Bassa in letteratura 2014

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Bassa in Letteratura 2014

LA CLESSIDRA EDITRICE



AA.VV.

Bassa in Letteratura 2014

In collaborazione:

Associazione senza fini di lucro


Associazione senza fini di lucro

Comune di Campagnola Emilia

Provincia di Reggio Emilia

AA.VV - Bassa in Letteratura 2014 Š La Clessidra 2014. Tutti i diritti sono riservati, nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma e mezzo (elettronico, meccanico, digitale) se non nei termini previsti dalla legge a tutela dei diritti d’autore. La Clessidra snc - tel 0522 210183 Redazione: via XXV Aprile, 33 - 42046 Reggiolo (Reggio Emilia) Sito web: www.clessidraeditrice.it


Introduzione

In agricoltura si consigliava di prendere in esame, ai fini di un bilancio generale, cicli di 5 anni; ciò sia per equilibrare la variabilità insita nell’elemento fondamentale di questa attività, la natura, sia per adeguarsi ai tempi tecnici di impianti arborei e piani rotazionali, sia, infine, per un riscontro economico che tenesse conto di prezzi al produttore più o meno - molto meno, in verità - favorevoli. Perciò, vista la linea sostanzialmente agreste del nostro concorso letterario, non sarebbe sbagliato stilare una sorta di bilancio di “Bassa in Letteratura” giusto al compimento della quinta edizione. E allora diamo qualche numero: Racconti giunti in lettura: circa 30 - 35 per anno Racconti pubblicati: dai 14 ai 17 per anno Case editrici impiegate: 3 Copie pubblicate: da 400 (troppo poche) a 1.000 (troppe) Costi: alti Aiuti monetari da enti vari: 0 Aiuti non monetari da enti vari: da pochi a troppo pochi Premi elargiti: parecchi salami, un certo numero di bottiglie di vino e molti ciccioli. N.B. Sconsiglio vivamente a qualsiasi agricoltore di affidarsi a bilanci del genere. Duemilaquattordici dunque, quinta edizione di “Bassa in Letteratura”.

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Ma anche, soprattutto, tredicesima edizione delle “Notti del Salame” e quindicesima del “Cicciolo d’Oro”. Sono numeri che, da soli, la dicono lunga; raccontano una storia importante e densa di significati, parlano di un paese vivo e vivace, di gente che si dà da fare, di idee tradotte in fatti; testimoniano iniziativa e collaborazione, la vera indissolubile forza motrice di ogni successo. Numeri che, senza bisogno di altri commenti, bastano a delineare una grande continuità e quindi un grande traguardo. E allora... ad maiora! Vittorio Cottafavi

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Bassa in Letteratura 2014



I premiati



L’imprevedibile fragilità dell’argine maestro di Annalisa Bertolotti

Gonfio e silenzioso, scorre il fiume e su di esso, insieme ad esso, fluisce il corso imprevedibile del destino... La vita non è che una canna palustre cresciuta tra le correnti: lambita, accarezzata o scossa dagli umori volubili delle rapide. Gonfio e silenzioso, scorreva il Po in una notte opaca di luna piena che, pallida, irradiava fiochi raggi, offrendosi alle acque nel suo diuturno amore. Non un rumore in quel mondo addormentato; non un fruscio selvaggio tra i canneti: solo la sinfonia costante della corrente a cui ogni orecchio era ormai assuefatto, come se si trattasse di un congenito acufeno. L’oscurità si insinuava nelle golene, avvolgendo nel suo manto sperduti casolari; solo il pulviscolo nebbioso e opalescente di un lampione indicava la presenza di una rustica osteria. Non un palpito di vita, in apparenza, in quel mondo solitario, abbandonato - forse - anche da Dio: i fusti nivei dei pioppi svettavano come lance verso un cielo basso di nebbia che non si lasciava trafiggere. Il nulla... Quel grave senso della precarietà umana, l’inquietante certezza della vacuità propria all’esistenza erano pendoli che scandivano le ore di una monotona quotidianità. Erano l’ultimo pensiero della sera, la prima idea all’affacciarsi del nuovo giorno... Però laggiù, dentro ad una stanza povera di un grande casolare, dietro imposte rigonfie dall’ultima tracimazione del fiume,

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la luce e la potenza di un amore si ribellavano ad uno status condiviso: i palpiti dei cuori, la sincronia dei respiri parevano una danza tribale per risvegliare ignoti dèi affinchè essi, in un atto di benedizione, conferissero incanto alle golene, poesia alla bruma e meraviglia alle correnti. Laggiù, in quella stanza, c’era Marta: giovane, bella, radiosa e innamorata e, stretto a lei, Giovanni le porgeva l’ambrosia confortante del suo amore. Lei si abbandonava, ebbra ed estasiata e sorrideva: non le importava nulla di ciò che vi era fuori, oltre quei vetri umidi e appannati, al di là di quelle imposte ammuffite. Cedeva al sonno con la beatitudine impressa sopra al viso, confortata dal contatto con il corpo del suo sposo, rassicurata da un abbraccio che conteneva il mondo: l’universo sicuro dei suoi affetti. La spinta dell’amore opera scelte, inforca strade ignote, sfida il buio, naviga le correnti, rinnega le radici e muove al nuovo, guardando avanti con gioia e con fiducia. Nessun rimpianto per il suo passato, per la città da cui era partita, per la sua famiglia numerosa da sfamare anche con il frutto del suo duro lavoro. “Domani partirai... - sentenziò, un giorno, suo padre - Andrai quaranta giorni alla risaia. Guadagnerai un gruzzolo di denaro e un sacco di riso sufficiente per l’inverno. Sono tempi di miseria, cara figliola. Tempi che richiedono ad ognuno grandi sacrifici...” Aveva solo quindici anni quando suo padre la accompagnò in stazione; quando, insieme ad una squadra di altre trenta lavoranti - tutte più o meno della sua stessa età - salì su un treno che, sferragliando sui binari, la condusse verso il suo destino... La campagna si perdeva a vista d’occhio con i suoi acquitrini sorvolati da nugoli di zanzare; l’acqua stagnante lambiva le caviglie della giovane mondina mentre lei, ricurva, trapiantava i germogli di riso, liberandoli dalle piante infestanti.

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Viscide bisce d’acqua fluttuavano tra i suoi piedi scalzi, tra le sue mani dalla pelle macera e i raggi di un sole umido e rovente le imbrunivano il volto, filtrando tra le maglie di un rozzo cappello di paglia. “Leste, più leste, signorine!” incalzava la capo-squadra che a Marta pareva già attempata, sebbene avesse solo otto anni più di lei. Cosa osservava il sole, in quei giorni di afosa foschia? Cosa vedevano gli dèi dall’alto di quel cielo indaco e uniforme? Minuscole formiche operose, a schiena curva sull’acqua putrida al fine di assicurarsi qualche chicco di riso. Oppure, in una proiezione ortogonale, solo una fila di cappelli di paglia, inanimati. Sì, inanimati... perchè a nessuno pareva interessare alcunchè della giovinezza di quelle mondine, dei loro pensieri, dei loro disagi, del fatto che giungessero a sera sfinite, che lavorassero in un luogo insalubre, che... “Marta, mi sento male... malissimo!” sibilò Vittorina. Senza nemmeno raddrizzarsi, la compagna le lanciò una rapida occhiata furtiva: tremava, aveva gli occhi lucidi ed il volto madido di sudore. “Coraggio, porta pazienza! Di tanto in tanto, bagnati la fronte: ti darà sollievo!” Ma Vittorina, esanime, si accasciò e, in un tonfo sordo, cadde in acqua, svenuta. Lucia, la capo-squadra, ordinò a tre ragazze di interrompere il proprio lavoro, al fine di aiutarla a sollevare Vittorina e a trasportarla all’ombra. La fanciulla rinvenne, ma era febbricitante e si lamentava. “Marta, corri a chiamare il padrone! - imperò Lucia - Digli di venire qui con il carro: Vittorina deve coricarsi. Tu rimarrai a vegliarla alla cascina fino al nostro ritorno, all’imbrunire!” La fanciulla obbedì: di lì a poco tornò con il signor Giuliani; Vittorina fu adagiata sul carro e condotta al cascinale e Marta le restò accanto sino all’arrivo della squadra, al tramonto.

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“Credo che morirò! - mormorò Vittorina - Anzi... ne sono certa!” “No che non muori! Il padrone è andato a chiamare il dottore!” la rassicurò Marta. “Farò esattamente come Cirillo!” insistette la malata. “Chi è Cirillo?” “Avevo una gallina francesina nel pollaio di casa, che covava sei uova. Una notte è entrata una faina, ha sbranato la gallina e le uova, risparmiandone solo uno, forse perché era rimasto nascosto nella paglia. Quando mia madre si accorse dell’accaduto, prese l’uovo e lo diede da covare ad una chioccia. Pochi giorni dopo esso si schiuse e nacque Cirillo: il mio pulcino. La chioccia si prese cura di lui, io gli diedi tutto il mio affetto, ma questo non bastò a strapparlo alla morte. Ora Cirillo, ovunque esso sia, è così solo... Mi sembra di sentirlo pigolare!” Marta rabbrividì all’ombra di un pensiero che le solcò la mente: Cirillo aveva semplicemente anticipato il tempo di un destino certo. Se non se ne fosse andato così, prematuramente, di lì ad un anno sarebbe finito in pentola. La sorte di ognuno è scritta... Dopo circa due ore, il signor Giuliani si presentò alla cascina con un giovanissimo medico di condotta che, con maniere timide, impacciate, visitò Vittorina, le prelevò un campione di sangue e si accomiatò per andarlo ad analizzare. Tornò all’imbrunire con la sua diagnosi: “La signorina è affetta da malaria. Deve essere isolata dalle altre compagne. Con il consenso del signor Giuliani, la porterò nell’infermeria annessa al mio ambulatorio e avvertirò suo padre, affinché venga per riportarla a casa”. Marta ascoltava impettita, senza batter ciglio. Seguì con lo sguardo ogni movimento: Vittorina venne di nuovo caricata sul carro trainato da un goffo cavallo grigio che, con un colpo di frusta, la portò via, oltre quell’orizzonte piatto e rarefatto. Cominciò allora ad affiorare, nella mente di Marta, quel

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dubbio che l’avrebbe accompagnata, forse, per sempre: non avrebbe mai saputo cosa la sorte avesse riservato all’amica, se gli dèi della palude l’avessero pietosamente risparmiata o se, invece, l’avessero condotta verso il suo compianto pulcino... “Stasera si va in balera, ragazze!” annunciò una voce carica di entusiasmo. Marta nemmeno conosceva il significato di quel termine, ma l’ardore, che aveva sottolineato l’iniziativa, aveva acceso la sua curiosità. Così, le mondine sfoggiarono l’abito più bello - o, per meglio dire, il meno sdrucito - e, a piedi scalzi, per non rovinare l’unico paio di scarpe, si incamminarono lungo una contrada polverosa, verso il più vicino paese. Poco prima dell’insegna che lo indicava, calzarono i loro sandali, si aggiustarono i capelli intrecciandovi qualche fiore di campo e prepararono lo spirito per una serata spensierata... “Permette questo ballo, signorina?” Marta alzò lo sguardo ed arrossì. Dinnanzi a lei, un giovane dal volto rubicondo le porgeva la mano. “Vai, Marta... balla! Vai con il tuo cavaliere!” la canzonavano le compagne con tono divertito e malizioso. Ella obbedì: si alzò dalla panca dov’era seduta e procedette, insieme al ragazzo, fino al centro della pista. Gli occhi sgranati su quel volto innocente di bambina bastarono a Giovanni per innamorarsi e lei trovò marito andando a lavorare alla risaia. Dinnanzi alla proposta di matrimonio, nessun indugio, nessuna esitazione: con un corredo di coltri ricamate, salì su un treno e, lieta, lo seguì. Non si voltò una sola volta indietro, affascinata da un nuovo panorama che cavalcava l’onda della sua fantasia: non più la vita chiassosa di città, ma la dolce pacatezza del fiume. Nulla importava se aveva solo quindici anni: aveva braccia forti ed era ormai temprata alle correnti della vita; era caparbia, tenace e combattiva e, soprattutto, era innamorata.

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Non le pesava lo sguardo circospetto di Maria, la suocera dall’aria torva e arcigna; Marta si affaccendava nel grande casolare tra campi e stalla, tra pollaio e vigna, tra ciò che spalle umane avevano rubato al fiume, tra ciò che lei strappava a quella terra che non era sua, sebbene lei sentisse di adorarla in quanto patria del suo amore. Alle fatiche non si risparmiava: mai un lamento, un capriccio o una protesta; aveva la felicità stampata in viso; cantando, lavorava sino a sera, quando si ritirava insieme al suo Giovanni e si addormentava cullata dai suoi baci. Di lì ad un anno nacque Guglielmino, i cui vagiti addolcirono Maria, così che quella vecchia dura e austera iniziò a trattare Marta con maggior benevolenza. A vent’anni, la sposa di Giovanni era già madre di quattro figli: al primogenito seguirono Gilberto, Anna ed Ovidio. Ventiduenne, partorì due gemelli prematuri che vissero una sola notte e, all’alba del giorno di Ognissanti, tornarono su in cielo per andare ad accudire - disse, piangendo, Marta - il pulcino dell’amica Vittorina. La grande casa brulicava di vita, era un gioioso carosello di presenze: una famiglia e la sua armonia, i suoi stabili equilibri, il suo flusso custodito da argini sicuri. Questo era il mondo nel cuore di Marta e la golena brumosa, i bianchi filari dei pioppi fungevano da cornice al suo stesso esistere. La quiete si insinuava nel suo intimo e diveniva parte di lei, regista del suo agire, del suo pensare, del suo vivere. Il fiume e il suo scenario, per lei, non erano noia: in fondo, l’esistenza scorreva tra quei flutti verso una foce che si chiamava amore, verso il suo mare di semplice felicità. I figli crebbero e, ad uno ad uno, scelsero la propria strada che li portò lontano. Via dalla Bassa, distanti da quel corso d’acqua che aveva irrigato la loro fanciullezza. Anche Anna,

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l’unica femmina a cui Marta era particolarmente legata, si maritò ed emigrò in Svizzera. Maria morì e, nel grande casolare, rimasero soltanto Marta e Giovanni in compagnia di alcuni armenti. “Dobbiamo eliminare queste vacche! - sospirò, un giorno, Marta con affanno - Siamo rimasti solo tu ed io, mancano braccia... Lo sai, Giovanni, che noi due, insieme, facciamo un secolo?” Mai, prima d’ora, si era lamentata. Quelle parole suonarono a Giovanni come un presagio che lo preoccupò: “Marta, cos’hai? Stai male?” inquisì. Ella arrossì ed abbassò lo sguardo, ritrosa. “Domani andrò al mercato! - la rassicurò lui - Hai ragione tu: troppo lavoro! Le vendiamo, mia cara, le vendiamo...” Senza la stalla, Marta si sentì sollevata: benché restassero ancora campi e vigna, poteva dedicare più tempo alla cura amorevole del suo sposo. Coglieva ceste di ortaggi e cucinava saporite zuppe, profumandole con un abbondante trito di erbe aromatiche; impastava uova, farina, zucchero e burro e ne ricavava rustiche ciambelle da intingere nel Lambrusco. Nel periodo della vendemmia, preparava scodelle di sugo cremoso ottenuto con il mosto; in estate grigliava bionde pannocchie di granoturco sulle braci. Ogni gesto, ogni azione era in funzione del suo Giovanni. Egli la ricambiava con la stessa tenerezza, la medesima dedizione. “Lo sai, Giovanni... - raccontò Marta, un giorno - Quando lavoravo alla risaia, avevo una compagna: Vittorina. Un pomeriggio di afa asfissiante, si ammalò, le venne la febbre e svenne nell’acqua putrida. Io stessa corsi a chiamare il padrone, su ordine della capo-squadra. Caricammo la ragazza su un carro, sino al cascinale che ci ospitava. Stava tanto male, poverina! Mi disse, piangendo, che sarebbe morta, ma la cosa

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non pareva spaventarla, anzi... sembrava quasi desiderosa di raggiungere il suo pulcino di gallina francesina che era spirato nonostante tutte le cure amorevoli che lei gli aveva riservato. Venne alla cascina un giovane dottore: la visitò, le aspirò una siringa di sangue, lo analizzò e disse che aveva la malaria. La caricammo sul carro ed io rimasi sull’aia a guardarla mentre si allontanava per sempre, lasciandomi nel dubbio riguardo alla sua sorte. Non la rividi più, però la sogno sempre... se affiora nei miei sogni, significa che è morta, non è vero?” “Non è detto, mia cara... A volte si sognano fatti che non corrispondono alla realtà!” “Davvero? - sospirò lei con sollievo - Meno male... la scorsa notte mi sono svegliata piangendo in preda a un incubo che, da un po’ di tempo, turba i miei sonni...” “Stai tranquilla, Marta: hai detto bene... non è che un brutto sogno!” Chi può prevedere che l’argine maestro sia davvero sicuro? Che riesca a contenere la furia di una piena, che salvi le golene e le sue genti? Che sia in grado di sfidare gli umori del fiume, che davvero si riveli invulnerabile? Chi può dire che un incubo è solo finzione? Esso non traduce forse le paure dell’inconscio, la fragilità dell’essere, le inquietudini dell’intimo? Chi può avere la certezza che esso non sia foriero di una sorte, che non racchiuda un funesto presagio? Nel suo incubo, Marta vagava sola, disorientata e confusa nella nebbia. Una bruma così fitta da non permetterle di vedere nulla, intorno a sé. E lei, angosciata e smarrita, chiamava Giovanni, ma egli non rispondeva. Come poteva abbandonarla così, lasciarla in preda allo spavento, rifiutarle il suo conforto? Giovanni non rispondeva perché non la poteva udire, perché non c’era più. Chi può dire che un incubo non sia veritiero?

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Basta un minuto a creare il dolore. Basta un attimo perché l’argine maestro, ritenuto saldo e sicuro, si riveli all’improvviso fragile e cedevole ed il fato straripi, sconvolga gli equilibri, sparga desolazione... Una sera Giovanni si addormentò accanto a Marta e non si risvegliò più... Come ogni sera, il buio scorse Marta che, affacciata alla finestra, annaspava alla ricerca di un respiro che le moriva in gola. Nemmeno avvertiva la pioggia che, cadendole sul capo, sul viso, si mesceva alle sue lacrime, mentre la solitudine apriva una voragine nel suo cuore e lei vegetava in un mondo dove non si riconosceva più. La grande casa, che era stata così piena di vita, ora era vuota e lei si aggirava mestamente tra le stanze, come un fantasma, in compagnia dei suoi ricordi, delle sue nostalgie... Fuori dai vetri, le lande sterminate, avvolte nella nebbia, parevano uno sconfinato cimitero e lei neppure più capiva se era morta o viva. Di certo, la vita che aveva conosciuto, seppure povera, era stata felice, colma d’affetto accanto al suo Giovanni, ma ora, all’improvviso, tutto era cambiato, anche la sua certezza di esser viva. Eppure non era morta, perché, se così fosse stato, avrebbe rivisto Giovanni, i suoi gemelli nati e subito volati in cielo e il pulcino Cirillo... Forse, avrebbe visto anche Vittorina... o forse no, se il destino l’aveva risparmiata... Dunque, dove si trovava veramente? Come nell’incubo vagava sola, disorientata e confusa nella nebbia della sua esistenza. Procedette, in preda all’angoscia, anche quella notte: i piedi scalzi, una lunga camicia di mussola leggera a coprire il suo corpo oltremodo dimagrito. Era sempre stata una persona concreta, razionale, ma ora ogni logica pareva obnubilata da quella fitta cortina di foschia, dal vortice tumultuoso della sua disperazione.

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Scavalcò la balaustra sul ponte e si sedette con le gambe a penzoloni sul fiume. Un lieve tremore, un brivido, un singhiozzo avrebbero potuto risultarle fatali. Non le importava più nulla: il mondo aveva smarrito i suoi colori, la vita non aveva più senso... Lorenzo, il giovane veterinario del paese, era stato chiamato da un contadino per un parto podalico della sua giumenta. Nel tragitto verso la fattoria, scorse Marta e presagì le sue intenzioni disperate. Con un gesto fulmineo, con una presa forte, la afferrò per un braccio e, parlandole pacatamente, la convinse a desistere. Poi, la condusse a casa e, prima di tornare al suo lavoro, si premunì di telefonare ad Anna, in Svizzera, per raccontarle la preoccupante prostrazione della madre. L’indomani Anna arrivò al casolare. Marta si sforzò di apparirle serena, ma la figlia sapeva quanto la madre sapesse abnegarsi e fingere per le persone che amava. “Ti ho portato un regalo!” disse la giovane porgendo a Marta un pacchetto dalla forma piatta e rettangolare. “Ma io non ho bisogno di niente, lo sai!” “Avanti, scartalo!” La donna obbedì: “Ma che cos’è?” “Un computer portatile!” “Un computer?! Ma... è per me?” chiese Marta sbalordita. “Certo. Ho già contattato la Claudia, te la ricordi? La figlia della Nanda?” “Sì, ho capito... ma cosa c’entra la Claudia con questo aggeggio?” “Ti insegnerà ad usarlo: potremo scriverci quando vorrai e ci potremo anche vedere sullo schermo! E poi Claudia ti mostrerà alcuni programmi con i quali potrai ricercare amiche di gioventù che hai perduto di vista...” “Anche la Vittorina?”

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“Certo... vedrai, mamma, ti piacerà!” Difatti, Marta imparò l’uso di alcuni programmi e vi si appassionò. Appena risultò abbastanza esperta e non ebbe più bisogno dell’aiuto di Claudia, digitò nome e cognome della sua compagna mondina. Incredibilmente, si aprì una finestra con il profilo di una signora attempata dai capelli grigi raccolti in una crocchia. Marta ricercò un indizio alla voce “fotografie” e gliene apparve una che ritraeva quella donna in età adolescenziale, vestita con un paio di calzoncini corti e una maglietta a righe orizzontali. Sul capo aveva un cappello di paglia a tesa larga. Accanto a lei, abbigliata più o meno allo stesso modo, compariva un’altra ragazza, un poco più giovane. Entrambe avevano i piedi immersi nell’acqua. Marta aguzzò la vista: non credette ai suoi occhi... Si riconobbe in quella fotografia: sì, era lei da fanciulla, ogni dettaglio le parlava dei suoi giorni alla risaia. Dunque, Vittorina ce l’aveva fatta, era guarita ed era viva! In un guizzo di felicità, Marta digitò un messaggio all’amica: “Mia cara Vittorina, il tuo ricordo mi ha accompagnato per tutti questi anni. Ho temuto per te, quando ti ho visto andare via, su quel carro, malata e febbricitante. Non immagini la mia gioia nell’averti ritrovata. Tanti eventi si sono susseguiti, contrassegnando la mia esistenza, ma, di certo, tutto è partito dalla risaia. E nella Bassa ho deciso di restare per amore. Con il mio Giovanni sono stata felice: egli era il mio argine maestro, saldo e forte. Ma ora non c’è più e sono sola, smarrita e disperata”. “Mia cara Marta, dimmi dove stai. Ho voglia di vederti: ti verrò a trovare! Ricordi quel dottore timido e impacciato che diagnosticò che ero affetta da malaria? Beh... è diventato mio marito! Non essere triste: non ti lasceremo sola... ora che ti ho ritro-

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vato, sarai per noi una di casa!” Talvolta, la furia dell’acqua infrange gli argini e invade le golene. Sommerge le case, annega la vita... Poi, piano piano, il fiume ritorna nel suo letto, le campagne si asciugano e tutto riprende il proprio corso. Lentamente, con debolezza come un corpo debilitato da una malattia. Tuttavia la vita, in qualche modo, procede. E ancora, in primavera, ritornano le anatre selvatiche. E ancora, in estate, il grano biondeggia nella pianura sterminata...

Annalisa Bertolotti è nata a Reggio Emilia dove vive e lavora come docente di Lingue Straniere presso un Istituto Secondario Superiore. Da sempre interessata di Letteratura e di studio del dialetto locale, ha all’attivo diverse pubblicazioni di romanzi e di sillogi poetiche sia in italiano che in vernacolo. I paesaggi dell’Appennino e della Bassa fungono sempre da sfondo ideale in cui inserire i personaggi della sua narrativa. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari e di poesia, aggiudicandosi sempre il giudizio favorevole delle varie Giurie.

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Con gli occhi del Sud di Viviana Iiriti

Carpi, ottobre 2013, ore 18:00 La prima volta che arrivai nella bassa reggiana mi accolse la nebbia umida dell’autunno più freddo mai conosciuto. La pioggia sgorgava senza interruzione da ogni fessura: dai tetti delle case, dai davanzali delle finestre, dagli angoli delle strade, dai cingoli delle biciclette… delle tante biciclette. Pensai: “Ma come fanno?” c’era acqua da tutte le parti. Qualunque direzione prendesse si ricongiungeva qualche metro più in là a comporre un fiume ininterrotto che dalle mille origini si riversava compatto in tutte le sue molecole ai lati delle strade. Sembrò una perfetta sintesi della mia vita: di tante direzioni questa era solo un’altra delle tante esperienze che si sarebbero congiunte. Scesi alla stazione di Carpi alla quale giunsi grazie ad un qualcosa che somigliava vagamente alla nostra littorina, al Sud la chiamiamo così, un piccolo treno composto da un vagone unico e contenente solo una ventina di passeggeri. Qui lo chiamano semplicemente accelerato, secondo la vecchia dicitura dell’azienda dei trasporti italiana e fa da spola tra le stazioni di CarpiModena e Modena-Carpi. Avanti e indietro, avanti e indietro in una continua routine che scandisce le giornate dei lavoratori o degli studenti che ne affollano le cabine. Prima di Carpi dovetti però raggiungere Bologna, forse una delle poche città che fino a quel momento mi avevano affascinato in quello che per noi era ed è tutt’oggi il grande Nord. Vidi solo la stazione, ma in due anni feci in tempo a vedere anche i cambiamenti soprag-

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giunti dalla corsa all’alta velocità. Tra le due mi sentivo molto più affine alla lenta littorina emiliana: ero improvvisamente a casa tra geometrie ridotte, calma piatta, silenzio umido e freddo e ogni cosa occupava il suo posto in un’intesa armonica senza eguali, tutto quel che appariva davanti ai miei occhi ispirava senso di pace ed equilibrio interiore. Mi stancherò presto di questa tranquillità? Di questo avanti e indietro, avanti e indietro… che mi fa un po’ paura. Ma dove altro potrei andare se non incontro a quest’andirivieni, a cavallo sopra una di quelle biciclette, sfidando pioggia, nebbia e intemperie solo per afferrare una delle poche possibilità che mi offre la vita? Una nuova proposta di lavoro e la demoralizzazione sarebbe stata per un po’ di tempo una preoccupazione accantonata. Decisi: nessun rimpianto. Scesi mentre la pioggia mi costrinse a coprire le spalle e la testa con l’unico indumento che indossavo in quel momento, una semplice maglietta di lana molto sottile. Feci qualche passo con lo zaino poggiato sulla spalla destra, la valigia trainata di polso sinistro, il groppone carico di concitati sacrifici e alzato lo sguardo non vidi assolutamente niente. La nebbia era così fitta che riuscivo a malapena a vedere il muro che mi sbarrava la strada di fronte. In un attimo la piccola stazione carpigiana mi sembrò così enorme da incutermi un leggero terrore che sentii percorrermi dovunque. Sola, in un posto sconosciuto in cui avrei dovuto cambiare ancora una volta le mie abitudini, dove avrei dovuto riscrivere un nuovo capitolo della mia esistenza. I pensieri rimbombavano nella mia testa come tuoni di preavviso alla tempesta. Seguii un uomo che era sceso dallo stesso treno e quindi trovai l’uscita poco più avanti. Lui era certamente del posto, mi dissi, quando improvvisamente si voltò per leggere il tabellone alto sopra le nostre teste. Si accorse di me e si fermò improvvisamente. “Mi scusi signorina”. “Non si preoccupi. - risposi molto convenzionalmente, poi ne

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approfittai - Mi scusi lei, ehm... potrebbe dirmi dove posso trovare un taxi?” “Certo signorina, subito fuori dalla stazione, dove deve andare?” L’accento di quell’uomo mi colpì immediatamente. Era la prima volta che mi trovavo di fronte ad un emiliano, cercai di ricordare i tempi in cui vivevo a Roma per frequentare l’università, ma non mi veniva in mente nessun collega che parlasse con un accento simile, lì ne conobbi di tutti i tipi ma nessun emiliano, tentai di darmi una risposta e pensai che evidentemente pochi da queste parti avevano l’esigenza di espatriare al Centro o al Sud per motivi di lavoro o studio. Mi convinsi fosse solo un caso. Non potei fare a meno di notare la pronuncia delle “s” e delle “z”, emettevano un suono deciso e tintinnante che appariva al mio udito straniero minuziosamente elegante. La fine di ogni parola sembrava trascinarsi dietro l’ultima sillaba in una sonorità intenta a creare un certo ritmo di fine frase che rilassava i nervi e schiariva la mente. Pensai a quali considerazioni fosse giunto il mio interlocutore sentendo invece il mio pesante e marcato accento meridionale. Abbandonai la mia analisi per rispondere a quell’uomo che pareva tanto gentile: “Devo andare a Correggio”. “Lei non è di queste parti mi sembra di aver capito”. Adesso ne avevo la certezza anche lui aveva analizzato la mia fonetica. “No, sono calabrese”. “Ah! Bella la Calabria, e di dove precisamente?” “In provincia di Reggio Calabria”. “Non ci sono mai stato a Reggio Calabria, ma mi dica di quale paese di preciso?” Quella domanda mi sembrò molto strana. Ero certa che non lo conoscesse, nessuno conosce le piccole cittadine di una provincia che per sua affermazione inoltre non aveva mai visto, per quanto strana che fosse trovai altrettanto strano il non sa-

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pervi rispondere. Pronunciai semplicemente il nome e come previsto il viso mostrò quella smorfia tipica di un pensiero rivolto a qualcosa di ignoto. Dovetti quindi spiegare che si trattava di un piccolo paesino sul mare con poco meno di 4.000 abitanti la cui bellezza particolare risiedeva nella presenza di un mare limpido e cristallino, estati lunghe e calde, un’antica sinagoga ebraica ed una cultura grecanica secolare. Poco altro. Parve soddisfatto. “Abito a Correggio, sa?” “Ah!” “Purtroppo adesso sono in giro per lavoro altrimenti le avrei dato un passaggio, vediamo, potrebbe prendere la corriera ma è troppo lontana dalla stazione ferroviaria e con questo tempo le conviene di sicuro il taxi!” “La corriera? Vuol dire l’autobus?” chiesi in tono vistosamente confuso. “Sì la corriera... l’autobus... è la stessa cosa”. L’unica volta che sentii parlare di corriera, riferendosi ad un mezzo di trasporto, fu su un libro che parlava della fine del 1800 in America, infatti appena l’uomo pronunciò quella frase nella mia mente si delineò l’immagine di un carro in legno trainato da cavalli il che mi parve alquanto strano ma nello stesso tempo mi fece apprezzare ancora di più quel posto e quell’uomo tanto gentile che mi stava di fronte. La corriera rendeva l’idea di un qualcosa di dolcemente arcaico, una sorta di espressione di un ricordo di tempi antichi ma ben fissi nella memoria di un uomo o di un popolo; scoprire come si fosse conservato così a lungo nel linguaggio comune fu una piacevolissima sorpresa. E l’uomo? Memore di avermi fatto conoscere il primo pezzo di storia locale, nella mia immagine fantascientifica si guadagnò il ruolo di cocchiere. Si avvicinò verso di me e in maniera decisa prese da una parte la mia valigia a rotelle e dall’altra il mio zaino. Io non riuscii subito a comprenderne il motivo ma rimasi completamente immobile e non feci alcuna resistenza: non un fiato, neanche

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un banalissimo grazie. In fondo speravo che non se ne andasse e che proseguisse quel viaggio insieme a me, magari raccontandomi aneddoti interessanti guardando fuori dal finestrino. Arrivò il momento della partenza, accennai un saluto imbarazzato al mio accompagnatore pronunciando una frase convenevole: “Grazie di tutto, spero di rivederla e buona domenica!” dissi mentre montavo in macchina. “Si figuri signorina e non si preoccupi, ho l’impressione che ci rivedremo molto presto”. Poi chiuse lo sportello da vero galantuomo. Ancora una volta sentii quel tremito lieve percorrermi nel petto. Fece per andarsene ma d’improvviso tornò a mostrarsi al di là del finestrino, ed ecco ancora sopraggiungere il tremore. “Oggi è domenica! Si ricordi di assaggiare dei buoni cappelletti!” “Oh certo! I tortellini, ne ho sentito parlare e stia tranquillo era già in agenda”. “Oh no signorina, io parlo dei cappelletti, quelli veri! Di nuovo, buona giornata!” Mi lasciò letteralmente inerme. Non capivo. Fino a quel momento avevo avuto la piena consapevolezza che i tortellini che almeno una volta al mese intingevo nel brodo bollito con acqua e dado, che puntualmente acquistavo al supermercato avendo cura di fornirmi di quelli più costosi per assicurarmene la qualità, fossero tipicamente un prodotto emiliano. Avevo appena scoperto che per 28 anni avevo creduto ad un’imitazione perfetta. La realtà era ben diversa ed ebbi modo di accorgermene la sera stessa. Durante il viaggio per raggiungere il mio alloggio correggese rimuginavo su quell’incontro inatteso. Cercai di farmi un idea di quale potesse essere il nome di quell’uomo tanto gentile e deciso a non abbandonare i miei pensieri. Non trovai nulla di appropriato. Sentivo ancora il suo dopobarba inondare il mio spazio vitale di un profumo aspro e avvolgente, il suo viso

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d’uomo vissuto ritornava alla mia mente come un desiderio straripante. In un attimo capii che in quel minuto lasso di tempo conobbi non un uomo, bensì un inebriante senso di protezione. Cercai il suo volto al di là del finestrino. Era assente. Al suo posto entrò in scena la pianura padana. La bassa reggiana, novembre 2013, ore 19:00 Lo spettacolo che mi si prospettava di fronte riuscì a scuotermi dall’interno. Nonostante la nebbia opacizzasse i colori naturali di quella visione, le immagini scorrevano piacevoli all’avanzare delle gomme del taxi mostrando la campagna emiliana in tutta la sua bellezza. Cercai di individuare sul vetro del finestrino il riflesso del mio viso, avrei voluto immortalare nella mia memoria non solo ciò che stavo ammirando bensì anche lo stupore che quel momento mi stava provocando. Davanti ai miei occhi si stendeva la pianura, un fenomeno geofisico che non ebbi mai la possibilità di ammirare né credevo fosse possibile tale linearità, tale ordine e tale cura per la propria terra. Di certo c’era la mano dell’uomo in tutto ciò che stavo intensamente guardando ed ebbi pertanto la conferma che non sempre quello che è stato manipolato dal passaggio dell’umanità era un male per il mondo: in questo caso, la bonifica della palude, che regnava sovrana nei primi anni del Novecento, permise di razionare la produzione e accrescere il valore di un territorio che da quel momento in poi divenne per me indimenticabile. Il paesaggio mi ricordò moltissimo le scenografie dei deserti dell’Arizona, quelli che solitamente vengono ritratti nei film di Ford, delle steppe americane dell’ovest dove un cowboy a cavallo percorre i chilometri per un viaggio infinito verso l’orizzonte che sembra non raggiungere mai mentre la telecamera resta fissa sul suo piedistallo. In quel momento ero io la camera ferma in un punto a fissare l’orizzonte che, per quanto fosse annebbiato, aveva il potere di infondere un senso di pace mai provato prima ma anche un senso di profonda dispersione.

