Mostre personali Med Photo Fest 2017

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Francesco cito | Ferdinando scianna | sinawi Zen Medine | isabelle serro | Patrick bar GraZiano Perotti | ilaria abbiento | roberta baldaro | Matic ZorMan | antiGone kourakou | clara abi nader eManuela Minaldi | Gabi ben avrahaM | salvo alibrĂŹo | Marta altares Moro | saMet erGĂœn


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Regione Siciliana

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assessorato turismo, sport e spettacolo

Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca

alta formazione artistica, musicale e coreutica

Comune di Lentini

Ordine degli Ingegneri Provincia di catania


C ATA N I A | D A L 5 A L 2 8 M AG G I O 2 0 1 7

“Oh, ma Méditerranée”, cantava Herbert Pagani, negli anni ’70, riconoscendosi, lui italo-francese nato in Libia, e da lì cacciato perché di origine ebrea, figlio di questo mondo e cantore della sua antica civiltà. E il siciliano Leonardo Sciascia confessava che tutto quanto lo aveva formato e maturato come uomo, e con cui si era confrontato, con ragione e passione, era nato lungo le sponde di questo mare. La cronaca odierna, ahimè, ne parla come di un cimitero: tra le sue onde annegano ogni giorno centinaia di uomini che fuggono dalla guerra e dalla fame, di donne che si sottraggono alla violenza proteggendo la vita che hanno in grembo, di bambini che, paradossalmente, affidano alla disperazione il loro appello di fiducia nel domani. Le loro lingue, invero, rimangono diverse e distanti, le fedi religiose si fanno lontane e sospettose, i “creuza de mà” tracciati dai saraceni e dai veneziani, dalle vele arabe o da quelle latine non solcano più le sue onde. La fotografia, intanto, ne raccoglie il colore ma come sfondo per immagini super premiate che parlano di carrette di profughi che “fanno ali al folle volo”; ne raccoglie le sue spiagge per parlare di bimbi che dormono eternamente là dove è finito il sogno. Noi, che organizziamo questa manifestazione, ci chiamiamo “Mediterraneum”, e siamo figli della Magna Grecia. Figli di quella civiltà che parlava tanti dialetti dorico, attico, ionico - e che, in un preciso momento (che fu quello del confronto e della testimonianza ma anche del commercio e della letteratura) seppero fondersi e stringersi nella “Koinè”, ovvero nell’onesta comunicazione che affidava ai suoni, alle immagini, alle parole condivise, la speranza in un miglior rapporto relazionale. Siamo alla ricerca di una nuova koinè, e riteniamo, che la fotografia possa farsi carico di quest’aspettativa. Le immagini fotografiche, sempre più condivise, distruggono, infatti, gli alibi dell’ignoranza o le ipocrisie della distanza e sotto gli occhi, letteralmente, ci propongono, e ci espongono, i drammatici problemi di chi ci sta accanto e attende da noi una risposta. La fotografia, custode del tempo passato, per intanto, ci avverte di ciò che è stato e si fa “magistra vitae”. Siamo qui, allora per verificare se sia possibile affidare all’immagine fotografica (sempre dichiarata morta e sempre risorgente) quella lingua comune (koinè) che ci consenta una migliore intesa, un migliore scambio, un dialogo e una conoscenza più intensa. Ma, a pensarci bene, non è stato sempre questo il buon uso dello strumento fotografico? Pippo Pappalardo


Direzione Artistica Vittorio Graziano Testi critici Pippo Pappalardo Curatori Vittorio Graziano Massimo Gurciullo Agata Petralia Coordinamento eventi Salvatore Mario Grasso Anna Graziano Vittorio Graziano Angelo Grimaldi Massimo Gurciullo Maria Rizzarelli Allestimento mostre Agata Petralia Rosario Vicino Ufficio Stampa Giuseppe Condorelli Webmaster Pier Raffaele Petralia Riprese video e fotografiche Aurora Bruno Damiano Schinocca Grafica e impaginazione Antonio Dell’Erba Stampa Grafiche Dell’Erba Srl stampa&affini Organizzazione e coordinamento editoriale

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Mostre Personali C O M P L E S S O C U LT U R A L E L E C I M I N I E R E | C ATA N I A | D A L 5 A L 2 1 M A G G I O 2 0 1 7

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Francesco Cito, Italia: Il Muro

10 Ferdinando Scianna, Italia: Mediterraneo

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Sinawi Zen Medine, Isabelle Serro e Patrick Bar, Francia: Sauvetages en Méditerranée

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Graziano Perotti, Italia: Gost town

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Ilaria Abbiento, Italia: Cartografia del mare

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Roberta Baldaro, Italia: Acquoso

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Matic Zorman, Slovenia: The Balkan Nights

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Antigone Kourakou, Grecia: The shadow of things

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Clara Abi Nader, Libano: Libano

43 Emanuela Minaldi, Italia: Echoes

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Gabi Ben Avraham, Israele: Untitled

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Salvo Alibrìo, Italia: Stories in the eye

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Marta Altares Moro, Spagna: Pîncota

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Samet Ergün, Turchia: Untitled

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Premio Mediterraneum 2017 per la Fotografia d’Autore

Francesco Cito Il Muro

Francesco Cito, è nato a Napoli il 5 maggio 1949. Il suo primo reportage, “La mattanza” viene pubblicato in copertina dal The Sunday Times mag. Nel 1980 è il primo fotoreporter a raggiungere clandestinamente l’Afghanistan occupato con l’invasione dell’Armata Rossa, e al seguito di vari gruppi di guerriglieri che combattevano i sovietici, percorre 1200 km a piedi. Inviato sul fronte Libanese, nel 1983, segue il conflitto in atto fra le fazioni palestinesi. È l’unico foto-giornalista a documentare la caduta di Beddawi, ultima roccaforte di Arafat in Libano. Nel 1984 si dedica alle condizioni del popolo palestinese all’interno dei territori occupati della West Bank (Cisgiordania) e la Striscia di Gaza. Seguirà tutte le fasi della prima e seconda “Intifada”. Nel 1994 realizza un reportage sui coloni israeliani oltranzisti. Nell’aprile 2002, è tra i pochi ad entrare nel campo profughi di Jenin, sotto coprifuoco durante l’assedio israeliano, alle città palestinesi. Nel 1989 è inviato in Afghanistan e ancora clandestinamente a seguito dei “Mujahiddin” per raccontare la ritirata sovietica. Nel 1990, è in Arabia Saudita nella prima “Gulf War” con il primo contingente di Marines americani dopo l’invasione irachena del Kuwait. Seguirà tutto il processo dell’operazione “Desert Storm” e la liberazione del Kuwait. Nel 2000 realizza un reportage sul “Codice Kanun”, l’antica legge della vendetta di origini medievali nella società albanese. Si aggiudica il primo premio al World Press Photo 1996, con un lavoro sul Palio di Siena. Nel 2007 è invitato dal Governatorato di Sakhalin (Russia), l’isola ex colonia penale raccontata da Checov, per documentare la vita e le attività produttive, a seguito della scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, lavoro raccolto in un foto libro editato in Russia. Realizza per “Van Cleef & Arpels” 50 immagini che documentano il lavoro degli abili artigiani, raccolte in un volume stampato in nove lingue. Il Muro d’Israele

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“Muro e insediamenti israeliani, un affronto ai diritti palestinesi” è il rapporto di Amnesty International pubblicato in occasione dell’arrivo del presidente Barack Obama in Israele. Nel rapporto del 21 marzo si parla in particolare della questione del villaggio di Jayyous, a nord della Cisgiordania, dove dal 2009 i contadini palestinesi attendono la restituzione di 2,4 km quadrati di terra, sottratti all’epoca della costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e Cisgiordania. La storia del muro risale al 14 aprile del 2002, gli anni della seconda intifada (2000-2005), quando il primo ministro israeliano Ariel Sharon annunciò la costruzione di una barriera di separazione fra Israele e la Cisgiordania. I piani di costruzione risalivano però al ‘95 quando l’allora primo ministro laburista Yitzhak Rabin aveva presentato un progetto per bloccare l’infiltrazione di terroristi nel territorio israeliano. Lo scrittore israeliano Abraham Ben Yehoshua fu uno dei primi sostenitori della costruzione per una separazione fisica fra israeliani e palestinesi. Secondo Ben Yehoshua c’era bisogno di un confine che proteggesse gli israeliani dal terrorismo arabo e che desse ai palestinesi il pieno diritto di sovranità su un territorio ben delimitato. Il progetto prevede la realizzazione di una barriera difensiva lunga 708 km che corra lungo la linea di armistizio del 1949 fra Giordania e Israele, il confine internazionalmente riconosciuto e noto come “linea verde” ma al suo completamento, solo il 15% rispetterà tali confini. In diversi tratti la barriera diverge dalla linea per includere nel territorio di Israele insediamenti israeliani come Gerusalemme est, Ariel, Gush Etzion, Emmanuel, Karnei Shomron, Giv’at Ze’ev, Oranit e Ma’ale Adumim. La zona compresa fra la linea verde e la barriera è stata definita seam zone, ovvero zona cuscinetto. I palestinesi residenti in questa zona con un’età superiore ai 16 anni hanno bisogno di ottenere un attestato di residenza permanente per continuare a vivere nelle loro case. Ai residenti della Cisgiordania per entrare nella zona compresa fra lo storico confine e la fortificazione difensiva occorre, invece, un attestato speciale da visitatori. Ottenere il permesso è complicato, infatti secondo uno studio condotto dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs e dalla United Nations Relief and Works Agency meno del 20% di quelli che coltivavano le loro terre in quella che oggi è la zona cuscinetto hanno ottenuto il permesso.


Oltre ad esibire una fedina penale pulita, un agricoltore palestinese residente ad est del muro ha l’obbligo di presentare alle autorità israeliane un certificato che attesti la proprietà di un determinato appezzamento che si trova dall’altra parte del muro. Si tratta però di un requisito difficile da dimostrare dal momento che Israele ha dichiarato le terre non censite nei registri e quelle non coltivate consecutivamente per 3 anni terre di Stato. L’ingresso nella zona cuscinetto è convogliato attraverso specifici ingressi: lungo tutto il percorso se ne contano 66, di cui 27 però sono chiusi e dei restanti, circa la metà, restano aperti solo per sei settimane all’anno per la raccolta delle olive, e per poche ore al giorno. Il percorso della barriera lede la libertà di movimento dei palestinesi e con l’istituzione delle bypass road (le strade riservate ai soli coloni israeliani) i palestinesi sono costretti a tragitti più lunghi. Quando la separazione verrà completata 30 località, chiuse all’interno della seam zone, si troveranno separate dagli ospedali, 22 dalle scuole, 8 dalle fonti d’acqua e 3 dalla rete elettrica. Dopo la formale annessione nel 1980 di Gerusalemme ad Israele, attorno alla città santa è stata progettata un’altra barriera di oltre 140 km che includerà insediamenti e isolerà villaggi palestinesi. Circa 64 km quadrati di terre appartenenti a Bethlehem verranno annesse all’interno del muro. La barriera è composta per circa 60 km da una parete di cemento alta fra gli 8 e 9 metri, una strada per pattugliamenti, una di sabbia liscia per rintracciare le orme di infiltrati, un fossato profondo, filo spinato e recinto elettronico che avvisa un tentativo di attraversamento. La Corte internazionale di giustizia ha stabilito che il muro viola il diritto internazionale e va smantellato perché penetrando all’interno di un territorio destinato alla costituzione di uno stato palestinese, implica un’annessione di fatto, in violazione del principio di inammissibilità dell’acquisizione dei territori con la forza sancito nella risoluzione 242 per la prima volta dal Consiglio di sicurezza. La barriera sarebbe stata una misura temporanea, aveva asserito Israele, ma a quasi undici anni dall’avvio dei lavori, per completare il muro, mancano solo 200 km. Francesco Cito

L’occhio testimone del fotogiornalista ha visto e documentato, per noi, ancora un altro “muro”. La mala pianta regolarmente rispunta, alimentata dalle ipocrite necessità della storia e concimata dai sentimenti più ostili che si possono immaginare. Dopo le tristi esperienze di Berlino, di Dublino, di Cipro, abbiamo eretto, infatti, ancora un’altra separazione, da qualcuno definita “muro della vergogna”, da altri “linea di separazione” per scongiurare tentativi di paventati atti terroristici. Invero, una volta che il muro l’hai alzato, giocoforza, le persone non si vedranno più, i loro quotidiani rumori si confonderanno, i sospetti aumenteranno e così, inevitabilmente, lasceranno spazio all’abbandono delle relazioni,degli scambi, degli incontri. C’è, in questa testimonianza del nostro Cito, il senso condiviso dell’ingiustizia e dell’affronto fatto alla comunità umana, lo stupore per un gesto che, seppur motivato da drammatiche emergenze, è stato realizzato con l’indifferenza del geometra che accerta e appone i nuovi confini di un mero terreno. Ma stavolta l’operazione non è stata condotta in contraddittorio con l’altra parte, anzi, è stata portata avanti unilateralmente; e l’idea che la costruzione potesse rivelarsi effimera, temporanea, va ormai scomparendo di fronte a quel cemento che, giorno dopo giorno, si scopre sempre più armato. Pippo Pappalardo






Ferdinando Scianna Mediterraneo

Ferdinando Scianna nasce a Bagheria nel 1943. Inizia a fotografare nel 1960 mentre studiava letteratura, filosofia e storia dell’arte presso l’Università di Palermo. Nel 1963 Leonardo Sciascia visita la sua prima mostra fotografica, che ha per tema le feste popolari, presso il circolo culturale di Bagheria. Leonardo Sciascia partecipa con prefazione e testi alla stesura del suo primo libro, Feste religiose in Sicilia, che gli fa vincere il premio Nadar nel 1966. Si trasferisce a Milano, inizia a collaborare come fotoreporter e inviato speciale con l’Europeo, diventandone in seguito il corrispondente da Parigi. Nel 1977 pubblica in Francia Les Siciliens, con testi di Domenique Fernandez e Leonardo Sciascia, e in Italia La villa dei mostri (introduzione di Leonardo Sciascia). A Parigi scrive per Le Monde Diplomatique e La Quinzaine littéraire e soprattutto conosce Henri Cartier-Bresson, che lo introdurrà nel 1982 come primo ed unico fotografo italiano nella prestigiosa agenzia fotografica internazionale, Magnum Photos. Nel 1984 collabora con Bresson e André Pieyre de Mandiargues per Henri Cartier-Bresson: portraits. Negli anni ottanta lavora anche nell’alta moda e in pubblicità, affermandosi come uno dei fotografi più richiesti. Fornisce un contributo essenziale al successo delle campagne di Dolce & Gabbana della seconda metà degli anni Ottanta. Nel 1995 ritorna ad affrontare i temi religiosi, pubblicando Viaggio a Lourdes, e nel 1999 vengono pubblicati i ritratti del famoso scrittore argentino Jorge Luis Borges. Il 2003 vede l’uscita del libro Quelli di Bagheria ricostruzione dell’ambientazione e delle atmosfere della sua giovinezza attraverso una ricerca nella memoria individuale e collettiva. Nel dicembre 2006 viene presentato il calendario 2007 del Parco dei Nebrodi, con dodici scatti dell’attrice messinese Maria Grazia Cucinotta. Con il concittadino Giuseppe Tornatore, in occasione del suo nuovo film Baarìa, pubblica nel 2009 il libro fotografico Baaria Bagheria. Quello che considera il suo maestro, Henri Cartier-Bresson, diceva che aveva un occhio da pittore. Lui gli rispondeva che, piuttosto, riconosceva di essere, o di voler essere, uno strabico con un occhio attento alla fotografia e l’altro alla letteratura. Gli ultimi libri pubblicati con Contrasto sono Ti mangio con gli occhi (2013), Visti&Scritti (2014), Obiettivo ambiguo (2015) e In gioco (2016). L’odore del mare, la sabbia sotto i piedi, il vento, l’acqua; e la vita, improvvisamente “vuole restituirsi” alla tua vicenda, riconciliarsi con i tuoi affanni. Ti ricorda, insomma, che hai il dovere di essere felice. Cosa ha fatto il mare, di così speciale, per rendercelo evidente? Non ha strade il mare, non dà spiegazioni dei perché della comune esistenza; chiede solo di incontrarlo, di vivergli accanto e, quindi, di concedergli uno sguardo, qualcosa che si soffermi sul suo apparire e raccolga il suo trasparire. Il mare attende che qualcuno bussi per aprire la sua porta. Il contributo del fotografo Ferdinando Scianna, anche stavolta, insegue il “così lontano, così vicino” di ogni rappresentazione: lontana nel tempo della memoria, vicina nello scambio, nella partecipazione di un’esperienza. Ritroviamo, qui presenti, i segni alfabetici dell’affabulatore per immagini capace di confezionare il suo contributo selezionandolo tra gli attimi incontrati, tra gli istanti sorpresi, tra le scoperte sognate, tra le casualità felici emerse davanti agli occhi di chi ha saputo, voluto riflettere, aspettare, rivedere E sono immagini, ancora, “contaminate” dalla memoria che tanta vita ha depositato sulla materia di queste visioni: la terra natia come la giovinezza, la passione come la geometria del buon pensiero, la visione che vuole andare oltre il kaos, magari costringendo la terra a non essere così dura e capire, piuttosto, le ragioni del mare. Pippo Pappalardo

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Sinawi Zen Medine Isabelle Serro Patrick Bar

Sauvetages en Méditerranée

Se sei nato in un paese che si affaccia sul Mediterraneo, l’Esodo di questi popoli che lo attraversano ti riguarda perché non è vero che non hanno mai attraversato questo tuo mare. Basti che ci pensi e ti accorgi che i primi navigatori sono stati loro. Ma, ormai, questo non è più un navigare: questa è una guerra. Contro la natura, contro l’indifferenza, contro la storia. La fotografia documenta, mostra, denuncia: poi butta tutto in aria e si tuffa per soccorrere.. La nostra fotografa e la sua associazione ci parlano di questa vicenda dove nessuno ancora trova il mitico “salvagente” capace di raccogliere l’umanità. Ognuno ha il proprio, con la sua bandierina ed il suo distintivo. Ma cimiteri sott’acqua continuano ad essere muti e nascosti. Pippo Pappalardo

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Graziano Perotti Gost town

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Graziano Perotti è nato a Pavia nel 1954 dove tuttora risiede. Ha realizzato oltre 200 reportage, di viaggio, cultura e sociale, pubblicati sui più importanti magazine. Numerose sono le sue mostre personali e collettive, i suoi premi e le menzioni d’onore, in Italia e all’estero. Le sue fotografie fanno parte di collezioni private, fondazioni e musei. Tra i suoi ultimi progetti pubblicati in libri d’arte “Terra di Risaie”, commissionato dalla città di Vigevano e con il patrocinio di Expo 2015, e “Dammi la mano”, commissionato per i 25 anni dall’associazione “Lino Sartori”, per la cura del dolore, selezionato al premio “Marco Bastianelli”. Selezionato nel 2016 dal FIOF come ambasciatore della fotografia italiana in Cina, nel prestigioso progetto IMAGO.IT. Attualmente continua a realizzare reportage di taglio culturale e sociale e si dedica al suo libro “In fuga da Homs, storie di rifugiati”. Di lui scrive Roberto Mutti “La cura compositiva ed il ritmo narrativo dei suoi reportage si inseriscono in un ampio contesto caratterizzato dal Carpe Diem della realtà che fotografa. Le immagini di Graziano Perotti conservano sempre la delicatezza ed insieme la forza espressiva del reportage di alta classe”. Gost town Hebron, gli arabi palestinesi, di qualunque fede essi siano, musulmani o cristiani, sia latini che ortodossi, la chiamano al-Khalīl. Al Khalil gridano alle fermate del service i taxi collettivi, che regolarmente collegano Bethiehem a questa parte della Palestina, unico mezzo di trasporto per chi, giornalmente, si sposta lungo il territorio leopardizzato, di quella che viene definita la terra sotto la sovranità dell’Autonomia Palestinese. Al-Khalīl, sinonimo di “amico”, essendo il suo nome riferito ad Abramo, antico patriarca, padre di entrambe le confessioni, di cui quella ebraica, la quale nel suo idioma diventa Hevron, da interpretare sia con la parola “ascolta”, che con la stessa cultura araba di “amico”. Eppure nonostante questo nome gentile, questa antica città della Palestina o della terra di Giudea, è forse il luogo in cui gli odi sono ormai profondamente radicati nel tessuto sociale e della convivenza non convivenza, in questo punto geografico tracciato sulle carte della storia antica. La sua fondazione risalente al IV millennio a.C. è menzionata in uno dei libri dell’Antico Testamento e con l’insediamento degli Ebrei a seguito di Abramo, essa diventa il principale centro della Tribù di Giuda, la stessa da cui discende Davide, lì incoronato, divenendo per tanto la capitale degli Ebrei, prima della conquista di Gerusalemme. Nella sua lunga storia, Hebron ha conosciuto tutte le occupazioni delle millenarie vicende del Medio Oriente, fino al recente passato, in cui a seguito della fondazione dello Stato d’ Israele, nel 1948 e con la guerra dei sei giorni del 1967, è ritornata sotto l’occupazione israeliana, dopo che questa fu conquistata dagli arabi nel 638. La convivenza tra arabi, palestinesi ed ebrei si era già resa difficile sotto il mandato britannico sulla Palestina. Durante i moti del 1929, sessantasette ebrei furono uccisi, nonostante la pacifica convivenza esistita fino ad allora e i mandatari inglesi decisero di evacuare la popolazione ebraica a Gerusalemme. Essi ritorneranno a seguito del rabbino Moshe Levinger, dopo la guerra dei sei giorni, fondando a poca distanza dalla tomba dei Patriarchi, “Macpelà” il luogo in cui si crede sia sepolto Abramo e la sua famiglia, il primo insediamento israeliano nella West Bank o Cisgiordania occupata, con il nome di Kiryat Arba. I coloni israeliani che hanno poi preso possesso di quelle che furono alcune strutture israelitiche nel mezzo della città di Hebron, conosciute come Beit Hadassah, sono anche tra gli ortodossi più oltranzisti contro un qualsiasi processo di pace e alla possibile restituzione ai palestinesi dei luoghi da loro occupati. Durante lo scorrere del tempo, il rapporto tra coloni e popolazione palestinese è andato sempre più a deteriorarsi e questo scontro, fatto di angherie e odio continuo, è sfociato nel massacro all’interno della moschea situata nel luogo della tomba di Abramo, in cui pregano entrambe le comunità, di ventinove palestinesi in preghiera e il ferimento di altri 125, da parte del colono di Kiryat Arba, Baruch Goldstein, nel 1994. Da allora un’intera parte della città, quella nevralgica, è diventata un deserto in cui il passaggio è consentito solo ai pochi coloni che vivono a Beit Hadassah.


Essi hanno in ostaggio tutta la comunità ed hanno creato tutto intorno un deserto, costringendo i vecchi artigiani a chiudere le loro botteghe e le varie, piccole attività commerciali, a sparire per sempre, impedendo anche l’accesso alle proprie abitazioni, ai proprietari che lì avevano sempre vissuto. Interi nuclei familiari sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni, senza ricevere alcune forma di indennizzo. Tutto intorno filo spinato, alte mura con le torrette d’avvistamento dei militari israeliani che controllano la zona ma che non impediscono però, che dalle abitazioni dei coloni vengono lasciate nella parte araba sottostante, ogni genere di immondizia e liquami. Unica protezione per i passanti arabi e per qualche raro turista, che lì si avventura, sono delle fitte reti di protezione, fatte montare dall’amministrazione della città sotto controllo palestinese, ma diventate un vero ricettacolo di immondizia e non solo. L’immagine più eloquente di quella definita la sola democrazia Medio Orientale. Francesco Cito




Ilaria Abbiento Cartografia del mare

Ilaria Abbiento è nata a Napoli nel 1975, dove vive e lavora. Artista di stanza a Napoli ha all’attivo una mostra personale “Concetta dei fiori” nel 2013 anno in cui entra in Lab\per un laboratorio irregolare di Antonio Biasiucci esponendo In ogni luogo nella collettiva Epifanie al Castel dell’Ovo a Napoli e al Museo Macro a Roma nel 2014. Artista visiva per Alto Fest 2014 con l‘Opera “Appartamenti” e nel 2015 con l’Opera “Corrispondenze”, vince Portfolio Italia 2015 con “Corrispondenze” al Centro Italiano Fotografia d’Autore, Bibbiena. Partecipa alla Residenza d’Artista BoCS Art 2015 a cura di Alberto Dambruoso con “Opificio” per il Museo d’Arte Contemporanea di Cosenza. Nel 2016 è tra gli artisti di Smartup Optima Premio di Arte Contemporanea con l’Opera “Harmonia”. Artista per Imago Mundi Art di Luciano Benetton con “Lido Conchiglia”. Predilige la fotografia concettuale, correlata talvolta dalla materia, che le consente di costruire una poetica di immagini sospese nel tempo. Attualmente è impegnata in un progetto sul Mar Mediterraneo. Cartografia del mare La cartografia del mare, dapprima, fu scritta su quella volta celeste, laddove, nel buio profondo dell’esistenza, l’uomo e la donna cercarono la loro rotta seguendo il percorso silenzioso degli astri: ma qui tutto era lontano, talvolta confuso. Poi, la fotografia rivelò loro che quegli astri non erano così lontani, anzi, erano luci comprensibili i cui segni si potevano cercare, riflessi, sulla superficie del pianeta. E così Ilaria ora raccoglie “frammenti” di mare cercando la possibile “corrispondenza” con il segno topografico per poter ricostruire, riallacciare, l’eterno ritmo dell’andare e venire. Ricostruzione, quindi, come ricerca di un senso nuovo - alla Ghirri per intenderci -, che ci guidi dentro una lettura del mare vissuta come un incontro, una congiunzione, una comunione. Nel tempo della camera oscura, sembra dirci la nostra fotografa, il mare lo intravedevamo nella bacinella del fissaggio laddove una latente immagine riaffermava la sua fisionomia. Oggi, nell’era digitale non disponiamo più di quella magia e ci tocca recuperarla nel sentimento nuovo che ci spiega la complementarietà nuova. Così e pertanto, quest’acqua davanti ai nostri occhi non è diversa da quella dei nostri ricordi, non è lontana dal mare che abbiamo attraversato. Se così è, occorre andare oltre il segno cartografico, oltre le cuci dei radar e fidarsi del cuore. L’autrice, allieva di Biasiucci, muove dal particolare per andare alla comune radice dell’esperienze che condividiamo; sfrutta con assoluta semplicità la sequenza fotografica come espediente narrativo e concettuale, consapevole che questa ricerca estetica può divenire, se condivisa, anche un procedere di attenzione etico. Pippo Pappalardo

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Roberta Baldaro Acquoso

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Roberta Baldaro nasce a Catania nel 1975 e si trasferisce a Cesena nel 2009. Si occupa prevalentemente di fotografia e disegno. La recente personale “Refurtive”, Wundergrafik di Forlì, segue la precedente, del 2013, “Posto nuovo”, galleria 8,75 Reggio Emilia. Tra le collettive si segnalano “Imago Mundi, rotte mediterranee” presso Cantieri Culturali Zisa di Palermo, “Premio Cascella” a Ortona, “L’itinerario” a Catania, “SiFest Off” di Savignano sul Rubicone, “Stazione eretta, Padiglione Italia”, Biennale di Venezia, “I sensi del Mediterraneo” (tra i vincitori), Hangar Bicocca di Milano, “Digitalia” a Padova, “The Waiting Room”, Fondazione March di Padova, “Gemine Muse” a Catania, “Video.it”, Fondazione Merz di Torino, “Festival del Videoracconto” alla Fondazione Pistoletto di Biella. Ottiene la menzione speciale a “Milano in digitale” e “Urbana”. Del 2004 è la personale “Anancasmo” alla galleria Arte Contemporanea, Catania. Ha seguito i workshop “La fotografia pensa” con Guido Guidi, “ISIDEM” con Artur Zmijewski e “La Dimora dello Sguardo” con Antonio Biasiucci. Per descrivere la poetica di Roberta Baldaro vorrei partire da un topos ormai consolidato della critica fotografica, da quell’assunto barthesiano che individua il noema della fotografia nel «ça a été» (ciò è stato), ossia in un principio di irreversibilità dell’immagine e del contenuto da essa proposto. Immortalare con la macchina uno scorcio, una figura, un momento significa per Barthes consegnarlo alla catastrofe, alla sua tragica irripetibilità – significa inchiodarne il tempo, altrimenti suscettibile di una infinità di variazioni, stati, ripensamenti, verso la perentorietà di un atto unico. Se ho citato queste premesse non è per avvalorarle ma solo per servirmi di esse come contrappunto, dato che l’operazione di questa artista mi pare intesa a disattenderle in toto. Perché a mio avviso nei suoi scatti emerge, con estrema circospezione e formidabile grazia, un principio di natura opposta, che ha anche il pregio di spingere la sua pratica in quelle benedette zone di confine capaci di darci un saggio di quanto in campo artistico siano labili gli steccati di genere. Mi riferisco ovviamente al leit motiv cui si àncora pressoché tutta la sua produzione: intendo quell’ostinato contagio tra supporto fotografico e segno grafico, inclusa quell’eccentrica combinazione di staticità e virtualità che questo innesto è in grado di produrre. Prendendo le mosse dall’istantanea, la cui prerogativa è quella di arrestare l’oscillazione della realtà fissandola una volta per sempre, Baldaro ne scombina lo statuto, insinuando in essa delle forme in divenire: sono particelle discontinue, tratti supplementari, presenze oggettive che sembrano sbucare dal nulla e che sortiscono l’effetto di movimentare l’intera superficie iconica, dentro e fuori i suoi margini. La leggibilità totale della scena, punto d’arrivo del medium fotografico, viene come minata da questi solchi di grafite, da queste interferenze certosine e infinitesimali, paradossalmente più “vere” dell’anastatica digitale e che tuttavia, proprio in virtù di questa evidenza straniante, finiscono per ricondurre il suo discorso all’ordine del simbolico, di ciò che facendosi indizio di una direzione del senso ne sottintende mille altre. La cosa più sorprendente è che in questo intreccio dei due registri non si dà alcuna frizione: Roberta Baldaro riesce a realizzare un perfetto camouflage dei diversi strati, grazie a quella intenzione analitica, a quella clarté cartesiana che interessa sia la composizione fotografica come quella vergata a matita. In un reciproco scambio, in una sorta di renvoi miroirique, le due zone si toccano, si sollecitano, a volte senza soluzione di continuità, alle altre instaurando una dialettica imperfetta, nella quale a prevalere è l’inserzione analogica – il taglio o coupure provocato dal disegno. È su questo doppio binario (inquadratura e fuori campo, coesione e frattura) che si attua il suo racconto o, come sottolinea l’artista, il suo pegno di restituzione: “Sottraggo immagini dal mondo. Certo, sono fotografa. Ma il mio è un furto che si sdebita col disegno. Quando il grigio della fotografia e la grafite si confondono, è allora che restituisco la refurtiva: l’immagine è diventata altro, un’ipotesi, un posto nuovo”. Perché qui, in ultima istanza, non si tratta di una sovversione della veridicità dell’immagine ma di una apertura al probabile di lei, a ciò che essa, spesso a nostra insaputa, potrebbe ancora rappresentare. Roberta Bertozzi





Matic Zorman The Balkan Nights

Matic Zorman è nato nel 1986 a Kranj, Slovenia. Dopo la laurea come tecnico multimediale, si iscrive alla IAM, Institut di Akademija za Multimedije per perseguire diploma di laurea in ingegneria multimediale. La sua carriera di fotoreporter professionale è iniziata nel 2008 come collaboratore freelance, di vari media nazionali. Nel 2013, il Ministero della Cultura della Repubblica di Slovenia gli ha concesso lo status di lavoratori autonomi come operatore culturale. Tra gli anni 2010 e il 2014, ha lavorato nella Striscia di Gaza per completare il suo progetto a lungo termine che documenta la riabilitazione dei minori, vittime del conflitto. Nel 2013, è stato invitato come fotografo emergente da Getty Images Reportage. Lo stesso anno, ha documentato le condizioni umanitarie dei rifugiati siriani al confine siro-libanese. Nel 2015, è stato selezionato per partecipare alla masterclass organizzata dalla foto distinta NOOR collettiva in cui ha migliorato la sua competenza nella fotografia documentaria e ha completato con successo il RISC (Reporters Instructed in Saving Colleagues), corso di primo intervento medico in Kosovo, realizzando il suo desiderio di lavorare in zone di conflitto. Tra i vari riconoscimenti e premi di alto profilo, come Lens Culture Exposure Awards, PDN Storytellers, Andrei Stenin International Press Photo Contest, Slovenia Press Photo, Matic Zorman ha ricevuto il premio World Press Photo nel 2016 per il suo lavoro sulla rotta dei Balcani per i rifugiati. Matic combina la sua esperienza con la sensibilità e il rispetto, fondamentali per documentare in modo efficiente le questioni umanitarie e sociali in tutto il mondo. Egli fornisce la sua professionalità per clienti come il Washington Post, Der Spiegel, Independent, National Geographic, La Slovenia, AFP, Getty Images e varie organizzazioni non governative.

Spesso la notte dell’Europa dell’Est è stata, per la letteratura continentale, un pretesto per romanzare, vivere l’avventura, penetrare l’esotico. Dall’inizio del secolo passato, però, dall’assassinio di Sarajevo, per intenderci, tutto è finito. Una storia sempre uguale, spesso contraddittoria, sicuramente drammatica, ha scandito e continua a scandire il procedere di popoli e di nazioni delle quali molto ci resta da raccontare. I fotografi stanno contribuendo a colmare quella lacuna puntando i loro obiettivi fotografici e formulando sequenze di immagini spesso accostate alla migliore cinematografia balcanica, greca, slava. Abbiamo secoli di dialogo da recuperare e distese enormi da rioccupare con nuovi incontri e nuovi itinerari. I fotografi, per intanto, ci stanno, provando. Pippo Pappalardo

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Antigone Kourakou è nata nel1979. Vive e lavora ad Atene nel campo del restauro e della conservazione dell’arte e realizza mosaici. Ha partecipato a mostre ed eventi anche internazionali (nel 2010 il 12 ° AIMC, nel 2011 al 1° Festival internazionale del mosaico contemporaneo di Ravenna). Il suo rapporto con la fotografia ha inizio nel 1998, durante gli studi di conservazione dell’arte. Questa esperienza l’ha motivata ad impegnarsi ulteriormente, nella conoscenza teorica e tecnica della macchina fotografica e ha rafforzato il suo amore per la fotografia. Nel 2010, inizia la propria ricerca per trovare un linguaggio che possa esprimere il suo personale senso estetico. L’ombra delle cose

Antigone Kourakou The shadow of things

Guardando le fotografie di Antigone Kourakou, si percepisce appieno la suggestiva gamma di astrazione fotografica. Anche se ci sono scarse informazioni visive che collegano le immagini con le scene reali, le situazioni e gli eventi sono nati fuori, le fotografie imperativamente richiedono la nostra interpretazione. Si aspettano di portare i fantasmi di nuovo alla realtà, di razionalizzare le impossibilità che raffigurano. La sfida è inesorabile, ricorrente e conduce sempre a un vicolo cieco. Ed è proprio questa incapacità di spiegare che conferisce loro la dimensione poetica che contraddistingue il lavoro di Kourakou. Nelle sue fotografie, anche quando rappresentazione è completa, l’intenzione di fotografare questo o l’altro soggetto rimane insondabile. Tuttavia, i dettagli di volti, figure remote, paesaggi o spazi interni riprese da diverse angolazioni vengono assimilati in una forma concreta di approccio fotografico. Kourakou è entrata nel campo della fotografia totalmente impreparata, senza aver studiato, la sua unica arma è la sua curiosità insaziabile circa l’ombra delle cose, di qualcosa di diverso dalla realtà che si annida nei suoi soggetti, e sembra essere nascosto dietro la superficie della loro rappresentazione fotografica. Senza regole predefinite o inseguimenti particolari, il processo di fotografare cose produce aspetti imprevisti, che guidano la fotografa di una ricerca incessante dell’invisibile. Costis Antoniadis No, non ci furono soltanto gli uomini a solcare il Mediterraneo. Le idee si incarnarono in figure e proposte immaginifiche, oggi leggendarie, capaci di scavalcare i secoli e imporsi con autorevolezza sino ai nostri giorni. Una ebbe nome di Antigone e custodì le ragioni del cuore difendendole contro le leggi e contro i divieti sociali, dichiarando espressamente che le ragioni del sacro hanno una loro dignità, così come la diversità del pensiero e come l’assoluta originalità della persona umana. Tormentata è stata tale dialettica, che passa, ancora, attraverso il corpo e la storia delle donne ma, proprio per questo, è divenuta esempio di ogni lotta e di ogni desiderio di evadere dal non voler crescere o quanto meno cambiare. La composizione fotografica dell’Autrice si richiama in maniera appropriata ai ritmi scenici delle grandi teatralità mediterranee laddove “l’odeon” fu, appunto, teatro di civiltà, oggi tutte da recuperare. Pippo Pappalardo

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Clara Abi Nader è una giovane fotografa nata in Libano che, con in mano unicamente una fotocamera e un grandangolo, utilizzati esclusivamente in luce ambiente, è riuscita a scoperto il proprio paese attraverso la propria creatività, sviluppando un certo interesse per il cinema. Diplomata all’Accademia Libanese di Belle Arti (Libano), ha deciso di continuare i suoi studi a Parigi presso l’EICAR (Scuola Internazionale di audiovisivi creazione e produzione) ottenendo un Master in cinematografia. Vive tra Beirut e Parigi. Attraverso la fotografia, esprime i propri personali stati d’animo, in un particolare momento in cui la società libanese è alla ricerca di una nuova identità.

Clara Abi Nader Libano

Se fate il tragitto aereo Parigi - Beirut la parte più bella è il momento dell’atterraggio. Letteralmente sembra di scendere in acqua. La pista comincia quasi sull’acqua e, non vedendo la terra, si potrebbe credere che l’aereo stia per atterrare sull’acqua. Proprio in quel momento, nel mezzo di un bel sogno, si sente l’aereo che tocca terra con le ruote comincia a basculare con le ali su e giù. Nel giro di una manciata di secondi i passeggeri si lanciano in un applauso soddisfatto. Beirut all’istante vi si presenterà davanti, con il suo skyline mutilato dove il vecchio e il moderno convivono e, sullo sfondo, le colline sfigurate. Ho lasciato il Libano nel 2011 e ora, ad ogni mio ritorno, guardo queste strade, le montagne e la costa che ho percorso infinite volte e che ora sono in movimento costante come lo sono io. Ci lasciamo e ci ritroviamo come onde del mare che però si infrangono mai allo stesso modo. Le mie foto non vi mostrano un Libano facilmente riconoscibile, estraggo le foto da ogni contesto storico e politico, vi offro la visione dei miei occhi, come lo vedo io. Sono immagini senza umani o quasi, non ho mai sentito di appartenere a questa società ed è per questo che non sono mai riuscita forse a fotografarla, mi sono chiesta come fotografare, come rappresentare una società che attraversa una crisi d’identità. Sono partita lasciando tutto, per prendere quella distanza necessaria per meglio ritrovarmi e queste foto sono tracce della mia memoria, residui. Se ci resto ho l’anima in pena e quando vado via ho l’anima in pena. Quando ritornerò? Clara Abi Nader

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Emanuela Minaldi nasce nel 1970 a Catania, dove vive e lavora. Si laurea in Pedagogia nel 1994, frequentando diversi stage e seminari di psicologia e lavorando come insegnante e tutor nei corsi di formazione. Da semplice appassionata, nel gennaio del 2013 comincia il suo percorso impegnato di studi sulla fotografia attraverso corsi e workshop a Catania, e successivamente a Roma (Officine Fotografiche) e a Londra (University of the Arts London). Esordisce partecipando ad una collettiva intitolata Scatti di legalità, promossa dalla Confcommercio di Catania. Successivamente partecipa a delle collettive a Ragusa, presso il Centro Arti Visive Sikanie di Catania, e alla galleria Luigi Ghirri di Caltagirone. Nel Gennaio 2015 partecipa alla mostra “Artisti di Sicilia, da Pirandello a Iudice”, a cura di Vittorio Sgarbi, presso il Castello Ursino di Catania. Nel maggio del 2016 espone a Roma nell’ambito di FotoLeggendo, rassegna fotografica sulla fotografia d’autore. Una fotografia rappresentativa del suo progetto Echoes è stata selezionata per la mostra Orizzonti Siciliani Contemporanei, il cui catalogo è stato inserito da Giorgio Mondadori. Attualmente continua ad arricchire le sue conoscenze e capacità pratiche attraverso uno studio intensivo della fotografia di architettura. Per lei “l’uomo e tutto ciò che egli costruisce sono in simbiosi. L’architettura è espressione, in forma concreta e fruibile, dell’evoluzione umana”. Vi sarà capitato di stare dentro uno spazio chiuso, silenzioso, apparentemente disabitato; e cominciare a rendervi disponibili all’ascolto della vostra voce come ai battiti del vostro cuore, e quindi al silenzio intorno; e, poi, cominciare a individuare il riflesso dei propri suoni distinguendoli dai rumori casuali; e provare l’ebbrezza di rianimare quegli spazi; e stupirsi di come tutto questo accada naturalmente, come naturale può apparire il camminare o il respirare? Ebbene, gli spazi, meglio ancora, gli ambienti degli ex opifici Brodbeck sono stati la scena di queste esperienze. Davanti all’obiettivo della fotografa stava la nuda, semplice, cruda realtà di un edificio che fu laboratorio di progetti, fucina d’invenzioni, teatro d’idee, palestra di fatica. Attenzione: fu. Oggi non è più così. E la fotografa lo dice chiaramente, avvertendoci che la sua visione non è la messa in scena di un “teatro delle assenze”, né una camera oscura laddove attendere l’affiorare fantasmatico di nostalgici ectoplasmi. La sua visione, invece, si va appuntando su uno spazio circoscritto, determinato storicamente, assolutamente riconoscibile, segnato da limiti strutturali e funzionali innegabili. Eppure, in questo spazio, apparentemente inerte, arido, claustrofobico, la nostra amica individua un campo di osservazione che, appunto perché delimitato e definito, la stimola verso una più qualificata analisi. Qualcosa di simile all’esperienza teatrale quando l’attore, o il regista se preferite, devono decidere dello spazio di cui dispongono e, giocoforza, devono rispettarne la sua natura pur sapendo che il loro gesto intrinsecamente lo modificherà. E cosa incontra la nostra Emanuela in questo suo scrutare? Forse, il “tempo interiore” che il grande Mimmo Jodice rintraccia, guarda caso, in tante vestigia del Sud come in tanti abbandoni. Un tempo interiore scandito non tanto dalla tipicità delle antiche architetture quanto dai ritmi visivi fotograficamente adoperati per sottolineare vuoti e pieni, per distinguere profondità e superfici, per sottolineare prospettive o fughe come precipizi di luce. Dettagli avvertiti come segnali, come segni di rottura di un giocattolo, come pieghe infelici della pagina di un libro, come orli sbrecciati di un bicchiere. Potremmo vederci il “male di vivere” del poeta Montale ma la nostra fotografa, qui, insegue la vita e, poiché non sta cercando l’emblematico “attimo fuggente” e rivelatore, più semplicemente costruisce la scena della sua visione seguendo la sua personalità con serenità e fiducia. Pertanto, come Pollicino, segue le tracce lasciate dagli sguardi che l’hanno preceduta; e riconosce che quegli sguardi hanno una loro storica ragione; e questa considerazione basta per redimere quanto il suo strumento freddamente le restituisce. Lei, intanto, ne raccoglie gli echi e, come una moderna Mnemosine li custodisce condividendone la possibile visione. Pippo Pappalardo

Emanuela Minaldi Echoes

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Gabi Ben Avraham di origine israeliana, vive a Tel Aviv. Dopo essere stato affascinato dalla fotografia e dal cinema ha dovuto mettere da parte queste passioni, per dedicarsi ad un’altra carriera lavorativa. Il regalo, da parte della moglie, di una macchina fotografica ha risvegliato la sua inclinazione verso la fotografia che da quel momento diventa parte integrante della sua vita. È fotografo freelance da alcuni anni, conducendo molti workshop nel settore della street photography. È membro di “Thestreetcollective”, un collettivo, fondato nel 2013 con l’obiettivo incoraggiare la fotografia di strada e di offrire ai fotografi l’opportunità di condividere i loro progetti con un pubblico più vasto.

Gabi Ben Avraham Untitled

Provo a dare un senso, ristabilire l’ordine nello schema caotico delle cose e nella composizione, raccontare la storia dietro la scena e inquadrare un momento surreale. Le ombre, i contorni fragili, le riflessioni all’interno della vita quotidiana, che non si notano nel paesaggio urbano e talvolta sono addirittura schiacciati da essa, sono preziosi per me. La macchina fotografica è uno strumento per congelare il momento, isolarlo e portarlo fuori dal contesto. La realtà alternativa è il momento esistente nella mente del suo creatore. In un solo clic, il fotografo cerca di riempire l’insignificanza intorno a lui con un significato. Il fotografo crea un’allucinazione intima e privata e la condivide con lo spettatore. Il momento reso eterno è ‘il momento decisivo’, un incrocio di realtà e finzione, reale e surreale. Il fotografo collega il possibile con l’impossibile e anche se il momento svanisce, viene impresso nella memoria dello spettatore. Tutte le mie immagini sono “senza titolo”, preferisco che sia lo spettatore, con la sua immaginazione ad interpretarle. Gavi Ben Avraham Lungo le sponde del Mediterraneo la presenza ebraica storicamente è ancora evidente anche quando le sue tracce visibili sono state cancellate e rimosse. Spesso, però, questa presenza non esprime liberamente la gioia di una terra condivisa, ed i segni della convivenza si rivelano un coacervo di esperienze e di volti che ci rimandano ad altri posti di incontro tra civiltà. I segni dei tempi stentano ad assumere una sincronia ed inevitabilmente occorre far convivere la necessità di conservare una tradizione con la volontà di ipotecare un futuro: ognuno cerca la sua strada muovendo da culture differenti che a volte inevitabilmente si scontrano o si allontanano. Lontana, allora, appare la visione religiosa ecumenica; e la laicissima, convenzionale, convivenza economica lascia trasparire segni di inquietudine e di contraddizione. Il colore è qui utilizzato magistralmente dall’autore per rafforzare il dato documentativo della sua rappresentazione; ma la difficoltà incontrata per individuare uno stabile punto di ripresa la dice lunga sulla difficoltà incontrata nel decifrare questa realtà. Pippo Pappalardo

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Salvo Alibrìo Stories in the eye

Salvo Alibrìo, nato a Ragusa nel 1988, fin dall’infanzia si appassiona alla fotografia e all’arte in generale. Frequenta il Liceo artistico di Palazzolo Acreide, iniziando a partecipare a vari concorsi fotografici ottenendo ottimi risultati. Nel 2012 vince il concorso indetto da National Geographic Italia che gli offre la possibilità di frequentare un Master di Reportage all’Accademia di fotografia John Kaverdash di Milano, riceve una menzione al Ragusa Foto Festival con il lavoro “Anime Fragili” sviluppato durante la frequenza in accademia a Milano. Finalista alla 10° Edizione del Premio Internazionale Arte Laguna 2015 e al Portfolio Mediterraneum, in occasione del Med Photo Fest 2016, nel 2016 in occasione del Concorso Fotografico Internazionale indetto da Moak “Fuori fuoco” si aggiudica il primo posto, risultando, nel “Tokyo International Photo Awards 2016”, Gold Winner nella categoria eventi. Nel corso degli ultimi anni ha pubblicato diversi servizi fotografici su importanti riviste come “Traveller” (edizioni Condè-Nast) e “Le Figaro Magazine”. Ha partecipato a varie collettive e allestito mostre personali nelle provincie di Siracusa e Catania, presso la Fondazione Puglisi Cosentino e il Palazzo della Cultura. Vive e lavora a Palazzolo Acreide. Dove sono andati? E, nel luogo dove sono giunti stanno mangiando? riposando? pregando? ringraziando? benedicendo? Oppure stano imprecando o maledicendo? La fotografia, invero, parla sempre al tempo verbale del presente indicativo, non intercetta il passato e nemmeno il futuro. Lascia una traccia. E, stavolta, è la traccia di un volto, un’immagine quasi burocratica, dietro la quale, chi la raccolse, aveva intravisto fame, fatica, disperazione, invocazione di aiuto, talvolta un sorriso. Sono i sopravvissuti ai naufragi dei “barconi” dei profughi dall’Africa; sono i sopravvissuti dall’inferno; sono i volti della nostra alterità, della nostra dignità, quindi sono i nostri volti. Rammento che il filosofo Levinas fa dell’attenzione al “volto umano” una metodologia del pensiero filosofico e, non fidandosi più del suo pensare illuministico e moderno, con Habermas e con Derrida, chiede un intenso raccoglimento intorno al volto dell’uomo e della donna, che non può rimanere esteriore ma che deve farsi carico del volto delle cose e degli esseri animati. Il fotografo Alibrìo, vincitore nella passata edizione, nella categoria “portfolio”, penetra con essenzialità e vigore dentro questa nobilissima tematica, costringendo il suo obiettivo a recedere dai compiacimenti estetici e a farsi promotore di una testimonianza che racconta solo con l’elenco dei documenti, con l’essenzialità del bianco nero, con l’estetica del ritratto apparentemente, solo informativo (ma non era stato così anche davanti al Tribunale di Norimberga, per le vittime dell’olocausto?). E, infatti, stiamo parlando di vittime o di eroi? di sconfitti o di vincitori? Ci accorgiamo, guardando, che abbiamo stimolato il nostro occhio, il nostro cervello, il nostro cuore. Pippo Pappalardo

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Marta Altares Moro è nata a Madrid nel 1976. Ha iniziato a fotografare da autodidatta fino al 2011, quando decide di studiare alla scuola di fotografia e immagine EFTI a Madrid. Ha continuato da autodidatta, con la preziosa collaborazione del fotografo Miguel Oriola, docente e giornalista. Attualmente è impegnata nello sviluppo di un progetto personale, ancora in fase di elaborazione, da lei definito “Pîncota”, recentemente selezionato anche per partecipare alla pubblicazione n°3 Dark fotografia, una fanzine di prossima pubblicazione. Al Med Photo Fest presenta una selezione di 15 fotografie.

Marta Altares Moro Pîncota

Pîncota è un mio progetto fotografico nato dalla mia necessità di fotografare liberamente e istintivamente, senza alcuna regola precostituita o metodo di lavoro. Qualsiasi tentativo di concettualizzare o di razionalizzazione, da intendersi quale strumento indagatore della mia fotografia, viene da me preventivamene scartato non trovan delle mie intenzioni. Siete liberi, qualora siate guidati dallla necessità di comprendere, di attribuire a questo progetto qualsiasi vostra interpretazione. Quelle che presento sono semplicemente delle foto il cui unico comune denominatore consiste nell’esserne io l’autrice, attraverso lo stato puro della mia momentanea intuizione. Marta Altares Moro Questa rappresentazione fotografica appare sospesa a nostro sommesso parere, tra il bianconero di Michael Ackermann e l’effetto estraniante di Daido Moriyama. La nostra Autrice, in questa sequenza, intercetta infatti i segni dell’inquietudine che corrono, quasi in analogia, lungo le superfici del nostro corpo e lungo le arterie della realtà che ci circonda. I segni dell’inquietudine, a volte hanno le forme del tempo, in altre quelle della dissipazione, dell’abbandono, dell’invocazione di aiuto, della richiesta di un sorriso. A volte parlano con un grafia che rifiuta persino la bella forma, eppure ne cerca con forza la novità, la peculiarità, per farsi ascoltare, per non lasciarsi soffocare. Potrebbe sembrarci una visione alquanto cupa e perplessa ma, se penetrata in profondità, rivela la visibilità di processi interiori che tutti abbiamo sperimentato, quasi a dire “finché c’è inquietudine c’è speranza”. Pippo Pappalardo

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Samet Ergun è nato nel 1986 a Samsun, in Turchia. Vive e lavora nella città di Adana. Ha iniziato a fotografare quando era studente, con una macchina analogica regalatagli dal padre, che da giovane lavorava come fotografo in Germania. Si è laureato in relazioni politiche scientificheinternazionali e in turismo e gestione alberghiera. La sua passione per la fotografia lo ha portato ad aprire uno studio e dedicarsi completamente alla professione di fotografo. Ha pubblicato le sue fotografie su Idea Art Magazine, Best UsedLight in Photography Contemporary, American Photographer Magazine, Bodrum-Gümüşlük e Ala Magazine, realizzando servizi fotografici per Fantasia Deluxe Resort Hotel (Antalya-Kemer) e Marathonphotos. Il cammino degli uomini doveva esprimere quel comportamento utile e necessario per la loro maggiore capacità di conoscenza e, conseguentemente, esprimere l’approfondimento consapevole della loro umanità. Invece, giorno dopo giorno, ineluttabilmente, lungo gli itinerari di tanti spostamenti, di tante migrazioni, quel cammino si è costellato e si è intessuto con le forme dell’inquietudine, della sfiducia, della fatica del vivere. Allora, il fotografo non guarda solo alla cronaca ma alle nuove forme che l’esperienza del viaggio, del cammino dell’uomo, va assumendo; e scopre che espressioni come avventura, invenzione, impresa nuova, ormai vanno cedendo il passo ad altre esperienze laddove scompaiono i contorni del coraggio e della libera risoluzione; vengono fuori le necessarie relazioni che ci tocca instaurare con ambienti nuovi e effimeri, con gli eterni compagni di sempre ormai legati nel comune destino; vengono fuori le radici oscure che strappammo e quelle nuove che ancora fatichiamo a piantare.

Samet Ergün Untitled

Pippo Pappalardo

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