AA.VV.
Bassa in Letteratura 2018
In collaborazione:
Associazione senza fini di lucro
Associazione senza fini di lucro
Comune di Campagnola Emilia
Provincia di Reggio Emilia
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Introduzione
Nove anni fa, l’Associazione “Il Cicciolo d’Oro”, organizzatrice dell’omonima manifestazione gastronomica campagnolese, giunta all’epoca con successo alla decima edizione, pensò di ampliare ulteriormente la propria capacità attrattiva. Avrebbe potuto, a tal scopo, mettere in campo sfilate di bellezza, raduni motoristici o concerti di musica leggera, solitamente di immediato richiamo, ma fece una scelta più ardita, spingendosi in un territorio non proprio pop, com’è quello letterario, in perenne bilico tra l’elitarismo e la noia. Oggi, il cosiddetto story telling viene utilizzato in tutti i contesti dove si cerchi il coinvolgimento attivo del pubblico: dalla politica al commercio, dalla cultura alla promozione. Raccontare storie, generare suggestioni legate ad un prodotto, contestualizzarlo in un territorio, è senz’altro lo strumento di marketing del momento, nel settore agroalimentare più che mai (vedasi il successo di Oscar Farinetti con i suoi Eataly e Fico). Va reso merito a “Il Cicciolo d’Oro”: nel 2010, in un paese di provincia, proporre questo approccio non era così scontato; tuttavia, a distanza di nove anni, il merito si è trasformato in responsabilità, perché ciò che è di moda spesso diviene inflazionato, banale. Il rischio di un premio letterario locale, una volta esaurito l’effetto novità, è quello di diventare il ritrovo di pochi intimi, nostalgici, generatori seriali di elenchi dei bei tempi andati, di pratiche estinte ma rimpiante, che spesso il tempo trascorso rende dolci come la celebre madeleine di Proust ma che, in re-
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altà, suonano stantie per chi le legge, ammesso che qualcuno le legga. A quanto detto sopra, si aggiunge infatti il rischio endemico dei concorsi amatoriali, ovvero, che il numero degli scrittori in gara sia maggiore di quello dei potenziali lettori. Perseverare con l’organizzazione di Bassa in Letteratura, a questo punto, più ancora che averla creata, è oggi un’operazione a dir poco coraggiosa. Eppure quelli de “Il Cicciolo d’Oro”, con la complicità dell’Amministrazione Comunale, non demordono! E così la domanda nasce spontanea: “perché?”. Perché, dopo nove anni, a Campagnola Emilia, si bandisce ancora un concorso letterario? Davvero c’è bisogno di raccontarla, questa Bassa, a patto che esista? Ma soprattutto, c’è chi ha voglia di leggerne? La domanda, credete, non è retorica, non è un artificio narrativo per arrivare a dire che sì, ci vuole, è auspicabile leggere e scrivere sempre, comunque e in ogni luogo… Diciamo che, nel caso di Bassa in Letteratura, la domanda è piuttosto tautologica, nel senso che la risposta è intrinseca al quesito stesso. Non potrebbe essere diverso per chi, fin dall’inizio, ha scelto di dare un taglio contemporaneo e tutt’altro che nostalgico a questa operazione culturale, arruolando Giuseppe Pederiali, autore di fantasy nostrani, così come di thriller, ambientati nei nostri luoghi, che a prima vista sembrano tutt’altro che misteriosi. Lo scrittore Pederiali ha saputo coniugare, nella propria opera, la cronaca con la favola, offrendo ai lettori una prospettiva letteraria del quotidiano, dove ogni cosa che ci circonda, anche quella in apparenza più banale, può celare una nuova scoperta. Questo imprintig si è mantenuto intatto nelle scelte che portano i giurati alla selezione dei racconti, così come nelle proposte degli autori, dando vita ad un concorso attento al contatto tra letteratura e quotidiano, affinché le tradizioni e le suggestioni dei nostri luoghi non si prestino a stereotipati rimpianti e solitarie nostalgie, ma diventino territori fascinosi da cui partire, magari in compagnia, per nuove avventure.
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Queste righe introduttive alla nona edizione di Bassa in Letteratura vogliono essere, se ce ne fosse bisogno, un riconoscimento di merito, ma soprattutto un invito a continuare così, spingendo ancora più a fondo sul rinnovamento della narrativa locale, anche a livello amatoriale, cercando il coinvolgimento di nuove fasce d’età e di più etnie, incentivando il legame tra cultura locale e attualità globale, di cui lo scrittore di oggi si deve fare interprete, da cui non si può estraniare, pur mantenendo la capacità di credere al foionco, animale mitologico delle nostre belle campagne. Concorsi come questo sono l’occasione per tanti amanti della narrativa, aspiranti scrittori e lettori curiosi, di mettersi in gioco, di sperimentarsi. Per chi si affaccia alla scrittura, col timore reverenziale di chi si sente schiacciato tra l’inarrivabile narrativa russa e i prolifici scrittori americani, che sfornano un romanzo da mille pagine all’anno, trame complicatissime, schiere di personaggi in ambientazioni storiche fedelissime e finali sorprendenti, iniziative come questa rappresentano un’opportunità da cogliere, rompendo gli indugi e senza prendersi troppo sul serio. Bassa in Letteratura è la possibilità, concreta e accessibile, di mettere in pratica l’insegnamento di un altro grande scrittore, locale ma planetario, Pier Vittorio Tondelli, che col progetto Under 25 gettò le basi per una nuova didattica della scrittura, consigliando agli aspiranti narratori di scrivere genuinamente del proprio vissuto, di riscrivere, come esercizio stilistico, e di leggere molto, per arricchire la propria espressività. Dopo quasi una decade dalla nascita, si può dire allora che Bassa in Letteratura è diventata parte di quella tradizione che si propone di promuovere una tipicità, un appuntamento atteso, un istituto necessario e apprezzato, con ottime fondamenta e ancora maggiori prospettive. L’auspicio di un appassionato autore/lettore che, ancora dopo nove anni, questo istituto lo frequenta, è che sulle solide fon-
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damenta si possano aggiungere tanti altri mattoni e che una volta costruita la prima casa non ci si accontenti, ma si punti ad un quartiere, ad una città da popolare, invisibile ma sognabile, come quelle di Calvino. Grazie e buona lettura Andrea Moretti Vincitore del 1° premio, 1° ed. 2010
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Bassa in Letteratura 2018
I premiati
Marta, Grana, amore e fede di Franco Bellandi
Era dalle prime ore dell’alba che la vendemmia andava avanti. L’uva era matura al punto giusto e bisognava raccoglierla velocemente, il pericolo di qualche brutto temporale, o addirittura una disgraziata grandinata, viste anche le previsioni atmosferiche non proprio favorevoli, era assolutamente da evitare. Il sole caldo di quei mesi e le benefiche piogge avevano fatto maturare l’uva nel migliore dei modi. La Cantina Sociale aveva informato i soci coltivatori dell’apertura anticipata, vista l’annata favorevole. Per il vino, questa sarebbe stata un’annata eccezionale. Il sole era ormai alto e i vendemmiatori in piena attività. Loris aveva mobilitato tutta la famiglia: genitori, zii, cugini e aveva assunto quattro braccianti giornalieri, ovviamente aveva al suo fianco Marta, sua moglie. I due, fianco a fianco, lavoravano di buona lena dando l’esempio e spronando gli altri a fare altrettanto. Cappelli di paglia in testa, pantaloncini corti tutti e due, lei una canottiera sbracciata ormai tutta sudata che le stampava il seno mettendo in evidenza i capezzoli duri. Lui a torso nudo con le gocce di sudore che gli scorrevano fra i peli del petto e lungo la schiena per fermarsi alla vita dei pantaloni, formando una chiazza bagnata. Le battute spiritose si susseguivano fra un vendemmiatore e l’altro, l’oggetto delle stesse erano per lo più le donne. L’odore del mosto aleggiava nella vigna e gli acini dell’uva, qualche volta feriti dalle cesoie, impiastravano i corpi dei contadini con il loro succo. Finalmente arrivò la sosta per il pranzo. Dal casale giunse alla vigna il pane appe-
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na sfornato, i salumi, il formaggio, l’acqua e il vino tenuto in fresco, appena tirato su dal pozzo dove le bottiglie erano state depositate nell’acqua fresca. Il pane fresco, il buon affettato e il bere portarono allegria al gruppo dei vendemmiatori che, all’ombra della grande quercia, stavano consumando il frugale pasto dando ristoro anche alle stanche membra affaticate da già tante ore di vendemmia. Marta nel lavorare a fianco del suo Loris ne sentiva l’odore della pelle sudata e quelle goccioline di sudore che gli scorrevano sul torace villoso le facevano venire la voglia, il desiderio di accarezzarlo e di sentire sotto le sue dita lo scorrere di quei peli bagnati. Anche lui, di tanto in tanto, distoglieva gli occhi dai grappoli di uva attratto da quei due punti della canottiera della moglie che, sudata e bagnata, metteva in bella evidenza. Arrivò il tramonto e la luce del giorno si apprestava a sparire. Il lavoro venne interrotto e la valutazione fu che con un paio ancora di giornate la vendemmia sarebbe stata completata. I parenti e i lavoranti salutarono Loris e Marta e con i loro mezzi, biciclette, motociclette e autocarri, si avviarono alle loro case. I due entrarono in casa dopo aver salutato tutti. Erano stanchi e sporchi, impiastricciati di sudore e di succo di uva, probabilmente fu questa situazione a provocare in loro l’istinto, forse un po’ bestiale, del desiderio sessuale. Lui la abbracciò, le tolse la canottiera e la sua bocca si impossessò dei suoi seni. Si presero così, con l’ausilio del tavolone della loro cucina. Marta scaldò l’acqua nel grande pentolone e preparò la tinozza grande. Fu concordato che lei sarebbe stata la prima a lavarsi per aver modo poi, una volta arrivato il turno del marito, di preparare qualcosa da mangiare. Erano ormai sposati da due anni e lei cominciava ad avere, sentiva, il desiderio di maternità. Nei loro atti d’amore non erano usi prendere particolari precauzioni per evitare la procreazione. Facevano l’amore nel modo più completo e naturale. Erano sani tutti e due e il primo figlio non era ancora arrivato. Avevano la certezza che fosse
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solo dovuto alla casualità. Marta stese sulla tavola la ruvida tovaglia di canapa. Aveva preparato una bella insalata di lattuga e pomodori, riscaldato il coniglio arrosto e prese dalla madia il quarto di forma di Grana e, con l’apposito coltellino, cominciò ad inciderne delle belle scaglie. Per antica tradizione sapeva che quel meraviglioso formaggio aveva notevoli capacità afrodisiache se consumato in abbondanza. Il suo Loris, dopo una faticosa giornata di vendemmia, e dopo aver da poco fatto l’amore con lei, probabilmente dopo aver cenato non avrebbe avuto che un desiderio: farsi una riposante dormita. Lei no! Anche lei era stanca, ma la vista del corpo nudo del marito dentro la tinozza, l’avergli lavato la schiena accarezzandogli i forti muscoli delle spalle, il fatto che il sesso appena fatto non l’avesse completamente soddisfatta, ma soprattutto quello che le aveva detto la vecchia Cleofina nel farle le carte: che certamente il concepimento del figlio sarebbe avvenuto durante il periodo di vendemmia, le fece prendere la decisione. Tolse dal tavolo l’arrosto di coniglio e aumentò la quantità di scaglie di Grana riempiendone un’intera fiamminga. Il pane sfornato di giornata, il fresco sapore dell’insalata appena colta dall’orto, il sapore pieno, pastoso, del formaggio Grana accompagnato da un Lambrusco dalla schiuma rosata e fitta fece sì che Loris mangiò con appetito, mentre Marta continuava a mettergli nel piatto porzioni di scaglie di quel benedetto formaggio. Che il Grana avesse poteri afrodisiaci forse era solo una leggenda, fatto sta che quella sera nel lettone nella camera da letto del casale il buon Loris diede il meglio di se stesso e sua moglie rimase incinta. Nove mesi dopo nacque Athos, il loro primogenito. Durante la vendemmia dell’anno successivo, sempre con il determinante aiuto del formaggio e una buona dose d’amore, Loris e Marta concepirono Agnese. Anche quella fine estate, come ormai accadeva da due anni, Athos e la moglie Elisabetta stavano trascorrendo, dopo una
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vacanza al mare, una quindicina di giorni in campagna, ospiti nel casolare di Loris e Marta. Suocera e nuora stavano trafficando nell’ampia cucina, Athos e Loris erano partiti al mattino presto per andare a pescare, passione che padre e figlio condividevano. Il giovane aveva sposato Elisabetta dopo un fidanzamento di due anni e adesso da due anni erano sposati. Dopo aver finito gli studi, laureandosi in Economia e Commercio, era impiegato presso una filiale di una banca cooperativa locale. Non ne aveva voluto sapere di fare il contadino e, come la sorella Agnese, aveva preferito la vita di città; questo comunque non gli impediva per brevi periodi, nei momenti liberi, di godere della pace e della genuinità della vita in campagna approfittando della ospitalità dei genitori. “Elisabetta, non per farmi gli affari vostri, ma ci sono possibilità a breve che tu mi faccia diventare nonna?” chiese Marta con un sorriso amabile. Elisabetta sospirò e poi, con qualche disagio: “Per ora non ci siamo riusciti”. “Ma lo avete cercato?” “Sì, Marta! Facciamo l’amore senza nessuna precauzione al proposito. Ci farebbe molto piacere avere un bambino i primi anni di matrimonio, ma…” “Qualche problema medico?” “No, no… siamo tutti e due sani come pesci, ci proviamo regolarmente… non ci siamo ancora riusciti”. “Cara Elisabetta, ce l’ho io il rimedio. Infallibile, sicuro al 100%” “Ah, sì? E quale sarebbe?” “Il formaggio Grana!” “Il Grana! Il formaggio Grana?” “Proprio lui! Il Grana!” Marta spiegò alla nuora dettagliatamente il metodo. Tutte le sere, a tavola per Athos, un bel piatto pieno di scaglie di for-
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maggio. Rafforzò il concetto spiegando a Elisabetta le circostanze dei concepimenti dei suoi due figli: Athos e Agnese. Pur convenendo che Loris, il marito, ci avesse messo anche del suo, non c’erano dubbi che la vigoria dell’uomo in quella occasione era ascrivibile alla potenza del Grana che lei gli aveva fatto mangiare in abbondanza. Quel formaggio aveva un potenziale enorme nel contribuire alla procreazione umana. Era un convincimento così radicato nella donna, tale da non ammettere dubbi. Nuora e suocera, in bicicletta, si recarono allo spaccio della Cantina Sociale e, quando Marta ordinò cinque chili di formaggio Grana, quello di prima qualità, invecchiato trenta mesi, il vecchio Tonio, gestore storico dello spaccio, pensò: “Cinque chili di Grana? La vecchia Marta ha in mente la futura nascita di un bambino… che mi venga un colpo!” Erano passati quattro mesi dal giorno della visita allo spaccio della Cantina Sociale e al casale il telefono squillò: “Marta, sono io Elisabetta…” “Ciao Elisabetta, è successo qualcosa? Athos sta bene?” chiese la donna preoccupata. La nuora non era usa telefonarle spesso. Quella chiamata l’aveva allarmata. “Sì! Sì! Athos sta benissimo. Marta, è successo! È successo, è bellissimo… sono incinta! Ho voluto che tu fossi la prima a saperlo, in fondo è anche merito tuo… tuo e del Grana. Ha funzionato, sono incinta di due mesi!” “Oh, mio Dio! Mio Dio! Che bella notizia. Avrò un nipotino o una nipotina. Cara, cara, Elisabetta, adesso ti devi riguardare. Come sono felice e come sarà felice Loris, il futuro nonno!” Cosa poteva esserci di più bello della nascita di un nipotino? Ancora una volta la felicità di una nascita entrava nel casolare di Marta e Loris. Nacque un bel maschietto, al quale fu dato il nome di Giacomo.
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In paese era il giorno di mercato. Marta gironzolava fra i banchetti degli ambulanti per fare acquisti. Loris era andato in banca per fare delle operazioni e poi sarebbe andato alla sede dell’Associazione dove la moglie lo avrebbe raggiunto per poi tornare a casa. Vide la sua vecchia amica Graziella. Era diverso tempo che non si vedevano, si abbracciarono felici di essersi incontrate. “Sei qui per il mercato?” chiese Marta all’amica. “No, sono venuta in paese per parlare con il Parroco”. “In Chiesa? A parlare con il Parroco? Invecchiando mi stai diventando bigotta?” “No, no… sono venuta per un consiglio. E per accendere due candele alla Madonna”. “Mio Dio Graziella, hai dei problemi? Tuo marito…” “No, no… è per mia figlia”. “La Luigina? Sta male? È successo qualcosa?” “No, sai sono quattro anni che è sposata e… niente bambini… non vogliono nascere. Sono venuta dal Parroco perché ho saputo che sta organizzando un viaggio a Lourdes, al Santuario della Madonna, e allora…” “A Lourdes? I miracoli? L’acqua di Lourdes… ma Graziella ti sembra che per avere un bambino serva un miracolo? Lo sai bene cosa occorre, ne hai avuti quattro di figli! Tua figlia e il marito sono sani?” “Sanissimi, solo che non…” “Andiamo Graziella, ce l’ho io il rimedio!” “E quale sarebbe?” “Il Grana… il formaggio Grana!” “Il formaggio? Ma sei pazza? Cosa c’entra il formaggio?” “Senti! Mia nuora aveva lo stesso problema, ebbene una decina di giorni fa…” Marta spiegò all’amica che per concepire un bambino ci voleva la forza e il vigore del seme del maschio e certamente quello non lo si sarebbe trovato nell’acqua di Lourdes che, benché
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avesse fama di far miracoli, sempre acqua era! Il Grana, quello era il rimedio. Dosi massicce di quel formaggio… e giù vigore da vendere! Marta e Graziella si recarono allo spaccio della Cantina Sociale e, all’ordinativo di cinque chili di Grana invecchiato trenta mesi, il vecchio Tonio pensò: “sono troppo vecchie tutte e due, possibile che vogliono fare un altro bambino?” Ovviamente la cosa funzionò e Graziella fu sempre grata all’amica che le aveva dato il giusto consiglio per diventare nonna. Agnese, la figlia di Marta e Loris, insegnava alle scuole Elementari del paese. Non era ancora di ruolo ma, essendo del posto, da anni faceva supplenze continuative nella stessa scuola e questo le aveva permesso di raggiungere un buon punteggio in graduatoria per diventare effettiva. Era sposata con Guido da tre anni. Il marito era il titolare dell’officina meccanica del paese. Trovandosi sul posto quel pomeriggio, Marta decise di andare a far visita alla figlia. Salutò il genero occupato in officina e salì le scale che portavano all’appartamento dei due giovani. Dopo aver salutato la figlia, la donna posò il pacco sul tavolo. Era passata allo spaccio della Cantina Sociale. Agnese guardò il pacco e: “No! No, mamma, non dirmi che in quel pacco c’è del Formaggio Grana”. “Beh, sì! Te ne ho portato un po’”. “Mamma basta! Non ce n’è bisogno! Sono incinta di due mesi!” “Davvero? Bambina mia che bello! Hai visto? Cosa ti avevo detto? Questo formaggio è miracoloso!” “Mamma io ho seguito i tuoi consigli, ma non credo che a farmi restare incinta sia stato il tuo Grana”. “Certo che non è stato il formaggio. È stato Guido, tuo marito… aiutato dal Grana!” “Mamma andiamo, sono dicerie, tue manie…” “Mie manie? Ebbene, sai cosa ti dico? Se a te e a Athos, tuo
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fratello, facessero quell’esame, quello che si vedono i geni, la paternità… come si chiama?” “Mamma, l’esame del dna?” “Brava! Proprio quello! Se vi facessero quell’esame, a te e ad Athos, ebbene nell’esame del… del… come cavolo si chiama… troverebbero tracce di formaggio Grana, te lo dico io!” “Mio Dio mamma, la tua è proprio una mania, con questo benedetto formaggio Grana!” “Ah! La mia è una mania? Ebbene, cara la mia Agnese, quando io e tuo padre ti abbiamo fatta... insomma quando… hai capito? È stato dopo una faticosa giornata di vendemmia. Tuo padre era stanco morto e, se avessimo fatto l’amore in quelle condizioni, i sui… i suoi spirizoi credo che si chiamino così, col cavolo che avrebbero forato l’ovulo e fatto la frittata”. “Mamma, penso che tu voglia dire gli spermatozoi”. “Brava! Proprio quelli! Quelli di tuo padre intendo. Ebbene con un paio di etti di scaglie di Grana si sono rimessi in forma… e giù… sei nata tu!” “Mamma sei incredibile! Sei davvero incorreggibile! Comunque, grazie per i tuoi consigli. Merito del Grana o no, sono incinta di due mesi!” Marta se ne andò felice, lasciando comunque il pacco con il Grana. Non si sa mai… Non vedeva l’ora di informare Loris della bella notizia. Dopo cena il telefono squillò in casa di Agnese. Guido, il marito, andò a rispondere e dopo una breve conversazione: “Agnese, è per te, tuo padre!” Agnese si asciugò le mani nel grembiulino e prese in mano l’apparecchio per rispondere: “Ciao papà!” “Ciao bambina! Che bella notizia! Tu stai bene?”
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“Sì papà, sto benissimo e sono felice!” “Mi raccomando bambina, stai attenta: riguardati. Ricordati che nel tuo pancino hai il mio o la mia nipotina”. “Stai tranquillo papà!” “Tua madre è felice come una Pasqua! Lo ha già comunicato a tutto il vicinato”. “Mamma mia! Lo immagino, è tremenda…” “Tremenda? Non tremenda, bambina mia, è proprio pazza. Sai cosa ha fatto stasera? Mi ha piazzato sul tavolo un piattone pieno di scaglie di formaggio Grana… ed è andata a farsi la doccia!” Padre e figlia risero fragorosamente. Marta, nella camera da letto, davanti allo specchio, stava verificando l’effetto che avrebbe fatto su Loris la scollatura della sottoveste nera che aveva indossato.
Franco Bellandi, nato a Genova - giovane marittimo negli anni ’50 del secolo scorso, trasferitosi a Bologna per sposare la donna della sua vita - agente di commercio, poi funzionario aziendale. Direttore commerciale di medie aziende, infine pensionato con la passione di scrivere che gli sta dando tante soddisfazioni, avendo visti pubblicati diversi suoi racconti. Primo posto per due anni consecutivi concorso letterario “Bassa in Letteratura” - Racconto pubblicato nell’antologia M.A.R.E edito dalla Regione Emilia Romagna - Morgan Miller Editore, antologia Il mare fra le righe - La sua fiaba Gocciolina è stata premiata al Premio Nazionale Fiaba di Mede - Nell’antologia Ciò che la nebbia racconta è presente un suo racconto. Due suoi racconti figurano in rete come e-book… e tante altre pubblicazioni di prosa e poesia.
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L’odore di Rosa di Egidio Braghini
Gino è sempre solo. In questo posto non c’è mai nessuno che viene a trovarlo, nemmeno di domenica. Quello non è il suo vero nome, ma uno qualunque con cui la gente delle campagne lo ha sempre chiamato. Gino non ricorda nulla di sua madre, né di suo padre. E non ricorda neppure se ha dei fratelli o delle sorelle con cui essersi sbucciato le ginocchia, facendo le capriole con loro quando era piccolo. Gino si chiede sempre se sono stati i suoi famigliari ad averlo abbandonato o se è stata la sua mente ad aver dimenticato i loro volti e non fa altro che pensare a loro. Adesso ne ha tutto il tempo perché è chiuso in una cameretta di appena due metri per quattro. È una stanza molto piccola, ma che per lui ha le sembianze di un intricato labirinto. Le pareti, il pavimento e il soffitto sono dipinti di bianco. Dentro non c’è nessun oggetto appeso al muro, ma solo una branda con sopra un materasso senza lenzuola, né coperte. La porta è sempre chiusa e per uscire per mangiare o andare in bagno Gino deve bussare forte. Ma a lui non piace uscire. Odia dover passare per quel lungo corridoio, dove ci sono persone che orinano per terra, o si strappano i denti o i capelli. Gino sta bene solo nella sua camera, anche se alla finestra ci sono delle robuste inferriate che gli impediscono di uscire. Ma la sua mente riesce sempre ad andare via ugualmente. Va in un posto fresco, segreto e quando è via, Gino non riesce più a ragionare, né a capire e né a sentire le iniezioni. Ma lui non si preoccupa più di tanto. Sa che la sua mente torna sempre. È solo questione di ore o di giorni. E quando la sua mente torna, Gino si mette in piedi davanti alla finestra e
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guarda fuori. Nel suo petto, il cuore inizia a pompare più forte. Lacrime trattenute e silenziose scivolano giù dalle sue guance e cadono sulle sue mani tanto magre da vedere il sangue che gli scorre nelle vene. Con lo sguardo perso nel cielo, cerca delle immagini dentro alla sua testa. Ma lui non ricorda quasi nulla del suo passato, che sembra un punto nero in un universo vuoto. Solo un breve periodo della sua esistenza è nitido. È quando era libero di viaggiare dove voleva e quando la sua mente rimaneva via un tempo limitato da poter impensierire la gente. E un giorno in particolare è vivo e senza tempo impresso nella sua memoria. La sabbia era fresca e tutto attorno c’era il riflesso di madreperla dell’ultima luce della notte. Una lieve brezza portava l’odore di pesce, di fango, di legna marcita e di barche ammuffite. La quiete era assoluta e il silenzio era rotto solo dallo scorrere della corrente e dai pesci che saltavano fuori dall’acqua in cerca di ossigeno. Gino si era svegliato su una di quelle spiagge che in estate si scoprono sulle sponde del grande fiume che taglia in due la pianura. Aveva dormito al riparo contro un grosso tronco di salice, che era fermo sulla spiaggia con ancora tutto l’apparato radicale integro e con mille radici contorte. Assieme a lui c’era Ciro. Un uomo magro, sempre con un grosso fazzoletto in testa annodato dietro e con un sorriso contagioso. Ciro diceva che quarant’anni prima sua madre lo aveva partorito in barca e che da allora lui ci aveva vissuto dentro. Come suo padre e il padre di suo padre, traghettava le persone fra una sponda e l’altra del fiume. In cambio non voleva denaro perché non avrebbe saputo a chi darlo. Chiedeva vestiti usati, scarpe portate e tabacco per la sua pipa. E i due uomini, che era andato a prendere quella notte, non avevano il tabacco aspro e forte da pochi soldi, ma proprio quello buono, dolce e saporito. Ciro caricava la sua pipa e assaporava ogni boccata di fumo dentro alla sua misera baracca, che si era costruito con i tronchi, i rami e le frasche che il fiume aveva portato sulla spiaggia. E tutto questo grazie a quei clienti abituali che certamente avranno avuto le loro buone ragioni per
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farsi accompagnare in barca da una riva all’altra del fiume e per non passare a piedi sul comodo ponte dei barconi di Boretto. Il cielo era ancora pieno di stelle e la mente di Gino era tornata da uno dei suoi viaggi appena in tempo, perché aveva fame. Gino seguì la sponda di un piccolo canale fino a un ponte sul quale passava una strada. Scese dentro alla poca acqua che c’era e camminò fin dove il fango incontrava i mattoni. Poi si chinò, infilò le mani nel pantano e avanzò lentamente. Decine di gamberetti fuggivano passando fra le sue dita e lui li lasciava passare. Non cercava loro, ma i pesci che sentiva ancora prima di toccarli. Sentiva il loro vibrare e la loro paura. Con loro parlava, li tranquillizzava e quando li prendeva tra le mani i pesci gatto non lo pungevano e le carpe, le tinche e le anguille rimanevano ferme, come si fidassero di lui. E Gino li ringraziava. Diceva loro che il loro sacrificio sarebbe servito per la sua esistenza e che non ne avrebbe preso uno in più del necessario. Gino risalì sulla riva con un paio di pesci, accese alcuni legnetti secchi di pioppo, li arrostì e li mangiò velocemente. Aveva molta fretta perché doveva andare alla cascina di Matteo. Il giorno prima era stato da lui a mangiare e se n’era andato con la promessa che sarebbe ritornato per aiutarlo a trebbiare i covoni di frumento. E poi doveva andarci a tutti costi perché c’era Rosa. Lei era la moglie di Matteo ed era l’unica donna che aveva il coraggio di avvicinarsi a Gino. Di solito era per portargli da bere e quando lo faceva gli andava così vicino che lui sentiva il suo odore. Era un odore buono e Gino non aveva mai sentito l’odore di una donna prima di conoscere lei. Quando era nelle corti a chiedere da mangiare o dei vestiti già portati, tutte le altre donne gli stavano lontano. Dicevano ai loro uomini di stare attenti e di non fidarsi di lui perché aveva gli occhi strani. Ma Gino era un uomo buono. Non era uno di quelli che spaventavano la gente tirando fuori delle carte e dicendo loro che erano impregnate di fluidi magici, o facendo strani disegni di figure geometriche sul terreno, o bruciando dell’incenso per fare uscire del fumo da una borsa, o minac-
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ciando di far entrare nel loro corpo degli spiriti perché usassero la loro voce. Gino, quelle cose, non le aveva mai fatte ed era riuscito a passare gran parte della sua esistenza in giro per le case dei contadini. Quelle isolate, con le finestre color nebbia e dov’era consentito alle rondini fare il nido. Gino era un vero vagabondo. Senza legami con un luogo specifico, né un orario da rispettare. Aveva sempre chiesto cibo e da dormire, ma aveva sempre ricambiato il favore prestando le sue braccia per fare lavori pesanti, sporchi e faticosi. Come uccidere e pulire i polli, camminare nelle stoppie in cerca di nidi di vespe per bruciarli, tagliare con la falce l’erba, cavare le ortiche nei filari delle vigne, riparare i recinti degli orti, raccogliere l’uva matura, sfogliare le pannocchie del frumentone e tanto altro. Ma un giorno il suo vagabondare ebbe una brusca frenata perché conobbe Matteo. Era un uomo scaltro, agile e capace di aiutare le vacche a partorire, di aggiustare le porte scardinate e le travi crepate. Il piacere più grande Matteo lo provava nel camminare nei suoi campi, nel vedere crescere le piante che seminava e viveva una vita di valori, che aveva preso dal padre e dal padre di suo padre. Gino lo conobbe in un freddo giorno di dicembre. Era sotto al portico della sua casa con altri due uomini che, con un martello, avevano piantato un grosso chiodo in fronte a un maiale di due quintali, uccidendolo sul colpo. Gino si avvicinò loro e chiese se avevano un pezzo di pane e un bicchiere di vino in cambio di qualche lavoro. Matteo lo guardò negli occhi e poi lo portò vicino a un grosso paiolo perché alimentasse il fuoco con delle fascine di olmo. Serviva molta acqua bollente per spellare quel grosso maiale e Gino era felice di essere di aiuto. Matteo e i suoi due amici non sembrava fossero molto esperti in merito a quello che si accingevano a fare. Raccolsero il sangue dell’animale in un secchio, ma poi uno di loro inciampò e ne rovescio tutto il contenuto. Durante l’operazione della spellatura, Matteo si scottò con l’acqua bollente e dovette ricorrere alle cure di sua madre che gli spalmò una pomata scura che puzzava di marcio. Quando il maiale fu ap-
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peso alla trave, sotto al portico, quello che aveva rovesciato il sangue si tagliò un dito della mano sinistra con un coltello e fece cadere dell’altro sangue sul pavimento. Ma poi, finalmente, il maiale fu sventrato, squartato e Matteo diede a Gino le budella dell’animale da lavare e pulire. Gino prese un paio di quelle tinozze che di solito usavano le donne per mettere a mollo i panni con l’acqua calda e la cenere per poi strizzarli e batterli più volte. Ci mise tutto l’impegno che poteva per lavare le budella due volte per la parte dritta e due volte per la parte rovesciata. Gino lavorò come mai aveva fatto prima e quando finì, Matteo lo portò nella stalla dove, sopra a una cassetta usata per la vendemmia, c’erano del salame, del formaggio, un grosso pezzo di pane e un fiasco con un po’ di vino rosso. Era un buon Lambrusco, ma era troppo per una persona sola. Quando Gino finì di mangiare non si reggeva più sulle gambe e si mise a dormire sopra a un mucchio di paglia pulita. Verso sera tornò Matteo con i suoi due figli più grandi. Gino si svegliò e diede loro una mano a mondare la stalla dal letame, a mettere nelle mangiatoie del foraggio e a portare da mangiare ai restanti maiali nel porcile e al cavallo che era in uno stallino più piccolo. Era un cavallo inquieto, che Matteo aveva comprato per due soldi al mercato perché, l’anno prima, aveva ucciso il suo padrone tirandogli un calcio spappolandogli l’intestino. Poi Gino, stanco morto, si rifece il letto con della nuova paglia e ci si buttò sopra. E lì, la mattina dopo, Matteo lo trovò svenuto, inzuppato di sudore e divorato dalla febbre alta. Matteo lo sollevò, lo appoggiò con la schiena al muro e lo fece rinvenire. E fu allora che Gino vide Rosa per la prima volta. Apparve dietro a Matteo con l’aspetto dolce e rassicurante. Il viso aveva la pelle chiara e un po’ di lentiggini sotto agli occhi. I capelli erano nascosti da un fazzoletto scuro annodato sotto il mento e solo da alcuni ciuffi ribelli, che uscivano, s’intuiva che erano color miele. Rosa aveva in mano una tazza con del brodo avanzato la sera prima. Si sedette sul pavimento, prese un cucchiaio dalla tasca del grembiale e imboccò Gino. Era una
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situazione che lui non aveva mai vissuto e che non avrebbe mai voluto che finisse. Gino beveva a piccoli sorsi e ogni cucchiaiata, per lui, era una medicina. Una specie di pozione magica che gli restituì quel poco di forze per essere accompagnato al secondo piano della casa. Rosa e Matteo lo fecero entrare dentro a una stanza dove c’era un letto che nessuno usava più e che aveva un pagliericcio riempito di foglie secche e profumate. Gino si coricò sopra al letto e Rosa gli mise sul petto un miscuglio di semi caldi e puzzolenti. Poi lo coprì con una coperta in lana, si sedette vicino a lui e gli raccontò che aveva messo al mondo sei figli, che non andava mai a messa, che non conosceva nessuna Ave Maria, nessun verso del Vangelo e arricciava sempre il naso quando un prete entrava nel cortile per poter benedire le pietre rosse della casa e le galline perché non bevessero le loro uova. Lei non era la padrona di casa perché era ancora la vecchia madre di Matteo a occuparsi della cucina e del pollaio. Ma a Gino disse che lei, anche se non sembrava una vera contadina con la pelle bruciata dal sole, aveva una forza incredibile. Sapeva spingere con il piede la vanga nel terreno per poi girare la zolla e sbriciolarla come un uomo. Conosceva le lune giuste per la semina delle verdure e i segreti per tenere lontano gli insetti dalle piante. E per questo le era stata affidata la gestione dell’orto ed era una cosa di cui lei andava fiera. Poi Rosa si alzò dal letto, si aggiustò la gonna e con un gesto spontaneo afferrò la mano di Gino e l’accarezzò. Lui sentì la sua pelle morbida, liscia e il suo cuore sembrava volesse uscirgli dal petto, non sentiva più la saliva scendergli in gola e aveva le gambe bagnate di sudore. Poi Gino incrociò gli occhi di Rosa, un’ondata di emozioni sconosciute lo assalì e si addormentò. Rosa tornò da lui verso mezzogiorno, andò alla finestra e con un lembo del grembiale tolse la condensa dai ventri per fare entrare la luce del sole. Gino stava già meglio, si alzò e scese al piano di sotto. Dentro la stalla Rosa preparò una tinozza piena d’acqua bollente e disse a Gino che prima di mangiare doveva
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assolutamente fare un bagno. Usò la scusa che doveva lavare via la febbre e Gino ubbidì, si lavò e si asciugò per bene. Poi Rosa non lo fece pranzare nella stalla, ma in casa fra fratelli, nuore, figli e cugini mescolati fra loro. Gino, mentre mangiava, conversava con tutti e si sentiva uno di famiglia. E quando il pranzo finì tutti lo salutarono e Rosa gli strinse la mano, lo abbracciò e gli disse di non sparire per sempre. Gino si allontanò da quella casa con il suo odore addosso e per molte notti successive dormì al caldo, sulle panche nella chiesa del paese piena di santi, di madonne, di crocifissi e di grossi ceri bianchi, ma l’odore d’incenso non coprì mai quello di Rosa. Non sentiva altro e non riusciva a non pensare a lei e al suo respiro. L’unica donna di cui aveva sentito l’odore. E Gino si addormentava sognando di passeggiare con lei mano nella mano o di andare al cinema in una giornata di pioggia per parlare con lei ridendo. Ma Gino, ogni mattina, al risveglio, si rendeva conto che nella vita reale tutto quello non era possibile. Stare con lei era un gioco di cui lui ignorava le regole. *** Il crepitio dei rametti secchi di pioppo, il gioco delle faville del fuoco e la colazione a base di pesce gatto finirono e Gino s’incamminò verso la corte di Matteo. Prese una stradina polverosa che andava verso il sole, che aveva i suoi raggi già incendiati. Una farfalla con le ali bianche ritmava il suo passo e i rintocchi di una campana lo guidavano. Oltrepassò un carro fermo e abbandonato con una delle sue quattro ruote cerchiate rotta. All’ombra di un grosso olmo vide e salutò un uomo vestito con un paio di pantaloni corti e una canottiera bianca, che stava riparando la camera d’aria della sua bicicletta. Stormi di uccelli passavano sopra la sua testa, le libellule volavano in silenzio e le ranocchie saltavano nell’acqua del fossato costeggiato da siepi spinose. Dall’altra parte del fossato le campagne erano deserte perché il raccolto più importante dell’annata, le
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spighe dorate del frumento, era già stato raccolto e portato al riparo dalla grandine. Quando Gino arrivò, davanti alla corte di Matteo, vide un vecchio di ottant’anni che scuoteva la testa, bestemmiava e gesticolava con un grosso bastone che stringeva con le mani nodose. Diceva che quel giorno non era adatto per trebbiare perché il prurito al suo callo sul mignolo del piede preannunciava il cambiamento del tempo. Ma nessuno gli dava retta. Non c’era nessun motivo per temere la pioggia quel giorno. I grilli e le cicale cantavano che era una delizia, i pavoni erano a passeggio con la loro ruota aperta e le mosche e i moscerini non erano fastidiosi più del solito. Dunque non c’era ragione per temere l’arrivo di un temporale e tutto era già pronto da alcune ore. Le pulegge del grande Landini a testa calda e della trebbiatrice erano già state collegate con una lunga cinghia. Il fumo nero dei trattori e la polvere erano ovunque e contro di loro tutti avevano un fazzoletto davanti la bocca, ma inutilmente perché il loro acre sapore si sentiva fino nel profondo delle loro gole. Uomini, donne e bambini erano tutti al lavoro e ognuno aveva il suo compito. C’era chi apriva i covoni e li gettava nella bocca della trebbiatrice, chi portava lontano la paglia e chi metteva il grano nei sacchi di canapa per portarli in spalla fino in granaio. Il compito dei bambini era di portare l’acqua da bere e quello di Gino era di buttare giù i covoni dal fienile con la forca o con le mani. Non importava come. L’importante era che cadessero sui carri. A mezzogiorno il lavoro si fermò. Gli uomini liberarono dalla polvere le pulegge dei trattori, strinsero i bulloni che si erano allentati e oliarono gli ingranaggi. Le donne prepararono il desinare e apparecchiarono una grande tavola che era all’ombra di una grossa noce. Gino si sedette e Rosa gli portò un paio di salsicce cotte, un grosso pezzo di formaggio, una cioppa di pane e dell’ottimo vino rosso. Poi si mise al suo fianco e iniziò a mangiare conversando con lui. Gino era in difficoltà e gli mancava il coraggio di guardare dentro agli occhi di
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Rosa perché non voleva vederci dentro il riflesso del mondo che era intorno a loro. C’era caldo come mai c’era stato. Rosa sudava e le gocce di sudore le scendevano dal collo rigando la sua pelle bianca coperta dalla polvere. Più tardi lei si alzò da tavola, appoggiò le mani sulle spalle di Gino e andò in cucina per tornare subito dopo con della frutta tagliata a fette e del caffè d’orzo. Il pranzo era finito, gli uomini si misero a fumare e le donne sparecchiarono la tavola e andarono al lavandino per lavare piatti, cucchiai, bicchieri, pentole e pentolini. Poco più tardi il lavoro riprese e quando Rosa passava sotto al fienile guardava sempre Gino e gli sorrideva. Lui era felice perché finalmente aveva trovato una persona che era riuscita a dare un senso alla sua vita. Prima di conoscere lei, Gino non sapeva ridere e nella sua mente non c’erano ricordi più vecchi di un giorno. Invece, ora, la sua mente ricordava episodi vecchi anche di un anno. Praticamente Gino era migliorato, cambiato e quando portava il letame nei campi, e ne cadeva un po’ per terra, non calciava più la ruota della carriola. E quando era in mezzo al frumento a strappare i papaveri rossi e, voltandosi indietro vedeva che ne aveva dimenticato uno, non si agitava più tanto da farsi scappare la pipì nei calzoni. Conoscendo Rosa, Gino aveva imparato a controllare i suoi sentimenti e il suo umore. Quindi decise di non allontanarsi più da quella zona per non perdere quella donna. Ma poi la sua mente iniziò a rimanere via per troppo tempo e la parte più disorganizzata del suo cervello prese il sopravvento su quella più razionale. I contadini sempre più spesso lo trovavano svenuto nelle stalle o sotto i filari delle loro vigne. Sapevano che quella perdita di contatto con la realtà era una cosa passeggera. Dunque lo coprivano con una coperta e aspettavano che si svegliasse. Ma poi qualcuno cominciò ad avere paura che Gino fosse un pericolo per se stesso o per altri e chiamò un dottore. E il dottore chiamò i Carabinieri, che portarono le loro leggi non adatte per l’uomo e lo chiusero in questa stanza. Gino non ricorda quanto tempo sia passato da allora, ma non gli importa più di
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tanto. Ora sente che la sua mente sta andando via ancora una volta. Forse l’ultima volta. Ormai è vecchio e si sente stanco. Gli mancano le forze e sente che il suo viaggio in questo mondo sta per finire. Rosa è stata la ragione per la sua mente e ora è solo un ricordo che custodisce gelosamente. L’unico ricordo che ha della sua esistenza.
Egidio Braghini, nato il 1/10/1958 a Parma. È pensionato e vive con la moglie a Novellara (RE).
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Accadde a settembre di Donatella Boccalari
Le pietre del pavimento erano gelide e i piedi le si stavano congelando. Clara si sollevò sulle punte ma rimase immobile davanti all’armadio con le ante spalancate, scrutandone pensosa e imbronciata l’interno. Era veramente difficile decidere cosa indossare quel giorno. Udì appena la voce della nonna che dalla cucina la sollecitava a sbrigarsi e a scendere per fare colazione. Fu solo quando i trattori passarono sotto la sua finestra, facendone vibrare i vetri, che si riscosse. Scelse un abitino azzurro con piccoli fiori bianchi, regalatole di seconda mano da una cugina più grande, ma che sua madre le aveva sempre impedito di indossare perché “...non è adatto alla tua età, Clara”. Al pensiero di sua madre fece una smorfia: quella donna era insopportabile, la correggeva e riprendeva per ogni cosa, trattandola come una bambinetta mentre invece aveva quattordici anni. Già compiuti. Il pensiero delle furiose discussioni, che si scatenavano per ogni futile motivo e che terminavano invariabilmente con la fuga di Clara con seguito di lunghi e inconsolabili pianti, la rabbuiò ancora di più. Il malumore però svanì d’incanto, quando si vide allo specchio. Scollatura a V, una lunga fila di bottoncini sul davanti e la lunghezza sopra il ginocchio. Stringendo forte la cinturina che lo completava poteva met-
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tere in evidenza la vita sottile e la delicata curva del seno. Si spazzolò i lunghi capelli castani che con il sole dell’estate si erano schiariti e le danzavano sulle spalle con caldi riflessi dorati. Vinta la tentazione di lasciarli sciolti, meglio non sfidare troppo le ire di sua madre, li raccolse in una coda di cavallo che mise in evidenza il viso abbronzato spruzzato purtroppo di detestate lentiggini. All’ennesimo richiamo, sbuffando esasperata, si infilò senza esitazioni un paio di sandali bassi dai sottili cinturini azzurri. Passando davanti alla porta aperta della cucina, ignorò con un’alzata di spalle la nonna che la invitava, con voce supplichevole, a fare colazione e rapida uscì di casa. Si pentì quasi subito del suo atteggiamento. La nonna era sempre così dolce e affettuosa con lei, al contrario di quella iena di sua madre, e le dispiaceva trattarla male, ma c’erano giorni in cui ogni cosa la infastidiva e non ce la faceva proprio ad evitare di essere scontrosa con tutti, nemmeno con il suo adorato gatto Aldo. Era una bellissima mattina di fine settembre, l’aria era ancora frizzante ma il sole splendeva annunciando una giornata calda. Sull’aia c’era un gran fermento. Casse colme d’uva scura venivano accatastate con ordine, mentre già alcuni trattori, carichi d’uva bianca, transitavano diretti alla Cantina Sociale. Il vigneto era di una bellezza che toglieva il fiato. I lunghi e ordinati filari delle viti erano sommersi di foglie di ogni sfumatura di verde che virava al giallo oro per poi esplodere in fiammate di rosso rame. Il cielo era di un blu intenso e luminoso. L’aria quasi fremeva, attraversata da voci allegre, richiami e scoppi di risate che arrivavano dal folto dei vitigni. Clara parve non accorgersi di nulla, nemmeno dei saluti che le venivano rivolti dalle persone che incontrava. Superata una grande macchia di fiori settembrini color in-
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daco, percorse lo stradello che si inoltrava nella vigna quasi correndo. Era l’ultimo giorno di vendemmia. Da anni la sua famiglia festeggiava quel momento condividendo con gli amici un giorno di lavoro trasformato in festa. Infatti, dopo l’ultimo carico d’uva, tutti si accomodavano a una lunga tavolata, apparecchiata sotto il portico, e terminavano la giornata dividendo il cibo che ognuno aveva contribuito a portare accompagnato da fumanti fette di gnocco fritto, specialità della nonna. In quell’occasione si svolgeva una singolare sfida: venivano affettati e assaggiati alcuni salami, preparati in modo artigianale dalle famiglie presenti, tra cui ovviamente quella di Clara, e tra rumorose e divertite discussioni, veniva decretato il “Re Salame”. Ovviamente il tutto accompagnato da frequenti brindisi dell’ultimo scuro Lambrusco che stava per cedere il posto, in cantina, al nuovo vino. Clara aveva sempre partecipato divertita a quella festa tra amici nella quale si condividevano lavoro e buon cibo, ma ora ne era quasi infastidita. Per la fatica che comportava organizzarla, aiutare in cucina con sua mamma sempre tra i piedi, e poi... quel terribile puzzo di fritto! Improvvisamente Clara intravide poco lontano sua madre e ne colse lo sguardo stupito. La donna stava per aprire la bocca, certamente per un richiamo, quando la ragazzina si infilò rapida sotto una vite e sparì dalla sua vista. Raccolto un cesto e un paio di cesoie, Clara passò lentamente da un filare all’altro, guardandosi intorno con attenzione. Attraverso un sipario di foglie color ruggine che celavano grossi grappoli scuri gonfi di succo, Clara intravide finalmente ciò che aveva finora cercato e, nello stesso momento, quasi temuto di incontrare.
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Federico stava scherzando con alcune donne che gli porgevano i loro cesti colmi d’uva per svuotarli all’interno delle cassette poste su un trattore. A Clara non parve vero di poterlo osservare con tutta calma, senza timore di essere sfacciata e di arrossire violentemente se per caso il ragazzo incrociava il suo sguardo. Federico era amico di suo fratello Ferdinando, avevano la stessa età, diciassette anni, ma mentre Ferdinando aveva le fattezze e l’atteggiamento di un uomo, Federico sembrava ancora un ragazzo, sempre sorridente e con la voglia di scherzare. Quell’estate lo aveva incontrato spesso, quando veniva a casa per incontrare suo fratello, la domenica a Messa o casualmente lungo le vie del paese. In quelle occasioni i loro sguardi si erano sempre cercati ma Clara aveva accuratamente evitato di rivolgergli la parola, o anche solo un sorriso... e ogni volta, dopo, si struggeva ripensandolo e mille domande le affollavano la mente. Senza risposte. Ora le donne lo stavano allegramente provocando con domande maliziose sulla sua vita sentimentale che il ragazzo evitava con ironica finta ingenuità. Clara non lo aveva mai osservato così a lungo e così da vicino. Contemplò i capelli neri pettinati all’indietro, gli occhi scuri e profondi, la bocca piegata in un sorriso. Sotto la vecchia camicia e i pantaloni da lavoro, si intuiva un fisico muscoloso ma asciutto. Il turbamento era così intenso che si mise una mano sulla bocca, temendo che il respiro potesse rivelare la sua presenza. D’un tratto notò che Federico, pur lavorando con lena e senza smettere di chiacchierare, continuava a lanciare lunghi sguardi intorno a sé, come se cercasse qualcuno. Il cuore iniziò a batterle così forte che temette potesse sentirsi oltre il suo verde nascondiglio. Quasi lanciò un grido quando sentì una mano afferrarle i
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capelli e strattonare un po’ bruscamente la coda di cavallo. Si girò di scatto, ansimando e con gli occhi sbarrati. Era suo fratello Ferdinando. “Ti ho spaventata principessa imbronciata? Scusa, non intendevo... - poi, osservandola da capo a piedi, continuò - Curioso abbigliamento per una vendemmia, soprattutto quei sandaletti che vanno a nozze con le ortiche a pochi centimetri dai tuoi piedi” e si allontanò scrollando la testa e concludendo “fossi in te, starei alla larga dalla mamma”. Quando suo fratello finalmente si allontanò, Clara si riaffacciò cauta al suo punto di osservazione. Federico non c’era più. La frustrazione le fece quasi venire le lacrime agli occhi. Pensando a cosa fare continuò a staccare i grappoli d’uva con sempre maggiore stizza, fino a quando, strappando con troppa energia, un grappolo quasi le esplose tra le dita, facendole colare il succo zuccherino lungo tutto il braccio. Ormai prossima al pianto, Clara lanciò le cesoie nel cesto e si avviò correndo verso casa per lavarsi quella brodaglia appiccicosa. Invece di entrare in cucina, decise di fermarsi al lavatoio sotto il portico e con rabbia azionò la vecchia pompa facendone uscire un getto d’acqua freddissimo. Si stava strofinando le mani e il braccio quando l’acqua riprese a scorrere. Stupita, alzò lo sguardo, Federico era accanto a lei. “Non ti ho vista nel vigneto, sei appena arrivata?” le chiese il ragazzo. Clara non riuscì a rispondere, l’emozione le aveva tolto la voce e in risposta si limitò a scuotere la testa. Il nastro che le legava i capelli si sciolse, complice il poco garbo di suo fratello poco prima, e questi le ricaddero morbidamente sulle spalle creando intorno al suo viso un’onda dorata. Federico stava per parlare quando udirono delle voci avvi-
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cinarsi, la nonna e la mamma iniziavano ad apparecchiare la tavola. Il ragazzo allora la prese per un braccio e la condusse rapidamente dietro l’angolo della casa, pochi passi più in là, ma già in un altro mondo. Al riparo di una grande siepe di alloro c’erano solo loro due. Il braccio dove l’aveva afferrata Federico sembrava bruciare e Clara non riuscì a trattenere un brivido. Il ragazzo le si avvicinò di un passo e le chiese dolcemente, sussurrando, se stesse bene. Appoggiando la schiena al muro di pietra, Clara alzò il viso verso di lui. Le mancavano le parole per rispondere e il cuore batteva con violenza nel suo petto ma non voleva interrompere quel momento che, ora lo capiva, era ciò che aveva tanto atteso e nello stesso tempo temuto. Tutto ciò che sentiva era la presenza del corpo di Federico e non poté fare a meno di attirarlo a sé. Quando le loro labbra si incontrarono, il cuore di Clara smise di battere e il respiro si fermò. Un calore improvviso risalì il suo corpo e si diffuse sulle sue guance facendole bruciare. Il suo primo bacio. Finalmente lo guardò e vide Federico sorridere nei suoi occhi. La sua mano salì per scostarle delicatamente i capelli dal viso. I passi che si avvicinavano li riscossero bruscamente e si separarono, un leggero affanno nel respiro. Federico le trattenne la mano per un istante e, prima di lasciarla, vi depose un bacio leggero. Clara tornò lentamente sui suoi passi, sfiorandosi le labbra con le dita per trattenere il tepore del bacio mentre il cuore riprendeva il suo battito normale. Ecco cos’era... ecco cosa stava aspettando. Era innamorata. Innamorata.
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Ripeté, a bassa voce e più volte, il nome del suo amore assaporandone il suono. Piano piano si avviò verso la cucina per aiutare la nonna e la mamma ad apparecchiare la grande tavola, sapeva che la stavano aspettando. Non si curò di legare nuovamente i capelli e, alzando il capo per farli scendere dietro le spalle, notò finalmente l’incredibile blu del cielo. Le sue labbra si piegarono finalmente in un sorriso e concesse a una lacrima, solo a una, di dividere con lei l’emozione del primo bacio.
Donatella Boccalari nasce a Luzzara (RE)... alcuni anni fa. Vive a Roteglia (RE) con il marito, il figlio, quattro gatti e un cane. È appassionata di cucina, in particolare di piatti della tradizione emiliana, di storia dell’alimentazione e cucina italiana. Ha pubblicato Ti ricordi il profumo del brodo? (2011), Avanzo a chi? (2013), il corale Nove galline e un gallo. Racconti e ricette tra il Crostolo e il Secchia (2013). Collabora occasionalmente con riviste locali con articoli sul tema della tradizione in cucina.
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Altre migrazioni di Renato Ceres
Quando a uno degli informatori che hanno permesso la stesura di questo racconto ho detto che il mio primo lavoro è nella scuola, mi ha fatto piacere essere stato scambiato per un collaboratore scolastico ovvero parte del personale Assistenziale Tecnico e Amministrativo (ATA) nella fattispecie prima “A”, quella degli ausiliari, cioè insomma un bidello e noto che mi sono servite tre righe per una definizione sindacalmente corretta. Mi fa piacere perché, pur non avendo addosso nessuna grisa, nessuna blusa o grembiale, ma neanche giacca e cravatta, agli occhi di un normale minus habens da bar sport, io sembro un bidello, e oggi un bidello rischia molto meno di un prof. La minorità dell’individuo che mi ha dato le informazioni più importanti sulla storia che vado a narrare è attestata da vari certificati, ma soprattutto dalla pensione di invalidità, che si beve nei primi quindici giorni del mese in un circolo della periferia Ovest della città. La terza e la quarta settimana meriterebbero un documentario dal titolo Come vivere da gran signore con niente in tasca. In futuro ci sarà senz’altro qualcuno che si prenderà la briga di scrivere un romanzo o almeno un racconto basato sulla biografia di questo corpulento e anziano signore che chiamerò Informatore 1, dato che, per il momento, è ancora vivo e regala un sacco di emozioni. E poi sono tornato a frequentare per lo stesso motivo, cioè avere ragguagli sulla vita del personaggio di cui parlerò, lo strano psicoterapeuta del romanzo Parrokkia progressive, (Informatore 2) di cui è risultato essere nientemeno che il fratello, ancorché semirinnegato, ma veniamo al nostro personaggio. Anzi, no, no.
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È necessario giustificare questa scelta, che non è stata automatica o naturale; è figlia di una scoperta dovuta a una disgrazia, cioè l’alluvione di Lentigione di Brescello del 12 dicembre 2017. Andai, come tanti altri, a vedere se potevo essere utile in qualcosa. Fui discreto, secondo me ero arrivato in ritardo e avevo un po’ paura di essere preso per curioso e rompiscatole, ma non andò così. La devastazione era grande, c’era ancora tanto da fare; più che altro lavori di facchinaggio e pulizia. Capitai a passare di fianco all’unica bocca di lupo di un edificio piuttosto vecchio e malandato, apparentemente disabitato, e non avevo ordini precisi di lavoro. Ritornai sui miei passi e osservai più da vicino ciò che si poteva vedere attraverso graticci e zanzariere arrugginite: fango e oggetti che spuntavano, che potevano essere cartoni, pile di libri sfusi e borse di vario tipo. Feci qualche domanda in giro, se non fosse il caso di entrare a dare un’occhiata, iniziare a svuotare e pulire anche lì. Nessuno sapeva niente ad eccezione di un uomo intorno agli ottant’anni all’apparenza in buona salute, ma dall’aria alquanto svagata, che gironzolava tra la chiesa e l’argine con le mani in tasca. Disse che lì sotto non ci abitava nessuno. Quello una volta era il laboratorio di un calzolaio che, da quando era morto, più di vent’anni fa, era stato chiuso così come il resto dell’edificio, di proprietà di una famiglia che fu molto ricca, ma che attraversò un periodo sfortunato negli anni Settanta e praticamente si dissolse. I resti di questo antico casato - dice quello che chiamerò Informatore 3 - sono fuori d’Italia, chissà dove; ricordava solo il nome dell’ultimo individuo che aveva frequentato saltuariamente Lentigione fino a gli anni ’90: Ero. Non ci volle troppa energia per forzare uno degli ingressi laterali, il più vicino a questo, diciamo, ex laboratorio: sentivo come un’urgenza etica fare quello che probabilmente chi aveva questa responsabilità aveva trascurato di fare. Entrai. Il seminterrato era effettivamente uno stagno di fango dell’altezza di un metro e mezzo circa. Se qualcuno si fosse trovato lì quel giorno era di sicuro affogato e nascosto lungo disteso sotto
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tutta quella poltiglia maleodorante, sì, perché quando un fiume esonda, quello che alla fine arriva dentro una casa e chiamiamo con un eufemismo fango è un miscuglio infernale di acqua, terra, nafta e chissà quali altri idrocarburi, liquami e rifiuti di tutti i tipi. Informatore 3 si mise al mio fianco come se tacitamente fosse diventato il mio collaboratore subordinato, come fosse stato lì in giro solo per aspettare che io arrivassi. Fu solo dopo essere andati a chiamare i Vigili del fuoco per avvertire che c’era un vano seminterrato forse utilizzato se non abitato, ancora da ispezionare, svuotare e pulire. Fu solo dopo, che Informatore 3 se ne uscì con una novità. Disse che lì sotto, da una quindicina di anni e fino all’anno prima, ci bazzicava un extracomunitario, cioè un tizio che nessuno conosceva bene che diceva di sé di essere uno straniero, un profugo; un esule precisava quando qualcuno provava ad andarci sotto. Solo che affermava di chiamarsi Idolo, detto Il polesano, e parlava benissimo un italiano con improbabili sfumature venete; tutte cose in evidente contrasto. Da un punto di vista molto superficiale, uno che si chiama così, come quest’uomo, faccio fatica a immaginare che possa essere inserito tra i personaggi caratteristici della Bassa Padana, e non è cosa automatica nemmeno considerarlo un profugo ben integrato nel tessuto sociale nostrano, come tanti profughi o migranti o emigrati o rifugiati o esuli, anche se proprio di questo tipo è la sua storia, la vita di uno costretto a lasciare la sua terra e i suoi beni, iniziare un viaggio pieno di difficoltà di ogni genere e, infine, approdare qui da noi trovando l’accoglienza che di solito riserviamo agli stranieri senza documenti, un tipo di accoglienza che oggi possiamo vedere semplicemente guardandoci attorno e con le orecchie ben aperte. Ritornai a Lentigione il giorno dopo, andai direttamente verso la casa con lo scantinato dove ritrovai Informatore 3, l’anziano tra le nuvole del giorno prima. Sembrava mi stesse aspettando con l’aria di chi è proprio curioso di vedere quali sarebbero state le mie prossime mosse, tra l’altro senza che mi fossi nean-
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che presentato. Tantomeno gli avevo comunicato che era mia intenzione tornare a rovistare in ciò che rimaneva del ricovero di un esule di nome Idolo, sparito dal paese chissà quando e per dove. Quando riuscii a ricostruirla, la storia di Idolo, risultò ancora più stridente la contraddizione tra la sua biografia e la scritta che avrebbe accolto nel suo rifugio brescellese gli eventuali possibili ospiti: in quella stanza di sei metri per sette non c’erano scaffalature né altro mobilio addossato ai muri, ma solo la grande scritta “Ferma ciò che si muove, non muovere ciò che è fermo” sulla parete di fronte all’ingresso, tracciata a vernice bianca col pennello. Le idrovore avevano sollevato tutta la melma ed emersero un tavolino, una sedia, una lampada e qualche biro protette in una scatola, qualche altro oggetto da ufficio e per il resto libri, solo libri. O meglio quello che rimane dei libri dopo essere stati immersi per quaranta ore nella putrida miscela prima descritta. Pile di libri appoggiate sul pavimento, mucchi di libri ficcati alla rinfusa in sacconi da spazzatura sfortunatamente lasciati aperti; libri inscatolati in maniera corretta nei cartoni della Coopservice, quelli dei traslochi. Nient’altro. A occhio saranno stati un paio di migliaia. Del novanta per cento era praticamente impossibile perfino capire di cosa si trattasse; il restante dieci per cento mostrava la copertina o la costa, si poteva vedere cosa fosse, erano tutti volumi con la copertina rigida e la sovraccoperta plastificata; il contenuto un mattoncino di cellulosa forse buono per il macero. La questione diventava interessante ancorché misteriosa: un extracomunitario anziano o quasi, di nome Idolo detto Il polesano, che lascia a Lentigione di Brescello uno scantinato pieno di libri dai titoli tipo Le figure del mito, I gioielli indiscreti, Con l’Esercito Italiano in A.O., Apocrifi dell’Antico Testamento, Antisemitismo e sionismo, Petrarca - Le rime. Da oltre un anno sparito nel nulla. Il pigro e a me devoto Informatore 3, dopo aver constatato che non c’era niente da recuperare, mi fece però notare che il tavolino aveva un cassetto, e che nessuno, dentro a quel disastro,
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aveva pensato di aprirlo, tantomeno io. Lo tirai verso di me e, meravigliato dalla fortunosa pulizia interna, vidi un quaderno da scuola media con la copertina dalla grafica anni ’80 e altri block notes scritti - notai - solo nelle prime cinque-sei pagine. Alcuni foglietti volanti con roba che poteva essere ricette o aforismi, massime, non avrei saputo dire se originali o di autori famosi. Nient’altro. Tutto il contenuto del cassetto poteva stare in una cartellina rigida con elastico. L’avevo in auto, il raccoglitore; carpettone arancione con elastico. In due minuti avrei potuto recuperarlo e riempirlo. Cosa che feci immediatamente, anche se con addosso una sensazione di illegalità che sta scomparendo solo ora, nel momento in cui rendo onore a quanto resta degli scritti del forestiero Idolo detto Il polesano. Il paesino sotto l’argine destro dell’Enza stava tornando molto lentamente a quella che chiamano la normalità, mentre io me tornavo a casa con l’informazione che si sarebbe rivelata decisiva per ricostruire un po’ la biografia del Polesano: Informatore 3, al quale effettivamente non avevo neppure chiesto il nome (fu un errore), mi diede invece il nominativo di quella che a suo avviso era l’unica persona che avrebbe potuto raccontarmi degli aneddoti su questo strano esule sparito da un anno, e si trattava di un pensionato che una volta abitava a Lentigione, ma che da tanto tempo si era trasferito in città per motivi di salute. Quasi inutile specificare che anche di questo personaggio era noto solo lo scotmai, il soprannome, una cosa comune da queste parti, e neanche troppo originale tra l’altro: Il Geometra. Io però avevo vinto un terno al lotto, perché feci due più due e risultò, dopo una sommaria descrizione fisica, che Il Geometra non poteva essere altri che Informatore 1, quella specie di creatura da bar Sport con cui ho iniziato questa storia. Tombola! Sapevo perfettamente dove dirigermi. Per un paio di prosecchi ogni tanto, riuscii in meno di un mese a portarmi a casa da Informatore 1 una storia incredibile. Idolo di cognome faceva Depase e immediatamente collegai la frequentazione una decina di anni or sono di uno psicotera-
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peuta di nome Guerrino Depase, il quale, ricontattato, come ho detto, rivelò poi di essere il fratello di Idolo, che lui stesso aveva perso di vista per decenni, per ritrovarlo un paio d’anni addietro, e che quindi mi raccontò la parte di vita mancante nei ricordi di Informatore 1, ovvero l’infanzia e la partenza dalla loro terra. Istria. Poi, oltre l’infanzia, il gran finale. Col botto. Che roba è Istria? Ho visto che per qualcuno è l’italianizzazione del nome di un’esotica terra slava, dove trascorrere quindici giorni d’estate e poi tornare col piglio di chi ha fatto una selvaggia avventura balcanica da mostrare su Instagram agli amici. Per qualcun altro, un po’ più vecchio, è il suffisso di un lemma che gli ricorda la gioventù: Capodistria, nel senso di canale televisivo: “Sì! Mi ricordo! C’erano il Primo, il Secondo, la Svizzera e Capodistria, ah, che bei tempi…”. Poi ci sono quelli che proprio non hanno mai sentito neanche la parola. Come il tormentone di qualche tempo fa: “Il Molise non esiste”. Il Molise c’è invece. Come l’Istria. Una penisola a forma di cuore esattamente sotto Trieste dall’estensione pari circa a quella di un ducato padano, che fino a settant’anni fa era italiana e piena di gente che parlava italiano. Un italiano un po’ veneto, ma italiano. Che strana la storia. E poi non interessa agli studenti. Idolo e Guerrino Depase, il 18 agosto del 1946, erano due bimbi (forse già) orfani di padre, che con la loro mamma erano andati su una delle meravigliose spiagge limitrofe alla loro città, Pola, per una manifestazione nautica, per divertirsi un po’ in mezzo alla gente insomma, in un momento piuttosto cupo per il capoluogo istriano: guerra finita, enclave sotto gli Alleati circondata da un retroterra assegnato agli Jugoslavi. La pressione era forte. Sappiamo come poi è andata a finire. La famiglia Depase lo aveva già intuito, e non aveva bisogno del terrore scatenato in città dall’attentato di quel giorno su quella spiaggia - Vergarolla - per decidere, insieme agli altri trentamila, che ormai non c’era alternativa alla fuga, per poter vivere in tranquillità, per poter condurre una vita normale. Naturalmen-
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te, come sempre in questi casi, anche la decisione di spostarsi, migrare, diciamo, era qualcosa che non aveva la strada spianata, un po’ come oggi, mutatis mutandis; qualcosa da fare un po’ illegalmente con qualche venatura di avventuroso e senza la sicurezza del lieto fine. D’altra parte era già qualche anno che in quelle zone nelle famiglie avvenivano cose anche tragiche che non avevano una spiegazione né razionale né logica, come la sparizione dei capifamiglia. Una notte, come moltissimi in quelle settimane, la signora Depase, vedova bianca, si imbarcò clandestinamente su di un peschereccio che aveva trovato un sistema più redditizio del pescare grancevole per gli ufficiali inglesi di Pola, e si fece portare insieme ai due figli a Capodistria, dove sapeva che c’erano tre stanze vuote nella casa di un cugino, ma soprattutto in una città molto più vicina a Trieste, nella Zona B del nascente TLT: il Territorio Libero di Trieste. Solo che i politici avevano consegnato provvisoriamente questa parte delle terre contese agli Jugoslavi, e non, come Trieste, agli Alleati. Passò qualche anno dal Trattato di Parigi; nel 1954 Trieste tornò all’Italia, e la Zona B del TLT, alla quale apparteneva Capodistria, finì alla Jugoslavia e in una situazione convulsa, dopo aver capito che in quella cittadina la situazione sarebbe molto presto stata la stessa che a Pola, la famiglia Depase arrivò non senza difficoltà a Fossoli, Carpi, Modena. Non erano soli, Idolo, Guerrino e la mamma. C’erano decine di famiglie, che nel 1955 trovarono un ricovero in quei capannoni che erano appena stati abbandonati dalla comunità di Don Zeno Saltini, quegli stessi capannoni dove appena dieci anni prima venivano concentrati gli ebrei da tutta Italia per essere deportati nei campi di sterminio in Polonia e Germania. Sembra una barzelletta, ma lì a Fossoli, vicino a Carpi, in una situazione logistica abbacinante, i fratelli Depase trovarono le basi per il loro futuro: Guerrino fu inserito nel Collegio San Carlo a Modena e Idolo a frequentare le locali scuole elementari e poi le professionali per l’avviamento al lavoro. I rapporti
