Bassa in letteratura 2017

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AA.VV.

Bassa in Letteratura 2017

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Associazione senza fini di lucro


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Comune di Campagnola Emilia

Provincia di Reggio Emilia

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Introduzione

Un tempo si diveniva maggiorenni a 21 anni. Ora pare che a 18 si sia dei bamboccioni e a 22 “choosy”, ma del resto a 14 anni incapaci, per legge, di entrare e uscire dalla scuola senza un accompagnatore. In tutto ciò qualcosa mi sfuggirebbe, non fosse che vi ritrovo le solite, eterne, questioni generazionali - le stesse per cui l’uomo di Cromagnon si lamentava, certo un po’ gutturalmente, che le mazze in pietra non si facevano più come una volta. Ma che diamine c’entra la maggiore età con la prefazione del Concorso letterario? C’entra, c’entra. Perché Bassa in Letteratura deriva dal “Cicciolo d’Oro”, che quest’anno giunge alla diciottesima edizione - una ricorrenza importante, che mi pare giusto festeggiare ricordando con l’aiuto di qualche dato cos’esso significhi per Campagnola Emilia. Dunque durante diciassette domeniche, in piazza Roma, si sono schierati super giù 2.200 paioli che hanno provveduto a bollire 130.000 chili di grasso di maiale, ricavandone, oltre a una nube di trigliceridi che avvolge l’intero centro storico, quasi 90.000 kg di strutto e soprattutto 14.000 chili di ciccioli, divorati dai presenti nello spazio di qualche decina di minuti. Accidenti, sono numeri davvero imponenti, non credevo neanch’io. Ma come si fa, in così poco tempo, a rimpinzarsi di 14.000 kg di ciccioli? Be’, basta stringersi in Piazza, stiparsi, perché si tratta di circa 320.000 persone. Cosa? Dai! Sì, in media 19.000 presenze per anno, il conto torna.

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In più ci sono gli addetti ai paioli, 8.000, e i giudici, altri 500. Poi “l’indotto”: volete che i giudici, al bar, non si vantino un pizzico del loro ruolo, suscitando domande e commenti? E ogni cicciolaio senz’altro ne parlerà in famiglia, e ogni visitatore accennerà pure a qualcuno che domenica andrà, o è stato, a Campagnola al “Cicciolo d’Oro” - eh accipicchia, ne vien fuori un numero che neppure mi ci metto, non vorrei che il Presidente Aristide, colto da ebrezza, proclamasse l’indipendenza senza nemmeno il referendum. Chi potrebbe dargli asilo politico poi, forse solo San Martino in Rio col suo “Ciccioli in Piasa”, l’imitazione più nota dell’unico “Cicciolo d’Oro”. Ma a fianco di queste cifre veramente impressionanti, ciò che più mi colpisce è che il “Cicciolo” abbia dato origine a Bassa in Letteratura, non solo, da un paio d’anni anche a Bassa in Pittura. Che son più o meno come quei figli che all’apparenza non assomigliano affatto al genitore, e poi viceversa sì, d’improvviso un gesto, uno sguardo, un modo di fare rivela l’ascendenza; di quei figli che spesso fan discorsi che i genitori non comprendono del tutto, ma dei quali in fondo sono molto orgogliosi. Ah, dimenticavo. I volontari del “Cicciolo”: se ogni anno fossero cambiati, se ne sarebbero alternati circa un migliaio. Invece no. Invece sono sempre grosso modo gli stessi a tirare la carretta. Sempre quelli. Ed è a loro che va il nostro sincero ringraziamento - beninteso, assieme agli auguri per un magnifico diciottesimo. Vittorio Cottafavi

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Bassa in Letteratura 2017



I premiati



La battaglia delle fionde di Franco Tagliati

Quella sera la luna ci pareva gravida di sogni. Si era alla fine di giugno, l’afa era insopportabile e ce ne stavamo tutti e sette seduti sul muretto dell’aia. Sette cugini impazienti in attesa che il filòs1 avesse inizio. La nonna aveva preparato alcuni secchi di quelle sue erbe anti zanzara e, dopo averli coperti con un sacco di canapa forato, vi aveva gettato un pezzo di carbone acceso. Il fumo protettore iniziò subito a diffondersi come una nebbiolina mentre iniziavano ad arrivare i primi vicini e con loro i nostri coetanei. Le donne iniziarono a servire agli ospiti il vino tenuto in fresco, per quella circostanza nell’albi2 mentre la nonna, sotto il portico, serviva il tradizionale gnocco con fette di polenta fritte. Un’occasione unica per noi ragazzi per abbuffarci senza dover chiedere il permesso, poiché solitamente il cibo era misurato. Con gli otto ragazzi del vicinato c’era sempre un’accesa competizione che spesso sfociava in animate baruffe, ma quando i ragazzi del centro del paese vicino venivano a provocarci trovavamo sempre in loro dei validi alleati. Ovviamente nella speciale occasione di quel filòs ogni ostilità fu messa a tacere. Il loro capo si chiamava Gabriele e aveva quattordici anni come nostro cugino Ciro e fu proprio lui che quella sera, 1 2

intrattenimento serale abbeveratoio per bovini

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proprio nel bel mezzo della festa, ci radunò tutti per darci una tremenda notizia. “Quelli del centro ci hanno dichiarato guerra”. Si fece un profondo silenzio. Ciro ruppe per primo il silenzio: “È proprio vero? Hanno dunque fatto questa affermazione?” “È vero sì!” rispose pronto Gabriele incoraggiato dall’effetto che le sue parole stavano provocando. “Così non può durare! - esclamò Filippo - Mi chiedo il perché di questa loro improvvisa decisione”. “Ho dato un pugno ad uno di loro perché mi aveva chiamato sterco di campagna e aveva dato lo stesso appellativo a tutti noi” chiarì Gabriele senza esitare. “Io lo avevo sempre detto che era ora di agire ma voi avete sempre sostenuto che ancora non era giunto il tempo! Ebbene, io penso che, se continua così, non solo quelli ci razzieranno anche i fazzoletti da naso, ma verranno a prenderci in giro pure sul nostro stesso campo” disse Giorgio indispettito. “Se dobbiamo agire contro di loro, dobbiamo prepararci” disse Gabriele evitando polemiche. “Che vengano pure. - Urlò Filippo - Li accoglieremo con il letame che si meritano”. “Come?” domandò Giorgio. “Sì! Hai capito bene, con il letame” confermò Ciro che non solo aveva compreso ciò a cui si riferiva il compagno, ma lo condivideva appieno e non tardò ad illustrare quell’idea: “faremo delle piccole palline di letame e paglia ma nell’impasto vi aggiungeremo minuscole sfere di ferro”. Pietro era il cugino di Gabriele e, non convinto, alzò timidamente la mano per manifestare la sua perplessità: “dove troveremo le sfere di ferro?” “Mio nonno ha un amico che fa il fabbro e non esiterà a rifornirci della quantità necessaria” rispose Filippo.

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“Dunque, aprite bene le orecchie. - riprese Ciro - Si prende un secchio di letame, vi si aggiunge della paglia tritata fine fine e le minuscole sfere di ferro. Il tutto va mescolato bene…” Silvano aveva nove anni e se ne stava da una parte a braccia conserte e con un muso lungo brontolò: “Che schifo! Bisognerà toccare la merda con le mani? Io non lo faccio!” Gabriele gli mollò uno scapaccione per farlo tacere e rimetterlo in riga, prima di ridare la parola a Ciro che continuò a spiegare il modo di preparare le speciali munizioni: “le palline non dovranno essere più grandi di un uovo di quaglia, una volta preparate dovranno essere messe ad asciugare al sole e, infine, pennellate con dell’albume che le renderà più compatte e pronte per essere tirate con la fionda”. Tutti annuirono condividendo, ma fu Nello a prendere la parola. “Ma ne servirà un gran quantitativo, come faremo ad essere pronti per l’attacco?” “Lavoreremo tutti insieme” rispose Gabriele. “Allora dobbiamo muoverci in fretta” aggiunse Filippo. “E soprattutto non farne parola con nessuno” aggiunse Ciro. Andrea e suo fratello Mariano chiesero ai due capi se la banda fosse in possesso di fionde, poiché, senza di quelle, la preparazione delle munizioni sarebbe stata inutile. Ma Ciro e Gabriele li rassicurarono. Si disponeva di ben tre fionde a testa. La banda sembrava convinta sull’efficacia del piano e sul da farsi, a ognuno fu assegnato uno specifico compito, la riunione sembrava terminata ma Ciro volle aggiungere un’ultima cosa prima di congedare le truppe: “consiglio a tutti di evitare di recarsi in paese da soli, se fosse necessario andate in gruppo”. Armando, cugino di Gabriele, era un tipo schivo, sopran-

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nominato Grasöl3 per via della sua corpulenta corporatura. Aveva ascoltato senza mai intervenire, non amava molto parlare, ma in quella occasione sentì che era necessario dire la sua e il suo intervento si rivelò estremamente utile, mettendo a fuoco un particolare che da molti di noi era stato sottovalutato o trascurato: “secondo me quando sferreranno l’attacco lo faranno all’improvviso perché penseranno di trovarci impreparati e sono sicuro che lo faranno dall’argine o dal canale, dove se non sbaglio la famiglia di Ciro possiede un casotto situato proprio nel mezzo dei due canali”. La palizzata, che chiudeva frontalmente il riquadro dove era situato il casotto, dava su un vecchio viottolo sterrato, ed era delimitato, ai due estremi, da due case. Dietro la palizzata, dalla parte opposta, il terreno era scosceso e su buona parte di esso si ergevano alte cataste di legna. Era insomma un labirinto dove facilmente ci si poteva nascondere. A sinistra di queste cataste sorgeva il casotto. Era una casaccia bizzarra in legno e mattoni; i muri esterni d’estate si ricoprivano di piante rampicanti: edera, glicine, vite selvatica, che lasciavano nudo, sul tetto, solo il grande fumaiolo nero. Il posto era ideale. Il suolo sostituiva meravigliosamente le praterie americane quando si giocava ai pellirosse. Quanto alle cataste di legno, con un po’ di buona volontà, con un briciolo d’immaginazione, potevano diventare ogni cosa: città, foreste, montagne rocciose, case, fortezze… a seconda delle circostanze. La notte pulsava e nell’oscurità la magica danza delle lucciole donava un tocco magico al buio. Nessuno di noi riuscì a chiudere occhio quella notte. Il giorno seguente ci alzammo prestissimo tra sbadigli e stiramenti. I nonni avevano preparato la solita scodella di latte

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cicciolo di maiale

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con due fette di polenta che consumammo velocemente per poi uscire come fulmini dal portone per essere puntuali al raduno convenuto. Ci radunammo sull’aia per dare il via al piano, talmente impegnati nel lavoro non badavamo al ronzio fastidioso dalle mosche che ci bersagliavano incessantemente. Tutti avevano assolto i compiti assegnati e disponevamo di tutto il materiale occorrente e l’aia si trasformò in un’efficiente catena di montaggio, nel frattempo, Ciro e Gabriele strapparono al nonno il consenso di usare il casotto presso il quale decidemmo di stabilire il nostro quartier generale. La notizia ci venne comunicata gioiosamente dai nostri capi i quali riuscirono ad ottenere anche la dispensa dalle nostre quotidiane mansioni, sino a che la faccenda non fosse stata risolta. Ciò voleva dire che eravamo liberi di organizzarci per stabilirci in quella sede per alcuni giorni sino a che la guerra non fosse terminata. “Giurate che osserverete quanto stabilito da me e Ciro senza obbiettare e che a nessuno venga in mente di tirarsi indietro a l’ultimo momento” disse Gabriele in tono solenne e deciso. Ma in quel momento, presi come eravamo dall’euforia, a nessuno di noi venne in mente di potersi tirare indietro o di disobbedire ai capi che ci eravamo scelti. “Sarà meglio iniziare ad allenarci se vogliamo essere davvero efficienti. - aggiunse Ciro - Direi che sarebbe meglio fare delle prove”. Rimediammo dei vecchi barattoli che, disposti a una certa distanza, fecero da bersaglio e raccolti dei ciottoli lungo lo stradello li usammo provvisoriamente come munizioni per allenarci. Alcuni di noi, nel frattempo, si davano da fare per rimediare provviste e tutto ciò che necessitava per la lunga permanenza. Era stato portato addirittura un fischietto, ci sarebbe stato utile per dare l’allarme durante i turni di guardia.

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Il sole era alto, la calura faceva ondeggiare la polvere sul viottolo e dall’alto del tetto del casotto dei passeri osservavano indifferenti i movimenti delle truppe. Fu stabilito di togliere scarpe e sandali per evitare rumori. Matteo fu l’unico ad essere felice di quella decisione, portava sempre scarpe più grandi e spesso inciampava, veniva da una famiglia povera che non poteva permettersi il lusso di comprare scarpe adatte, si doveva arrangiare con quelle rimediate. Sua madre sempre malata, il padre quasi assente, avevano contribuito alla formazione di un carattere chiuso nel fanciullo che sembrava non sapesse sorridere e privo d’amore non conosceva che il volto amaro della rassegnazione. Una lancia di sole penetrò dal soffitto e sfiorò l’angolo dove erano state ammucchiate le scarpe e i sandali. Intorno al casotto ondeggiarono alti pioppi e olmi e la leggera brezza sparse il profumo dei cespugli di lauro, rosmarino e salvia che crescevano sotto di loro. Pronti a fare del nostro meglio, iniziammo le prove di abilità, Silvano e Piero sbagliarono alcuni tiri, ma nel complesso, l’allenamento risultò promettente. Fu durante la pausa che, dopo essersi denudati completamente, ad Antonio, Piero, Matteo e Silvano balzò in testa l’idea di tuffarsi nel canale per cercare refrigerio. Gli schiamazzi dei quattro anatroccoli cessarono con l’intervento autorevole di Ciro che infuriato ordinò che uscissero immediatamente dall’acqua e li apostrofò con dure parole: “che non vi venga più in mente di fare una cosa simile senza permesso, perché vi cospargerò di miele e dopo avervi legato ad un palo vi darò in pasto alle formiche”. “Non si può fare niente, avete sempre ragione voi”. Si lamentarono piagnucolando Antonio e Matteo, mentre Silvano e Piero a testa china dicevano che non era giusto,

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ma Ciro volle chiarire il motivo del suo rimprovero: “questo non è un gioco, se fossero giunti i nostri nemici mentre eravate intenti a fare gli stupidi nel canale dove vi sareste nascosti sott’acqua? Nessuno di noi può dire se non ci stessero già spiando. Dobbiamo fare attenzione”. La parola gioco per noi era una parola poco usata. La nostra vita in casa di contadini era già adulta. Il nostro corpo, così come l’anima, maturava velocemente e l’infanzia terminava con altrettanta rapidità senza che noi ne fossimo consapevoli. Non so dire se i lavori che presto venivamo chiamati a svolgere ci rendessero più forti o forse più maturi. Nel tardo pomeriggio Ciro si arrampicò su un prunus carico di frutti che sembrò un ottimo punto d’osservazione. Noi al di sotto attendevamo impazienti l’esito della sua esplorazione, ma per il momento tutto sembrava tranquillo e decidemmo di osservare dei turni di guardia per la notte. Alle prime stelle la lucerna venne accesa ed essa diede alla stanza del casotto l’aspetto di una prigione. Le zanzare iniziarono a colpire il bersaglio come frecce infallibili mentre al frinire delle cicale rispondeva il gracidio delle rane. Seduti in cerchio sui nostri improvvisati giacigli di paglia ci rifocillammo con pane e formaggio. Ciro e Pietro affrontarono il loro primo turno di guardia, il fischietto ci avrebbe dato il segnale nel caso in cui il nemico avesse osato attaccarci. Le zanzare stavano creando un bel po’ di disagio all’interno del casotto. Gabriele aprì la sacca e ne estrasse un barattolo contenente un unguento appositamente preparato da sua nonna e ci ordinò di denudarci. Ci cospargemmo con quel provvidenziale preparato che risultò davvero efficace contro quelle bestiacce e finalmente riuscimmo a riposare meglio sui giacigli di paglia che pizzicavano la schiena. Qualcuno all’improvviso bussò energicamente sull’uscio del casotto. Ci svegliammo e in men che non si dica erava-

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mo ammucchiati e tesi in un angolo della stanza. Il silenzio era totale. Gabriele con passo furtivo, come un felino in agguato, si avvicinò alla porta quando dall’esterno giunse la voce conosciuta del nonno: “truppa siete svegli?” domandò con quella sua voce un po’ rauca. Gabriele rasserenato aprì la porta e il nonno gli porse un salame, mentre Ciro e Pietro abbandonata la postazione ci raggiunsero. “Sono venuto per constatare che tutto fosse sotto controllo” disse il nonno mentre depositava sul pavimento ciò che aveva portato: una bottiglietta di petrolio, del pane, alcune bottiglie d’acqua e una scatola di fiammiferi. Lo ringraziammo per la premura, sentendoci sollevati e lui sorridendo alzò la mano in segno di saluto e rapido scomparve nel buio. Quella notte, però, sembrava non volesse affatto trascorrere tranquilla, fuori all’improvviso iniziò ad imperversare un vento insistente che non prometteva nulla di buono, bagliori di lampi squarciavano il cielo e la tempesta si stava annunciando con il rumore degli scuri delle finestre. La fiamma della lanterna creava ombre danzanti sulle pareti, mentre puntuale giunse il rumore della pioggia sul tetto. “Usciamo!” gridò Filippo ad un tratto lasciando tutti stupefatti. “Sì usciamo, danzeremo sotto la pioggia proprio come fanno gli indiani prima di ogni battaglia”. Fu incredibile come quella proposta che in un primo momento sembrò assurda suscitasse, invece, l’entusiasmo di tutti. Con i tuoni che rombavano furiosi ci ritrovammo sotto l’acqua scrosciante a danzare abbracciati a ciò che rimaneva della fantasia che rendeva magico ogni movimento di quella spensierata follia giovanile, e ci sentimmo ebbri ed appagati come se il mondo stesse per chinarsi ai nostri piedi. Eravamo liberi dalle paure, dall’ansia, da ogni vincolo

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che ci serrava nella morsa quotidiana e quelli che udivamo non erano tuoni, ma rombare di tamburi. Le nostre grida sfidavano la tempesta facendoci sentire invincibili. Il sole del mattino si specchiava nelle numerose pozzanghere. Per la prima volta guardammo l’alba con occhi diversi. Allineati facemmo pipì lungo il canale e percepimmo il rumore degli insetti tra l’erba e il nuovo respiro della natura. Ciro si avventurò nuovamente sul grande prunus ma anche stavolta non vi era segno del nemico. Raccogliemmo alcune prugne riempendoci le tasche. Pietro che s’era addentrato tra i cespugli per impellenti bisogni, ad un tratto urlò: “correte! Venite!” Ci precipitammo verso di lui e guardammo nella direzione che ci indicava. Sotto un olmo c’era un bidone del latte, lo riconobbi subito era del nonno. Lo aprimmo e all’interno c’erano quattro bottiglie di latte e un bel po’ di fette di polenta abbrustolite e numerose uova sode. Il nonno ci aveva fatto un’altra delle sue gradite sorprese. Qualcuno esagerò nel trangugiare troppe prugne con il latte e gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ciro e Gabriele si alternarono più volte sul prunus ma stranamente tutto appariva calmo. L’attesa iniziava a farsi stressante e i due capi si guardarono perplessi. Fu Ciro che, accortosi della tensione che si andava accumulando, propose ai più giovani di andare a pesca nel canale: “abbiamo la polenta rimasta, non ci resta che pescare qualche buon pesce e avremmo messo a punto il nostro pranzo”. L’entusiasmo che si scatenò a quella proposta aveva spinto già molti di noi a denudarsi completamente per tuffarsi in acqua, ma Gabriele intervenne a placare l’euforia: “non tuffatevi subito, il pesce a quest’ora sta pascolando vicino alla

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riva, è bene entrare adagio”. La pesca fu abbondante. Fu acceso un fuoco per cuocere le prede e la polenta fu lasciata scaldare al sole, ma negli occhi dei due capi vi si scorgeva la cupa ombra dell’apprensione. Quella calma non era naturale e con tacito accordo decisero di esplorare l’argine che sino a quel momento era rimasto inesplorato. I due si sparsero della mota su tutto il corpo per meglio mimetizzarsi e si avventurarono verso l’argine, risalendo sino alla prima banchina ai piedi di un grosso salice attenti a non fare il minimo rumore e vigili come leopardi a caccia. Noi alternandoci sul prunus tentavamo di seguire i loro movimenti tenendoci pronti ad ogni evenienza. In quegli attimi di febbrile attesa ci accorgemmo quanto i legami tra i due gruppi, una volta rivali, si fossero in quell’occasione rinsaldati e trasformati in una grande amicizia. L’afa non dava tregua e il tormentoso frinire delle cicale sembrava di bronzo. Dopo circa un’ora le sagome dei due esploratori si stagliarono sotto il sole cocente e noi tirammo un sospiro di sollievo. Sui loro volti leggemmo la fatica dello sforzo ma anche la preoccupazione. I due non dissero nulla, silenziosi si diressero al canale per ripulirsi dalla mota che si era seccata sui loro corpi. “Vi si legge in faccia che siete preoccupati. - disse Pietro Abbiamo il diritto di sapere che succede”. “C’erano quattro di loro sull’argine con le bici coricate ai margini della riva, intenti a spiarci” rispose Gabriele mentre si asciugava la faccia. “Quel branco di stupidi bovari li attacchiamo quando vogliamo, proprio dall’argine senza che se ne rendano conto. Prima di sera invieremo alcuni dei nostri sul lato opposto per trarli in inganno e sarà facile farli fuori una volta per tutte e se vorranno tornare in paese dovranno stare sotto la nostra cappella”. Così aggiunse Ciro riportando esattamente le parole udite

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dai nemici. Ci guardammo spaventati e confusi e per un attimo ci sentimmo smarriti, ma un capo capisce al volo lo stato d’animo dei suoi uomini e Ciro era un ottimo capo, gli era difficile perdersi d’animo e non avrebbe permesso che ciò accadesse ai suoi. “Non vi nascondo che tra i nemici vi sono cinque quattordicenni e un quindicenne e sotto un certo punto di vista loro sono più forti di noi, ma c’è una cosa che il nemico ha sottovalutato: noi siamo più concreti, più svelti, e uniti. Siamo imbattibili ad arrampicarci sugli alberi, abbiamo la pelle dura perché siamo abituati alla fatica e abbiamo l’occhio e la misura delle cose…” Parole sagge, pronunciate da un capo che sa infondere coraggio, non possono che far esplodere l’entusiasmo e incendiare gli animi dei suoi uomini, e fu ciò che avvenne in quei momenti. “Prendete i sacchi che usiamo come giacigli, riempiamoli di paglia e indossiamoli, che ci coprano avanti e dietro come corazze attutiranno i colpi e ci proteggeranno”. Scattammo come molle e ci gettammo nei preparativi, mentre il piano di battaglia veniva approntato velocemente. “Adesso ascoltate bene: sto per dirvi la cosa più importante. Seguitemi bene sulla carta. Il gruppo più nutrito arriverà dall’argine, i più grandi di noi resteranno giù disposti a freccia verso l’argine a destra del casotto, i più piccoli sugli alberi a cerchio. Tre di noi verso l’argine a sinistra due più piccoli sul tetto, uno verso l’argine e l’altro verso la campagna. Gli altri due si disporranno sui rispettivi canali ben nascosti dalle canne. Mirate giusto e buona fortuna a tutti”. Erano poco più delle cinque quando la banda nemica irruppe nel nostro territorio. Non appena furono a tiro, il fi-

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schietto di Gabriele suonò e la battaglia ebbe inizio. Decine di palle sibilarono tagliando l’aria e piombando sul nemico che frastornato non riusciva a scorgerci mentre noi li vedevamo benissimo. Ben cinque di loro vennero subito messi fuori combattimento e quando si avvidero del fallimento subito dai loro piani se la diedero a gambe. Caddero due dei nostri sugli alberi: Mariano e Gianni, fortunatamente senza gravi conseguenze. In compenso il secondo gruppo degli avversari ben presto cedette e malconcio battè in ritirata con la coda tra le gambe. Piero era caduto dall’albero e riportò molti graffi e contusioni. Dopo mezzora la battaglia era cessata e il nemico fuggiva sconfitto vergognosamente. Radunati davanti al casotto, esultammo vittoriosi e mai provammo gioia più grande. Non solo avevamo sconfitto un nemico più forte, ma avevamo dimostrato a noi stessi quanto fosse preziosa l’amicizia, l’unità e la fratellanza. Avevamo scoperto una cosa preziosa, un tesoro che ci avrebbe accompagnato per sempre nella vita. Ma le grida di esultanza furono interrotte da un lamento proveniente dal fossato dietro il casotto. Un ragazzo giaceva con la faccia sull’erba. Gabriele lo riconobbe immediatamente mentre lo girava e notò che aveva una profonda ferita vicino all’occhio. “È Enrico il loro capo”. Ciro portò dell’acqua per lavare la ferita e dissetare il nemico caduto. “Allora beccamorto chi è lo sterco di letame ora? - lo beffeggiò Gabriele in tono trionfante - Non fai più il gradasso ora? Non azzardatevi mai più a trattarci in quel modo” queste ultime parole suonarono alte, chiare e minacciose. “Andate a cagare!” ghignò Enrico dopo aver bevuto ed essersi sciacquato la faccia, ma un pugno di Ciro lo fece ruzzolare in terra.

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“Spogliatelo completamente e legatelo a quel palo!” ordinò Gabriele. Il prigioniero cercò di difendersi e mollò un pugno in faccia a Filippo, ma per quanto grugnisse come un maiale al macello ogni tentativo di fuga fu vano: fu denudato e legato al palo per ricevere gli sputi di tutti, poi gli fu lanciata addosso della mota. Gli tirarono il pisello e i più piccoli gli strapparono dei peli mentre ridevano e ridevano. Armando il Grasöl afferrò l’occasione per vendicarsi per tutte le volte che aveva dovuto subire l’umiliazione di essere preso in giro da quei delinquenti quando si recava in paese per comprare le sigarette per suo padre. Non poteva dimenticare la filastrocca che quei porci cantavano in coro per prenderlo in giro: “Ciccio bombolo cannoniere con tre buchi nel sedere con tre buchi nella pancia ciccio bombolo vola in Francia. Brött grasöl spüsulént 4”. Strappò dal prato una manciata di ortiche e le strofinò sul basso ventre (davanti e dietro) del prigioniero. “Basta! - urlò Enrico scoppiando a piangere - Giuro che da oggi non accadrà più che vi si manchi di rispetto. Se mi lasciate andare torneremo ad essere amici”. “Avete una strana concezione dell’amicizia voi bastardi, guarda come ti hanno abbandonato in fretta i tuoi amici” fece notare Gabriele, ma Enrico piangeva disperato e Ciro ordinò di slegarlo, aiutarlo a ripulirsi e liberarlo. Aiutammo Enrico a rimettersi in sesto e lo accompagnammo sino sopra l’argine dove la sua bici giaceva abbandonata ai margini della strada ghiaiata tra l’erba. Davanti al casotto ci raccogliemmo festanti mentre le zanzare avevano ripreso le loro scorrerie sui nostri corpi sudici e sudati. Poi raccattate le nostre cose, ci congedammo fraternamente e mestamente. L’avventura era giunta alla fine,

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brutto cicciolo puzzolente

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ora c’era da rientrare nelle nostre case e la quotidianità ci avrebbe risucchiato ma questa volta non avrebbe potuto toglierci quello che avevamo così duramente conquistato. Ognuno riprese la sua strada, ma mentre la compagnia si scioglieva fu accompagnata dalla preghiera dell’acqua che scorreva placida nel canale e la sera ornava il suo cielo con un filo rosso, la terra spossata dalla calura attendeva avidamente l’ombra della notte e i fabbri del tempo avevano soffiato dentro le nostre fucine modellando i ricordi più belli.

Franco Tagliati è nato a Guastalla (RE) dove vive e lavora. Commediografo, poeta, pittore. Ha ottenuto meriti e premi per poesie e racconti in vari concorsi ed è presente in numerose antologie italiane. Con la pittura ha esposto in diverse città italiane e anche straniere. È membro dell’Associazione Culturale “Un poco di noi” di Reggio Emilia e dell’Associazione Culturale “Argine Maestro” di Guastalla. Ha pubblicato Terra Amata con l’editore E. Lui di Reggiolo (RE) e Racconti di vita e d’amore con l’editrice Montedit di Milano.

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La buca di Giampietro Lazzari

Era tempo di guerra. Quell’8 settembre del ’43, carico di conseguenze drammatiche, era appena passato. Da poco dunque Italia e Germania non erano più alleate, ma nemiche. Due uomini sedevano silenziosi davanti al camino che scoppiettava piano in quella sera di novembre. La luce fioca ondeggiava creando ombre e improvvisi guizzi sui loro volti stanchi. Non erano volti felici. L’uno, Giuseppe, un uomo poco oltre la quarantina, aveva da poco tempo perso la moglie e viveva con il figlio Aldo nella cascina alle porte dell’abitato. L’altro, di cui non ricordo il nome, forse Franz, era un soldato tedesco, uno di quelli che, sebbene abbondantemente avanti con l’età, il Reich aveva chiamato a servire dopo ormai oltre quattro anni di guerra, esaurite le avanguardie dei giovani coscritti caduti o dispersi sui fronti d’Europa e di altre parti del mondo che bruciava. Giuseppe era contadino; anche Franz lo era prima del richiamo in guerra. Al tempo, poco distante dalla cascina, in una abitazione signorile sulla via larga che conduceva in paese si era da poco installato il presidio germanico che controllava il paese e le zone circostanti. Franz era di stanza presso questa guarnigione. Alla metà di settembre l’ufficiale in comando del presidio, dopo aver scorto la vigna di Giuseppe piena di bei grappoli maturi, chiese che Franz gliene portasse. E Franz, con le poche parole di italiano che aveva imparato in quei mesi di guerra, si presentò un giorno al cospetto di

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Giuseppe e, con un po’ di vergogna, chiese, come ordinatogli, di avere uva per il suo comandante, consapevole che in tempi così bui di guerra e di miseria quella richiesta poteva rappresentare un sacrificio non indifferente. In un primo momento Giuseppe rimase tentennante. Poi, non di buon grado, ma nel timore di eventuali rappresaglie, riempì una cesta di vimini di quei grappoli di uva matura pronta per essere pigiata. Nel momento in cui staccava i grappoli e mano mano riempiva la cesta, Giuseppe scorgeva Franz che scrutava colpito i frutti del suo lavoro e osservava con interesse anche la cascina, gli attrezzi in vista sull’aia e la terra da poco coltivata circostante la vigna. Con grande difficoltà e quasi scusandosi del malcelato interesse, Franz spiegò o tentò di spiegare a Giuseppe che anch’esso era contadino di una regione al centro della Germania. Giuseppe guardava sospettoso quel suo coetaneo dalla divisa consunta e di un esercito da poco nemico, sforzandosi di capire il significato di quei suoni gutturali confusi con uno storpio italiano. Franz si chinava, stringendo nelle mani la terra umida e portandola al petto, e diceva: “ich... ich... io... io uomo della terra”. E ancora, toccando l’aratro di ferro accostato nei pressi del muro dell’abitazione, faceva il segno delle corna mischiato con il verso dei buoi e ancora rivolgeva le mani verso di sé. E dopo un po’ i due uomini parvero davvero capirsi e condividere in cuore quelle loro fatiche. Fu così che i due si incontrarono e, dopo aver conosciuto ciò che li accomunava, il sospetto di Giuseppe nei confronti di quel soldato a poco a poco sparì, lasciando spazio alla comprensione per un uomo capitato in guerra e che seppe poi suo malgrado - aver lasciato famiglia, bestie e campi. Giuseppe, uno degli ultimi ragazzi del ’99. La guerra la aveva conosciuta per pochi giorni, tanti anni prima nelle trincee del Carso, proprio appena prima dell’armistizio della grande

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guerra. La medaglia di Vittorio Veneto gliela avevano data sì, ma erano passati molti anni e quasi nemmeno più ricordava in quale cassetto della credenza dormisse quel pezzo di metallo con la stringa tricolore. Il caporalmaggiore Franz era ormai al terzo anno di guerra, di fronti e di miserie ne aveva già conosciuti più d’uno. Dalle pianure in Polonia alle colline francesi così dolci, fino ai boschi della Jugoslavia. Con sofferenza era partito, lasciando alle spalle la propria famiglia, e con maggiore sofferenza aveva eseguito gli ordini più crudeli. Non era stato felice quando aveva sequestrato le vacche dei contadini polacchi e bruciato i loro pagliai condannandoli alla morte per miseria. Aveva patito dopo le fucilazioni dei partigiani slavi. Aveva pensato che il buon Dio avesse rivoltato definitivamente le spalle alla sua umanità la volta che vide stanare gli ebrei come topi e ucciderli, come si sarebbe schiacciata una zecca attaccata al pelo del proprio cane. Ma pure era un soldato, al servizio della sua nazione, e il senso del dovere dell’indole germanica non era del tutto sopito. Ciò che gli era stato ordinato lo aveva sempre eseguito e né il tradimento né la diserzione avevano mai potuto fare breccia nel suo animo. Nei giorni successivi le richieste perentorie dell’ufficiale del presidio si moltiplicarono e furono parecchie le volte in cui Franz si vide costretto a recarsi nella cascina, chiedendo a volte uva a volte altri prodotti dell’orto e della terra. Ed ogni volta si tratteneva un po’, forse preso dalla malinconia del ricordo della sua casa e della sua vita di lavoro così simile a quella di Giuseppe. Giuseppe del resto aveva imparato ormai a conoscere quel tedesco e a fidarsi un poco di lui, tant’è che una volta, mentre stava riempiendo il solito canestro di verdura, pensò che forse avrebbe potuto anche offrire un bicchiere di vino a quell’uomo che ormai percepiva più come un contadino, privato nel profondo dell’essenza della propria vita, piuttosto che come

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un soldato. E così accadeva che qualche volta Franz, verso sera, si intrattenesse con Giuseppe. Giuseppe lo faceva entrare, lo invitava sulla sedia di paglia davanti al camino e insieme rimanevano un poco davanti a quel fuoco, fumando il tedesco una pipa d’osso e l’altro una sigaretta arrotolata. Non si può dire che ci fosse una conversazione. Tuttavia il tedesco con il passare del tempo accresceva gli sforzi dell’imparare più parole possibili arrivando quasi a formulare frasi compiute. Del resto i due uomini non avevano bisogno di molte parole per comprendersi. Venivano da luoghi diversi e lontani ma la terra li accomunava, lo avevano capito, e quello era un modo semplice per condividere le loro solitudini differenti. Franz, che pareva avere qualche anno in più a causa delle sofferenze del conflitto, si dimostrava interessato alle sementi, alla terra, alle poche bestie che erano nella stalla attigua all’abitazione. E lo era soprattutto dei frutti che la terra germanica non era in grado di dare. Osservava le viti, i loro tralci dai colori autunnali e le spalliere alte, tipiche di questi luoghi con grande stupore. Mentre guardava verso l’alto, si alzava un poco il cappello portandoselo indietro, nel tipico gesto della povera gente. Contemplava le tipologie di zucche, girandole e rigirandole fra le mani, ammirandone le figure geometriche quasi perfette. Accarezzava la schiena e il muso dell’asino che stranamente non dava alcun segno di equino nervosismo al cospetto di quello straniero, riconoscendo mano e movimenti consoni a chi era avvezzo ai quadrupedi. Sempre offriva il tabacco della sua pipa a Giuseppe che, contento di fumare qualcosa di diverso dal solito, arrotolava pronto una cartina con quel contenuto. A volte si presentava con un paio di salsicce della dispensa della guarnigione. E come era strano per Giuseppe quel sapore di affumicato che nella valle del grande fiume era cosa inusuale. E capitava a volte che i due uomini rimanessero così, davanti a quel camino acceso in quella stanza semibuia, i vetri oscurati a