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In un attimo, dimenticato il motivo della mia visita, lasciatami alle spalle il bell’uomo senza macchia e senza paura e annullando ogni pensiero e turbamento per le preoccupazioni della vita, mi feci abbracciare da quelle sensazioni che sapevo non mi avrebbero abbandonata mai più. Nello stesso tempo un’altra sensazione riaffiorava alternandosi a quella precedente. Mi sentivo come aggrappata ad un ramo sporgente lungo il corso di un argine, in bilico tra una rovinosa caduta o una salvezza afferrata con le unghie e con i denti. Quali erano i movimenti giusti da intraprendere? Mentre il mio sguardo e i miei pensieri si barcamenavano tra panorami sorprendenti e paure esistenziali, l’accento familiare del conducente si face largo nello spazio circostante: “Qual è l’indirizzo preciso?” chiese all’improvviso l’autista del mezzo mentre io tornavo lentamente alla vita reale. Mi accorsi che la pioggia intanto riprendeva a battere sul finestrino dell’auto deformando le immagini che giungevano dall’esterno. Debolmente risposi: “Ehm… via Roma, numero 2. Grazie”. Senza neanche guardare in faccia l’uomo, dalla sua voce capii subito che non era del posto. Non è una cosa inusuale da queste parti e in due anni di permanenza ne avrei avute tante conferme. Si sa che molti meridionali risiedano stabilmente al Centro Nord spinti dal bisogno di trovare un lavoro e un’opportunità per vivere meglio o forse molto più semplicemente per vivere. Non ci sono grandi aspirazioni dietro una decisione di questo tipo, non è mai semplice abbandonare tutto e tutti per ripartire da zero. Non c’è neanche la certezza che sia effettivamente la volta definitiva o se invece sarà solo la prima di una lunga serie di nuovi inizi; in ogni caso sentii già di comprendere e conoscere la storia di quell’uomo, non poteva essere tanto diversa dalla mia pertanto tornai ai miei pensieri senza chiedergli nulla. Probabilmente però anche l’autista del taxi si accorse della simile provenienza e, senza neanche chiedermi conferma, iniziò un breve racconto intriso di nostalgia e analisi autocritica.

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“Come può vedere, da queste parti il tempo è molto ostile, essendo in una sorta di conca tutte le perturbazioni vi si concentrano e ristagnano a lungo ed insieme al tempo si rende uggioso anche tutto quello che vi risiede. Quando partii per la prima volta fu così traumatico che tornai a casa nel giro di un mese. Cosa vuole, avevo già quarant’anni, una famiglia alle spalle, un matrimonio fallito, due figli da mantenere che aspettavano a casa e stare lontano da loro fu comunque pesante da accettare. Ma sa cosa trovai una volta tornato a casa? Mia moglie aveva chiesto il divorzio e si era trasferita al Nord, tuttora non ho idea di dove risieda, i miei suoceri fecero i bagagli e tornarono nella loro vecchia casa portandosi dietro i miei bambini. Faticai molto prima di riuscire a convincerli che il loro posto era insieme ai genitori, anche se in quel preciso momento cominciavo a rendermi conto di essere l’unico a rappresentarne la categoria. Alla fine non poterono di certo opporsi più di tanto e di conseguenza la situazione si risolse con la promessa che sarebbero venuti a trovarli ogni qualvolta ne avessero sentito il bisogno. Da quel momento covarono tanto risentimento, non erano abituati al trambusto di un divorzio che in quegli anni rappresentava ancora un notevole disonore. Poi cominciai a cercare lavoro. Lavorai un po’ nei campi raccogliendo il bergamotto, era il massimo che si riusciva a trovare e la paga era decisamente di quelle dell’epoca feudale. Rientravo la sera e guadagnavo a sufficienza per pagare le bollette di casa che ad un certo punto smisi anche di corrispondere. Dall’altra parte i miei suoceri non mancavano di farmi sapere che non ero un padre adatto al mio ruolo, che quello che facevo non era sufficiente e che la mia codardia e la mia incapacità mi avrebbero portato a perdere anche loro. Quei discorsi in qualche modo mi riportarono in questi luoghi e improvvisamente mi resi conto che in un mese di soggiorno cupo e malinconico questa pianura mi aveva lasciato un qualcosa rimasto nascosto dentro di me e non fu facile comprendere cosa fosse. Oggi ne ho la certezza: fu quell’orgoglio che vidi negli imprendito-

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ri del posto a convincermi che io potevo essere come loro e che dovevo esserlo per dare un futuro ai miei bambini. Così misi in vendita la mia casa, chiesi un prestito ad alcuni amici e comprai la licenza da tassista, presi un appartamento nella periferia di Carpi. Adesso vivo qui con i miei figli, uno dei quali va all’università. La mattina lavoro in un ristorante in centro e il pomeriggio siedo su questo sedile e mi alleno ad assumere ogni giorno quel carattere fiero e soddisfatto che si addice ad un uomo. Beh, comunque! Oggi il tempo è abbastanza magnanimo, guardi lei stessa”. Voltai lo sguardo nella direzione del finestrino e mi accorsi che la pioggia aveva smesso di battere e il cielo si faceva più limpido e in lontananza credo di aver addirittura intravisto una piccola stella, una luce che riaffiorava dall’oscurità e ti faceva sentire un po’ più sicura, ti offriva un orientamento e un punto di riferimento. La risposta a quanto stavo vivendo era unica e sola: facciamo parte tutti dello stesso mondo, possiamo essere in luoghi diversi ma quella luce la si può vedere da ogni posizione e da ogni luogo. Improvvisamente mi sentii più sicura, afferrai quel ramo e affrontai la paura che da un momento all’altro potesse rompersi. E dentro di me ripetevo facciamo parte dello stesso mondo. Correggio, novembre 2013, ore 19:30 Il taxi si fermò all’incrocio tra Via Roma e Corso Mazzini, la mia destinazione era proprio in quel vicolo dall’aspetto incredibilmente medievale. Un attimo prima che il motore si fermasse la mia attenzione si spostò dalla bellezza della pianura alla caratteristica mappatura del centro correggese. La filiera di pilastri e portici che scorrevano sui due lati percorsi dall’autovettura destò la mia curiosità e in un attimo pensai che da queste parti la pioggia era un nemico costante che da secoli sfidava l’uomo nel trovare la soluzione migliore per convivere con la sua repentina presenza. Le luci dei negozi offrivano inoltre l’immagine di un antico borgo con annessi artigiani, falegnami

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e venditori di ogni tipo pronti ad offrire i prodotti di uso comune ma, il rumore delle tazzine da caffè del bar all’angolo e i lenti passi delle famiglie che percorrevano il marciapiede con tanto di passeggini e figli al seguito, mi riportarono immediatamente nel ventunesimo secolo. L’atmosfera, se anche irrigidita dal maltempo, che tanto all’inizio mi ispirò tremori e preoccupazioni, adesso mi inondava di calore e tradizione. Erano sensazioni identiche a quelle che ricordavo di aver già provato a casa mia nelle buie sere d’inverno davanti ad un camino accesso, con una coperta scozzese sulle spalle a consolarmi di tutte le fatiche del giorno, inebriate dal gradevole profumo di caldarroste e pane cotto che giungevano dalla cucina dove mia nonna aveva appena finito di sfornare le prelibatezze della giornata. Questa volta non fu il pane cotto imbevuto di fresco olio d’oliva e origano appena raccolto a suscitare in me questi piacevoli ricordi, bensì un leggero profumo di brodo caldo lasciato bollire sul fuoco e a diffondersi e a confondersi con l’aria trasportata dal vento. Chiunque aggirandosi per i vicoli della cittadina in quel momento avrebbe sicuramente desiderato trovarsi attorno al tavolo imbandito con un bicchiere di buon vino a sorseggiare quella delizia e a lasciarsi coccolare dal calore del focolare. Mi lasciai trasportare da quei pensieri profondi ispirati dal profumo di buon cibo domestico. Afferrando nuovamente la valigia e lo zaino come in un rituale, seguii il percorso delineato dalle colonne portanti. Il numero due di via Roma era poco più avanti l’inizio della biforcazione che divideva la via da Corso Mazzini. Da accordi precedentemente presi con la proprietaria di casa, suonai il campanello per due volte in attesa di essere ricevuta. In pochi secondi scese dalle scale dell’abitazione una signora bionda e alta, molto magra, ma di una gentilezza che mi mise subito a mio agio. “Tu sei la giovane ragazza calabrese... vieni, vieni ti stavamo aspettando. Ti faccio vedere tutto… sai qui non capita spesso

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di avere affittuari e quindi ho ripulito tutto al meglio per farti avere almeno il minimo indispensabile. Per qualunque cosa basta che suoni al piano di sotto, se non ci sono io c’è mio marito. Chiedi pure tutto ciò di cui hai bisogno, non farti problemi… noi siamo molto tranquilli, puoi portare a casa chi vuoi di certo non ti controlliamo!” Parlava con estrema velocità tenendo le mani sollevate verso l’alto e ad ogni esclamazione protendeva le dita verso l’esterno. I gesti davano una migliore collocazione a ciò che diceva e nel giro di pochissimi minuti mi fece vedere l’appartamento. Una piccola stanza con un letto matrimoniale e un armadio molto grande e senza alcun dubbio antico, un piccolo bagnetto con annessa una moderna lavatrice e una cucina attrezzata al punto giusto per soggiorni confortevoli. Lasciò per ultima la parte migliore: un piccolo balconcino ma che offriva una vista davvero speciale. L’appartamento risiedeva al quarto piano in un palazzo di tiratura antica, da qualche parte qua e là si intravedevano i segni del terremoto che colpì il comprensorio della provincia di Modena ma per quel che potei constatare gli effetti si diffusero anche nelle provincie adiacenti. Ricordavo di aver seguito le vicende al telegiornale con particolare apprensione, ogni crepatura sembrava una ferita immobile radicata non solo tra le mura di casa ma anche nella memoria di chi aveva vissuto quei momenti. Nella mia cittadina si vive costantemente con la paura di una scossa violenta che possa ricalcare anche solo in parte i tragici momenti del 1908. Allontanai quel pensiero, mentre la cordiale signora si abbandonava ai racconti di quella notte che li costrinse a riversarsi in strada in balia di un evento incontrollabile e in attesa di sentire il battito cardiaco riprendere il ritmo normale. Decisi di affacciarmi dal quel balconcino, prendere aria e dispormi alle emozioni che mi avrebbe suscitato. Mi sarei aspettata un leggero spossamento dovuto all’altezza notevole dell’edificio ma l’effetto fu del tutto sorprendente. Da quel-

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la prospettiva potevo ammirare il panorama offerto dalle luci delle case, dal vociferare della gente che si apprestava a sedere al tavolo per la cena, dal pianto dei bambini appena nati che muovevano i primi passi della vita pronti ad acquisire l’identità dei luoghi di appartenenza. I tetti delle case si modellavano davanti ai miei occhi e nell’oscurità autunnale, tra odori inebrianti, luci calde e ambientazioni familiari, sentii che molto di questa nuova avventura mi avrebbe sorpresa, mi avrebbe catturata e in qualche modo cominciai a sentirmene parte. “Allora, adesso ti lascio in pace, così puoi sistemarti… metto le chiavi nel cestino vicino alla porta di ingresso. Ti ho messo una macchinetta per il caffè in cucina così domani puoi prepararti la colazione. In mattinata preparo un po’ di galani e te ne porto un bel vassoietto, vedrai che delizia… io sono molto brava a prepararle… mio marito dice che avrei potuto venderle per strada e che probabilmente me le avrebbero pagate a peso d’oro per quanto sono buone… ahahah... ovviamente io non ci credo, lui è troppo di parte. Un’altra cosa ricorda di chiudere il portone in fondo alle scale quando esci. Per il resto sentiti come a casa tua, noi non ti daremo per niente fastidio… adesso vado… ciao cara, ciao”. Ebbi solo il tempo di ringraziarla sottovoce mentre saltava gli scalini impaziente di riprendere le attività quotidiane da buona moglie, impaziente probabilmente di raggiungere il suo di focolare. In quel momento decisi di uscire e andare ad assaporare le delizie di cui tanto si vantavano da queste parti. Una volta arrivata sul pianerottolo fui di nuovo invasa dagli odori più diversi che fuoriuscivano dalle finestre aperte nelle case del vicinato, cercai di individuare l’origine del piatto o perlomeno mi interrogavo su quale fosse l’ingrediente principale. L’odore di soffritto avrebbe potuto generare un’infinità di piatti differenti, probabilmente una bolognese mi dissi, ma non l’avrei mai saputo con certezza, dovevo assaggiare.

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La trattoria, Correggio, novembre 2013, ore 20:15 Quella sera mi diressi verso Corso Mazzini seguendo il percorso delineato dai portici dall’altro lato della strada fino a raggiungere con piacevole soddisfazione una piccola ma coloratissima trattoria, l’insegna recitava Trattoria Tre Spade, sulla vetrina una notevole raccolta di adesivi che mostravano i premi e le recensioni delle più importanti riviste e agenzie di promozione enogastronomica. Curiosa di avere un primissimo assaggio della cucina locale entrai e presi possesso di uno dei tavoli imbanditi. Dando uno sguardo intorno mi resi conto di essere la sola cliente quella sera ma mi sentii subito a mio agio. L’ambiente era molto accogliente e dalla porta sul fondo fuoriuscivano rumori tipicamente attribuibili ad una cucina di un qualunque ristorante. All’improvviso da quelle porte uscì un uomo adulto con in mano solo un grembiule. Si diresse verso di me e mi diede il benvenuto: “Buonasera signorina, cosa le porto?” “Buonasera a lei. Sa, sono nuova di queste parti e vorrei assaggiare qualcosa di tipico, lei cosa mi consiglia?” “Possiamo prepararle dei tortelli di zucca, oppure dei tortelli verdi, una bolognese…” All’improvviso riaffiorò nella mia mente l’uomo senza macchia e senza paura recitare le sue ultime parole: “oggi è domenica… si ricordi di assaggiare dei buoni cappelletti”. “Vorrei un piatto di cappelletti in brodo, per favore, il tempo mi sembra ideale”. Ripetei sulla scia dei ricordi al sapore di dopobarba. “È sempre il tempo ideale per un buon piatto di cappelletti signorina. Le andrebbe anche un buon bicchiere di Lambrusco?” “Faccia lei, si consideri la mia guida enogastronomica per questa sera”. “Perbacco! Sarà un piacere”. L’uomo si diresse nelle cucine e ne sarebbe uscito solo trenta minuti più tardi, con ogni probabilità non si aspettavano di ri-

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cevere nessun’altro durante la serata. Mentre attendevo questa volta rivolsi i pensieri alla mia famiglia, probabilmente riunita a tavola a ingurgitare la possente parmigiana della mamma! Oppure le cozze appena raccolte di papà! Qualunque cosa stessero facendo sentivo comunque la loro vicinanza anche se risiedevo ormai a chilometri di distanza. La mia guida enogastronomica uscì dalla sala delle vivande e iniziò a distribuire sul mio tavolo un bicchiere pulito, una bottiglia di vino che riportava sul dorso la dicitura “Etichetta del Centenario - Lini 910 - Lambrusco” e un cesto di pane dalla forma a ragno, decisamente bizzarra. Alzai lo sguardo per ringraziare l’oste ma la sua attenzione era stata catturata dal nuovo cliente che aprì la porta alle mie spalle e, dirigendosi verso il nuovo entrato, gli diede il benvenuto: “Signor Galanti! Sono felice di vederla questa sera, le preparo subito un tavolo”. “Non c’è bisogno, la ringrazio oggi ceno in compagnia della signorina seduta proprio davanti a lei”. “Ah! Non sapevo attendesse una persona”. Si rivolse verso di me e il mio viso, increduli entrambi di quanto stavano ascoltando. D’istinto voltai le spalle e davanti ai miei occhi si delineava una figura alquanto familiare. Il cuore iniziò ad aumentare il ritmo dei battiti, ad ogni passo dell’uomo che stava sulla porta, aumentava la sua intensità fino a sentirlo sopraggiungere alla gola. “Buonasera!” disse togliendosi il cappotto e riponendolo sullo schienale. Successivamente sporse una busta di carta leggermente inumidita dalla pioggia e la spinse verso di me con delicatezza e infine disse: “Mi sono permesso di farle un piccolo regalo di benvenuto”. Incredula guardai l’interno della busta color mattone che riportava l’etichetta di un negozietto che vidi di sfuggita passando dal Corso in taxi. Dal bordo fuoriusciva la testa di una giraffa impagliata. Avrei saputo il suo significato solo anni più tardi, la giraffa ha il cuore lontano dalla testa e quindi dai pensieri,

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pertanto si dice si sia innamorata ieri ma ancora non lo sa. “Sapeva di trovarmi qui?” non riuscii a pronunciare nient’altro. “Sapevo che avrebbe seguito il mio consiglio e non sono molti i ristoranti aperti da queste parti”. L’uomo della trattoria iniziò a portarci le pietanze, una dietro l’altra e la serata proseguì tra aneddoti e racconti personali. La mattina seguente ad accogliermi sul tavolo della sala da pranzo, un vassoio di galani appena sfornati e il cappotto dell’uomo senza macchia e senza paura che da quella notte non andò mai più via.

Viviana Iiriti nasce a Reggio Calabria il 04/06/1986. Si laurea alla facoltà di Lettere e Filosofia della LUMSA di Roma nel 2012. Attualmente è in cerca di occupazione fissa mentre, occasionalmente, lavora come sostituta bibliotecaria per il Circuito Biblioteche di Roma Capitale e come docente di italiano per stranieri nei comuni della Bassa reggiana. Ama viaggiare, scrivere per il web, confrontare e approfondire nuove culture, arricchirsi di storia locale e organizzare eventi socio-culturali. Con gli occhi del Sud rappresenta il suo esordio come scrittrice.

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Ti amerò fino a mezzogiorno di Donatella Boccalari

Quando Antonio uscì di casa, quella mattina, l’orologio della Torre stava battendo le sette. Con una rapida occhiata al cielo valutò che sarebbe stata una splendida giornata, la scuola era finalmente terminata e lui aveva un piano da mettere a punto. Si diresse quindi deciso verso il portico dove la sera prima aveva preparato tutto il necessario per la pesca, lo raccolse e, inforcata la vecchia bicicletta di suo padre, si avviò lesto con il barattolo delle esche che penzolava dal manubrio. Appena superato l’argine si lasciò andare in discesa lungo il viale alberato. Lo conosceva così bene che poteva percorrerlo ad occhi chiusi, facendosi guidare dall’alternarsi del calore del sole che si rifletteva sul suo viso attraverso i pioppi alti e snelli costeggianti la strada. Via via che si avvicinava al Po ne percepiva, sempre più intensi, odori e profumi che si mischiavano a quelli del bosco: ogni stagione aveva i suoi che variavano in un alternarsi sempre uguale eppure a saperlo cogliere, sempre diverso. Quel giorno non avrebbe usato il barbutèn1. Era ormeggiato accanto al casotto dove si ritrovavano suo padre e tutti gli amici e, dove a ogni ora del giorno e della notte c’era sempre qualcuno a pescare, a friggere della psìna o a bere un bicchiere di

Barbutèn: piccola imbarcazione dal fondo piatto, usata per la pesca sul fiume Po.

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Lambrusco. No, quel giorno lui aveva bisogno di stare solo. Scelse quindi una lanca più distante e, al riparo di un vecchio salice argentato che tendeva i suoi rami fino a sfiorare l’acqua, il ragazzo preparò la canna e la calò con movimenti leggeri. Lì, nella quiete assoluta che gli offrivano il Po e il suo bosco si mise a pensare a lei. Virginia. La più bella del paese, quindici anni come lui e gli occhi celesti come il cielo. Ormai era certo di piacerle. Se ne era accorto dagli sguardi e dai sorrisi che gli rivolgeva da dietro il bancone del Caffè Centrale gestito dai sui genitori. Antonio aveva speso tutte le sue mance in bicchieri di Cedrata, o di più economica spuma, pur di vederla. La conferma che tra loro c’era qualcosa l’aveva avuta nei giorni della fiera del paese. Un pomeriggio, mentre saliva sul calcinculo se l’era trovata nel seggiolino davanti al suo e avevano fatto insieme tutto un giro durante il quale lui l’aveva lanciata in alto nel tentativo, purtroppo fallito, di farle afferrare la coda e vincere un’altra corsa. Non si erano scambiati nemmeno una parola ma ne era certo: Virginia si era innamorata di lui. E visto che dalla fiera erano trascorsi già due mesi, Antonio doveva decidersi a farsi avanti per dichiararle che l’amava e l’avrebbe amata... per sempre! Ci aveva pensato per giorni e anche per parecchie notti e quello, lo sentiva, sarebbe stato il giorno giusto. Appoggiato con la schiena al grande salice, gli occhi rivolti all’acqua immobile, il piano prese forma nella sua mente. Con tempismo perfetto, la canna che reggeva tra le mani ebbe un sussulto. Qualcosa aveva abboccato. Con pazienza Antonio guidò i movimenti del pesce e lo condusse verso di sè, allungò il retino e con una certa abilità riuscì a catturare la sua preda.

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Era un bel gobbo argentato2 di almeno due chili di peso. Il gobbo non era il suo pesce preferito, ma poco male, sua madre sapeva “aggiustare” splendidamente tutto quello che lui e suo padre portavano da Po e anche questa volta ne avrebbe certamente ricavato qualcosa di buono. Mentre raccoglieva la sua roba Antonio fischiettava soddisfatto: la giornata era partita bene e si sarebbe conclusa ancora meglio. Tornando a casa non si curò di nascondere la propria euforia, dando lo spettacolo di un ragazzino che pedalava come un forsennato, gli occhi semichiusi, il sorriso ebete e con un grosso pesce nel cestino che sbatteva contro la bici. Una volta arrivato abbandonò la bicicletta sotto il portico, entrò in casa e percorrendo l’andito fresco e buio calcolò velocemente i tempi: consegna del pesce alla mamma, velocissima lavata a mani e faccia, cambio della maglietta e via verso il Caffè Centrale. Là avrebbe trovato Virginia sola perchè dopo le 11 la madre rientrava a casa a preparare il pranzo e il padre usciva a riordinare tavoli e ombrelloni salutando gli ultimi avventori della mattina. Appena spalancata la porta della cucina Antonio si fermò sorpreso. Intenta a cucinare insieme a sua madre c’era una ragazzina. Appena gli occhi si furono abituati alla luce della stanza che aveva le finestre spalancate, la riconobbe. Era arrivata da pochi mesi da Milano con il padre, il nuovo dottore del paese. La madre, una bella donna bionda, era ben presto sparita, era tornata a Milano, dicevano le comari bene informate. Lei, invece, l’aveva già vista in giro, si notava perchè era pettinata con delle lunghe trecce, ridicole per una che doveva avere... almeno almeno quattordici anni.

Gobbo: carpa, pesce d’acqua dolce ricco di spine e perciò meno pregiato rispetto ad altre prede.

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“Ciao Antonio - lo salutò allegra sua madre - hai visto chi c’è?” La ragazzina lo salutò con un sussurro a cui Antonio rispose con un cenno del capo. Poi rivolto a sua madre: “...ma cosa ci fa qui?” La donna girò il capo di scatto verso il figlio e lo fulminò con lo sguardo. “Mi sono accordata con suo padre che Anna verrà dai noi due o tre volte la settimana e io le insegnerò a cucinare. Sua mamma è dovuta tornare a Milano e non si sa quando... - non finì la frase, ma sentenziò con tono deciso - Anche se a casa del Dottore c’è la Cesira a fare tutte le faccende, Anna deve imparare a cucinare... tutte le ragazze devono imparare a cucinare come si deve... se no nessuno se le sposa”. “E deve venire a imparare proprio qui?” commentò incautamente Antonio. A quel punto sua madre si diresse verso il secchiaio da dove prese una terrina e la porse ad Antonio ancora fermo insieme al suo “gobbo” sulla porta. “Vai nell’albi3 a pulire il pesce e poi mettilo qui dentro!” “Ma io devo assolutamente andare...” tentò di resistere con voce implorante Antonio, ma lo sguardo di sua madre lo convinse immediatamente ad eseguire l’ordine. Poche volte aveva assaggiato i mananvers4 di sua madre e, pur non ricordando i motivi che li avevano provocati, poteva ancora sentirne il bruciore sulla guancia. “Figuriamoci se nel 1970 a qualcuno interessa se una donna sa cucinare...” pensò tra sè il ragazzo mentre si dirigeva a passi pesanti versò l’albi, ma subito dopo realizzò con angoscia che 3 Albi: lavatoio posto all’esterno delle abitazioni, solitamente sotto un porticato. La forma tondeggiante ricorda gli abbeveratoi del bestiame. L’acqua veniva pescata direttamente dal pozzo azionando una pompa posta di fianco all’albi. 4 Mananvers: scappellotto inferto di sorpresa e quindi particolarmente... sgradito.

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non sarebbe riuscito ad andare in paese e vide i suoi piani sgretolarsi e crollare lentamente come gli improbabili castelli che costruiva da bambino con la sabbia bagnata del Po. E mentre i castelli si sgretolavano parevano cancellare gli occhi celesti di Virginia, le sue minigonne e le camicettine, che portava sempre slacciate di almeno due bottoni. Improvvisamente un gemito si levò dal suo petto. Antonio si bloccò spaventato: forse le sue pene d’amore gli stavano spezzano il cuore? Poi con sollievo capì che si trattava semplicemente del suo stomaco. Dopo la scodella di pane e caffelatte della mattina non aveva più mangiato nulla e ora il suo appetito da adolescente reclamava il giusto nutrimento. Ben presto l’angoscia lasciò il posto a una sorda rabbia che sfogò sul pesce: nel tagliare testa, coda e branchie immaginò fossero le stupide trecce di Anna e, azionando con forza la pompa per fare scorrere l’acqua, meditò feroci propositi di vendetta verso la madre. Terminata la sanguinosa operazione, si lavò a lungo le mani strofinandole con un pezzo di sapone giallo e rientrò mestamente in casa. “Il pesce è pulito, l’ho messo nel frigorifero” escalmò con voce decisa, in netto contrasto con il suo stato d’animo. Poi, con noncuranza si avvicinò alla stufa a legna, sempre accesa anche nei mesi più caldi, dove in un angolo era posata una casseruola di alluminio. Scostando un poco il coperchio vide che conteneva un soffritto di pomodoro che sobbolliva dolcemente. Approfittando del fatto che la madre gli stava dando le spalle, staccò rapido un cornino da una ciopa di pane e la tuffò nel soffritto avendo cura di ripassarlo sul bordo della casseruola per raccogliere la crosticina scura, puro concentrato di sapore, formatasi durante la cottura. Mentre gustava il pane sublimato dal soffritto, con sguardo un poco torvo osservò le due donne lavorare attente alla sfoglia stesa sul tavolo. Era grande, liscia, di un giallo che pareva dare luce all’intera stanza, e mentre sua madre spiegava ad Anna

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come tagliarla, Antonio si trovò a fissare la ragazzina. Aveva un profilo delicato e, a quanto gli era dato vedere, anche un petto già disegnato. Proprio in quel momento Anna sollevò la testa, incontrò il suo sguardo e arrossì violentemente abbassando immediatamente gli occhi. “Antonio, vai a tirare su una bottiglia di vino per favore?” chiese sua madre mentre rovesciava nella casseruola del soffritto una cascata di piselli che provenivano sicuramente dal loro orto. Scendendo in cantina il ragazzo si trovò a pensare che a casa sua era quasi d’obbligo offrire un bicchiere di Lambrusco agli ospiti anche se, in questo caso, si trattava di una ragazzina che probabilmente non ne avrebbe assaggiato nemmeno un goccio. E se non era il Lambrusco di suo padre, era il nocino di sua madre, o due fette di salame di quello “speciale” che aveva passato mesi appeso in cantina a fare compagnia al vino. Gli ospiti si accoglievano sempre offrendo loro quanto di meglio c’era in casa. Una vecchia abitudine in effetti, ma a lui piaceva. Di ritorno con la bottiglia di vino, Antonio incontrò il padre appena tornato dai campi e, mentre quest’ultimo stappava lo spumeggiante Lambrusco, il ragazzo prese a raccontargli con dovizia di particolari, la pesca straordinaria fatta in mattinata. Al battere di mezzogiorno erano tutti seduti a tavola davanti a una grande zuppiera colma di tagliatelle fumanti. Per Anna furono una sorpresa, tanto che esclamò: “Ma sono bellissime!” alla vista della pasta dal colore dorato, lucida di soffritto e punteggiata dal verde brillante dei piselli. Ormai appagato da un secondo piatto di tagliatelle generosamente cosparse di Parmigiano Reggiano e da un mezzo bicchere di Lambrusco, Antonio si mise ad osservare la ragazza e i suoi occhi scuri, mentre suo padre le raccontava la storia del bisulàn5 appena sfornato ed il cui profumo, anche se deli-

5 Bisulàn: torta casalinga a base di uova, burro e farina che deriva dall’antico Buccellato toscano.

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cato, stava abbracciando tutta la cucina. Le spiegava che quel dolce semplice era conosciuto in molte regioni e aveva decine di nomi diversi: alcuni suoi amici dell’Appennino modenese lo chiamavano addirittura panettone. Al che Anna si sentì chiamata a difendere l’unicità del dolce tipico di Milano e la conversazione proseguì così, tra risate, tintinnio di posate e bicchieri, profumi mescolati alle parole. Mentre serviva le fette di bisulàn ancora tiepido, porgendogli il piatto sua madre gli chiese: “A proposito, dov’è che dovevi assolutamente andare questa mattina?” Antonio, sorpreso, bloccò la mano a mezz’aria nel gesto di servirsi una fetta di dolce, tentò di ripercorrere i fatti della mattinata poi, scrollando appena le spalle, rispose: “Mah... non lo ricordo più”.

Donatella Boccalari, nata a Luzzara (RE) alcuni anni fa, vive a Roteglia (RE) con il marito, il figlio, tre gatti e un cane. È appassionata di cucina, tradizioni gastronomiche e innamorata della sua terra. Ha pubblicato nel 2011 Ti ricordi il profumo del brodo?, raccolta di vecchie ricette di famiglia e ricordi d’ infanzia. Nel 2013 è uscito Avanzo a chi? ovvero trasformiamo i nostri piccoli avanzi in piatti deliziosi per dire finalmente addio allo spreco in cucina. Sempre nel 2013 esce il corale Nove galline e un gallo ricette e racconti tra il Crostolo e il Secchia.

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Ermelinda di Sole Girasoli

Quando Cesare annunciò in famiglia che aveva posato gli occhi su una ragazza, fu come se avesse gettato un sasso in uno stagno. Fu immediatamente assalito da un sacco di domande, sempre più incalzanti e non scevre di un tono di disapprovazione. Ancor prima di conoscere le risposte e di udire le credenziali di quella donzella che aveva fatto breccia nel cuore del loro unico figliolo, Elda e Brenno avevano iniziato a scuotere il capo, come di solito si fa dinnanzi all’annuncio di una sciagura. “È nostrana?” fu il primo quesito. “Sì, sì... è delle nostre parti!” “Ma cosa vuol dire delle nostre parti? Appartiene alla nostra parrocchia? Con il mondo corrotto che c’è... almeno che si possa chiedere informazioni su di lei al prete!” “Mamma... Papà... Ermelinda è una brava ragazza, al di là di quanto ne possa pensare un parroco. Cosa m’importa dell’opinione di un altro? Sono io che la voglio sposare!” Seguì un silenzio carico di sconcerto, come se Cesare avesse pronunciato le parole più blasfeme. “Ma l’hai sentito?” commentò poi Elda, rivolgendosi al marito, una volta rimasti soli “No... dico: ti rendi conto? E tu?! È tuo figlio: non gli dici niente?” Brenno si serrò nelle spalle: “Cosa avrei dovuto dirgli? Non l’hai nemmeno lasciato parlare! Come potevo esprimere giudizi? Non sappiamo neanche chi è quella ragazza!” “Appunto... l’hai detto: non sappiamo neanche chi è! E lui si va ad invaghire della prima sconosciuta! L’ho sempre pensato io:

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da quando ha iniziato a lavorare a Fosdondo, Cesare è cambiato ed ora questi suoi discorsi sono la certezza che gli sia dato completamente di volta il cervello! Ermelinda... nessuna delle mie amiche ha una figlia con questo nome!” “Nemmeno tra i miei amici vi è il padre di un’Ermelinda...” replicò Brenno, pensieroso. Il che avvalorò lo sdegno di Elda che, nei giorni a seguire, divenne più cupa e persino sgarbata nei confronti del figlio che, a suo dire, si comportava da scellerato, da ribelle, da trasgressivo... Un colpo di testa, così ella giudicava i sentimenti che Cesare diceva di nutrire per quella ragazza, al di là delle serie intenzioni di lui che mirava a condurla all’altare. Elda era divenuta più nervosa, più acida ed irascibile. Anche il marito, che in fondo non aveva alcuna colpa, finì per divenire il suo capro espiatorio, al pari del figlio. E a nulla servivano i pacati discorsi che Brenno pronunciava nell’intento di condurla a ragionare: “Insomma, Elda, si può sapere cos’hai? è un po’ di tempo che sei intrattabile! Nostro figlio avrà ben il diritto di farsi una famiglia, no? E poi... Ermelinda è un nome nostrano. Chissà, magari è davvero una brava ragazza, come sostiene il nostro Cesare!” Niente da fare... Elda iniziava ad inveire, snocciolando un interminabile rosario di terribili profezie e tirando puntualmente in ballo la necessità di raccogliere informazioni dal parroco perché, diceva: “non è importante solo la moralità della ragazza, bensì di tutta la famiglia di lei: genitori, nonni, zii, prozii, bisnonni e trisavoli”. Bastava che ci fosse un solo neo, una minima macchia nell’albero genealogico di Ermelinda per infangare anche il buon nome di Cesare, se l’avesse sposata... Elda e Brenno avevano lavorato una vita affinché il nome di Cesare fosse insignito di un titolo che gli conferisse onore: “Il signor maestro”. Un insegnante elementare giovanissimo: a diciotto anni era già diplomato ed ora, ventunenne, aveva ottenuto il ruolo in una pluriclasse nella scuola primaria di Fosdondo. Già ai tempi in cui era uno studente all’Istituto Magistrale, Cesa-

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re, un bel ragazzone di stazza robusta, ma prestante, era corteggiato da molte compagne, come di solito avviene in ogni classe femminile quando, tra le alunne, spicca la presenza di un unico maschio. Ma egli, sebbene gentile, cordiale e democratico con tutte, considerava lo studio prioritario rispetto alle faccende di cuore e si rivelava refrattario ad ogni forma di civetteria approntata dalle donzelle che gli ronzavano attorno. A lungo Lucia, la sua compagna di banco, aveva sospirato per lui: ne era perdutamente innamorata, ma egli fingeva di non accorgersene, benché tutte le altre, invidiose, glielo avessero detto nel modo più esplicito, per non dire addirittura volgare, e lo avessero canzonato per la sua apparente ingenuità. Le dicerie del tempo non avevano tardato a giungere alle orecchie di Elda: “Lasciala perdere! - gli aveva intimato lei - Pensa a studiare e non perdere tempo dietro alle gonnelle!”. Così diceva, allora, Elda. Ma ora, con la notizia di quell’ignota Ermelinda, ella arrivava a rimpiangere la Lucia e ad incolparsi di aver consigliato il figlio di ignorarla. Se non altro, era una ragazza del quartiere ed Elda conosceva bene tutta la famiglia: la madre era sarta, il padre casaro. Aveva anche una nonna, in casa... l’Adele: una vecchietta ottuagenaria, ma ancora lucida ed autosufficiente. Tant’è che si recava, ogni sera, a messa da sola, appoggiandosi al suo bastone. E questo fatto conferiva alla stessa nipote la nomea di una “fanciulla timorata di Dio”. Ma ora, la Lucia non era che una comparsa di una storia ormai passata, mentre l’attualità portava sul proscenio un fantasma spaventoso di nome Ermelinda... Accadde tutto all’improvviso. Indubbiamente, nel modo migliore in cui avrebbe potuto accadere. Dal momento che la famiglia di Cesare si mostrava tanto ostile nei confronti del fidanzamento del figlio con Ermelinda, furono proprio i due giovani ad organizzare l’incontro delle loro famiglie a casa dei genitori della ragazza. Questi, al contrario di

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Elda e di Brenno, avevano accolto la notizia delle intenzioni dei due innamorati come una benedizione del cielo. Avevano avuto modo di conoscere Cesare anche sul piano professionale: egli era il maestro della Liliana, la loro ultimogenita. Una bambina vivacissima, priva di volontà per lo studio; tuttavia l’arrivo di quel nuovo insegnante aveva determinato in lei un cambiamento: ora ella si dimostrava più interessata alle discipline scolastiche ed il suo crescente impegno era stato premiato con valutazioni così soddisfacenti che Fosco e Palmira, i suoi genitori, quasi ritenevano un miracolo. Ora, a Cesare spettava l’arduo compito di convincere sua madre all’incontro. All’inizio ella pareva irremovibile: “Non se ne parla neanche! Fosdondo?! Con tutte le brave ragazze che ci sono a Reggio, lui si va ad invaghire di una di Fosdondo! Tienimi fuori da questa storia!” Poi, con il passare dei giorni, il suo diniego si ammorbidì: “Io mi vergogno! Non so neanche chi siano... Come hai detto che si chiamano di cognome?” “Tassi, mamma! La mia fidanzata si chiama Ermelinda Tassi”. “Taxi?” “No, mamma... con due esse: Tassi!” “Un cognome più strano non lo potevi trovare neanche se lo cercavi col lanternino! Mah...” ed il pensiero di Elda tornava sempre alla Lucia, che di cognome faceva Foroni e che le suonava così famigliare: “La Lucia ‘d Furòun”. Invece, Ermelinda Tassi, o Tassi Ermelinda che dir si voglia, risultava addirittura intraducibile in dialetto e, pertanto, si rivelava un nome oltremodo sussiegoso, quasi un implicito invito a mantenere le distanze. “Ma di cosa ti vergogni, mamma? Che paura hai? Mica ti mangiano!” insisteva Cesare. “Ma chi ha detto che ha paura? - si schermiva lei - È solo che... non so che discorsi rivolgere a gente che non conosco!” Brenno, dal canto suo, si dimostrò ben più accondiscendente: “Se è questo che vuoi, figliolo, così sia!” declamò con il tono autorevole di un vecchio patriarca.

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Era un mattino di tarda primavera quando Brenno, Elda e Cesare, a bordo della loro Topolino a balestra corta, si misero in viaggio verso Fosdondo per conoscere la futura nuora ed i futuri consuoceri. Nei loro cuori, i sentimenti più contrastanti: la diffidenza di Elda cozzava contro la trepidazione di Cesare e contro la flemma di Brenno. Ai lati della strada, come nastri d’argento, si srotolavano gli ampi canali d’irrigazione e qualche spaurito pennuto si librava in volo, dal fitto dei canneti, verso un cielo opalescente di luce diafana. Elda assaporò quel senso di pace che permeava la campagna, che aleggiava a mezz’aria verso orizzonti sconfinati. Lei, che era tutt’altro che pacifica; lei, confusa e turbata da quegli eventi avvenuti così, all’improvviso, si accorse, d’un tratto, di avvertire un benessere inconsueto: era come se tutta la sua ansia stesse lentamente sfumando, come se una leggera cortina di nebbia stesse obnubilando la sua inquietudine, sino a cancellarla. Cercò di opporre resistenza a quelle sensazioni, addirittura si adirò con se stessa per la sua incapacità nel conferire un nome ed una ragione a quel suo stato. Non parlò per tutto il viaggio. Giunsero sull’aia di una casa colonica. Cesare suonò tre volte il clacson; una porta si spalancò e ne uscì una ragazza dai lunghi capelli fulvi. Era lei: Ermelinda. Il giovane maestro uscì dall’auto, avanzò verso di lei e la baciò teneramente sulla guancia. “E’t vést, Brenno? - sussurrò Elda, indignata - La gh’a i cavì ròss!”1 “Sé, e alóra?”2 “La gh’a da èser catìva cmé un spóssel, chilée! T’al sée, ahn? Tótt i ròss jn catìv!”3 Tuttavia, Elda non ebbe il tempo di continuare le sue critiche: “Hai visto, Brenno? - sussurrò Elda, indignata - Ha i capelli rossi!” “Sì, e allora?” 3 “Dev’essere pestifera, quella lì! Lo sai, eh? Tutti quelli con i capelli rossi sono cattivi!” 1 2

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un uomo e una donna di mezz’età stavano procedendo verso di loro, con un sorriso radioso stampato sul volto. “Venghino dentro! Si accomodano!” esclamò la padrona di casa improvvisando un linguaggio colto al quale non era, di certo, avvezza. “Adesso ci mettiamo subito a tavola. Ho fatto i tortelli verdi, spero che ci piacciono!” e, con modi semplici, ma ossequiosi, si prodigò affinchè gli ospiti si sentissero a loro agio. Poi, rivolgendosi al marito, esclamò: “Fosco, stura una fiasca di vino e và a spiccare un salame in cantina! Abbiamo ammazzato il maiale e i nostri salami sono genuini: li facciamo noi!” In realtà, ogni vivanda presentata in tavola era frutto del lavoro di quella coppia operosa: i ciccioli, la marmellata di prugne che guarniva una golosa crostata e persino i liquori, che Palmira preparava con le erbe aromatiche coltivate nell’orto. “Signor Brenno, tiri giù un’altra fetta di torta! Anche lei, signora Elda... avanti, non fate complimenti!”. L’ospitalità di quella donna esile, di bassa statura era davvero commovente. Brenno non si faceva certo pregare quando si trattava di rendere onore alla mensa. La cucina di Elda, infatti, era tutt’altro che ghiotta: niente intingoli, poco condimento per cibi pressochè insipidi, al fine di contrastare glicemia, trigliceridi e colesterolo. E lui, Brenno, si alzava da tavola sempre insoddisfatto, sicché il cibo era divenuto il suo pensiero fisso e non vedeva l’ora che qualcuno lo invitasse a pranzo per porre fine ai sacrifici di una dieta troppo rigida. Immancabile, anche in quell’occasione, il calcio sferratogli da Elda furtivamente, sotto la tavola, con la chiara eloquenza di una sgridata: “Non esagerare! Ti stai comportando da maleducato!”. Tuttavia anche lei, che era solita pizzicare il cibo come un uccellino, dimostrò di gradire i piatti presentati: addirittura non si fece scrupoli quando si trattò di intingere una fetta di ciambella in una coppa di spumante. Tra una portata e l’altra, studiava Ermelinda, seduta di fronte a lei. Era una ragazza di poche parole: per lo più ascoltava. Ed Elda era innervosita da quel silenzio poiché non avrebbe avuto

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nulla su cui infierire. Le sarebbe bastata una frase, un’esclamazione, un apprezzamento... e invece nulla usciva dalle labbra della giovane, che si limitavano ad incurvarsi in un sorriso complice quando Cesare prendeva la parola. “L’é ‘na muntergnòuna! - commentò Elda al marito, una volta rincasati - La s’a gnàn fàt sintìr la só vóz!4 La Lucia, invece... lei sì che parlava!” “Sì, ed era anche una gran pettegola! - ribattè, seccato, Brenno Sèt, Elda, ‘sa gh’ó da dìret? Che a mé, l’Ermelinda, la’m piès!”5 Elda trasecolò: “Guèrda, Brenno, a’t rispònd gnàn! Té, basta che un quèlchidun a’t mèta a tèvla ch’al dvèinta subétt bèll, brèv e bòun! Per fortuna agh sun mé ch’é ragiòun cun la tèsta, vést che té t’é sragiòun cun la pànsa!”6 Cesare ed Ermelinda annunciarono la data delle loro nozze: l’otto di Settembre. Elda sperò invano che il caldo dell’estate facesse svaporare i loro sentimenti. Fosco e Palmira continuarono a porgere inviti ai futuri consuoceri e Brenno finì per appassionarsi di pesca, lo sport prediletto da Fosco. Ogni domenica, i due partivano per Dosolo, sulla riva del Po, e vi trascorrevano il pomeriggio attendendo che qualche luccio o qualche pesce gatto abboccasse le loro esche. Palmira era affabile con Elda: le mostrava i ricami che lei stessa aveva realizzato sul corredo di Ermelinda, le spiegava le sue ricette culinarie e non indugiava ad offrirle i frutti del suo orto. Ma la madre di Cesare seguitava a stare sulle sue, algida, austera e sempre più tesa a mano a mano che il giorno delle nozze si avvicinava... “È una scorbutica! - commentò Elda al marito, una volta rincasati - Non ci ha neanche fatto sentire la sua voce!” 5 “Sai, Elda cosa ti devo dire? Che a me l’Ermelinda piace!” 6 “Guarda, Brenno, non ti rispondo neanche! Per te, basta che qualcuno ti faccia sedere a tavola, che subito diventa bello, bravo e buono! Per fortuna ci sono io che ragiono con la testa, visto che tu sragioni con la pancia!” 4

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Elda sedeva nel primo banco della chiesa di Fosdondo, di fianco a Brenno che, di tanto in tanto, si passava il dorso della mano sugli occhi lucidi di commozione. Lei, al contrario, era seria ed impettita nel suo tailleur fiorato a sfondo fucsia. All’altro lato della navata, il primo banco era occupato dai genitori di Ermelinda, da suo fratello Ovidio e dalla piccola Liliana. Avevano tutti un’espressione estasiata, come se si stesse realizzando chissà quale prodigio e ciò indispettiva Elda oltre misura. Quando entrò la sposa, accompagnata all’altare da Cesare, Elda non potè fare a meno di notare quanto quell’abito color perla le stesse male: la fasciava troppo, mettendo in risalto le sue rotondità. E quegli intarsi argentati che impreziosivano il corpetto, quella mantellina di seta che copriva le spalle ed il lungo strascico che scendeva da un fiocco annodato intorno alla vita, non erano sufficienti, tutti insieme, a distogliere lo sguardo da un vistoso “rotolo di ciccia” stoccato sul ventre e intorno ai fianchi. “E’t vést, Brenno?”7 sussurrò Elda al marito. Egli annuì, senza prestarle attenzione, assorto com’era in quella visione che riassumeva il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Sarcastica, Elda insistette: “Sé... ciao! Dém ‘s é’t vést!”8 “I nòster ragàs! Dio... mó s’jn bée!”9 “Cesare l’é bèll, mo lée... l’é gràsa cmé un quai!”10 Alla celebrazione seguì il banchetto nuziale e fu lì che avvenne l’inaspettato. Elda iniziò ad udire strane domande rivolte agli sposi: “A fine Marzo o a fine Aprile?” “A fine Marzo”. “Hai visto, Brenno?” “Sì... buonanotte! Dimmi cos’hai visto!” 9 “I nostri ragazzi! Dio... ma come sono belli!” 10 “Cesare è bello, ma lei... è grassa come una quaglia!” 7 8

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E non le sfuggirono certi gesti delicati di alcune donne che si avvicinavano ad Ermelinda e le accarezzavano, teneramente, il grembo. Una di loro, rivolgendosi ad Elda, mormorò: “Posso porgere i miei auguri alla futura nonna?” Un tonfo al cuore. Il cucchiaino del caffè le scivolò dalle mani ed impresse una vistosa macchia bruna sul suo tailleur a sfondo fucsia, proprio all’altezza dell’ombelico. Ella si alzò di scatto e, con lunghe e celeri falcate, si diresse verso gli sposi. Quando giunse al loro cospetto, inspirò profondamente, come a ricercare una giusta modulazione per ciò che aveva intenzione di dire. Cambiò più volte espressione del volto, attraverso strane smorfie che molti interpretarono come insoliti tic nervosi. Si passò una mano tra i capelli: il palmo sudato le rovinò la piega cotonata, ma lei non se ne curò. Stava lì, dritta, come un soldato sull’attenti. Poi, con la voce tremante, rotta dall’emozione, sillabò: “Mi avete reso la donna più felice del mondo. Che Dio vi benedica!”

Sole Girasoli è uno pseudonimo che unisce alla vivacità di un fiore, il calore della nostra stella. Così vorrebbero essere i personaggi creati dell’autrice: vivaci, pittoresche caricature che riassumono le caratteristiche del luogo in cui si muovono, agiscono ed interagiscono tra loro con il calore e l’ospitalità tipici della terra padana che ha dato loro i natali.

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Balle di fieno e onde del mare di Vittoria Speroni

Mario e Rosina erano due sposi non molto giovani, abitavano nella bassa reggiana precisamente a Guastalla fuori dal centro in aperta campagna. Avevano tre figli, Giacomo e Giovanni, che erano gemelli, e Flora la più giovane che chiamavano la zitella perché a 20 anni non aveva mai avuto un moroso, non perché non fosse bella, ma era molto timida e riservata. I due maschi invece erano sposati con due brave ragazze del paese. Abitavano tutti assieme in una grande casa, una grande famiglia di una volta, una vera famiglia contadina. Lavoravano la terra da sempre mai una vacanza, mai uno svago, “non si poteva”: la stalla, le galline e i conigli dovevano essere accuditi, le mucche munte tutti i giorni, il latte portato al casello, la stalla pulita, i campi arati, seminati, l’erba tagliata per il fieno e l’orto. Lavoravano molto, si alzavano al mattino presto e tutto il giorno in campagna, ma a loro non mancava niente, avevano latte, burro, formaggio, uova, conigli, galline, polli, ammazzavano il maiale, quindi avevano prosciutti, salami, cotechini, salsicce, coppe, braciole, bistecche, facevano la pasta e il pane in casa, insomma tutta roba genuina e buona, prodotti della loro fertile terra. Il giorno di ferragosto, Rosina, sua figlia e le nuore stavano preparando il pranzo, avevano fatto i tortelli di zucca (che piacevano a tutti), l’arrosto di maiale, le patate al forno e una bella torta di riso, con due bottiglie di buon Lambrusco, sarebbe stato un bel pranzetto.

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A mezzogiorno tutti a tavola, davanti ad una grande zuppiera di tortelli caldi, chiacchieravano allegramente, quando Giacomo disse: “Mama, papà, v’mandòm 10 dè al mèr in setembèr, dal 1° al dès, le al nostèr regàl p’ràl vostèr aniversàri d’matrimònì, e te papà… al Dotòr al tà dèt ed fèr i fàng per la tò schìna che fàn bèin, farìi na bèla vacànsa, ghi bisògn èd’ ripusèrov un po!”1 Flora fece una smorfia di disappunto. Giovanni esclamò: “Anche tu andrai con loro” (chissà forse troverà marito). Flora fece un sorriso e diede un bacio ai suoi fratelli, li ringraziò, chiedendogli: “Dove avete prenotato?” “A Cervia - rispose Giacomo - vedrete vi piacerà! Vi accompagno io!” Mario con un tortello in bocca rispose: “Grasìa ragàz, ma spòl mia lasèr la tèra ne al bèsti”.2 Il coro dei ragazzi e delle loro mogli fu rimbombante in quella grande cucina. “Ci siamo noi, andate tranquilli!”. Rosina era contenta, lei che non si era mai allontanata da Guastalla, disse: “Mo mama che bèl prèir andèr a vedèr al mèr… vedèr in do và a finìr l’acqùa dal nostèr fiòm, al Po! I nostèr ragàz e al nòstri nòri in dàl brèvi persòuni e tè tàl sèè, dai Mario decedèt!”.3 Anche loro lavoravano la terra, erano loro che andavano a Reggio al Consorzio Agrario per rifornirsi di semenze per la terra e del necessario per le bestie. Mario sempre con la bocca piena commentò: “Va bèin, pruvòm anca còsta!”4 Arrivò il 31 agosto, Rosina tutta eccitata preparò la roba da

“Mamma, papà, vi mandiamo 10 giorni al mare in settembre, dal primo al dieci, è il nostro regalo per il vostro anniversario di matrimonio, e tu papà... il Dottore ti ha detto di fare i fanghi per la schiena che ti fanno bene, farete una bella vacanza, avete bisogno di riposarvi un po’!” 2 “Grazie ragazzi, ma non possiamo lasciare la terra e le bestie”. 3 “Oh mamma, che bello andare a vedere il mare... vedere dove va a finire l’acqua del nostro fiume, il Po! I nostri ragazzi e le nostre nuore sono delle brave persone e tu lo sai, dai Mario deciditi!” 4 “Va bene, proviamo anche questa!” 1

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portare al mare, prese la valigia, che aveva riposto sull’armadio incartata con la carta da giornale, le diede una spolverata ed era pronta per essere riempita, era abbastanza grande, ma un pò vecchiotta, per 10 giorni sarebbe andata benissimo! Cominciò con l’intimo, i costumi, i salviettoni (che aveva comperato al mercato), due vestiti da mare per lei, pantaloni corti e lunghi e camicie colorate per Mario, alcune maglie estive, due gonne, camicette e i vestiti della festa quelli che usavano per andare la domenica a Messa. Le ciabatte, i sandali, le scarpe e due golf di lana. Ecco tutto pronto! Stava per chiudere la valigia, quando entrò Mario dicendo: “Rosina et’tòt i capèè pràl sòl?”.5 Rosina andò in anticamera, trovò il berretto di Mario e il suo grande cappello di paglia che usava per andare nei campi, li posò sui vestiti e con fatica chiuse la valigia. Mario era agitato, tornò in camera con una corda, Rosina brontolando mormorò: “Sa ghe ancòra?”6 “No gnìnt… Sun andèè in t’la stàla j’ho càte na còrda, la druvòm per lighèr la valìsa, s’là s’arvèss scaravultòm tòt. Le d’mèj stèr in tàl sicùr!”7 Legò la valigia. “Adèsa va tòt bèin, Mario?8” “Sì, il mare ci aspetta!” Partirono il primo di settembre al mattino presto, Flora era già nel cortile con il suo vestitino azzurro e un golfino sulle spalle, non stava nella pelle dalla felicità, Giacomo era già pronto con la sua macchina, scesero anche i loro genitori, caricarono i bagagli e via… A Reggio presero l’autostrada e dopo poche ore arri“Rosina hai preso i cappelli per il sole?” “Cosa c’è ancora?” 7 “No niente... Sono andato nella stalla e ho trovato una corda, la adoperiamo per legare la valigia, se si dovesse rovesciare tutto. È meglio stare nel sicuro!” 8 “Adesso va tutto bene, Mario?” 5 6

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varono a Cervia. Rosina guardò suo marito, era pensieroso gli chiese: “Sa ghèt Mario, t’èt scurdèe quèl?”9 “Rosina pinsèva che se tulìvèn na sporta cun deintèr dù bèe salàm, na bèla pùnta d’furma còl bòun, tra un pàst e l’etèr privèn fèr un quèlc spuntìno. Vuetèr sa d’gìv?”10 “Ma papà - rispose Flora - siamo in albergo, lì c’è di tutto! Vuoi che non abbiano il salame e il formaggio?” “So mia, ma al nostèr salàm e al nostèr furmàj arzàn in sicùr piò bòun!”11 “Papà - intervenne Giacomo - siamo in Romagna non all’estero!” “Fa gnìnt… I nostèr prodòt e po piò!”12 Arrivarono a Cervia cercarono l’albergo, non era tanto grande ma bello e vicino al mare, Rosina guardava stupita tutta quella gente che passeggiava allegramente sul viale che portava al mare, non vedeva l’ora di vederlo quel mare, Mario invece era spaesato non si trovava nel suo ambiente. Scaricarono le valigie, entrarono nell’albergo, un signore molto gentile li salutò cordialmente e li accompagnò alle loro camere, una per loro e l’altra accanto per Flora. Guardava quella valigia vecchia legata con la corda, fece un sorriso dicendo: “Benvenuti signori spero vi troviate bene, si pranza alle 12,30 buon soggiorno!” Rosina guardò la stanza, era una bella camera con bagno e televisore. Andò subito ad aprire la finestra, c’era un bel balcone vista mare uscì e gridò: “Mario vin a vedèr quànt acqua ghe chè! Etèr che al Po… s’vèd gnan la fìn!”13 “Cosa hai Mario, ti sei dimenticato qualcosa?” “Rosina pensavo che se prendevamo una sporta con dentro due bei salami, una bella punta di formaggio, quello buono, tra un pasto e l’altro potevamo fare qualche spuntino. Voi cosa dite?” 11 “Non so, ma il nostro salame e il nostro formaggio reggiani di sicuro sono più buoni!” 12 “Fa niente... I nostri prodotti e poi più!” 13 “Mario vieni a vedere quanta acqua c’è! Altro che il Po... non si vede neanche la fine!” 9

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Mario rispose: “Al mèr le al mèr, le mia un fiòm!”14 In quel momento entrò Flora: “Avete visto come è grande il mare?” “Se chèra, adèsa andom a vudèr la valìsa, metòm tòta la ròba deintèr l’armàri, po andom a magnèr, ricordèt ed metèr i vistìi d’là fèsta in tàl crusèri acsè se strunfegnèn mia!”15 “Sì, mamma vado!” Giacomo era seduto sulla poltroncina del balcone, era un po’ stanco si sarebbe riposato, avrebbe mangiato poi sarebbe partito subito. Mario era steso sul letto in attesa del pranzo. Erano le 12,20 Rosina aveva fame, gridò a Flora: “Vistèset da la fèsta! Andòm al ristorànt!”16 “Mamma a pranzo andiamo così. - rispose la figlia - Forse a cena si va eleganti!” Scesero per il pranzo, un cameriere li andò incontro, li salutò e assegnò loro il tavolo. Si sedettero e ordinarono: lasagne al forno, fritto misto di pesce, patate fritte, macedonia di frutta e due bottiglie di Lambrusco! “Due?” chiese il cameriere “Sì, due. - rispose Rosina - Vogliamo stare nel sicuro, perché non va bene?” “Certo benissimo, come volete signori!” Mangiarono e bevvero molto, Giacomo partì subito (voleva essere a casa presto per aiutare suo fratello nella stalla) salutò i genitori, raccomandandosi di riposarsi e divertirsi, diede un bacio a Flora dicendo: “Ci vediamo fra 10 giorni” e partì. Rosina propose di andare a riposarsi, poi sarebbero andati a vedere il mare da vicino. Verso le quattro, lei bussò alla porta di sua

“Il mare è il mare, non un fiume!” “Sì cara, adesso andiamo a vuotare la valigia, mettiamo tutti i vestiti dentro l’armadio, poi andiamo a mangiare, ricordati di mettere i vestiti per i giorni di festa sulle grucce così non si stropicciano!” 16 “Vestiti bene! Andiamo al ristorante!” 14 15

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figlia: “Andiamo Flora si va a vedere il mare!”. Scesero in cortile, attraversarono la strada e si trovarono in spiaggia, c’erano tanti ombrelloni colorati, la gente che prendeva il sole, ma a Rosina qualcosa non tornava: “Guèrda Mario che stràn... ghè tànti umbrèli averti, ghè mia na nòvla, an càsca mia na gòsa, capès mia perchè i tinèn avèrti!”17 “Mamma non sono ombrelli, sono ombrelloni” “l vèd Flora ch’jn gròss… mo piòv mia listèss!”18 “Servono per ripararsi dal sole!” rispose Flora. “Mah, vinèn al mèr per ciapèr al sol càl fa bèin pri reumatismi, po’ arvèsen j’umbrèli… non ci siamo… alòra le d’mèj in campàgna da nuetèr, là fòm sèinsa umberlòun c’japòm al sòl gratis e quànd vròm andèr a l’ombrà andòm sòta na pianta che invèce spendèn per c’japèr al sòl e per stèr a l’òra. Mo va là clè stràn, ho ragione Mario?”19 “Tè Rosina te la più saggia! Adesso però andòm a vedèr al mèr da svèin!”20. La Rosina non riusciva a capacitarsi nel vedere quell’immensa distesa di acqua azzurra e quella schiuma bianca che facevano le onde, era felice. Tornata a casa avrebbe potuto raccontare ai figli e alle nuore le sue emozioni. Passeggiarono lungo la spiaggia, Mario vide una conchiglia: “Rosina! Flora! Guardèe!21 Una vongola senza vongola dentro… qui mangiano le vongole e buttano i gusci in mare! Al 17 “Guarda Mario che strano... ci sono tanti ombrelli aperti, ma non c’è una nuvola, non cade una goccia di pioggia, non capisco perché li tengano aperti!” 18 “Li vedo Flora che sono grossi… ma non piove!” 19 “Mah, vengono al mare a prendere il sole che fa bene ai reumatismi e poi aprono l’ombrello... non ci siamo… Allora è meglio in campagna da noi, là facciamo senza ombrellone, prendiamo il sole gratis e quando vogliamo andare all’ombra, andiamo sotto una pianta piuttosto che spendere per prendere il sole e stare all’ombra. Mah va là che è strano, ho ragione Mario?” 20 “Tu Rosina sei la più saggia! Adesso però andiamo a vedere il mare da vicino!” 21 “Rosina! Flora! Guardate!”

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mercato di Guastalla vendono anche le vongole, ma nessuno butta i gusci nel nostro Po… Te Flora che vai al fiume ne hai mai trovate?” “Papà non ci sono vongole nei fiumi, si trovano solo al mare! E nessuno getta i gusci qui! Sono le onde che si infrangono sulla spiaggia, le vongole battono sulla sabbia, alcune si rompono e rimane la conchiglia”. “E la vongola chi la màgna?” 22 chiese Mario “I pesci!” rispose Flora. “Ecco perché il mare è così grande e grosso… mangia come un porcello. - sentenziò Rosina - Va là che te Flora hai studiato e sei diventata un pozzo di sapere! Dai andiamo in camera, dobbiamo prepararci per la cena”. Rientrarono, salirono in camera, si fecero la doccia e si vestirono dalla festa, Rosina si mise il tailleur blu con la camicetta frù frù, le scarpe con il tacco alto e una grande spilla molto vistosa sul bavero della giacca. Mario il suo vestito grigio, camicia bianca, cravatta grigio perla e le scarpe di vernice, sembrava dovessero andare a nozze. Anche Flora era elegantissima nel suo vestito di seta rosso rubino, con un drappeggio sul davanti fermato da una fibbia di strass. Entrarono in sala, gli altri ospiti erano già seduti, alla loro entrata tutti si girarono a guardare incuriositi. Sembrava dovessero andare ad una cena di corte. Rosina tutta soddisfatta disse: “Avete visto? Li abbiamo stupiti con la nostra eleganza!” “Mamma, forse abbiamo esagerato” sussurrò Flora. “Ma và là... siamo al mare, al ristorante, non nella stalla, ci vuole educazione… Hai visto il cameriere come ci guardava? Quella gente non sa comportarsi, guardali, hanno le ciabatte, sembrano a casa propria!” Flora stava leggendo il menù, spaghetti al sugo di pomodoro, linguine ai frutti di mare, minestrina o minestrone. Mario,

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“E la vongola chi la mangia?”

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senza pensarci, ad alta voce esclamò: “spaghetti al sugo per tutti!” Arrivò il cameriere: “Buonasera signori, allora spaghetti per tutti? E di secondo, cosa vi posso portare?” Mario, sempre ad alta voce, ordinò: “Salumi misti. Voglio sentire se sono buoni come i nostri!” “Bene. Vi porto anche la piadina, assaggerete la nostra specialità!” Il cameriere si allontanò. Mario chiese a Flora: “Mo cùs’ela la pièdina? Me di pèe màgn sòl qùi d’nimèl!” 23 “Papà è una pasta tipo gnocco, tirata piuttosto sottile, cotta sulla piastra di ghisa, è buona fidati!” “Boh, sintòm anca còsta!”24 Portarono il primo, Mario si buttò su quel piatto come se fossero sei mesi che non mangiava, tirava su gli spaghetti facendo rumore, Flora fece una smorfia e sentenziò: “Basta papà! Mangia come gli altri, nessuno ti porta via il piatto!” “Gò fàm veh… pò a dìr la verìtèe in proprìa bòun!”25 “Metèt almeno al t’vaiòl...”26 suggerì Rosina. “Troppo tardi mamma, guarda la cravatta…” Mario con la sua foga nel mangiare, aveva sporcato la cravatta. “Mario t’è un sburdacìòun, adèsa c’mè fòmia cun la cravàta?”27 “Lo pulida còl t’vaiòl, guèrda Rosina, la pèr un quedèr d’Picasso. Le piò bèla che prèma!28 Adesso sentiamo i salumi e la piedina…” “Piadina papà... Si dice piadina!”

“Ma cos’è la pièdina? Io di piedi mangio solo quelli del maiale!” “Boh, sentiamo anche questa!” 25 “Ho fame… e poi, se devo dire la verità, sono proprio buoni!” 26 “Metteti almeno il tovagliolo...” 27 “Mario ti sei sporcato, adesso come facciamo con la cravatta?” 28 “L’ho pulita con il tovagliolo, guarda Rosina, sembra un quadro di Picasso. È più bella di prima!” 23 24

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“Ho capito! Magnòm e basta”.29 I salumi non erano male, ma non certo speciali come quelli che facevano loro, la piadina invece era piaciuta a tutti. Dopo cena andarono a fare un giro nel viale principale di Cervia, guardarono le vetrine, Rosina era euforica non aveva mai visto tanti negozi, bar, gelaterie e tanta gente. Tutti contenti tornarono in albergo, erano stanchi, l’indomani Mario e Rosina volevano stare al mare tutto il giorno. Andarono in camera e subito a letto! Flora non aveva sonno, accese la televisione c’era un vecchio film di Fantozzi, le venne in mente suo padre a cena… che figura! Doveva parlare ai suoi genitori, spiegare loro che al mare non si deve andare conciati come dei damerini, appena sveglia lo avrebbe fatto! Infatti il mattino dopo andò in camera dei genitori, con molta calma spiegò loro come ci si doveva comportare, dovevano adeguarsi alla situazione: “Ascoltatemi tutti e due. Siamo al mare, in vacanza non dovete strafare, non siamo al gran galà! E tu mamma con quei tacchi non riuscivi nemmeno a camminare sembravi ubriaca, traballavi, ogni tanto sembrava che cadessi, non metterli più ti prego! E tu papà mai più quel vestito autunnale, la cravatta, le scarpe di vernice! Dobbiamo essere più semplici e comodi altrimenti che vacanza è?” “Mo hai ragione Flora. Noi volevamo sembrare cittadini, mia di cuntadèin vilàn, vrivèn fèr bèla figura, ma, forse j’om esagerèe… sa dìt Mario?”30 “Veh Rosina, dèg: nuetèr sòm nustràn c’me i nostèr prodòt, pròm mia cambièr, ier sìra cun col vistìi e la cravàta am’sintìva struzèr la gola, da incòo s’cambìa regestèr!”31 “Ho capito! Mangiamo e basta”. “Hai ragione Flora. Noi volevamo sembrare cittadini, non dei contadini, volevamo fare bella figura, ma, forse abbiamo esagerato… cosa ne dici Mario?” 31 “Veh Rosina, dico che noi siamo nostrani come i nostri prodotti, non possiamo cambiare, ieri sera con il vestito e la cravatta mi sentivo strozzare la gola, da oggi si cambia registro!” 29 30

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“Va bèin. I tachtèin i lès in tlà valìsa… un a lò tòt sgangarèe!”32 Flora tornò in camera sua, si mise il costume, i pantaloncini al ginocchio e una maglietta, prese la borsa con tutto l’occorrente e chiamò i suoi genitori! Erano pronti, Rosina con la vestaglietta da spiaggia e Mario con i pantaloni corti e una polo blu. Finalmente vestiti normali, andarono a fare colazione, poi al mare! La giornata era bellissima, il mare calmo, Flora andò dal bagnino per l’ombrellone e le sdraie, scelse la prima fila, sarebbero stati più vicini al mare e avrebbero visto il passeggio. Si spogliarono, Rosina aveva un bel costume nero, Flora invece un bikini rosso corallo, lei aveva un bel fisico le stava molto bene con quei capelli lunghi, neri, ondulati, era molto carina! Rosina guardava suo marito, era silenzioso, sembrava un pò triste gli andò vicino e mormorò: “Sa ghèt Mario? Stèt bèin?”33 “Se Rosina stàg bèin, mo pèins ai me càmp, al me ort, al vàchi… La Mariana aràla partù rìi al so vidlèin? I nostèr fiòo tribularàni?”34 “Dai Mario, andrà tòt bèin, t’vedrèe ormai fra gnàn na smàna sòm a cà, gudòmes chi dè chè… Se stà tànt bèin, po niente nuove, buone nuove dai andòm a fèr un gìr”.35 Camminarono lungo la spiaggia, la Rosina vide un cartello con scritto “Noleggio mosconi”. “Guèrda Mario, lè ghe scrèt che noleggiano mosconi. Sìn dìt se nolegiesòm un muscòun per Flora? Chìsà clàn sia la volta

“Va bene. I tacchi li lascio nella valigia… uno l’ho anche rotto!” “Cosa c’è Mario? Stai bene?” 34 “Sì Rosina sto bene, ma penso ai miei campi, al mio orto, alle mucche… La Mariana avrà partorito il suo vitellino? I nostri figli staranno avendo difficoltà?” 35 “Dai Mario, andrà tutto bene, ormai tra neanche una settimana saremo di nuovo a casa, godiamoci questi giorni… Si sta tanto bene, e poi niente nuove, buone nuove dai andiamo a fare un giro”. 32 33

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bòuna che anca lèe la càta al moròs… po anca marìi!”36 “Mah Rosina… so mia sa dìr, bisogna vedèr la lèsta, l’ète, al mistèr ed che ràsa lèe, din do l’vìn... bèin andòm ad’infurmerès!”37 Dalla passerella di quel stabilimento balneare stava arrivando un bel ragazzo sui 25 anni, alto, aitante, biondo con occhi azzurri, si avvicinarono e gli chiesero: “Siete voi che noleggiate i mosconi?” “Sì signori, sono io. Vi serve un moscone?” “Sì. - rispose Rosina - Per la nostra figliola Flora. Lo vorremmo giovane, in buone condizioni, gentile e nostrano… un buon moscone!” “Signora i nostri mosconi sono tutti in ottime condizioni collaudati e sicuri!” “Lo vogliamo presto perché noi siamo in vacanza e tra una settimana partiamo” concluse Mario. “Bene. - mormorò il ragazzo - Anche subito, ne abbiamo tanti e tutti pronti per l’uso, proprio come volete voi! Domani mattina dalle 9,30 alle 11 va bene?” “Sì, va bene. Vero Mario?” “Se speròm al bein!”38 Si accordarono per il prezzo, pagarono e con la ricevuta in mano tornarono indietro, arrivati vicino al loro ombrellone, Rosina si mise a correre chiamando: “Flora! Flora!” “Che c’è mamma?” “Abbiamo visto un cartello con scritto “noleggio mosconi”. Ne abbiamo noleggiato uno per te, domani mattina dalle 9,30 alle 11. Vedrai sarà una mattinata speciale! Guarda abbiamo anche la ricevuta!”

“Guarda Mario, lì c’è scritto che noleggiano mosconi. Cosa dici se noleggiassimo un moscone per Flora? Chissà che non sia la volta buona che trova anche lei il fidanzato… e poi anche marito!” 37 “Mah Rosina… non so cosa dire, bisogna vedere l’onestà, l’età, la professione, che tipo di persona è, da dove viene... Bene, andiamo ad informarci!” 38 “Sì, speriamo bene!” 36

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“Mamma io non vado in mare con quei cosi lì, ho paura non so nuotare... lo sapete!” “Senti figlia mia, non devi mica andare dentro il mare veh… devi passeggiare con un moscone, se vi piacete potete fidanzarvi, altrimenti ne noleggiamo un altro... ne hanno tanti, vedrai in una settimana lo troviamo!” “Ma cosa avete fatto... Perchè?”. Prese la ricevuta, corse lungo la spiaggia, le lacrime scendevano sul suo volto, arrivò al cartello, vicino c’era un bel ragazzo, gli allungò la ricevuta e con le lacrime agli occhi disse: “Sono Flora, i miei genitori hanno noleggiato un moscone per me, ma c’è un equivoco… Noi veniamo dalla bassa reggiana siamo contadini... dalle nostre parti i mosconi sono ragazzi che girano attorno alle ragazze per fidanzarsi, è la prima volta che vediamo il mare… ti chiedo scusa per loro!” “Sono Paolo, calmati non piangere, rovineresti i tuoi splendidi occhi. Senti non è successo niente… domani mattina vieni qui all’orario stabilito, ti porterò io a fare un bel giro sul moscone… mi farebbe molto piacere!” A Flora piaceva molto quel ragazzo, non aveva mai provato un’emozione così forte, sentiva che poteva fidarsi e sussurrò: “Volentieri”. “Tieni Flora porta questi soldi a tua mamma, ti aspetto domani!” “Grazie Paolo, verrò!” Corse dai suoi genitori, gli diede i soldi piangendo: “Tenete. Non fate mai più una cosa del genere, sarò anche zitella, come dite voi, ma non sono stupida… il moroso quando sarà ora lo trovo da sola, domani comunque vado sul moscone con Paolo!” “Mo chi èl Ste Paolo, in do lèt ch’gnùsu? Rispondòm Flora sùn to peder e gò dirèt ed savèir cùn chi t’vèe!”39 “Deghèl Flora! - intervenne Rosina - Dobbiamo sapere dove

39 “Ma chi è questo Paolo, dove l’hai conosciuto? Rispondimi Flora sono tuo padre e ho il diritto di sapere con chi vai!”

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vai e con chi!”40 “Paolo è il proprietario dello stabilimento balneare dove siete andati per noleggiarmi un moroso, mi ha invitato ad andare con lui sul moscone e io ho accettato. Mi piace molto quel ragazzo!” Il mattino dopo Flora si alzò presto, aveva dormito poco quella notte, pensava a Paolo… aveva paura dell’acqua, ma con lui si sentiva sicura e protetta. Si vestì con cura, si pettinò per bene, andò a fare colazione, guardò l’orologio era presto, lesse una rivista, poi si avviò verso l’appuntamento, vide Paolo già sul moscone in riva al mare che la salutava con la mano, si mise a correre, lo raggiunse, si salutarono, salì sul moscone, tremava. Paolo le prese la mano dicendo: “Niente paura! Andiamo a Cesenatico, ti voglio fare vedere il porto vedrai che bello!” “Non ho paura, mi sento sicura… Con te andrei in capo al mondo!” Da quel momento non si lasciarono più, tutta la settimana assieme. Erano molto innamorati! Arrivò il giorno della partenza, Giacomo era già arrivato, caricarono le valigie, ma Flora non voleva salire. “Dai Flora mùnta in machìna”41 ordìnò suo padre. Lei con un filo di voce disse: “Aspettate!” In quel momento vide Paolo, gli corse incontro si abbracciarono si baciarono intensamente: “Vai tesoro. Io ti amo ci scriveremo tutti i giorni, verrò a Guastalla e ci sposeremo... Promesso!” “Oh, gioia mia anch’io ti amo tanto, aspetterò con ansia le tue lettere e il tuo arrivo!” Flora salì in macchina e partirono. Arrivarono a Guastalla contenti e riposati, raccontarono la loro bella vacanza con entusiasmo. Mario andò nella stalla Duddino

“Diglielo Flora! - intervenne la Rosina - Dobbiamo sapere dove vai e con chi!” 41 “Dai Flora sali in macchina” 40

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(il vitellino) era nato, tutto era perfetto diede una pacca sulla spalla ai suoi figli dicendo: “Bravi ragazzi, sono orgoglioso di voi tutti!” Venne l’autunno, Flora ricevette una lettera da Paolo. Sarebbe arrivato a Guastalla per sposarla! Corse nella stalla, i suoi genitori stavano mungendo: “Papà, mamma mi sposo, Paolo arriva tra qualche giorno!”. Si sposarono in novembre, Flora era bellissima, rimasero a vivere in quella grande casa, Paolo era entusiasto della campagna, del silenzio e di quella bella e grande famiglia, gli piaceva molto la vita contadina. Mario e Rosina avrebbero avuto un grande aiuto, si potevano anche riposare! Dopo un anno nacque Francesco, un bimbo bellissimo. Mario e Rosina adoravano il nipotino, vicino alla culla ricordavano la loro prima vacanza. Mario: “Al mèr al sa pùrtèe na gràn gioia e la felicìtèe a nostra fiòla. Se Rosina, la vita continua…”42

Vittoria Speroni è nata a Reggio Emilia nei primi anni Quaranta. Cresciuta in una famiglia operaia di un quartiere popolare, impara il mestiere di sarta con impegno, fantasia e tanta passione. Si sposa all’età di ventiquattro anni, ha due splendidi figli che adora. Attualmente vive in un paesino sulle colline reggiane, si occupa della casa e soprattutto del suo nipotino. Nel tempo libero si dedica con gioia, determinazione e passione alla scrittura. 42 “Il mare ci ha portato una gran gioia e la felicità a nostra figlia. Sì Rosina, la vita continua…”

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Racconti selezionati per la pubblicazione



L’eco dei ricordi di Rossella Bacchi

Per Olga i ricordi sono diventati troppi. Troppi da tenere chiusi nel proprio cuore. Qualcuno rubato dal tempo, qualcuno rimasto imprigionato, come in un cassetto chiuso a chiave, e qualcuno restituito. Olga sola nella stanza da letto si abbandona sulla poltrona di velluto sistemandosi la lunga treccia di capelli bianchi raccolta dietro la nuca. La sua anima gentile, pura e trasparente è riuscita ad invecchiare con lei senza portarsi dietro i detriti e le impurità di una vita agra e di pazienza. Il ricordo più bello però è ancora lì, il cuore lo nutre come fa la terra fertile con le radici. Prende vita, pulsa, si veste dei colori dell’estate e profuma di un tempo lontano, così distante e faticoso ma ancora così nitido che solo una vecchia di ottant’anni riesce a fermare e aggiustare nella memoria. Il silenzio incarnato in quel corpo muto poco a poco si allontana e fa rumore. I suoni, gli odori, i sapori si animano e tutto torna come allora. L’atmosfera sospesa del Grande Fiume ozia nell’attesa del caldo estivo. In quell’angolo di mondo dove lo scorrere lento delle giornate penetra l’essenza di ogni cosa, i lunghi filari dei pioppi fanno da guardia alle acque limpide e i papaveri cominciano a fiorire sugli argini. Olga ha sedici anni e non ha paura. Apre le braccia e stringe la vita a sé. La tiene stretta come una perla tra i pugni chiusi e sogna di sogni segreti. Quelli che ti senti dentro, nascosti fino in fondo dove aspettano di essere raggiunti. Lungo un tracciato ombreggiato del viale di casa, quel mattino vede Nino per la prima volta.

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Mentre lui pedala in fretta sulla strada sterrata, guarda Olga con occhi compiaciuti e un accenno di sorriso sulle labbra. Ogni muscolo sussulta alla sua vicinanza e l’espressione del suo viso si fa sincera. Mentre lui si allontana, Olga si gira quasi a rubare quell’istante in cui tutto palpita e vibra in ogni centimetro di pelle. Quel giorno d’estate, fatto di sguardi e di silenzi, sembra illuminare ogni cosa. Olga è felice dentro ai suoi pensieri garbati e già pensa a lui, a quel viso gentile che sente di appartenerle. Mentre rincasa con passo veloce, nessuno si accorge di lei. La sua famiglia è unita, si vuole bene, ma senza mentire la sente distante, ancorata in un mondo a lei troppo lontano. Il suo è diverso, è fatto di arcobaleni inaspettati, di note soleggiate, di desideri immaginati che solo il cuore riesce a vedere. La sua curiosità ha sete e chiede a sua madre dell’uomo incontrato per caso. “Si chiama Nino, è il nuovo postino. Mario non verrà più, va in pensione”. Quelle parole fanno eco nella testa di Olga, si rincorrono, seguono un ritmo morbido, un po’ cantato. Ora è certa che da quel giorno potrà rivederlo. Tutto cambia, tutto prende forma e Olga corre, corre laggiù sulla riva del fiume, poi all’improvviso si ferma perché la sua anima possa riprendere fiato. Il paradiso è lì in quel pezzo di terra dove c’è la sua storia e il suo futuro, dove il sole ormai stanco si adagia piano all’orizzonte fino a scomparire. Alle prime luci dell’alba, le voci nell’aia si animano e ciascuna prende posto. Manca solo quella di Olga. Sotto alle persiane ancora chiuse, il mondo la sta aspettando senza fare troppo rumore. Il profumo buono del pane non tarda a disperdere i sogni della notte, mettendo tutti di buon umore. Dietro una tazza di latte fumante, le mani minute di Olga spalmano generose carezze di burro e zucchero sulle fette di pane raccolte nel piatto. Suo padre seduto di fronte la guarda con occhi diversi, quelli di un uomo che non sa tacere l’orgoglio ma si sente ingannato dal tempo che passa troppo in fretta. In quel silenzio raccolto, quasi sospeso, trova la chiave per

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entrare nel suo cuore, attraversa i corridoi dell’innocenza, vuole vedere, sentire, prevenire le ferite dell’amore, chiede promesse, attende paziente, ma ha quasi paura di sperare. L’attimo fugge e il respiro si arrende di nuovo al silenzio. È ancora presto ma l’afa mattutina comincia a farsi sentire, così tutti si affrettano a riprendere i propri mestieri. Ogni giorno Olga cammina in quell’unica direzione che porta alla bottega della signora Lina, affacciata sulla piazzetta del paese fatto di poche case. In quel rifugio misurato trascorre le sue mattine in un’atmosfera cordiale e distesa. La vita di Lina, anziana e sola, è tra quelle pareti stinte dove gli occhi si appoggiano sulle foto di famiglia dentro a grandi cornici di legno e le orecchie prestano ascolto alle piccole storie di vita e di cibo, raccontate con respiro lento da qualche anziana signora. Attraverso il tempo e le stagioni, la vita degli altri si unisce al profumo delle cibarie conservate con cura sugli scaffali di vecchia fattura. Nei vasi di vetro trasparente in bellavista, le pastiglie di zucchero, tonde e colorate, il cioccolato, il cacao, i biscotti secchi nelle scatole di latta, le spezie, tutti a compensare le tentazioni più audaci di chi non vuole arrendersi a qualche peccato di gola. Fuori, dietro la tenda a strisce sulla porta d’entrata, i giorni passano uno dopo l’altro, si accavallano e si dimenticano. Ma non quel giorno. Quel giorno i sogni si cercano e sopravvivono, senza chiedere nulla. Sulla via del ritorno, un fischiettio intonato irrompe tra il canto d’amore delle cicale. Si sente lontano, poi piano si sposta e si avvicina. Sotto al berretto nuovo, calato sulla fronte, riappare quel volto affaticato dai colpi di pedale e dalla calura, come in un miraggio. Il sibilo dei freni della bicicletta sgangherata si arresta al fianco di Olga che sobbalza alla vista di Nino. Lui la guarda e chiede il suo nome. I passi rallentano e il suo viso s’imporpora. In quegli attimi non può fuggire alla dolcezza di quello straniero che ama fin dal primo giorno di un amore puro, così come gli riesce, così come gli insegna il suo cuore.

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Può sentire il suo respiro, il suono della sua voce, gli occhi posati su di lei, poi il silenzio che torna, ma non fa più paura. Olga non sa ancora in quale direzione ha teso quel sentimento profondo, ma, in quel piccolo universo, ci sono pagine bianche che aspettano di essere riempite. Tutto sa di proibito, troppi anni li separano, ma Olga non riesce a stare lontana da quell’uomo che la accoglie nella sua vita e la fa sentire amata. Si lasciano e si ritrovano il giorno dopo e così per tanti altri giorni ancora. Nei pomeriggi più caldi la vita scorre giù al fiume, su quella lingua di sabbia nascosta tra i vecchi salici argentati che si specchiano nell’acqua limpida e donano un fresco ristoro. Al riparo delle piccole baracche di legno dei pescatori, le risate sommesse si intrecciano e si accompagnano alle merende fatte di qualche frutto che Olga, come la gazza addomesticata, prende furtivamente dalla dispensa di casa. Poi, quando gli ultimi raggi del sole se ne vanno, si spingono nel fiume, respirando la lieve brezza sopra la corrente, dove l’eco di voci lontane ormai si spegne e le ombre della sera rimangono sole, non c’è più spazio per l’innocenza e tutto si abbandona agli istinti primitivi. Il giorno si perde e comincia l’attesa del giorno dopo. Quella domenica d’agosto però delude l’attesa. Il settimo giorno nella sua famiglia è tempo di festa, di cibo e preghiera, ma quel giorno anche Dio riposa dalle fatiche e non sa rispondere ai peccati taciuti. Al ritorno dalla prima Messa, sua madre si affretta a riporre il vestito nuovo per tornare a vivere nel cuore della casa, dove tutto si trasforma e diventa l’annuncio vivace di un pranzo condiviso. La gioia semplice e genuina unisce i parenti alla grande tavola, restituisce parole mai dette e un po’ distratte, perché a tavola ci si vuole un po’ più bene. È mezzogiorno e nella grande cucina i suoni familiari si innestano alla magia dei gesti quotidiani. La tovaglia di lino accoglie il rumore delle posate sui piatti e il tintinnio dei bicchieri riempiti giunge ad allontanare i pensieri e a rinfrescare l’anima di quel vino sincero. Qualcuno si spinge più in là nel tentativo di esplorare

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sotto al coperchio della casseruola dove il segreto di un grosso pesce gatto sta per essere svelato. Il profumo caliginoso delle fette di polenta abbrustolite e gli sbuffi caldi delle patate in umido, che ancora sfrigolano nella pentola di terracotta, si espandono per tutta la stanza e arrivano fin sotto le narici. In quel clima gioviale le inquietudini di Olga si disperdono, ma sembra che al di là della finestra ci sia molto di più da vivere. Lo sguardo si allarga, immobile, nell’attesa di poter raggiungere Nino che là fuori, da qualche parte, la sta aspettando. “Olga cosa ci fai lì?”. La voce di suo padre si plasma e diventa profonda. Sente intorno a sé gli occhi di chi sta per rompere l’incantesimo e scava dentro. Lui sa di quel segreto che Olga tiene nascosto da tanto tempo. Intorno a loro le voci impegnate in un ritmo veloce sembrano quasi scomparire. Non c’è più tempo per mentire. In quel lungo pomeriggio d’estate Olga spoglia l’anima del suo vestito più bello, toglie i paraventi e libera i suoi sogni infranti perché possano rincorrere un’altra vita. Suo padre, come un ladro inatteso, porta via i suoi sogni per sempre. La luce trova il buio e anche le cicale smettono di cantare. Quell’amore cacciato, quel dolore urlato, piange tutte le sue lacrime, tra i profumi di tutto ciò che è stato, tra quelle parole che arrivano da lontano e cercano ancora il suo cuore. A sopravvivere solo qualche lettera scritta nelle stagioni nuove, che aspettano chi non può più tornare. Ora ci sono gli aratri a scoperchiare le radici di quella terra, le voci gioiose degli uccelli pronti per il lungo viaggio in terre lontane e poi l’inverno a ricoprire di bianco ogni cosa. Olga vive e finge, finge di star bene. Poi tutto cambia, il tempo scivola via come l’acqua di quel fiume tanto amato. Il passato si inabissa e il destino vuole per lei un’altra vita. Laggiù, in fondo al viale alberato, la sua vecchia casa respira ancora in quella campagna, all’interno dell’involucro etereo della nebbia che la rende sbiadita come una vecchia fotografia. Al di là di quelle mura non si vede più nulla. Solo il fiume, vecchio e stanco,

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a vegliare nell’incanto triste e misterioso i lunghi crepuscoli, gli antichi casolari, le vecchie baracche di legno, nostalgiche memorie di un passato. Nulla è rimasto se non quel ricordo che oggi come ieri è tutto quello che ha.

Rossella Bacchi, nata a Poviglio (RE) un po’ di tempo fa... Diplomata al Liceo Artistico di Parma. Know-how professionale: grafico pubblicitario, art director, visualizer nella “prima vita”. Nella “seconda” consulente, mamma e blogger... “ai fornelli”. L’arte, i viaggi, la scrittura e la cucina sono da sempre le sue più grandi passioni.

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Il compagno di legno di Massimo Bisi

Otto del mattino, minuto più, minuto meno. A quell’ora, ogni santo giorno, Bruno chiude la porta di casa e scende le scale facendo molta attenzione a non incrociare nessuno del palazzo. I sorrisi, i saluti e i convenevoli non fanno per lui, soprattutto dopo le tante polemiche avute con gli altri condomini per i più disparati e futili motivi: il parcheggio dell’auto, l’orto, i troppi rumori in cortile, il giardino bistrattato. Carattere difficile quello di Bruno, abituato ad abitare in campagna, nella pace più assoluta, ma catapultato suo malgrado in un appartamentino di un palazzo di tre piani a pochi metri dal centro del paese, quando l’azienda agricola per cui lavorava è fallita a causa della sciaguratezza del proprietario. Sono passati ormai tanti anni da quel trasloco forzato ma il ricordo di quel giorno gli fa ribollire ancora il sangue nelle vene. Così Bruno si è dovuto trasformare, da coltivatore di campi di granoturco e allevatore di animali, in sedentario osservatore della vita di paese sulla panchina della piazza. Perchè questo adesso è il suo nuovo lavoro. Quello che fa ogni mattina è salire, dopo averla lucidata per bene, sulla sua bicicletta rossa e avviarsi verso il centro. Il percorso è sempre lo stesso: prima una puntatina al cimitero per controllare se sulla bacheca dei necrologi vi siano nuove “partenze”, poi un giretto nel nuovo quartiere di periferia in costruzione, infine la panchina dietro all’edicola come capolinea. Da quella posizione ha sotto controllo l’intero paese: la vista a 360 gradi sull’incrocio del semaforo permette di avere il quadro generale della situazione, un pò come quando dall’alto

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del suo trattore dominava tutta la campagna che gli si apriva davanti, con la differenza che invece di vigneti e prati verdi adesso ci sono persone e automobili. Mentre sfoglia il giornale e attende gli altri pensionati per le solite chiacchiere su sport e politica, Bruno vede sfrecciare davanti a sè il pot-pourri della società paesana: giovani operai perennemente in ritardo sul lavoro, badanti dell’est Europa a passeggio che ammiccano maliziosamente a chiunque si pari loro davanti, operatori ecologici che ripuliscono la piazza dalle foglie e dai rifiuti con invidiabile flemma, mamme e padri sempre di corsa che accompagnano i figli a scuola. E poi ancora: la rassegnazione con la quale il fiorista apre tutte le mattine la serranda del negozio, le avvenenti impiegate di banca che entrano tutte assieme in filiale, le casalinghe benestanti sempre molto agghindate che passano ore e ore al bar a parlare dei loro matrimoni in crisi. Ma la sua attenzione, alle otto e trenta precise, si focalizza sul negozio del panettiere: richiude il giornale, lo posiziona ben ripiegato sul portapacchi posteriore della bicicletta poi si risiede sulla panchina. Si toglie gli occhiali da lettura (perché da lontano Bruno ci vede ancora come un’aquila, mentre da vicino, se non avesse quelle lenti appoggiate sul naso, vedrebbe solo inchiostro sfuocato) e concentra lo sguardo oltre la strada. Non sente più il frastuono delle automobili, gli schiamazzi dei bambini, le chiacchiere dei passanti, come rinchiuso in una campana di vetro all’interno della quale ogni rumore risulta ovattato. Una signora distinta, sua coetanea, si appresta a varcare la soglia di entrata. Il suo passo è lento e dinoccolato e il bastone sul quale si appoggia, di legno scuro e col manico classico a pappagallo, rivela evidenti difficoltà motorie. La signora Franca è conosciuta un pò da tutti in paese, grazie anche al suo bel modo di fare e alle parole gentili che non lesina mai a chiunque la incroci. Seconda di cinque figli, la sua famiglia ha sempre vissuto in paese: tre sorelle che si assomigliano parecchio per il caratteristico naso aquilino preso dal padre, due fratelli gemelli che da ragazzini facevano impazzire i loro amici spacciandosi

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l’uno per l’altro. Con cautela, ma con fare deciso, passo dopo passo, la distinta signora raggiunge l’entrata del negozio e con la mano libera dall’ingombrante ma necessario compagno di viaggio, spinge la porta d’ingresso e sparisce all’interno del locale. Mani stanche le sue, segnate dal tempo e dagli anni ma soprattutto dalla fatica. Mani e braccia che hanno sollevato due figli (entrambi maschi) e poi i figli dei figli. Per metà della sua vita la signora ha lavorato nei campi e nelle stalle, dove sono cresciuti anche i suoi marmocchi. Lavoro pesante per una donna, ma Lei non si è mai lamentata: figlia di un’altra generazione nella quale l’imperativo era “faticare per sopravvivere”, non si è mai tirata indietro davanti a nulla. Per questo, dopo aver abbandonato la campagna, ha subito trovato un impiego come collaboratrice domestica in casa di una benestante famiglia del paese. Qui ha passato l’altra metà della sua vita, diventando un riferimento per tutti i componenti del nucleo, grandi ma soprattutto piccoli. Le sua braccia da “tata” hanno sostenuto la primogenita e in seguito la seconda figlia, la sua voce ha calmato i loro pianti e accompagnato la loro crescita , soprattutto dopo la prematura scomparsa della loro madre. Donna forte, tutta d’un pezzo, che non ha mai ceduto tranne che in un’occasione: quel giorno in cui il sole si è spento e la nebbia ha offuscato la sua vista. Ischemia l’hanno chiamata i dottori: lei nemmeno sapeva cosa fosse fino a quel momento. Un malore improvviso mentre stava uscendo da casa. Il tentativo di arrampicarsi con disperazione al cancello è risultato vano e Franca ha dovuto arrendersi davanti ad una cosa più grande di lei. I soccorsi sono stati per fortuna molto tempestivi, ma la sua vita da quel giorno è forzatamente cambiata: i movimenti sono diventati molto più cauti e accorti e la paura del momento vissuto l’accompagna in ogni suo gesto, il bastone l’aiuta a muoversi e nello stesso tempo a ricordare. Quando la signora sparisce all’interno del negozio, Bruno può rilassarsi un attimo e ricominciare a sentire i rumori di fondo, come se si fosse tolto le cuffie dalle orecchie. Per una deci-

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na di minuti riesce ad ascoltare di nuovo le chiacchiere degli altri pensionati sulla partita di calcio del giorno prima, il fischio di un vigile intento a riprendere una malcapitata autista, gli schiamazzi dei venditori ambulanti sulla piazza del mercato. Ma dura poco, giusto il tempo di permettere alla signora di comprare il solito mezzo chilo di pane (rigorosamente in “cioppine” ferraresi) e di uscire dalla porta dell’esercizio. Pochi ma tribolati passi ed eccola di nuovo all’esterno, ferma sul marciapiede a sistemare il sacchetto di carta col pane ancora caldo all’interno del carniere e a controllare con sguardo attento le monete ricevute come resto. Occhi marroni, stanchi ma ancora vispi. Quante cose hanno visto, quante volte hanno dovuto restare aperti per le notti rese insonni dal pianto dei suoi figli. Occhi lucidi e bagnati da lacrime di gioia che nel giro di pochi anni hanno visto nascere quattro nipoti, lacrime di disperazione quando i suoi vecchissimi genitori se ne sono andati. Occhi attenti e fieri che mai si sono abbassati di fronte agli sguardi della gente del paese, nemmeno quando entrambi i figli hanno deciso di separarsi dalle mogli. E lei, come se il fardello di tali scelte fosse tutto sulle sue spalle, ha fatto buon viso a cattivo gioco e ha affrontato tutti quei volti, quelle persone così ansiose di sapere e di godere dei problemi delle vite altrui ma ben attente a non parlare delle loro. Le chiacchiere in questo piccolo paese possono fare male, ma Lei ha imparato non senza fatica ad ignorarle. E quando non ha potuto farne a meno, davanti alla sfacciataggine delle malelingue più curiose, Franca ha sempre risposto per le rime, perchè come si dice qui a Rio Saliceto, “ag vòl ed la pasinsia, ma ad esèr tròp boun as pàsa per caioun”.1 La signora sale faticosamente sulla bicicletta, sistema il bastone in modo che non possa finire tra i raggi delle ruote e poi si av-

“Ci vuole della pazienza, ma ad essere troppo buoni si passa per coglioni”.

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via. Chi la vedesse in sella non sospetterebbe minimamente di tutti i suoi problemi: la pedalata è decisa, il passo veloce. Bruno continua a seguirla con lo sguardo, bene attento a non farsi scorgere, dall’altro lato della strada. L’apprensione dei primi istanti adesso si trasforma in una sorta di ammirazione: vederla così vispa e sicura nonostante i guai fisici lo rende orgoglioso. Ancora pochi metri e imboccherà la via di casa, giusto il tempo di passare l’incrocio del semaforo. Bruno attende ancora un po’ prima di salire sulla sua bicicletta, si concede ancora qualche chiacchiera con i fidi compari pensionati. Adesso la tensione ha lasciato spazio alla spensieratezza e alla voglia di scherzare, tanto da non risparmiare risposte anche taglienti pur di fare la battuta a effetto (uno dei suoi punti di forza). Sono le undici e trenta, è l’ora di tornare a casa. Gli altri pensionati restano fino a mezzogiorno, alcuni fino alla mezza: non lui. Bruno a differenza degli altri deve preparare il pranzo: non vuole che la moglie si sforzi troppo. Non ora, dopo quello che Le è capitato. Oggi ha deciso che cucinerà il minestrone, il piatto preferito da Lei. Non importa se ci vorrà del tempo e se ci sarà un pochino da tribolare: Lei si merita questo e altro, per tutto quello che ha fatto per lui e per i suoi figli, per la compagnia che continua a fargli da cinquantacinque anni a questa parte, per la pazienza innata che ha dimostrato in tutto questo tempo, per l’amore che gli dà. Sì… Franca si merita un bel minestrone oggi a pranzo.

Massimo “Cicci” Bisi, classe ‘69, è alla sua seconda partecipazione al concorso “Bassa in Letteratura”. Si definisce un romantico, ma anche permaloso, pungente ed eternamente insoddisfatto. Grande osservatore dei comportamenti altrui, ha potuto pescare a piene mani dal repertorio di personaggi strani che popolano il suo paese, Rio Saliceto (RE). Questo racconto è un omaggio ai suoi genitori, anch’essi appartenenti a questo microcosmo.

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Chile, ciccioli e cicciolata di Renato Ceres

La prima parola di italiano che ho imparato bene è stata “sfigato” e la seconda “orsetto”, e qui a Fabbrico vedo che è molto usato questo termine, il primo dei due, voglio dire. Questo è quello che mi è successo l’anno scorso verso la fine dell’anno scolastico, quando facevo la Quarta superiore. Questa classe, si sa, non è facile, ma non lo sono state neanche la Terza e mi pare neanche la Seconda; la Prima non la ricordo proprio, so che quando arrivai in Italia però mi misero alle medie in una giornata con un nebbione che vidi solo una volta a Coquimbo sul Pacifico, e poi ho fatto quasi tutti gli anni a due a due e forse è per quello che non distinguo bene i ricordi della scuola. Quello che invece ricordo chiaramente è che fin da subito i miei nuovi genitori hanno cominciato a darmi da mangiare delle cose strane e alcune subito mi facevano anche schifo, mentre per altre non c’era bisogno di pregarmi. Comunque anche quelle che all’inizio erano disgustose poi mi vennero a piacere, ma dovrei presentarmi e invece vedo che sto già parlando di cibo, perché il mangiare per me, scusate, è una mania. Ero arrivato qui nella Bassa perché i miei nuovi genitori erano venuti in Cile a prendermi dove abitavo, in un istituto della città di Coquimbo, molto lontano da Arica che sarebbe la mia vera città, e in quella specie di collegio ci ero finito perché i giudici avevano deciso che non potevo più stare con quello che rimaneva della mia famiglia, cioè mia madre Zita. Per quanto riguarda il papà, ho sempre sentito dire che era partito appena era nata Marta, la penultima di noi quattro fratelli; partito per

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dove non lo so, ma mi hanno sempre detto che era per lavoro, anche se dei soldi a casa secondo me non ne ha mai mandati. Poi c’erano Fernando e Claudio, i miei due fratelli più grandi, ma in famiglia sono stati proprio pochi gli anni in cui c’eravamo tutti e cinque, cioè il papà non lo conto neanche. Quando Claudio aveva dodici anni e io sei, lui è stato ammazzato da un coglione che hanno beccato subito perché non ha neanche provato a scappare, in quanto credeva che fosse giusto sparare a un bambino che gli rompeva le scatole sul lavoro anche se il lavoro che faceva era qualcosa che aveva a che fare con il commercio della droga. Seppi anche che poco dopo il funerale di Claudio, quelli della “Organizzazione”, cioè l’azienda per cui lavorava, chiamarono Fernando a lavorare come per una compensazione alla mia famiglia. All’inizio lo facevano andare in giro con uno più vecchio di lui per fargli imparare come si fa a taglieggiare i negozianti, ma lui diceva che come mestiere non gli piaceva allora hanno provato a insegnargli a smontare i motori dei motoscafi, e questo sì che gli andava a genio, però - non so come e perché - un bel momento anche Nando non s’è più visto a casa e questo è un peccato, infatti adesso potrei chiamarlo qui da noi perché ho visto dalla Gazzetta che in riva al Po è in espansione l’attività di quelli che smontano i motori dalle barche; beh, spero almeno che sia andato dal papà, visto che si era messo a fare come lui, cioè a non tornare mai a casa e a non dare mai dei soldi alla famiglia. Insomma eravamo rimasti io, la mamma e Marta, le quali per tirare avanti avevano cominciato a dare alloggio a delle persone nelle stanze vuote, e qualcuno dormiva tutta la notte, qualcun altro solo un’oretta o due. Fatto sta insomma che mi dissero che mia sorella era troppo piccola per fare l’albergatrice, che per legge ancora non poteva lavorare ma solo andare a scuola; io avrò avuto novedieci anni e lei tre più di me e i poliziotti che la vennero a prendere mi dissero che non era giusto che una bambina lavorasse e poi ho capito che non si trattava solo di una questione di lavoro minorile. Ok. Insomma mi sistemarono a Coquimbo

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nell’istituto con le suore, e la mamma mi veniva a trovare ogni tanto. In quel posto non succedeva mai niente e la cosa più emozionante era vedere il prete quando metteva un cucchiaino di incenso nel turibolo, che si vedeva all’improvviso salire una colonna di fumo, e all’ora del Vespro c’era un raggio di sole che passava attraverso una finestra con i vetri colorati e si creava un effetto che qui a Fabbrico, ma anche negli altri paesi della Bassa, sono capaci di fare solo in discoteca. Per il resto mi annoiavo abbastanza anche perché non è che ci fosse un granchè da mangiare, comunque le suore mi davano da leggere dei fumetti religiosi, perché - dicevano - dovevo imparare le vite dei santi, che secondo loro erano delle persone che si erano realizzate nella vita, mica come quei lazzaroni dei miei genitori e dei miei fratelli. Il mio problema è che assomiglio davvero a un orsetto come già mi chiamavano in istituto e poi qui in Italia i miei compagni di scuola, inoltre parlo molto adagio e a basso volume, perciò sia là in Cile che qui nella Bassa è sempre stata tutta una presa in giro, e io tendevo e tendo a starmene per i fatti miei. Succedeva allora che quando arrivava l’inverno e i miei compagni continuavano a portare a scuola le solite merende e le patatine, i miei per l’intervallo mi infilavano nello zaino uno scartoccino di ciccioli, e io sentivo ancora più spesso e dietro le spalle quella parola, “sfigato”, riferito alla mia persona, quindi dopo un po’, perché mi ero fiaccato, lo dissi a mio padre e a mia madre, che non volevo più i ciccioli a merenda. Loro cosa fecero? Invece di darmi le schiacciatine o le merendine o i soldi per la macchinetta degli snacks, incominciarono ad aggiungere ai ciccioli dei tocchi di formaggio grana dentro a della carta da cucina chiusa con un elastico. Pensai che per me era finita. Sicuramente oltre alle offese avrebbero iniziato anche a picchiarmi, proprio come i bulli devono fare con gli sfigati, e invece… da non credere. Il numero di quelli che mi davano dello “sfigato” oppure “orsetto cileno” calò, e calava ancora, precisamente diminuiva nella misura in cui cresceva quello dei

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ragazzi che mi chiedevano dei pezzi di formaggio e qualcuno addirittura proprio dei ciccioli. Il mio indice di popolarità cresceva in proporzione alle quantità e alla tipologia della mia merenda. Io non dovevo fare niente; pensavano a tutto i miei nuovi genitori, che forse avevano intuito la maniera per farmi accettare dai miei compagni di classe. Per me era incredibile vedere quante cose si potevano ricavare da un suino, che io ero abituato - per modo di dire - al massimo a vedere nei cortili in Cile infilzare un porcellino e farlo girare sullo spiedo; un animale in realtà più simile a un cinghialino che a un maiale. Quello vero di suino, come questi qui italiani, si poteva anche farlo crescere fino a farlo diventare proprio un maiale pieno di grasso come dice una delle offese preferite da queste parti da usare sugli sfigati orsetti come me. Però ho insegnato a un prof. che esiste la cicciolata, il mio salume preferito, e lo dico dopo che li ho assaggiati tutti, ed è anche quello che costa meno e questa per me è una cosa senza senso, perché è troppo golosa, molto più del prosciutto di Parma che al mercato costa più del triplo ed è anche molto più facile da fare essendo semplicemente una coscia intera del maiale, ma ci sono altre cose assurde qua in Italia nel campo gastronomico. Per esempio: la pasta integrale costa il doppio di quella normale invece di costare la metà come sarebbe logico in quanto è fatta con la farina integrale anziché quella raffinata. Quando chiedo a qualcuno il perché la risposta è sempre la stessa: è colpa del mercato. Se almeno mi dicessero quale potrei andare a vedere di persona cosa succede, di chi è la colpa, anche se ancora oggi che sono già maggiorenne i miei non hanno piacere che vada da solo oltre Carpi o Guastalla o Moglia. Un giorno - ero già alle superiori - mia madre mi portò a casa un opuscolo che era l’elenco dei libri per ragazzi che si potevano trovare alla biblioteca comunale, e mi disse di scegliere tre titoli da quella lista, tre romanzi che poi avrei dovuto leggere perché faceva parte di un progetto speciale per quelli come me cioè da poco in Italia e con qualche problemino con la lingua,

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ma anche un po’ timidi, un po’ bassi, grassettini e brufolosi, insomma gli sfigati. Scelsi Diario di una schiappa, L’arte di sparare balle e Io non ho paura, così, giusto perché mi intrigavano i titoli. Li lessi tutti e tre, mi piacquero, ma uno in particolare mi colpì, perché mi fece balenare una via di uscita anche per me dalla condizione di “sfigato”. Era la storia di uno della mia età più o meno nella mia stessa situazione: lui un cinese adottato da una famiglia americana e io un cileno scelto da una italiana. Nella sua nuova scuola - un grande College - il cinese era riuscito a far credere a tutti, ma soprattutto a una ragazzina che gli piaceva, di essere un maestro Zen e probabilmente la settima reincarnazione del Buddha. Io avrei potuto far credere a quelli della Bassa di essere un esperto di cibi tradizionali locali, soprattutto dell’arte di trattare il maiale, tra l’altro sapevo di poter già contare sulla fiducia del prof. a cui portavo la cicciolata. Così iniziai per la gioia di mia madre a frequentare la biblioteca di Fabbrico prima, e poi anche quelle di Correggio e di Guastalla, perché a volte andavo coi miei a visitare una enorme porcilaia della quale i miei genitori adottivi avevano della quote sociali. La mamma era contentissima di questo interesse per i libri che era sbocciato in me, ma era all’oscuro del fatto che frequentavo solo gli scaffali con i manuali di zootecnia, di norcineria e i libri di cucina. Molti termini erano ovviamente nuovi per me e difficili da ricordare, così iniziai a farmi un glossario personale che pian piano imparavo a memoria. A un certo punto toccai una vetta di popolarità; fu quando un prof. di un’altra classe chiese ai miei insegnanti il permesso per portarmi con un suo gruppo di prescelti fra varie classi in veste di accompagnatore per una visita didattica presso un’azienda agricola di Campagnola specializzata nella trasformazione del maiale da piccolo porcello a salsicce, pancette finite e stagionate, cotechini, salami, eccetera. A questo punto ero molto meno sfigato per quelli di qui, ma iniziarono a prendermi in giro i pakistani e i marocchini, che sono praticamente tutti musulmani, per via di quella famosa questione della carne di maiale che

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sanno tutti. Tra l’altro mi sembra di aver capito che per loro è così importante non mangiare il maiale e dirlo sempre, anche quando non c’entra niente, che è come se fosse un elemento della loro stessa identità, e questo mi pare un po’ troppo. Cioè un po’ troppo poco, voglio dire, per l’identità. Insomma le cose si mettevano bene da un lato ma peggioravano da un altro. Ad esempio, quelli di Rolo continuavano sempre a darmi dello sfigato e del cileno di m…. e dicevano che per me, che ormai avevo diciotto anni, l’unica prospettiva era di andare a fare il vicedirettore dell’Isola Ecologica di Rolo, visto che il direttore c’era già. L’Isola Ecologica si chiama così, ma dopo che l’ho vista - così per curiosità - a me è sembrata più che altro una discarica, ma qui in Italia vedo che alla gente piace molto giocare con le parole, nella lingua italiana. Le ragazze invece mi evitavano quasi tutte come se avessi l’ebola o forse perché i brufoli della mia faccia e del collo facevano pensare al vaiolo. Oppure sarà stato proprio per via dell’unto e del grasso che avevano trasformato il mio zaino in una specie di banco da salumiere ambulante. A causa delle ore passate a studiare il maiale, le sue abitudini e i suoi derivati, mi rimaneva poco tempo e nessuna voglia per studiare l’italiano, la matematica e la storia, e questo si vedeva poi benissimo dai risultati. A metà maggio di quell’anno lì la mia situazione era disperata e quasi “compromessa” come piaceva dire ai prof. ma avvennero due cose a fine mese che, se per qualcuno furono una vera disgrazia, a me permisero di arrivare in scrutinio con qualche numero in più dalla mia parte. La prima fu un tema che quello di italiano ci diede verso il 20 del mese; il titolo era: “Oggi tra i giovani si usa molto il termine “sfigato”. Scrivi dal tuo punto di vista cosa significa questo appellativo”. Io non feci altro che scrivere una piccola autobiografia, insomma qualcosa di quello che trovate anche qui. Il prof. mi diede 9 e mezzo e mi chiese il permesso di leggere il mio tema ad alta voce e anche in altre classi. Io non glielo diedi, perché ebbi come l’intuizione che sarebbe potuto

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servire a me in anteprima, come sto facendo adesso. Il secondo fatto avvenne mentre stavo facendo l’ora di religione e noi stavamo guardando il DVD La Passione di Cristo proprio nel momento in cui Gesù muore in croce, che c’è un temporale e tira il terremoto, che fa crollare una parte del Tempio e squarcia il Velo del Santo dei Santi e Caifa e gli altri perfidi dottori della Legge si disperano. Beh; da non credere: i vetri in classe cominciarono a sbattere davvero come quando tuona e il pavimento iniziò a vibrare come se lì di fianco passasse un tir con centomila scatolette di sgombro. Erano le nove di martedì 29 maggio e non lo scorderò mai. Noi non ci siamo messi accovacciati sotto i banchi come ci avevano insegnato per la prova di evacuazione. La luce non saltò. È saltato invece il prof., che è stato anche il primo a correre fuori dall’aula, dopo aver urlato “Via!”, seguito da quasi tutti i miei compagni, e mentre Gesù nel video stava risorgendo nudo e coi buchi nelle mani, io, che sono un po’ lento nel parlare e anche nei movimenti, mi accorsi che non ero comunque l’ultimo, ma dietro ai banchi buttati a caso in disordine per tutta l’aula nel caos fatto dai miei compagni per scappare, era rimasto Momi, che è un marocchino magrissimo un po’ ritardato e con le stampelle. Siccome non c’era il prof. di sostegno, me lo sono caricato sulle spalle come quando da piccoli si gioca a cavalli e cavalieri, ho preso le stampelle e siamo andati sulle mie gambe fuori, in cortile, dove erano tutti disperati e piangenti perché i telefonini non funzionavano più; qualcuno diceva che a Modena si era aperta una voragine larga due metri e lunga come la via Emilia, e che a Reggio era crollata la Torre del Bordello. Non seppi mai come queste notizie, che poi erano delle clamorose balle, arrivarono fino alla mia scuola, perché dal giorno dopo rimase chiusa e buonanotte suonatori, come dice sempre il mio nonno di Fabbrico. So che qualcuno dei miei compagni di Novi, di Reggiolo, di Rovereto e di Carpi ha perso la casa; è una cosa che mi dispiace molto, ma io personalmente col terremoto e quello che è successo col salvataggio di Momi in spalla e col

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fatto che hanno chiuso l’anno scolastico dieci giorni prima, penso di averci guadagnato. Oh! Sia chiaro che il terremoto non l’ho fatto venire io, e non lo rivorrei neanche se fossi Dio e potessi, però mi sembra di buon auspicio per tutti gli sfigati come me poter pensare che da un fatto bruttissimo e spaventoso qualcuno possa anche trarre delle conseguenze positive. Sì, perché alla fine mi hanno dato il debito solo in storia e matematica, e a Settembre sono stato promosso in Quinta. Adesso comunque so tutto del maiale e avrei anche più tempo per studiare, ma non mi è ancora scattata la molla come si dice, e tra l’altro devo anche inventarmi qualcos’altro per stupire i miei compagni e diventare popolare come quando ero riuscito a far credere di essere un esperto salumaio, inoltre la mamma mi ha obbligato ad andare con lei da un dottore diverso dal solito, cioè non è quello che cura l’influenza e la tonsillite, ma uno che pensa che dovrei evitare di mangiare la cicciolata tutti i giorni, e inoltre ha anche chiesto a mia madre per favore di darmi una mela per andare a scuola invece dei ciccioli, ma questo medico giallognolo, così dimostra di non sapere che qui da noi uno studente che porta a scuola una mela per merenda è uno sfigato, e mi sa che per quanto riguarda la popolarità dovrò ricominciare tutto da capo, ma io non ci mollo; sentirete parlare di me. Dimenticavo, scusate. Mi chiamo Beltran.

Renato Ceres è autore di Parrokkia progressive (2007), La messa a punta (2008) e Istriana blues (2010), tutti pubblicati con LdS - Milano. Nel 2013 ha pubblicato un bootleg in collaborazione col blogger Ciro Andrea Piccinini dal titolo Nei miei romanzi non scopano mai Storie di vita piatta, introvabile. Nel 2014 ha pubblicato con Maris Terraquae di Reggio Emilia Il nome della resa - Viaggetto in una Provincia da abolire. Da alcuni anni collabora con pochissime persone.

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La fontana di Frida De Santis

Non albeggiava ancora quando Evelina scese in strada, si guardò intorno con fare furtivo e, una volta constatato che non c’era in giro nessuno, si diresse con passo celere verso la casa di Domitilla. Aveva scelto appositamente quell’orario antelucano per sfuggire agli sguardi indiscreti della gente del paese e alle conseguenti, inevitabili, maldicenze. Era stata una decisione meditata a lungo e sofferta, la sua, ma l’ansia provocata da un tarlo che le rodeva dentro l’aveva indotta, nel tempo, ad aggrapparsi a tutto, anche a ciò che lei, da sempre, aveva rifuggito con il più ferreo scetticismo. Si era dunque accordata con Domitilla, chiedendole un appuntamento per l’indomani all’alba e, poiché non disponeva della somma di denaro che la compaesana le avrebbe richiesto in cambio del suo favore, si era premunita di riempire una cesta con cibarie da lei stessa cucinate: un erbazzone, una focaccia al formaggio e una torta di riso. Non aveva spiegato a Domitilla il motivo della sua visita, forse per garantirsi, fino all’ultimo, la possibilità di un ripensamento o, probabilmente, per studiarsi meglio il discorso, le parole adatte ad esporle il suo cruccio. Quella mattina, Evelina attraversò il paese con il fiato corto e con un nodo che le serrava la gola, dandole l’impressione di soffocare. Passo dopo passo avvertiva il battito del suo cuore farsi sempre più incalzante: l’inquietudine che provava imprimeva un’insolita rigidità al suo viso ancora giovane, ai suoi li-

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neamenti delicati. Attraversò un cortile e giunse davanti ad un portone. La sua mano tremante, emozionata, si chiuse in un pugno ed indugiò ancora qualche istante prima di bussare una, due, tre volte... Dall’interno Evelina udì provenire un frenetico scalpiccio di tacchi che si fece sempre più prossimo finché un’anta si dischiuse ed un braccio avvolto in una lunga manica rossa la gremì per un braccio e la tirò oltre la soglia. Il portone si serrò immediatamente alle spalle delle due donne. Domitilla non era ben vista in paese. Nonostante fossero in molti a rivolgersi a lei, chiunque vi ricorresse agiva nella più attenta riservatezza, nel segreto più scrupoloso. Era una donna “chiacchierata” e le mormorazioni che la riguardavano non erano certo indulgenti: per le sue ostentate doti divinatorie era definita una strega, una megera, un’arpia. Si era improvvisata cartomante. Il bisogno - si sa - aguzza l’ingegno ed ella si era, per così dire, inventata un modo per garantirsi la sussistenza. Fece accomodare Evelina ad un tavolo rotondo utilizzato anche, si diceva, per pittoresche sedute spiritiche affollate dai fantasmi di uomini illustri di cui la cartomante conosceva, sì e no, il nome, ma che tuttavia ella faceva parlare stravolgendone la storia e la biografia terrena. “Come ti posso aiutare?” chiese Domitilla alla sua ospite. Evelina sospirò, come a cercare le parole di quel discorso che si era imparata a memoria, si aggiustò lo scialle sulle spalle ed iniziò a spiegarle il suo problema: “Si tratta di mia figlia Gilda. Tu la conosci, vero?” Domitilla annuì. “Ebbene, mi dà delle preoccupazioni!” proseguì la donna. La cartomante inarcò le sopracciglia, meravigliata ed incredula: “La Gilda?! Ma dai, non può essere! È una ragazza così brava... non ha mai suscitato chiacchiere in paese: è tutta casa e chiesa! Senza contare che è un’abile sarta: se non fosse per lei, questa bella vestaglia di chiffon rosso sarebbe finita tra gli stracci! E

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invece lei è riuscita a rammendare uno strappo con una tale precisione da renderlo del tutto invisibile! Dunque, che genere di preoccupazioni possono derivare da una siffatta creatura?” Evelina si rabbuiò. Si sentì incompresa e trattata come una madre ingrata. Cambiò allora tono e maniere, rinunciò al discorso che si era preparata per sciogliere le redini ai suoi pensieri: “Sai quanti anni ha la Gilda? Venticinque! E non ha ancora trovato un fidanzato! Dici bene tu: tutta casa e chiesa, una brava sarta... però un marito non si trova in mezzo ad una matassa di filo da imbastire e lei non si dà da fare... Le sue sorelle, alla sua età, erano già tutte sposate ed erano già madri. Tutte, tranne la Maria che è andata in convento e ha sposato il Signore. E pensa che la Gilda è la più bella delle mie figlie con i suoi lunghi capelli corvini, i suoi occhi a mandorla, senza parlare del suo fisico, delle sue gambe lunghe dalle caviglie sottili, del suo vitino da farfalla, del suo seno ben modellato... Insomma, cosa c’è che non va? È forse sotto l’influsso di un maleficio?” Domitilla mescolò un mazzo di carte da briscola ed invitò Evelina a sceglierne tre che ella dispose poi sul tavolo, vicino ad un bastoncino d’incenso che esalava nella stanza un tanfo nauseante. La cartomante abbassò le palpebre per ostentare una profonda meditazione e così rimase a lungo prima di irrompere: “Vedi? Hai scelto la Pita, l’Asso di Bastoni e l’Asso di Spade... Che strana combinazione!” Evelina trepidava. Era impaziente, avvertiva le farfalle allo stomaco: “Ebbene? Che cosa significa?” incalzò. “Significa che la Gilda troverà un fidanzato, ma dovrà darsi da fare! Dovrà uscire, mettersi in mostra... Però...” “Però cosa? Avanti, parla!” “Sarà un grande amore, ma recherà, insieme, sia dolcezza che tormento!” “Dolcezza e tormento? Ma che cosa vuol dire? Spiegati meglio, perdiana!” “Altro non ti posso dire, mia cara: questo è quanto è scritto

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nelle carte! Poiché ci conosciamo ti prendo solo cinquantamila lire, oppure, in alternativa, l’equivalente in cibarie...” La donna le lasciò il paniere che aveva portato con sé e, indispettita e allarmata da quelle profezie, si accomiatò. Quando Evelina rincasò, Gilda era già sveglia. Sedeva in cucina ed era intenta ad applicare scintillanti lustrini su un golfino di lana celeste. “Mamma, ma dove sei stata a quest’ora? Mi hai fatto stare in pensiero!” inquisì la ragazza. “In pensiero perché sono uscita un attimo? - ribatté la donna seccata - Sono andata a comprare i fiammiferi per accendere la stufa, e allora?! Tu, piuttosto, mi fai stare in pensiero: sempre qui, chiusa in casa! Hai venticinque anni e nessun corteggiatore ti ronza intorno! Hai forse deciso di restare zitella?” “Senti, mamma...” la interruppe la fanciulla, nel vano tentativo di calmarla. “No, senti tu! - urlò la donna - Adesso, cara la mia figliola, indossi quel bel golfino luccicante, vai nella piazza del paese e ti siedi sui gradini della fontana! Insomma, lo vuoi capire o no: se i giovanotti non ti vedono, se non sanno che esisti, come fanno a farti la corte, eh?” “Ma mamma... questo golfino non è ancora ultimato!” “Dai, dai, poche storie! Avanti! Anzi, hai ragione... Beh, sfoggia la giacchetta bianca che ti ho regalato e vai a finire il gilet celeste alla fontana. Forza, bella! È ora che trovi anche tu il tuo Principe Azzurro!” Gilda non oppose resistenza: seppure di malavoglia, obbedì. Raccattò il suo cestino da cucito, prese il golfino azzurro e si diresse verso la piazza. Non mancarono meravigliate mormorazioni tra la gente del paese: “Ma quella, non è la Gilda, la figlia dell’Evelina?” “Sì, sì, è proprio lei! Si è decisa, finalmente, ad uscire dalla tana!”

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“Però, che pezzo di ragazza!” “Già... È anche molto brava, seria e coscienziosa. Eh, l’Evelina è fortunata ad avere una figlia così!” La ragazza procedette verso la fontana e, giunta là, sedette sui gradini di marmo, estrasse dal cestino ago e filo e, assorta e concentrata, si immerse nel suo ricamo. Trascorse così un’ora pacifica, sotto un sole opaco che si sforzava di trafiggere una cappa di densa foschia che avvolgeva il paese della Bassa. Trascorse così minuti e minuti tra rumori ovattati, tra i ritmi indolenti di una giornata estiva finché, ad un tratto, un insolito ronzio attirò la sua attenzione. Un giovane ciclista, in sella alla sua bicicletta da corsa, stava pedalando verso la fontana per riempire la sua borraccia. Giunto in prossimità dei gradini dove Gilda sedeva, scese dal suo velocipede, ma perse l’equilibrio e barcollò. I movimenti maldestri che egli approntò per mantenersi in piedi gli provocarono un vistoso strappo sui suoi calzoncini attillati, proprio dietro, sul sedere, lungo la cucitura che separa le natiche. “Pòrca misèria!” imprecò il giovane, ricorrendo al dialetto per rafforzare il suo disappunto. Tastò con le dita per valutare il danno: non c’era dubbio... la lunga scucitura mostrava il candido cotone delle sue mutande. “Mó che lavór! È gh’é gnù un sètt gróss cmé ‘na mân! E pròpria in séma al cùl!”1 Cercò spasmodicamente di tirare la maglietta per nascondere il problema almeno mentre attingeva l’acqua alla fontana, dopodiché se la sarebbe svignata a tutta velocità. Però, purtroppo, il tessuto non cedeva. “E adèss? Cmé fàghia?”2 Era diventato paonazzo: tra lo sforzo della pedalata e la vergo-

“Ma che roba! Ci è venuto un buco grosso come una mano! E proprio sul sedere!” 2 “E adesso? Come faccio?” 1

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gna, le sue gote parevano due pomodori maturi. Febbrilmente vagò con lo sguardo concitato alla ricerca di un rimedio di fortuna. Fu allora che scorse Gilda. Nessuno può dire se la sua attenzione si sia posata sulla ragazza o, piuttosto, sull’ago che ella stringeva tra le dita. Tuttavia, un senso di sollievo allentò la tensione del giovane. “Signorina! - irruppe - Mi scusi se mi permetto... forse lei mi può aiutare: guardi un po’ qui!” e, voltandosi, le mostrò l’ampio strappo sul sedere. Gilda arrossì indignata. “Eh... - proseguì lui - lo so bene che non è elegante presentarsi ad una bella signorina in questo modo, ma non ho certo fatto apposta a strapparmi le braghette! Comunque io sono Moreno” e le allungò la mano. “Gilda” mormorò timidamente la ragazza e, con ritrosia, porse anch’ella la mano che il ciclista si premurò di baciare con signorile galanteria. Dietro le imposte socchiuse di una finestra, Domitilla spiava la scena. Non credeva ai suoi occhi. Solo poche ore prima Evelina si era presentata a lei parlandole di quanto Gilda paresse votata al nubilato ed ora, in men che non si dica, la ragazza era lì, alla fontana, al centro della piazza, intenta a socializzare con un baldo giovanotto. Era la prima volta che una profezia di Domitilla si avverava e, se da un lato la cosa inorgogliva la cartomante, al tempo stesso la colmava di curiosità. “Le carte erano tre. - ella pensava - Con la Pita io ho affermato che Gilda avrebbe trovato un fidanzato, rappresentato dall’Asso di Bastoni. E ho detto che ne sarebbe nato un amore dolcissimo. Vedremo! Però resta fuori l’Asso di Spade che rappresenta il tormento: povera Gilda! D’altronde dovevo assicurarmi un margine di dubbio, un po’ d’incertezza... se quello che sto vedendo ora non fosse mai successo, avrei perduto

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completamente di credibilità... E poi, quale storia sentimentale non presenta anche un po’ di lacrime?” Domitilla aguzzò la vista e seguì con attenzione lo svolgersi dei fatti. Vide Gilda porgere il suo golfino celeste al ciclista, vide questo allontanarsi, sparire dietro ad un cespuglio, per poi ricomparire poco dopo, recando in mano le sue braghette sdrucite mentre si copriva addome e fondo schiena con il gilet della ragazza annodato alla bene e meglio. La cartomante rimase ad osservare, vigile, ogni movimento. “È proprio un brutto strappo!” esclamò la ragazza mentre inumidiva il filo tra le labbra per infilarlo nella cruna dell’ago. “Bèin... é’n sun mia sèimper acsé imbranèe, vèh? - si giustificò Moreno - A’n vré mia ch’é’t pinséss ch’é sun un salàm patintèe!”3 “Ma no... non mi permetterei mai di pensare una cosa del genere! - replicò lei con dolcezza - Sono cose che capitano, ci mancherebbe!” Il giovanotto la osservava ammirato: “T’al sèe, Gélda, che t’é dimòndi bèla? - irruppe ad un tratto - Gh’l’è’t al morós?”4 Gilda arrossì: “No” soggiunse. “Mó figurèt se t’é’n gh’l’è mia! ‘Na pió bèla ragàsa... guèrda che j òmen jn mia órob, vèh?”5 insistette Moreno. “Non ho nessun motivo di mentire! - lo freddò lei - Se ho detto che non sono fidanzata è perché non ho un fidanzato! Ecco, Moreno, i suoi calzoncini sono riparati!” Il ragazzo afferrò le braghette, le rivoltò più volte, le osservò in controluce... niente: lo strappo era diventato del tutto invi“Bene... non sono sempre così imbranato, veh? - si giustificò Moreno Non vorrei che pensassi che sono un imbranato patentato!” 4 “Lo sai, Gilda, che sei molto bella? - irruppe ad un tratto - Hai il fidanzato?” 5 “Ma figurati se non ce l’hai! Una ragazza così bella... guarda che gli uomini non sono ciechi, veh?” 3

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sibile. “T’é anca fàtt un bèll lavór! Guèrda, per ringrasièret é’t pègh un bèll zlèe al bar, ahn?”6 I due si incamminarono insieme verso il Bar della Piazza e Moreno ordinò due gelati da passeggio che essi gustarono seduti su una panchina dei giardinetti pubblici, sotto gli sguardi maliziosi delle comari del paese. Le chiacchiere rimbalzarono di voce in voce e, ancor prima che Gilda tornasse a casa, Evelina sapeva già tutto. “Con chi sei andata al bar? Chi era? Dove abita? Quanti anni ha? Che mestiere fa?” “Si chiama Moreno...” “Moreno e poi? Di dov’è? Cosa fa?” Già... quanti dettagli costituiscono un’identità! Gilda non ci aveva mai pensato prima e non ci aveva pensato nemmeno mentre era in compagnia di quello sconosciuto. Si era accontentata di un nome per poterlo, eventualmente, chiamare da lontano se, un giorno, lo avesse rivisto. Le sarebbe piaciuto tanto incontrarlo di nuovo. Forse sua madre aveva ragione: se gli avesse chiesto di più, ora saprebbe dove rintracciarlo, dove andare a bazzicare nella speranza di rivederlo. Ma Gilda era riservata, non avrebbe mai dato l’impressione di correre dietro a un ragazzo. “E poi... - pensava - se davvero è interessato a me, se davvero è rimasto colpito, ritornerà a cercarmi alla fontana... E, allora, non andremo più a prendere un gelato al bar, ma mi presenterò con una delle mie specialità. Ogni giorno una nuova leccornia. Lo aspetterò con un erbazzone fumante, con appetitosi panini al salame, con una deliziosa torta al cioccolato, con chizzette al formaggio... Lo prenderò per la gola!”

“Hai fatto anche un bel lavoro! Guarda, per ringraziarti ti pago un buon gelato al bar, va bene?”

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Di lì a qualche giorno, Moreno ritornò a cercarla alla fontana. Lei lo aveva atteso con il cuore colmo di trepidazione. Si era chiesta cosa le piacesse in lui e si era risposta che ciò che l’attraeva maggiormente era la sua fanciullesca ironia. Ancora le veniva da sorridere quando pensava all’incidente che glielo aveva fatto incontrare e ringraziava la sua arte sartoriale, senza la quale, forse, Moreno non si sarebbe nemmeno accorto di lei. Arrivava sempre in bicicletta, scendeva - ora con più cautela dalla sella, si abbeverava alla fontana, riempiva la borraccia e la aspettava. Arrivava così, di sorpresa, senza preavviso, tanto sapeva che la avrebbe sempre trovata lì, al centro della piazza. Sapeva che ogni giorno ella si sarebbe presentata con un paniere, che ogni giorno gli avrebbe cucinato qualcosa di diverso e di goloso. Che ogni giorno gli avrebbe dato l’energia per ritornare, di nuovo, pedalando, l’indomani. “Gélda, l’é vèira che mé, per té, é sùn dimòndi simpàtich?”7 chiese un giorno Moreno a Gilda. “Ma certamente!” “L’é vèira che t’é dimòndi inamurèda?”8 “Perchè me lo chiedi? Già lo sai!” “Alóra dàm un bèz!”9 “Ma, Moreno... qui, in mezzo alla piazza? Ma cosa dirà la gente del paese? Sai quanti pettegolezzi?” “Alóra andòm int la tésa ed cà tua! Là é’n ‘s vèd ninsùn!”10 Il desiderio... La passione... Nessuno vide. Nessuno seppe...

“Gilda, è vero che ti sono molto simpatico?” “È vero che sei molto innamorata?” 9 “Allora dammi un bacio!” 10 “Allora andiamo vicino a casa tua! Là non ci vede nessuno!” 7 8

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Nemmeno Moreno seppe mai. Da quel giorno, infatti, egli sparì. Invano Gilda lo attese ogni giorno alla fontana, settimana dopo settimana. Egli non si presentò mai più. Gli rimase pertanto sconosciuto il fatto che, di lì a nove mesi, sarebbe divenuto padre... L’Asso di Spade... Un putto dalle gote paffute che reca in mano una lama affilata. Un piccolo angelo piovuto dal cielo per andarsi a posare nel seno di Gilda, nel suo grembo. Il figlio di un amore non corrisposto, il frutto di un inganno. Il tormento di Gilda, le lacrime di Evelina, lo scandalo sulla bocca della gente. Luigino nacque nella notte di Natale ed era bello e biondo come Gesù Bambino. Gilda lo stringeva amorevolmente al petto, confortando il suo dolore con quell’abbraccio che conteneva il firmamento. Fuori c’era una nebbia opalescente che rendeva il mondo invisibile ed attutiva i rumori. Un tempo Gilda odiava questi malinconici silenzi. Ora, però, vi scopriva con meraviglia qualcosa di nuovo e bellissimo. Era la pace di una ninna nanna, il profumo di mamma, il calore di un fagottino da cullare. Al di là di tutto... Al di là del suo cuore ferito, al di là delle voci del paese... Al di là della risata beffarda di Domitilla che, per la prima volta in vita sua, ci aveva azzeccato...

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Cohen 9 di Mauro Gozzi

Ho cercato di lasciarti: 1975 e dintorni ovvero uno spaccato di porca cultura in 18 sonate ed un requiem. W.A. Mozart (1756-1791) Piano sonata no. 1 in C K279: Allegro Non tutti possiamo fare certi mestieri. Ad esempio il “cantautore impegnato”. Noi sei della Quinta A nel 1975 ci abbiamo pensato, pur senza saper veramente suonare alcun strumento, fatti salvi Marcello e Franco, che strimpellavano la chitarra acustica, il primo meglio del secondo. Marcello, un moderno letterato, fu il primo che scoprì in quell’anno magico “The Boss”, Bruce Springsteen: “È meglio di Bob Dylan”, profetizzò sconvolgendoci. Franco, matematico esitante, non si espresse mai a tale proposito, preferiva il Francesco Guccini di Incontro e ancora di più Aspettando Godot di Claudio Lolli. Allora nel nostro Liceo Scientifico “Manfredo Fanti” a Carpi in Via Curta S. Chiara era molto seguito, quasi idolatrato, accanto a Fabrizio De Andrè, detto “Faber”, un certo poetascrittore-cantautore canadese con casa per le vacanze a Idra, nell’azzurro dell’Egeo, di nome Leonard Cohen, ebreo colto di Montreal. In estate si diceva ospitasse i Rolling Stones e pare che insieme rollassero un sacco di germogli ripieni di tetraidrocannabinoli naturali. Eugenio e Gilberto, ingegnere e geologo, raccontarono di essersi presentati davanti alla villa marina di Idra, ma nessuno aprì loro il cancello. Assenti o fatti, i proprietari ed i loro amici?

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W.A.M. Piano sonata no. 2 in F K280: Presto Martino, il sesto, era “il mio compagno di banco”, illuminato architetto, amante di Brueghel il Vecchio e Bosch, E. L. Masters, Maigret e Tarkovskij, quello di Solaris e soprattutto Andrej Rublev, forse il nostro film preferito in quegli anni. Era soprannominato per ingiuria “garzoncello scherzoso” per via della prof. B. di Seconda, che non l’aveva in gran simpatia e che soavemente sbocconcellava gorgonzola con le mele durante la ricreazione. Ammetto: dopo di lui non ho più avuto un amico vero, al quale confidare ogni nefandezza o desiderio. Quando lo ritrovo alle cene di classe, a distanza di oltre trentacinque anni, ci mettiamo allo stesso banco, pardon, tavolo. E parliamo fitto fitto per tre ore, di tutto, come se gli anni, i lavori così diversi ed i matrimoni non ci avessero diviso inesorabilmente. Io so che lui sa che penso queste cose ma non ce le siamo mai dette. E forse è meglio così. W.A.M. p.s. no. 3 in B Flat K281: Andante amoroso Tornando a Cohen, il nostro bardo, che era uno che nel tempo libero osava scrivere: “Vorrei saper dire tutto quello che c’è da dire in una parola. Odio tutto quanto sta in mezzo a una frase, tra l’inizio e la fine”. E che cantava, con voce da basso: “Ho cercato di lasciarti. Bene, non lo nego, ho chiuso il libro almeno cento volte e mi sveglio ogni mattina al tuo fianco. Gli anni passano, tu perdi il tuo orgoglio. Il bambino piange, così non vai fuori. E tutto il tuo lavoro è lì davanti ai tuoi occhi. Buonanotte, mia cara. Spero tu sia soddisfatta. Il letto è un po’ stretto ma le mie braccia sono spalancate e qui c’è un uomo che ancora si dà da fare per il tuo sorriso”. La traduzione, come sempre, non rende giustizia al testo originale, ma un po’ dà l’idea dello spleen un po’ punk di quegli anni di terrore verso i legami seri di tipo parrocchial-borghese. Quell’anno decisivo provai anche a fare un primo esperimen-

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to socio-affettivo: scrivere una lettera d’amore ad una ragazza sedicenne, che stava diventando diciassettenne, nel giorno del suo compleanno: così, per vedere che effetto le avrebbe provocato. La disgraziata rispose e, a distanza di molti anni, quando la vedo, ancora me ne vergogno, anche se forse era la prima volta che confessavo qualcosa di personale ad una/o che non fosse Martino. Una sera d’inverno mio padre, non essendo io ancora patentato, ci portò a Fabbrico al mio e suo primo concerto dal vivo: era Guccini che, al posto del fiasco, aveva una semplice bottiglia verde scuro di Lambrusco reggiano, allora non DOC come è adesso. W.A.M. P.s. no. 4 in E Flat K282: Adagio E poi c’era anche la politica, l’altra grande passione che ci univa e divideva insieme alla musica “per tagliarsi i polsi”. Quell’anno, in primavera, avevo votato alle Regionali per la prima volta, alle otto in punto, primo fra i diciottenni del paese. Io pensavo di essere di sinistra, ma alla mia sinistra avevo almeno Martino e altre 14 formazioni maoiste-trotskijste-sandiniste, che avevano alla loro sinistra i militanti guerriglieri del Chiapas e le inarrivabili nascenti BR, nelle quali militò eroicamente il figlio d’un cugino della nonna Stella, mia prima maestra di cucina emiliana slow-food. Ricordo di aver addirittura partecipato ad una manifestazione a Reggio in favore dell’ajatollah sciita Khomeini, in esilio a Parigi: col senno di poi si può dire che fossimo veramente generosi, o forse ingenui. Degli altri quattro, politicamente parlando, posso dire che Eugenio fosse organico al PCI, Marcello e Franco cattolici dossettiani convinti, Gilberto radical-chic e il più precoce tombeur de femmes della compagnia, soprannominato “otto” per via di un record estivo mai uguagliato. W.A.M. p.s. no. 5 in G K283: Presto Tornando alla nonna Stella: nel 1920 si era sposata con Goz-

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zi, “Gosi”, classe 1894, a cui ha sempre dato rigorosamente del “Voi”, Cavaliere di Vittorio Veneto per via di sei anni di servizio militare: uno e mezzo di leva, tre e mezzo di guerra fra Montello e Caporetto e uno di punizione a Roma per aver permesso ad un numero considerevole di tenenti di morire nell’imminenza dell’attacco suicida giornaliero. Faceva la sfoglia il lunedì e per prime cucinava le tagliatelle in brodo, le lasagne asciutte al ragù di macinato di vitello e maiale il martedì, i quadretti con la tevdura (uovo e formaggio Parmigiano Reggiano nel brodo di gallina) il mercoledì, gli gnocchi di patate al burro il giovedì, i tortelli d’erba (di zucca in autunno) e l’erbazzone il venerdì ed i cappelletti di carne, magoni e fegatini col bollito, la salsa verde e il polpettone di sabato per la domenica a pranzo. Tutto ciò mentre studiavo Dante (che palle! Mi è venuto a piacere molti anni dopo per merito di una lectura di Carmelo Bene) ed analisi matematica (che angoscia!) nella sua spaziosa cucina abitabile da vera sdora reggiana. Quando lei mi riprendeva per qualche mia inadempienza contrattuale, tipo non essere andato quel pomeriggio in farmacia a prenderle le gocce prescritte dall’otorino M., che mi privò delle tonsille al S. Sebastiano in Quinta elementare, io le ricordavo immancabilmente che lei oltre che sorda era persino parente di un brigatista pluriomicida, mai pentito, un duro insomma. A onor del vero era anche stata, insieme alle sorelle Giuseppina e Bice Ognibene, una delle più ferventi parrocchiane, a dispetto del marito di fede prampoliniana, di Don Umberto Pessina prima del fatidico 18 giugno 1946. Ma si sa, i diciottenni tendono ad esagerare… W.A.M. p.s. no. 6 in D K284: Rondeau en polonaise: Andante L’anno scolastico della Quinta cominciò male per via della presenza inaspettata di un’insegnante di matematica sessantenne che veniva dalle scuole medie, assegnata prima della meritata pensione (per sbaglio?) al liceo scientifico statale, nel triennio,

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per giunta. Facemmo fuoco e fiamme, spalleggiati da un genitore di una ragazza di Terza, insegnante di tecnica bancaria all’ITC di Correggio. Andammo a bussare alla porta del Provveditore a Modena e la cosa venne risolta in una mattinata: al posto della vecchia professoressa venne una giovane insegnante di matematica, a sua volta iscritta a Medicina e Chirurgia a Modena, quindi una studentessa, come noi. Anni dopo l’ho rincontrata bella pimpante al Policlinico di Modena, lei al sesto anno di Medicina, io al secondo o al terzo. Si ricordava di noi. Il prof. F., detto “Birillo”, dettava i suoi appunti di Filosofia seduto alla scrivania per via di un lieve handicap fisico. In seguito divenne un noto giornalista sportivo in una tivù locale di Modena. In inglese avevamo la prof. C., precisa e diligente, oggi avrei detto un tantino ossessivo-compulsiva, ma in fondo seria ed efficiente. Non lasciava consultare i libri durante gli scritti, nemmeno il vocabolario Ragazzini ed io facevo veri contorsionismi per aprirlo sotto il banco. E poi c’era il prof. B. di educazione fisica, centrale ex nazionale di pallavolo, uomo simpatico e di mondo, di grande altezza morale e non (2,00 metri!). W.A.M. p.s. no. 7 in C K 309: Allegro con spirito Rimane da parlare solo del prof. A., di italiano e latino che, a differenza di “Birillo”, mentre spiegava camminava avanti e indietro con passo da pinguino. Non era molto amato dai suoi colleghi per i metodi ritenuti “eretici”. Ma noi studenti stravedevamo per lui. Aveva una particolare propensione per la musica classica e romantica (Bach, Mozart, Wagner, Debussy e Ravel) ma soprattutto per le Variazioni Goldberg eseguite da Glenn Gould ed il Preludio da Lohengrin. E poi per il cinema d’autore. Innanzitutto per sua maestà Sergej Ejzenstejn di Alexandr Nevskij, per il quale dalla Quarta

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ci esentò dal latino, quasi mai comparso all’esame di maturità riformato, salvo l’anno seguente al nostro: si limitò a parlarci di Orazio, Marziale, Giovenale e soprattutto della Casina e dell’amato Miles Gloriosus di Plauto (“clare crepite dentibus”). In certi pomeriggi nebbiosi invernali ci portava al piccolo cinema parrocchiale del “Sacro Cuore” e lì si vedevano insieme in bianco e nero film meravigliosi, i cosiddetti “prima pagina” del famoso catalogo francese di Georges Sadoul. Ricordo volentieri Due acri di terra di Bimal Roy e Tempo di vivere di Douglas Sirk, tratto dal romanzo di E. M. Remarque. Ma soprattutto Viale del tramonto e L’asso nella manica di Billy Wilder, Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick: per dieci anni ho studiato per diventare Kirk Douglas-Colonnello Dax e non certo Kirk Douglas-Chuck Tatum. E il Bunuel di Un chien andalou, fatto insieme a Dalì nel ‘29. E poi La guerra è finita di A. Resnais, il mio film preferito, anche oggi, per quella scena d’amore a pezzetti, dove non si vedono mai i protagonisti per intero, ma solo i dettagli dei loro corpi. Diceva il prof. A.: “Ragazzi, per l’esame di maturità date un’occhiata anche a Leopardi, Carducci, Pascoli, magari anche un po’ a D’Annunzio, che dice le stesse cose di A rebours di J. K. Huysmans ma peggio. Sul Petronio c’è tutto quello che serve, non state a perdere tempo altrove”. Degli italiani amava solo lo Svevo di Senilità più di quello della Coscienza di Zeno, il Gadda della Cognizione del dolore più di Quer pasticciaccio de Via Merulana, che Martino preferiva, il Pirandello drammaturgo dell’Enrico IV più di quello romanziere di Uno, nessuno, centomila. Aveva un debole per il povero Dino Campana alla ricerca dei suoi Canti orfici, smarriti da Papini e Soffici. Ci leggeva articoli in francese tratti da Esprit, dove scrivevano Marcel, Maritain e Bernanos, ci faceva conoscere le riviste letterarie italiane, come Lacerba, La voce e ci parlava dei caffè di Firenze come il “Giubbe Rosse”, in cui entrai molti anni dopo in religioso silenzio.

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W.A.M. p.s. no. 8 in A Minor K 310: Andante cantabile con espressione I nove mesi della Quinta furono un lungo 10.000 metri verso l’esame finale. Da lì ho cominciato a dormire poco e male nell’attesa delle mattinate decisive ma ho aperto e in gran parte letto, in definitiva, diverse centinaia di libri d’arte, musica classica e jazz, cinema e politica economica che di giorno, studiando Medicina, non avrei mai potuto o avuto il tempo di affrontare. Addirittura, per razionalizzare al massimo i tempi dello studio per la maturità, andavo a pescare nel Naviglio, quasi sempre con lo zio Remo, fratello maggiore di mio padre (il mediano era Armando) provvisto della Storia della Filosofia di Adorno-Gregory-Verra o del Geymonat, grande epistemologo: si sa, nell’attesa dell’abboccata, la filosofia aiuta molto a “stare sul pezzo”. W.A.M. p.s. no. 9 in D K 311: Rondeau: Allegro Sì, mio zio Remo, il pescatore, ma non solo: era titolare insieme ad altri tre o quattro soci di un piccolo salumificio a Correggio e d’estate mi assumeva come studente lavoratore. All’ORIS, “Operai Riuniti Industria Salumi”, ho avuto un rapporto stretto, direi quasi simbiotico, col maiale, l’unico vero re incontrastato della pianura padana. A Castelnuovo Rangone, dietro l’abside della chiesa principale, c’è addirittura un bronzo di un porcellino senza S. Antonio abate che, da quelle parti, così come a Modena città, il 17 gennaio è molto venerato. Per la verità dai sedici ai diciassette anni, in estate, avevo fatto due trimestri di lavoro nella ditta più famosa di Correggio, la “Veroni fu Angelo”, e una volta venni multato dal signor C. per essere stato colto all’interno dello sgabuzzino delle conce: ero lì per aiutare a mescolare pepe, sale, chiodi di garofano, cannella e coriandolo nelle vaschette da versare negli impasti della mortadella più famosa d’Italia. I vecchi titolari erano piuttosto gelosi delle loro magiche combinazioni di aromi ed i trasgressori venivano puniti con 200 lire da scontare sulla

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busta paga quindicinale. W.A.M. p.s. no. 10 in C K330: Allegretto All’ORIS, successivamente, nel triennio a cavallo della maggiore età, imparai a conoscere ogni piccolo dettaglio che riguardasse il suino, dalla sua macellazione, in cui mi occupavo di fegato, reni e cervello insieme al veterinario, fino alla busta sottovuoto di zampone o cotechino. Qualche volta Remo mi prendeva con sé a Langhirano a ritirare i suoi prosciutti salati colà, dove l’aria del Tirreno che si incanalava fra le colline lungo la Via del Sale era migliore per la successiva stagionatura di 12 mesi: me li faceva pesare su un’enorme bilancia incassata nel pavimento dello stabilimento e dovevo segnare sul bloc-notes la tara del carrello che li conteneva a gruppi di 50 o più. Riteneva che uno studente di liceo fosse più affidabile di un rude operaio quarantenne abituato alla fatica ma non ai numeri. Quando si andava a pescare alle sei di sera con l’amato libro di filosofia (Hegel e Schopenhauer li ho studiati al Ponte Vettigano) mi portava in regalo una forma di ciccioli frolli, sottile, fatta con una sola pancetta con l’alloro sopra, ancora tiepida di torchiatura. La mangiavamo verso le 9, quando ritiravamo le lenze ed i cestini mezzi pieni di pesci-gatto, tinche e gobbi. Quasi mai anguille o carpe, obiettivi nobili ma difficili da conseguire. Remo, che non aveva figli maschi, è stato per me un vice-padre o, meglio, un padre complementare: mentre mio padre Mario era un comunista berlingueriano un po’ triste, tutto sindacato e legalità, lo zio era un furbo imprenditore, di sinistra sì, ma sul modello renziano, diremmo oggi, addestrato a cogliere nell’attimo l’affare, meglio se con personale tornaconto. Ma era anche, e fondamentalmente, un grande salumiere artigianale che avrebbe fatto la gioia di Carlin Petrini: nel suo personale laboratorio, situato nel bas comed della sua casa, la stessa della nonna Stella, produceva e stagionava per sé e gli amici cotechini, zamponi, cappelli da prete, salami di tipo feli-

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no in filzetta o gentile, salsiccia e pancette di cui sento ancora nei sogni l’aroma speziato di coriandolo, coppe al vino alla piacentina, con una legatura sola. Diceva: “as fa prema e po’ i disen ch’in a la piasinteina”.1 In estate la salsiccia fresca e le puntine, che spennellava con una concia mescolata all’olio, servivano per meravigliose grigliate nell’orto di casa, non nel giardino delle zie. C’era la grigliatrice a carbonella e non era certo uno di quei malinconici orti per gli anziani soli di certe città metropolitane di oggi. La Stella diceva: “I fiori delle mie nuore sono belli ma i loro mariti preferiscono la mia insalata, i pomodori, i radicchi, i fagiolini, le zucchine, i peperoni, le biete e i borlotti che nascono nel mio orto”. Lo ha curato da sola fin quasi a 90 anni, gli ultimi con l’aiuto di Remo e mio padre, già pensionato a sua volta, orfano di Berlinguer, quasi un parente quando morì nel 1984 alla vigilia delle Europee, che stravincemmo dopo 36 lunghi anni di sconfitte più o meno meritate. W.A.M. p.s. no. 11 in A K331: Allegretto alla Turca Dimenticavo: era sempre lei, la Stellina, a volte col mio aiuto di bambino sfruttato nel lavoro minorile, che preparava i cordini con i piombi con le sigle impresse a tenaglia (S o SB, ovvero suino o suino-bovino) per l’ORIS ed i relativi salumi. Il mondo della fabbrica in compagnia di adulti fu per me una grande scoperta in quegli anni: gli operai erano tutti più anziani ed esperti di me e mi raccontavano le stesse cose che condividevano fra di loro. A volte mi parlavano di come fosse brigante (!) mio padre in moto, prima di conoscere mia madre. A distanza di tanti anni, se incontro G. o D., miei “maestri di coltello”, sotto i portici di Correggio, mi commuovo ancora se mi chiamano “signor dottore”: in fondo sono io che devo molto a loro, come ad altri che non ci sono più, fra questi si1

“si fa prima e poi dicono che sono alla piacentina”.

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curamente M., P. ed infine T., da cui imparai ad apprezzare la lirica (Don Giovanni, Il flauto magico, Il barbiere di Siviglia e L’italiana in Algeri overall). Una volta, alla fine di settembre del 1975, in preda ad un delirio traduttorio coheniano, andai per un intero fine settimana come sostituto delegato sindacale ad un convegno della CGILFILZIAT, ovvero degli operai alimentaristi, che si teneva nel Reggiano a Cervarezza. Lì scoprii che il leader, Trentin, era una persona molto preparata ed anche colta e che gli operai erano molto meno tristi di noi studenti, impegnati nottetempo a tradurre le strofe dell’amato cantautore, che tuttora conservo con malcelato orgoglio. W.A.M. p.s. no. 12 in F K332: Adagio Man mano che si avvicinava il 1° luglio contavo le settimane mancanti, sempre in riduzione, col risultato che il piano di studi veniva modificato quasi ogni giorno e persino le uscite di pesca serali dovevano essere accompagnate dal ripasso di almeno due-tre filosofi per volta. Avevo deciso di portare inglese e non italiano come materia orale a mia scelta con tutto quello che avevo letto di Fernanda Pivano sulla Beat Generation di J. Kerouac, A. Ginsberg, G. Corso, L. Ferlinghetti e W. Burroughs e sulle influenze che aveva avuto sulle strofe di Bob Dylan, che continuavo a preferire al “Boss” ma che era certamente in calo di appeal per il fatto che constatammo sin da allora che era proprio stonato. Nel luglio ’92 lo vidi in concerto alla Festa dell’Unità di Correggio e cantò male tutte le canzoni, salvo Highway 61 revisited, che fece in modo sublime, forse perché ripresosi all’improvviso dalla fobia del palcoscenico che l’aveva colpito dopo l’assassinio di John Lennon: il poveretto temeva di essere ucciso da uno squilibrato delle prime file e chi lo poteva biasimare? W.A.M. p.s. no. 13 in B Flat K333: Allegretto grazioso La prova scritta di italiano andò benissimo. Scrissi due fogli

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protocollo sulla traccia dell’importanza della conoscenza nella nostra vita, tratta da una frase di Don Milani, figura che ho sempre molto amato e che quell‘anno fu pescato miracolosamente: riversai lì tutto quello che il prof. A. ci aveva (in) opportunamente trasmesso in tre anni di discussioni su cose per lo più “inutili o fuori programma”, quali l’importanza del saper distinguere i vari modi di fare critica letteraria, lo sforzo di allargare le letture agli autori non solo italiani, la capacità di distinguere un largo da un andante con brio, il dedicarsi anche alle altre forme di comunicazione quali il cinema ed il teatro, il non trascurare l’economia politica e la filosofia contemporanea e, non ultimo, anche qualche buon autore classico come Orazio e la sua estetica, soprattutto. W.A.M. p.s. no. 14 in C Minor K 457: Allegro assai Presi il massimo e così potei affrontare l’odiata matematica con più tranquillità. Riuscimmo a trasmetterci il risultato finale dell’esercizio di analisi principale e la cosa fu indolore per quasi tutti. Il secondo esercizio riguardava una cosa mai fatta che non riuscimmo a risolvere, per cui non ne tennero conto. All’orale, come previsto, non portai italiano. La prof. esterna mi lasciò parlare “Dell’influenza della Beat Generation nella cultura contemporanea”. Fu un vero trionfo, “all’inglese” non si potrebbe proprio dire. In filosofia, seconda materia non scelta da me, ebbi un intoppo iniziale su Fichte o Schelling, di certo meno amati e studiati di Kierkegaard alle prese con la sua Regine Olsen ed Essere e tempo di Heidegger, altri pallini del prof. A.: probabilmente durante il ripasso finale dei due maledetti di cui sopra i pesci-gatto abboccavano con troppa frequenza e la lettura non fu così accorta. W.A.M. p.s. no. 15 in F K533: Rondeau: Allegretto Alla fine riuscii lo stesso a prendere 60/60, così come Gilberto, Eugenio e Franco. Martino arrivò a 58: a tutt’oggi non so il perché di un’ingiustizia simile. Di Marcello non ricordo la

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votazione finale però era l’unico che avrebbe potuto suonare davvero. A tutt’oggi considero la prova di maturità la più difficile della mia vita, forse perché la prima di una lunga serie di 72 esami universitari successivi. In attesa delle 9 di mattina non riuscii mai a dormire veramente, almeno così ricordo, ma mi sentivo come una molla pronta a scattare. W.A.M. p.s. no. 16 in C K545: Rondò Il resto dell’estate fu bello: andai con due amici, B. e M., in tenda bilocale, viaggiando giorno e notte su una 850 coupè della FIAT di colore blu scuro, a vedere concerti in giro per l’Umbria, che amo ancora alla follia dalla Quarta liceo, quando facemmo una gita scolastica dedicata a Giotto e alle fonti del Clitumno, tre giorni e due notti con il prof. A. come accompagnatore d’eccezione. Andò tutto bene sino al viaggio di ritorno, nonostante un togaparty durante la seconda sera, che trascorremmo insonni, per di più nella nostra stanza dell’Hotel “Subasio” di Assisi, con rintocchi di campane ad ogni mezz’ora. In pullman prendemmo di mira un nostro compagno ripetente, C., fotomodello e dongiovanni, alle prese con una verde milonga, sua compagna dell‘anno prima, con canzonacce da osteria di Trastevere e il prof. A. ne fu orripilato al punto da promettere sul suo onore ferito di ex studente della FUCI, il giorno dopo il rientro, che quella sarebbe stata la sua ultima gita, che definì, per l’appunto, “disgustosa”. Dal 20 al 25 luglio andammo ad una delle prime edizioni (la quarta) di “Umbria Jazz”, forse la più bella di tutte o tale mi parve, nonostante lo strip-tease di un fuori di testa sul palco di Gubbio mentre cantava Sarah Vaughan: lei non se l’era sentita di finire la scaletta. Nei giorni successivi ci riuscirono e replicarono meravigliosamente sia Don Pullen, pianista di Charles Mingus, sia Dizzy Gillespie, che si gonfiava come un ippopotamo mentre soffiava nella sua tromba storta. Si rivelò in tutto il suo splendore e replicò anche il grande Sam

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Rivers in trio, polistrumentista che rividi a Modena, sempre straordinario, ai tempi dell’università, con Holland al contrabbasso e al violoncello e Haltschul alle percussioni. Concluse la festa Herbie Hancock a Perugia, dove non vedemmo nulla per la bellezza dei palazzi circostanti e le troppe persone presenti, richiamate dalla gratuità (!) dell’evento. In quei giorni meravigliosi suonarono anche Stan Getz, Art Blakey e fra i nostri Gianni Basso, Enrico Rava ed il compianto Massimo Urbani, un grande talento del sax alto, morto troppo presto per overdose. W.A.M. p.s. no. 17 in B Flat K570: Allegretto In agosto dovetti decidere cosa fare da grande nei giorni in cui la diciassettenne, stanca dell’esperimento socio-affettivo a cui l’avevo sottoposta, cercò di lasciarmi e riuscì nel suo intento. Alla fine, da buon calvinista emiliano, sognatore ma pratico, scelsi Medicina e Chirurgia a Modena. La nonna Stella e lo zio Remo, così come i miei, furono contenti. Il prof. A. un po’ meno, mi vedeva giudice o avvocato. O anche letterato. Alla cena di classe di fine anno, all’Osteria di S. Croce, dove io e Martino eseguimmo in coppia e per l’ultima volta un’edizione un po’ speciale del Lago dei cigni, mi chiese: “Gozzi, perché non hai portato italiano all’orale?” Sembrava Cesare Ottaviano Augusto dopo aver appreso dal messo della disfatta di Teutoburgo ma evitò di dire: “Varo, dove sono le mie legioni?”. Gliene sarei stato grato per tutta la vita. Alla fine gli risposi: “Prof., quasi nessuna delle persone geniali di cui ci ha parlato per tre anni è di nazionalità italiana, qualcuno forse era latino o romano, ma non mi è proprio sembrata cosa portare letteratura italiana all‘orale. E poi in fondo ho portato quella anglo-americana”. Lui in fondo rimaneva un europeista convinto, un po’ filoamericano ma con giudizio e sicuramente anticomunista, pur

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amando tutto della “Grande Madre Russia”, soprattutto al cinema. Se devo ringraziare qualcuno per avere stimolato desiderio di conoscenza, sicuramente il prof. A. sta in cima alla lista, non ho dubbi. Non condividevamo certo i suoi gusti in toto, però quasi tutti possiamo dire di aver sviluppato in quegli anni interessi profondi. Che ci hanno aiutato poi ad entrare in una professione. W.A.M. p.s. no. 18 in D K576: Adagio Anni dopo, all’inizio degli anni ’90, in un periodo in cui stavo lavorando come psichiatra all’Ospedale di Carpi riuscimmo, insieme ad un altro ex-allievo, ad invitare il prof. A. ad una delle nostre famose “Cene del Porco”: il menù, da me preparato quasi interamente, era il frutto del lavoro certosino dello zio Remo e glielo dissi con orgoglio. La nonna Stella era appena morta, assistita dalla zia M. L. e da mio padre ed anche lo zio non campò a lungo: morì quattro anni dopo, fra le mie braccia, dopo i disperati tentativi di rianimarlo insieme a mio cugino A. Il giorno dopo il funerale venne un terremoto terribile che a Correggio tutti ricordano e i miei libri in particolare: vennero in gran parte scaraventati giù dalle librerie e vedendo il disastro pensai che non mi sarei più ripreso dal disturbo acuto da stress post-traumatico. Al prof. A. fece piacere sapere che della musica del Settecento di Barry Lindon e degli autori borderline (Verlaine che sparava a Rimbaud, Medardo Rosso che preferiva la cera, gli Scapigliati Lombardi che precorrevano i temi del Novecento, Proust alla ricerca del tempo perduto) che ci aveva insegnato ad apprezzare non era stato buttato via niente, esattamente come si dice del maiale. Nel mestiere dello psichiatra, in fondo, non si fa che pescare nel pozzo di tutto quello che si è visto (o letto) e udito e toccato e odorato e degustato nel corso della vita precedente.

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Parlammo, fra un piatto e l’altro, anche di “Enrico IV”, che si finse (o divenne?) pazzo di nuovo piuttosto che rientrare nei ranghi della normalità borghese. Credo che questo sia stato il “suo” personaggio finale. Mangiò con gusto il salame di filzetta, la gramigna con la salsiccia, lo stracotto di ganassini (medaglioni) con la polenta e il cappello da prete coi fagioli “Spagna”. Il dolce era l’unica cosa non di suino e non lo preparai di certo io, spero fosse una zuppa inglese. W.A.M. Requiem in D Minor K626: Recordare Qualche anno fa il prof. A. è morto, assistito in casa da una sorella con la quale viveva (o due?). Non si era mai sposato. Era sempre rimasto nella sua vecchia casa di campagna a Gargallo, in Via della Rosa, piena di occasioni mancate e di libri in gran parte inutili e impolverati. Fra questi non sarà sicuramente mancato quello che come lettore di gusto ho apprezzato di più. Finisce con le parole di Adso da Melk: “Fa freddo nello scrittoio, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Come avrete capito tutti, tutto ciò è per il prof. A. e qualcun altro. Si dirà che col porco c’entra poco, ma il prof. A. avrebbe detto: “Ragazzi, non tutto è come sembra”. O: “Così è, se vi pare”.

Mauro Gozzi è nato il 21 febbraio 1957 a Correggio (RE), dove risiede. Dopo il Liceo Scientifico, frequentato al Liceo “M. Fanti”

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di Carpi (MO), si è laureato in Medicina e Chirurgia a Modena. È specialista in Psichiatria e in Criminologia Clinica. Dal 1989 è medico psichiatra della USL di Reggio Emilia ed attuale responsabile del Servizio di Salute Mentale di Correggio (RE). Per molti anni, fino al 2008, è stato consulente presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. Come scrittore ha partecipato e vinto nel 2014 il concorso “RaccontaCarpi” con Il trentesimo (Karpi).

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L’annuncio di Monica Guidetti

Solo una speranza. Entro nella stanza con solo una speranza. E fuori piove con rabbia da giorni. Temo di sporcare il pavimento di questa signora che abita a Campagnola Emilia, a cinque chilometri dalla mia Novellara, senza averla mai conosciuta, mai vista prima in vita mia. Quando lessi sul mensile locale il suo annuncio lo feci involontariamente, tanto per cercare qualcosa di sfizioso fra le pagine fitte di notizie e di fotografie, qualcosa che riguardasse questo paesone della bassa, dove le novità solitamente riguardano lo sport o le feste tradizionali. In realtà non fui attratta da nessuna foto perché di foto allegate non ce n’erano, ma il titolo “Annuncio per chiunque abbia un parente originario del posto” catturò i miei occhi già allenati dall’articolo precedente. E invece mi colpì il mio cognome, Guidetti, come un colpo sul diaframma. Qui di Guidetti non ce ne sono molti, ma poteva trattarsi benissimo di qualcun altro. Dovetti rileggerlo e capii che era proprio il mio di cognome, un Guidetti di due generazioni fa, Guidetti Amos, mio nonno paterno. Il suo nome era il tredicesimo di ventitre nomi di una lista in rigoroso ordine alfabetico. Tutti maschi, tutti di qui, o credo del territorio che ai tempi Campagnola inglobava. La signora apre la porta con un sorriso e mi invita ad entrare. Si chiama Clara ed è sulla settantina, ha un viso luminoso e affilato, con gli zigomi importanti che accentuano una personalità decisa. Ci stringiamo la mano, finalmente ci vediamo dopo

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la telefonata che le feci in risposta all’annuncio sul giornale locale. La sua mano è calda e accogliente. Sicuramente mio nonno e suo padre hanno condiviso un pezzo di vita tragico e fortunato insieme, forse si sono confidati le paure e le speranze, forse hanno raccontato delle loro famiglie, delle mogli, dei figli, aiutandosi e salvandosi l’un l’altro. Nell’atrio c’è un piacevole profumo salato di appena sfornato e lei mi fa accomodare in salotto. “Facciamo un aperitivo?” mi dice e si allontana verso la cucina. Io guardo i quadri appesi e i libri che riempiono una parete. Clara torna con un vassoio pieno. Mi invita e non mi faccio pregare, l’orario pomeridiano e il profumo stuzzicano il mio appetito. Quadretti di erbazzone, ciccioli friabili e scaglie di Parmigiano Reggiano, poi biscotti gialli... “Biscotti di polenta, fanno parte della nostra tipica cucina povera”. Puntualizza lei davanti al mio sguardo interrogativo. Mai sentiti. Ne assaggio uno e apprezzo la farina che si sgrana, la dolcezza appena velata. Mi tratta bene questa signora, dopo avermi trovato grazie ad un annuncio sul giornale locale. Ripenso a mio nonno e a suo padre. “Allora tu sei la nipote di Amos Guidetti!” Pronuncia il suo nome come se lo conoscesse, come se, prima di decidere di pubblicarlo insieme agli altri ventidue della lista, l’avesse letto e riletto, tanto da farselo divenire familiare. Amos Guidetti, mio nonno. Amos Guidetti era analfabeta e la cosa che sapeva fare meglio era ubbidire. Nato nel 1909 e quarto di otto fratelli non aveva preoccupazioni. La miseria era cosa talmente comune nel suo piccolo mondo, che stare al lavoro nei campi dalla mattina alla sera, da quando ricordava di avere memoria, era quasi una fortuna. La cultura era per gli altri, tutti quelli che lui non conosceva, a parte il parroco. Di indole buona e taciturna, non aveva trovato fino ad allora

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nessuna ragazza con cui incrociare gli occhi e alla sera era talmente stanco da non avere un solo pensiero di turbamento che gli togliesse il sonno, a parte la fame naturalmente, ma anche a quella si faceva l’abitudine. La guerra non lo spaventava perché sapeva che prima o poi finiva. Era un bambino quando scoppiò la prima e se ne era già dimenticato. La fame è sempre uguale, sia in guerra che in pace. Ciò che veramente l’aveva fatto soffrire era la morte precoce di una sorellina, portata via da una brutta febbre a soli sei anni. E di questo la guerra non aveva colpa. Quando, sul sagrato della chiesa, appena finita la messa, si cominciò a parlare della Germania e del fatto che ci fosse un patto da rispettare con un’invasione imminente, anche a casa sua diventò il primo argomento a tavola e tutto accadde così in fretta che il tempo sembrava aver cambiato misura, tanto che sua sorella Renata, promessa sposa tra un anno, si sposò dopo un mese. Non gli era chiaro se fosse merito della cerimonia in chiesa e del suo ruolo da testimone della Renata, o della situazione allarmata che si era creata in tutto il paese, fatto sta che la Zaira, sorella e testimone di suo cognato acquisito, era più attenta a guardare lui che i novelli sposi. Per Amos che fosse chiaro o no non faceva differenza e quella nuova vampata di piacevole imbarazzo lo paralizzava totalmente, ma la Zaira, di due anni più vecchia e ormai data per persa come potenziale fidanzata, non voleva perdere altro tempo e, in un attimo di confusione sul sagrato, gli prese la mano e gli disse: “Ti aspetterò”. La lettera arrivò soltanto una settimana dopo e non risparmiò nessuno dai sedici ai trentacinque anni, neppure il cognato novello sposo, così Renata tornò a casa e Amos si preparò a partire. Andò a salutare Zaira con una manciata di parole perché nemmeno ad un biglietto poteva affidare i suoi sentimenti. E fu lei

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a capire, ad alzare una mano ruvida e screpolata per accarezzargli il mento sottile appena sbarbato, liscio e caldo sotto il primo tocco di passione che avesse mai conosciuto e fu percorso da un fremito spontaneo che schiudeva le labbra, che Zaira prese a conferma nel gettargli le braccia al collo e nel baciarlo con passione. “Se riuscirai a mandarmi solo una cartolina con la croce capirò che sei tu e che mi pensi”. Già trentunenne Amos Guidetti partì con altri tre del paese: Sante Gelosini, Arturo Davoli e Gianni Pedrazzoli. Tutti pronti a servire il Regio Esercito Italiano, alla volta di Reggio Emilia, dove si sarebbero uniti alla 49° divisione di fanteria di Parma, poi fino a Bari per imbarcarsi verso l’Albania. Quella mattina cadeva una pioggia così fitta che l’odore di pantano ti entrava fin nei polmoni e pareva che il cielo stesse per scendere sul paese che salutavano, di modo da preservarlo dalle brutture della guerra. Ma era solo una speranza. L’odore del mare era una cosa nuova per Amos Guidetti. Lui, che era un uomo di pianura, guardando l’immensa distesa d’acqua dal traghetto aveva pensato a Dio e al suo magnifico lavoro nel creare tutto questo. La guerra era opera dell’uomo. Ma almeno all’inizio c’era da mangiare tutti i giorni, roba dentro a scatolette metalliche, che i passatelli in brodo di sua madre a Natale sembravano un sogno di una notte, ma almeno le scatolette erano meglio dei torsoli delle verze e poi, giunto in Albania si sarebbe dovuto sentire a casa, o così diceva il comandante alla truppa, perché anche quella terra faceva parte del Regno d’Italia, non importava se i suoi abitanti parlavano un’altra lingua, tante erano le lingue parlate dai soldati dell’esercito italiano, che ci si capiva solo con lo sforzo della lingua del Regno e Amos la parlava malamente, abituato da sempre ad esprimersi in dialetto, ma queste sono cose da nul-

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la, lui non era tipo da avere problemi, non era schizzinoso e risolveva tacendo. Era sempre insieme a Sante, Arturo e Gianni, quattro corpi una sola anima e, se lui era bravo ad ascoltare più che a parlare, Gianni raccontava storie inventate che passava per vere, esperienze che non poteva aver fatto in quella Campagnola rurale da dove veniva, ma illudevano le orecchie, le distraevano dagli scoppi e dai rumori degli aerei, mentre accovacciati in trincee polverose presidiavano il confine della Macedonia meridionale. Un soldato siciliano divideva gli ultimi biscotti dolcissimi che gli erano rimasti coi compagni affossati nelle lunghe buche e Sante tremava di paura, che a lui della conquista della Grecia non poteva fregare di meno, figuriamoci di difendere una terra che non era la loro e dove gli abitanti non aspettavano altro che cacciarli e passare agli inglesi. Arturo, l’unico di loro quattro che sapeva scrivere, riceveva le loro confidenze e le passava su carta grigia stropicciata, nella speranza di spedirla in Italia al più presto, a tutte le Zaire che aspettavano. Amos, nei suoi momenti di paura e di sconforto, col fucile appoggiato a fianco e la schiena contro la terra dura e fredda pensava a lei, a lei avvolta dal vestito nero e logoro che le carezzava i fianchi e la vita sottile, alle sue mani piccole e screpolate dal lavoro, al suo bacio umido e assetato, al profumo delicato del suo collo. Pensava a Dio e al mare, al grande lago che aveva visto tra l’Albania e la Macedonia, all’orizzonte interrotto dalle montagne maestose, alla sua pianura tutta uguale, all’aria leggera e trasparente e alle nebbie fitte e dense viste dalla finestra di casa sua. Poi pensava agli uomini, al sangue, alla fame e alle scatolette che stavano per finire, all’odore acre della polvere da sparo, a quell’alpino che sulla via verso valle era impantanato col suo mulo e che avevano aiutato a scendere, a quanto il Regno d’Italia fosse lontano da quella maledetta trincea! Uno scoppio potente invase la buca e la terra prese il posto

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dell’aria, l’ordine di tutte le cose fu capovolto e il caos ebbe il sopravvento. Amos salì dalla discesa e vide a malapena che solo uno dei suoi compagni lo seguiva sporco di sangue in volto. Correva senza sapere dove, solo all’indietro da dove erano venuti, dove forse c’era il campo. Riconobbe la voce di Gianni che urlava: “Corri!”. Poi un impercettibile colpo al mento, come se i denti si fossero momentaneamente staccati, nessun dolore e un gusto dolciastro che riempie la bocca. Gli scoppi ininterrotti, la terra che esplode. “Tutti a terra!” Un tempo lunghissimo e non è notte né giorno. Il sapore dolciastro che da liquido si fa impastato e sa di sangue e di polvere, il dolore che arriva violento, il mento che brucia, s’infiamma... le mani di Zaira. L’aperitivo è finito e Clara torna tenendo in mano ciò per cui sono venuta. Un foglio di carta spessa e lucida costellata di ventitre foto coi loro nomi. “Questo era mio padre”. Una lacrima affiora e rischia di scivolare sullo zigomo di Clara. “Sto aspettando che altri rispondano al mio annuncio così ne farò altre copie da regalare”. Associazione nazionale tra mutilati e invalidi di guerra Bollettino-Campagnola. Riconosco il volto di mio nonno Amos a fianco di un certo Gianni Pedrazzoli. Nella foto non aveva ancora le due fossette pronunciate e simmetriche sul mento. Gliele ha lasciate un proiettile che gli trapassò la mascella durante la campagna di Grecia. Lo ricordo perfettamente mio nonno, sebbene sia morto di malattia quando io ero ancora bambina. Ricordo che era analfabeta e parlava pochissimo, ma sorrideva molto. Mi prendeva sulla ginocchia e io gli leggevo il giornale.

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Pronunciava la parola guerra solo quando doveva giustificare quei due buchi sul mento. So che era felice. Felice di un ritorno.

Monica Guidetti, 42 anni, madre di tre figli e sposata da quindici anni. Novellarese da sempre, diplomata come analista chimico e operaia presso una nota cooperativa di ristorazione. Ha una grande passione per la lettura e frequenta annualmente il corso di scrittura creativa che si tiene in paese. Ha autopubblicato una raccolta di racconti e ha scritto due romanzi inediti.

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La vera storia della maledizione di San Bernardino di Alda Maria Lusuardi

I santi non maledicono, direte voi lettori. E avete perfettamente ragione, né questo racconto vuole gettare cattiva luce su un santo come Bernardino, splendida figura di predicatore e uomo di pace. Ma esistono storie che vengono tramandate da generazioni e acquistano con il passare degli anni l’autorevolezza che in genere si riserva alla storia, quella con la “s” maiuscola. Leggende, vero, ma che ci piace raccontare perché sentite molte volte a Campagnola. Era l’anno 1423, un giorno d’autunno un anziano contadino, Brando, stava camminando sulla strada maestra che da Mantova portava di qua dal Po e proseguiva verso Correggio, era stato alla fiera di Gonzaga dove aveva portato alcuni capponi allevati grazie alla moglie Carolina, sposa attenta a non sprecare nulla, al limite della tirchieria. Il contadino aveva barattato la grasse bestie con una punta per la zappa, quella vecchia era diventata inservibile perché troppo rovinata dal tempo; così procedeva a passo rapido, cantava felice pensando alla fatica che si sarebbe risparmiato da quel momento in poi. Ad un tratto vide sul sentiero davanti a sé un frate dal saio marrone, solo. Riconobbe l’abito francescano e si stupì: “In genere i santi padri viaggiano almeno in due, chissà dove sarà diretto?”, pensò, e fece seguire alla curiosità l’azione, si avvicinò a lui e con la dovuta deferenza cercò di capire chi fosse il frate che di sicuro non era di uno dei conventi vicini a Campagnola.

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Il frate era basso e avanti negli anni, per questo camminava lentamente. Chiese al contadino di proseguire la strada insieme a lui; durante il tragitto si era presentato come Bernardino ed aveva incominciato a parlare di argomenti religiosi, del nome di Dio e della bontà della Santa Vergine. Brando non sapeva leggere e nei discorsi difficili dopo un po’ si perdeva, ma qui era diverso, capiva ogni cosa e ne era incantato. Senza quasi accorgersene i due arrivarono a Cognento dove il contadino abitava. Un po’ vergognoso e dopo averci pensato a lungo, il contadino propose al sant’uomo di rimanere presso la sua umile casa, era un massaro e aveva infatti una casa solo per sé e la sua famiglia. La moglie Carolina sarebbe stata sicuramente in grado di rimediare qualcosa per una cena semplice per l’ospite illustre. Ma Bernadino voleva approfittare delle ore di luce che ancora c’erano per arrivare in paese, sperava nell’ospitalità del parroco che sapeva vivere in una casa abbastanza confortevole e ampia. Salutò Brando e proseguì per la viottola che conduceva in paese. All’epoca non c’era la parrocchiale che oggi chiude la piazza porticata, ma c’era una chiesa nei pressi della Motta, vicino al cimitero. Poco importa dove si trovasse, Bernardino la raggiunse che il sole ancora si vedeva, per fortuna quella era stata una bella giornata, appena un po’ di nebbia alla mattina poi il cielo era diventato azzurro mentre l’aria si era fatta pungente. Arrivato alla chiesa, vide nel cortile un’anziana signora che con le robuste braccia alzava un secchio di acqua appena presa dal pozzo. Il santo chiese di vedere il parroco che si trovava all’interno della cucina dove il fuoco era acceso, la donna lo fece entrare per scaldarsi e poter conversare. Il parroco non disse proprio di no alle richieste del pellegrino (come poteva cacciare di casa un frate?), ma iniziò a snocciolare una serie di scuse per lo più inconsistenti: il tetto perde proprio nella stanza degli ospiti, tutti i galli del vicinato cantano durante la notte, la vecchia signora già nominata russa talmente forte da impedire il sonno… Aggiunse all’elenco che il curato del paese

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aveva un’abitazione silenziosa, comoda e che la sua ospitalità era famosa. Non c’erano che da percorrere poche centinaia di metri. Inutile obiettare sul fatto che probabilmente all’epoca non c’era un curato, la leggenda racconta così. Bernardino percorse con la rapidità che l’età gli permetteva la breve strada fino alla decantata casa del curato che dopo i primi sorrisi di circostanza, non fece nulla per nascondere il disappunto di trovarsi un inatteso pellegrino. Evidentemente a Campagnola erano molto abili nell’inventare scuse perché il curato ne trovò una quantità superiore a quelle del parroco e ancora più fantasiose. Bernardino era un sant’uomo, lo abbiamo già detto, ma la pazienza ha un limite anche per il più pacifico frate. Alzò la mano destra con un gesto improvviso e si fece scuro in volto: “Visto che siete così uniti nel rifiutare un pellegrino, da questo momento - disse con voce solenne - in questo paese il parroco e il curato non andranno più d’accordo!” Dette queste parole, uscì. Si pentì immediatamente di due cose: primo, di aver rifiutato la semplice ma genuina ospitalità di Brando, secondo, di aver pronunciato quelle parole. Ma non se la sentiva né di tornare a Cognento per rimediare al primo errore, né di tornare dal curato per rimediare al secondo. La maledizione era pronunciata. La Provvidenza spesso pone rimedio ai guai che ci capitano e così fece con Bernardino. Passo di lì un nobile signore, della famiglia degli Augustoni, che abitava appena fuori dal paese in quella che da tempo era chiamata la villa dei Reatini. Si fermò a salutare il frate chiedendosi chi fosse e cosa facesse all’imbrunire lontano da un convento, sentite le risposte lo invitò nella sua corte; la giornata terminò così nel migliore dei modi per Bernardino con un pasto abbondante e un letto confortevole. Non posso garantire che quella giornata sia andata proprio

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così, però qualche prova posso portarla: la prima è l’esistenza della Corte di San Bernardino nell’omonima via; la seconda è che la maledizione è citata in autorevoli pubblicazioni sulla storia di Campagnola. Da allora la maledizione ha aleggiato sui prelati del paese fino ai giorni nostri, ma a causa della attuale mancanza del curato non siamo in grado di verificare oggi la sua efficacia. Forse il buon Bernardino ha deciso di impartire solo benedizioni!

Alda Maria Lusuardi è nata e vive a Campagnola Emilia (RE) con il marito. Laureata in Lettere, insegna presso un istituto superiore. Ama leggere, viaggiare, frequenta la montagna, canta nel coro parrocchiale. Si interessa di animazione e ha pubblicato sussidi su questo argomento.

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Due signorine d’altri tempi di Adele Pignagnoli Di Lena

Le ziette: due “damine dell’Ottocento” che si aggiravano nel giardino di casa a metà del Novecento. Questa è l’immagine che mi balza agli occhi quando penso a loro. Rivedo le gonne lunghe arricciate, i corsetti di velluto dal collo di pizzo troppo alto e dalle maniche molto strette, la vita tanto attillata che spesso con le mani dovevano aggiustarsi il bustino per adattarlo meglio al corpo in un movimento contorto che impegnava completamente la persona. A volte intorno al collo si annodavano un nastro di velluto nero, chiuso da un medaglione che forse era antico o forse no. Andavano puntualmente alla messa della domenica e allora l’eleganza era perfettamente fuori tempo: cappellino nero con veletta e, immancabili, l’ombrellino vezzoso di pizzo nero e la borsetta a sacchetto che pendeva dal polso sinistro. Calzavano scarpette chiuse alle caviglie e camminavano con passi solitamente leggeri, diritte, quasi impettite; salutavano tutti sorridendo. Dimostravano di essere contente del loro abbigliamento e si sentivano a loro agio; è pensabile che non avessero il coraggio di abbandonare quella moda! La loro gentilezza era nota a tutti e nel loro portamento c’era qualcosa di estremamente femminile tra grazioso e ridicolo. Non era facile fare valutazioni sulla loro età ma per noi bambini erano vecchie sia per i capelli quasi bianchi sia per il modo in cui si pettinavano. Una portava i capelli dietro la nuca in un

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semplice nodo stretto nel quale erano piantati rigidi spilloni; l’altra aveva una crocchia annodata sulla nuca con una serie di fermagli e pettinini abilmente collocati. Pur nella diversità dei loro caratteri, affabile e tranquilla donna di casa l’una, più irrequieta e attenta al proprio aspetto l’altra, vivevano una vita ritirata e tranquilla. Abitavano nella nostra casa in una parte riservata a loro e ci incontravamo nei corridoi e sulle scale che erano in comune. Si fermavano spesso con noi bambini ed erano affettuose nella loro volontà di intrattenerci con racconti fiabeschi e avventurosi; la loro riserva di favole era smisurata e con quel materiale sapevano costruire un mondo tutto per noi. L’incantesimo dei loro racconti è ancora un bel ricordo per me; a volte sentivo una certa esagerazione nelle loro descrizioni di paesi lontani, inventati ma ugualmente mi piaceva ascoltarle e lavorare con la fantasia alla quale davano colore e vita. Erano insomma personcine rispettose dei principi di educazione e di buone maniere; erano “signorine per bene”. Le porte delle nostre stanze non erano chiuse a chiave e non lo erano nemmeno la cucina, la dispensa, le cantine; nessuno pensava di doverlo fare. Consideravamo le zie come persone di famiglia e ci eravamo abituati a questa “quasi convivenza”. La nostra era come una grande fattoria in cui mezzadri, affittuari e bifolchi andavano e venivano con i loro attrezzi di lavoro, si consultavano con papà per il bestiame nelle stalle, per il pollaio e i porcili, pulivano le aie in cui poi stendevano a seccare il fieno e il grano. Era gente buona e semplice. In quel fervore di attività noi bambini trovavamo il nostro spazio per fare i giochi che preferivamo; mai, però, andavamo in casa delle zie né loro venivano da noi. C’era rispetto reciproco degli ambienti altrui; ogni famiglia si sentiva sicura in questa comunità e le porte erano spesso addirittura spalancate. Non quelle delle ziette, gelose della loro vita privata, tanto che noi bambini sbirciavamo quando la porta

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era socchiusa, curiosi di conoscere come e dove vivevano. In giro si sapeva che erano “tirchie” e che non regalavano niente a nessuno; a noi, e già era molto, davano dei santini. C’era sentore di vecchio nella loro abitazione. Si intravvedeva una vecchia tappezzeria a rombi, un caminetto un po’ tetro su cui stavano fotografie color seppia, ormai stinte dal tempo, un arredo piuttosto squallido mentre ne usciva il ticchettio di un orologio a pendolo e l’aria umida e densa odorava di orzo tostato e di minestra di verdura. Un giorno la pace nel cortile fu sconvolta da una voce che si sparse in un baleno: la famiglia dei mezzadri si era accorta di un ammanco di pane. Nell’armèsa antistante la loro cucina erano soliti tenere appeso il cestone del pane dove essi riponevano il prezioso frutto del loro lavoro. Dopo aver preparato l’impasto con farina, acqua e lievito, averlo amalgamato e manipolato con pazienza e averlo cotto nel forno a legna che era situato in un piccolo stabile con tettoia dietro il fabbricato, essi riponevano il pane caldo e fragrante in quel cestone e per una settimana erano sicuri di avere pane per tutta la famiglia. L’operazione richiedeva tempo e pazienza e poteva impegnare un’intera mattinata perché occorreva lasciar riposare la massa del composto per ottenere una buona lievitazione e fermentazione. Poi bisognava suddividere l’impasto nella grandezza e forma desiderate (noi facevamo le “cioppine”) finché ogni pezzo veniva introdotto nel forno precedentemente preparato e uniformemente riscaldato con legna scelta e secca. Per noi piccoli era un divertimento fare il pane. Rivedo la mia mamma curva sull’enorme tavola della cucina con le braccia immerse nella pasta che si muoveva a ritmo cadenzato mentre noi, nel tentativo di imitarla e di aiutarla, giocavamo facendo con la pasta strane formine. La cottura andava seguita con attenzione per ottenere un buon pane.

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Dopo tutto questo lavoro i contadini erano felici di poter riempire il proprio cestone e di avere in casa una bella provvista. Si può immaginare, quindi, lo sgomento provato quando si accorsero che la cesta era quasi vuota. Come era possibile? Chi aveva mangiato tanto pane? E in così breve tempo? La notizia sconvolse le piccole abitudini di tutti i giorni. I primi a essere sospettati fummo noi bambini; la mamma ci chiamò e ci invitò a dire la verità. Eravamo stati noi? Allibiti per questo sospetto, ci affrettammo a proclamare la nostra innocenza, quasi risentiti di essere incolpati di un furto che, trattandosi di pane, era per noi molto grave. Il pane non si ruba; il pane è sacro! Nel cortile era tutto un sussurrare, un bisbigliare e si arrivò a capire che qualcuno sapeva dove indirizzare i propri sospetti. Una certa figurina nera, esile, con la gonna lunga era stata vista una sera muoversi in fretta quasi di corsa nei pressi della rimessa ed entrare poi nel corridoio che l’avrebbe portata a casa sua. Nell’oscurità degli ambienti nessuno poteva essere riconosciuto con certezza ma intanto la voce si sparse. Le “padroncine” avevano rubato il pane! La notizia apparve sul quotidiano nella pagina dedicata alla cronaca della provincia, suscitando la curiosità del piccolo mondo contadino. Come reagirono le ziette? Per alcuni giorni fu difficile incontrarle nei corridoi o per le scale. I loro passi, già leggeri, ora erano impercettibili probabilmente nel tentativo di sfuggire agli abituali incontri di tutti i giorni. Si chiusero nel loro silenzio, non reagirono, non si difesero, anzi quasi si isolarono. Appartenevano a quel genere di persone che non inducono alla confidenza per cui era difficile alleggerire la tensione parlandone apertamente con loro. Erano colpevoli? Possedevano forse l’arte di nascondere le cose, di tacerle, di fare finta che non esistano? L’interrogativo mi tormentava senza sosta e per quel miscuglio di affetto e di compassione che provavo non

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riuscivo a capacitarmi di come le zie non si rendessero conto di ciò che avevano fatto e speravo di incontrarle per frugare ansiosamente nei loro volti. Ancora oggi sono molti i ricordi che credevo sepolti nel passato e che prendono forma davanti ai miei occhi con la stessa nitidezza di allora; affiora, infatti, la memoria di un altro episodio che non posso tacere perché riguarda le stesse ziette che, dopotutto, sono la ragione per cui scrivo queste pagine. A metà gennaio di parecchi anni dopo, quando non abitavano più con noi, arrivò un invito da parte delle zie: aspettavano tutti i nipoti a casa loro. Ricordo chiaramente la domenica in cui entrammo nella loro stanza da letto: il sole del tardo pomeriggio inondava di luce la camera, vi regnava una dolce quiete e una delle zie, smagrita e sofferente, stava coricata con la borsa dell’acqua calda mentre l’altra, seduta su una poltrona ma più vigile, aveva uno scialle scuro sopra le gambe. Erano molto cambiate, più lente e impacciate, sembravano quasi intimidite da noi. “Siete molto cresciute!” ci dissero mentre ci guardavano con il piacere e l’affetto di sempre e fu allora che ci accorgemmo quanto tremasse loro la voce, forse per l’età o forse per l’emozione. Consegnarono poi ad ognuna di noi una busta bianca accompagnandola con espressioni dolci e commosse e ci salutarono. Forse, allora, nell’euforia del regalo ricevuto, non ci rendemmo conto pienamente del valore di quel gesto; aldilà di ciò che la busta conteneva, in quell’atto c’era tutta la dimostrazione di quanto ci volessero bene. Fu l’ultima volta che le vedemmo.

Adele Pignagnoli Di Lena, nata a Campagnola Emilia, vive a Roma da molti anni. Ha insegnato materie letterarie nella scuola media e nel liceo scientifico. È stata premiata nel 2012 nel Concorso

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“Bassa in Letteratura” e i suoi racconti sono stati pubblicati in tutte le omonime raccolte edite da Aliberti fin dalla prima edizione. Altri suoi racconti sono pubblicati nelle due raccolte Parole di Pane, edite da Perrone e Farnesi Editori.

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Figlio di n.n.: una storia vera di Ilde Rosati

Procede spedito davanti a sé su quella strada di campagna bianca di polvere e sassi, le erbacce al centro della strada e ai lati gli avvallamenti lasciati dalle ruote dei carri trainati dai buoi. Camminando, Alberto guarda distrattamente il paesaggio pianeggiante a perdita d’occhio: campi lunghissimi di foraggi incastrati tra loro come una scacchiera, a dividerli fila d’olmi, salici, canali e canaletti dagli argini fioriti. Non nota i colori che vanno dal verde intenso al verde argentato passando tra una vasta gamma di verdi luminosi degni della tavolozza di un impressionista. Ad intramezzarli, larghi appezzamenti di frumento mentana ormai maturo e orzo, segale, veccia, più in là distese di granoturco già alto. Come erano diversi questi campi da quelli in pendenza e di dimensioni esigue della sua collina argillosa su cui anche i buoi faticano a tirare l’aratro! Il caldo e le cicale disturbano la quiete, e il cielo è percorso da stormi di rondini, ma Alberto non ci fa caso, segue il filo del suo pensiero e i chilometri percorsi a piedi e la stanchezza nulla possono contro l’ansia di arrivare che ha dentro di sé. Di lì a poche settimane si sposerà con Annita una ragazza sana, dai saldi principi, di buona famiglia, che ha lottato per strappare l’assenso del padre che aveva dubbi su di lui per il fatto che era stato in Africa e chi rientrava da quei luoghi portava a casa la sifilide. Annita aveva avuto fiducia in lui e si era imposta contro tutti. Portava in dote una casa con la terra attorno, sufficiente a far

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crescere i futuri figli. Alberto, d’accordo con Annita, vuole dei figli, a dispetto delle brutture della guerra finita da poco e della miseria che gli era sempre veleggiata attorno. “Manca ancòra dimondi a Guastala?”1 chiede ad un seggiolaio che in bicicletta faticosamente percorre in senso opposto la strada sterrata portando con sé la cassetta degli attrezzi. “Prèma c’à riva mezdè, t’ag riiv”.2 “Rvedres, buun lavoor”.3 Aduna le forze che gli rimangono perché la voglia di arrivare è tanta, voglia di vedere e conoscere finalmente la madre che l’ha generato, dirle che l’ha già perdonata per averlo abbandonato neonato e che è venuto per invitarla al suo matrimonio, per dirle di essere sopravvissuto a due guerre, e che deve essere orgogliosa di lui che ha servito la Patria per anni ed ora è finalmente felice. Le avrebbe detto tutto d’un fiato, perché lei doveva sapere che il suo bambino era vivo, forte, che si era fatto uomo e maturato tra le difficoltà della guerra d’Africa e tra le trincee delle Alpi. Guardando il sole, ormai a mezzogiorno, capisce che manca poco. Le indicazioni precise le aveva avute, dopo mesi di richieste e di insistenze, dal parroco del paese. Il curato ha a cuore quel buon ragazzone, ne aveva già passate troppe per non aiutarlo, lo conosce bene: il paese di collina ha poche anime che si leccano quotidianamente le lacerazioni vivissime lasciate dalla guerra. Alberto vi si trova bene e lavora da contadino assieme ad altri due fratelli in una casa povera ma dignitosa. Non sono veri fratelli, quelli, lo scoprì quando, al richiamo della Patria si scoprì improvvisamente figlio di n.n. “Manca ancora molto a Guastalla?” “Prima che sia mezzogiorno, ci arrivi”. 3 “Arrivederci, buon lavoro”. 1 2

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Quella volta lì fu uno schiaffo terribile in pieno viso, non aveva mai saputo la verità e mai aveva sospettato che la Dirce e Pasquino non fossero i suoi veri genitori. E invece no. Quante umiliazioni private e pubbliche a militare, perché figlio di nessuno! Come in guerra: c’era una missione pericolosa? “Ci va Alberto, lui a casa non ha chi lo aspetta!”. E mandava giù amaro, mentre gli altri soldati lo guardavano silenziosi segnandolo a dito con gli occhi. Quante volte ne fu vittima, tanto che, finita la guerra della Libia, avrebbe potuto rientrare nel paese di collina, invece… no, si disse, devo imparare a farcela da solo, a casa nessuno mi aspetta. E rimase in Africa, si rimboccò le maniche e iniziò a fare il calzolaio nella bottega di un professionista italiano che l’aveva preso a benvolere. Senza rendersene conto allunga il passo verso Guastalla; gli tremano le gambe quando passa su di un ponte traballante posto su di un canalone colmo d’acqua, ma continua con il basel sulla spalla sinistra da cui pende una borsa dentro la quale ha messo un paio di scarpe di ricambio, un paio di zoccoli da regalare a sua madre e due sue fotografie: una ad Addis Abeba e una che lo ritrae con la croce sul petto del dipartimento della sanità. Lui era orgogliosamente infermiere nella grande guerra. “Da che perta càtia al puder ed Gigiin?”4 “Dreda d’la cesa, avanti dusent meter, è catè n’à stanga, l’è c’òl lè”.5 Ce l’aveva fatta! Dopo due giorni di cammino a piedi, con una sola sosta. Aveva infatti sdormicchiato la notte prima, sotto un portico,

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“Da che parte trovo il podere di Gigino?” “Dietro la chiesa, avanti duecento metri, troverete una stanga, è quello lì”.

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di fianco alla canonica di Bagnolo in Piano sopra le balle di fieno. Il priore, conoscente del curato di Casina, gli aveva dato ospitalità, ma non voleva disturbare e soprattutto voleva rimettersi in cammino per il fresco, prima dell’alba. “Grazie, reverendo, mi basta la minestra che mi avete offerto” e gli raccontò le ragioni del suo cammino, anche se avrebbe fatto volentieri a meno. “Mah! I casi del Signore sono infiniti. - disse bonario - Pregherò perché il tuo entusiasmo dia buoni frutti, ho sentito altre storie come la tua, e alcune sono finite bene… Sia lodato il Signore”. “Sempre sia lodato. Mi ha aiutato tante volte in guerra, mi aiuterà anche oggi”. Nella bassa il caldo a giugno spacca le pietre, non c’è la brezza delle colline e a guardare lontano si vede “ballare la vecchia”. Superata la chiesa, dal gruppo di case vicine scaturisce un profumo intenso di soffritto, profumo che ad Alberto giovane, sano e di buona forchetta, fa stringere la bocca dello stomaco. Si guarda attorno un poco titubante, la stanga è lì, c’è una larga carraia che porta alla casa con un bel cortile. “Sono arrivato, ma… chi chiamo? Che faccio?” A togliere dall’impaccio Alberto è un cane sbucato da qualche parte: gli corre incontro abbaiando con tutto il rumore che può. Alberto rimane fermo, sa che a stare fermo anche il cane più ringhioso non colpisce, nel mentre vede affacciarsi una donna sulla porta. “Cosa volete?” “Posso entrare?” “Pirollo accuccia”. Il cane si acquieta. Alberto si avvicina alla casa, alla donna. Non crede ai suoi occhi, forse sta anche sorridendo: stessi capelli scuri, stessi occhi blu intenso, è come se si trovasse allo specchio. Dalle labbra gli escono solo tre parole: “Sono tuo figlio”. La donna, come fulminata, lo guarda, poi gira lo sguardo a

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destra e a sinistra spaventata e poi con il volto segnato da una grinta aggressiva: “Vai via! Vai via, mio marito non sa niente di te, non deve sapere. E sta per venire a mangiare!”. Alberto sente quelle parole come uno schianto, un fulmine perché anche le parole possono essere tuoni e lampi. Impietrito, non riesce a credere… non può essere vero, ma il suo sbigottimento è interrotto: “Vai via, ti ho detto, vattene via subito!” Alberto abbassa il basel dalla spalla, sfila la borsa contenente un po’ della sua vita e la lascia in mezzo al cortile mentre il cane va ad annusarne il contenuto, si gira e con passo lento e pesantissimo ritorna verso la stanga e si lascia cadere per terra. Svilito, umiliato, deluso, vuole piangere. Non può credere che finisca così. Aveva immaginato che lei lo abbracciasse finalmente, aveva sperato che gli spiegasse tra le lacrime che aveva dovuto abbandonarlo… se ne sarebbe fatto una ragione, tanto lui l’aveva già perdonata. Ma ora no! Era il secondo rifiuto alla sua esistenza, lo aveva annientato. Piange Alberto, seduto sulla gramigna a lato dell’ingresso del cortile di sua madre. Aveva pianto così disperatamente quando aveva visto morire sotto i suoi occhi l’amico straziato da una mina, sente ancora le sue grida: “mamma, mamma, non voglio morire”. Anche lui ora vorrebbe urlare: “Mamma mi hai ucciso!” Ma non urla. Forse sua madre dalla finestra lo vede rialzarsi, asciugarsi gli occhi, ma lui non si gira verso la casa, gli farebbe un dolore ulteriore. Non si rende neppure conto che nel fagotto del cortile ha lasciato il paio di scarpe che potrebbero servigli per il ritorno. Se ne va ripercorrendo a testa bassa i passi che mezz’ora prima aveva fatto quasi di corsa. “Neppure da bere mi ha offerto” e si appoggia al basel, usandolo da bastone perché la testa gli gira e la stanchezza gli è piombata addosso di colpo.

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Là, in mezzo alla strada, sotto un cielo che la calura aveva imbiancato a farlo sembrare di metallo, è un povero diavolo distrutto. Si sente indegno di vivere, con la condanna di essere figlio di nessuno cucita addosso, da portare per sempre come un negro d’Africa porta la sua pelle. La bocca, impastata di un’amarezza che gli scende e gli arriva fino al cuore, gli fa sentire ancora di più la sete e la fame. Un’anziana esce dalla chiesa, ha sottobraccio un cesto di uova, vede Alberto, lo guarda negli occhi, occhi buoni, carezzevoli annebbiati dalle lacrime. “Hai fame?” “Ho sete e anche fame”. “Ciapa che”.6 E gli allunga quattro uova. Questa donna non è mia madre e mi sta sfamando, pensa e si mette a singhiozzare senza pudore di fronte a questa donna che potrebbe essere sua nonna. L’abbraccia prima delicatamente, poi intensamente: quell’abbraccio che si era immaginato e aveva desiderato dare e ricevere da sua madre. “Se t’voò gnir a cà mia, la porta l’eè averta”.7 “Grazie, avete fatto già tanto per me, devo andare e fare tanta strada”. “Motiv ed piò par gnir a magner… fer mia di compliment!”8 “Non ho soldi per ripagarvi, ma se avete scarpe da aggiustare accetto”. “Breev, a cà mia, gh’è da lavurer fin ch’àt voo”.9 E Alberto la segue. Edda, così ha detto che si chiama, lo accompagna nel mentre si informa su di lui. Alberto evita di parlare di sua madre adducendo di essere in

“Prendi queste”. “Se vuoi venire a casa mia, la porta è aperta”. 8 “Motivo di più per venire a mangiare, non fare complimenti!” 9 “Bravo, a casa mia c’è da lavorare fin che vuoi”. 6 7

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zona per cercare un amico di guerra, ma che non ha trovato. La casa dell’Edda, immensa e in parte da ristrutturare perché la guerra ha lasciato segni e ricordi, ha un portico ampissimo, fienile e stalla con tanti capi di bestiame. Staccati dalla casa, la porcilaia ed il pollaio. In un angolo del cortile c’è la vasca di cemento e l’acqua che esce da un tubo, ne approfitta per bere e lavarsi il viso. Il contatto dell’acqua fresca lo fa sentire meglio e si guarda con piacere attorno a quella casa colonica che trasuda laboriosità ed abbondanza. “D’istèè, è magnom sòt al porteg, chè ghè piò aria”.10 L’accoglienza verso Alberto è rustica ma calorosa, attorno al tavolo di legno grezzo, siedono almeno una quindicina di persone e alcuni bambini, che lo guardano incuriositi, hanno i piedi scalzi e braghette alla zuava con macchie colorate. L’atmosfera è di una famiglia legata da vincoli d’amore. Pane a fette, Lambrusco, pancetta e salame sul tagliere, vari coltelli per affettare. Poi arrivano le donne con suoli pieni di pasta asciutta condita con soffritto fragrante e abbondante formaggio. Due ciotole di radicchio di campo e uova sode fanno da contorno ai salumi e per finire, un abbondante buscilan da pucciare nel vino. Alberto non aveva mai mangiato così abbondantemente. Il Lambrusco e la famigliarità con i quali è stato accolto gli sciolgono il nodo che l’attanaglia e si lascia andare raccontando di sé, della traversata in nave per andare in Libia e per ritornare, delle genti incontrate, i loro usi. Poi parla loro degli anni terribili, del freddo, della fame durante i tre anni di guerra al confine con l’Austria e della sua vita in trincea. Il tempo passa veloce e Alberto è al centro dell’attenzione: piace a tutti per la sua semplicità. Si offre di riparare scarpe fino a sera, perché ormai è chiaro che ripartirà il mattino seguente.

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“D’estate mangiamo sotto al portico dove si sente più aria”.

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“L’è al ciel c’à t’à mandè”11, gli dice Edda quando si rimette ai piedi due polacchini che aveva pensato di dover buttare. Il mattino dopo, Alberto, bevuto il latte e messe alcune fette di pane in bisaccia, ringrazia chi l’aveva ospitato e sfamato. L’odore dell’erba appena falciata dell’immensa campagna circostante l’investe e ne respira l’essenza come una certezza a rasserenargli il cuore. Ora si guarda attorno con occhi diversi e osserva i pioppi lontani che ombreggiano campi ordinati intorno a Guastalla, i canali e l’acqua silenziosa rotta dai gracidare di rane. E ripassa sul ponte traballante ed il canale gonfio lo distrae pensando all’abbondanza di acqua che donerà ricchezza ai contadini di Guastalla. Si appoggia al parapetto e scaccia il pensiero che per un attimo lo sfiora. Ripensa alla famiglia dell’Edda, alla loro generosità, e con questa immagine negli occhi, lava via l’angoscia che l’ha attanagliato. C’è Annita che mi aspetta, lei mi darà tutto l’amore di cui ho bisogno, e si incammina con passo deciso verso sud, verso le colline, verso la sua prossima vita, verso Annita. Ilde Rosati, nata a Castelnovo Monti, risiede a Reggio Emilia. Diplomata all’Istituto d’Arte G. Chierici di Reggio Emilia e abilitata all’insegnamento delle superiori. Educatrice di attività espressive per i malati di mente del S. Lazzaro ed inseguito atelierista nelle scuole materne. In pensione coltiva le sue passioni: disegno, grafica, acquerello e calligrafia. Ama esprimersi anche in poesia e in prosa con affermazioni a livello nazionale nel concorso “50&più”. Ha esposto in varie mostre di pittura a Roma, Cesena, Bologna e Reggio Emilia. Recentemente ha partecipato a mostre di manoscritti miniati dedicati alla Contessa Matilde al Castello di Rossena, S. Polo e Reggio Emilia raccolti nel libro Favole matildiche in pergamena favole dai testi inventati ed illustrati. La sua particolarità, infatti, è di scrivere ed illustrare le proprie opere. Ha pubblicato: Fiabe dalle terre matildiche, Matilde di Canossa, Le nozze di Everelina, Rezdore reggiane, I racconti della rezdora e Nove galline e un gallo (editi da C.D.L.). 11

“È il cielo che ti ha mandato”.

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Un pranzo speciale di Marisa Saccani

“Quest’anno alla Fiera di Gonzaga andranno Pietro e Giuseppe. - disse la madre, una sera, rivolgendosi al marito - La strada è lunga e noi non siamo più giovani. Tu, poi, con la tua schiena, non ti devi strapazzare”. Il padre fece un cenno di assenso, intanto pensava che rigovernare da solo le mucche non sarebbe stata una fatica minore del percorso in bicicletta. Si dichiarò comunque d’accordo. Ci sarebbe stata un’altra occasione per fare visita al fratello e alla cognata. Nella vita monotona dei due ragazzi, tutta casa e scuola, la possibilità di passare una giornata diversa li entusiasmava, inoltre sostituire i genitori era per loro un onore. Significava che ormai erano considerati degli adulti. Nonostante ciò, ricordavano le giostre mai viste in quei luoghi e soprattutto le pietanze della zia Pina. Una cosa da leccarsi i baffi, se li avessero avuti. A quei tempi, la guerra era finita da poco, il cibo non era abbondante: due giovani nell’età della crescita, impegnati nella scuola e talvolta nel lavoro dei campi, spesso avevano una fame da lupi. Quella mattina la madre ebbe un bel da fare fra lo stirare camicie e scaldare l’acqua per il bagno. Pietro e Giuseppe si contendevano lo specchio per vedere se la piega dei pantaloni cadeva a pennello, se i capelli erano pettinati proprio come aveva consigliato il barbiere. Se non fosse intervenuta la madre a spronarli non sarebbero arrivati in tempo per il pranzo. Il padre, nel frattempo, era andato a Messa e, al ritorno, aveva pensato di fare una sorpresa alla moglie acquistando un bel

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vassoio di paste. Arrivò a casa proprio quando i ragazzi stavano per partire dopo aver lustrato le biciclette. Sapevano che, fra gli invitati, c’erano anche due nipoti della zia Pina e volevano presentarsi nell’aspetto migliore. “Ragazzi, - disse il padre - volete un pasticcino? Oggi sono belli grossi e profumati”. “Ma neanche per sogno! - rispose Pietro - Figurati! Con tutto quello che la zia Pina avrà preparato, ci mettiamo a mangiare dei pasticcini!” “Come volete!” disse il padre e li salutò augurando buon viaggio. Era una tiepida giornata autunnale, soleggiata ma ventosa. Ben presto la fatica si fece sentire, cosicché quando finalmente videro la casa degli zii, tirarono un sospiro di sollievo. La casa bianca in mezzo al verde di un frutteto aveva un aspetto accogliente. Pietro pensò che, a quell’epoca, qualche frutto poteva essere maturo e gli sarebbe servito per calmare la fame e la sete. Lo zio Lino e la zia Pina erano sulla soglia della loro bella casa ad attenderli, ma mentre lo zio non la finiva più di abbracciarli e di congratularsi con loro, la zia Pina aveva un’espressione seria, quasi arcigna, come se i due fratelli, nipoti del marito, fossero una presenza inopportuna. Pietro e Giuseppe salutarono educatamente lo zio, poi si sedettero all’ombra di un melo da cui pendevano grossi frutti maturi. “Mi raccomando, non toccate quelle mele. - disse la zia Pina con voce aspra - Sono state trattate con il verderame”. I ragazzi osservarono le piante e i frutti ma non videro nessuna traccia di verderame. Nel frattempo arrivarono le due nipoti della zia Pina, belle ragazze sane e prosperose. Alla vista delle nipoti predilette la zia cambiò espressione e si precipitò ad abbracciarle e baciarle, poi le invitò a riposarsi in casa e a ristorarsi con una bibita fresca. Pietro e Giuseppe non poterono scambiare con loro

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neppure una parola, cosa che avrebbero fatto volentieri. Dopo un po’ una delle ragazze apparve sulla soglia e con voce squillante disse: “Venite, è pronto”. Gli invitati, che incominciavano a dar segni di impazienza, entrarono. Fra loro Pietro e Giuseppe che a stento trattennero la fretta di mettersi a tavola. La cuoca aveva già preparato i piatti: un mestolino di brodo ricopriva il fondo in cui galleggiavano una decina di cappelletti. Subito gli occhi di tutti si rivolsero al centro della tavola, dove di solito si posava la zuppiera ricolma, ma lo spazio era vuoto. “Come mai…” cominciò a dire lo zio Lino, ma un’occhiataccia della moglie lo fece tacere. Finito il primo piatto, cosa che aveva richiesto poco tempo, la zia Pina portò in tavola un piatto di lesso che, dopo che i commensali si furono serviti, rimase completamente vuoto. “Quando sei andata in cantina, hai preso del vino bianco?” “Da fare? - rispose la donna - Non ho fatto la torta”. Naturalmente gli adulti non si dispiacquero più di tanto; Pietro e Giuseppe, invece, che erano piuttosto golosi, rimasero delusi. “Non andate a vedere la fiera?” chiese la zia che desiderava togliersi di torno un po’ di gente. Allora Pietro si fece coraggio e avvicinatosi alle ragazze, con le quali fino a quel momento aveva scambiato solo occhiate, le invitò ad andare alla fiera. Con sua grande sorpresa si sentì rispondere che esse aspettavano i fidanzati. “Venite un po’ a vedere il mio frutteto, voi che studiate agronomia” disse lo zio. Ai ragazzi non rimase altro da fare che seguirlo ed ascoltare le sue disquisizioni. Fortunatamente all’orizzonte cominciarono ad accumularsi dei nuvoloni per cui gli zii li esortarono a tornare a casa al più presto. “Mi dispiace - disse la zia Pina - che dobbiate già andare, ma non vorrei che capitaste in mezzo ad un temporale. Spero che

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siate stati bene almeno oggi, perché so che nella vostra famiglia ci sono difficoltà”. Giuseppe ringraziò la zia per la sua generosità. Pietro non disse nulla, inforcò la bicicletta e si allontanò il più presto possibile, mentre il fratello pregava di aspettarlo. Arrivati a casa, non trovarono i genitori, ancora al lavoro in campagna. Si precipitarono in cucina dove li accolse il profumo del pane appena sfornato. In un’ampia ciotola la crema fatta con le uova fresche e il latte migliore. Giuseppe impaziente agguantò un cucchiaio. “Fermati! - disse Pietro - Aspettiamo il papà e la mamma. Ceneremo assieme”. Si sedettero tranquillamente ad aspettare e intanto si guardarono intorno. La cucina rispecchiava l’ordine e la cura della madre che desidera fare trovare il meglio ai figli. Questa storia mi è stata raccontata da uno dei protagonisti e quando gli ho chiesto se fosse tornato dalla zia: “Sì, - mi ha risposto - venti anni dopo per il suo funerale”.

Marisa Saccani, insegnante di Lettere attualmente in pensione. Si è dedicata alla scrittura negli anni in cui il compianto prof. Benassi teneva, al Centro Sociale di Novellara, lezioni di scrittura creativa. Ha partecipato al “Premio regionale di poesia e narrativa” nel 2004 classificandosi al 3° posto.

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Ridatemi il silenzio! di Leonardo Tenca

Per noi uomini di fiume il giro a Po a vedere l’acqua correre al mare è un rito quotidiano: all’alba o al tramonto, mentre la golena è regno della quiete. Da quando l’happy hour è moda e ogni giorno è buono per fare festa avanti cena, la puntata al lido al calare del sole nelle domeniche estive è un inferno. Verso sera comincia l’intrusione roboante che alza nuvole di polvere dai parcheggi. L’appuntamento è al “Peace in Po”1, dove nella calca sorseggiano un mojito che aiuta a sciogliere gli impacci. Il resto è seduzione d’armi: pettorali palestrati, schiene tinte dal sole, unghie rosse, zeppe di sughero, “trampoli 18” che sbandano sulla ghiaia. Mentre la house martellante ci dà coi decibel, alla magia del fiume chi fa più caso? Io invece sono qui per il sole che scivola oltre la spiaggia di Correggio Verde, per il canto del bosco che prelude alla notte, per le raganelle che gridano dai bugni. Basta! Scappo sul “pennello” per sfuggire al fragore insopportabile. Ma la musica mi pedina, le sue onde galleggiano sull’acqua che le porta a valle. Scappo nel pioppeto, ma gli echi del rimbombo mi inseguono, mi marcano stretto, non lasciano scampo... Ridatemi il silenzio!

Il “Peace in Po” è un chiosco dislocato a Guastalla (RE), in riva al Grande Fiume: da marzo a fine settembre è luogo di culto della movida nella Bassa.

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Leonardo Tenca, nato a Guastalla il 9 aprile 1959, da vari anni si adopera al recupero e alla salvaguardia del patrimonio storicomusicale e tradizionale locale, attraverso la ricerca di documenti e la raccolta di testimonianze orali che pubblica su periodici, riviste e antologie. È autore del libro L’organo della Priorale di S. Rocco della Rotta di Luzzara (1997; seconda edizione aggiornata nel 2013 per l’Associazione Giuseppe Serassi) e delle raccolte di racconti I Misteri di Brugneto (1998) e Le quattro stagioni (2003) per Omnia Editrice. Dal ‘78 è insegnante di Musica nella Scuola Media; in ambito didattico ha collaborato alla redazione del libro di testo Musica come linguaggio (ed. Poseidonia, Bologna).

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San Martino di Luisa Torelli

Il carro avanzava sotto il peso delle ultime masserizie. Un paio di buoi, guidati da mio padre con mano gentile e ferma, lo trainava sulla stradina sterrata. Sedute tra gli ultimi poveri mobili, la mamma e io ne accompagnavamo il procedere lento con le gambe a penzoloni. La nebbia fitta, che avvolgeva ogni cosa, solo poco dopo il nostro arrivo, aveva permesso al sole di fare capolino e di mettere in evidenza la casa gialla con le finestre marroni, in tutta la sua imponenza: era maestosa e sapevamo che avrebbe ospitato due famiglie di mezzadri. Il papà aveva aiutato la mamma e me a scendere dal carro e ci aveva accompagnate in casa, dove ci aveva accolte il profumo soave di una ciambella appena sfornata, cotta a puntino, dorata fuori e morbida dentro, come solo la zia Gianna sapeva fare. La zia era arrivata alcuni giorni prima insieme allo zio Mario e alle mucche, ai maiali, alle galline e agli attrezzi per il lavoro dei campi. Nella stalla, Nerina, prossima al parto, coi suoi muggiti, aveva richiesto la presenza dello zio accanto a sÊ. Ma il fatto che i vitellini appena nati fossero bagnati e sporchi di sangue, venne attribuito per molto tempo al vecchio che li portava via via su dal canale. Nella casa gialla non c’era la cucina col camino come in Via Grande, ma dal cucinino si sprigionava lo stesso profumo di minestrone, reso pungente dalla verza che cuoceva piano piano insieme alle patate e alle croste del formaggio. Pregu-

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stavo già il sapore della buona zuppa col pane raffermo che avevo mangiato tante volte col cucchiaio d’ottone, imboccata dalla mamma, prima che qualche adulto ostile alla mia presenza si sedesse a tavola. Il papà, che aveva sistemato i buoi nella stalla, aveva preparato un buon pastone caldo e profumato per i maiali, che lo avevano mangiato con avidità, spingendosi l’un l’altro. Anche se gli adulti avevano fatto del loro meglio per tenere lontani i bambini, poche settimane dopo avevo scoperto ugualmente il motivo di quell’ingrasso. La sera era scesa presto. In occasione del bagno settimanale del sabato, la mamma aveva sistemato il mastello di legno nella stalla, a debita distanza dagli spifferi dell’uscio e dal sedere delle mucche. Mi aveva insegnato a lavarmi prima la parte sopra e poi ad immergermi per lavarmi quella sotto. Il profumo della saponetta Camai si mescolava all’odore della stalla, ma la sensazione di benessere rimaneva intatta. Avvolta nei caldi abiti invernali, per contrastare lo sbalzo tra il tepore della stalla e il rigore dell’esterno, ero corsa in casa a sedere davanti ad un piatto di frittelle di sangue di maiale fumanti. Il loro profumo era fuoriuscito dal vetro socchiuso del cucinino e già prima del bagno mi aveva fatto venire l’acquolina in bocca. A distanza di tempo mi sono chiesta come questo sia stato possibile. Il S. Natale si avvicinava, il piccolo abete finto si arricchiva di palline colorate, di torroncini e mandarini, mentre coi brillantini argentati e dorati cercavo d’impreziosire la letterina che avrei nascosto sotto il piatto del papà la sera della Vigilia. Il profumo della salsiccia, insieme a quello del garofano e della cannella, si sprigionava dal tegame che bolliva piano piano sulla stufa, mentre l’impasto dei tortellini fritti prendeva forma sotto le mani abili della mamma e il ripieno fatto col sapore, le castagne e quel tanto di pane grattugia-

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to, aveva la consistenza giusta per farsi avvolgere da quella pasta sottile ed elastica. Dopo pochi giorni, le campane avrebbero suonato a festa.

Luisa Torelli, nata a Campagnola Emilia (RE) in via Grande il 5 marzo 1954. Vive a Novellara (RE) con il marito e i loro animali. Ăˆ pensionata, mamma e nonna.

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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2014 Composizione giuria

Presidente: Alessandro Di Nuzzo, direttore editoriale Wingsbert House e scrittore. Paola Baraldi, insegnante e già Sindaco di Campagnola Emilia (RE). Daniele Bevini, libraio, titolare della libreria “Moby Dick” di Correggio (RE). Vittorio Cottafavi, imprenditore agricolo e scrittore. Orianna Ottaviani, impiegata e componente direttivo de “Il Cicciolo d’Oro”.

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Elenco cicciolai 2014

Accorsi Pompeo Albertini Ermanno Aldrovandi Cesare Anardi Adriano Asioli Alberto Barani Claudio Baratti Elisa Bargi Enrico Bellesi Iacopo Beltrami Ermes Beltrami Franco Bertazzoni Nino Bertoldi Michele Bigi Maurizio Bigi Roberto Bigi Treves Bigi Treves Bocciolesi Giovanni Bocedi Sergio Bonacini Denis Bonifazi Borciani Enrico Borciani Ermanno Bortolani Gianni Campanini Corrado

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Carletti Gianni Carpi Giuliano Carretti Franco Caselli Emma Caselli Marco Caselli Orazio Catellani Ermanno Cattani Albino Cavalli Giovanni Cavazzoli Marco Cavazzoli Mauro Cavazzoli Pasquale Citelli Valentina Coiro Giocondo Corradini Gaetano Cottafava Marco Covri Paolo Crotti Fiorigi Cucchi Alfredo Cucchi Andrea Dall’olio Marco Davoli Alvaro Davoli Luca Davolio Emiliano Davolio Franco Della Libera Stefano Delle Ave Franco Denti Omar Diacci Silverio Esposito Giuseppe (I tonici dentro) Fantuzzi Simona Farina Andrea Farri Filippo

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Fava Davide Ferretti Umberto Ferri Grazia Forlani Enrico Garimberti Ivano Gasparini Enzo Gasparini Luigi Gelati Stefano Gelatti Gabriele Giovannini Alfredo Gli Amici di Mandrio Gorrieri Tiziano Gorrini Lorenzo (Gli amici del Fondo Grilli) Gramostini Vando Grandi Fabio Guaita Matteo Gualtieri Gianni Guerra Roberto Guerzoni Andrea I Maver (Pedrazzoli) Incerti Medardo Lanza Lino e Franco Lanza Matteo Lanza Rainero Lasagni Claudio Lazzarini Mario Le Maver (Pedrazzoli) Lodi Massimo Lusetti Lorenzo Magnani Ermes Magnani Moreno Malagoli Ermanno Malagoli Marco

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Malagoli Silvano Manfrin Marco Manfrin Maurizio Marastoni Laurenti Marastoni Sauro Marchetto Mario Medici Massimo Menozzi Gino Merzi Aldo Minarelli Roberto Monari Morini Afro Neri Mario Opg Ori Silvano Palazzi Lauro Panciroli Moreno Panisi Stefano Paoluzzi Guido Paterlini Mauro Paterlini Paolo Pederzoli Bruno e Cristian Pellegrini Manuel Piccinini Giorgio Pignagnoli Natale Pignagnoli Riccardo Previato Gianpaolo Ravazzini Mirco Realdon Simone Righi Clignio Righini Roberto Rinaldi Adriano Romani Stefano

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Ronchetti Maurizio Rondini Abele Rossi Marziano Rossi Stefano Rustichelli Gianni Sacchi Luigi Salati Marco Santachiara Alessandro Sindaci e‌ Soprani Luca Stoch Majer Franco Storchi Cristian Sueda Sueri Nerino Tamagnini Ivan Tirelli Lauro Toni Ivan Torelli Roberto Tosti Fernando Valentini Mariano Valla Francesco Veroni Marco Veroni Romano Vezzali Giordano Vezzani Giancarlo Violetti Eros Zaccarelli Luca Zanardi Adriano Zanetti Denis Zanoni Mauro

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In copertina: “Immobilità sospesa dell’inverno” di Silvia Santini. Silvia Santini fin da giovanissima rivela una particolare inclinazione per le espressioni artistiche e grazie alla felice intuizione di sua zia Tina Santini Lolli, che la incita a coltivare la sua passione, si iscrive all’Istituto Statale d’Arte “G. Chierici” di Reggio Emilia. Conseguito il diploma frequenta poi il corso di scultura all’Accademia Clementina di Belle Arti di Bologna come allieva dello scultore F. Carpigiani, conseguendovi la laurea a pieni voti. Docente in Discipline Plastiche presso l’Istituto “G. Chierici”, è stata in contemporanea operatrice didattica ai Civici Musei di Reggio Emilia. Artista e insegnante intraprendente, dal ‘94 al ’98 tiene anche corsi serali per adulti di acquarello e scultura presso Villa Barbolini a Campogalliano (MO), Circolo Arci Cabassi di Carpi (MO), Istituto Statale d’Arte “G. Chierici” di Reggio Emilia e per il comune di Campagnola Emilia, mentre nel 1996 diviene titolare della cattedra di Disegno e Storia dell’Arte presso il Liceo Statale “R. Corso” di Correggio (RE), dove attualmente insegna. Negli stessi anni è docente di Storia dell’Arte all’Università dell’Età Libera di Campagnola Emilia (RE), tenendo lezioni fino al 2004. Accanto all’attività di insegnamento svolge un’intensa attività di pittrice, prediligendo come forma artistica l’acquarello, rivolgendo la propria attenzione anche alla figurazione plastica (sculture di terracotta e bronzo). Vive e lavora a Campagnola Emilia.

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Attività artistica 1977 Correggio (RE), S. Quirino Rassegna di artisti contemporanei della provincia di Reggio Emilia sul tema “Se vuoi la pace difendi la vita” 1978 Ancona (AN), Galleria dei Portici Personale di pittura e scultura 1979 Ancona (AN), Galleria dei Portici Collettiva di pittori contemporanei 1979 Ancona (AN), Galleria dei Portici Collettiva di pittori contemporanei 1981 Viano (RE), Comune VII Mostra Nazionale di Pittura II Biennale di Pittura “Matteo Bertolini” 1982 Campagnola (RE), Circolo Artistico “L. Orsi” Collettiva di pittura, scultura e grafica 1982 Campagnola (RE), Comune III Rassegna Artistica 1985 Guastalla (RE), “Antica Trattoria Aquila” Personale di pittura e scultura 1986 Campagnola (RE), Comune Mostra di Artigianato, Arte e Industria 1987 Reggio Emilia, Istituto tecnico “B. Pascal” Personale di opere con finalità didattiche 1988 Novellara (RE), Sala Mostre Museo Gonzaga Personale di pittura e scultura 1991 Correggio (RE), Comune Rassegna Artisti correggesi 1992 Correggio (RE), Sala Mercato del Grano “Paesaggi di Padania” (rassegna personale)

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1993 Scandiano (RE), Casa Lazzaro Spallanzani Collettiva di pittura e scultura 1994 Reggio Emilia, Circolo del Casino Personale di pittura 1994 Novellara (RE), “Sale del Cortile” in Rocca “I luoghi dell’utopia”, Personale di pittura 1995 Reggio Emilia, Chiesa Cimitero Monumentale Pala d’Altare (copia da Francesco Viacava) 1995 Albignasego (PD), Villa Obizzi 4° Biennale dell’acquarello 1996 Reggio Emilia, CAAM Personale di pittura in occasione del cinquantesimo anniversario di attività di CAAM (1946-1996) 1997 Albignasego (PD), Villa Obizzi 5° Biennale dell’acquarello 1998 Correggio (RE), Chiesa di S. Sebastiano “...Interminati spazi e profondissima quiete...”, Personale di pittura 1999 Albignasego (PD), Villa Obizzi 6° Biennale dell’acquarello 2000 Campagnola (RE), Sala civica comunale “Pensieri Immagini Colori”, Personale di pittura e scultura 2001 Suzzara (MN), Fondazione scuola di Arti e Mestieri “F. Bertazzoni” Rassegna di pittura, grafica e scultura 2004 Suzzara (MN), Fondazione scuola di Arti e Mestieri “F. Bertazzoni” Rassegna di pittura, grafica e scultura 2004 Carpi (MO), Sala Duomo “Atmosfere”, Personale di pittura e scultura 2008 Fabbrico (RE), Negozio “Immagini” Personale di pittura. Incontro con l’artista

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2008 Suzzara (MN), Fondazione scuola di Arti e Mestieri “F. Bertazzoni” Rassegna di pittura, grafica e scultura 2009 Suzzara (MN), Fondazione scuola di Arti e Mestieri “F. Bertazzoni” Rassegna di pittura, grafica e scultura 2010 Correggio (RE), Hotel President - Lions Club Presenze femminili nell’arte reggiana 2010 Fabbrico (RE), Negozio “Immagini” Personale di pittura. Incontro con l’artista 2013 Correggio (RE), Palazzo dei Principi, Galleria Esposizioni “Silenzi” Personale di pittura

Bibliografia Se vuoi la pace difendi la vita, a cura di Walther, in “Al Campanoun”, Correggio, 5 maggio 1977 «Incontri 1977» alla galleria dei Portici di Ancona, a cura di Rosario Melito, in “Corriere Adriatico”, 1977 Silvia Santini, in “Bolaffi Arte”, anno IX, n.77, marzo 1978 Forme e colori di Silvia Santini, a cura di Rosario Melito, in “Corriere Adriatico”, 26 gennaio 1978 Silvia Santini, Bolaffi Arte, 1979, vol. IV Una mostra di pittura, a cura di E.S., in “La Gazzetta”, febbraio-marzo 1985 La Santini espone al «Pascal», in “La Gazzetta”, 25 marzo 1987 Didattica con i quadri, a cura di L.S., in “Carlino Reggio”, 7 aprile 1987 Personale di Silvia Santini, catalogo mostra, a cura di Azeglio Bertoni, Comune di Novellara, 1988 Mostra Pittura «in rosa», in “La Gazzetta”, 12 marzo 1993

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Una mostra al femminile nell’edificio di Spallanzani, in “La Gazzetta”, 20 marzo 1993 Poetiche atmosfere padane negli acquarelli della Santini, a cura di Aurora Marzi, in “Carlino Reggio”, 19 Gennaio 1994 Acquarelli in mostra: realtà e utopia dentro la Rocca, in “La Gazzetta”, 11 settembre 1994 Silvia Santini, catalogo mostra, a cura di William Spaggiari, Comune di Novellara, 1994 Silvia Santini “...Interminati spazi e profondissima quiete...”, catalogo mostra, a cura di Maria Perrone, Correggio, 1998 Pensieri, Immagini, Colori, catalogo mostra, a cura di Aurora Marzi, Campagnola, 2000 Silvia Santini, in “Arte in Arti e mestieri duemila1”, Italgraf Rubiera (RE) 2001, p. 34 Silvia Santini, Roberto Levorato, I tesori Nascosti del Convento di San Francesco di Correggio, Grafitalia Industrie Grafiche, Reggio Emilia, 2003 Silvia Santini, in “Arte in Arti e mestieri duemila4”, Italgraf Rubiera (RE) 2004, p. 57 Silvia Santini, in “Arte in Arti e mestieri duemila8”, Arti Grafiche Bottazzi & C s.n.c, Suzzara, 2008, p. 47 Silvia Santini, in “Arte in Arti e mestieri duemila9”, Arti Grafiche Bottazzi & C s.n.c, Suzzara, 2009, p. 52 Presenze femminili nell’arte reggiana, a cura di F. Canova, Correggio, 2010 Silvia Santini, a cura di E. Filini, in “Nuovo Dizionario degli artisti reggiani”, 2010 Silenzi, catalogo mostra, a cura di Azeglio Bertoni, comune di Correggio, 2013

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Indice

Introduzione di Vittorio Cottafavi

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L’imprevedibile fragilità dell’argine maestro di Annalisa Bertolotti

7

Con gli occhi del Sud di Viviana Iiriti

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Ti amerò fino a mezzogiorno di Donatella Boccalari

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Ermelinda di Sole Girasoli

43

Balle di fieno e onde del mare di Vittoria Speroni

53

L’eco dei ricordi di Rossella Bacchi

69

Il compagno di legno di Massimo Bisi

75

Chile, ciccioli e cicciolata di Renato Ceres

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La fontana di Frida De Santis

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Cohen 9 di Mauro Gozzi

99

L’annuncio di Monica Guidetti

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La vera storia della maledizione di San Bernardino di Alda Maria Lusuardi

123

Due signorine d’altri tempi di Adele Pignagnoli Di Lena

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Figlio di n.n.: una storia vera di Ilde Rosati

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Un pranzo speciale di Marisa Saccani

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Ridatemi il silenzio! di Leonardo Tenca

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San Martino di Luisa Torelli

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Stampato presso Editografica s.r.l. Rastignano (BO) nel novembre 2014



Racconti che provengono dalla nostra terra, storie che scaturiscono dall’interazione tra uomo ed ambiente; vicende che si potrebbero ascoltare all’osteria, tra un boccone ed un sorso di vino, o al calore di una stalla, ma anche sorseggiando un aperitivo mentre si attende l’ora per la discoteca. Storie sussurrate che divengono di dominio pubblico, storie ormai nell’oblio che si riverberano nei costumi della tradizione. Storie di tutti i tempi di una terra al di fuori del tempo, ecco quanto racchiude il quinto volume di “Bassa in Letteratura”.

Comune di Campagnola Emilia

Provincia di Reggio Emilia

Immagine di copertina: “Immobilità sospesa dell’inverno” Silvia Santini (acquarello, 2013)

€ 8,00


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