne i lati che ti attraggono o ti respingono, usi i sensi per amplificare ciò che provi. Io adoro toccare, anche solo sfiorando una spalla, una mano, oppure semplicemente utilizzo uno sguardo, per capire per sentire il mio soggetto. E cosi ci si racconta vicendevolmente. Ma anche gli oggetti parlano se sai ascoltarli e, più che con una persona, devo usare tutti i sensi; la vista sicuramente serve per guardarlo in ogni angolo, il tatto per coglierne le sensazioni di diversi materiali e superfici, e poi “l’odore”. In questo modo il soggetto piano piano si ritaglia un ruolo quale attore in un mio mondo e di una mia visione, diventando speciale per me. Lo porto pian piano dentro quel ruolo, in un processo tutto mio, e al momento giusto…”CLICK!”, ed eccolo Immagine, e quell’attimo, quel sentimento che non è mai esistito prima, è lì ora ad esistere per sempre, invece, per me.

EAB: What relationship do you establish with the objects you find yourself photographing? What differentiates it from the moment you portray models and subjects? How important is the use of the senses? PG: Photography allowed me to find a key to enter into a relationship with third parties, with the model or the subject of a portrait; you dialogue, you try to make people understand what you want to do, what you see, what you find “unique” in them, why and how you want to tell it. And in the meantime you study it, try to understand the sides that attract or repel you, you use your senses to amplify what you feel. I love to touch, even just touching a shoulder, a hand, or I simply use a look, to understand in order to feel my subject. And so we tell each other. But objects also speak if you know how to listen to them and, more than with a person, I have to use all the senses; the sight is certainly used to look at it in every corner, the touch to grasp the sensations of different materials and surfaces, and then “the smell”. In this way the subject slowly carves out a role as an actor in my world and my vision, becoming special for me. I bring it slowly into that role, in a process of my own, and at the right time... “CLICK!”, And here it is: Imagine, and that moment, that feeling that has never existed before, is there now to exist forever, instead, for me.

EAB: Inconscio e fotografia: come si intrecciano? A tal proposito, la mostra di “Interior Life” rappresenta un tentativo di integrazione del lavoro fotografico all’interno di un discorso interiore. In quale direzione avete lavorato e qual è stato, invece, il vostro punto di partenza? PG: Credo che ogni cosa si faccia, si pensi, si cerchi trova origine nel profondo del nostro lago interiore sul cui fondo sono depositate tutte le sensazioni e le vicende della nostra vita, coscienti e incoscienti, ricordate o, apparentemente, dimenticate. Lì attingiamo per vivere le emozioni. Lì pesca la nostra fantasia o le nostre visioni notturne. Lì cerco idee per ciò che fotografo o creo; lo stimolo per far affiorare un’altra sensazione lo danno i soggetti delle mie foto, ecco perché cerco di capire ciò che provo, relazionandomi, con tutti i sensi, se possibile, a loro. Da quell’incontro, in uno spazio e un tempo che non c’è, nasce tutto e la fotografia o l’oggetto d’arte nascono per restare e raccontare, affiorato da quella trasparente oscurità.

Still life, Ritratto surrealista, Milano 1987 - © Piero Gemelli

“An Interior Life” è stata una mostra nata dal sentimento di Maria Vittoria Baravelli, curatrice e artsharer ed è stata il primo passo di analisi del mio lavoro e avrà presto seguito in una mostra museale. “An Interior Life” mette in relazione il mio privato sentimento, “interior”, con il prodotto del mio lavoro, che spazia dalle fotografie al progetto e alla riqualificazione di interni: “interior” appunto, passando dalla grafica e la scultura con il fil di ferro o quanto colleziono tra quadri grafiche e piccoli oggetti vari. Poi, talvolta, gli oggetti che raccolgo e “rinascono” in ready-made, diventano soggetti di fotografie essi stessi; tutto insieme è legato da un Fil Rouge che dà ragione alle singole cose e dà senso alla storia della propria vita e lavoro.

EAB: Unconscious and photography: how are they intertwined? In this regard, the “Interior Life” exhibition represents an attempt to integrate photographic work within an interior discourse. In which direction did you work and what was your starting point instead? PG: I believe that everything you do, think, look for has its origin in the depths of our inner lake on the bottom of which all the sensations and events of our life are deposited, conscious and unconscious, remembered or, apparently, forgotten. There we draw to experience the emotions. There our imagination or our nocturnal visions search. There I look for ideas for what I photograph or create; the stimulus to bring out another sensation is given by the subjects of my photos, which is why I try to understand what I feel, relating, with all my senses, if possible, to them. From that meeting, in a space and a time that does not exist, everything is born and photography or the object of art are born to remain and tell, emerged from that transparent darkness. “An Interior Life” was an exhibition born from the feeling of Maria Vittoria Baravelli, curator and artsharer and it was the first step in the analysis of my work and will soon be followed up in a museum exhibition. “An Interior Life” relates my private feeling, “interior”, with the product of my work, which ranges from photographs to the design and redevelStill life, Lips, Milano 1987 - © Piero Gemelli

opment of interiors: “interior” in fact, passing from graphics and sculpture to fil of iron or what I collect between graphic paintings and small various objects. Then, sometimes, the objects that I collect and “reborn” in ready-mades become subjects of photographs themselves; all together is linked by a Fil Rouge that gives reason to individual things and gives meaning to the story of one’s life and work.

EAB: Estetica ed etica. Come si incontrano? Che ruolo assumono nel tuo tentativo di ricerca di equilibrio personale? PG: L’estetica esiste, bisogna saperla capire, controllare e guidare affinché lei ci ispiri. L’etica dovrebbe essere altrettanto fondamentale nella nostra pratica di vita perché le scelte che si compiono (anche creative, ludiche e lavorative) rispettino una regola non scritta di correttezza e coerenza, così da evitare ingiustizie, immotivate ragioni o scelte stilistiche che non siano altro che stupidi manierismi.

EAB: Aesthetics and ethics. How do they meet? What role do they play in your quest for personal balance? PG: Aesthetics exist, you need to know how to understand, control and guide them so that they inspire us. Ethics should be equally fundamental in our life practice so that the choices we make (even creative, playful and working) respect an unwritten rule of correctness and consistency, so as to avoid injustices, unmotivated reasons or stylistic choices that are nothing else what stupid mannerisms.

Interview by Eleonora Anna Bove Translation by Carlo De Marchi

INSTAGRAM | @pierogemelli FACEBOOK | Piero Gemelli WEBSITE | pierogemelli.com

NATIONAL KAOHSIUNG CENTRE FOR THE ARTS

This article is from: