Paolo Trombaccia Errico
KARATE SCAMPIA
Paolo Trombaccia Errico Karate Scampia © 2016 GM Press Via della Repubblica, 7 – 81030 Parete (CE) info@gmpress.it www.gmpress.it ISBN 978-88-942281-1-3 NARRATIVA
Alcune parti di questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore, mentre alcuni spaccati qui raccontati sono tratti da fatti realmente accaduti. Alcuni personaggi, luoghi e vicende narrate sono frutto di invenzione, altri sono reali.
Prologo OSTIA LIDO Centro Olimpico Fijlkam. Premiazione Athlon d’oro. I ragazzini erano già sistemati ai lati della sala, con i kimono tirati a lucido per l’occasione. Attendevano il loro momento. Avevano vinto il campionato italiano under 14 a squadre e stavano per essere premiati dai dirigenti della Federazione di Arti Marziali. Ad assistere, in prima fila, c'era il quarantenne Massimo Portoghese, quella sorta di papà-fratello che da anni li guidava con affetto. Anche lui doveva ricevere un premio: il prestigioso Athlon d'oro come migliore istruttore, atleta e Maestro dell'anno. Io osservavo da lontano, stando in piedi. Ero insieme a Marco e Veronica, ex karateka della palestra del maestro Max, come lo chiamavano i suoi allievi. I due si erano conosciuti tredici anni prima, in uno dei corsi di karate che Massimo Portoghese teneva nella sua vecchia, fatiscente palestra di Scampia, a Napoli. Da un anno, erano marito e moglie. Mentre un assessore locale andava avanti con i suoi elogi di circostanza, Marco aveva cominciato a raccontarmi più nei dettagli la storia di Max. Teneva tra le mani una busta bianca e me la mostrò. «È il regalo che tutti i ragazzi e ragazze del nostro centro sportivo gli hanno voluto fare in ricordo di que
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sto evento eccezionale. Abbiamo messo dieci euro a testa e siamo riusciti a raggiungere la cifra necessaria» «Di che si tratta?» gli chiesi incuriosito. Marco sorrise orgoglioso e mi disse che una delle passioni sportive del loro maestro era la squadra di rugby neozelandese, i mitici All Blacks, famosi per ballare la Haka, la danza di battaglia dei guerrieri Maori, prima di ogni partita. Era un cavallo di battaglia di Max. Dovete essere come i guerrieri Maori, diceva. Impavidi, forti, aggressivi nella lotta, tenaci, testardi e certi di potercela fare con le vostre forze, senza arrendervi. Ma se invece della vittoria, nonostante abbiate dato tutto, dovesse arrivare la sconfitta, voi esulterete lo stesso, consapevoli di aver perso contro un valoroso nemico, più forte e indomito di voi, a cui andrete a stringere la mano con onore e a tributare un applauso, così come fanno gli All Blacks su ogni campo del mondo, quelle rare volte che perdono. Inarcai la bocca in una smorfia di solida approvazione, convincendomi ulteriormente di quanto fossero straordinarie le doti di umanità e rettitudine di quell'encomiabile maestro che mi pareva sempre più una persona fuori dal comune. Marco continuò, estraendo un foglio dalla busta. «Quindi gli abbiamo comprato un biglietto per un viaggio in Nuova Zelanda che include la visita allo stadio degli All Blacks. Ci sentivamo di ringraziarlo così per tutto ciò che ci ha regalato e saputo insegnare in questi anni»
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Capitolo 1 MARANO Palestra Yavanhita. 15 anni prima. Ore 19:00 In pedana erano allineati per il saluto. Un inchino collettivo accompagnò l'ingresso del maestro Tobia sul tatami. Questi ricambiò subito dopo e poi chiamò a sé Massimo Portoghese. «Ditemi maestro» «Oggi conduci tu le lezioni, sia questa che le prossime due» «Ma veramente, maestro, più tardi avrei un appuntamento...» «Non discutere. Vuoi o non vuoi andare avanti nel karate?» «Certo, però...» «La prima regola è la disciplina» «Ma avevo detto agli amici della parrocchia che andavo al cinema con loro» «Al cinema? Un maestro di karate che va al cinema e lascia la palestra?» Sghignazzò. «Manco se andassi a vedere Bruce Lee te lo permetterei! Stasera sei tu che insegni e basta. Io ho da fare. Devo andare in Federazione a controllare certe questioni» Il giovane si arrese e accennò un inchino, ritornando sulla linea degli altri allievi. Il maestro li salutò flettendo la testa frettolosamente e se ne andò. Massimò sbuffò e si avvicinò a Giovanni Casaburi.
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«Che palle! Pure stasera mi ha bloccato con la scusa di avere altre cose importanti da fare. Devo restare qua fino alle undici. È più d'un anno che va avanti sta storia e non s'è mai degnato di portarmi un regalo o qualcosa di soldi. Aveva detto anche che mi avrebbe fatto riconoscere un contributo per le ore di lavoro svolte e invece niente! Mi dice sempre che la palestra non se la passa bene e non hanno mezzi per pagarmi. Già è tanto che mi fanno venire gratis ad allenarmi» «Che pezzo di... uhm, non mi far andare avanti. Ho giurato che non avrei più detto parolacce» disse Giovanni. «Guaglió, noi abbiamo quasi ventisette anni e non possiamo più pensare di continuare a fare 'e figli 'e famiglia! Massimù qua ci dobbiamo dare una mossa. Io c'ho Anita che si vuole sposare. Ha detto che non ce la fa più a stare a casa sua e che vuole farsi una famiglia con me. In effetti stiamo insieme da otto anni ormai. E che cazz' fra poco ci danno la pensione!» «Eh, eh, attento, hai detto un'altra malaparola» «Cazzo è ammessa» «Ah vabbè» Massimo sorrise e si voltò verso gli allievi che avevano cominciato a saltellare sul posto. «Avanti ragazzi, dieci giri di pedana e poi stretching cosce»
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Capitolo 2 La zip della borsa s’inceppò. Massimo forzò troppo e la ruppe. «Merda, s’è rotta pure la borsa!» Giovanni si mise la giacca a vento e prese il suo borsone, andandogli vicino. «Ma almeno la borsa della società perché non te la fai dare?» «Anche questo è un mistero: mi dicono ogni volta che me la fanno avere però non la cacciano mai. Guarda qua con che cesso devo andare in giro! Una cintura nera che non c'ha manco la borsa» Se la caricò sulla spalla e i due amici si avviarono all’uscita. Non c’era più nessuno, tranne la signora delle pulizie. Massimo si fermò sotto l’uscio d’ingresso. «Signora Maria noi andiamo. Chiudete voi tutto?» «Andate, andate, ci penso io» «Okay, buonanotte» «Cià guagliù» Fuori c’era la tipica foschia invernale. L’aria era satura di umidità. Giovanni si mise il cappuccio in testa. «Marò, che fridd! Entra nelle ossa» «Vogliamo andare a mangiare un panino?» «Ma sì, perché no. Andiamo al pub di Ferdinando. Un panino gigante e una coca cola ce li fa tremila lire» «Dai andiamo» I due si misero nella Smart di Massimo. «Mi dispiace che hai dovuto fare così tardi appresso a me»
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«Nun te preoccupà. Te l’ho detto che rimanevo volentieri a farti compagnia. Se volevo, me ne potevo tornare a casa con qualcun altro. Ho approfittato pure per ripetere meglio le ultime forme. Mi devo concentrare un po’ altrimenti il mese prossimo l’esame non lo supero. Si dice che ci sarà un giudice giapponese molto severo che sta facendo un tour europeo e viene a rompere il cazzo proprio al mio esame» «Tra le parolacce è ammesso anche questo cazzo qua?» «Sì sì, non c’è problema» «Ma com’è ‘sta storia che non devi più dire maleparole?» «È Anita che me lo ha chiesto. Altrimenti non esce più con me. Ha detto che mi devo togliere il vizio di “usare il turpiloquio”» «Ha detto proprio turpiloquio?» «Esatto. Dice che quando stiamo con le persone, specie con le sue amiche insegnanti di scuola, non devo più usare neanche “scemo e cretino”. Perché, qualche volta che siamo usciti con amici suoi, devo essere sincero, mi è scappata la parolaccia della serata e le ho fatto fare 'na figur’e merd» Un sorriso accompagnò quella curva che li immise in un largo viale alla fine del quale avrebbero trovato il pub di Ferdinando. L'attimo dopo, un semaforo rosso li bloccò. Accanto a loro si fermò una macchina nera, luccicante, rombante. Era la Porsche di Filippo Ristero, il proprietario della palestra. Suonò il clacson e Massimo si voltò alla sua sinistra. «Uè Filippo!» disse calando il finestrino. L’altro lo guardò e, dopo aver abbassato il vetro di destra, fece una smorfia di approvazione. «Azz ti sei comprato sta Smart coi soldi miei!»
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«Che significa coi soldi miei?» «Con i soldi che hai guadagnato in palestra, questo significa. Chi te li ha dati, scusa, i soldi del tuo lavoro? Io!» «Ma di quali soldi parli, Filì?» «Guagliò ma fusse scemo? Parlo dei soldi che do ogni mese al maestro Tobia per le tue ore di lezione» Massimo si voltò di scatto dall'altro lato e fissò immediatamente Giovanni. I due amici assunsero un'espressione scioccata. Qualche secondo dopo, Massimo riportò lo sguardo all'interno dell'abitacolo della Porsche, cercando di mantenere la calma, mentre la saliva cominciava a solidificarsi. «Ma scusa, Filippo, perché i soldi non li hai dati direttamente a me?» «Perché io c'ho un rapporto di lavoro col maestro Tobia, non con te. È lui che ti deve dare i soldi se lo sostituisci» «E quanto gli davi per me?» «Ottomila lire per ogni ora di lezione tua» «Che bastardo!» dissero quasi all'unisono i due della Smart. Massimo si mise le mani tra i capelli mentre il semaforo era diventato verde. Nessuna delle due auto si mosse. «Ma perché, non t'ha dato niente finora?» chiese Filippo. «Niente, zero» «Uà, t'ha fatt!» sbottò Filippo, quasi a canzonare. «Ma ti rendi conto? Per un anno e mezzo ha detto sempre che la palestra non aveva soldi e che non mi potevate pagare» «Ma che figlio di puttana» s'intromise Giovanni, spazientito. Il semaforo era ridiventato rosso. Noncurante, immerso nei suoi pensieri, Massimo mise la prima e
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sgommò per andare, pattinando sull’asfalto bagnato. Si fermò di colpo e ritornò mezzo metro indietro, allineandosi di nuovo al finestrino della Porsche. Cacciò la testa fuori per avvicinarsi di più a Filippo. «Filì, tu però questa macchina realmente te la sei comprata anche col sudore del mio lavoro!» Stavolta schizzò via davvero. Una furia improvvisa gli stava incendiando la testa.
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Capitolo 3 Erano fermi da dieci minuti avanti al pub di Ferdinando. Altri giovani entravano e uscivano. Belle ragazze preparate per il venerdì notte ostentavano le loro gambe affusolate e scarpe dai tacchi chilometrici. Ragazzi festosi e gelatinati fumavano fuori al locale, mentre le luci e le note di pezzi pop venivano sparati all'esterno dall'impianto del disc jockey. Massimo e Giovanni osservavano quel viavai colorato in un silenzio pericoloso. Una miccia di collera e rabbia furibonda s'era accesa a quel semaforo. Un'esplosione omicida avrebbe potuto innescarsi da un momento all'altro. Massimo diede un altro colpo violento sul volante, facendo vibrare il resto dell'auto. «Piano che sennò lo sfasci. È lo sterzo, non la testa di Tobia!» gli disse Giovanni, cercando di mantenere un minimo di lucidità. «Ma tu hai capito che pezzo di merda?» «Sì Massimo, l'ho capito. Mo’ qua due sono le cose: o andiamo sotto casa sua e lo scassiamo da capo a piedi, o ci calmiamo, casomai entriamo a bere una birra e poi ce ne andiamo a letto a dormire. Come si dice... il sonno porta consiglio» «Per come mi sento adesso, me lo mangerei vivo» «Ti capisco. Forse al posto tuo non mi sarei fermato neppure qua a parlare. A volte, tuttavia, un minimo di riflessione può servire e tu lo sai meglio di me, visto che sei quasi un maestro di arti marziali» fece una pausa di qualche secondo. «Senti a me, andiamo a prendere due patate e 'na birra»
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«Giuvà, ma che vuoi mangiare! Tengo lo stomaco che sta facendo le capriole dalla collera» «Vabbuo’ allora vieni a farmi compagnia. Io te l'ho fatta finora e tu mo mi accompagni dentro da Luigi e mi guardi mentre mangio» Massimo ci pensò un paio di secondi. Quelle parole dell'amico sembrarono riportarlo sulla terra. Si voltò verso Giovanni e lo guardò intensamente, approvando con la testa quella proposta. Negli occhi stava ricomparendo la solita luce che li animava quotidianamente. Lo sguardo diventò lentamente vivo, anche se inevitabilmente amareggiato. Diede una pacca sulla coscia di Giovanni ed aprì lo sportello. «Vai jamme, è inutile rosicarci il fegato!» «Penso di sì. Ormai quel che è fatto è fatto» Massimo annuì mentre entravano nel locale. «Ma domani ci vado a parlare e lo faccio una merda a quella latrina di uomo» Giovanni lo guardò e gli sorrise, sollevando il pollice. «Però mo’ non ti mettere pure tu a dire maleparole. Per quello basto io»
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Capitolo 4 NAPOLI, PISCINOLA Parrocchia di Santa Maria. Giorno dopo. Don Aniello uscì dal confessionale e si diresse verso l'altare. Al primo banco c'era un giovane inginocchiato che fissava il crocifisso. Si avvicinò al ragazzo e lo guardò di lato. Sorrise felice quando si rese conto che era Massimo. «Guagliò finalmente ti sei degnato di venirmi a trovare» Massimo si voltò e subito dopo si mise dritto, facendo il segno della croce. «Don Aniello» I due si abbracciarono ed entrarono in sacrestia. «Che è successo? Brutte notizie?» «No, Don Anie’, tutto a posto. Solo che più tardi dovrei andare a parlare con una persona che mi ha fatto un grande torto. Vorrei mantenere la calma ed evitare qualsiasi forma di violenza. Potrebbe essere pericoloso. E così sono venuto a chiedere assistenza a nostro Signore Gesù e conforto a voi» «Eh, così si fa. Queste scelte si rivelano sempre vincenti. Ti evitano contrasti inutili, guai peggiori, deviazioni della tua vita che potrebbero essere irrimediabili» «Lo so Don Aniello, me ne sono reso conto ieri sera. Quando ho saputo questa notizia ho provato improvvisamente un sentimento mai avuto prima. Eppure, voi
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lo sapete, di fatti brutti in questi anni me ne sono successi. Ieri, però, per la prima volta, ho avuto il desiderio di vedere un uomo morto! La cosa peggiore è stata che la voglia più grande era quella di ucciderlo con le mie mani» Il buon prete lo abbracciò di nuovo con affetto paterno. A Massimo gli aveva dato il Battesimo, la Comunione e lo aveva visto crescere ed emergere positivamente da una situazione familiare e sociale dolorosa. Aveva altri sette fratelli, vissuti per strada, in continua emergenza, con genitori spesso assenti perché impegnati nell'arte della sopravvivenza quotidiana. Dormivano tutti in un unico stanzone e la guida più forte della famiglia era stata quella del bravo nonno Luigi. Nonostante le difficoltà inevitabili, si andava avanti comunque con grande dignità. Massimo era riuscito a studiare, prendere un diploma superiore e seguire con passione i corsi di karate. Avrebbe potuto diventare un maestro di arti marziali ed aprire una palestra con cui poter vivere decorosamente. Lui era il fiore all'occhiello della parrocchia che aveva come missione il recupero di giovani e famiglie difficili. Lo guardò con occhi benevoli e sereni. «Non ti preoccupare di certe idee. Sono naturali. Nella lotta sociale, te l'ho detto tante volte, ognuno mette in campo le proprie armi ed è logico che un giovane forte, esuberante come te sfrutti le armi della battaglia corpo a corpo, della violenza fisica. Se fossi invece un uomo stanco, con qualche acciacco fisico come me, proveresti a fronteggiare il nemico con la magia del ragionamento, del dialogo, della mediazione. In natura ognuno segue il suo corso. Tutti gli animali lo fanno. E siccome anche noi siamo animali, non possiamo sfuggire a questa legge. Ma quello che ci distingue dagli al
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tri esseri viventi è proprio ciò che stavi facendo tu prima, e cioè fermarsi a pensare, alzare gli occhi al cielo e chiedere aiuto e illuminazione a quelle Forze misteriose che non vediamo ma che sentiamo esistere ovunque e, soprattutto, nel profondo di noi stessi. Intimamente, sappiamo che Esse ci guidano nel modo più saggio» Don Aniello fece una pausa per riflettere. «Dio ci parla costantemente e ci dà consigli istante per istante. Ah se solo gli uomini sapessero mettersi ad ascoltare…» Aprì un piccolo frigo e prese una bottiglia di succo di pesca. Tirò fuori due bicchieri di plastica da una busta e versò. «Tieni, bevi un sorso. È squisito questo succo. Dai, sediamoci e raccontami che cosa è successo» Dopo qualche minuto, alla fine del breve racconto, Don Aniello batté le mani e il suono rimbombò nella stanza semivuota. «Va bene, nulla di grave. Roba di ordinaria amministrazione in questa società di lupi famelici. Allora, sai che si fa?» «No» «Te lo dico io» il sacerdote si alzò e cercò tra gli appunti che aveva su una scrivania. Trovò un foglietto e lo mostrò a Massimo. «Ecco, prendi questo numero. Me lo ha dato proprio qualche giorno fa il papà di un ragazzo che viene a catechismo. Dice che ha aperto una palestra a Calvizzano e cercano istruttori sportivi e maestre di ballo. Chiedi del signor Arturo, così si chiama il papà del bimbo. Digli che ti mando io. Si metterà sicuramente a disposizione» Massimo fissò il pezzo di carta con i numeri del telefono. Sentiva quel po’ di rancore rimasto dentro eva
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porare lentamente. Il sorriso affabile di Don Aniello era più potente di mille camomille. «E per quell'altra storia... quella sottospecie di maestro che ti ha raggirato, lascialo perdere. Anzi, sai che ti dico? Non ci andare proprio più in quella palestra. Abbandonalo senza neanche un saluto perché non è degno. Si preoccuperà il Signore di fargli capire le cose a tempo debito. Tu vai per questa nuova strada e non essere più turbato»
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