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causa dei bombardamenti, a fianco del tavolo di legno e delle tre sedie di paglia su una delle quali sedeva il piccolo Aldo, unico figlio di Giuseppe, ragazzetto di poco più di una decina d’anni, intento nei compiti di scuola alla luce di una candela. Il ragazzo, occhi verdi come il padre, era un bravo figliolo. La scomparsa prematura della giovane madre e le ristrettezze del tempo di guerra avevano fatto in modo che si avvinghiasse ancor di più al padre per il quale nutriva rispetto e dedizione. Ne era testimone la diligenza, più che l’interesse, con la quale si atteneva ai doveri della scuola, in modo da non dare preoccupazioni al genitore, e non c’era giorno che il ragazzo non si dedicasse all’aiuto del padre nei lavori dei campi. Franz aveva due figli, di cui il primo avuto molto giovane come era uso al tempo. Di questo, spedito l’anno prima sul fronte orientale, non aveva ricevuto più notizie da mesi. Le poste militari teutoniche, che fino a poco tempo prima sarebbero state in grado di raggiungere il più sperduto dei propri soldati anche in una buca oltre gli Urali, davano segni di cedimento e già ciò preannunciava la caduta di quell’esercito non lontana dal venire. La figlia, più giovane e ancora bambina, l’aveva lasciata a casa con la moglie e ricordava ancora quell’ultima licenza, l’anno prima, in cui in essa riconosceva l’esser divenuta donna. Capitava a volte che, con fare affettuoso e nel ricordo del suo ragazzo, Franz scompigliasse per gioco i capelli del figlio di Giuseppe in un gesto che - in verità - nascondeva lo sconforto del non sapere. Una sera di novembre, in occasione uno di quei silenziosi ritiri serali, il tedesco si era trattenuto un po’ più del solito rapito dai suoi pensieri, dalle volute di fumo e dall’ipnotico ciocco che bruciava lento nel camino. Fuori buio. Dentro quasi. All’improvviso un suono deciso ruppe il silenzio della stanza. Qualcuno bussava forte alla porta di legno della casa. Padre e figlio rimasero sorpresi. Erano escluse al tempo le visite serali, tantomeno durante il coprifuoco. Prima che Giuseppe si alzasse

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dallo scranno il ragazzo si era già diretto verso la porta. “Chi siete?” chiese il ragazzo avvicinando il viso al legno. “Aprite, aprite!” pronunciò dal fuori una voce insicura. Avvertita la voce italiana il ragazzo, trepidante, fece scivolare il catenaccio dalle guide, staccò dagli anelli della porta le sbarre di ferro fissate al muro e aprì. Davanti al lui un uomo alto, sui trent’anni, con una divisa da tedesco, bagnato, sporco di terra da capo a piedi, in evidente stato di sofferenza, la barba lunga di giorni e gli occhi disperati; nelle mani un fucile. “Dov’è tuo padre?” chiese in dialetto l’uomo, scostando con la mano il ragazzo dalla porta con l’evidente intenzione di entrare. Aldo, spaventato da quel demone sconosciuto, sbucato dalla nebbia, che si esprimeva in modo nostrano in un involucro nemico, chiamò il padre. “Papà, papà! Corri qui!” Giuseppe si precipitò alla porta immediatamente. I tre erano fermi nell’andito, la piccola zona che un tempo divideva due parti distinte della casa, appena superata la porta di ingresso. I due uomini, nella semioscurità, si guardarono negli occhi e si riconobbero. Il ragazzo stava in mezzo a loro con la faccia all’insù rivolta verso di loro. “Giacomo…” mormorò con stupore Giuseppe. “Sì, sono io. - disse l’uomo - Ti prego, Giuseppe, fammi entrare”. Giacomo, lontano cugino, più giovane di Giuseppe di più di un decennio, era originario di un paese distante una ventina di chilometri. A quel tempo anche distanze brevi non consentivano di vedersi né di frequentarsi con assiduità. Tuttavia Giuseppe ricordava bene quel viso per averlo incontrato qualche volta in occasione di nozze o funerali di parenti prossimi, le uniche opportunità che permettevano la riunione dei ceppi famigliari sparsi nei paesi. “Che fai con questa divisa da tedesco?” chiese Giuseppe. “Sto scappando, Giuseppe, sto scappando! Dopo il proclama

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dell’otto settembre non si è capito più nulla! Gli ufficiali erano senza ordini, le comunicazioni interrotte, molti sono fuggiti dalle caserme! Alcune zone sono state assalite dai partigiani e dalla gente! Poi sono arrivati i tedeschi, hanno preso noi soldati rimasti e ci hanno chiesto di decidere: o deportazione o entrare nell’esercito tedesco. Fui spaventato dalla deportazione; non si sapeva dove! Con pochi altri ho scelto l’arruolamento. Ci hanno dato i vestiti e le armi, caricato su un vagone, quello delle bestie; qualcuno diceva che andavamo al Brennero. Giuseppe, io non so nemmeno dov’è questo paese che si chiama Brennero! Dentro il vagone eravamo più di cinquanta. Mi ha preso la disperazione e vicino Brescia mi sono buttato giù. Mi sono slogato una caviglia, ho sentito che mi sparavano ma sono riuscito a fuggire nel granoturco alto; poi sono rimasto nascosto per alcuni giorni in un casolare. Quando sono uscito, sempre a piedi, sono ripartito. Ho attraversato i campi di notte e sono giunto qui. Giuseppe sono giorni che vivo come una bestia. Ho camminato a lungo che nemmeno un asino; non mangio da non ricordo quanto. Voglio andare a casa! Ti prego Giuseppe fammi liberare da questa divisa, da queste armi, dammi dei vestiti vecchi e sparirò questa stessa notte”. Franz, circondato dal fumo della sua pipa d’osso, stava di spalle davanti al camino; non appena aveva sentito il trambusto era uscito dalla camera e anch’egli fece la sua comparsa nell’andito. Quattro figure. Tre grandi e una piccola. Giacomo, pietrificato dalla presenza improvvisa di un graduato dell’esercito da cui stava disertando e per ciò cosciente di una possibile immediata fucilazione. Giuseppe, gelato nel sangue da una situazione che sarebbe in un attimo potuta precipitare e di cui percepiva la terrificante pericolosità. Il caporalmaggiore Franz, che pareva aver compreso il dramma degli eventi che avevano provocato quell’incontro, in bilico tra il dovere patrio e la stanchezza delle altrui e proprie sofferenze. Tra di loro il ragazzo. Non passò molto. Dopo un attimo ove il tempo fu quasi so-

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speso, Giuseppe mise un braccio sulla spalla del contadino tedesco, lo guardò negli occhi, fermo, e cercò - senza dire nulla - la sua complicità. Franz fece un semplice cenno di assenso con la testa e molto lentamente spense la sua pipa, infilando il dito calloso nel fornello della brace. Giacomo, tolse la mano dalla baionetta al suo fianco, di cui aveva stretto il manico alla vista del graduato, respirò forte e distese i nervi. “Aldo, corri nella stanza di sopra. - disse Giuseppe - Apri la cassapanca, prendi un paio di pantaloni e una giacca. Svelto”. Il ragazzo salì veloce, divorando i gradini a due a due; nell’anima la volontà di rendersi utile. Ne discese poco dopo portando quanto il padre gli aveva ordinato. Mentre Giacomo, ancora nell’andito, si svestiva veloce dei panni alieni della Wermacht e altrettanto velocemente vestiva quelli da contadino, Giuseppe allungò a Franz una vanga; nelle sue mani stringeva già una pala. Nel silenzio teso il ragazzo osservò il padre indossare il tabarro, quello pesante, e allontanarsi nella foschia circostante insieme a Franz e a Giacomo, ormai in abiti borghesi. In un sacco di juta erano state calcate la divisa, la baionetta e gli oggetti a corredo; le cartuccere di cuoio, la gavetta, il tascapane, il contenitore cilindrico della maschera antigas; in mano teneva ancora il fucile. Nel silenzio gocciolante di bruma il ragazzo osservò le tre figure inoltrarsi verso il campo - là fuori, oltre la vigna - al confine del terreno che cingeva la casa. Un quarto di luna, nonostante la foschia novembrina fosse già presente e si alzasse dalla terra arata, consentiva appena di scorgere i contorni delle figure. Le sagome degli uomini, allontanandosi nel buio, si facevano più leggere. Scorse i tre uomini scavare frettolosamente con i loro attrezzi, là in fondo, vicino al fosso, dopodiché deporre nella buca scavata il fucile e il sacco; poi ricoprire con altrettanta fretta. Vide il padre tendere il braccio, ad indicare un percorso a est - oltre la ferrovia - e ancora più avanti, oltre il canale della bonifica.

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Giacomo parve annuire, mentre Franz con il piatto della pala comprimeva la terra smossa. I due cugini si abbracciarono. Giacomo prese la via dei campi senza voltarsi. Giuseppe e Franz tornarono sui loro passi verso casa. Franz depose la pala, si riaccese la pipa, strinse la mano a Giuseppe e si incamminò sul sentiero che conduceva sulla strada e alla sua guarnigione. Giuseppe si pulì le vecchie scarpe dalla terra fresca, prima di rientrare in casa. Intimò al figlio di spegnere ciò che rimaneva del fuoco nel camino e di coricarsi. Non disse altro quella sera. Franz non andò più nella cascina e dopo poco tempo tutto il presidio tedesco si spostò in un’altra località. Di Giacomo, dopo quella sera, nessuno seppe più nulla. Non fece mai ritorno a casa, né nei mesi successivi né nell’immediato dopoguerra. Semplicemente sparì quella sera di novembre, inghiottito dalla nebbia e da chissà quali eventi e quella fu l’ultima volta che qualcuno lo vide. Giuseppe era mio nonno. Aldo mio padre. Più volte, e in specie negli anni della prima giovinezza, affascinato e incuriosito da questa vicenda, di nascosto ho scavato al limite del campo, nel luogo dove mi immaginavo potessero essere state sepolte, quella notte, le armi di Giacomo e il suo corredo. Non ho mai trovato nulla sebbene ci abbia provato più volte. Ho pensato che forse la terra era gelosa di questa storia e avesse voluto custodirla o renderla sconosciuta, come sconosciuto è rimasto il destino di Giacomo e del tedesco Franz. O forse, chissà, questa cosa che ti ho raccontato è stata in parte un’invenzione di mio padre, narratami per significarmi che, a volte, il buono degli uomini emerge quando gli eventi impongono loro il contrario. Intorno al campo c’è stata una nuova lottizzazione. Stanno costruendo delle casette bifamiliari. L’altro giorno, da lonta-

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no e quasi per caso, osservavo degli operai che posavano una tubazione sul confine. Uno di loro scavava il terreno a bordo di uno di quei piccoli mezzi utilizzati per i lavori stradali. D’un tratto l’ho visto sporgersi e fermare la propria opera. L’ho visto discendere dal mezzo ed entrare nella trincea che stava scavando. L’ho sentito fischiare e attirare l’attenzione degli altri operai che, posati i loro attrezzi, si sono avvicinati. Un paio sono entrati nella buca. Scorgevo solo a metà le loro sagome emergenti. Parlottavano. Poi uno di loro si è chinato e ha raccolto un oggetto lungo e altre cose più piccole che insieme si sono passati di mano in mano. Non vedevo bene, né sentivo ciò che si dicevano. Osservavano l’oggetto lungo, lo rigiravano e se lo passavano. Ho continuato ad osservarli da lontano, mentre si allontanavano con quelle cose per le quali mi pare dimostrassero stupore. Non so bene spiegare ma non sono riuscito ad andare da loro. Come se qualcuno mi trattenesse.

Giampietro Lazzari nasce nel 1966 a Casalmaggiore, una cittadina situata nell’ultimo lembo a sud della provincia di Cremona letteralmente affacciata sul fiume Po e confinante con le vicine provincie emiliane. Compie gli studi classici nel liceo cittadino, dopodiché consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Parma. Da sempre profondamente legato alle realtà della “bassa” inizia a dedicarsi alla scrittura di brevi racconti in età matura. I temi cari sono proprio le atmosfere delle piccole realtà locali padane che nascondono, fra nebbie e calure, grandi emozioni e personaggi caratteristici. Si dedica saltuariamente alla pittura ed è amante della musica jazz che interpreta con la tromba. Vive tutt’ora nel paese di nascita dove lavora come dirigente in un’amministrazione pubblica. Ha ricevuto alcuni riconoscimenti letterari in ambito locale.

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Al tempo della paura di Egidio Braghini

La campagna era coperta da un mezzo metro di neve. Sembrava un paesaggio polare fatto da una distesa di ghiaccio su cui ci si poteva camminare sopra senza sprofondare. La luce della luna piena rifletteva sui cristalli della neve e illuminava, di una luce non sua, la notte di quel diciassette gennaio del 1945. Io avevo dodici anni appena e dormivo nel mezzo di un grande letto matrimoniale assieme alle due mie sorelle. Ero la più piccola delle tre e avevo la testa dove loro avevano i piedi. Il freddo era così intenso che entrava nella mia stanza, ghiacciando la condensa sulla parte interna dei vetri della finestra. Per scaldarmi mi coprii fin sopra le orecchie con le lenzuola che mi regalò mia nonna. Anche la grande e soffice trapunta, che era imbottita con le piume del pollame di casa nostra, era quella della nonna. Invece il mio materasso era quello che scartarono i miei genitori. Era imbottito con le foglie delle pannocchie di mais dei nostri campi. Quelle più grandi e più belle. Quelle che, secondo mio padre, contenevano più energia. La nostra era una famiglia di contadini e tutti i materassi in casa nostra erano fatti così. E dentro al mio sapevo che c’era nascosto un portafoglio nero. Era pieno di banconote che sarebbero servite solo in caso di estrema necessità. Così mi disse mia madre quando la sorpresi a nasconderlo. A quel tempo, io ero piccola e non conoscevo il valore dei soldi. Mi chiesi come mai mia madre avesse nascosto, tanto accuratamente, dei tovaglioli colorati. Assieme ai suoi abitanti, tutta la casa era addormentata. La luce della luna entrava con fatica dalle fessure degli scuri re-

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galando un’anima alla stanza. Il silenzio era rotto solamente dai nostri respiri. Quello di noi tre sorelle. All’improvviso fui svegliata da un rumore che non avevo mai sentito prima. Era inquietate e aumentava sempre più d’intensità con il passare dei secondi. Aprii gli occhi e rimasi ferma a guardare il soffitto di pietre rosse. Per la paura trattenni il respiro, provando una sensazione d’impotenza e d’incapacità a reagire per poter cambiare il corso degli eventi che stavano succedendo. In un primo momento pensai che il sibilo fosse dentro a un sogno. Invece no: faceva parte della crudele realtà di quell’epoca. Un’epoca in cui i bambini non credevano più nei loro giochi e gli adulti cambiarono il loro rapporto con la morte. Uno, due, tre o forse quattro secondi. Mi ricordo di non essere riuscita a contare un attimo di più. Poi lo scoppio. Come fosse fatta di gomma, la casa si spostò all’indietro per poi tornare su se stessa con un rumore di mattoni e coppi che andavano in frantumi. Scricchiolando, l’armadio urtò un paio di volte contro il muro. Lo specchio del comò cadde sul suo ripiano e non si frantumò solo perché, sopra, c’era una pila di maglioni ripiegati. Il mio letto sobbalzò un paio di volte e io sentii come una grossa mano invisibile schiacciarmi il petto. I vetri delle finestre si frantumarono cadendo a terra in tante schegge sottili. Senza più i vetri l’aria fresca della notte, con il suo odore di freddo e di libertà, mi colpì il viso. Giù in cortile Lillo e Nerino si spaventarono così tanto che, invece di abbaiare, si misero a ululare. E lo fecero così intensamente che non sembravano più due bastardini, ma due grossi lupi delle montagne. E pensare che quel giorno doveva essere speciale. Quella notte feci un bellissimo sogno che poteva solo essere di buon auspicio per il giorno dopo. Sognai che, dopo aver fatto un lunghissimo viaggio, un gruppo di girasoli, con la testa gialla e nera, arrivò nei nostri campi e decise di rimanerci. Poi, quella stessa mattina, sarei dovuta andare in chiesa al mio paese di Villarotta. Ci sarei andata con uno dei miei fratelli, seduta sulla canna della sua bicicletta, per la Comunione di una mia cugina che

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abitava in una piccola frazione del comune di Montagnana, in provincia di Mantova, e che non avevo mai conosciuto prima. Per tutta la notte fantasticai sul volto che avrebbe potuto avere. Un volto che speravo mi fosse già venuto a trovare dentro a un mio sogno. Anche se mia madre mi aveva sempre detto che non era possibile vedere in sogno un volto, se non lo si era già visto nel mondo reale. Dunque quel giorno doveva essere un giorno speciale e non sarebbe dovuto iniziare in quel modo. Subito dopo lo scoppio sentii mio padre chiamarmi per nome. Poi chiamò, ad uno ad uno, il nome dei miei due fratelli, quello di mio cugino e quelli delle mie due sorelle. La nostra era una famiglia che, in origine, era composta dai miei genitori, da tre figli maschi, da tre figlie femmine e da un bimbo di appena un anno. Era il figlio di mia sorella maggiore che viveva con noi perché il marito era in guerra. Ma, per via della sua età, il più grande dei miei fratelli fu obbligato ad arruolarsi e da quel giorno era passato così tanto tempo che io non ricordavo più com’era fatto il suo volto. Poi, quando ci fu la disfatta dell’esercito italiano, mio fratello fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento in Germania. Un fatto tristissimo, ma che poi finì con un lieto fine. Alla fine della guerra, dimagrito fino a pesare trentasei chili, ma vivo, il mio fratellone fu uno dei pochi sopravvissuti ai campi di sterminio tedeschi. Furono i Russi a liberalo, a curarlo per tre mesi e ad insegnargli la strada per poter tornare a casa. Dunque, poiché in famiglia mancava un figlio maschio, mio padre nascose, per tutto il tempo della guerra, un mio cugino che abitava a Reggiolo e che aveva l’età per poter essere arruolato. Aveva un’intelligenza brillante ed era bello, piccolo, magro e con il viso pulito e sbarbato. Non dimostrava gli anni che aveva veramente. Così fu facile farlo apparire uguale agli altri due figli che erano ancora troppo giovani per andare in guerra. I tedeschi e i fascisti vennero decine e decine di volte per controllare che gli uomini in età per la guerra fossero stati arruolati. Ma mio padre e mia mamma riuscirono sempre a far sì che mio

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cugino sembrasse un loro figlio quasi coetaneo degli altri due. Dunque, per tutto il tempo della guerra, la nostra famiglia era sempre stata composta dai due genitori, da tre maschi, da tre femmine e da un bambino piccolo. Nessuno di noi rimase ferito e tutti rispondemmo a mio padre che, con voce decisa, ci disse di rimanere fermi nei nostri letti e, per nessun motivo al mondo, di accendere la luce. Tutti sapevamo che quello che era successo era stato causato dallo scoppio di una bomba sganciata da Pippo. Era quello il nome con cui veniva chiamato un aereo americano che, ormai da mesi e solo di notte, volava sulle case della zona. E noi, Pippo, lo sentivamo ancora girare sulle nostre teste. Sicuramente cercava ancora qualche luce accesa per poter bombardare o mitragliare. Tutti sapevamo che sotto alla sua pancia ne aveva sempre due di bombe ed eravamo terrorizzati al sapere che ne aveva sganciata solo una. Per la paura mi rannicchiai sotto le coperte ad aspettare l’altro scoppio. Il volo di Pippo durò ancora per un quarto d’ora circa. Poi, senza sganciare la seconda bomba e senza sparare nessun colpo di mitraglia, andò via e tutti quanti noi ci precipitammo giù per le scale. In tutta la casa, per colpa di Pippo, da mesi non si accendeva più nessuna luce di notte. Dunque i gradini erano al buio e sopra c’erano le schegge dei vetri rotti della finestra del pianerottolo. Non li vedevo, ma li sentivo sotto ai piedi. Il cuore mi batteva come un tamburo e mi attaccai alla camicia di mio cugino, perché mi sentivo le gambe molli. Uno dei miei fratelli si lamentava di avere i pantaloni bagnati di pipì. Mia sorella di mezzo si sentiva svenire ed era sorretta dall’altro dei miei fratelli. Quello che aveva i pantaloni asciutti. Mia sorella maggiore a metà scala si ricordò di avere un figlio e tornò indietro per prenderlo. Nell’aria c’era uno strano odore di polvere di mattoni, di legno bagnato, di vetri frantumati e di paura. La nostra paura. La prima ad arrivare giù fu mia madre a cui, sulle scale, era toccato il compito di riportare la calma. Dietro di lei c’era mio

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padre e poi noi sei ragazzi. Mia madre aprì la porta, facendo scorrere il grosso catenaccio nero, e uscimmo tutti sotto il portico. Lì ci si vedeva molto bene. Le fessure delle assi, con cui erano fatti i portoni, lasciavano passare la luce della luna che rifletteva sui cristalli della neve. Dall’altra parte del portico c’era la porta aperta della stalla. Sulla soglia c’era Gina. Una ragazza di circa trent’anni, alta, mora e con i capelli raccolti in una lunga e corposa treccia. Era il capo di una pattuglia di partigiani composta da lei e quattro ragazzi che avevano tra i venti e venticinque anni. Almeno era quella l’età che ci dissero di avere. Quella sera i cinque cenarono, assieme ad altri venti partigiani, in una corte che distava cinque chilometri dalla nostra casa. Dopo cena si divisero in piccoli gruppi e presero direzioni diverse per trovare un riparo per la notte. Dovevano stare sempre all’erta perché c’era la paura che qualcuno facesse la spia, sui loro spostamenti, ai tedeschi o ai fascisti. Gina e la sua pattuglia arrivarono a casa nostra all’una dopo mezzanotte. Non volendo svegliarci entrarono dalla porta posteriore della stalla, che mio padre lasciava sempre aperta per loro, e si misero a dormire sulla paglia pulita. Era un posto che adoravano per via del caldo di quell’ambiente. Immediatamente Gina ci disse che né loro e né i nostri animali erano stati feriti. Poi, tutti insieme, entrammo nella stalla per renderci conto cosa fosse accaduto. I vetri dei finestrini erano rotti ed erano caduti nelle mangiatoie. Le mucche avevano uno sguardo perso ma tranquillo. Quasi come non si fossero spaventate. Con l’aiuto dei partigiani, le slegammo per poi legarle alle colonne della stalla, perché non mangiassero le schegge dei vetri. Invece, in fondo alla stalla e dentro alle loro gabbie, i conigli sembravano spaventati e andavano avanti e indietro come fossero su una giostra. Dentro al pollaio le galline erano in uno strano silenzio. Sembravano terrorizzate ed erano ammassate una sull’altra, come se ci fosse stata una volpe a fare loro la guardia. Appena fuori dalla stalla, dove il paesaggio e la quiete erano magici, c’era Alfio. Un uomo strano, ombroso, con il

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carattere di un orso. Era il nostro vicino di casa che, a quell’ora tarda, era in giro a verificare le sue trappole per le lepri che, la sera prima, aveva posizionato lungo i filari della nostra vigna. E lo aveva fatto inutilmente perché nessuna lepre c’era finita dentro. Alfio avrebbe dovuto inventarsi qualcos’altro per il pranzo e per la cena di quel giorno. Fu lui a dirci che a sganciare la bomba era stato Pippo. Anzi, in verità, l’aereo americano le sganciò tutte e due le bombe. Alfio era fuori e vide molto bene. Addirittura sentì il rumore del meccanismo mentre le sganciava. La nostra era l’ultima casa del comune di Villarotta. Era fatta con dei mattoni rossi e sembrava avesse una sua dignità. Era una casa pulita e libera dagli spiriti, perché benedetta ogni anno. Chi la costruì lo fece appoggiandola contro l’argine di un canale: la Fiuma. Era un canale nel quale scorreva l’acqua pulita e nel quale c’era una gran quantità di pesci: anguille, gobbi, carpe e lucci servivano per sfamare gran parte delle famiglie dei paesi confinanti. Addirittura, spesso c’erano dei pescatori che venivano fin dalla città di Reggio Emilia per pescare e a volte anche da più lontano. L’acqua era così pulita che, contro i muri delle chiaviche, spesso c’era la fila per poter lavare i panni e c’era da aspettare ore il proprio turno. Dall’altra parte del canale c’erano le valli di Novellara e di Reggiolo. Una vasta zona desolata che, soprattutto nelle tante giornate nebbiose, era un posto ideale per i partigiani. Ma questo i tedeschi lo sapevano molto bene. Passavano giornate e nottate intere nell’intento di capire il disegno degli intricati sentieri dei partigiani. A quell’ora tarda, sulla strada che veniva da Novellara e che passava sopra al canale grazie a un ponte in cemento, transitava un camion carico di tedeschi in perlustrazione. Quando l’autista sentì Pippo arrivare, spense le luci. E lo fece proprio nell’istante in cui era sul ponte. Poi, guidando solo al chiaro di luna, proseguì per la strada verso il paese di Villarotta. Quel pilota, vedendo il riflesso della luce della luna sull’acqua ghiacciata, forse scambiò il canale per una strada e,

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vedendo il camion che aveva spento le luci, forse pensò che, a fari spenti, l’automezzo avesse proseguito su quella strada. Sicuramente sganciò quelle bombe con l’intento di colpire e interrompere la via di fuga dell’automezzo e non per colpire la nostra casa. La prima bomba cadde una ventina di metri prima della nostra concimaia. L’altra passò sopra la nostra casa centrando la strada. Quella che vide il pilota. In questo modo, la bomba si piantò nella melma del canale senza esplodere. Dunque l’inquietante sibilo che mi spaventò non era della bomba che esplose, ma di quella che sorvolò il nostro tetto. Dietro casa nostra, per l’esplosione, si creò un cratere profondo un metro. Forse anche di più. Per un raggio di dieci metri la candida neve diventò nera come la pece. L’aria sembrava torbida e c’era uno strano odore di terra bruciata e di piselli, o di fagioli, andati a male. Prima di esplodere, la punta della bomba si piantò nella morbida terra che era stata bagnata dalle insistenti piogge e nevicate invernali. In questo modo, le sue micidiali schegge volarono via dal basso verso l’alto. I salici, alti non più di due metri, non subirono nessun danno. Stavano lì fermi e, come le mucche nella stalla, non sembravano neppure essersi spaventati. Invece le chiome di due olmi, che reggevano i primi filari della nostra vigna, furono maciullate. Erano alte anche dieci metri e non ebbero scampo. Tutti i rami delle chiome furono tagliuzzati dalle schegge durante la loro corsa. Assieme ai nidi delle cornacchie, tanti rami caddero a terra e tanti altri penzolavano, con la testa all’ingiù, appesi solo grazie alla sottilissima pellicina della corteccia. Dalla parte opposta dei campi, volando sopra alla concimaia che era sempre ben squadrata e pettinata, le schegge incontrarono la parte alta della nostra casa. Quella dove c’era il granaio. Terrorizzati ritornammo tutti verso la stalla per andare a vedere in granaio cosa fosse successo. Molte schegge oltrepassarono tutte le mura della casa, come fossero state fatte di carta, uscendo dalla parte opposta. E lo fecero con crudeltà. Senza pensare al male

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che avrebbero potuto fare alle persone che, dentro a quelle mura, si sentivano al sicuro dal resto del mondo. Altre schegge si conficcarono nei grossi travi di legno che sorreggevano il tetto. Ma la maggior parte di loro uscì dall’alto, frantumando moltissimi coppi e tavelle e facendoli cadere ovunque. Fu un disastro. E meno male che, nelle giornate precedenti, il sole sciolse la neve liberando il tetto. Ora, se fosse piovuto o nevicato, l’acqua o la neve sarebbero entrate ovunque, arrivando fino al pian terreno. I letti, le cassapanche, gli armadi, i tavoli, le panche e le madie per la farina e per il pane si sarebbero rovinati. I miei genitori sarebbero stati costretti a rivolgersi a Leo, un nostro cugino falegname, per poterli recuperare. Ma Leo, pur essendo di famiglia, non lavorò mai per noi gratuitamente. Anzi, si faceva sempre pagare anche profumatamente. Sicuramente, mia madre avrebbe dovuto scucire il mio materasso per tirare fuori i suoi tovaglioli colorati. Appesi al soffitto, a pertiche di legno di olmo, c’erano una ventina di salami che mio padre e Alfio fecero solo una settimana prima, macellando due maiali che, quando erano piccoli, io allattai. La loro mamma ne partorì talmente tanti e, dato che non aveva i capezzoli per poterli allattare tutti, Alfio ce li regalò. Tutti i salami furono maciullati dalle schegge della bomba americana. Parte della loro carne cadde a terra e parte fu portata dalle schegge contro il muro. Quel po’ di carne, che rimase appesa, era piena di calce e di polvere rossa, quella con cui erano fatte le pietre della nostra casa. A terra c’erano alcuni sacchi pieni di farina di frumento che furono anch’essi colpiti. Feriti pure loro. Dai tagli della tela dei sacchi uscì parecchia farina che scese fino al piano di sotto, passando dalle crepe del pavimento provocate dalle schegge. E pensare che, in tantissime occasioni, Gina e la sua pattuglia dormirono proprio appoggiati contro a quei sacchi di farina. Di solito arrivavano la sera tardi e se ne andavano la notte successiva. Quindi, mio padre preferì sempre che dormissero in granaio per paura delle pattuglie dei tedeschi o dei fascisti

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che a volte, al mattino, bussavano alla nostra porta di casa in cerca di uova, di pollame o di conigli. E così quel granaio fu trasformato in un rifugio per loro. Con tanto di tavola, lampade al petrolio e materassi riempiti con i cartocci secchi del granoturco e con delle foglie secche di olmo e di noce. C’erano anche alcuni recipienti per i bisogni fisiologici che, col buio e prima dell’alba, ogni componente del gruppo portava giù perché potessero essere svuotati e lavati. Dunque, quella sera, quei ragazzi non furono in soffitta solo per un puro caso. Arrivarono troppo tardi e, non volendo svegliarci, si fermarono nella stalla. E, in quel momento, io mi misi a piangere. Ero la più piccola dei miei fratelli e ne avevo tutto il diritto. Chiusi gli occhi e vidi i loro corpi insanguinati appoggiati ai sacchi di farina. Li vidi feriti a morte nel granaio di casa mia. Nel luogo in cui ero abituata a giocare con i miei fratelli. Con il dorso della mano mi asciugavo le lacrime e non smettevo più di piangere, perché pensavo agli eventi di quella sera che portarono a tutto quel disastro. Pensavo: “se solo quel giovane pilota americano avesse colpito la sua strada con tutte e due le bombe. Anche la prima si sarebbe piantata nel fango del canale senza esplodere. E se quei tedeschi, invece di andare a girare in camion e in piena notte, fossero rimasti al caldo vicino ad un camino acceso. E se solo non ci fosse stata la luna piena o ci fosse stata una nuvola che l’avesse nascosta. E se solo l’estate precedente non fosse stata così afosa ma più piovosa. Mio padre avrebbe potuto fare molto più fieno di quello che aveva fatto. Nel fienile, sopra alla stalla, invece di esserci solo un metro di fieno ce ne sarebbe stato molto di più. Forse uno spessore più alto di fieno avrebbe fermato le schegge della bomba”. Ma poi, da saggia e da grande mediatrice, mia madre mi fece capire che le cose sarebbero potute andare molto peggio. Se solo la prima bomba fosse caduta venti metri più avanti avrebbe colpito la casa e noi saremmo tutti morti. E se la terra fosse stata più dura, la bomba sarebbe esplosa più in superficie e le

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schegge sarebbero volate via con una traiettoria molto più bassa. Forse quella dei nostri letti. O quella della stalla con dentro i partigiani e i nostri animali. Dunque potevamo essere contenti di come andarono le cose. In fin dei conti solo i salami furono feriti a morte. Ma alla luce del giorno anche questa certezza ebbe vita breve. Nella notte ci preoccupammo di tutti gli animali che ci potevano dare sostentamento: mucche, galline e conigli, ad esempio. Nessuno si preoccupò di andare a vedere come stavano Lillo e Nerino. I nostri due cani. Solo verso le dieci di mattina, portando loro da mangiare, mia madre si accorse che mancava Lillo. Lo cercammo tutti assieme trovandolo, dieci minuti più tardi, riverso in un lago di sangue. Aveva una ferita al collo e morì dissanguato ai piedi del primo filare della nostra vigna. Lillo e Nerino dormivano, dentro a due cucce imbottite con del fieno, sotto al portico. Nel portone c’era un’apertura da dove potevano uscire e rientrare a loro piacere. Era stata fatta grazie a una vecchia camera d’aria di bicicletta inchiodata ad un’asse di legno. Le indagini dimostrarono che, nel momento dello scoppio della bomba, Lillo era fuori. Forse controllava e segnava il suo territorio. O forse sentì i passi di Alfio nella vigna. O forse sentì l’odore di una volpe. Sta di fatto che, le tracce di sangue sulla neve, portavano dritto sotto la finestra del granaio da dove, andando in frantumi, i vetri caddero sotto forma di schegge appuntite. In tutta la casa quella era l’unica finestra ad avere sempre gli scuri aperti perché mio padre aveva sempre avuto la strana convinzione che, con la luce della luna, i salami sarebbero invecchiati meglio. Dunque fu un pezzo di vetro rotto a ferire Lillo. Non una scheggia della bomba. E il suo ululare non fu un lamento di paura, ma un addio alla vita o un saluto alla morte. Nella settimana successiva, a casa nostra, ci fu un gran da fare. Tutti i contadini del vicinato vennero ad aiutarci e tutti avevamo un compito ben preciso. Il mio fu quello di mettere del nuovo stucco nei vetri nuovi delle finestre e di preparare una

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croce di legno per la tomba di Lillo. Furono portati via i vetri rotti, puliti i pavimenti e le pareti dalla carne dei salami. Fu tolto quello che rimaneva dei salami e furono pulite le pertiche che li reggevano. Fu recuperata la farina del frumento e messa in sacchi nuovi. Furono rimpiazzate le tavelle, i coppi rotti del tetto e chiuso i buchi nei muri provocati dal passaggio delle schegge. Fu un lavoro immenso e sempre col pericolo del tempo che poteva peggiorare all’improvviso. Senza l’aiuto dei nostri vicini di casa non c’è l’avremmo mai fatta. Furono degli angeli in piena regola. Angeli che, alla fine dei lavori, per paga portarono, ciascuno, un paio di salami per ripristinare la nostra scorta che era andata perduta. È questa una delle tante storie che mi racconta sempre mia madre. Quella della sua giovinezza vissuta al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Al tempo della paura.

Egidio Braghini è nato il 1 ottobre 1958 a Parma. È pensionato e vive con la moglie a Novellara (RE).

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Racconti selezionati per la pubblicazione



Il diario di Albert di Eros Teodori

Salendo le scale il passo pesante risuonò nell’androne del palazzo. “Buongiorno, sono August Scholl” levandosi la giacca. “Conoscevo suo padre, mi è dispiaciuto molto”. “Non ci parlavamo più da anni”. “Era molto malato, prima di morire ha dettato le sue memorie. Lei è l’unico erede”. “Non voglio niente, tutto sia dato in beneficienza”. “Il testamento comprende un diario e questa scatola”. “Può tenersi tutto ho detto!” “Lo legga almeno una volta e poi potrà farne ciò che vuole”. August prese il cappello, per un istante guardò il notaio negli occhi, si alzò dalla poltrona, mise il diario in tasca e la scatola sotto braccio. Il notaio lo fermò sulla soglia della porta: “Sig. August, la prego… suo padre è stato…” “Mio padre è stato molte cose” interrompendolo. “Siamo stati suoi alunni” ribadì il notaio. “È stato più facile che essere suo figlio, mi creda” andandosene senza girarsi. Il notaio corse fuori, sporse la testa verso il basso intravedendo solo la punta delle scarpe pestare con velocità i gradini della scala: “Sig. August! Sig. August! Non sempre la vita di un uomo si rivela con un solo racconto!” La macchina correva veloce. Le insegne pubblicitarie infestavano vecchi caseggiati. Le malinconie urbane avvolgevano August, ad ogni semaforo il suo sguardo si soffermava su fumi

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densi, vetrine accatastate, giardini anonimi. Multisala grondanti di manifesti luccicosi richiamavano spettatori e passanti curiosi. Catene d’abbigliamento orientali imponevano le loro marche a migranti d’ogni nazione, dovute dovizie sulle loro apparenze. Tutto sembrava appiattito, notò che anche i piccoli paesi della Baviera si erano uniformati al richiamo della globalizzazione, nessuna differenza, soliti negozi, dentro le birrerie turisti festanti imprimevano sul marciapiede poveri bagliori stillati di lacrime. Vicino alla vetrata di un Fast Food due ragazze giocavano con il ketchup delle patatine fritte lasciando intravedere le giovani gambe. Dietro di loro, una madre stava ripulendo la bocca del figlio dalla salsa grondante di un hamburger spezzato in due. Poco più avanti delle seggiole alla rinfusa attorno ad un tavolo di plastica ospitavano divoratori di kebab, in piedi, dietro al bancone, davanti alle loro bottigliette di birra d’importazione, avventori in ciabatte e telefonino in mano osservavano il lento roteare di uno spiedino di carne gigante. Fermatosi ad un passaggio a livello abbassò il finestrino per accendere una sigaretta, i fari abbaglianti di una macchina sopraggiunta lo accecavano con lo specchietto retrovisore, mentre cercava di abbassarlo scorse la scatola con sopra il diario dalla copertina rossa. August si rivide bambino, nella casa dalle grandi finestre. Poteva ancora sentire i grevi pensieri dei passanti rabbiosi che non riusciva a capire. Lacrime asperse portate a termine ad ogni respiro in quelle lunghe notti lontane dal loro primo abbraccio. Il passaggio del treno, come un sipario che si chiude, arrestò quelle immagini. Appena ripartito accostò in un parcheggio isolato, sciolse il nodo alla cravatta e allentò il collo della camicia. Per farsi luce si mise sotto un lampione, intorno al suo bagliore delle falene sottraevano il loro volo per scagliare le ali contro la lampada accesa. August alzò la testa, le fissò un istante e iniziò a leggere. Il freddo fece allungare la sciarpa sul bavero alzato del cappot-

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to, August osservava quelle montagne con attenzione, il crinale degli Appennini aveva interrotto improvvisamente ogni rumore, scenario maestoso. “Set un forester? Capesat l’italian?”1 chiese una vecchia portandogli il cestino del pane. “What? Talk in english?”2 rispose in un inglese scolastico. “Cosa ghet? Aspeta ca ciam men voda Rosa cla studié”3 ribatté. August riuscì a farsi ordinare dei tortelli d’erbetta invece dei soliti canederli proposti con il nome di knödel, come secondo lepre e capriolo definirono una doppia scelta che nei suoi pensieri ebbe la meglio sul bratwurst dove la carne bovina, di vitello e di suino si univano in un’unica salsiccia. Rosa non volle sentire ragioni sulla polenta di castagne quando si sentì chiedere dei sauerkraut, crauti per contorno. “Ma cosat drovat al cucer? Ien mia di caplet! A tze propria an croc!”4 passandogli la forchetta. “Tò nano, beva la scioma cat fa bom! Credom!”5 riempiendogli in bicchiere di vino. August con la forchetta mescolava la carne rossastra assaporandone la morbidezza, ogni tremore di freddo sparì all’istante. “Co spetat cal ventar buter ?”6 versandogli un secondo bicchiere. August non capì una parola di ciò che aveva detto la vecchia signora ma quella sorta di “dignità di montagna” espressa nei lineamenti del volto quando parlava, con la fragilità delle mani nel servire, nella fierezza dello scossale di lavoro legato ai fianchi non aveva avuto bisogno di traduzione. Alla fine del pranzo August non ordinò più niente ma gli por“Sei straniero? Capisci l’italiano?” “Che cosa? Parla in inglese?” 3 “Che cosa hai? Aspetta che chiamo mia nipote Rosa che ha studiato” 4 “Ma cosa usi il cucchiaio? Non sono dei cappelletti! Sei proprio un crucco!” 5 “Tieni caro, bevi la schiuma che ti fa bene! Credimi!” 6 “Cosa aspetti, che diventi burro?” 1 2

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tarono un bicchiere di grappa secca da bere tutto d’un sorso e il sapore delle castagne divenne dolce con la pattona. August riprese il cammino sorvegliato da alberi permanenti e infitti, sentinelle silenziose. La terra umida inzuppava le scarpe pesanti, foglie arricciate tra crepe tortuose. Quel bosco di castagno gli impediva di vedere l’alto cielo, una coltre di oscurità lo stava avvolgendo, il viaggio ora diveniva dolente espiazione di un male interiore che lo tormentava da anni. All’improvviso si fermò il suo ansimare al ricordo assente di parole, quando da ragazzo le sue menzogne lo laceravano quale una cuspide conficcata nelle mani: …partito per altopiani rocciosi, lasciata la mia inverdita pianura rinnovavo ogni giorno la bugia del ritorno. Tra quei sentieri di montagna il fiato della battaglia si fece purpureo, fragoroso il sapore della guerra. Sul finir del giorno ci fermammo nel paese di Tapignola, con il ventre pieno di sola paura entrammo nella piccola chiesetta con l’ordine di arrestare Pasquino Borghi, un valoroso prete di montagna che ha onorato il nome di battaglia “Albertario” aiutando dei disperati a sopravvivere dandogli riparo e cibo tra colpi di mitra e silenzi minacciosi. Insieme a dei militi italiani dal vestito nero marciammo su quella chiesa come fosse una piazza d’arme, profanando senza rispetto calici e paramenti liturgici. Bruciammo i banchi di preghiera e con essa i pochi quadri appesi, anche una via crucis intera: la tredicesima stazione dove Cristo muore sulla Croce riuscì a sottrarla a quell’indegno fuoco, la nascosi nel mio zaino. La troverai nella custodia blu. Quando sarai lì dirigiti verso l’abside e posala sotto l’altare. Poi percorrerai il vialetto antistante la chiesa con una candela in mano, davanti al cippo in pietra l’accenderai coprendo la fiamma con la mano destra, la poserai a fianco del mezzobusto di Don Pasquino Borghi che ne richiama l’imperitura memoria. Il 21 gennaio, giorno di S. Agnese vergine e martire, venne arrestato e nove giorni dopo, per Santa Martina vergine e martire anch’essa, venne fucilato insieme ad altri otto antifascisti. Il tempo della montagna ha un ritmo lento, il fiato di August si contorceva in una bocca corrotta di astiosi pensieri. Immagi-

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nava boati lontani lasciare nere sepolture dove insetti screziati ne scalfivano la carne imputridita. Sulla via sterrata avanzava colpevole, si fermò a metà di un piccolo ponte in pietra, mise le braccia sul parapetto, tirò un sospiro e guardò in basso: l’acqua del ruscello scorreva limpida tra ciuffi d’erba gelati, i sassi livellati dal suo scorrere testimoniavano la perseveranza del tempo, quel greto così solcato sembrava volesse parlargli. August corse alla fine del ponte, scivolò verso riva cercando di fermare l’acqua, voleva rimandarla alla sorgente, per tornare nel passato, a quel fatidico 1944, ma più la scuoteva e più le mani ne erano sovrastate facendolo ritornare al suo, e solo suo, presente. Allora raccolse le mani a scodella per berne un sorso: …era mattino molto presto quando la terza Compagnia della Divisione Hermann Goering ci chiamò a supporto per un’azione di rastrellamento a Cervarolo di Villa Minozzo. Prima di raggiungere il piccolo borgo entrammo in una casa sfondando la porta, salimmo le scale, due miei commilitoni con una raffica di mitra tolsero la vita ai nonni di una ragazzina dai capelli rossi che vidi correre giù lungo le scale. Chi era di sentinella sulla porta la fermò, la portò dentro e strattonandola per un braccio iniziò a urlargli in faccia: “Kartoffeln! Kartoffeln! Bier! Bier! Kartoffeln! Kartoffeln! Bier! Bier!”. La ragazzina non parlava, i suoi occhi erano così spaventati che non riuscivano neanche a piangere, per distrarlo corsi nella dispensa e presi del formaggio, “pranzano - reggiano” penso lo chiamassero. Ne presero un pezzo ma appena azzannato lo sputarono per terra! Mi mandarono fuori di sentinella e chiusero la porta. Sentivo la bambina urlare, rimasi fermo di guardia. In lontananza si sentirono degli spari, la porta della casa si spalancò improvvisamente e i tre uscirono di corsa dirigendosi verso la chiesa. Entrai nella casa, la ragazzina era svenuta ma viva, la rivestii e uscii verso il fiume nascondendola tra le fronde. Nell’astuccio nero troverai una spilla a forma di farfalla che raccolsi per terra dopo quell’orribile sfregio. Cercai di rientrare verso la chiesa, mentre correvo sentii raffiche di mitra, interminabili nei loro caricatori, sfondai il cordone formato dalla milizia fascista che osservava sghignazzando: sosterai tutto il giorno a piedi nudi presso quell’aia dove il massacro fu perpetuato, nel silenzio, come feci io

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durante lo stupro di una giovane ragazza. Incognite svelate d’immaginari reali, August oscillava nella brama di un padre che non riusciva a perdonare, ora nuove carte lo affliggevano con dura severità. Un cielo grigio intriso di perversione stava vestendo i suoi morti. Proprio dalla sua terra aveva germogliato il fiore ancestrale dell’odio, tra la polvere poteva sentire il suo rimbalzo incalzante: …sotto la lapide delle ventiquattro persone trucidate, poserai la spilla per farla divenire custode anonima di angeli partiti improvvisamente senza che nessuno li riconoscesse. Non paghi di quella mattanza diedero ordine al fuoco di nascondere ogni prova, incendiarono tutte le case, anche quella della ragazzina dai capelli rossi… non seppi più niente di lei, la sua immagine scomparve tra il fumo delle alte fiamme. Nella notte simulacri di uomini violenti tormentarono il sonno di August graffiandone la schiena. Abbandonato al dolore decise di non svegliarsi. La vergogna che gli apparteneva da troppo tempo come una lama scura gli stava accarezzando la gelida carne. Legami scrostati, segni tracotanti, squame decrepite abbandonate sulla sua pelle. August guardava fuori dal finestrino dell’autobus come se fosse al cinema, un continuo flashback sulla sua vita, pensava alla felicità provata dopo la maratona vinta tra i faggi e gli abeti della foresta bavarese che segnavano terreni in discesa e casolari in salita. Ricordava l’abbraccio del padre dopo il taglio del nastro dell’arrivo. Stava peregrinando in suo nome tra paesi che mai aveva sentito nominare, divenuti cartografia di morte violenta, atti indisciplinati ne avevano deturpato pesantemente il loro aspetto emozionale, natura civilizzata incatenata al palo della violenza dall’umana miseria. Con suo padre tutto era stato silenzio, parlava la storia per lui, le memorie di bambino felice si annebbiavano in quelle di studente arrabbiato. Perché “proprio a lui” s’interrogava ancora una volta: il significato dell’infamia gli si sfasciò davanti con

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mammelle calche di menzogne nella realtà silente del giorno dopo, e così ogni giorno, giorno dopo giorno. Pensava a quel martedì sera quando, seduto a tavola tra i vapori fumosi della cucina, chiese a suo padre di suicidarsi e alla madre in lacrime di scappare con lui ottenendo solamente il cambio del cognome prima di andarsene senza mai più tornare. Lungo quei viali di provincia August osservava fabbricati diroccati, monumenti sporcati dalle esalazioni dei gas delle automobili, strade costruite per persone che dovevano camminare, correre, pedalare, cavalcare e trainare carri ora sono dominate da una superbia meccanica frustrata per la loro velocità ridotta. Aziende agricole e campi da dissodare invasi dal cemento, dalla terra non più frutta e verdura, sostentamento dell’uomo ma traffici commerciali, cantieri abbandonati, officine chiuse. La desolazione aveva invaso quelle strade, lasciando i suoi abitanti nel bisogno di un aiuto che il pudore non permette di chiedere. All’improvviso una sirena accidiosa lo svegliò dai suoi pensieri, triste colonna sonora di un sogno infranto. Vedeva piccole croci con dei fiori, cicatrice di “qualcosa” che è successo, che “qualcosa” è avvenuto, che “qualcosa” bisogna ricordare: moderne pietre miliari con nomi, cognomi, date, invocazioni s’incontrano ora come si potevano incontrare in passato ma con parole diverse. August scese alla fermata di Sesso, di fronte scorse una grossa villa, passò la strada per fissarla con serietà, un cartello a fianco la identificava come Villa Tirelli Prampolini, sede di un comando nazista durante la guerra. Tutto stava per compiersi: …a pochi giorni dal Santo Natale avanzammo verso un paesino appena fuori città, la neve ci attanagliava gli stivali, ci dirigemmo verso una casa di contadini, mezzadri che chiunque cercasse un alito di libertà chiamava Manfredi. Il figlio Alfeo perse la vita tre giorni prima, poi su insistenza di fascisti locali credemmo ad altre imposture. Fui assegnato alla guida di un camion, condottiero infernale: Aldino, Gino e Guglielmo e il padre Virginio condussi in un locale abbandonato del paese per l’interrogatorio, tutti furono condannati e il 20 dicembre il loro corpo si ricondusse

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a quella terra che tanto avevano seminato e ora con il loro sangue stava nascendo un nuovo raccolto. August immaginava quella famiglia al pranzo di Natale dopo la veglia notturna della Vigilia e il ritorno dalla stalla. Il camino acceso, la brace ardente, seduti insieme, vestiti dalla “festa” con le loro camicie bianche, una divisa senza mostrine ma di pari valore, le mani grosse, callose, di chi fatica, di chi ha imparato un mestiere, prendere il cucchiaio e affondarlo nella scodella fumante del “bevr’in ven”, sentire salire la prima vampata e riscaldare le vene dal freddo scordato fuori dalla porta. Vedeva la madre “tirare su” i cappelletti dalla grande pentola stando attenta a non perdere nessuna goccia di quel brodo fumante. Cibo della mente, cibo del lavoro, cibo del ventre per non mendicare opinioni, per non mendicare diritti, per non mendicare pane. Finalmente si può mangiare carne e allora il cotechino viene tagliato a fette, la lama affonda sulla grassa carne per calare lentamente tra le piccole lenticchie… “porteranno soldi” urlerà il più giovane… dalla damigiana stillerà il frutto della vigna dietro casa per allegrare la festa… poi si accenderà la radio e il posacenere si annerirà tra le girandole di fumo di una discussione politica. Vassoi stracolmi di odio stavano scintillando da quando August aveva visto l’autobus andarsene per poter autenticare la sconcezza di azioni passate, aspiranti regnanti dall’armatura incrostata continuavano a saziare bocche viziate del loro succo corrotto: …colpevole ho falsificato la mia identità ingurgitando desideri altrui marciando insieme a schiere di appestati, i signori della guerra non sono mai sazi di vedere nei morti la soluzione delle loro leggi. Nel cofanetto verde troverai un libro sulla 77° Brigata S.A.P. “F.lli Manfredi” che restituisce l’onore delle loro azioni tra la via Emilia e il Po. Andrai a seppellirlo al Parco Martiri in un piccolo pezzo di terra fiorito sul lato sinistro del grande monumento come mostrato dal disegno che ho fatto sul piccolo foglio bianco. Passeggiando per Boretto August non incontrò Re e Regine

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ma giovani scolari che nel cortile di una scuola separavamo le loro corse cercando di eludere la fiacca stanchezza del divenire adulti. Li guardava rincorrersi tra le piante, immobile sul marciapiede attraverso la grata della recinzione. Quaderni arrotolati, matite affusolate, apparenze celate ai genitori astanti sulla soglia del cancello. Al di là dell’edificio d’inizio Novecento il grande argine protegge il paese dal poderoso passaggio della piena invernale del Grande Fiume. Ancora batte il tamburo tra le vie della gente, solennità militari risuonavano in quelle strade luttuose, trombe stordenti di conflitto, ricche fanfare d’ignobili gendarmi funerei. August prese alloggio all’Albergo del Po, dalla stanza il lento salire della nebbia dallo sciabordio dell’acqua lasciava intravedere i sassi consunti dell’opposta riva lombarda svelando il freddo passaggio di una draga da rimorchio. “Ich würde…”7 iniziò a chiedere. “Pian! Pian! Cà capés gnint”8 andando a prendere un vocabolario. “Volere mangiare pesce fiume” chiese indicandolo con il dito fuori dalla finestra. “Dal pesgàt alora! Agnom fin cat vò!”9 rispose l’oste entusiasta. “und… Lambrusco”10 guardandolo negli occhi. “Atze ton pies!”11 andandosene in cucina. August nell’attesa aprì il diario del padre: …erano da poco finiti i festeggiamenti del Capodanno che iniziammo il 1945 con un altro assassinio. Ogni notte, disteso sulla branda guardavo cianotico il soffitto volendo denunciare ogni colpa ma il giorno dopo, ogni dannato giorno “Vorrei…” “Piano! Piano! Non capisco niente” 9 “Del pescegatto allora! Ne abbiamo finché vuoi!” 10 “e… Lambrusco!” 11 “Così mi piaci!” 7 8

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dopo, falsificavo la mia identità ingurgitando le speranze delle vittime che vedevo passare sotto i miei occhi, percepivo l’odore della fame sui loro volti perché capivano che avrei abbassato lo sguardo sui loro strazi. La porta sbatté la prima volta: “To mò vè! Sent cl’erbason ché slé bon! A ghe dentra di erbi, d’lai, cigola, pan graté e dal gras ad nimal! Ciocia anche chi sigulini chi sciaman Borettane ma mé io mai vest in gir par Borèt!”12 Mi fu ordinato di circondare un casello ferroviario, il ragazzino “Nero” stava sorvegliando un prigioniero tedesco. I fascisti ci incoraggiavano alla cattura… La porta sbatté la prima volta: “Costi ien i rani freti e dla psola! Roba bona. In dal mar in ghen mia sicur! Ien mia chi cancar ad wuster ca mia uetar tedesch! Sent che roba, i san sfà in boca!”13 …da solo resistette ai nostri colpi, uno contro tutti, coricato sull’erba sperai in una sua fuga, le nostre mani erano sporche ormai da troppo tempo, corrose dalle urla. Crudele liturgia di ferro e bastoni. Non riuscendo a fermarlo obbligammo donne e bambini a farci da scudo umano. Sentimmo uno sparo… e poi il silenzio… all’interno della gelida stanza l’ostaggio vivo e una scritta sul muro “Perduto. Portate un fiore rosso”. La porta sbatté la terza volta: “E adesa par finir magna chi tri pesgàt che! Prova par piaser! Sat ni las lé un toc… intant me a perli e te at capes gnint!”14 Il far del giorno ci trovò diffamati e denigrati, un fascista entrò e buttò il suo corpo dalla finestra… ci aspetteranno come cadaveri dalle mani bruciate… la fuliggine dei campi spoglierà i nidi delle rondini. Non pranzerò al tavolo dell’onore perché ho inseguito il volto di un fallace proselitismo,

“Tieni! Senti se questo erbazzone è buono! Dentro ci sono biete, aglio, cipolla, pan grattato e del grasso di maiale! Mangia anche queste cipolline che si chiamano Borettane, ma io non le ho mai viste in giro per Boretto!” 13 “Queste sono rane fritte e questi dei pesciolini! Roba buona. In mare di sicuro non ci sono! Non sono quegli accidenti di wüster che mangiate voi tedeschi! Senti che roba, si sciolgono in bocca!” 14 “E adesso per finire mangia questi tre pescegatti! Prova per piacere! Se ne lasci un pezzo… intanto io parlo e tu non capisci niente!” 12

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i polsi sanguinanti attorcigliati ad una lunga corda mi ricorderanno il debito da offrire ad ognuno dei miei perseguitati. A piedi andrai a quel casello, al numero 23, costeggerai il canale… ti sciacquerai la bocca e le mani tra quelle acque rendendo l’onore delle armi a Felice Montanari, poi prenderai un fiore rosso, quello che ti piace di più, lo lascerai scorrere, un secondo lo deporrai davanti a quella porta che il cinque gennaio ha visto entrare un ragazzino e uscire un uomo valoroso. August lasciò la sua valigia nella camera d’albergo, prese solo il piccolo zaino e s’incamminò a piedi. Voleva sentire, passo dopo passo, la prostrazione dell’espiazione: …risalimmo la provincia fermandoci in una piazza davanti ad un’alta torre, nel portafogli marrone troverai dei soldi, trova una trattoria, paga da bere e da mangiare a tutte le persone che incontrerai per una settimana. Non scordarti di ordinare i ciccioli, piccole perle di grasso di maiale che rincuorano colui che è svilito dalle fatiche del giorno, il salame affettato con il coltello per benvenuto senza mai buttare la pelle, del prosciutto crudo leggero e morbido nella lunga fetta tagliata a mano, la coppa circolare nella sua forma estetica e la mortadella tagliata a cubetti. Fai friggere del gnocco fritto, “chisolen” il loro vero nome, per ammorbidire ogni boccone, e poi del coniglio rosolato e ancora una serie di bolliti per intiepidire coloro che si addentreranno a Bagnolo in Piano festeggiandoli con bottiglie di vino rosso… questa è la lista delle derrate alimentari che vilmente rubammo nelle dispense di quella povera gente caricandole sulle camionette, per una settimana lasciammo il paese alla fame. Era il giorno degli innamorati quando gli uomini della Brigata Nera di Reggio Emilia ci chiamarono per vendicare due bersaglieri legati alla Repubblica di Salò. La guerra era ormai persa, tutti lo sapevamo. Addestrati al dolore prima o poi il nostro aspetto sarebbe cambiato al cospetto dell’orrore creato. Dieci persone furono prelevate: “Spento”, “Dante”, “Eros”, “Gianni”, “Bucov”, “Ottaviano”, “Nino”, “Nilo”, ancora “Eros” e “Walter”. La prima luce ha dissolto nel freddo le carcasse dei loro fantasmi, sotto quella torre la lealtà è stata annientata dallo scettro della tirannide: …il viaggio non è ancora in finito, l’ultima tappa la raggiungerai nella città che è capoluogo di quella provincia, Regium Lepi-

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di l’avresti sentita chiamare se fossi vissuto al tempo della strada consolare Aemilia. Qui seguirai delle “pietre d’inciampo” e sopra di esse t’inginocchierai in silenzio ricordando la coscienza di quei giorni a cui l’uomo ha cancellato il proprio nome. Era ancora scuro quando arrivammo, di guardia alla Sinagoga durante “la caccia” mi spogliai della mia pelle, le vene si diradarono, i miei nervi si contorsero al cospetto delle loro grida. Trova i famigliari delle persone deportate che non sopravvissero, parla con loro e fai ciò che la mia vergogna ha sempre avuto angoscia di chiedere… chiedere scusa… scusa per la viltà di tutti questi anni, scusa perché quello che ho contribuito a fare potrà in futuro ancora essere emulato e osannato… confesserai ogni mia colpa, sventolerai con la verità i miei vessilli guastati dalla corruzione di una cieca obbedienza. La sigla RSHA del convoglio verso Auschwitz si rivelerà senza più poterla cancellare: in viale Montegrappa 18 conoscerai le sorelle Ada, Olga e Bice Corinaldi, in Via Emilia San Pietro 22 Benedetto Melli e la moglie Lina Jacchia, intercettati mentre cercavano di espatriare in Svizzera e rispediti in città. Il ghetto era in via Monzermone dove vennero arrestati il mobiliere Oreste Sinigalia e le sorelle Iole e Ilma, figlie di Beatrice Ravà in Rietti il cui amore non gli permise di abbandonare la madre destinata alla camera a gas, seguendola volontariamente nel tragico destino. Lucia Finzi, giovane donna inerme, venne arrestata a Correggio e imprigionata nelle carceri di San Tommaso. August cercò e ricercò, senza sosta, suonò il primo campanello, seguirono parole, poi ne suonò un altro e un altro ancora. “Lei è il figlio del Sig. Albert?” chiese una signora dai capelli lunghi. “Albert era mio padre” rispose August abbassando gli occhi. “Venga dentro il Rabbino vuole parlargli”. August entrò chiedendo permesso: “venga, si segga con noi… durante la cattura degli ebrei reggiani, suo padre prese per mano due ragazzine, pagò un ufficiale per toglierle dalla lista dei trasportati al campo di Fossoli, ferì mortalmente un espo-

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nente della milizia che lo aveva scoperto e poi entrò in una casa… quelle due bambine divennero ragazze e poi madri. Il 22 di ogni mese, il giorno della partenza degli arrestati per Auschwitz, arriva loro una lettera”. August uscì dal numero cinque di quella palazzina color giallo, lungo il viale la strada bagnata rifletteva i fari sprizzanti delle macchine. August si tolse il cappello, si sedette sui gradini e pianse.

Eros Teodori è nato l’11 marzo 1977 e da quarant’anni vive a Boretto (RE), terra di Bassa, cinta da lunghi argini con un leone alato come sentinella per i naviganti del grande fiume. Ha una Laurea in Conservazione dei Beni Culturali e si guadagna da vivere lavorando come impiegato. Scrive da sempre, prima in quaderni a righe ora digitando una tastiera. Nel 2009 ha pubblicato la sua prima poesia in occasione del concorso Che fai tu, luna, in ciel? del comune di Brendola, mentre due anni dopo il suo primo racconto in Mimetica Realtà espressione finale del Premio Coop for Words.

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La promessa di Ave Govi

“Se scamperò alla guerra, quando sarai cresciuta tornerò e ti sposerò”. “E allora mi dirai il tuo nome”. “Sì, allora te lo dirò. Per ora sono soltanto Gufo”. … Lei per tutti ora non era più la Linda, diminutivo di Ermelinda, ma la Pùta1, non zitella o signorina, semplicemente la Pùta, e non se ne risentiva. Perché avrebbe dovuto? Era stata una libera scelta la sua, che non rimpiangeva. Giunta ormai alla soglia della vecchiaia, unita al gruppo delle coetanee intente a sferruzzare con aghi e uncinetto sull’aia o sotto i porticati dei fienili, doveva sorbirsi quasi ogni giorno i mugugni e i crucci delle altre, riferiti a mariti, figli e nipoti, per non parlare delle nuore. Se a questo si potevano sommare gli inevitabili acciacchi dell’età, il quadro era completo, una costante ormai. Lei si limitava ad ascoltare, segretamente compiaciuta di non doversi unire al coro, il suo sogno ancora intatto e incontaminato riposto e conservato con cura nello scrigno segreto della memoria. “Sei fortunata Pùta. Tu non hai preoccupazioni”, se ne era uscita un giorno la Mariòta, reduce da un’accesa diatriba con la nuora avvenuta quel mattino, talmente aspri e alti i toni da trapelare 1

putta

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all’esterno pur con le finestre chiuse. “Beh, - aveva ribattuto la Giustina con aria maliziosamente canzonatoria - non ha poi mai neanche goduto quello che abbiamo goduto noi”. Ma quel giorno la Mariòta, ancora scossa dallo scontro con la nuora, l’unica convivente, non era proprio in vena di prestarsi a frizzi e battute ironiche. Anzi, compresa nel suo introverso malessere, mentre gli aghi da maglia s’incrociavano impazziti, si lasciò andare ad alcune amare considerazioni, rivolte più che altro a se stessa. “E chi sl’arcòrda e goodre! Sa pudisa tournar indree! Risga e rousga, a la fin t’armàgn soùl i groustin da mandàr gioù”.2 “Ma fàm e piasèr! Va là cat piasìva giùstrar souta al cùert. T’ha mis a e mound sèt fioo. Tliva mia ourdinaa e doutùr!”3 Alla Giustina non andava proprio di mollare. Sempre così quelle due, alleate su diversi fronti ma pronte a pungolarsi e contraddirsi a vicenda su altri con sadico piacere. Si assomigliavano, si compensavano, si cercavano e si demolivano benevolmente, pur di non spezzare quel sodalizio che le vedeva in prima linea ogni qualvolta in paese un qualche evento, funerali in primissimo piano, veniva a rompere la monotonia delle loro giornate. Le prefiche le avevano ormai qualificate, conosciute pure in paese limitrofi, sempre presenti alle esequie anche di perfetti sconosciuti, l’occhio fisso sui parenti stretti per poter osservare, e in seguito commentare, quanto e quali di questi esternavano con pianti e a volte urla il dolore per la perdita. Sovente, quasi ne fossero state contagiate, si univano teatralmente, traendone segreto piacere. Una dipartita era pur sempre una dolorosa circostanza, un viaggio senza ritorno. “E chi se lo ricorda il godere! Se potessi tornare indietro! Risica e rosica, alla fine ti rimangono solo i crostini da mandare giù”. 3 “Ma fammi il piacere! Va là che ti piaceva giostrare sotto alle coperte. Hai messo al mondo sette figli. Non te lo aveva ordinato il dottore!” 2

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Per contro, un comportamento composto e silenzioso, oltre che irrispettoso, veniva da esse etichettato come fonte di segreto sollievo e liberazione, oltraggio alla memoria del defunto. Soltanto la Tea, al colorito scambio di battute di quel giorno, se ne era rimasta in silenzio, limitandosi ad osservare di sfuggita le due amiche, troppo “comari” a suo modo di pensare e di agire, avvertendo imbarazzo per l’indelicato commento riferito alla Linda, che lei mai aveva osato chiamare Pùta. Una cosa sola poteva rimproverarsi: l’essersi più volte chiesta nel corso degli anni come mai, pur essendo stata a suo tempo una graziosa, più che appetibile ragazza, essa avesse sempre tenuto a distanza i tanti giovani del paese che senza esitazione l’avrebbero portata all’altare, scoraggiando sul nascere ogni loro approccio, isolandosi spesso dalla compagnia. Persino qualche malevola chiacchiera aveva suscitato questo suo incomprensibile e irreprensibile comportamento, scemato e accantonato nel corso degli anni. Ai commenti delle due irriducibili ficcanaso, lei, la Linda, con un’alzata di spalle e un sorrisetto, che a un occhio attento avrebbe potuto dirla lunga, aveva lasciato cadere nel vuoto la presunta provocazione e mai avrebbe rivelato a quelle due il suo meraviglioso segreto. Come avrebbero reagito se avesse detto loro di ritenersi a tutti gli effetti una “vedova di guerra”, fedele al ricordo del proprio amato? Avrebbero riso, l’avrebbero guardata come fosse improvvisamente uscita di senno o, con la morbosa curiosità che le contraddistingueva, l’avrebbero di getto subissata di domande? Quella definizione che avvertiva le appartenesse, l’aveva recepita molto presto, riferita in famiglia alla zia Zelinda, dopo la comunicazione del decesso avvenuto in Germania dello zio Mario. Ma alla Tea, realizzò a un tratto, alla paziente, taciturna, discreta Tea, avrebbe potuto, anzi dovuto, raccontarlo e il tempo che le restava davanti non era poi molto.

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Autunno 1944. Nella soffitta rischiarata appena da un minuscolo lucernario e dal debole lacrimare di candela, la bambina, otto anni da poco compiuti, seduta su un basso sgabello, fissava estatica il suo eroe adagiato su una branda, il saccone di foglie di granturco frusciante e scivoloso, due cuscini appoggiati al muro a mo’ di spalliera. Strisce di lenzuola gli avvolgevano il petto, una macchia appena rosata all’altezza delle costole, traccia di sangue ormai rinsecchito. Sulle spalle una vecchia giacca del padre di velluto a coste, tra di loro una sedia, il mazzo di carte napoletane disposte per una briscola. A tratti, nel tentativo di cambiare posizione o di risollevarsi, a lui sfuggiva un gemito, chiaro indizio che la ferita, o meglio le ferite, ancora gli dolevano. Sollecita, lei si protendeva con l’intento di aiutarlo, fermata da un gesto. “Devo farlo da solo. Sento meno male”. Pur essendo autunno inoltrato, quel tragico e indimenticabile autunno 1944, nella soffitta non s’avvertiva il freddo. L’ampia canna fumaria sfociante nel comignolo del camino, bastava a rendere l’ambiente asciutto e tiepido. Da giorni ormai, non frequentando più la scuola chiusa per motivi precauzionali, raggiunto con la scala a pioli il locale attraverso la botola posta nell’angolo del pianerottolo, lei non soltanto gli portava i viveri, ma passava interi pomeriggi a tenergli compagnia, supportata dalla certezza di riuscire in quel modo ad alleviargli la sofferenza. Eroina al pari di lui si sentiva, dopo averlo scorto ferito e gemente tra la sterpaglia che costeggiava il viottolo in prossimità del fiume, dove quel mattino la madre s’era recata a risciacquare il bucato. Con l’intento di raggiungerla, stava percorrendo quasi di corsa quel tratto tra la fitta boscaglia, arrestata di botto da un flebile, prolungato lamento, scambiato sulle prime per un verso di un qualche animale rintanato nel fossato. Al suo ripetersi però, intuito fosse ben altro, non senza batticuore aveva preso a scrutare

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tra il fogliame, scorgendo sul fondo della scarpata asciutta una figura scomposta e coperta di sangue. Quasi avesse le ali ai piedi, aveva raggiunto la madre trascinandola a forza presso il giovane ferito, rispedita senza indugio in paese a cercare aiuto. In quegli ultimi mesi di guerra, quella zona alle pendici del Prampa e del Cusna era diventata teatro di cruenti scontri e rappresaglie, le postazioni partigiane occultate tra gli anfratti dei calanchi, dove, sia pure in parallelo, la Brigata Garibaldi e le fila delle Fiamme Verdi quasi si contendevano il primato di riuscire ad ostacolare l’avanzata del nemico. Quel nemico ormai alle porte, favorito dalla complicità di persone del luogo, i cosiddetti fascisti, presenti un po’ ovunque pure nelle piccole borgate, temuti quanto conosciuti. Molti giovani provenienti dalla Bassa si erano aggregati alle squadre partigiane e non era raro che, specie di notte, qualcuno bussasse alle case chiedendo cibo, vestiario, a volte persino ospitalità sino al mattino. Anche quel giovane, si era presto appreso, era salito dalla pianura, incappato nella sentinella presso il ponte sul fiume Secchia, dove poco tempo dopo, precisamente l’otto gennaio 1945, sarebbe avvenuta la strage all’interno di Villa Marta, nella quale sette giovani partigiani sorpresi nel sonno, furono torturati e uccisi. Ciò era stato possibile dopo che i due di turno alla guardia, sorpresi alle spalle, erano stati fucilati. Nessuno di loro era del posto, tutti provenienti da varie località della Bassa. Un monumento, posto al margine del terrapieno già in territorio di Villa Minozzo, dà tuttora testimonianza del loro eroico sacrificio, nomi e volti impressi. Raccontò il giovane che, giunto al ponte in piena notte, non essendo in grado di rispondere al “Chi va là” dell’invisibile sentinella con alcuna parola d’ordine concordata, colto dal panico s’era tuffato tra la vegetazione che scendeva al greto, raggiunto

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però da una sventagliata di proiettili, due dei quali gli si erano conficcati tra le costole. Gemente e strisciante era in seguito riuscito a percorrere alcune centinaia di metri, accasciato infine, ormai stremato, nel fossato dove la bambina lo aveva trovato. Con una barella improvvisata era stato trasportato in paese, ripulito, medicato e infine nascosto nella soffitta, dove, sia pure lentamente, si andava ristabilendo. Le due pallottole tra le costole gli erano state estratte da un altro giovane partigiano, un pianzàn, uno della pianura, studente prossimo alla laurea in medicina, clandestino tra i calanchi, avvertito dalla staffetta che teneva i collegamenti. Sempre di notte, sfidando il pericolo, spesso tornava a visitarlo, anche se ormai la guarigione si prospettava certa. Al momento di decidere chi si sarebbe preso la responsabilità di ospitarlo, la famiglia della bambina, animata da vero spirito umanitario e patriottico, non aveva avuto esitazioni. In quel rifugio improvvisato vi era stata collocata la branda, un secchio con relativo coperchio posto nell’angolo per i bisogni fisiologici, un altro sempre pieno d’acqua, e quella premurosa e coraggiosa bambina che più volte al giorno saliva con cibo e notizie del conflitto racimolate dalle staffette. Una volta salita, la madre toglieva la scala, riponendola nel fienile, e il segnale convenuto per la ridiscesa, erano alcuni colpi assestati sul pavimento con lo sgabello. Era un bel giovane il ferito, biondo e con gli occhi azzurri, incline al sorriso, che nello sforzo sovente si tramutava in una smorfia di dolore. A volte lei, desiderosa di apprendere quanto più possibile, interrompeva la partita soffermandosi a fissarlo prima di porre domande. “Se non vuoi dirmi come ti chiami, dimmi almeno quanti anni hai” se ne era uscita un giorno. “Venti” aveva risposto lui, che a lei parvero tanti. “E… come si chiama il tuo paese?” “La Bàasa” aveva risposto senza esitazione, termine che a lei

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non risultava per niente chiaro. Dai discorsi dei grandi, era certa però di aver appreso come tanti partigiani non del luogo provenissero da quella località. Che fosse davvero così grande quel paese? Quanto lontano? “Dimmi com’è”, prese in seguito ad insistere, desiderosa di chiarirsi le idee. “Beh, ci sono le case ovviamente, tante case, distese di campi, canali e strade. Non abbiamo i monti e neppure i boschi di faggi e i castagneti come avete voi, ma abbiamo un grande fiume che puoi navigare con le barche come se fosse il mare. Hai mai visto il mare?” “Sì, l’ho visto una volta su una cartolina. C’erano tante vele e gente mezza nuda sdraiata sulla sabbia”. Lui aveva riso, dandole un buffetto su una guancia. “Quel grande fiume è il Po, l’avrai studiato a scuola”. L’aveva studiato eccome! Il fiume maggiore d’Italia. “Ma… i tuoi genitori sapranno che sei stato ferito?” “No e spero non lo vengano a sapere. Tra non molto sarò guarito e potrò raggiungere gli altri sulla montagna. Bang, bang! Non vedo l’ora di accoglierlo così il nemico”. A quell’affermazione lei s’era sentita rimescolare tutta, avvertendo persino d’arrossire nell’invocare in silenzio che la guarigione si protraesse sino a conflitto concluso, cosa che non avvenne. Salendo in soffitta il mattino dopo col cestino della colazione, lo trovò in piedi, vestito di tutto punto coi propri indumenti che la madre s’era premurata di lavare e rattoppare alla meglio gli squarci lasciati dalle pallottole. “Ve ne volete proprio andare?” aveva chiesto questa una volta scesi in cucina. “Sì e vi ringrazio per quanto avete fatto e soprattutto rischiato per me. E tu - aveva soggiunto dandole come sua abitudine un buffetto su una guancia, dove una lacrima aveva lasciato la scia ricorda quello che ti ho detto”. Dalla soglia lo avevano visto incamminarsi rapido verso la boscosa salita, inghiottito ben presto dalla fitta vegetazione.

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Non perse tempo la madre. Salita in soffitta, piegò la branda calandola attraverso la botola, gettò il paglione, rimosse i secchi, sollevò il lucernario per dar modo al locale di arearsi, cancellando così ogni traccia della permanenza del giovane partigiano. Propizia fu quella partenza. Appena il giorno dopo, uno squadrone nazista fece irruzione, perquisendo minuziosamente ogni casa dalle soffitte alle cantine, arraffando quanto poteva loro servire, distruggendo altro, lasciandosi infine alle spalle lo scempio dei saccheggi e principi d’incendi. Nei giorni seguenti lei avrebbe voluto chiedere alle staffette notizie di Gufo ma, temendo di poter essere derisa in merito a quel nome così buffo, subodorando uno scherzo, non ne aveva fatto niente. Soltanto tempo dopo aveva appreso che ogni partigiano si era scelto un nome di battaglia, nome in codice per poter comunicare tra i compagni, conservando e salvaguardando l’anonimato. Suo padre stesso, militante nelle fila della Brigata Garibaldi, si era a suo tempo distinto come Bruco. Ben vivo ancora nella popolazione il ricordo della terribile strage di Cervarolo, avvenuta mesi prima, pure le donne, i vecchi e i bambini, al culmine ora del conflitto, avevano abbandonato le case sfollando in massa verso ripari relativamente sicuri, spesso con al seguito animali da stalla, il latte prodotto dalle mucche e dalle pecore, preziosa fonte di sostentamento. Su carri traballanti trainati da buoi, vi avevano trovato posto, oltre a viveri e suppellettili, i vecchi e i bambini, accampati in seguito in profondi canaloni e grotte, luoghi impervi e raggiungibili soltanto per chi era del posto. Questo sino al tanto atteso annuncio della fine delle ostilità, le campane ridondanti a festa, sulla provinciale fila di combattenti smagriti e laceri, fucile in spalla, sbucare da ogni parte, accolti con abbracci e grida di giubilo dalla popolazione, intonanti canti di vittoria e di libertà. A Felina, su diversi mezzi corazzati abbandonati dal nemico in fuga, le armi comunque ancora pronte, si erano incolonnati ver-

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so la loro Bassa, il vessillo tricolore spiegato al vento, giungendo al tramonto nella loro amata Reggio finalmente liberata. Al seguito di altri, lei s’era portata sul ciglio della strada scrutando attenta ogni volto, ma del suo bellissimo eroe nessuna traccia. Si protrasse per qualche giorno il passaggio dei partigiani, quelli del luogo rientrati alle loro case, la quotidianità riassumere, sia pure lentamente, una parvenza di normalità. Da lì ebbe inizio la sua trepidante attesa. Quel “quando sarai cresciuta” divenne per lei un cruccio pressante, lo specchio l’interlocutore di ogni sua mal repressa impazienza. Osservando il seno turgido e pieno delle ragazze, accorta a non farsi scorgere dalla madre, quasi con imbarazzo e senso di colpa prese a stimolare i capezzoli, palpare la rotondità dei fianchi, assumere, sempre davanti allo specchio, pose adulte, inusuali in una ragazzina. “Cresci, cresci” impartiva ogni volta all’immagine riflessa, sollecitandone il lento fiorire. Non la sfiorò nell’immediato il dubbio che lui avrebbe potuto non mantenere la promessa, né che fosse perito come tanti nel corso dell’ultimo, cruento sprazzo del conflitto. Soltanto tempo dopo, con la maturità acquisita, prese a dubitare che fosse stato fatto prigioniero, portato in Germania e tuttora chiuso in qualche campo di concentramento, mai persa la speranza di vederlo un giorno tornare. In modo incerto e alquanto confuso avvertiva che, dal momento che gli aveva salvato la vita, lui le fosse non debitore ma stato assegnato dal destino. Attraverso domande poste a caso nonché sui libri di scuola, con una sorta di sgomento aveva appreso che La Bàasa non era un singolo paese, ma un territorio che s’estendeva per decine, forse centinaia di chilometri, ardua quanto il cercare un ago in un pagliaio un’eventuale ricerca. E a prescindere da questo, nella cultura radicata nell’ambiente nel quale stava crescendo, spettava sempre e comunque all’uomo prendere l’iniziativa. Cresciuta finalmente, senza farne parola con nessuno, aveva

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preso a perlustrare in lungo e in largo quell’impervia zona dove, in ricordo dei caduti, diversi cippi ai margini delle strade o tra la boscaglia, erano stati posti a testimonianza del loro sacrificio, a volte una semplice scritta graffiata con un chiodo su una pietra, una croce di ferro, ricerca risultata comunque vana. Dall’acerba bambina era scaturita in seguito una graziosa adolescente, da qui una procace giovane donna, il cui fiorire e lentamente sfiorire, nello stillicidio dell’attesa, l’aveva pian piano condotta, quasi per mano, sino alla soglia della vecchiaia.

Ave Govi‚ nata a Villaminozzo (RE) il 16 dicembre 1938. Pensionata quale dipendente del commercio, “scarabocchia” da sempre, da oltre vent’anni partecipa a concorsi collezionando una quarantina di premi, tra i quali 15 Primi Assoluti. Rispolverando l’ambiente contadino dal quale proviene, ha pubblicato una raccolta di poesie, Bachi e Zolle, in prevalenza testimonianze non più usuali. Tale libro ha conseguito il Terzo Premio Ignazio Silone nel giugno 2006 a Parma. Successivamente si è dedicata alla prosa con storie a carattere autobiografico. È stata due volte finalista al premio Liberetà con i libri L’ombra lunga del campanile (2013) e La zia Marianna (2016). Con il racconto di quest’anno ha aggiunto una nuova casella al mosaico de I putein dla montagna, racconto con cui vinse Bassa in Letteratura nel 2011.

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Quindici poi diciassette di Marcello Casarini

Il cielo e poi i coppi e di sotto inaspettati i libri ammonticchiati del nonno, rinfusa di carte e cartoline e santi e santini e riviste e piante e mappe e topografie e geografie sparpagliate di mari di oceani e sugli oceani polveri e tele di ragno oscillanti tra i monti e le valli e millepiedi sulle pupille devote dei santi e forbicine sul serpente calpestato dalla Vergine e pesciolini argentati tra i flutti di carta e la rivoltella nel muro nell’incavo del muro nascosta rugginosa e mangiata nel cane dalla terra dalla guerra dal tempo e dovunque i ceppi degli olmi strozzati dal morbo grafiosi estirpati e tagliati e l’uomo l’addetto alla sega ferito alla mano sanguina e sanguina medicandolo la mamma gli avvolge sulla ferita una garza e anche la legna è ferita e gli olmi tutta questa legna d’olmo dovunque in solaio fin dove c’è luce e anche oltre e ceppi e stanghetti rotolanti per via delle tope di notte e più in fondo la soglia mai valicata la stanza oscura segreta delle fascine le figure mute nascoste nel buio tra i muri senz’occhi le figure scendendo felpate i gradini sbeccati dal corridoio ristretto a infilarsi nei sonni ogni tanto qui a un piano più in basso al piano dei sogni, l’ignoto ultimo sogno del nonno al mattino disteso sul letto lavato vestito di nero una fascia stretta sul volto a tener chiusa la bocca dalle pareti gli ovali in cornice il bisnonno Antonio la bisnonna Adele a fissarlo a fissarci anche i papi sul muro e la libreria e il cassettone e il Ferrario in trenta volumi più due poi scoperto prezioso ma già dal babbo incautamente svenduto, il babbo non dorme sonni tranquilli la nonna ora è sola i debiti i figli e la mamma anche lei la malattia un dottore dice che non guarirà ma è in errore un altro la cura e guarisce, nella stanza da letto nel freddo la Becchi poi il lavabo più il

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letto il baule e il comò a poco prezzo comprati nel Cinquanta alle nozze poi il lettino per me i primi quattro anni di sogni il trasloco a far posto alla Teresa appena nata mentre dall’alto del letto la zia Cleonice sposandosi nel liberarsi di un letto mi spostano accanto ai fratelli letto più basso camera da letto a nord-ovest nell’armadio ammucchiati da una parte tanti numeri uno sull’altro l’amato Il Giornalino dall’altra i giornalini i fumetti Capitan Miki Blek l’Uomo Mascherato Mandrake Nembo Kid Tira e Molla Picchiarello Topolino L’Intrepido nella cassapanca un perenne ingovernabile disordine di fogli e segni e disegni e libri e libretti poi lenzuola e coperte nel comò nero di noce con i tarli mai stanchi, nei tre letti le lettiere poi tolte anch’esse svendute a lasciare il muro scoperto sui muri passando sostando ogni sorta d’insetti e insettini e ragni glabri o pelosi anche pendenti dai travi scrostati pendente al soffitto una lampadina dal piatto bucato e di sotto i bucalini nascosti prima vuoti poi pieni poi vuoti e di là due gradini più in basso lo zio Lamberto dormiente se è notte nella stanza chiusi a chiave i bauli i tanti misteriosi bauli d’olmo verniciati di nero aperti soltanto da Sergio ad ogni raro rientro a casa dalla Svizzera dov’è da anni emigrato e poi al mattino scendendo per primo le due rampe di scale Lamberto giù al pianoterra la sua colazione una scodella di caffelatte con pane raffermo affettato con la taglierina, la cucina non ha più la terra battuta ma nuove mattonelle rosse più da magazzino che da cucina e infatti impiccati al soffitto i salami in attesa e di sotto al posto del vecchio buffet della vecchia madia delle vecchie sedie in pavera tutto il nuovo del miracolo nazionale passando il cosiddetto miracolo anche dai contadini mezzadri perciò buffet Salvarani con piano lucidissimo in fòrmica lavatrice Zoppas frigo forse Indesit apparecchio tivù Siemens bianco e nero due canali tanto aspettato comprato e messo in posizione là dove prima riluceva il camino tutti attorno ugualmente seduti perdendo calore e colori, ora il fuoco è uno schermo è piccolo e pare discreto all’inizio ma invade e trasforma e non si va più dai vicini per guardare Verdi Gianburrasca Robinson per carnevale le Maschere o per vedere ascoltare sognare Una lacrima sul viso Non ho l’età e si

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va meno ai film dell’oratorio in vespa di sera i film vedendosi in casa il lunedì e il mercoledì Tyrone Power e Bergman ma anche i russi del disgelo e Cenere e diamanti e talvolta i vicini o un parente vengono loro da noi per il film e qualche volta si spegne anche la luce e siamo sempre siamo ancora in cucina sui muri due quadri di papi almeno finchè il nonno è vivo e il quadretto la copia d’un Cristo del Dolci e su due barre di ferro sporgenti sospesa la radio a onde lunghe una Siemens i fratelli ascoltando Bandiera gialla e Montecarlo e su Radio Luxemburg tutto il nuovo del beat e poi di là accanto al vecchio buffet col DDT nascosto lassù sul tettuccio il tavolino da scacchi zoppicante anche quello presto svenduto e una tavola nuovissima lucida in fòrmica è il tempo della fòrmica dopo l’opaco del legno la lucidissima fòrmica e sulla tavola il vaso fiorato comprato da Arnaldo al posto di quello di prima da lui rotto per urto casuale, Arnaldo che dalla montagna viene a moroso dalla Cleonice e come sappiamo la sposa ma il pianoterra prosegue più in là la cantina col vino le uova in calcina una volta persistendo una puzza si scopre è una topa che è morta su una trave poi appena fuori il portico in terra battuta anche qui miracoli e macchine la mungitrice per mungere il latte e Lorenzo giocando a nascondino tra i sacchi del grano a ferirsi la testa e poi di sopra strati di fieni ammassati calcati odorosi e dai tetti calanti pendenti tele di ragni già morti da tempo sulle tele polveri antiche e il muro spaccato uno spicchio di buco per il fieno che arriva dall’aia a mezzo d’un macchinario giraffa chiamato formìca dal quale una notte troppo tardi rientrando Giovanni ragazzo risale dalla terra al fienile e sotto al fienile appena di sotto ai fieni stipati di sotto la stalla e i conigli e le gabbie e nelle poste le vacche olandesi dai bei nomi leggeri volanti Bianca Bianchina Colomba leggeri i nomi ma pesanti le vacche ruminanti e piscianti e non solo e sui muri Sant’Antonio protettore e il maiale e sulle volte di stalla l’umido intenso il fiato di mucca genera macchie che sembrano solo uno sporco che sembrano un niente al guardare distratto ma invece stando accosciati al bisogno sui canaletti di scolo nella luce fioca serale a guardarle attentamente dal basso le macchie sono figure

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sono alberi e facce e animali e nuvole e mostri e corpi e poi scostando lo sguardo e di nuovo guardando ora i corpi sono alberi e gli alberi corpi e i volti città e le nuvole laghi e i laghi animali e gli animali mostri e gli uccelli pesci e i pesci uccelli e le piogge fuochi e gli abissi montagne e i mari cieli e i cieli inferni e i diavoli angeli e niente è davvero quel che appare... Nota dell’autore. In questo breve scritto, perennemente oscillante tra prosa e poesia, cerco di raccontare la casa colonica di Campagnola, dove con la mia famiglia ho vissuto dal ‘59 al ‘68, e provo a raccontarla come un corpo vivo e pulsante, partendo dal tetto per arrivare al pianoterra e alla stalla. All’inizio si parla di libri, riviste, mappe, santini: erano le cose del nonno, che, appena arrivati a Campagnola, non si sapeva dove mettere e che infine si era deciso di depositare in disordine nel sottotetto, il cosiddetto solaio, accanto ai mucchi della legna ottenuta dal taglio degli olmi, ormai decimati dalla malattia mortale, la grafiosi, che li aveva colpiti. Il finale invece si riferisce a quando, di sera, si andava, per i bisogni corporali, nella stalla, all’epoca le case contadine non avevano il bagno, e alle fantasie che scaturivano osservando i muri umidi e scrostati e le volte mentre si stava accosciati sul canaletto in attesa. Infine una spiegazione del titolo: al nostro arrivo la casa aveva il numero 15, alla nostra partenza l’avevano cambiato, era diventato il 17.

Marcello Casarini è nato nel 1957 a Correggio (RE), dove e vive e lavora. Noto più per l’attività di videomaker (ha realizzato, con Maria Rosa Davolio, videoclip, fiction, documentari e altro, tra i quali Le spiacevoli sorprese, Occhi sulla pianura, L’acqua e il vino), ha pubblicato occasionalmente su riviste di poesia. Nel 2014 ha partecipato a Fotografia Europea con La coda dell’occhio, una mostra di sue poesie e fotografie di Giorgio Mariotti, alla quale ha fatto seguito il recital per voce, violino e pianoforte, Le voci della coda.

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La signorina Merli di Werther Bedogni

“Miranda! - sbraitò Luisa alla figlia adolescente intenta ad addobbare l’albero di Natale - J’ó fât i turtlèin cun al savurètt, pörten dü a la Signorina Merli, và là...” 1 Non si parlava alcun’altra lingua fuorché il dialetto, in casa Immovilli. Persino Miranda, che a scuola si sforzava di imparare un italiano perfetto, quando poi tornava a casa era costretta a cambiare codice linguistico al fine di farsi comprendere... Nessun’altra lingua fuorché il dialetto, ad eccezione di quando si menzionava il nome della Signorina Merli. Allora subentravano una sorta di reverenziale rispetto e di ossequiosa soggezione che, per quanto affettati, spingevano tutti i membri della famiglia a sforzarsi affinché almeno quelle poche sillabe che ne componevano il nome non venissero in alcun modo storpiate dal rozzo accento del vernacolo. Miranda alzò gli occhi al cielo e sbuffò: “Pròpria adèss ch’é gh’ó da fêr l’èlber?2 Ma la madre si fece seria e perentoria e, in un sussurro, la riprese severamente: “Fât sintîr a lamintêret, cojòuna ch’é’n t’é êter! Guèrda ch’al fâgh pr’al tó bèin, vèh? E còsta l’é la ricompèinsa...”3

“Ho fatto i tortellini con il savoretto, portane due alla Signorina Merli, va là...” 2 “Proprio ora che devo addobbare l’albero?” 3 “Fatti sentire a lamentarti, sciocca che non sei altro! Guarda che lo faccio per il tuo bene, sai? E questa è la ricompensa...” 1

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“Mó ‘sa vöt ch’la sèinta la Signorina Merli ch’l’é sörda cmé ‘na campâna e mèza rimbambìda? E pó, mâma chêvet cèrti idèi da la tèsta... mó secònd té per dü turtlèin al savurètt, vöt ch’la làsa pròpria a mé l’ereditè? A mé ch’é sun söl la fjöla anonima d’j só zvinânt, a mé ch’é’n la pôs vèder, a mé che per lée é’n sun ninsün?”4 si ribellò la ragazza. Ma Luisa non intese ragioni: “S’é’t vèe avânti ‘n êter po’ é’t môl dü smaflòun!”5 poi, con un tono più calmo e persuasivo, la incoraggiò: “Mó capéset mia ch’la gh’a novant-e-sètt ân e gnân ‘n erede? Mó gh’la chèvet pròpria mia a fêr dü cünt in sàca a la ginta per fêr i tó interèsi? Crèdet förse ch’la’s pôrta adrée int la tòmba al só vilòun, i só càmp e la só risaia?”6 “Tzé, tzé... - obiettò la ragazza - ‘Na risaia ch’la’n rènd gnînto... Màma t’é armêsa indrée, vèh? Jn mia pió i tèimp dal mundèini! Adèss é sôm int l’éra modèrna e la ginta la va a cumprêr al rìz ch’al vìn da l’America o chisà d’indóve...”7 disse Miranda, mentre cercava di sgarbugliare il filo delle luminarie natalizie. “Mó da chi é’t ciapè per êser acsé nèssia? - si infuriò Luisa - La signorina Merli l’é pina ed sòld, l’é póta, sèinsa eredi, vècia e la gh’a un vilòun da paura... ‘sa vöt ch’é sia per lée lasêret anca söl la caslèina d’j custodi? Però té t’aré bèle vìnt un tèrn al Lôt, chêra la mé Miranda. E’t gh’é la fortuna a purtèda ‘d mân e té t’égh dèe un

“Ma cosa vuoi che senta la Signorina Merli che è sorda come una campana e mezza rincitrullita? E poi, mamma togliti certe idee dalla testa... ma secondo te per due tortellini al savoretto, vuoi che lasci proprio a me l’eredità? A me che sono solo l’anonima figlia dei suoi vicini di casa, a me che non la posso vedere, a me che per lei non sono nessuno?” 5 “Se insisti un altro po’ ti do due schiaffi!” 6 “Ma non capisci che ha novantasette anni e neanche un erede? Ma non riesci proprio a fare due conti in tasca alla gente per fare i tuoi interessi? Credi forse che porti con sé nella tomba la sua villa, i suoi campi e la sua risaia?” 7 “Una risaia che non rende nulla... Mamma sei rimasta indietro, sai? Non sono più i tempi delle mondine! Adesso siamo nell’era moderna e la gente va a comprare il riso che proviene dall’America o chissà da dove…” 4

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chèls... Va là ch’é t’é fürba... ‘Na volpe!”8 e, risentita, Luisa tornò in cucina per aprire le finestre e arieggiare quella stanza che odorava di fritto. Miranda la raggiunse. Sapeva che quando sua madre si incaponiva su un’idea non c’era verso di farla ragionare: ella si incupiva, mossa dalla sua singolare permalosità ed era capace di non rivolgerle più la parola per giorni e fra una settimana si sarebbe celebrato il Natale... “Dai, mâma dâm i turtlèin... égh vâgh!”9 sbottò, rassegnata, la fanciulla. Gli occhi di Luisa si accesero di luce come due stelle comete. Estrasse da un cassetto un vassoio di cartone, vi ripose i tortellini, avvolse il tutto in una carta dorata e sigillò il pacchetto con un nastro rosso. Contemplò poi la sua opera e chiese alla figlia: “Al fa la só figüra, ahn?”10 Miranda annuì con affettata meraviglia. Luisa allora le porse l’involucro: “Và. - le disse - E, é m’arcmând, sii ruffiâna!”11 Pochi passi separavano la modesta abitazione della famiglia Immovilli dal fastoso villone della signorina Merli. Miranda li percorse di malavoglia, trascinando i piedi sulla terra fangosa del tratturo. Giunta in prossimità della cancellata, suonò il campanello. Una finestra si spalancò nella casa dei custodi e si affacciò Enza, la governante. La signorina Merli ospitava Enza e il marito di questa nel villino,

“Ma da chi hai preso per essere tanto stupida? La signorina Merli è piena di soldi, è zitella, anziana e ha una villa da paura... cosa vuoi che sia per lei lasciarti anche solo la casetta dei custodi? Però avresti già vinto un terno al Lotto, cara la mia Miranda. Hai la fortuna a portata di mano e tu le dai un calcio... Va là che sei furba... Una volpe!” 9 “Dai, mamma dammi i tortellini... ci vado!” 10 “Fa bella figura, vero?” 11 “Vai. E, mi raccomando, sii ruffiana!” 8

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offrendo loro vitto e alloggio in cambio della loro continua assistenza. Erano proprio loro a condurla a Messa ogni domenica, a Boretto; loro a coltivare il magnifico giardino che circondava la villa... Quanto ai campi, ormai erano incolti da anni: troppo lavoro per le braccia, ormai attempate, di Enza e di Prospero. La governante chiese a Miranda il motivo della sua visita. “Mia mamma ha cucinato i tortellini di Natale. - spiegò la ragazza - Ne ho portato alcuni alla signorina Merli. Se non disturbo...” Enza indugiò un attimo, come ad assemblare le idee, per ricordare se la sua padrona non avesse altri appuntamenti per quel pomeriggio. Infine esordì: “La signorina sta attendendo la visita del parroco. Ma se non ti attarderai a lungo... entra, ti accompagno!” Le due percorsero il vialetto costeggiato da bordure di bosso, dalle bacche color amaranto: “Che bella siepe! - esclamò Miranda - Così ordinata! Sembra quasi … scolpita!” “Frutto del lavoro di mio marito Prospero... - si inorgoglì la donna - È lui il giardiniere!” La ragazza inarcò le sopracciglia: “Tanto lavoro per una vecchia zitella che da un momento all’altro tira le cuoia e magari, da quell’istante, Enza e Prospero, i fedeli custodi di sempre, si ritrovano sfrattati, in mezzo alla strada...” rifletté e, subito, ricacciò quei pensieri nel timore di lasciarli trapelare. Enza avanzò verso uno scalone fiancheggiato da statue marmoree. “Accidenti! - pensò Miranda - Un museo!” Infine la governante fece cenno alla fanciulla di arrestarsi lì e aprì una porta. Miranda udì una vocetta tremula, ma impertinente, che ordinava: “E falla entrare, no?” Al che Enza invitò Miranda a presentarsi al cospetto della signorina Domenica Merli. “Chi sei?” domandò l’anziana.

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“Vàca mó s’l’é rimbambida...”12 pensò Miranda, rivisitando tutte le volte che, la domenica, a Messa, sua madre la costringeva a percorrere tutta la navata per porgerle il segno della pace e poi, finita la funzione, non passava giorno di festa senza le solite smancerie di rito: “Ma signorina Merli, com’ é in gamba, lei! Ma complimenti! La trovo in splendida forma!” Miranda pensò addirittura che quella domanda caduta così, dall’alto, non fosse altro che un modo subdolo per sminuirla e per accentuare la superiorità di quella donna che le parlava dal pulpito del suo sontuoso maniero. Tuttavia, non raccolse la provocazione: “Sono Miranda, signorina... non si ricorda di me? Ci vediamo ogni domenica a Messa. Miranda Immovilli: la figlia dei vicini!” e, così dicendo, la giovane lasciò cadere lo sguardo sulle mani increspate dell’anziana, intente a tessere una preziosa trina all’uncinetto. “Sta confezionando un centrino?” le chiese incuriosita. Sbalordita da tanta impertinenza, la vecchia la fissò e, a denti stretti, replicò: “Una presina”. All’improvviso, Miranda si sovvenne delle raccomandazioni di sua madre e, in uno slancio enfatico, esclamò tutto d’un fiato: “Ma che bella! È meravigliosa, anzi di più, fantastica! Ma lo sa, signorina Merli, che lei ha due mani di fata? Non ho mai visto nulla di più...” Un battito di nocche sull’anta della porta pose fine a quella commedia. Enza entrò per annunciare la visita di Don Gustavo. “Allora io vado” azzardò timidamente Miranda, porgendo alla signorina Merli il vassoio di tortellini. “Ma no, cara ragazza! - intervenne il sacerdote - Rimani anche tu... Del resto alla signorina Domenica fa piacere un po’ di compagnia, 12

“Accidenti com’è rincoglionita…”

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nevvero?” L’anziana gli lanciò un’occhiata bieca. “Allora? - proseguì il parroco - Che ci racconta di bello, signorina Merli?” “Don Gustavo, - inquisì l’anziana - mi hai portato l’Eucarestia?” “Ma certo. - replicò l’uomo di chiesa - Vogliamo prostrarci in un attimo di raccoglimento? Corpus Christi...” “Amen...” Seguì un lungo silenzio, che a Miranda parve interminabile. Poi, un sibilo rauco che pareva provenire dalle viscere della terra lo infranse: “Ah, Don Gustavo: studente modello!” “Lo ricorda ancora, signorina Merli?” il prete la invitò a proseguire. “Già... eri nella scuola di cui io ero la preside. Eri un bambino molto intelligente! Perspicace! Ricordo ancora quel tuo tema...” la signorina Merli parlava con aria sognante. “Quale tema?” si incuriosì il parroco. “Quello sulla luna, non ricordi? Tutti i tuoi compagni scrissero che la luna è gialla... solo tu, tu solo, caro Gustavo, scrivesti che, invece, essa è verde! Avevi, sin da allora, uno spiccato senso di osservazione; un’intelligenza creativa per la quale ti staccavi dal gregge delle idee comuni per affermare la tua singolarità... La maestra, quell’incompetente, ebbe il coraggio di correggerti: di ricondurti alla visione della massa. Tracciò un segno rosso e scrisse: la luna è gialla! La feci licenziare...” Don Gustavo ascoltava senza batter ciglio. Miranda inorridiva. Per celare il suo disgusto fissava le maglie di quel lavoro ad uncinetto, tra le mani della signorina Merli: le maglie di quella presina di colore giallo... Quando finalmente riuscì a riprendersi dallo sconcerto e ad articolare i suoni, esordì: “Si è fatto tardi... devo rincasare! Complimenti ancora, signorina Merli, per la sua splendida presina... verde!”

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“Alóra?!”13 chiese Luisa alla figlia, con trepidante euforia. “Alóra la signorina Merli adèss ch’l’é vècia l’é rimbambìda... Però anca da zóvna l’é sèimper stèda ‘na câncra! - replicò Miranda senza giri di parole - Adéss é s’é spiéga perchè, bèin ch’la fósa pìna ed sòld, l’é armèsa póta! Perchè l’é mâta!”14 Luisa trascolorò: “Mó fêret gnân sintîr a dìr cèrt lavör!”15 e, rimproverando la figlia, la donna corse verso la finestra, come ad assicurarsi che nella villa dirimpetto non vi fossero orecchie indiscrete a spiare quell’audace commento: “T’é dèe ed vôlta al servèll?”16 inveì verso la ragazza. “Mâma - proseguì comunque Miranda - e’t vòj fêr ‘na dmànda cumplichèda... Ócio a còll ch’é’t rispònd, ahn?”17 “Mó dài, Miranda... t’al sèe ch’j’ó mia studièe!”18 tergiversò la donna. “Mó l’é ‘na dmànda indóve é’n gh’é mia bisògn d’avèir studiè! Ed che colör éla la luna?”19 Luisa trasecolò: “Ahn? Mó é’t nèssia?”20 “Bèin, sintôm la rispòsta!”21 proseguì Miranda mettendosi sull’attenti. Nonostante la semplicità del quesito, Luisa si sentiva terribilmente in imbarazzo; quasi percepisse che esso nascondeva un traboc-

“Allora?!” “Allora la signorina Merli ora che è anziana è rincoglionita... Però anche da giovane è sempre stata una carogna! Adesso si spiega perchè, nonostante fosse ricca, è rimasta zitella! Perchè è pazza!” 15 “Ma non farti neanche sentire a dire certe cose!” 16 “Ti è dato di volta il cervello?” 17 “Mamma, voglio porti un quesito difficile... Occhio a quello che rispondi, eh?” 18 “Ma dai, Miranda... lo sai che non ho studiato!” 19 “Ma si tratta di una domanda dove non c’è bisogno di studio! Di che colore è la luna?” 20 “Cosa? Ma vuoi scherzare?” 21 “Beh, sentiamo la risposta!” 13 14

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chetto. Però, d’altro canto, sapeva quanto quel colore fosse una verità inconfutabile, quasi una sorta di dogma, così rispose: “Mó l’é zâla, perbàco!”22 “Ecco! - esclamò Miranda - T’é licensièda!”23 e da lì partì il suo racconto relativo alle parole della signorina Merli:“T’é’t rènd cünt, mâma? L’éra la preside e l’a fât licensiêr la mèistra perchè Don Gustavo l’jva scrétt che la luna l’é vèirda e lée, la mèistra, la gh’a tirè un rìgh ròss e la gh’a scrétt ch’l’é zâla!”24 Luisa inarcò le sopracciglia e, d’istinto, corse verso la finestra e alzò gli occhi al cielo. A quel cielo serenissimo dove la luna dorata rifulgeva con tutta la sua luce gialla... “Fa gnìnto, Miranda. - commentò Luisa - Té badêregh mia! La signorina Merli la gh’a novant-e-sètt ân... l’é cèra che l’a’n gh’é pió cun la tèsta!”25 “Sé, mâma. Mó lée la parlèva ed trèinta... forse ed quarânt’ân fa, vèh? E pó, anca Don Gustavo...”26 “Eh, ‘sa gh’èintra al prêt?”27 obiettò Luisa. “Mó l’é zò ‘d tèsta anca ló, perdiana! La luna vèirda... a méno ch’é’n gh’abién piantè l’èrba i marsiân!”28 rise divertita la fanciulla. “Vêdet, Miranda? Té t’é’n gh’la chêv mia a êser diplomàtica e acsé é’t pêrd ed vésta l’obietìv... Mó dâgh ragiòun, no? ‘Sa t’imbaràsa a

“Ma è gialla, perbacco!” “Sei licenziata!” 24 “Ti rendi conto, mamma? Era la preside e ha fatto licenziare la maestra perché Don Gustavo aveva scritto che la luna è verde e lei, la maestra, ha sottolineato la parola con la biro rossa e ci ha scritto che è gialla!” 25 “Non fa niente, Miranda. Tu non farci caso! La signorina Merli ha novantasette anni... è chiaro che non ci sia più con la testa!” 26 “Sì, mamma. Ma lei si riferiva a trenta... forse a quaranta anni fa, sai? E poi, anche Don Gustavo...” 27 “Eh, cosa c’entra il prete?” 28 “Ma è fuori di testa anche lui, perdiana! La luna verde... a meno che non vi abbiano piantato l’erba i marziani!” 22 23

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té ed che colör l’é la luna quànd té t’é in séma a la tèra?”29 Luisa percorse con lo sguardo il profilo della figlia e proseguì: “Mó a’m sa ch’é’t gh’àbi mia tànt i pée per tèra, vèh?”30 “Eh, adèss l’é colpa mia, sta mó a vêder!”31 si inalberò la ragazza. Luisa inspirò profondamente, escogitando un’idea che servisse a dare l’impressione di cambiare il discorso senza, invece, scostarsi di un millimetro dai suoi intenti: “Ormai l’é Nadêl. - disse - ‘S’a’t piasré cmé regâl?”32 Miranda sorrise e, assumendo un’aria dolcissima, in netto contrasto con il suo umore di solo un attimo prima, irruppe: “T’al sèe ch’a’m piasré tânt un gatèin nìgher!”33 e, immediatamente, un brivido la scosse nel ricordo di quella luna alternativa di Don Gustavo e così precisò: “Nìgher nìgher, ahn? D’un nìgher universêl!”34 Luisa la ascoltò con pazienza, poi, in un sussurro, ribatté: “Anca mé é gh’aré un desidèri...”35 “Dabòun, mâma? Próva a dìr!”36 “A’m piasré tânt al vilìn d’j custodi, Miranda! E’ sôm sèimper stè puvrètt e adèss cun un po’ ed tatica, é prén dvintêr ‘d j sgnör...”37 Luisa sognava ad occhi aperti e sorrideva. “Va bèin, mâma... mêtomes d’impègn, mó a’m sa ‘na batàglia pèrsa in partèinsa...”38 disse Miranda abbracciando teneramente sua “Vedi, Miranda? Tu non riesci ad essere diplomatica e così facendo perdi di vista l’obiettivo... Ma dai loro ragione, no? Cosa ti importa del colore della luna quando tu stai sulla terra?” 30 “Ma non mi sembra che tu abbia tanto i piedi per terra, sai?” 31 “Eh, adesso sta a vedere che è colpa mia!” 32 “Ormai è Natale. Cosa ti piacerebbe come regalo?” 33 “Lo sai che mi piacerebbe tanto un gattino nero!” 34 “Nero nero, eh? Di un nero universale!” 35 “Anch’io avrei un desiderio...” 36 “Davvero, mamma? Dillo!” 37 “Mi piacerebbe tanto il villino dei custodi, Miranda! Siamo sempre stati poveri ed ora, con un po’ di tattica, potremmo diventare ricchi…” 38 “Va bene, mamma... mettiamoci d’impegno, ma mi sembra una battaglia persa in partenza...” 29

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madre... E così giunse Natale e Miranda, sotto l’albero, trovò il dono tanto desiderato: da un cestino di vimini spuntava un simpatico musetto nero. “Al gatèin ch’j’ ó sèimper desiderè! Grâsia, mâma! Mó s’l’é carèin... guèrda che musìn!”39 e, presa dall’entusiasmo, Miranda abbracciava quel batuffolo nero grosso quanto una pallina da tennis: “Furia... sé, sé, a’t mètt a nôm Furia: nìgher cmé al cavàll del west!”40 Alzò gli occhi all’improvviso e vide Luisa lì, sulla soglia, con borsa e cappotto, pronta per uscire: “Dai, adèss mètt zò al gât ch’é gh’ ôm da andêr a Mèsa! - la incalzò - Incóo l’é Nadêl e... é m’arcmând ahn? E Buon Natale, signorina Merli e bèle ch’agh sôm anca Bòun An... e via discorènd... Capì? Ruffiana! Ansi, incóo ch’l’é Nadêl dòu vôlti pió ruffiana!”41 La ragazza indossò il cappotto della festa mentre la madre la attendeva già sotto il portico, davanti a casa. La porta era spalancata e Miranda non si accorse che, quando la richiuse alle sue spalle, una piccola creatura nera l’aveva seguita alla scoperta del mondo... Le due donne si diressero verso la chiesa del paese dove, sul sagrato incontrarono Enza e Prospero che sorreggevano la ricca vegliarda. “Guèrda, l’é là! Fâgh l’inchìn, Miranda!”42 ordinò Luisa alla figlia. “Guèrda, mâma, al fâgh sôl per té, vèh? Fósa per mé... gh’é scavaré la fösa!”43 si sfogò la giovane. “Il gattino che ho sempre desiderato! Grazie, mamma! Ma com’è carino... guarda che musino!” 40 “Furia... sì, sì, ti chiamerò Furia: nero come il cavallo del west!” 41 “Dai, adesso posa il gatto che dobbiamo andare a Messa! Oggi è Natale e... mi raccomando, eh? Buon Natale, signorina Merli e già che ci siamo anche Buon Anno... e via discorrendo... Capito? Ruffiana! Anzi, oggi che è Natale due volte più ruffiana!” 42 “Guarda, eccola là! Falle l’inchino, Miranda!” 43 “Guarda, mamma, lo faccio solo per te, sai? Fosse per me... le scaverei la fossa!” 39

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“Mó anca mé, cojòuna, ‘sa crèdet? Ch’la’m sia simpàtica la signorina Merli?” - ribattè, empatica, Luisa - Agh völ söl ‘n imbambì a fêregh céra per la só simpatia!”44 “Alöra vöt dìr che anca Don Gustavo...”45 si insospettì la ragazza. “Eh... anca ló finöra l’a gustè gnìnto, mó la sperànsa l’é sèimper l’ultma a murìr!”46 e, così dicendo, Luisa impresse una spinta tanto vigorosa alla figlia che questa, quasi senza accorgersene, si ritrovò ad un palmo di naso dalla vecchia arpia. Ebbe un attimo di sbigottimento in cui si sentì terribilmente a disagio anche a causa di quello sguardo infastidito che la signorina Merli le rivolse: “Orbene?” inquisì con alterigia. Al che Miranda ricordò tutte le raccomandazioni di sua madre e, timidamente, azzardò: “Buon Natale, signorina! Davvero tanti tanti auguri di ogni bene a lei e alla sua fam...” si bloccò di scatto all’ombra di un pensiero: la signorina Merli non aveva famiglia. Nessun erede... Nessun parente a cui lasciare la sua ambita eredità... Sperò dunque che l’anziana non avesse udito quell’ultima sillaba che suonava come un’imperdonabile gaffe. “E buon anno!” le suggeriva Luisa da lontano con un linguaggio labiale tanto esagerato da indolenzirle le mascelle. Ma Miranda, finse di non capire... Non fosse mai che il destino rispettasse davvero quell’augurio, riservando alla vegliarda un’altra prospera annata di vita. “Mâma! - sbraitò Miranda, in lacrime - Al gatèin! A’n gh’é pió!”47 “Mó figüret! - minimizzò Luisa - E’ srân gnü i lêder a purtêrtel “Ma anch’io, sciocchina, cosa credi? Che mi sia simpatica la signorina Merli? Ci vuole solo un imbecille ad adularla per la sua simpatia!” 45 “Allora intendi dire che anche Don Gustavo...” 46 “Eh... anche lui finora non ha gustato niente, ma la speranza è sempre l’ultima a morire!” 47 “Mamma! Il gattino! Non c’è più!” 44

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via...”48 addusse con sarcasmo. Ma, di fronte ai singhiozzi disperati della fanciulla, la donna finì poi per impietosirsi: “Dai, nanòuna, fêr mia acsé... E’ t’jn cât föra ‘n êter, anca pió fürob e ch’al scàpa mia via!”49 “Mó ‘sa dìt màma? Mé é’ vòj còll lé! Furia!”50 “Alöra é’t vedrèe ch’al sèlta föra quànd al gh’a fâm!”51 I soliti discorsi privi di ogni potere consolatorio. Furia era scappato e, quella notte, Miranda non riuscì a dormire... Nella casa di fronte, qualcun altro soffriva d’insonnia. Nonostante le gocce di sonnifero accuratamente centellinate dalla mano ormai esperta di Enza, la signorina Merli non riusciva a riposare. Si rigirava nervosamente nel letto, spesso pretendendo che la governante le facesse compagnia, anche solo limitandosi ad annuire dinnanzi ai racconti di un’era geologica ormai finita che la vegliarda puntualmente rievocava. Quella notte Enza era stanca e, nella penombra della stanza, si era assopita sulla poltrona mentre la padrona scorreva tratti di vita che interessavano solo a lei stessa. D’un tratto, lo sguardo della signorina si posò sul pavimento sotto il comò e fu proprio là che le apparvero due occhi luminosi e gialli... o forse verdi... Due occhi fulgenti come le fiamme degli inferi: due lame di fuoco che la fissavano. Tanto fu lo spavento che il suo cuore sussultò per poi arrestarsi per sempre. Quando Enza si riprese dal suo dormiveglia non credette alla propria vista: la signorina Merli giaceva, fredda e immobile, nel letto: gli occhi sbarrati su quell’angolo di pavimento sotto il comò dove, “Ma figurati! Saranno venuti i ladri a rubartelo!” “Dai, tesoro, non fare così... Te ne trovo un altro, anche più furbo e che non scappi!” 50 “Ma cosa dici, mamma? Io voglio quello! Furia!” 51 “Allora vedrai che ritorna quando ha fame!” 48 49

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ora, non v’era più nulla fuorché polvere e ragnatele. Prontamente, Enza allertò il marito e Prospero corse al capezzale della vecchia, poi giunse il medico per dichiarare che fosse morta davvero e Don Gustavo per il rosario di rito. Alla finestra, Luisa non si dava pace: ma cosa stava succedendo nella casa della signorina Merli? Cos’era tutto quel via vai? Quella porta d’entrata che continuamente si apriva e si richiudeva alle spalle di un nuovo intervenuto? A Miranda non importava nulla. La ragazza gioiva in una ritrovata felicità: in tutto quel subbuglio Furia aveva ritrovato la strada di casa e la ragazza poteva nuovamente stringerlo tra le sue braccia... Questo era tutto ciò che, davvero, le interessava. Poco contava se a questa contentezza si fosse o non si fosse assommata quella di un’inaspettata eredità... “Mó mâma, Miranda... che nutésia! Acsé, da un mumèint a ch’l’êter! E dìr che, a sintìr l’Enza la stèva bèin: la gh’jva söl al sònn agitè, mó gnìnto ed pió... L’é andèda a lètt tranquéla... Oh, l’Enza la détt ch’é gh’é sembrè ed sintìrla sbrajêr:Il diavolo! Il diavolo! mó la’n pöl mia giurêr ch’é’n fósa ‘n insòni, vést ch’la s’éra durmìda...”52 raccontò Luisa. “Oh, là... finalmèint bâsta falsitè e smanceréi per ‘na vècia antipàtica... e per giunta anca daltonica! Se còll ch’l’a détt l’Enza l’é vèir, a’m piasré tànt savèir s’l’a vést, la signorina Merli, da êsres spavitèda al punt ed murìr... Qualsiasi còsa la sia, guèrda, égh fâgh al monumèint!”53 “Mamma mia, Miranda... che notizia! Così, da un momento all’altro! E dire che, a sentire l’Enza, stava bene: aveva solo il sonno agitato, ma nulla di più... È andata a letto tranquilla... Oh, l’Enza ha raccontato che le è parso di udirla urlare: Il diavolo! Il diavolo! ma non può giurare che non si trattasse di un sogno, visto che si era addormentata...” 53 “Oh, là... finalmente basta falsità e smancerie per una vecchia antipatica... e per giunta daltonica! Se quello che ha riferito l’Enza è vero, mi piacerebbe tanto sapere cos’ha visto, la signorina Merli, da essersi spaventata al punto di morire... Di qualsiasi cosa si tratti, guarda, gli faccio un monumento!” 52

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“Aspèta, nanòuna, l’é mia incòra finìda, vèh?”54 Luisa riportò all’ordine la figlia. “No?!” raggelò Miranda. “Eh, no! Adèss incumìncia al bèll! - proseguì la donna beandosi nel suo sogno di un improvviso benessere - Dal rèst... j’ôm fât dal nôster mèj, no?”55 “J’ó fât dal mé mèj!”56 puntualizzò la ragazza, accentuando il pronome personale e pensando a quante volte era stata spinta dalla madre al cospetto della signorina Merli. Ma ora quella tortura era finita, terminata, conclusa... Ora Miranda poteva dedicare tutto il suo tempo libero al suo gattino nero senza più l’assillo di quelle performance teatrali. A quel gattino di un nero universale, di un nero pesto: come la morte. “Offriamo al Padre Eterno l’anima buona della nostra sorella Domenica... Riposi in pace. Amen”. Don Gustavo si avvicinò alla bara dove riposavano le spoglie della signorina Merli e agitò lentamente un braciere da cui si levarono sbuffi di incenso. Miranda iniziò a tossire e Luisa si stizzì: “Dâgh un tàj! Vöt fêret cumpatìr? L’ereditiéra ch’la tuséss per dü granèin d’incèins! Eser mia ridécola!”57 Un corteo di pochissime anime seguì il feretro verso il vicino camposanto: c’erano Luisa e Miranda, Don Gustavo, Enza e Prospero e due vecchiette tremanti che non facevano che lamentarsi per il gelo e che non rimasero per tutta la durata dell’inumazione. “Andiamo via anche noi!” implorò Miranda che avvertiva le estremità delle dita intorpidite dal freddo. “Aspetta, tesoro, non è ancora finita, sai?” “Eh, no! Ora comincia il bello! Del resto... abbiamo fatto del nostro meglio, no?” 56 “Ho fatto del mio meglio!” 57 “Smettila! Vuoi farti compatire? L’ereditiera che tossisce per due granelli d’incenso! Non essere ridicola!” 54 55

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“Mirànda fêrom mia instisêr anca a un funerêl, ahn?! - la riprese prontamente Luisa - Pòrta pasinsia fìn a la lettura dal testamèint, l’é questiòun ed trî dé... T’é sintü anca té s’l’a détt Don Gustavo, no? Venerdé é gh’òm da presentères tótt davanti al nudêr... mètt ch’la s’abia lasè al vilìn: al vêl bèin un ferdör, no?”58 “Ah, t’é sré anca bòuna ed dìrom ed purtêregh i fiör in séma a la tòmba, a la signorina Merli! - replicò la ragazza - A mé, ahn? Perchè é sun sèimper mé còla ch’la fa tött! A mé l’onere e a té l’onör!”59 L’attesa fu una vera agonia. Quei tre giorni parevano non trascorrere mai. Luisa già pregustava un Capodanno da signora e fantasticava su tutto il mobilio che avrebbe voluto eliminare al momento del trasloco nel villino. Nessun pensiero compassionevole sul futuro di Enza e di Prospero: se la volontà della signorina Merli stabiliva che Luisa fosse l’ereditiera... non si sindaca sulle ultime volontà di un’anima: è sacrilegio! Miranda, dal canto suo, sperava che sopraggiungesse rapidamente quel fatidico venerdì a porre fine all’agitazione di sua madre che era diventata intrattabile. Era agitata oltre misura, irascibile, permalosa... in quel clima d’attesa erano emersi tutti gli aspetti più negativi della sua personalità. Faticava a riposare, parlava nel sonno e dalle sue parole si intuiva chiaramente cosa stesse sognando...

“Miranda, non farmi arrabbiare anche a un funerale, eh? Porta pazienza fino alla lettura del testamento, è questione di tre giorni... Hai sentito anche tu cos’ha detto Don Gustavo, no?... Venerdì dobbiamo presentarci tutti davanti al notaio... metti caso che ci abbia lasciato il villino: vale bene un raffreddore, no?” 59 “Ah, saresti capace di dirmi di portarle i fiori sulla tomba, alla signorina Merli! A me, eh? Perché sono sempre io quella che fa tutto! A me l’onere e a te l’onore!” 58

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Il notaio Taroni era un uomo dai movimenti lenti e dinoccolati. Tutto il contrario rispetto “all’uomo che va subito al dunque” che Luisa avrebbe desiderato in quella circostanza. Quella sua “pignoleria” - se così si può chiamare l’obbedienza ad una prassi - la mandava fuori dai gangheri. Fremeva e, per celare la sua trepidazione, continuava a tamburellare le falangi di entrambe le mani sulle ginocchia. Ascoltava senza perdere una virgola, incollata dal sudore a quella poltrona d’epoca su cui stava seduta. “A Don Gustavo che mi ha offerto i conforti religiosi e la sua preziosa compagnia, va il lascito della mia villa padronale con i campi e la risaia... A Prospero ed Enza, miei fedeli custodi e assistenti, lascio in eredità il villino ammobiliato...” Un pugno allo stomaco per la povera Luisa... Mortificata e delusa, stava già alzandosi per ritornare a casa a sfogare la sua rabbia in un pianto isterico quando, dal fondo della sala, la voce del notaio riprese: “C’è una postilla, riguarda la signorina Miranda Immovilli, figlia dei vicini di casa...” Un fremito... Ali di farfalle nello stomaco e dita incrociate: Luisa riprese a sperare. Il villino era già stato destinato, purtroppo, ma, magari, restavano i gioielli, il denaro, gli oggetti di valore... Magari qualche mobile antico, chissà? “Desidero donare alla signorina Immovilli le presine di colore verde che ho tessuto all’uncinetto e che tanto le piacevano...” “Ma certo! - intervennero Enza e Prospero - Però... dove sono le presine verdi? Qui sono tutte gialle!”

Werther Bedogni è nato e vive a Reggio Emilia. Pensionato, amante dello sport, si dedica al ciclismo, sci e alpinismo. Si diletta a fare video e cortometraggi. Scrive racconti e poesie per diletto, gratificato da segnalazioni e menzioni in antologie.

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Bellis perennis di Marisa Saccani

La nomina a direttore di un importante gruppo bancario aveva coronato una carriera che il Dottor Rossi aveva cominciato come semplice impiegato. Viaggi in macchina, in treno, in aereo, corse in taxi per raggiungere rapidamente i luoghi di riunioni si alternavano, senza sosta, alla normale vita di ufficio. Il Dottor Rossi era un uomo nel pieno delle sue forze, eppure, dopo un periodo nemmeno troppo lungo di questa vita, cominciò a manifestare un fastidioso disturbo. La sera, quando poteva finalmente ritirarsi nella tranquillità della sua casa, se sfogliava una rivista o seguiva una trasmissione televisiva, subito lo coglieva la sonnolenza. Cercava di resistere, ma le parole, le immagini gli si confondevano davanti agli occhi, finché decideva di coricarsi con la convinzione che di lì a poco sarebbe piombato in un sonno profondo. Invece, come posava la testa sul cuscino, nella mente tornata lucida mulinava una ridda di pensieri che gli impedivano di rilassarsi. Allora si alzava, tornava in salotto, leggiucchiava un po’, guardava qualche frammento di programma televisivo con il pensiero rivolto al sonno che, come un folletto dispettoso, se n’era volato via, mentre il giorno dopo lo aspettava un lavoro che richiedeva tutta la sua lucidità e intatte energie. Solo verso l’alba, vinto dalla stanchezza, si assopiva. Vedendolo pallido e teso, la moglie si preoccupava. “Dovresti consultare un bravo medico. - gli diceva - Non puoi andare avanti così”. “Sarà una cosa passeggera” tergiversava lui, che non aveva molta

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dimestichezza con la categoria dei medici. Capì che era venuto il momento di ascoltare i consigli della moglie il giorno in cui, durante una riunione, le palpebre, nonostante i suoi sforzi, tendevano ad abbassarsi, tanto che le persone sedute intorno al tavolo gli apparivano sfocate e le loro parole gli giungevano simili ad un confuso ronzio. Una voce lo riscosse. “Qualcosa non va, Dottor Rossi?” gli chiese il suo vicino, guardandolo con aria meravigliata. “No. No” rispose, vergognandosi di essere stato colto in un momento di défaillance. “Come si chiama il medico da cui mi vuoi mandare?” chiese, la sera, alla moglie. Lei respirò sollevata. “Finalmente ti sei deciso. - disse - Vedrai, rimarrai contento. Non è un medico qualsiasi, è professore, primario all’ospedale... Vuoi che prenoti io la visita?” “Benissimo. - rispose lui - Pensaci tu. Mi fai un vero favore”. Dopo qualche giorno, si recò all’appuntamento con il medico. Si aspettava un uomo maturo, di lunga esperienza, invece si trovò davanti un giovane minuto che pareva un ragazzo. “Andiamo bene. - pensò - Mi hanno mandato da un principiante addirittura”. Il medico trovò con naturalezza le parole per metterlo a suo agio, poi, attraverso domande garbate e puntuali, condusse un’analisi approfondita della sua situazione. Alla fine lo rassicurò. “Nulla di preoccupante. - disse - Le sue condizioni generali sono buone. I disturbi di cui soffre sono dovuti allo stress. Un periodo di riposo, lontano dai problemi e dagli impegni quotidiani, le gioverebbe più di qualsiasi medicina”. “Professore, - obiettò il paziente - in questo momento non mi è proprio possibile”. “Capisco. - continuò il medico, prendendo penna e ricettario Purtroppo la vita odierna ci impone dei ritmi che non sono consoni alla nostra natura. Troppo spesso ci dimentichiamo di avere dei limiti, ma il nostro organismo, in un modo o nell’altro, ce lo ricorda. Se proprio non può concedersi una vacanza, faccia alme-

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no, tutti i giorni, una passeggiata in un luogo tranquillo, che so, un parco. L’ideale sarebbe la campagna. L’aria, il sole, il contatto con la natura sono veramente tonificanti”. Dallo sguardo del direttore dovette trasparire una certa perplessità, se il medico aggiunse: “Ad ogni modo, le prescrivo un sonnifero blando che l’aiuterà a riposare”. Mentre andava alla ricerca di una farmacia, il Dottor Rossi pensava: “mi mancava solo il medico naturalista. Passeggiate. Figuriamoci! Come se ne avessi tempo”. Abitava da anni in quella città, ma non aveva mai messo piede in un parco. Talvolta, dalle vetrate del suo superattico, mentre osservava la distesa dei tetti bagnati dalla nebbiolina invernale o soffocati dal sole estivo, aveva scorto delle zone verdi che, per la lontananza, gli erano sembrate poco più grandi di un’aiuola. Se si doveva aspettare benefici da quelle parvenze, stava fresco. Quanto alla campagna, doveva fare chilometri e chilometri per raggiungerla. E poi lui sapeva bene cos’era la campagna: il sudore, la fatica di suo padre contadino, il suo avvilimento quando un temporale improvviso bagnava il fieno pronto per essere portato a casa o, peggio, quando una violenta grandinata falciava il frumento prima dell’arrivo dei mietitori. Udiva ancora le parole di suo padre. “Studia, figlio mio. Non voglio che tu faccia la mia vita”. E lui aveva studiato con tutto il suo impegno un po’ perché desiderava imparare, un po’ perché voleva costruirsi un futuro migliore. Da ragazzo, se andava a fare una passeggiata, i colori, i profumi, il silenzio della campagna gli infondevano un senso di serenità, di comunione con la natura. Ma dal suo ambiente recepiva stimoli che lo invitavano ad andarsene, come i segreti messaggi contenuti nel ronzio dei fili dell’alta tensione, che gli parlavano di un mondo lontano e affascinante, come i richiami delle rondini che, preparandosi alla partenza, si riunivano in lunghe file sullo sfondo bigio

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del cielo autunnale. Terminati gli studi, se n’era andato anche lui. Ben presto si era abituato ad un mondo in cui dominavano il cemento, il traffico, lo smog, dove tutti correvano, si affannavano in un ritmo di vita frenetica, forse senza conoscerne lo scopo. La città era diventata il suo ambiente e per tanti anni non aveva mai avuto motivo di rimpiangere la realtà che si era lasciato alle spalle. Grazie all’assunzione di una pillola per il Dottor Rossi le notti insonni diventarono ben presto un ricordo. È vero che, al risveglio, talvolta si sentiva leggermente intontito, ma bastava un caffè forte per ristabilire l’equilibrio. Quanto al lavoro, tutto procedeva a gonfie vele: il suo gruppo bancario diventava ogni giorno più competitivo, giungendo ad offuscare il prestigio delle più quotate banche estere. Una mattina, mentre elaborava dati al computer, credette di vedere, proprio in un angolo dello schermo, un batuffolo di piume che saltellava e intanto lo guardava con i suoi occhietti vivaci. Fu una visione fugace che ritenne frutto della sua mente ancora un po’ intorpidita. “Il caffè non deve avermi svegliato del tutto” pensò. Per qualche tempo le cose procedettero normalmente. Il Dottor Rossi aveva già dimenticato l’episodio, quando, un giorno, sullo schermo pieno di dati e di cifre, la rossa corolla di un papavero si dondolò sul suo esile stelo. L’immagine durò pochi istanti, tuttavia il Dottor Rossi si preoccupò. “Deve essere colpa del sonnifero. - pensò - Quelle pastiglie mi danno le allucinazioni”. Il medico curante, prontamente interpellato, escluse nel modo più assoluto la probabilità, tuttavia, per precauzione, consigliò di diminuire la dose. “Se non si tratta di allucinazioni, allora è il computer che mi fa strani scherzi” concluse il Dottor Rossi. Ogni mattina, quando entrava in ufficio, gli lanciava un’occhiata sospettosa, chiedendosi cosa avrebbe inventato di nuovo. Lui,

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sornione, per intere giornate, era un docile strumento nelle sue mani o almeno fingeva, perché, all’improvviso, un profumo di campo o uno stormire di fronde o un fruscio di acqua corrente si insinuava fra le pareti di un ufficio riscaldato, rinfrescato, illuminato artificialmente. Il Dottor Rossi si torturava inutilmente alla ricerca di una spiegazione. D’altra parte non osava confidare a qualcuno le stranezze che gli stavano capitando, perché era convinto che, se avesse parlato, sarebbe stato considerato pazzo. E in certi momenti anche lui temeva di esserlo. Il giorno che il computer non diede alcun segno di vita, si sentì liberato da un peso. “Bene. Bene. - disse fra sé - Speriamo che non funzioni mai più”. Non aveva finito di formulare questo pensiero che, nel mezzo dello schermo, si materializzò un puntino giallo, il quale, ben presto, si allargò fino ad occuparlo completamente: un campo di grano con le sue spighe bionde pareva superare i limiti dello schermo fino ad invadere tutta la stanza con una luce abbagliante. “Sono finito” pensò il Dottor Rossi in preda al panico. Con mani tremanti afferrò il cappotto. Fuggire da quell’incubo fu il suo unico impulso. Camminò a lungo, lasciandosi alle spalle ingorghi di traffico, viavai di gente, antichi palazzi, costruzioni moderne immerse in quel rumore sordo che era la voce della città. Ad un tratto, in fondo ad una contrada, scorse un lembo di cielo azzurro. Automaticamente andò in quella direzione. A poco a poco gli edifici diradavano, qualche albero spuntava qua e là. I rumori giungevano attutiti, anche l’aria si faceva più respirabile. La città sfumava nella quiete di un parco. Lo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi passi fece fuggire un gruppo di passerotti che si rifugiarono fra i rami di un abete. Più lontano, saltellando e becchettando, alcuni merli si richiamavano con brevi chioccolii. L’aria frizzante gli portava un acuto profumo di resina, ma anche sentori più delicati di germogli, di foglie nuove, di fiori appena sbocciati.

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La lunga camminata, l’atmosfera serena del parco a poco a poco allentavano la sua tensione. La città, la banca, il computer, i problemi quotidiani gli parevano lontani, come se appartenessero ad un altro mondo. Si sedette su una panchina, offrendosi al tepore del sole come gli alberi che si vestivano di una tenue luce verdognola, come i cespugli che formavano, qua e là, macchie bianche e rosate. Casualmente, abbassando lo sguardo, scorse ai suoi piedi una margherita. Dal profondo della memoria risalì alla sua mente il nome scientifico del piccolo fiore. “Bellis perennis” pensò. “Perennis”. Le sarebbero bastati una zolla, un raggio di sole, una stilla d’acqua per sbocciare sempre lì o nel luogo dove il vento avrebbe portato i suoi semi. Desiderò sfiorare quella piccola scintilla di eternità. Percepì sotto il tocco delle sue dita una sensazione di delicata frescura. “Bellis perennis” mormorò. Una palla rotolò improvvisamente ai suoi piedi, due occhi infantili lo fissarono stupiti. “Mamma, - disse il bambino correndo verso una giovane donna che l’aspettava poco lontano - c’è un signore che parla con un fiore”. “Zitto! - l’ammonì sorridendo la madre - Non disturbare”. Poi rivolgendosi al direttore, con lo stesso sorriso, lo salutò. “Buongiorno” gli disse. Doveva averlo scambiato per un abituale frequentatore del parco, perché aggiunse un’altra parola: “Bentornato”.

Marisa Saccani, insegnante di Lettere, attualmente in pensione. Si è dedicata alla scrittura negli anni in cui il compianto Prof. Benassi teneva, al Centro Sociale di Novellara (RE), lezioni di scrittura creativa. Ha partecipato al Premio regionale di poesia e narrativa nel 2004 classificandosi al 3° posto.

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Un fatto strano di Maurizio Trombini

Mia nonna abitava in una di quelle cascine sparse nella campagna ferrarese, pussiòn le chiamavano. Per solito portavano il nome di un santo, quella era San Gaetano. Era costituita da un corpo centrale, un pollaio, un porcile con attigua una bassa costruzione, il forno, dove una volta ogni quindici giorni le famiglie riunite sfornavano le fragranti ciupètt, le coppie, tipico pane ferrarese. In mezzo, l’aia. Ci abitavano solo due famiglie, mia nonna vedova e mio zio con la zia che non avevano figli. Vi racconto una storia e ve la racconto così come me la raccontò mia nonna. Era primavera e una notte di luna assente tutti si svegliarono sentendo le galline e le anatre starnazzare. Era l’immediato dopoguerra, erano tempi duri per tutti, anche per i ladri che si accontentavano di qualsiasi cosa da mangiare, fossero galline, anatre o un paio di salami. Mio zio si alzò dal letto, prese la doppietta che era appesa al muro, aprì gli scuri e si affacciò alla finestra del primo piano, dove erano le camere da letto. La notte era di un buio pesto e non si vedeva nulla, ma si sentivano chiaramente i versi degli animali che davano segni di irrequietezza. Lo zio lanciò un “chi va là”. E poi: “attenti che sparo. Il primo colpo sarà in alto, poi abbasso la mira… attenti eh”. Nessuno rispose, così sparò in aria. La fucilata squarciò il silenzio della notte; tornò la quiete, si

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sentiva solo un battere di ali scombinato, poi nulla, anche le galline e le anatre si erano quietate. La mattina dopo aprirono porte e finestre all’alba per riprendere le consuete attività e videro sull’aia una cosa bianca, insanguinata, come un lenzuoletto ammucchiato. Incuriosita la zia andò per prima a vedere, mosse lo straccio e si trovò faccia a faccia con un bambinetto dell’età apparente di 5 o 6 anni. Era sofferente e si lamentava sommessamente, una ferita aveva insanguinato la specie di tunichetta bianca che indossava. La zia lo sollevò da terra e si accorse che dalla schiena spuntavano due alette di piume bianche, una era ferita dalla fucilata. La zia stupita e commossa gridò: “l’è n’anzul, Giurdàn s’at fatt... t’ha sparà a n’anzulin, oh povar nù!”1 Lo portò immediatamente in casa e insieme alla nonna cominciarono a medicarlo. Lo zio era in disparte e guardava meravigliato, stupito e anche preoccupato per le eventuali conseguenze della sua azione. Sembrava che l’anzul non soffrisse molto ed era evidente che gradiva che si prendessero cura di lui, guardava le donne quasi con riconoscenza, non sembrava provasse rancore per lo zio che, seppure inconsapevolmente, lo aveva ferito. Dopo che fu medicato raccolse le alette all’interno della tunichetta e si sedette a tavola. Visto così sembrava un normalissimo bambinetto, biondo, occhi azzurri, carnagione rosea, insomma, l’immagine della salute. Non parlava, ma a gesti fece capire che avrebbe gradito una fetta di brazadela. La inzuppò nel latte e la mangiò avidamente, poi si stese sull’ottomana e si addormentò.

“è un angelo, Giordano cosa hai fatto… hai sparato ad un angioletto, oh poveri noi!” 1

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La zia si chiese perché il Signore mandava loro quell’angioletto, cosa voleva? Verificare la loro fede? Va bene che a messa non andavano quasi mai e che lo zio nei momenti di rabbia tirava dei bestemmioni terribili, però erano buona gente, la nonna poi era di una bontà e gentilezza infinita e non avevano mai fatto del male a nessuno. “E adesso? Cosa dobbiamo fare?” chiese lo zio. “Dobbiamo forse informare il prete? I Carabinieri? Il sindaco o il farmacista? E no! Se l’anzulin è arrivato qui, ci sarà pure un perché se ha scelto questa cascina invece di altre… ben, è meglio che ce lo teniamo nascosto in famiglia” disse, quasi fosse un privilegio. L’anzulin divenne il bimbo di famiglia, non parlava, emetteva suoni gutturali ma si faceva capire benissimo. Amava tantissimo farsi coccolare dalla zia e dalla nonna, accettava anche una carezza dallo zio ma non di più, forse non aveva dimenticato del tutto la notte in cui era stato ferito. Durante l’estate l’anzulin crebbe in altezza e la tunichetta divenne corta fin sopra le ginocchia. Sembrava non gradisse altri tipi di abito e rifiutò di indossare vestiti umani sia da donna che da uomo. La zia, con un vecchio lenzuolo, cucì una tunica più grande e quella gli risultò gradita. Per indossarla in un attimo si denudò e il corpicino roseo non rivelò un sesso ben definito; però l’anzulin approfittò dell’attimo di nudità per spiegare le bianche ali piumate e sbatterle un po’, come per sgranchirle. Ogni traccia della ferita era scomparsa. Un giorno la zia, che era stata dal medico, tornò a casa con una novità. “Giurdàn, vien chi c’at cont un quel...”2 esordì la zia. “Sono stata dal dottore per le mie pastiglie… C’era una mamma con un bimbetto e quando è uscita ho sentito il dottore che diceva: non si preoccupi signora, suo figlio ha solo le scapole 2

“Giordano, vieni che ti racconto una cosa…”

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alate, vedrà che con lo sviluppo si mette a posto”. Proseguì la zia: “non è che anche l’anzulin è un bimbo come gli altri e ha solo le scapole alate?” “Sì, Tina… e le piume? Cosa sono? Peli mal cresciuti?” La risposta ironica dello zio troncò ogni possibilità di replica e l’anzulin rimase tale e venne considerato dalla famiglia una ricchezza da tenere ben nascosta, si sa mai che quello in cielo si facesse vivo e lo volesse di ritorno. Passò così tutta l’estate e venne il tempo della vendemmia. L’anzul era cresciuto rapidamente e aveva raggiunto l’altezza di un adolescente. Era incuriosito da tutto ciò che succedeva nella vicina campagna e mostrò interesse per l’uva Clinto, il tino e soprattutto il mosto. Stava incantato a vedere le bollicine della fermentazione che salivano in superficie creando vari ghirigori. Incuriosito lo assaggiò più e più volte e si prese una sbronza colossale. Stava steso a contemplare le travi del soffitto e sembrava cantasse una litania fatta di parole e note sconosciute. Durò così alcuni giorni, poi tornò alle sue attività abituali: mangiare, dormire, guardare le galline, seguire la zia mentre portava da mangiare agli animali; trovava affascinante il maiale (busgàtt) e stava ore a contemplarlo mentre si rotolava nel fango. Fu con l’avvento delle prime nebbie autunnali che si notarono dei cambiamenti nell’anzul. Si era sempre e solo alimentato di pane e latte ed era a questo che la zia attribuiva il colore roseo della sua pelle, la lucentezza dei biondi capelli e la limpidezza dello sguardo. Progressivamente cominciò a mangiare tutto ciò che arrivava in tavola: tagliatelle, maccheroni, salumi o formaggi. Aumentò di altezza in un batter d’occhio, proprio come succede agli adolescenti, e la tunica divenne corta lasciando vedere i polpacci irsuti, coperti di pelazzi fitti e neri. Sembrava fosse a disagio e tirava sempre più in basso la tunica come per coprire quel cambiamento. Per nascondere un poco l’aumento di altezza stava chino in avanti, ingobbito. Poi col passare dei giorni cominciò a tremare dal freddo e accettò di indossare un

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paio di vecchi calzettoni di lana dello zio e si coprì la gobba con un golfino nero della nonna. Così infagottato gironzolava tra la casa, il pollaio e il porcile quasi trotterellando ed emettendo dei buffi gridolini, cosa che prima non aveva mai fatto. Fu a novembre che la zia notò che le galline non deponevano neppure le poche uova che avevano sempre prodotto, però si trovavano in giro gusci come se qualcuno le avesse bevute di nascosto. Dai primi di dicembre cominciarono a sparire anche alcune galline e malgrado la vigilanza attenta non se ne scoprì la causa. Si suppose la presenza della volpe, della faina, della poiana e anche di un ladro malridotto. Prima di Natale si avviò il rito dell’uccisione del maiale e la relativa trasformazione in salami, salsicce, prosciutti, cotechini e salama da sugo. L’anzul partecipò al rito e il suo sguardo si illuminava nei momenti in cui poteva manipolare la carne cruda, riuscendo sempre a sottrarne una manciata e ad infilarsela avidamente in bocca. Fu la notte di Natale che si sentirono di nuovo rumori di galline e anatre. Lo zio si alzò, prese la doppietta e volendo evitare di ferire accidentalmente un altro anzulin accese una lampada a petrolio. Si affacciò alla finestra e illuminò fiocamente la corte. Nella scarsa luce vide una sagoma accovacciata sull’aia. Era l’anzul… Si alzò in piedi, tolse le calze e apparvero due gambe caprine irte di peli neri, anche i capelli erano cambiati, ora erano neri e ispidi, tolse il golfino della nonna, la tunica e spiegò due enormi ali di pipistrello. Le sbatté un paio di volte e si alzò in un volo che da goffo e scoordinato in breve divenne quasi elegante e sparì nel chiarore della luna. La mattina dopo solo i vestiti sull’aia ricordavano ciò che era avvenuto nella notte… Però lo zio notò che era sparita la salama da sugo dell’anno prima che era destinata ad essere cotta per il pranzo di Natale. In casa si domandarono a lungo da chi e perché fossero stati scelti proprio loro per aiutare la trasformazione dell’anzulin in

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quell’essere lugubre e satanico e che senso avesse tutto ciò. Furono fatte diverse ipotesi. La più ricorrente era quella della zia che diceva essersi abbattuta una punizione divina sulla loro casa per le bestemmie che tirava lo zio nei momenti d’ira. Poi subentrò il dubbio e si chiesero se lo zio non fosse ubriaco la sera in cui disse di aver visto l’anzul mutare e sparire o se non ci fosse stata la nebbia che si taglia con il coltello a confondere la vista, altro che luna… Poi con il tempo se ne parlò sempre meno e l’episodio fu dimenticato; l’unica che ne conservò memoria fu la nonna che me lo raccontò.

Maurizio Trombini nato a Ferrara il 26 dicembre del 1951, residente tra le colline Moreniche del lago di Garda. In pensione da alcuni anni, si interessa di musica (è chitarrista jazz e compositore), fotografia e scrittura.

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Giallo emiliano di Giancarlo Sacchetti

Una storia sottilmente ironica, moderatamente gialla, servita su un vassoio ricolmo di affettati e di suspense! 1. Inguainato nella sua tuta griffata, al consueto percorso all’interno del Parco della Salute Amos aveva associato l’usuale tratto attraverso la Tenuta Boschi obbligandolo a dar fondo alla residua riserva di ossigeno. Uno sforzo supplementare ampiamente ripagato dal premio finale, consistente in una rilassante sosta all’osteria del “Becco Rosso” dove Aimone serviva degli affettati da Dio e un Lambrusco che ti spumava nella pancia come un geyser islandese. Col tempo, quello era diventato il luogo prediletto nel quale convergevano regolarmente anche Orfeo e Loris, due quarantenni con i quali si era rafforzato un legame d’amichevole complicità, “nutrito” anche dallo zelo gastronomico dell’oste, che contribuiva fattivamente a contrastare l’estenuante logorio della vita moderna: un paio d’ore dedicate al sano cazzeggio così tonico e terapeutico, al punto da subirne la dipendenza come dei tossici dal metadone. Appena un accenno alle problematiche famigliari, per Orfeo particolarmente sofferte a causa del pressing della consorte che non dava tregua per quell’inspiegabile fanatismo salutista domenicale; oltretutto inefficace per ridurre imbarazzanti ma-

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niglie dell’amore in fase espansiva e con l’effetto collaterale di un crollo dell’appetito da grafico greco all’ora di pranzo. Un’anomalia che negli ultimi tempi stava diventando fonte di sospetti crescenti da parte della Loredana: “Cicci, non sarà il caso di fare qualche analisi del sangue? Non mangi praticamente niente e non mi cali di un grammo: mica normale!”. Cui seguiva la formulazione di un intento dalle conseguenze potenzialmente devastanti: “E se domenica ci venissi anch’io?”. Scenario da brividi denso d’implicazioni inimmaginabili, tutte funeste, dissolto all’istante dall’entrata in scena di Aimone con un tagliere di affettati che sembravano un’ode al porco. Spiccavano per fragranza la mortadella Igp con i pistacchi, quindi la coppa Dop di Piacenza, poi l’insostituibile prosciutto di Parma troneggiante su un dignitosissimo strolghino di Sala Baganza. Chiudeva quella gustosissima rassegna maialesca una pancetta coppata di Modena. A lato, una punta di Parmigiano Reggiano che sembrava quella del Cervino. Il tutto accompagnato da un cestino di cioppe di pane comune e un paio di bottiglie di spumeggiante Lambrusco reggiano rosso rubino. Nel suo piccolo, un’Expo dei migliori bocconi offerti da quel gran pezzo dell’Emilia che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca anche a quel talebano di MasterChef, Carlo Cracco. Aimone non dava tregua: appena il tempo di un paio di brindisi. Riapparve con la sua solita premura e i vasi capillari affioranti che restituivano alle guance un rossore pagliaccesco. “Ragazzi, vi andrebbe un assaggio di lardo pesto con l’aglio?” “E poi chi la sente la Marta?” s’interrogò Loris, già presagendo la scannerizzazione del suo alito da parte della consorte, che ultimamente si atteggiava come il sergente di Full Metal Jacket: un fiuto da cane molecolare! Già rimuginava con terrore alla mostruosa porzione di lasagne che gli sarebbe toccato ingoiare per non offendere la suocera, presenza domenicale stabile da quando era rimasta vedova. “Magari senz’aglio?” risposero coralmente. “Scaldo due tigelle!”

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Per fortuna, quelle erano per Amos problematiche famigliari lontane anni luce: lui e la Titti erano come due dita della stessa mano. In quel momento dedita a impastare lo sfoglio per i cappelletti che non vedeva l’ora di mettere sotto i denti assieme a un fumante bollito col contorno di saporite salse made in Titti. In fondo, Amos un po’ li compativa per la croce che dovevano portare. Che donna la Titti: quasi meglio della sua mamma. Dodici anni di matrimonio e mai un lamento. Ogni giorno come fosse il primo del loro incontro alla cassa 4 del Mercatone: il classico colpo di fulmine. Che donna la Titti; il suo era un amore che sconfinava nel martirio. Tanto da indurlo a chiedersi se fosse veramente degno di quell’attaccamento senza condizioni, a volte perfino imbarazzante. “Mi adora” si vantava con gli amici del Bar Pasticceria Parigi, col piglio del maschio Alfa. Difatti, la Titti lo adorava al punto da rinunciare alla maternità solo per non urtare la sensibilità del suo Amos, secondo il quale i figli sono la tomba dell’amore, danno solo preoccupazioni. “Li curi, li sfami, li vizi, li fai studiare per vent’anni, rinunci alla tua vita, e appena gli spuntano i primi peli ti mandano a cagare. E poi siamo ancora così giovani. Dai Titti, parliamone più avanti che sono già tanto snervato per il lavoro”, si accalorava ogni volta che si toccava l’argomento, annichilendo sul nascere ogni tentativo della compagna di andare oltre quella visione disfattista. E, alla fine, rimanda oggi rimanda domani, quello fu un argomento che uscì completamente dall’agenda delle loro conversazioni. Ciò non impedì alla Titti di prendersi una piccola rivincita quando, forse per sopperire a qualche labile senso di colpa per la rinuncia impostale, Amos aveva suggerito l’idea di comprare un cane. “Non ti basta il cane Dalmata in ceramica faentina che ti ha regalato mamma per Natale?”, era insorta con in-

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tento sfottente. Argomento chiuso! Con l’ultima bicchierata, a rinsaldare con la forza di un giuramento la promessa di ritrovarsi la domenica successiva, era purtroppo giunto il momento di tornare sui propri passi, verso i rispettivi domicili. Per Amos, transitando davanti al Bar Parigi dove si sorprese di trovarvi una ressa di persone visibilmente eccitate, preda di un’euforia manifestata con diversi ridondanti hurrà indirizzati a Silvano il titolare che, da dietro il bancone, stappava bottiglie di spumante col sottofondo di sonori botti che sembrava di essere a Capodanno. Sudato e incuriosito s’immischiò fendendo la calca, riuscendo alla fine a raggiungerlo: gli offrì un bicchiere. “No, grazie, sono in allenamento: mai alcolici, prima durante e dopo il jogging. Piuttosto, vedo che sei sotto i riflettori come una star: che è successo?” “Qualcuno ha fatto una grattata da 1.700.000 euro: 200.000 subito, più una rendita mensile di 6.000 euro per vent’anni e una liquidazione finale di altri 100.000 euro. Ieri sera mi ha telefonato un tale che mi ha ringraziato per quel Gratta e Vinci fortunatissimo che gli avevo venduto domenica scorsa”. “Naturalmente non si sa chi è” gli domandò rassegnato all’ovvia risposta di una vincita anonima come da prassi. “Naturalmente! Ma, - aggiunse - ho l’impressione che sia uno di qui, perché ha fatto riferimento alle campane della chiesetta che con i loro rintocchi sembrava avessero suonato a festa, partecipi della sua esultanza. Solo i residenti definiscono chiesetta la Pieve romanica dell’Immacolata. E anche la parlata non mi era del tutto estranea. Magari adesso sta al bar a brindare con tutti gli altri” concluse con un cenno del capo indirizzato alla massa festante. “E già. Ciao Silvano, ci vediamo… però che culo, eh?”

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2. “Ciao Titti, lo sai che…” la parola gli morì sulle labbra quando si accorse che la sua Titti non stava in cucina come si sarebbe aspettato. Non aveva le mani infarinate e il grembiule della Parodi, che le aveva regalato per S. Valentino, stava abbandonato su un piano cucina inaspettatamente lustro. La sua Titti stava bella rilassata abbandonata sul divano a farsi le unghie davanti al televisore che trasmetteva la SS. Messa officiata da Papa Francesco in persona. “Ciao Amos, dicevi?” gli chiese senza distaccare lo sguardo dalla sacrale liturgia. “Niente ravioli oggi?” “Li ho messi in sala al fresco, pronti per la pentola” lo tranquillizzò indirizzandogli un benevolo sorriso, quasi di commiserazione. Sciolto il groppo di sconcerto che gli si era incastrato nella trachea con le dimensioni di un canederlo altoatesino, la informò che andava a far la doccia. Dove, sotto uno scrosciante getto d’acqua semifreddo, recuperò l’equilibrio su cui si reggeva il suo debordante narcisismo, ritrovandosi poco dopo a tavola a scambiare le sue impressioni con la Titti sulla mega vincita al Bar Parigi. “E si sa chi è il vincitore?” “Capirai! Questo qui sta più nascosto di un ricercato dall’antimafia, che se esce allo scoperto gli salta addosso una folla di amici e parenti mai visti prima”. Le aveva esposto i motivi che avevano indotto Silvano a non dubitare che fosse uno dei residenti della zona, se non addirittura del quartiere. “Certo, ci abitiamo in tanti nei pressi della chiesetta. - commentò la Titti con tono neutro - Compreso il nostro dirimpettaio Norberto Tosti che, adesso che me lo dici, la settimana scorsa ho visto in giardino con un rasaerba nuovo e, proprio ieri, l’ho notato uscire dal garage con uno scooterone nuovo fiamman-

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te. Tutte queste spese mi fanno pensare” concluse perplessa. “Ma dai Titti. Ammesso e non concesso che Berto sia il turista miliardario, ma ti pare che la prima cosa che fa uno che si ritrova con tre miliardi delle vecchie lire in tasca sia quella di comprarsi un rasaerba?” “E uno scooterone! E comunque, perché no?” Dopo una settimana d’infuocati dibattiti al Bar Parigi, dove sulla vetrina Silvano aveva appeso un cartello che annunciava la fortunata vincita, la Titti riprese quel discorso sulle spese del suo vicino, esponendo ad Amos le sue convinzioni al riguardo. Che, nel frattempo, si erano rafforzate a seguito di alcuni episodi, a suo dire, assai indicativi. “L’altro ieri ho visto Berto col geometra Pinotti che giravano attorno a casa con un intento chiaramente finalizzato a stimare il valore dell’immobile”. “Beh, che c’è di strano?” obbiettò Amos, che ultimamente avvertiva a pelle ogni ragionamento della Titti inquinato dal sospetto che Berto fosse il grattatore fortunato a cui molti davano inutilmente la caccia. “Nulla, se fosse intenzionato a vendere. Invece so per certo che vuole ristrutturare la palazzina che, a naso, richiederà un bel pacco di euro di spesa: ben di più che per l’acquisto del rasaerba. Come te lo spieghi? Spero non vorrai dirmi che basta il suo stipendio da infermiere”. “Ma che centra, - le rispose infastidito da quella sua insistenza un po’ maniacale - avrà incassato il risarcimento dell’Assicurazione dopo la disgrazia di quel pirata della strada che gli ha ammazzato la moglie”. Per fortuna, lo stress indotto dall’ostinazione della Titti nel sostenere la tesi, secondo lei molto probabile, che Berto fosse il possessore del biglietto vincente, fu efficacemente neutralizzato dalla solita sgambata domenicale all’osteria del “Becco Rosso” che aveva il potere di catalizzare solo visioni positive,

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col gran cerimoniere Aimone a officiare l’irrinunciabile rito delle odi alle ineguagliabili virtù dell’amato suino. Tra una fetta di salame casereccio in budello gentile e una goccia di aceto balsamico adagiato su provocanti scaglie di grana, i loro “discorsi” s’incanalarono sulla rotta che conduceva all’ormeggio dove all’ancora stava il grande bastimento di chiacchiere e supposizioni che ruotavano attorno alla mega vincita del Bar Parigi. Orfeo, dando sfogo alla sua indole avventurosa immolata sull’altare delle dure incombenze famigliari, dichiarò che avrebbe speso un po’ di quei soldi per farsi una vacanza nella Terra del Fuoco cilena: già s’immaginava alla guida di una slitta trainata da argentati Husky su sconfinate praterie di ghiaccio. Loris, dopo aver dichiarato che un Cicci ce lo vedeva meglio al Gay Pride che non in quelle lande desolate, guadagnandosi all’istante un rotondo “Và a cagher!”, confessò invece che lui avrebbe impilato tutti quei soldi al centro della tavola contestualmente alla convocazione della suocera e della figlia. Dopodiché avrebbe posto a Marta uno di quei quesiti che ti segnano per il resto dei tuoi giorni. “Scegli: o la mamma con le sue lasagne o il sottoscritto con i suoi milioni!”. Amos si era astenuto dal confidare loro le convinzioni della Titti relativamente al fatto che il presunto vincitore fosse il loro vicino di casa. “Signori, i gioielli di Campagnola” s’intromise opportunamente Aimone col suo solito zelo interrompendo quel flusso ansiogeno di visioni oniriche del tutto campate per aria, presentandosi con un cestino di ciccioli adagiati su un letto di foglie di alloro, più fragranti dei biscotti di Banderas: “Che faccio?” E davanti alla sublime corporeità di quei teneri malloppetti cicciosi ricavati dal succulento grasso sottocotenna del diletto maiale, un potente senso di quiete pervase le loro frustrate menti rimuovendone lo stress, sempre a livello del peggior spread.

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3. La Titti si era tuttavia rivelata resistente alle obiezioni di Amos con una tenacia pari a quella di Berlusconi nel confronto con la Bocassini. E Amos, batti e ribatti sul solito tasto, alla fine diventò malleabile e ricettivo al punto da introiettare le insinuazioni della sua Titti fino a condividere l’incipit dei suoi ragionamenti. A quel punto, paziente come un bonzo tibetano, la Titti lo fece partecipe di un’accorta elaborazione strategica, da cui era scaturito un piano progettato quando ancora lui navigava in un turbinoso mare di dubbi relativamente al fatto che Berto fosse il Turista Per Sempre che tutti cercavano. “Senti Amos, che ne diresti di fare un salto a casa del nostro vicino per dare una sbirciatina all’ambiente: potrebbe saltar fuori qualcosa d’interessante, non credi?” gli suggerì melliflua suggendogli la pallina del lobo dell’orecchio, arrossata come una brace. “Ma come ti viene in mente? Che gli dico? Scusa Berto, oggi vengo a ficcare il naso a casa tua per vedere se trovo il Gratta e Vinci: non ti disturba vero? No, no: accomodati pure!” obbiettò con sarcasmo puntuto. “Guarda che non è necessario che la fai tanto difficile. - ribadì la Titti, per nulla impressionata dalla sua reazione sdegnata Questa è la settimana dei turni di notte all’ospedale e la casa rimane completamente vuota dalle 20,00 alle 6,00. Comunque, vorrei rammentarti che io sono a orario ridotto da sei mesi, che la settimana scorsa abbiamo pagato a fatica la rata del mutuo, che rimangono ancora 50.000 euro da liquidare alla Banca, che non vede l’ora di sbatterci in mezzo alla strada, e che non abbiamo santi in Paradiso”. “E come ci entro? Gli chiedo la chiave?” le domandò con un tono già più arrendevole, terrorizzato dalla prospettiva di dover domiciliare sotto un ponte: l’espressione avvilita di un esodato della Fornero.

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“Non ce n’è bisogno. Ne tiene una copia sotto il vaso della salvia in giardino”. “E tu come lo sai?” “È una confidenza che mi aveva fatto la moglie” gli confessò sorniona, rinnovandogli la richiesta con uno stimolante massaggio ayurvedico alla patta dei pantaloni. Amos avvertiva l’esercizio di un dominio da parte della Titti del tutto inimmaginabile, oltretutto in una incredibile veste dark che avrebbe impressionato anche Lady Gaga. Nondimeno, il muro della sua diffidenza crollò del tutto quando Berto si presentò a casa con un mastodontico Suv delle stesse esagerate dimensioni di una portaerei. Che era come se avesse avuto scritto in fronte: navigo nell’oro! Tra l’altro, quello stronzo aveva preso il vizio di sgasare ripetutamente sotto le sue finestre, col risultato di produrre un impasto di gas combusti e di cazzi amari più venefico dei fanghi dell’Ilva. Fu così che, a mezzanotte in punto, del tutto furtivamente e col cuore che pompava come un diesel, armato solo della sua pila tascabile, Amos s’intrufolò in casa del suo vicino con il preciso obiettivo di curiosare nella camera da letto dove la Titti era quasi certa che da qualche parte ci fosse una cassetta di sicurezza. E fu proprio nel disordine dell’alcova che le sue teorie trovarono un sostanzioso riscontro con una compilation di banconote da 500 euro spuntate da un cassetto. Mentre da sotto il materasso fece capolino una busta con dentro alcune altre migliaia di euro più la fotocopia del biglietto vincente. “Cazzo, la Titti aveva ragione: da non credere!” Poteva bastare per trarre alcune non superficiali conclusioni. La sua attenzione fu però calamitata da un quadro appeso sulla perpendicolare del letto che riproduceva la grande fica pelosa di Gustave Courbet dal titolo L’origine del mondo. E come nella più classica banalità dei contesti criminali, da dietro quel quadro così emblematico si affacciò una cassetta

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di sicurezza che, a naso, doveva contenere l’ambito malloppo della vincita. L’eccitazione della scoperta fu tale da impedirgli d’identificare immediatamente l’origine di un pesante respiro ritmato e con affanno provenire dalle sue spalle che, lì per lì, aveva associato a quello della Titti quando facevano sesso. Era Ciro, il molosso napoletano di Berto: testone brachicefalo, 80 cm al garrese. Grugniva con un sordo mugolio, sbavando come chi si appresta a fare il pasto più succulento della giornata. “Buono Ciro… tranquillo. Sono io Amos, il tuo vicino di casa: non ricordi? Per Natale ti ho buttato l’osso dello stinco al forno. Dai che ti faccio una coccola. Dio santo, perché mi guardi così?” Era uscito di corsa inseguito dalla bestia che dovette arrendersi al fatto che il suo vicino correva più veloce di Spiderman: prodigi del jogging. “Sia chiaro: io in quella casa non ci torno più!” aveva imprecato Amos fuori di sé, con i capelli ritti come spilli e uno sguardo da posseduto che sembrava il cantante dei Sex Pistols: un aspetto totalmente alterato. “Che è successo?” gli chiese la Titti sinceramente sorpresa di quell’affanno tachicardico. “È successo che Berto ha messo Ciro a guardia della casa e per poco non mi sbrana” le rispose ancora con il fiatone. “Va beh, dai. Alla fine non è successo niente: calmati. Fai dei respiri profondi. Inspira ed espira molto lentamente… ecco così, bravo! Tranquillo, c’è qui la tua Titti. Toh, bevi il tuo cognacchino. Mi vuoi dire adesso se hai trovato qualcosa?” “Ci sono soldi sparsi dappertutto” sbottò ancora psicologicamente provato. “Hai visto che avevo ragione?” “Ho trovato la cassaforte… e anche la copia del biglietto vincente”.

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“Bravo Amos… il mio Amos” ripeté, mentre con fare felino si sfilò le mutandine e lo cavalcò fino a svuotarlo di ogni residuo ricordo della brutta avventura vissuta. Ancora una volta, fu la permanenza settimanale al “Becco Rosso” a restituire alla confraternita del maiale affettato la serenità necessaria per gestire le gravose problematiche quotidiane, prima tra le quali, quella recente di Amos. A essere onesti, quell’osteria aveva assunto, sempre più, la funzione di una nursery nella quale Amos & C. ritrovavano quel fanciullo altrimenti allenato agli stenti di un’esistenza quotidiana che lo costringevano a rintanarsi nei recessi più profondi del loro animo per sfuggire alle reprimende delle loro mogli, peggio di un ebreo perseguitato dai nazisti. A ben vedere, quella era l’ora d’aria del carcerato. “Ma quand’è che cresci?” era il quesito irrisolvibile che troncava sul nascere ogni possibilità di trovare un compromesso dignitoso alle loro divergenze lessicali: in particolare per Loris e Orfeo. Per taluni aspetti, a sentire certi discorsi Amos si rendeva conto di essere un privilegiato ad avere una moglie come la Titti, con la quale negli ultimi tempi si era addirittura rafforzato il sodalizio con un di più di complicità che esulava il pur già esaltante rapporto di coppia. Aimone, d’altra parte, di quella nursery sembrava la premurosa ostetrica, animato dall’unico scopo di nutrire quel trio di 40enni così teneramente fanciulleschi, viziandoli. “Ragazzi, mi è arrivato un culatello…” sibilava con la stessa espressione rapita di uno che aveva avuto la visione della Madonna, tentatore come il serpente dell’Eden.

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4. Metabolizzata la buriana emozionale del raid notturno a casa del Berto e dell’incontro ravvicinato con Ciro, Amos si cullò per alcuni giorni nell’illusione che quella storiaccia fosse definitivamente alle spalle, senza tenere conto del fatto che la Titti aveva ben altri pensieri per la testa. L’idea che il vicino fosse il possessore del biglietto vincente le si era fissata nella testa con una tenacia che rasentava l’ossessione. Al punto da spingerla a elaborare le mosse successive di una strategia che espose ad Amos una sera davanti alla Tv mentre Insinna spacchettava i suoi pacchi. Intuendo quale sarebbe stato il suo ruolo, ribadì col necessario vigore che lui in quella casa non ci voleva tornare, perché Ciro aveva un’ensemble di denti aguzzi da ridurre in briciole il Dalmata di mamma e con i frammenti farsi una tisana di ceramica: “Non sarebbe più semplice invitarlo a pranzo e chiedergli un prestito?” “Ma sì, hai ragione. Forse abbiamo esagerato: non pensiamoci più” commentò inaspettatamente arrendevole la Titti, forse rendendosi conto solo in quel momento di essere andata ben al di là del lecito: come rinsavita dopo uno sballo di adrenalina. “Vorrà dire che con la Banca troveremo altre soluzioni… magari anche un lavoro a tempo pieno”. A quel punto, preso in contropiede, Amos ebbe una reazione d’orgoglio che avrebbe stupito perfino Braveheart. “E no, a questo punto non lascio il bicchiere mezzo vuoto! Tutto questo travaglio per niente mi sembrerebbe anche da stupidi. Se non fosse per Ciro...” “Mi risulta che ieri Berto l’abbia portato dal veterinario per un’infezione intestinale che ha richiesto l’immediato ricovero ambulatoriale” osservò svagata la Titti che ormai aveva assunto una posizione defilata che restituiva ad Amos, tutto intero, l’onere di ogni ulteriore decisione. “Rimarrebbe pur sempre il problema di una cassaforte che

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non si apre certo con un abracadabra” considerò dubbioso sulla fattibilità di una seconda incursione a casa del Berto. Quasi controvoglia, e solo dopo parecchie insistenze, la Titti gli confessò infine di ricordare una confidenza della buon’anima relativamente al fatto che la combinazione si componeva dei numeri riferiti alla data del suo matrimonio: 060606. “Facile anche da ricordare” commentò Amos, ormai persuaso del fatto che quella missione andava portata a termine a ogni costo. E poi si era già pronunciato, forse anche un po’ troppo affrettatamente. Ma non se la sentiva di perdere la faccia davanti alla sua Titti: la parola data andava onorata! Atteggiamento ammirevole che la Titti si sentì in dovere di ripagare con un vivace massaggio Shiatsu in un combinato di mani e lingua che dissiparono ogni riserva mentale da parte sua. Guidato dal suo sconfinato amor proprio, Amos si ritrovò nel medesimo ambiente disadorno diretto senza incertezze verso la grande Jolanda appesa dietro la quale si nascondeva l’obiettivo delle sue sofferte attenzioni. Compiuta la sequenza numerica, magicamente, la cassetta si aprì con un fffsssss pneumatico che gli valse la visione deprimente di uno spazio rettangolare 25x30 desolatamente vuoto. Immediatamente dopo, uno sparo. Quella che seguì fu una concatenazione di eventi della cui valenza Amos si rese pienamente conto solo il giorno dopo in una stanza d’ospedale, piantonato da un poliziotto. Le news televisive riferivano la cronaca di un tentativo di furto finito nel sangue. Il misfatto era avvenuto nell’abitazione del sig. Norberto Tosti che, allarmato dai rumori provenienti dalla camera da letto, aveva messo mano alla sua Beretta Parabellum regolarmente denunciata, esplodendo poi un colpo per difendersi dall’aggressività di un malvivente scoperto a rubare. Sorprendentemente, si trattava del suo vicino di casa Amos Maioli che si stava prodigando nel tentativo di aprire la cassaforte a

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muro dopo avergli avvelenato il cane. Richiesto di un commento a caldo, il Tosti era stato lapidario: “Non c’è più religione!”. La Titti, prostrata dalla vergogna per quel fatto criminoso con al centro il coniuge, si era recata in ospedale passando per l’ingresso delle camere mortuarie per dribblare i giornalisti che bivaccavano all’ingresso. In reparto, superato con noncuranza il poliziotto piantonante la stanza del malvivente col femore in frantumi, fu raggiunta da Berto nell’esercizio delle sue funzioni professionali, che la invitò consolante ad accomodarsi in un ambulatorio per riprendersi dalla tensione indotta da quella situazione così avvilente. Chiusa la porta, si abbracciarono e si baciarono appassionatamente. “Non ne potevo più, - sbottò la Titti riprendendosi - finalmente quel coglione è sistemato a dovere. Oggi stesso vado dall’avvocato per aprire la pratica di divorzio. Piuttosto, - gli chiese come se un improvviso dubbio le avesse offuscato la visione di un piano arrivato al suo esito finale - spero che al processo non ci sia qualche legale figlio di puttana capace di scagionarlo”. “Forse solo se il suo avvocato fosse Ghedini, ma non mi sembra il caso. Tranquilla! Comunque, casa mia è disseminata delle sue impronte e in più è stato colto in flagranza di reato. A te non possono risalire e a me non possono nemmeno imputare l’eccesso di difesa. Mi dispiace solo per quel bonaccione di Ciro che ho dovuto sopprimere per aumentare il carico di responsabilità del tuo ex: un sacrificio doloroso ma necessario. A proposito, - le domandò premuroso prendendole il viso tra le mani - quei 200.000 euro della vincita sono già depositati sul tuo conto in Banca?” “Certamente! Naturalmente, detratte le spese per l’acquisto del rasaerba, dello scooterone e quelle per il noleggio del Suv”. Berto le allungò le banconote sparse nella sua camera da letto per organizzare la trappola.

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“Tornate a casa da mamma” commentò sogghignando mentre le lasciava cadere nella borsa della Titti, compiaciuta oltre misura per quel finale col botto. “La telefonata che hai fatto al Bar Parigi è stata geniale. Mentre tutti davano la caccia a un uomo, la sottoscritta depositava in Banca il biglietto vincente. Ma ci pensi? Condannata a vivere accanto a quel fesso che dopo 12 anni pensava solo agli agnolotti e alle insulse salsine, perché come le facevo io… fanculo! Appena passata la bufera quella montagna di soldi ce la godremo io e te. E vai!” strepitò, prorompendole dal petto quell’incontenibile grido di vittoria represso per anni all’ombra di quel tonto di Amos, che in quello stesso preciso momento stava a pochi passi a chiedersi perché la Titti non fosse ancora giunta al suo capezzale. “E pensare che se quel cretino non si fosse fissato con le mitiche paste di Silvano, io in quel bar non ci sarei neppure entrata: baciami Berto. Ah, dimenticavo: sono incinta!”

Giancarlo Sacchetti, classe 1948, residente a Guastalla (RE). A riposo dopo un ricco percorso di esperienze professionali: da quelle operaie a quelle politico-amministrative e sindacali. Scrive da anni opere narrative prevalentemente di genere giallo-noir. Nel 2015 ha pubblicato con KimeriK il romanzo Le rose di Melba, mosso dal desiderio di cimentarsi con una storia che avesse per tema l’insediamento della ‘ndrangheta al nord. Predilige l’autopubblicazione, potendo allo scopo avvalersi di un operatore telematico che garantisce qualità di stampa e uno spazio adeguato per le opere da lui prodotte, alcune delle quali sono presenti negli store Mondadori e Feltrinelli.

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Alé si parte di Orio Riccò

Estate 1954 - Alé, si parte, in carrozza! Non su una Topolino Fiat Amaranto, dove si va che è un incanto, ma una delle prime Topolino serie A a balestra curta. L’equipaggio era così composto: al volante, driver, Don Gaetano Incerti e… copilota navigatore… una latta di marmellata da 50 kg, mentre sui sedili posteriori io, Orio e Enrico Venturelli, allora dodicenni, felici come pasque, ridevamo in continuazione, pur senza motivo, ma eravamo presi da una incontenibile ridolina! Aggiungo una nota di colore ieri, l’altra sera in occasione della cena annuale per la Strenna Artigianelli, ero con il Don, che ora ha 94 anni, mentre allora era 33enne. Siamo stati gli ultimi a lasciare il ristorante su invito garbato dei camerieri che riordinavano i tavoli e, dopo un Averna al Don e una grappa a me, il driver Gaetano è salito sulla Fiat Punto (la Topolino non c’è più) e, dopo sette buonanotte e una sgasata, i suoi fari si sono persi su Viale Monte Grappa, nome questo parzialmente intonato alla serata! Sperom al bein1, ma lui sicuramente deve avere un angelo custode di primordine! Allora dicevamo, si parte, direzione “Villino degli usignoli” Rivabella o Bellaria, non ricordo esattamente, dove in una casa bombardata e in via di ricostruzione ci aspettavano altri amici in vacanza vogliosi, si fa per dire, dei rifornimenti di… marmellata!

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Speriamo bene

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Imboccata la Via Emilia (ricordo che nel 1954 l’autostrada del Sole ancora non c’era) fino a Bagno tutto ok. Ecco che proprio qui, improvvisamente… uno strano rumore, una vibrazione e… un spulvras, ovvero una nuvola di polvere, pervade tutto l’abitacolo del Topolino A a balestra curta. Cos’era successo? L’albero di trasmissione che invia il movimento dal motore anteriore al differenziale posteriore si era rotto e il cardano, sbattendo, tagliava la lamiera del pavimento dell’auto. Alt! Questa non ci voleva. Ci si deve fermare. Spinta la Topolino A a balestra curta con la marmellata, lasciata nella chiesa di Bagno, si ritorna sulla Via Emilia. Noi due dietro alla siepe e il Don con la sua veste svolazzante a fare l’autostop. Ottenuto il passaggio si ritorna a Santa Croce esterna in Viale Ramazzini. Il Don, ragionevolmente, propone di rimandare la partenza al giorno successivo. Neanche per sogno Don, io ho ricevuto dopo tanto penare il permesso di andare al mare e voglio, imperativo, partire oggi. Don Gaetano si arrende alle mie insistenze e, da uomo pratico, si fa accompagnare a Correggio prende la Topolino del fratello, che credo si chiamasse Dante, e tutto trionfante ritorna a Santa Croce in Viale Ramazzini. Questa sì che era una macchina, intanto il colore non era più nero, ma di un bel grigio signorile, il modello non era primitivo come la prima, bensì era una Topolino B, cofano arrotondato, le gomme cerchiate di bianco, una… Rolls Royce. Tornati a Bagno, ricarichiamo la latta da 50 kg di marmellata che, tolto il sedile anteriore, prendeva il posto del navigatore. Noi due dietro, sempre felici come pasque, e il driver, con una sgasata, riprende la Via Emilia verso Rubiera. Quanti paesi e città attraversiamo: Modena, Castelfranco, Bologna, Imola, Forlì, Cesena, ecc., avendo come obiettivo il Villino bombardato in ricostruzione. Arriviamo a notte fonda, una luna piena illumina il Villino, posto in una spianata senza alberi e/o recinzioni, era là… solo…

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senza una luce accesa, illuminato da una splendida luna piena! È mezzanotte passata, silenzio tutt’attorno, neanche l’abbaiare di un cane ad annunciare il nostro arrivo. Rivedo il cortile di sabbia con l’impronta delle ruote della Topolino. Al piano terra le finestre avevano le tapparelle, ma al piano superiore erano chiuse da tende. Questo era il nostro alloggiamento: un’unica stanza, camerata con tante brande, pavimento grezzo non ricoperto da piastrelle e solo tende alle finestre. Enrico, critico e trasgressivo: “Ostia, che Castel!”2. E giù a ridere! Ma viene subito zittito dal Don: “Avanti, ciapa chè!”3 intendendo il navigatore. Sollevammo la latta tenendola per il bordo: uno davanti e due dietro, poi saliamo su per la scala che era senza mantino o ringhiera di protezione, al buio, o meglio al chiarore della luna piena, che dava un certo riverbero dalla finestra della scala senza tenda e che ci permetteva di vedere i gradini. Arriviamo al pianerottolo, io ed Enrico dietro il Don davanti, naturalmente sempre ridendo come due deficienti, ma a bocca chiusa, che fa ancora più sobbalzare la pancia dal ridere. Il Don di schiena sposta la tenda dell’ingresso e urta una branda al buio da dove parte una madonna, che richiama come una molla la mano del Don che gli molla una sberla! Urto, bestemmia, sberla tutto in un nano secondo. Dio è lento a punire, ma non certamente il suo ministro Don Gaetano. Poi silenzio, ho pensato: è morto… Vedremo domani mattina! E così finisce la prima giornata, non boccaccesca, ma sicuramente avventurosa, una piccola odissea. La mattina, al risveglio, scopriamo di essere in una comitiva di una trentina tra piccoli, di età compresa fra i 10 e i 13 anni, e ragazzi grandi, che già al mattino si facevano la barba, tra questi ultimi, anche uno o due universitari.

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“Accipicchia, che castello!” “Avanti, prendi qui!”

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Alla vista del navigatore, pardon, della latta da 50 kg, tutti mugugnarono: “ancora marmellata mo basta, ègh vol ‘d la murtadèla!”4. Ma questo era quello che passava il convento. Di notte succedeva di tutto: con il tubetto del dentifricio sporcavi le guance dei dormienti, così alla mattina erano già bell’insaponati, oppure, mentre dormivi profondamente, con due dita ti chiudevano le narici. Si svegliava il malcapitato, sbruffava poi si riaddormentava e così si continuava fino al risveglio totale. Poi cuscinate a non finire fino a che il maestro Santi Oscar interveniva; ti prendeva per un orecchio - che male! fino a staccartelo e ordinava con severità: “Adesso tutti a letto! Basta”. Così era. Andiamo in spiaggia; il Don si toglie la vestona e si presenta con due mutande fino al ginocchio e una canotta che copriva le spalle; gli mancavano i pizzi per sembrare una ballerina. Tôtt a réder!5 Al pomeriggio arrivava la solita merenda, che consisteva sempre in un panino con… la marmellata! Sempre marmellata! Non se ne poteva più e una volta il quasi ingegnere Cavecchi protestò: “basta cûn stà marmellata!”6 e buttò via il panino. Non l’avesse mai fatto! Il Maestro Santi Oscar, nonostante Cavecchi fosse quasi ingegnere, lo prende per la solita orecchia e dice in dialetto arsano7: “tol sò e magnel. No anghè dobi! Magnel j’ho dett! Sé no… Sè!”8 e alla fine, prima che si staccasse l’orecchia, Cavecchi (di cui non ricordo il nome) prende il panino con marmellata e sabbia e gli da un morso sputando poi per venti minuti. Tutti ridevano, ma soprattutto i fratelli Goldoni, che erano i più piccoli della compagnia, per i quali era ancor più divertente vedere un grande che subiva, godeva“ma basta, ci vuole della mortadella!” Tutti a ridere! 6 “basta con questa marmellata!” 7 reggiano 8 “raccoglilo e mangialo. Non c’è dubbio! Mangialo ho detto! Se no…” 4 5

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no in modo particolare, sembravano Bibì e Bibò. Ricordo la nostra massima trasgressione: fu di andare tutti in pigiama di sera dal Villino diroccato al centro del paese Rivabella. Come verrebbe visto dai giovani d’oggi questo trasgredire che per noi sembrava così tranchant. Forse non farebbe neanche ridere, ma così andava il mondo nel 1954.

Orio Riccò è nato e vive a Reggio Emilia. Laureato all’Università di Parma in Scienze Naturali, ha insegnato materie scientifiche. Si dedica da anni alla scrittura di poesie, racconti brevi e testi di canzoni che lui stesso esegue e ha inciso. Coordina un gruppo “I Dialetant” che si propone di valorizzare il vernacolo e la storia reggiana. Ha recitato al teatro San Prospero di Reggio Emilia e al teatro Aurora di Traversetolo (PR). Ha ottenuto significativi riconoscimenti locali e nazionali: ultimo premio, in ordine cronologico, nella sezione narrativa al concorso Va, pensiero di Soragna (PR) il 22 ottobre 2017.

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Resisti di Massimo Bisi

“Dat na mòsa! T’è seimper l’ultma!”1 il bidello Gianni ha tutte le sue ragioni e fa solo il suo lavoro, ma Simona non lo fa apposta. Si alza alle sette e un quarto, va in bagno, si lava la faccia, prepara la cartella, si veste ed esce da casa. Fa tutto da sola perché i genitori lavorano in bar e si alzano presto, molto prima di lei. Quindi ha imparato ad arrangiarsi, a “sviluperès”2 come si dice qui da noi. Cerca di sbrigarsi il più possibile facendo tutto in fretta, ma non abbastanza poiché arriva sempre all’ingresso della scuola quando anche l’ultima campanella è già suonata. “Gianni, dovevo prendere la mia colazione! Una rosetta con la mortadella, il mio panino preferito. Però mi piace anche quella col salame milanese. E da bere un fruttino alla pesca: è un po’ troppo dolce ma va bene. Volevo quello alla pera, ma l’avevano finito. Lo sai che il banco dei salumi è lontano dallo scaffale dei fruttini? Ho dovuto fare il giro di tutto il negozio. E poi ho perso un po’ di tempo anche alla cassa perché c’era tanta gente che stava pagan…” La voce di Simona s’interrompe di botto quando la fronte del bidello si arriccia in mille rughe, i suoi baffi neri diventano un tutt’uno con il naso e la sua bocca si prepara a esplodere come un vulcano in eruzione. “A tal dag me la murtadèla! Dai, dai… smommiet! Vai in classe!”3 Con uno scatto che le permette di schivare la pesante mano di “Sbrigati! Sei sempre l’ultima!” svilupparsi 3 “Te la do io la mortadella! Dai, dai… sbrigati! Vai in classe!” 1 2

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Gianni (che non arriva a bersaglio sulla sua nuca solamente per una frazione di secondo), Simona inizia a correre rischiando di perdere tutto il contenuto della pesante cartella che porta sulle spalle. Gli scappellotti del bidello sono famosi alla scuola Anna Frank di Rio Saliceto e lei non ci tiene per niente a provarli. La sua fuga è repentina quanto breve: il tempo di oltrepassare l’androne centrale, svoltare l’angolo e infilarsi nel lungo corridoio che porta alle prime classi. Poi, lontana dallo sguardo del suo guardiano, riprende il suo solito passo saltellante. Tanto il maestro Valeriani non le dirà niente: lui è buono e paziente, non come Gianni che è sempre arrabbiato. Miglior insegnante non poteva capitarle per iniziare la scuola dell’obbligo: poco più di trent’anni, capelli sulle spalle e barba lunga, slegato dagli stereotipi del maestro classico, uno stile tutto particolare di fare scuola, lontano anni luce da quello dei suoi colleghi. Alcuni dicono che sia un figlio dei fiori, forse per quel suo modo di insegnare agli alunni l’amore per la terra e per i suoi abitanti, persone, animali o piante che siano, piuttosto che le nozioni di aritmetica e grammatica. Perché dopotutto, come dice lui, “di amore sulla terra non ce n’è mai abbastanza, soprattutto in questi anni Settanta pieni di odio, di guerre e di problemi dovuti alla stupidità degli uomini”. Un metodo che ha incontrato, almeno in parte, l’ostruzionismo e le perplessità dei suoi colleghi, che lo vedono un po’ come un marziano perché troppo fuori dagli schemi. I suoi alunni invece lo osannano e Simona, come gli altri scolari della classe, ne subisce il fascino, approfittando spesso della sua cordialità per confidarsi. Come oggi ad esempio, una giornata speciale per lei. “Cos’è che ti preoccupa, Simona? È da mezz’ora che cerco di spiegarti come mettere i contrappesi sulla stadera e tu nemmeno mi ascolti”. La ragazzina mingherlina china la testa e con un filo di voce e lo sguardo basso si confida con l’insegnante. “Maestro, stasera ho la mia prima gara di ballo Liscio”. “È una bellissima notizia. - esclama Valeriani - Non sei felice?” Gli occhioni azzurri della bambinetta si fanno ancora più grandi e lucidi, come quelli di un gatto che ti guardano per elemosinare

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cibo. “Ho tanta paura di sbagliare…” “Sai che è solo sbagliando che s’imparano le cose? Se tu non provi, non puoi sbagliare. Se invece ti butti, potrai fare errori ma anche imparare da questi. E la prossima volta sicuramente farai meglio. Ci vuole coraggio nella vita.” Le parole di conforto escono dalla bocca del Barboun (il Barbuto, nomignolo affibbiatogli dai genitori degli alunni) con voce gentile, mentre la sua grande mano accarezza dolcemente la testa della bambina. Mentre esce a piedi dalla scuola, Simona ripensa alle parole del suo maestro: il coraggio, imparare dagli errori, buttarsi e provare. “Sì, sì… però tanto ci devo andare io a ballare, mica lui”. Il viaggio verso casa, tagliando per il campo dietro alla chiesa e poi lungo il marciapiede che porta in piazza, è un susseguirsi di pensieri verso la serata che verrà, cosa che non giova di certo alla sua serenità. È indubbio che ballare le piaccia, ma questa cosa di partecipare alla gara non la convince. Sua madre e suo padre hanno insistito tanto e allora lei si è lasciata convincere: la Gianna e Franco (i loro nomi) non vedevano l’ora di ammirarla alle feste de l’Unità, danzare sulle piste da ballo o sui parquet delle balere col sottofondo delle sonate più famose della dinastia Casadei. Ed è così che si è ritrovata a sgambettare, dentro il suo completo da reginetta, in coppia con Massimo, un maschietto poco più grande di lei. Inizialmente l’imbarazzo era tanto, ma poi è via via scemato col passare del tempo. A dirla tutta non è mai sparito del tutto, ma il frequentarsi durante i corsi ha tolto un pochino di timidezza e agevolato la loro amicizia (anche se, come tutti i bimbi sanno, maschi e femmine non potranno mai essere davvero amici). Quello che terrorizza Simona è il confrontarsi col pubblico, danzare davanti alla gente ed essere giudicata. Per questi motivi nella sua testa mille cose s’intrecciano come fili di lana sull’uncinetto. “Mi ricorderò tutti i passi? Mi girerà la testa quando farò le piroette? E se inciampo e faccio cadere Massimo? E se gli pesto un piede? Se poi balliamo malissimo e arriviamo ultimi? I giudici saranno severi? Quante saranno le coppie in gara? I miei genitori

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resteranno delusi? Ma perché esistono le gare!” Completamente assorta nei suoi pensieri, Simona nemmeno si accorge di essere arrivata e di aver superato la sua abitazione. Sono gli schiamazzi dei ragazzi delle Medie, appena usciti da scuola, a riportarla alla realtà. Alcuni si stanno rincorrendo lanciandosi borse di plastica piene di acqua, riempite alla fontana pubblica posta su un lato della grande piazza: l’estate è ormai alle porte e la stagione dei gavettoni è ufficialmente iniziata qualche settimana prima, durante il lunedì della fiera di maggio. Seguendo la scena, per un attimo Simona riesce a non pensare alla gara e alle sue paure e un sorriso appare sul suo volto come l’arcobaleno dopo il temporale. Il pomeriggio è dedicato ai compiti di scuola dentro il bar dei genitori. Il “Centrale” è frequentato da vecchietti che si sfidano a briscola e che tracannano bianchini di bassa lega, ma anche da quarantenni che si sfidano a boccette sui grandi biliardi posti in mezzo al locale, mentre qualche ragazzino fa tintinnare i numeri plastificati sul grande schermo del flipper. Ogni tanto qualcuno entra nella cabina telefonica della SIP: magari qualche sbadato ha dimenticato un gettone che si può cambiare alla cassa con una moneta da 50 lire. Col passare del tempo l’ansia di Simona aumenta: mancano solo poche ore all’inizio della gara. Mentre Franco si preoccupa di sfrattare gli ultimi clienti dal locale prima delle pulizie serali, la ragazzina e la madre corrono su per le scale, al piano di sopra, per i preparativi: ci sono le prove del vestito e l’acconciatura da fare perché stasera tutto dev’essere perfetto. Simona però è molto agitata e durante la vestizione deve scappare in bagno in più di un’occasione. “Mo’ c’sa gh’et adòs, Simona?4 Stai ferma che devo farti il cucco!”. Fosse facile… nonostante le insistenze della Gianna, la ragazzina non riesce a tranquillizzarsi. Troppa agitazione, troppa ansia, troppo tutto. “Adèsa at fag na bèla camo-

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“Ma cosa hai addosso Simona?”

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mela, acsè tet met chieta”5. Esattamente alle ore 19.30 genitori e figlia escono da casa e s’incamminano verso il luogo della gara: da casa loro sono poche centinaia di metri a piedi. Una volta arrivati davanti al municipio si gira a sinistra e la grande insegna rossa “Unità” accoglie le persone all’ingresso del parco comunale. Come da prassi, il papà di Simona inserisce qualche spicciolo dentro il contenitore di legno con la scritta “offerta libera”, ricevendo dalle mani del delegato di turno il programma della festa, fatto principalmente di comizi e serate danzanti. La musica registrata che arriva dai megafoni appesi ai pali di legno della linea telefonica presuppone che l’orchestra non ha ancora iniziato a suonare. I musicisti, infatti, stanno ancora chiacchierando tra di loro e gli strumenti sono appoggiati sul pavimento di legno del palco. Mentre sulla tribuna il pubblico inizia a occupare posto, Simona lascia la mano della madre e raggiunge Massimo in fondo alla pista, dove sono disposte le altre coppie di ragazzini arrivate dai vari circoli dei paesi vicini. I due si salutano, ma mentre il maschietto con aria distratta sembra infischiarsene di tutto quello che succede intorno, per la femminuccia è l’esatto contrario: le mani sudate e il cuore che batte fortissimo sono il segnale che l’agitazione non è passata. La voce di Adorno Bonaretti, lo speaker della serata (lo stesso che gira per il paese con la sua Fiat 124 verde ramarro a pubblicizzare la vendita di gnocco fritto), dà il via alla presentazione delle coppie in concorso. L’annuncio dura qualche minuto perché i ragazzi in gara sono veramente tanti, tempo che a Simona sembra non passare mai. Poi, purtroppo o per fortuna, arriva anche il gran momento. “E infine per la Casa del popolo di Budrione, Simona e Massimo! Diamo inizio alle danze: musica, Maestro!” Sulle note dell’orchestra di Castellina Pasi (una delle più rinomate della zona), Massimo conduce Simona al centro della pista e inizia a roteare a più non posso. La ragazzina non capisce più nulla e si abbandona al ritmo del suo

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“Adesso ti faccio una bella camomilla, così ti tranquillizzi”

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piccolo cavaliere, seguendone i movimenti e cercando di assecondarlo nel miglior modo possibile. È la mazurka di periferia scaccia pensieri, tanta allegria ci basta un grillo per farci sognare metti la quarta e balla con me “Un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre… selta, gira, prèla, resest!”6. Simona conta mentalmente i passi di danza, cercando di rimanere concentrata e scandendo il ritmo per evitare di andare fuori tempo, come fanno i cavalli che nelle gare di trotto iniziano a galoppare. Massimo continua a farla girare, girare, girare. “Un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre… dai cl’è finida, tin bòta!”7 ripete nella sua testa la ragazzina col tutù e il fiocchetto al polso. I due ragazzini, che sembrano pupazzetti su un carillon, stanno ballando bene e tenendo il giusto ritmo: i movimenti non sono proprio perfetti ma per niente goffi. Con la mazurka di periferia ti vien la voglia di fare l’amor! La musica finisce e il pubblico, sollecitato dalla voce ironica del venditore di gnocco fritto, si prodiga in un fragoroso battere di mani. “Portobello ha detto stop! Un bell’applauso per questi ragazzi. Presto sapremo dalla giuria quali sono le coppie migliori di questa serata”. Il brusio del pubblico fa da sottofondo all’attesa del verdetto, pochi minuti che sembrano un’eternità. Mentre tutte le coppiette sono immobili al centro della pista, la ragazzina col cucco rompe gli indugi e si avvicina al suo piccolo compa-

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“salta, gira, rigira, resisti!” “dai che è finita, resisti!”

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gno, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Dall’altoparlante arriva la voce distorta del presentatore. “Attenzione! Abbiamo i nomi della prima coppia premiata. Terzi classificati: Simona e Massimo della Casa del popolo di Budrione!” Sui gradini della tribuna e sul prato ai lati della pista, la gente fa gran festa. I genitori dei due ragazzi si congratulano gli uni con gli altri, mentre le altre coppie battono le mani agli avversari in segno di sportività. Solamente i due ragazzini sembrano non festeggiare: Massimo è in piedi, con un muso lunghissimo e le braccia conserte che guarda esterrefatto la sua compagna con aria schifata. Lei, di fronte a lui a testa china, fronte fredda ma sudata, gote rosse come fragole. Quel breve ma lunghissimo momento resterà impresso nella loro memoria per tutti gli anni a venire. Come le poche parole, semplici e innocenti, che una bambina di sei anni vestita da principessa ha sussurrato all’orecchio del suo principino in una sera d’inizio giugno, al termine di una gara di ballo. Con tanto imbarazzo, ma con un immenso senso liberatorio. “Massimo… am sun piseda adòs…”8

Massimo “Cicci” Bisi, ex ragazzo vicino alla cinquantina, è di Rio Saliceto (RE). Nonostante il lavoro (soprattutto) e il calcio (un po’ meno) lo tengano molto impegnato, ogni tanto si ritrova a scrivere della sua vita e di quella dei suoi conoscenti, raccontandone aneddoti e curiosità. Questa volta la protagonista è la sua amica Simona, in quello che potrebbe essere (forse, chissà) il primo episodio di un racconto ben più lungo.

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“mi sono pisciata addosso…”

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Libero e Arturo di Catia Morgotti

Erano molto amici, vicini di casa e lavoravano i campi. Ognuno di loro aveva la sua terra da mezzadro per spezzarsi la schiena e quando c’era bisogno di darsi una mano erano pronti ad aiutarsi come due fratelli. Del resto in quel periodo le famiglie contadine erano molto solidali tra di loro. Come quando si svuotava la massa e si portava il letame nei campi. Ogni casa aveva un carro di legno per trasportare il letame, era una sorta di carrozza alta, corta e quadrata con due stangoni laterali da attaccare al cavallo che erano più lunghe del corpo del carro. I vicini si radunavano tutti quanti attorno la concimaia, ognuno con il proprio carro e spalavano il letame fino a riempirlo. Quando poi il primo era pieno, avanzava il successivo, poi l’altro ancora fino a quando calava la sera. La sera, Libero e Arturo andavano in giro in bicicletta e avevano una casa in cui piaceva loro fermarsi a fare filos1. Abitava ai confini con la loro terra una famiglia, i Murgot. C’erano quattro sorelle in quella casa con il padre e la madre e almeno tre di loro erano ragazze da marito. Erano loro che lavoravano i campi perché i loro cinque fratelli erano tutti al fronte a fare la guerra. Nel pomeriggio Libero diceva all’altro: “dai stasera andiamo in filos?” Arturo, che era già stanco dal lavoro, rispondeva con poco entusiasmo: “va bein, va bein, andom, mo me a sun

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trovarsi per stare in compagnia

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stoff d’ ander seimper le!2 Vengo solo per accompagnarti, disse all’amico - ma io non ne ho sempre voglia!” La frequentazione di quella casa era diventata molto assidua perché a Libero piaceva la Dea, la più bella delle figlie di Murgot. Era bella, alta, snella e amava cantare. Se Libero durante il giorno non la poteva vedere, almeno sentiva la sua voce provenire dai campi cantare belle canzoni d’amore. Dea era intonata, cantava ovunque poteva, anche mentre pelava le foglie dagli alberi con le mani nude. Quando scendeva dall’olmo con un cesto pieno di foglie che riversava in un cestone grande, lei era contenta, sapeva che con quelle foglie le mucche si nutrivano meglio e avrebbero fatto più latte per sfamare tutta la famiglia. Quella sera i due amici decisero di arrivare attraverso i campi, c’era la luna che illuminava bene la campagna e loro la conoscevano bene. Intanto la madre e le ragazze erano in pensiero perché sapevano che per l’ennesima volta i due sarebbero arrivati. Solitamente si riunivano nella stalla che a quei tempi funzionava anche da salotto. Si faceva tardi, i due non decidevano di andarsene a casa nemmeno quando le ragazze, stanche morte per la dura giornata di lavoro, cominciavano a sbadigliare e a dare qualche segnale di insofferenza. Niente, non capivano che era ora di andarsene. Alcune volte la madre Ernesta era costretta dire loro con fare piuttosto energico: “dei ragas, ande a ca’ cha andom a let!”3. Solo allora, sentendo quelle parole dette con tono di comando, si alzavano dalla sedia impagliata e se ne andavano. La madre Ernesta disse che quella sera se ne sarebbero tornati sui loro passi ed elaborò un piano. “Ci penso io, - disse alle figlie - ci penso io, voi fate quello che vi dico e intanto

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“va bene, va bene, andiamo, ma io sono stanco di andare sempre lì!” “dai ragazzi, andate a casa che andiamo a letto!”

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spegnete le luci”. Appena giunti alla casa, i due la videro solo grazie allo splendore della luna ma dentro era completamente buia. Un poco preoccupati si chiesero come mai non c’erano luci, era molto strano si dissero, ma senza pensarci troppo fecero il primo tentativo di bussare alla porta. Non ebbero risposta e allora bussarono ancora e poi ancora più volte senza sentire voci o rumori. Parlottarono un poco tra di loro e fecero l’ultimo energico tentativo: Bum! Bum! Bum! picchiarono contro il portone del portico provocando anche un certo rimbombo. Si udì una voce di donna che proveniva dal piano superiore, dalle stanze da letto, che gridando disse loro: “anghè nisun! Anghè nisun!”4 Non dissero una parola e senza guardarsi in faccia saltarono sulla bici e infilarono velocemente la strada principale per tornare a casa. La strada si vedeva bene e non accesero i fanali scoppiettanti a carburo, di cui erano dotate le bici. Non erano abituati a percorrere quella strada con il fatto che andavano sempre da traverso per i campi. Alla prima curva, dove c’era la Madonnina sul pilastro con il lumino acceso, Libero, agitato per quel rifiuto e con il fanale spento, strinse la curva e finì a capitombolo nel fossato. Scomparve alla vista di Arturo che comincio a chiamare: “Libero! Libero indu seet?!”5. Come risposta sentì la voce dell’amico che imprecava per il dolore alla gamba: “cag gnessa un asideint a toti al stredi chi ghan i foss! Ahia che mel! Che mel ala gamba!”6 Arturo lo aiutò a risalire. Lo tirò su fino ai bordi del fosso, lo rimise in piedi, lo fece camminare e gli disse: “adesso che

“non c’è nessuno! Non c’è nessuno!” “dove sei?” 6 “che venga un accidente a tutte le strade che hanno i fossi! Ahia che male! Che male alla gamba!” 4 5

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non hai nulla di rotto te lo posso dire, troia dun caioun let capida o no che la Dea lan tvol mia! Te stare bein a ca’ ala sira adesa!?”7 Libero annuì più volte con un cenno della testa, poi si mise al fianco dell’amico e ripresero a parlare. Fecero il tragitto a piedi fino a casa, portando ognuno la bicicletta a mano.

Catia Morgotti risiede a Correggio (RE) da quando è nata nel 1951. Ha lavorato come Consulente del Lavoro presso un’importante Associazione di Piccole e Medie Imprese a Reggio Emilia e Provincia. Pensionata da alcuni anni, svolge attività di volontariato presso Auser di Correggio, di cui è presidente. Ama il cinema e la fotografia. Ha frequentato corsi di scrittura creativa, le piace ascoltare storie e ricordi delle persone che incontra: le ispirano i racconti che scrive per passione. Suoi racconti sono stati pubblicati da Aliberti Editore nel 2006, Edizioni Akkuaria nel 2007 e nella raccolta Bassa in Letteratura nel 2011.

“stupido hai capito o no che Dea non ti vuole! Starai pur bene a casa la sera adesso!?” 7

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Il mistero del giornalaio di Canalnovo di Renato Ceres

Nel Polesine non ancora profondo, appena sotto l’argine del Fiume, vicino a Crespino e Papozze, c’è un borghetto che sembra finto, rimasto lì per sbaglio dopo aver servito da set per un film di Sergio Leone. Aldo aveva rogitato pochi mesi prima e la casa era già pronta da tempo per ospitare gli amici per l’inaugurazione. Una tipica abitazione rurale ristrutturata in stile. La proprietà di pertinenza, piatta e curata, arriva esattamente sotto l’argine maestro sul quale corre nuova, splendida, giovanile, ecologica, corretta una pista ciclabile che inizia quaranta chilometri prima al ponte di Santa Maria Maddalena. Poche settimane prima della cena, il paesino era salito agli onori della cronaca forse per la prima volta nella sua storia per il caso del giornalaio che era stato trovato morto all’interno della sua edicola chiusa, proprio nella piazzetta centrale. Aldo aveva preso le ferie per poter trascorrere un paio di giorni a preparare le vivande; piatti caldi e freddi sia nel rispetto della tradizione polesana che del cibo da strada, pardon: street food. I ragazzi tirarono fuori dalle custodie i loro soliti strumenti e il vino scorreva a ruscelli e torrenti; le risate, gli aneddoti e i brindisi alla nuova dimora di Aldo seppellivano a tarda sera le braci di quella curiosità che era in tutti noi: come poteva essere verosimile la storia di un tranquillo edicolante senza problemi e senza depressione che si toglie la vita proprio dentro alla sua edicola nel centro di un paesino isolato e sconosciuto? Era ormai notte fonda e gli ospiti se ne erano andati; ero rimasto solo io, che dovevo passare la notte nella nuovissima camera degli ospiti, ancora vergine. Assistevo un po’ intontito alle

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operazioni di pulizia degli esterni che precedono la chiusura di una casa. Goffamente aiutai nello spostamento di tavoli e sedie, nella selezione di bottiglie vuote e mezze piene, nel trasloco di vetri e piatti dall’aia alla cucina. Infine sentii Aldo chiamare il proprio gatto, farlo entrare in casa e chiudere la porta. Questo gesto cambiò i connotati della serata. Mi sembrava una cosa molto stravagante che uno come lui, che conoscevo molto bene, non permettesse al proprio gatto di seguire la propria natura: un animale cacciatore e prevalentemente notturno avrebbe dovuto essere lasciato libero di assecondare il proprio istinto, a maggior ragione in una casa di campagna senza strade trafficate e pericolose nelle vicinanze. Siamo amici, io e Aldo, potevo tranquillamente chiedergli conto di quella piccola ma incomprensibile azione. Nel rispondere cercò di usare tutta la naturalezza e la spontaneità di cui era in possesso, compresa quella simulata, per dirmi che temeva per l’incolumità del suo felino di compagnia, in quanto aveva sentito dire da gente del posto, anche prima del suo arrivo a Canalnovo, che quelle erano campagne dove era potente la presenza di volpi e di tassi, e molti avevano lamentato la scomparsa dei gatti, ma anche di altri animali di bassa corte, e nessuno però era mai riuscito né a vedere né, tantomeno, a catturare una faina o una donnola, che comunque è risaputo non attaccano gatti, ma solo pollame. A un certo punto di quel resoconto, mi accorsi che Aldo non credeva molto a ciò che stava dicendo e lo pregai di dire la verità, perché nessuno ha mai chiuso in casa il gatto di notte, soprattutto in campagna. Poi l’orario, lo stato psicofisico di entrambi e la confidenza che c’era tra noi permetteva di vuotare il sacco, anche perché la cosa in sé proprio non mi sembrava un affare di stato, e insistetti un po’. Accettò il mio invito e finalmente mi disse che lui, e solo lui, sapeva la verità sulla morte del giornalaio e dei gatti di Canalnovo. Solo che in quel momento, che l’edicolante non c’era più, era rimasto l’unico custode di questi due piccoli misteri della bassa e iniziava a sentirsi un po’ a disagio nella sua nuova abitazione dove stava da pochi mesi, lui rovigotto di città; non vedeva l’ora di parlarne con qualcuno che non fosse

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la polizia. Mi feci sotto, mi feci coraggio, e parlò. “Ceres, io conosco questa persona cioè… questo essere… insomma…” Si blocco un momento, si versò un goccio, riempì il mio bicchiere. “Hydra; si chiama Gianni-Loris-Uber-Franco-Gunther-CarmelaMaria”. “Azz! Sette nomi e un cognome mai sentito da queste parti: Idra”. “No, Ceres, non Idra, ma hydra”. “Cioè?” lo guardai perplesso, e poi riprese: “Non è un cognome. Ed è una sola”. “Cosa? Chi è una sola?” “L’hydra. - rispose tranquillo - Sette teste e un corpo. È una sola; cinque teste di maschio e due di femmina”. “Aspetta Aldo, aspetta” stavo ridendo in quella maniera che impedisce di parlare anche per diversi minuti e lui stava facendo altrettanto. Quando ci riprendemmo pensai di stare al gioco e alimentare questa assurda invenzione, come succedeva quasi tutte le volta che ci trovavamo insieme dopo qualche ora di bibite alcoliche. “Ma dimmi una cosa allora: è cattiva? Devo preoccuparmi? Potrebbe capitare qui adesso, visto che hai chiuso il gatto in casa?” “Sì, certo può arrivare, ma non preoccuparti. Con gli uomini non è cattiva, solo un po’ pretenziosa, arrogante e maleducata. Poi non dovrebbe neanche avere tanta fame, visto che solo ieri, l’altra sera, le ho dato una cassetta piena di cotenne di maiale”. “Ah, bene. Senti, ma… - era davvero tanto tempo che non ridevo così di gusto - Dai, allora, descrivimela fisicamente…” “Oh Ceres; sei un laureato, sei uno che sa, figurati se non sai come è fatta un hydra”. Aldo stava facendosi serio. Aveva gli occhi seri, non stanchi, non smorti; seri. Completamente fuori tema. Ma andai avanti. “Sì, beh, so cos’è un hydra ma ho solo, e vagamente, presente quei disegni dei bestiari degli animali immaginari medioevali… dovrebbe essere una specie di draghetto…” “Immaginari un cavolo. Ha il corpo di un tacchino, ma è grande il

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doppio, due zampe palmate con gli artigli e sette colli di oca e sette testine di gufo sui colli, ma col becco molto più lungo, tipo quello dell’aquila. Parlano benissimo italiano tutte e sette le testine”. “Bella. Mi piace questa storia… vai avanti Aldo”. Io ridevo ancora tanto, lui no e si vuotava nel bicchiere dell’acqua del rubinetto; l’istinto mi diceva che non era un bel segno. Sorrideva, sì, ma sembrava molto convinto e contento di poter parlare liberamente. Per niente ubriaco. “Mi piacerebbe che passasse di qui, così non avresti più dubbi”. “No, no, per l’amor di Dio… ma vai avanti che ti ascolto”. “Non credo che passi stasera, non tanto perché non dovrebbe aver bisogno di mangiare, con tutte quelle cotenne che le ho lasciato l’altro giorno, quanto per il fatto che ha ripreso a fare la traghettatrice…” “Prego?” “Sì; aveva smesso, mi ha detto, perché quelli di Ferrara glielo hanno vietato, io lo so; cercava solo di guadagnarsi qualcosa trasbordando istrici dal Polesine alla sponda emiliana, ma a un certo punto quelli là hanno detto che lei era una sporca scafista che speculava sugli aculei dei poveri porcospini che sfuggivano dalla miseria e dalle guerre del Polesine. Adesso ha ripreso, ma ti assicuro che lei non chiede troppo, solo il necessario per sopravvivere”. “Ok, Aldo. Quanti anni ha?” una bella domanda senza senso; stavo forse entrando un po’ troppo nella parte. “Di preciso non lo so, non glielo ho chiesto, ma deve avere qualche secolo. Infatti per dimostrarmi che è affidabile e ha esperienza mi ha descritto il funerale di Matilde di Canossa a San Benedetto Po. Lei si era nascosta fra le bifore di un campanile… Sì, perché volendo, vola. Poco, ma vola. Svolazza. Sono andato a verificare l’attendibilità del racconto nelle cronache del tempo e… In effetti mi ha detto la verità”. Io ero immobile e shockato e pensavo e mi ripetevo: “l’hydra ha detto la verità, la verità, la verità…” “Sì sì, poi abbiamo avuto molte conversazioni. Le sette teste riescono molto bene a mettersi d’accordo su chi deve aprire la bocca

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cioè il becco per parlare”. “Dunque ti avrà parlato dei suoi problemi; immagino che al giorno d’oggi un’hydra non se la passi troppo bene… Dimmi, dimmi, che mi interessa”. “Per la verità, delle volte parlano tutte insieme, e lì capisco che ci sono dei problemi, comunque basta che io faccia una piroetta lenta su me stesso che quando me la trovo nuovamente di fronte è univoca. Faccio un giro di 360 gradi e lei parla solo con una voce. Di suo tende a parlarmi solo delle cose che ha fatto ultimamente, cioè negli ultimi cento anni, e forse è una gentilezza da parte sua; terrà forse conto del fatto che se va indietro più di quarant’anni, per me è roba da libri di storia, mentre per lei sono ricordi personali. Pensa che una volta ha capito subito che il gossip su quello che è successo a Bologna nell’autunno del 1529 quando venne giù Carlo V per essere incoronato imperatore dal Papa non mi interessava e ha lasciato perdere. Però aveva voglia di parlare e l’ascoltai su altro… Mmmh…” “Vai avanti”. “Aveva una sorella. Le venne la gotta. Allora di gotta si moriva ancora. C’era però la tecnologia per i primi tentativi di crioconservazione, i primi esperimenti. Così la sorella-hydra decise di farsi congelare da viva; non voleva morire di gotta, che le sembrava una cosa poco dignitosa. Neanche un mese dopo, in quel posto “l’Emiliana” prese via la corrente per due giorni, la sorella si scongelò, si risvegliò, fece in tempo a tirare due madonne, poi morì. Non di gotta, ma di infarto. Poi mi ha detto che per loro hydre è sempre stata dura trovare lavoro, anche quando non ci sono le crisi. Insomma si sono sempre dovute arrangiare con quei lavoretti tra l’eccentrico e l’aristocratico; pensa che negli anni Settanta riusciva a trovare abbastanza pelli di merluzzo da riuscire a trattarle e farne dei tamburi con il legno di un tizio proprio di Reggio… Faceva dei bodhran per quelli della musica irlandese, che allora andava di moda”. “Con la pelle del baccalà?” “Sì, sì. Sì, sì, sì. Sempre nel campo musicale, un paio di secoli pri-

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ma si era buttata nella fabbricazione di custodie rigide con maniglia a scomparsa per archetti da violoncello, ma non funzionò. Era troppo avanti l’hydra. Negli ultimi tempi invece, viste le tendenze in atto, ha cercato di proporsi per la pet-therapy con i bambini disabili, ma anche lì… Quando la vedevano di persona i bambini piangevano e i genitori le davano solo dinieghi schifati. Nessuna mamma che volesse lasciare il proprio bimbo in compagnia di un’hydra. Sempre solo cavalli, cani, gatti e conigli; non è razzismo, questo?” “Ok, Aldo. La gente è razzista, L’hydra parla, e parla bene, e ha fatto un mucchio di esperienze. Bene. Molto bene. Dicevi però che si era manifestata anche al giornalaio e che è coinvolta nel suicidio…” “Seee… Ma aspetta. Comunque ci andava spesso e sempre all’apertura e alla chiusura dell’edicola, per essere il più discreta possibile dato il suo aspetto, che sicuramente non tutti accetterebbero; credo che sia stata una delicatezza per non far perdere clienti all’edicolante… Lei lo sa che la gente si può spaventare. Tre settimane fa è arrivata, sempre mentre stavo chiudendo le finestre, la sera tardi, più o meno come adesso, e mi ha detto due cose con un atteggiamento tra lo scocciato e il minaccioso: la prima è che dovrei decidermi a togliere questa staccionata, perché altrimenti lei deve fare un giro troppo largo per venire qui da me in cortile, ma si rende anche conto che è molto bella, e che tirandola via, questa casa perderebbe molto valore. Allora mi ha suggerito di andare a Copparo, dove, oltre a esserci la vera sorgente della nebbia della pianura Padana, c’è anche l’unico rivenditore autorizzato di scivoli per hydre anziane, di modo che sarebbe poi sufficiente aprire solo una breccia di un metro e mezzo nella staccionata e inserirlo, così da agevolare e velocizzare il passaggio dalla golena, dove mi pare aver capito abbia la residenza, o quantomeno il domicilio. Comunque io a Copparo a vedere di trovare ’sto scivolo non ci vado, che devo dei soldi a una persona ed è meglio che non mi faccia vedere. Non è che mi fai il piacere di fare un salto a Copparo a farti fare un preventivo? Comunque era venuta anche a dirmi che

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aveva saputo che su Marte erano venuti fuori un paio di posti per un vent’anni di Programma Erasmus per hydre universitarie, con una alta possibilità di un futuro inserimento nel mondo del lavoro su uno degli anelli di Saturno. Sapendo che aveva qualche nipote in età da Università mi sono congratulato e per dimostrarglielo ho pensato che le avrebbe fatto piacere ricevere in dono un vaso di marmellata di albicocche, di queste. - eravamo sotto un grande albicocco - Lo ha gradito, a casa l’ha aperto, ne ha assaggiato sette beccate per essere pari e non bisticciare, poi una volta rimesso il coperchio non l’ha messo in frigo, che poi è una cosa del tutto normale, visto che le hydre non hanno il frigo; quando cinque giorni fa lo ha riaperto per farsi una crostata, è successo che, così mi ha detto, all’apertura del vaso si è sprigionato un fumo che sembrava un turibolo appena caricato per la Veglia Pasquale e quando il fumo è svanito si vedevano delle bollicine salire dal fondo con l’effetto proprio di un liquido in ebollizione. L’odore però era buono, non era cambiato, così che due delle sette testine, le più liffe, non hanno resistito e son tornate a pocciare il becco nel vaso della marmellata in ebollizione, ma subito dopo le altre cinque teste hanno voluto andare a vedere in internet per avere delle informazioni, poiché secondo loro lì dentro poteva nascondersi il botulino, e lei, l’hydra, come noi, si sentiva già tutti i sintomi addosso. Io le ho detto che non è assolutamente certo che il botulino colpisca le hydre come gli umani. Lì le sette teste si sono un po’ divise nella reazione alle mie parole, e per maggior sicurezza, diciamo per farmi perdonare la carenza di informazioni, le ho poi donato la cassetta di cotenne, quella che ti dicevo, così, come risarcimento. Sempre sperando che il botulino non si sia sviluppato. È per questo che stasera ho chiuso il gatto in casa: potrebbe cercarlo per farmela pagare, non per mangiarlo. Potrebbe rapirlo. Ma mi ha anche raccontato della sua passione da collezionista: dice di avere la più grande collezione del mondo di trombe marine. Io conosco uno che potrebbe essere interessato a visitarla, uno che secondo me conosci anche tu, Ceres. Di sicuro io là dall’acqua, in riva al Fiume, non ci vado, e so anche che non riesce a tollerare più

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di una sola persona umana alla volta, che due la fanno già innervosire, tieni presente. Se ci vuoi andare tu a fare un giro… Vuoi che chiudiamo su tutto e andiamo a dormire? Ho come la sensazione che stia per arrivare…” “Aspetta, Aldo. Non mi hai ancora detto niente sulle sue responsabilità nella strana morte del giornalaio. Sai che se ne è parlato tanto; anche oggi sul Carletto c’erano due interviste a un criminologo e a uno psicologo su questo caso…” “Io non andrò mai dai Carabinieri o da qualcun altro a dire quello che so, perché mi sento che andrei nei guai, però sono l’unico a sapere che l’hydra frequentava piuttosto assiduamente l’edicola di Canalnovo e so che delle volte chiedeva fumetti rari o riviste e giornali e roba che l’edicolante non sempre riusciva a reperire, e nell’ultimo periodo, prima della tragedia, era costretto a ordinare tutte le settimane sette copie di Famiglia Cristiana, solo che il distributore gliene portava al massimo quattro, visto che il paese era piccolo e poi si può fare l’abbonamento, eccetera, eccetera, e l’editore non ne voleva sapere. Le sette testine si contendevano le quattro copie, una di loro poi era sempre incazzata perché avevano chiuso la rubrica I fatti del giorno e poi altre cose del genere. Insomma l’hydra tornava ogni settimana più arrogante e chiedeva inutilmente le sette copie del settimanale per le sette teste. Questo logorio piano piano ha messo in difficoltà il giornalaio, che chiaramente non ha nessuna colpa. Poi, penso, uno mica può andare in giro a chiedere aiuto perché di sera arriva sempre un’hydra che vuole sette copie di Famiglia Cristiana mentre lui ne ha solo quattro, non credi?” “Certo. Sì. Convengo con te, Aldo. Assolutamente”. “Ecco. Allora te lo posso dire. Secondo me è stato questo. L’ultima volta che lei è arrivata e ha fatto questa assurda richiesta lui ha chiuso l’edicola dall’interno, poi si è messo in testa un sacchetto dell’Eurospin, lo ha chiuso sul collo e poi è soffocato… È morto”. “Questa è una bellissima storia, Aldo”. “Ma come; non mi credi? Tu, Ceres, non credi alle mie parole?

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Piuttosto perché non mi vai in questi giorni a fare un giro a Copparo per conto mio, che ti ho già detto perché io non ci vado, e prova a vedere se trovi il rivenditore autorizzato di scivoli per hydre. Io vado. Buonanotte Ceres”. “Buonanotte Aldo”. La stanza degli ospiti era finita e decorosa, come ho detto prima, ed era confortevole. Non c’era una zanzara e la temperatura percepita sarà stata sui venticinque gradi. Nel sedermi sul letto l’ho spostato di almeno un metro, ma mi sono accorto che aveva le ruote; poco male. Sdraiato, la lampada, la sveglia, i quadretti e i soprammobili hanno iniziato a girare, e poi anche Padre Pio e i diplomi di segretaria d’azienda, di geometra e la laurea in scienze infermieristiche di Aldo hanno cominciato a girare come satelliti intorno a me. Ho chiuso gli occhi ed ero contento, perché in quel momento ero sicuro che anche l’intonaco si sarebbe staccato a quadrettini per mettersi in orbita insieme a tutto il resto. Invece non accadde. Così, prima di addormentarmi con un’hydra pretenziosa fuori dalla finestra, inascarita per una marmellata andata a male, riuscii a concentrarmi su quello che avrei dovuto fare già dalla mattina dopo. Non so, non so. Non so se andarci o no. Però… Quasi quasi… Quasi quasi ci vado, io, a fare un giro a Copparo per conto di Aldo.

Renato Ceres è autore di Parrokkia progressive (2007), La messa a punta (2008) e Istriana blues (2010), tutti pubblicati con LdS - Milano. Nel 2013 ha pubblicato un bootleg in collaborazione col blogger Ciro Andrea Piccinini dal titolo Nei miei romanzi non scopano mai Storie di vita piatta, introvabile. Nel 2014 ha pubblicato con Maris Terraquae di Reggio Emilia Il nome della resa - Viaggetto in una Provincia da abolire. Da alcuni anni collabora con pochissime persone.

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Mille ricordi per formare una vita di Dina Paola Cosci

Nacqui tanti anni fa, in quel di Pisa; i miei genitori, entrambi pisani da generazioni. Io ero ancora molto piccola, quando babbo trovò da lavorare alle Officine Reggiane di Reggio Emilia e fu così che babbo, mamma e io ci trasferimmo poco dopo in quella città. Il primo impatto fu disastroso: il radicale cambio di abitudini, il dialetto incomprensibile, non conoscevamo nessuno, da non trascurare il freddo a cui non eravamo abituati, facevano sì che a mamma sembrassero ostacoli insormontabili. Poi le cose, visto che il lavoro di babbo era valido, i guai si aggiustarono un po’. Allora fu deciso di trovare un appartamento più adatto, abbandonando le due stanzette ammobiliate, per mettere su la nostra vera casa. Chiedendo, ne trovammo uno idoneo in via Del Portone. I proprietari, di origini toscane, ebbero un’ottima garanzia dal fatto che eravamo di Pisa. Così nacque una bellissima amicizia che, con figli e nipoti, esiste tuttora. I ricordi si affollano alla mente come bimbi impazienti, riportandomi indietro nel tempo. La vita della mia famiglia si svolse serenamente per qualche anno, nonostante lo scoppio della guerra del 1940. Intanto era nato il mio fratellino Silvano e la casa di via Del Portone adesso era diventata piccola. Per le ferie e per le feste andavamo sempre a trovare i nonni ed erano giornate felici e gioiose. Ben presto, a malincuore, traslocammo in via Guidoriccio Fogliani dove ci prese il primo bombardamento, fortunatamente per noi senza danni. Ma lo spavento, inenarrabile! Alla Scuola Impero iniziai il percorso di “piccola Italiana”, mentre nuvo-

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le nere si addensavano sul mondo, ma soprattutto sull’Italia. L’oscuramento ci fece conoscere il buio, mentre le strade ben presto si facevano deserte per il coprifuoco. I bombardamenti sempre più minacciosi e fitti. L’allarme aereo spesso ci destava in mezzo alla notte, allora babbo metteva me, mezza addormentata, sul seggiolino della bicicletta, mamma faceva altrettanto col bimbo e via per le campagne, lontani il più possibile dalla città. Una notte, era molto freddo, riuscimmo a trovare una stalla nel buio. Entrammo, cercando almeno un riparo dal gelo notturno. Intorno nessuno, solo le mucche tranquille col loro calore ci rianimarono un po’. Mamma, a tentoni, trovò un mucchio di fieno e ci posò il bimbo, lui piccolino si addormentò subito. Ma noi no, ora posso immaginare il tormento dei miei genitori. Io pure non riuscivo a dormire. Lontano, sulla città, i boati delle bombe, i lampi delle esplosioni… Poi spuntò un’alba grigia, la stalla si illuminò poco per volta e ci fu la sorpresa: il mio fratellino dormiva beato quasi tra le zampe di un ciuchino! Mamma quasi svenne al pensiero di cosa poteva succedere, tutto fortunatamente era andato bene e, a giorno arrivato, tornammo a casa. Però la città ormai era troppo pericolosa e babbo trovò una soffitta in quel di Villa Cella, sulla via Emilia. La vita riprese un ritmo quasi regolare. Io lì frequentai la scuola e feci la quarta elementare. Mio padre non andava più alle Officine, ormai bombardate, si ingegnava facendo lavori ai contadini intorno, affilando forbici e coltelli, aggiustava pentole, riguardava trattori che facevano capricci e altre cose utili a coloro che lavoravano la terra. Quasi nessuno lo pagava con monete, ma in casa arrivavano uova, patate, farina e altre cose preziose per quei tempi. Anche il sacerdote di Villa Cella si era fatto amico del babbo, quando veniva a trovarci, mai a mani, vuote diceva: “Toscano, guarda ho pensato che con due bimbi vi avrebbe fatto comodo un sacchetto di farina gialla, farsi un bel polenton”1. Lui pensava al corpo, la signorina Agata, sua sorel-

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la, pensava all’anima, facendoci dottrina. Accanto ai Prandi, dove abitavamo, c’era un caseificio. Io, amica della figlia del proprietario, spesso andavo là col mio fratellino a veder fare il formaggio, ma soprattutto a mangiare il toson2, una squisitezza indimenticabile. Poi andavamo da Paola, un piccolo laboratorio artigianale di bigiotteria. Con lei lavoravano altre ragazze a creare deliziosi oggettini con pietruzze colorate. Loro si divertivano a sentirci parlare toscano e io imparai ad amare le cose luccicanti. In paese c’era anche un piccolo cinema. Mio padre spesso andava a dare una mano a Dorando, che era l’operatore, e così passavamo le serate. Le feste trascorse dai nonni a Pisa, ricordi! Purtroppo la Via Emilia diveniva sempre più pericolosa, spesso transitata da convogli militari, quindi bersaglio di attacchi aerei. Così dovemmo nuovamente abbandonare gli amici che ci avevano tanto aiutato, lasciando l’accogliente soffitta dei Prandi, dove la notte i topi andavano a ballare sul sacco di grano, che ci dettero quell’anno con la tessera Annonaria. Finì anche quello scampolo di pace assai piacevole per noi bimbi. Stavolta ci allontanammo da tutti i possibili obiettivi, andando a finire nelle campagne attorno a Cavriago in un’enorme casa dove vivevano i Venturi. Una grande famiglia composta, una vera tribù autosufficiente, con leggi da rispettare. L’appartamentino che ci assegnarono era sull’angolo della costruzione dove abitavano loro. Entrando dalla strada principale, ci si trovava in una specie di aia irregolarmente quadrata, formata da un lato dall’abitazione, di faccia il fienile e la stalla. A destra pollai e conigliere, dall’altra parte invece la bucataia, il forno, riparo attrezzi e porcile. Un piccolo mondo dove tutti avevano la propria mansione, grandi e piccini. Eravamo già lì quando arrivò la neve. Alla sera c’era la riunione nella stalla, gli uomini per la

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polenta tosone

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chiacchierata, le donne a fare la calza e i piccoli a giocare. Invitarono anche noi e potemmo usufruire di quel tepore genuino. Fuori il termometro sotto zero, ma lì si stava benone. Però io, bimba di 9 anni, curiosa, attenta a ciò che mi circondava, mi accorsi ben presto che, all’imbrunire, attorno al fienile c’era uno strano andirivieni di sconosciuti. Furtivamente arrivavano e sparivano nel portico tra la paglia. Ne parlai col babbo, ma lui evitò di rispondere con una scusa, poi però dietro le mie insistenze, si arrese. Mi fece giurare che dovevo dimenticare ciò che mi avrebbe detto. Seria seria promisi, mi sentivo molto importante e ascoltai: nel fienile era nascosto un soldato che i Partigiani avevano salvato riuscendo a portarlo qui, in attesa del cessato pericolo. Si era lanciato col paracadute, evitando i tedeschi. Quindi gli portavano da mangiare tutte le sere. Dalla finestra avevo visto giusto. Poi qualcuno lo prelevò, portandolo al sicuro. Dopo un paio di mesi, nel cortile arrivò un plotone di soldati con divise che terrorizzarono tutti. Si separarono rastrellando e perquisendo tutta la zona. Il terrore si impadronì di grandi e piccoli quando vedemmo radunare mariti, babbi, fratelli e figli. Un coro di pianti si alzò all’unisono da una decina di bimbetti, le donne lo facevano sommessamente per non aggravare il concerto già assai nutrito. Naturalmente non c’era da farsi illusioni circa il destino dei prigionieri specialmente quando, incolonnati, si avviarono per la strada principale scortati dai tedeschi armati di mitra. A cinquanta metri di distanza, un secondo corteo di donne, vecchie, giovani, con i piccini attaccati alle gonnelle che urlavano, tra i quali anche il mio fratellino, io e la mia mamma. Non so per quanto camminammo, ma poco prima di una curva a gomito, dal fosso lungo la strada si udì un fischio leggero e dopo poco babbo sbucò dal fossato, seguito dagli altri, alla spicciolata. La gioia di tutti fu immensa, quasi come assistere ad un miracolo. E miracolo fu, lo assicuro. Qualcuno poi disse che i tedeschi ormai in rotta, avessero allentato di proposito la sorveglianza, lasciando che i nostri ne approfittassero. Dopo una settimana

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di gran transito sulla via maestra di camion, autoblindo, carri armati, ecc. tutto il resto di un esercito che credeva di essere invincibile, lasciava il campo libero ai vincitori. Grazie a Dio l’incubo era finito, lasciando lutti e rovine in tutta Italia. Io volli festeggiare la pace a modo mio: babbo andò in città per chiedere il permesso al Comando Partigiano di andare a Pisa, portandomi con sè. Una bella girata sulla Via Emilia in pace. Mia madre fino all’ultimo mi pregò di non accompagnare babbo, dicendomi che in bicicletta era pericoloso, non ero abbastanza pratica… niente, andai. Felice di essere col mio babbino anche in città, io avanti e lui dietro. Fu proprio in una strada in città, rasentando un marciapiede, che mi si attaccò il pedale a quest’ultimo rovesciandomi in mezzo alla strada. Dietro avevo babbo, sì ma non poté fare nulla. Ci seguiva un cavallo attaccato ad un carro pieno di gente esultante, che incitava la bestia, quasi impaurita, che però attraversò il mio corpo steso a terra fortunatamente senza gravi danni. Rimasi tra le ruote del carro e me la cavai con un braccio rotto e altre lesioni non importanti. L’Ospedale era sfollato a Codemondo, fu chiamata un’ambulanza che mi portò laggiù. Io che piangevo disperata, babbo non mi avrebbe trovata, ero troppo lontana, non poteva sapere dove ero finita. Mi fecero scendere quando arrivammo e… mio padre era lì ad accogliermi. Aveva corso in bicicletta dietro all’Ambulanza. Quando lo vidi… ero contenta, ma piansi più forte, avessi dato retta alla mamma! Mi tennero in Ospedale quattro o cinque giorni, poi braccio ingessato, una gamba fasciata e ammaccata, con un carrettino attaccato alla bicicletta babbo mi riportò a casa. Ricorderò sempre le Suorine dell’Ospedale, ero la paziente più giovane, undici anni e mi coccolarono in tutti i modi. Mi facevano trovare buoni bocconcini, mi facevano le trecce… insomma mi dispiacque lasciarle, ma dovevo anche farmi perdonare da mamma per non averle dato retta. Tante parole ma solo un breve stralcio di quei ricordi sulla parte della mia vita trascorsa in Emilia. Ho conosciuto persone

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uniche, ricche soltanto di bontà per il prossimo. Quando sono guarita siamo tornati a Pisa per sempre, ho lasciato là un pezzetto di cuore per quelle persone che ci impedirono di cedere alla disperazione, alla fame, trovando sempre chi senza chieder nulla ci aiutò. Ero bimba, ma capivo e vedevo, affezionandomi a quella gente. Ho imparato a fare lo gnocco, a piegare i tortellini… Ora sono bisnonna, devo stare attenta a ciò che mangio, perché la religione mi vuole posata, ma ogni volta ripenso ai vostri cibi, rivedo quelle tavole imbandite, risento i profumi e ricordo… la mia Emilia fino in fondo alla mia vita, siccome fa parte della vita, la ricorderò insieme alla Madonna della Ghiara, come un tempo. Ancora al ballo nel Teatro di Campagnola per San Silvestro, la Messa di Natale. Tutto ciò mi ha arricchito di sentimenti che oggi non si usano più purtroppo. Però, li ho trasmessi ai miei figli.

Dina Paola Cosci, da ragazza ricamava: era il suo lavoro. Dopo il matrimonio divenne casalinga e mamma di tre bambini. Seppure autodidatta, amava dipingere, rubando ore al sonno pur di poterlo fare. Così andò avanti per qualche anno con lusinghieri successi. Alla morte del padre, gettò i pennelli: lui non era più lì ad incoraggiarla. In compenso, sempre da autodidatta, tornò al suo primo amore, la penna: primi passi in un terreno che via via si faceva sempre più ricco di incoraggiamenti e successi. I numerosi premi in ogni regione d’Italia, soprattutto con il vernacolo pisano, non hanno fatto altro che stimolarla a migliorare.

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Buon compleanno Teresa! di Luisa Torelli

“Buon compleanno, Teresa!” dicono all’unisono il mio cuore e la mia mente, mentre spalmo la marmellata di albicocche su due fette di pane arabo. “Che il Signore ti benedica e ti protegga sempre!” La consuetudine vuole che il tempo aggiusti le cose, ma non è sempre così. Tutto ha avuto inizio con la nascita di Stefano, dopo Pio, vissuto solo dodici ore, e Cristina maggiore di ventun mesi. Il fatto di averlo soprannominato John Wayne era dovuto alla straordinaria somiglianza con l’attore e, per la stessa grinta, avevamo detto che, un giorno, avrebbe sollevato il mondo. Non è andata così, per il suo carattere avvolto dal sospetto e dall’incertezza, per la ricerca perenne di una sicurezza che era sempre altrove, perché introverso e malinconico aveva cercato di realizzarsi, dando corpo ai propri sogni nella famiglia e negli affetti profondi, inutilmente. Anche quell’anno, l’estate era stata un’esplosione di colori e di profumi. Le ciliegie tonde e gonfie, sopravvissute alle scorpacciate succulente, ora riposavano sotto spirito. I vasetti, allineati in ordine di altezza nella credenza, aspettavano l’inverno e le albicocche mature e succose, dopo la cottura dolce e lenta, si prestavano alle marmellate dense e profumate, protagoniste delle crostate autunnali. Quel mattino, il Sole d’Oriente aveva colorato il cielo di rosso, preludio di un giorno infuocato. Che il gran giorno fosse arrivato lo dimostrava tutta la famiglia che si muoveva con affanno sull’aia, mentre il macchinista e il fuochista verificavano che

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la trebbiatrice e il locomotore, che avevano appena piazzato, fossero a livello e ciascuno si preparava a fare la propria parte: chi a costruire il pagliaio, chi a rastrellare la pula, altri a portare i sacchi nel granaio, altri ancora a tenere rifornita la trebbiatrice di covoni di grano. Larghi cappelli di paglia e fazzoletti colorati sul naso e sulla bocca avrebbero protetto dalla polvere pesante che, di lì a poco, sarebbe penetrata ovunque e avrebbe avvolto ogni cosa. Alla fine della mattinata, il momento della tavola aveva creato l’occasione per una pausa di riposo e di festa: i giovani mangiavano con appetito e conversavano amabilmente tra di loro, mentre gli adulti alternavano al buon cibo le prime valutazioni sul frumento, confrontandole con quelle dell’anno passato e con quelle dei vicini, in un clima conviviale. Fin dai primi mesi di vita, la salute di Cristina si era rivelata cagionevole e fonte di preoccupazione. Stefano cresceva sano e forte e seguiva mugugnando il padre, del quale riconosceva a fatica l’autorità, ma al quale ubbidiva, sollecitato in modo da non ammettere repliche: imparava, così, tutto quello che gli sarebbe servito da grande, proprio come aveva fatto il nonno con suo padre. Questi, fresco del servizio di leva che, ancora oggi, a distanza di cinquant’anni invoca per tutti i giovani, ragazze comprese, aveva impostato la nostra casa e la nostra famiglia come la caserma. Alla fine di luglio, ancora in piena estate, erano iniziati i lavori di aratura: la preparazione del terreno avrebbe così consentito la semina entro il 18 ottobre, prima di S. Luca. Il tempo passava, l’età del nido e della scuola dell’infanzia erano un ricordo, come le elementari e le medie, al ritorno dalle quali, per anni, seduti uno accanto all’altra, fratello e sorella avevano condiviso la merenda e i cartoni animati preferiti. Avevano condiviso anche la camera da letto che, pur piccolina, li aveva accolti entrambi, coi mobili in frassino naturale e la moquette arancione, ciascuno col proprio letto, l’armadio a

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metà, la cesta coi giocattoli e i libri. Le visite dal medico di famiglia e quelle specialistiche, gli esami e i ricoveri in ospedale, gli interventi chirurgici e le convalescenze si erano susseguiti. Al ritorno a casa, per permettere a Cristina di riprendersi, di studiare e di uscire con la sua compagnia, mi facevo carico di tutto quello che esulava da questo, senza accorgermi che la situazione della nostra famiglia non era più la stessa e che i rapporti al suo interno stavano cambiando. Nella situazione complessa, nella quale ci eravamo trovati impreparati, Stefano si era sentito solo ed escluso dalla vita della sorella, sordi alle sue emozioni, non ci eravamo accorti della sua tristezza o della sua gioia: a distanza di anni, ci avrebbe rinfacciato di averlo considerato sempre un figlio di serie B. Quella sera, come ormai d’abitudine, seduti nell’aia, mentre le lucciole danzavano con le loro piccole luci intermittenti, attendevamo con ansia che il nonno tirasse su dal pozzo la cocomera e la bottiglia di Recoaro frizzante, che Ardiglio aveva comprato alla Cooperativa, e che erano lì giù ormai da ore: come sempre, la temperatura dell’acqua le avrebbe fatte diventare fresche al punto giusto e assai gradevoli al palato. Stefano aveva scelto l’Istituto Tecnico per Geometri, ma ad avere la priorità erano il motorino e poi lo scooter, la ragazza e gli amici. Già all’inizio dell’anno scolastico, aveva fatto una cernita delle materie che gli sarebbero servite per il suo lavoro e di quali fossero gli insegnanti per i quali valesse la pena studiare. Lo studio del pomeriggio godeva di un tempo limitato e lo spazio della mansarda, che nel frattempo era diventata la sua nuova camera da letto, era stato trasformato per accogliere una serie di attività che andavano dalla musica, al modellismo, alle botticelle del nocino. Era necessario prepararsi spiritualmente al ricevimento dei professori, per non tornare completamente demoliti: nonostante queste premesse, è sempre stato promosso. Alla fine di ogni anno scolastico, aveva dedicato parte delle vacanze ad un’esperienza lavorativa in campagna, in officina o in ufficio e, alla fine dei cinque anni, aveva superato con suc-

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cesso l’esame di maturità. Nel frattempo, alcuni problemi di salute della sorella si erano risolti, ma ne erano comparsi altri e Stefano cominciava a manifestare, in merito, segni palesi d’insofferenza. Intanto, la preparazione del terreno era finita e il tempo della semina era arrivato. Da anni era affidata al nonno che continuava ad eseguirla a mano. Il suo braccio sinistro sorreggeva con forza il cesto di vimini, che teneva ben aderente al corpo, per fare meno fatica e la mano destra, con gesto ampio, gettava il seme a spaglio, avendo cura di farlo in modo uniforme. Come un direttore d’orchestra ritmava la cadenza sui suoi passi: sul primo la mano spargeva il seme, sul secondo si riforniva, sul terzo spargeva e così fino alla fine. Al termine della maturità, Cristina aveva chiesto di poter continuare gli studi. Il padre aveva acconsentito, ma con toni che non ammettevano discussioni, aveva aggiunto che, per diversi motivi, questa decisione avrebbe escluso il fratello dalla stessa possibilità. Fu come quando Giulio Cesare varcò il Rubicone. Stefano si armò contro di noi, da quel giorno indossò una corazza impenetrabile, fatta di arroganza e di prepotenza, con la quale interpretava e viveva ogni nostro sguardo, ogni parola, ogni tono di voce e comportamento con un atteggiamento di sfida e come un’ingiustizia nei suoi confronti. Silenzi assordanti, che durarono settimane e poi mesi, si alternarono a discussioni accese e offensive, che si protrassero per una decina d’anni: fu allora che il fratello smise di considerare la sorella come tale, definendola solo figlia nostra, perfida al punto da inventarsi anche un raffreddore pur di essere al centro dell’attenzione. Un giorno, circa due anni dopo il suo matrimonio, portava via dalla sua mansarda le ultime cose. In quella occasione, suo padre e io abbiamo chiesto perdono per non aver riconosciuto anche la sua sofferenza ma, alla proposta di ricominciare in modo nuovo, aveva risposto che trattandosi di scuse tardive, delle quali non sapeva cosa farsene, se ne sarebbe andato e non

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sarebbe mai più ritornato: e così è stato. Poco tempo dopo, è nata Teresa. Dicono che abbia gli occhi azzurri grandi e belli che spiccano nel viso paffuto e roseo come quello del padre. Lei non sa della nostra esistenza, né di quella della zia Cristina e dei cugini Leone e Maria Sole. Dopo qualche anno è nato Giovanni e questa è un’altra storia ancora. La sera era scesa, presto le luci si erano accese nelle case dove, da alcuni giorni, erano stati allestiti il presepe e l’albero di Natale. Nel giardino, piccole luci colorate brillavano tra i rami spogli del nocciolo, mentre la luce del lampione metteva in risalto i primi fiocchi di neve che scendevano lenti. A me stessa

Luisa Torelli, nata a Campagnola Emilia (RE) in via Grande il 5 marzo 1954. Vive a Novellara (RE) con il marito e i loro animali. È pensionata, mamma e nonna.

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Racconti selezionati e pubblicati online su www.ilcicciolodoro.com in ordine alfabetico

Racconto: La guasà d’San Svan Autrice: Silvana Artioli Nata a Modena il 10 aprile 1953, ha una figlia. Vive e lavora con il marito nella loro impresa di artigianato artistico a Campagnola Emilia (RE). ... Racconto: Il giardino di rose Autrice: Bacchi Rossella Nata a Poviglio (RE), dove risiede con la famiglia e una bellissima gatta. Know how professionale: grafico pubblicitario e visualizer per importanti aziende italiane. Riconoscimenti in ambito letterario: Bassa in Letteratura 2014 con la pubblicazione del racconto L’eco dei ricordi; Concorso Letterario Nazionale Impiattiamo la vita 2015 Comune di Venezia, terzo premio con il racconto Una storia di terra e acqua; Bassa in Letteratura 2015 terzo premio con la pubblicazione del racconto Un Natale, una storia. ... Racconto: Il silenzio della solitudine Autore: Pier Antonio Barbieri Nato a Scandiano (RE) il 16 novembre 1945, risiede a Reggio Emilia da tantissimi anni. Pensionato (ex impiegato

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bancario e sindacalista). Diploma di ragioniere. Scrivere gli è sempre piaciuto e da sindacalista ha avuto modo di dedicarsi alla scrittura curando la redazione di giornalini e comunicati di natura sindacale. Indotto da “cattive” compagnie, ha poi iniziato a scrivere poesie e racconti, partecipando anche a vari concorsi. La sua produzione è piuttosto limitata, ma soddisfacente sul versante dei riconoscimenti ottenuti. Oltre a diversi piazzamenti e segnalazioni, ha avuto modo di classificarsi al primo posto in sette occasioni. Nella composizione delle opere è interessato a ricercare e trovare “strutture e registri narrativi” fuori dai canoni consueti. Si applica nella ricerca di forme linguistiche “sperimentali”. ... Racconto: Vita maratona Autore: Marco Berrettini Nato a Monza nell’ottobre del 1961, di domenica. Ex camionista, ex assicuratore e non ancora scrittore, perché, nonostante vari racconti premiati e pubblicati in antologie, nessuna casa editrice si è impegnata a dare luce a un suo romanzo. Attende, perchè, come dice: “ho impiegato ventidue anni a laurearmi, posso aspettare un paio di secoli per essere edito. Probabilmente postumo. Nel frattempo corro, scrivo e raddrizzo i quadri”. ... Racconto: Battuta di caccia Autore: Annalisa Bertolotti È nata e vive a Reggio Emilia. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, da sempre ama scrivere racconti e poesie non solo in italiano, ma anche negli idiomi esteri, nonché

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in dialetto reggiano. Partecipa a numerosi concorsi letterari nazionali e internazionali, quali il Concorso Letterario Internazionale Shelley e Byron (giugno 2015) a La Spezia, al Concorso Letterario Nazionale Il Trebbo (ottobre 2016) a Riolunato, al Concorso Letterario Nazionale Eridanos a Gussola (settembre 2017) e al Concorso Letterario Il Grappolo d’Oro (ottobre 2017) a Bardolino, senza citare gli innumerevoli concorsi locali in italiano e in vernacolo, dove le sue opere hanno sempre ottenuto il giudizio favorevole della Giuria. ... Racconto: Un padre Autore: Maria Teresa Pantani Nata a Valestra di Carpineti (RE) nel 1962, fa parte del Direttivo dell’Associazione Scrittori Reggiani. Dapprima maestra poi infermiera e caposala, si occupa attualmente di formazione del personale sanitario presso l’Ausl di Reggio Emilia. Scrivere è la sua passione principale: scrive in lingua e in dialetto, poesia e prosa. Ha ottenuto numerosi importanti riconoscimenti. Autrice di alcune commedie dialettali, ha recitato in diverse compagnie amatoriali (attualmente fa parte de “La Calernese”). Organizza e conduce iniziative, spettacoli, concorsi che hanno al centro il dialetto reggiano. Ha pubblicato Un girtin par l’inferen, traduzione di alcuni canti dell’Inferno, e Scrivere in dialetto, scrivere il dialetto, nella collana I Quaderni dell’Associazione Scrittori Reggiani. ... Racconto: I suoni della vita Autore: Adele Pignagnoli Di Lena Nata a Campagnola Emilia (RE), vive a Roma da molti anni.

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Ha insegnato materie letterarie nella scuola media e nel liceo scientifico. Ăˆ stata premiata nel 2012 nel Concorso Bassa in Letteratura e molti suoi racconti sono stati pubblicati nelle omonime raccolte fin dalla prima edizione. Altri suoi racconti sono pubblicati nelle due raccolte Parole di Pane, edite da Perrone e Farnesi Editori.

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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2017 Composizione giuria

Presidente: Alessandro Di Nuzzo, direttore di Aliberti Compagnia Editoriale e scrittore. Paola Baraldi, insegnante e già Sindaco di Campagnola Emilia (RE). Daniele Bevini, libraio, titolare della libreria “Moby Dick” di Correggio (RE). Vittorio Cottafavi, imprenditore agricolo e scrittore. Orianna Ottaviani, pensionata, è attiva nel volontariato con l’Associazione onlus “Roloinfesta”.

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Elenco cicciolai 2016

Accorsi Pompeo Aldrovandi Cesare Barani Claudio Baratti Elisa Belluzzi Rino Beltrami Alberto Beltrami Ermes Benfatti Dino Benzi Luca Bernini Andrea Bertazzoni Nino Bigi Maurizio Bigi Roberto Bigi Serena Bocciolesi Giovanni Bocedi Sergio Borciani Monica Cani Davide Carpi Giuliano Carretti Franco Cavazzoli Mauro Cavazzoli Pasquale Cucchi Andrea Davoli Alvaro Davolio Emiliano

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Diacci Silverio Dieci Gino Esposito Giuseppe F.lli Gualtieri Ferretti Umberto Folloni Pierino Fontanini Simone Fornaciari Alessandro Gasparini Enzo Gli Amici del Fondo Grilli Gli Amici dell’Aia di Scandiano Gli Amici di Gianni Pagliani Gramostini Vando Grandi Fabio Grisendi Gruppo di Rubiera Gruppo di San Bernardino I Maver I Bradipi Attivi I Maialet Incerti Medardo Lanza Lino e Franco Lanza Matteo Lanza Rainero Le Maver Los Porcos Hermanos (Melegari Andrea) Los Porcos Hermanos (Santachiara Alessandro) Lusetti Lorenzo Lusuardi Matteo e gli Amici di Mandrio Maculan Elio Magnani Ermes Malagoli Ermanno Manfrin

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Marastoni Laurenti e Amici di Scandiano Molinari Giovanni Moretti Camilla Muzzini Marco Neri Mario Palazzi Lauro Panisi Stefano Paoluzzi Guido Pignagnoli Natale Pignagnoli Riccardo Platania Willer Righi Clinio Ronchetti Maurizio Rossi Marziano Rustichelli Gianni Sacchi Luigi Salati Marco Santachiara Stefano Soprani Luca Stoch Majer Franco Tamagnini Ivan Tamagnini Lando Torelli Silvano Valentini Mariano Veroni Romano Vezzali Giordano Vezzani Giancarlo Zanardi Adriano Zanetti Denis Zanichelli Alessandro Zanoni Mauro

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Vincitori “Cicciolo d’Oro” 2016

102 paioli in gara, di cui 8 donne e 8 under 30

“Il paiolo più bello del mondo 2016” - 1° edizione: Soprani Luca Cicciolo d’Oro 2016 - Gas: 1. I Maver 2. Veroni Romano 3. Covri Paolo Cicciolo d’Oro 2016 - Legna: 1. Bigi Treves 2. Marastoni Sauro - Scandiano 3. Vacchi Alberto - San Bernardino Miglior Norcina 2016: Moretti Camilla Norcino Under 30: Schiatti Andrea - Gli Amici di Mandrio

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In copertina: Il silenzio del Po di Paola Reverberi dimensioni 80 cm x 60 cm Dipinto vincitore di Bassa in Pittura edizione 2016 Paola Reverberi vive e dipinge a Soliera (MO). Inizia il suo percorso artistico frequentando i corsi di pittura presso la Scuola d’Arte Pittorica di Soliera e presso il Centro di Arti Figurative di Carpi (MO), condotti dai maestri d’arte Enrica Melotti e Alberto Cova. Partecipa a mostre d’arte personali e collettive: - dal 1996 a tutt’oggi partecipa alle mostre di fine corso presso il Circolo Culturale “Il Mulino” a Soliera e dal 2012 presso il Palazzo Pio di Carpi - dal 1996 ha partecipato a numerose mostre nei comuni limitrofi e ad altrettante manifestazioni a scopo benefico - nel 2002 giunge 9° al Memorial Corinto Bonazzi a Correggio (RE) - nel 2004 partecipa a ModenArte a Modena - nel 2010 partecipa alla Biennale Nazionale d’Arte della Città di Mirandola (MO) - nel 2011 partecipa alla personale al Club Giardino di Carpi - nel 2012 partecipa alla collettiva Arte in Europa a Bagnacavallo (RA) - sempre nel 2012 partecipa al Concorso Biennale Correggio in Fiera presso Palazzo dei Principi a Correggio.

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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2018 Regolamento

L’associazione “Il Cicciolo d’Oro”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 9° edizione del concorso letterario per racconti “Bassa in Letteratura” anno 2018 REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato a racconti inediti scritti in lingua italiana o in dialetto emiliano, è aperto a tutti. Argomento/ tema del racconto sono le storie e le atmosfere tipiche della Bassa padana, con particolare attenzione alla tradizione enogastronomica. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due racconti. Il racconto non deve superare i 21000 caratteri, spazi inclusi, per esigenze di stampa. 3. La partecipazione è gratuita. 4. I racconti devono essere inviati a mezzo posta elettronica all’indirizzo info@ilcicciolodoro.com in formato word, en-

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tro e non oltre il 31 ottobre 2018, corredati da: • La domanda di iscrizione debitamente compilata, datata e firmata, come documento scansionato; • Fotocopia del documento d’identità in corso di validità; • L’ indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico del concorrente. • Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere compilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. La Segreteria organizzativa del concorso provvederà, sempre via e-­mail, a notificare la ricezione del materiale. 5. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile ed inappellabile. La premiazione avverrà in occasione della manifestazione denominata “Il Cicciolo d’Oro”, e si terrà a Campagnola Emilia nella giornata di sabato 15 dicembre 2018. 6. I racconti meritevoli di interesse saranno pubblicati in volume, riprodotti e diffusi in ogni forma e modo, originale o derivato, previsto della Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicati, a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione Il Cicciolo d’Oro. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione Il Cicciolo d’Oro in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle opere partecipanti. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto D’Autore.

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7. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 8. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”

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Domanda di iscrizione 9° edizione del concorso letterario per racconti “Bassa in Letteratura” - anno 2018 Il sottoscritto/a _______________________________________ residente a____________________________________________ Prov_______________________________CAP______________ via/piazza_________________________________ n._________ cellulare/tel.__________________________________________ e-mail _______________________________________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 9° edizione del concorso letterario “Bassa in Letteratura” anno 2018, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è inedita e frutto della propria creatività; - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e della pubblicazione dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Data_____________

Firma___________________



Concorso di arti grafiche a tecnica libera Bassa in Pittura 2018 Regolamento

L’Associazione “Il Cicciolo d’Oro”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 4° edizione del concorso di arti grafiche a tecnica libera “Bassa in Pittura” anno 2018 REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato ad opere grafiche eseguibili a tecnica libera, è aperto a tutti. Argomenti delle opere stesse saranno i paesaggi, le atmosfere ed i volti tipici della Bassa padana, guardando alla tradizione passata ed alla cultura enogastronomica del presente. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due opere. Le dimensioni non devono superare 60 cm x 80 cm (senza cornice), per motivi di logistica espositiva. 3. La partecipazione è gratuita e, ripetiamo, aperta a tutti. 4. Potranno partecipare alla selezione della Giuria Qualificata solamente le opere per le quali la Domanda di iscrizione

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(debitamente compilata, datata e firmata), sia stata inviata entro e non oltre il 31 Ottobre 2018 all’indirizzo e-mail: info@ilcicciolodoro.com. Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere compilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. 5. Le opere devono essere consegnate presso i locali del Comune di Campagnola Emilia, nella prima settimana di dicembre 2018, corredate da: • Fotocopia del documento d’identità dell’autore in corso di validità; • Una breve didascalia che riporti il titolo dell’opera ed eventuali commenti dell’autore alla stessa; • L’indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico del concorrente. 6. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile ed inappellabile: essa si riserverà infatti il diritto di esporre negli spazi comunali solamente i quadri meritevoli, per poi procedere alla premiazione delle migliori opere pervenute. La premiazione degli autori avverrà in occasione della manifestazione denominata “Il Cicciolo d’Oro”, a Campagnola Emilia. La migliore opera pittorica così valutata diverrà copertina grafica del volume “Bassa in letteratura - 10° edizione 2019”, che come ogni anno raccoglierà i migliori racconti dell’omonimo concorso letterario. 7. Le opere meritevoli di interesse saranno esposte negli spazi cittadini comuni per le settimane successive alla manifestazione invernale “Il Cicciolo d’Oro 2018” ed in ogni

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eventuale forma e modo, originale e derivato, previsto dalla Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicate le foto delle opere stesse, sempre a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione Il Cicciolo d’Oro. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione Il Cicciolo d’Oro in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle opere partecipanti; L’associazione declina ogni responsabilità su eventuali danni causati alle opere per le settimane di esposizione pubblica e gratuita offerta. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto D’Autore. Potrà ritirare l’opera stessa al termine dei tempi espositivi decisi da Associazione e Comune, indicativamente a fine gennaio 2019: gli autori verranno contattati ed informati su tempi e modalità precisi di ritiro. 8. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 9. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”

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Domanda di iscrizione 4° edizione del concorso per arti grafiche a tecnica libera “Bassa in Pittura” - anno 2018 Il sottoscritto/a _____________________________________________ residente a__________________________________________________ Prov____________________________________CAP_______________ via/piazza_______________________________________ n._________ cellulare/tel.______________________ e-mail _____________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 4° edizione del concorso di arti grafiche “Bassa in Pittura” - anno 2018, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è frutto della propria creatività; - che l’opera presentata ha le seguenti caratteristiche Prima opera - titolo: _______________________ misure: ____________ Seconda opera - titolo: _____________________ misure: ____________ - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e di trattamento dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Se disponibile ad oggi, allego fotografia dell’opera realizzata: □ SI Allego copia della mia Carta di Identità.

□ NO

Data_____________ Firma_____________________



Indice

Introduzione di Vittorio Cottafavi

1

La battaglia delle fionde di Franco Tagliati

7

La buca di Giampietro Lazzari

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Al tempo della paura di Egidio Braghini

31

Il diario di Albert di Eros Teodori

45

La promessa di Ave Govi

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Quindici poi diciasette di Marcello Casarini

68

La signorina Merli di Werther Bedogni

72

Bellis Perennis di Marisa Saccani

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Un fatto strano di Maurizio Trombini

94

Giallo emiliano di Giancarlo Sacchetti

100

AlÊ si parte di Orio Riccò

115

Resisti di Massimo Bisi

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Libero e Arturo di Catia Morgotti

127

Il mistero del giornalaio di Canalnovo di Renato Ceres

131

Mille ricordi per formare una vita di Dina Paola Cosci

140

Buon compleanno Teresa! di Luisa Torelli

146

Racconti selezionati e pubblicati online

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Stampato nel novembre 2017 presso tipografia E. Lui di Reggiolo (RE)





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