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con gli autoctoni, in generale discreti e rispettosi, non erano sempre idilliaci; spesso i Depase, come gli altri ospiti del Campo, captavano un sentimento se non di ostilità, quantomeno di diffidenza. La domanda ricorrente era: “Come mai siete scappati da casa vostra, proprio adesso che da voi sta arrivando il Sol dell’avvenire? Non è che siete tutti dei fascisti voialtri istriani? Abbiamo già la nostra miseria, noi, come pensate che possiamo aiutare anche voi?”. I racconti che spiegavano la situazione spesso non erano creduti, ma la tempra della mamma, che non sapeva neanche che fine avesse fatto il marito, fu in grado di tirare avanti la baracca. Così poi ci fu il trasferimento a Correggio in un paio di stanze date in comodato da un benefattore. Ogni tanto Idolo spariva con la bicicletta per tornare a notte fonda. Scappava - da solo o in compagnia - per andare a Po, e la riva più vicina era a Luzzara, non esattamente dietro l’uscio di casa. Idolo era un nuotatore provetto, gli mancava tanto il mare e non poteva fare a meno di raggiungere il fiume, tuffarsi e cominciare a dare bracciate, e qui inizia la leggenda. Il Geometra - Informatore 1 - divenne suo amico proprio in quel periodo, e insieme compivano quelle scappatelle che avrebbero eletto Idolo Depase Il capo del Po. Capo naturalmente nella giurisdizione di un manipolo di adolescenti, che iniziarono a spargere la voce di avventure sul Grande Fiume degne di un brano di Tom Sawyer: traversata a nuoto di notte per andare nel Mantovano a rubare la frutta, che era trasportata al di qua in vasi ricavati da un mezzo cocomero svuotato, che faceva anche da galleggiante-salvagente. Idolo si vantava di essere l’unico che sapeva come affrontare i gorghi senza paura. Faceva dimostrazioni, anche per il pubblico di ragazzini sempre più numeroso, sul come non andare in pericolo restando calmi in acqua quando si era a dieci metri dalla riva mentre a cinque c’era il mulinello: bastava lasciarsi trasportare dal movimento della corrente, che a volte era anche contrario sia al senso dell’acqua che alla direzione ideale per raggiungere la sponda desiderata, per cui capitava di vedere Idolo che roteava da
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sponda a sponda senza quasi muovere le braccia, tracciando una specie di spirale nell’acqua, anche se a volte tutti avevano l’impressione che con tre o quattro bracciate, in una di queste giostre nel Po, avrebbe potuto tranquillamente toccare la riva e tornar su. Guerrino Depase, il fratello appena più grande, proseguì la sua vita a Modena, dove, al termine del Liceo, si iscrisse a Medicina, per poi specializzarsi a Milano in Psicologia e Psichiatria e finire a Reggio Emilia, mettere su famiglia e studio professionale. Idolo invece, insieme al suo amico Geometra, venne assunto dall’Emiliana proprio ai tempi della nazionalizzazione, quando si trasformò in ENEL. Erano una coppia affiatata: uno andava sui pali e l’altro stava giù, e poi si scambiavano le parti. Nella pausa di mezzogiorno tutti i dipendenti si trovavano, compresi gli amministrativi, alla trattoria Tre Spade, dove, al termine di frugali ma ottimi pranzi da operai, ingaggiavano memorabili partite a briscola tra loro e con gli altri avventori. Ho trovato anche qualche testimone di questi momenti conviviali. Intanto però il Geometra aumentava di peso, e cresceva, cresceva, fino al punto che gli fu sconsigliato e poi vietato di salire sui pali della luce. Fu proprio allora che venne chiamato Il Geometra, visto che, in pratica, non faceva altro che osservare il lavoro degli altri, dare consigli non richiesti e giudicare l’opera svolta. Sempre Informatore 1 - Il Geometra - racconta del carattere di Idolo Depase: era buono, un po’ chiuso, ma buono e generoso, non si tirava mai indietro al punto che tanti se ne approfittavano del suo non dire mai di no. Una sola cosa lo mandava in bestia, una cosa che poteva farlo stare in oca anche per due o tre giorni: quando si trattava di fare o rinnovare documenti. Succedeva tutte le volte che aveva a che fare con l’Anagrafe; Idolo Depase risultava nato in uno Stato Estero, e lui si incaponiva a dire che nel 1937 Pola era Italia, che erano tutti italiani, che allora c’erano più slavi a Trieste che a Pola, che gli altoatesini sono tedeschi e lui era italiano, insomma il fatto
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di essere considerato dalla legge uno nato all’estero, come un extracomunitario, lo faceva sempre imbestialire, così come la gente in coda che invitava coloritamente quel profugo a sbrigarsi. Qualcuno ogni tanto - bullismo d’antan - si divertiva a chiamarlo slavo oppure - peggio ancora - s-ciavo. Nel 1970 Idolo Depase e il Geometra si licenziarono dall’ENEL e abbandonarono Correggio e la Bassa. Informatore 1 aveva progressivamente acquistato un numero tale di disabilità - vere o presunte - che gli permettevano di tirare avanti senza lavorare, ma solo con la pensione. Idolo invece pensò di dare una svolta alla sua vita da scapolo ormai maturo, e con la piccola liquidazione e la collaborazione del fido Geometra, come novelli Don Chisciotte e Sancio Panza, partirono alla conquista dell’America. Il primo riferimento doveva essere la signora Annamaria Bastianich, amica di infanzia della madre di Idolo, che era emigrata negli Stati Uniti per il medesimo motivo per il quale i Depase finirono a Carpi, e che si era sistemata aprendo un laboratorio di refezione all’italiana a New York. Senza indirizzo, non riuscirono a rintracciarla. Nel frattempo Idolo aveva iniziato a parlare bene la lingua e a spendere in libreria e ad accumulare volumi di tutti i tipi, che sistemava in cartoni comodi da trasportare sul camioncino che intanto erano riusciti ad acquistare. Il Geometra con la sua pensioncina e Idolo con la liquidazione riuscirono a tirare avanti fino a improvvisarsi venditori ambulanti di cibo da strada italiano; cose molto semplici come stria, gnocco e focacce, gnocco fritto, chizze, ma anche busare e sardine all’istriana; street food semplice ma graditissimo dagli yankee e, dopo qualche anno, ebbero la possibilità di diventare cittadini americani. La sfruttarono. Continuarono col commercio ambulante e con l’acquisto di libri che, probabilmente, stando alle informazioni del Geometra, Idolo leggeva anche, oltre a collezionarli, perché, dopo aver allargato il raggio di azione al mid-west, il cibo da strada del camioncino divenne più elaborato, ma soprattutto Idolo iniziò una collaborazione con una comunità di mediorientali, libanesi, siriani
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e palestinesi, per la traduzione in inglese del messale di San Basilio dalla loro antica lingua liturgica, il siriaco. Il Geometra pensava al cibo e Depase ai libri e gli affari andavano a gonfie vele, fino a che la mente eclettica dell’istro-padano Idolo Depase concepì un’operazione che si rivelò un azzardo. Attraversando il deserto del Nevada, nei pressi di Winnemucca, si fecero convincere da un tizio senza scrupoli ad acquistare la mummia di un cowboy con una freccia conficcata in fronte. Nei loro calcoli doveva essere qualcosa di molto redditizio, dal momento che pensavano di ampliare l’offerta del camioncino dal cibo alla vista di una mummia perfettamente conservata e con tanto di baffoni biondi, con un piccolo supplemento di cinque dollari. Non avevano tenuto però conto del fatto che tenere e trasportare cadaveri era una cosa illegale e la legge da quelle parti non scherza. Il Geometra dovette sborsare parecchi biglietti verdi per tirare fuori dalla cella dello sceriffo il suo amico, che si era assunto tutta la responsabilità. Gli anni passavano, lentamente e tranquillamente, anche se con meno denaro a disposizione. Donne niente, occasionalmente sesso a pagamento. A Des Moines, nell’Iowa, i due si fermarono un po’ più a lungo che altrove e dettero fondo alla loro perizia nel campo della tecnica ritornando anche gli elettricisti che furono, ma fu con una start-up ante litteram che si rimisero bene in piedi. Stando al racconto di Informatore 1, ai nostri due italiani si deve l’idea del “118” negli Stati Uniti, cioè la centralizzazione delle chiamate d’emergenza da qualunque luogo esse provengano. Su questo lo ammetto - non ho fatto molte ricerche, però qualche dubbio ce l’ho. A Des Moines Idolo conobbe un italiano, quello che diede alla coppia col camioncino una mano per la realizzazione del “118”, tale Ero Incerti Casi, la cui famiglia d’origine era italiana, anzi proprio della Bassa, dove, tra Reggio, Parma e Cremona, aveva ancora delle proprietà ormai abbandonate, tra le quali il vecchio edificio di Lentigione di Brescello.
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Mettendo insieme tutte queste informazioni, i miei conti iniziavano a tornare. Più o meno all’età in cui in Italia si andava in pensione prima della riforma Fornero, Idolo Depase e Il Geometra rientrarono in Italia, senza camioncino ma con un mezzo container di libri, doppio passaporto, qualche soldo e la chiave del seminterrato di Lentigione. Il Geometra, enorme e con problemi di deambulazione, si sistemò in città presso parenti, mentre Idolo, una volta depositati tutti i suoi libri nello scantinato, fece una vita della quale nessuno, ma proprio nessuno sa niente, se non il prete egiziano della comunità copta di Reggio, che tra l’altro ora è stato sostituito da un altro che non è stato di nessun aiuto in queste ricerche; evidentemente aveva continuato il lavoro di traduzione di antichi testi liturgici iniziato anni prima nel nuovo continente. L’ultimo ad aver visto Idolo Depase è stato forse il fratello, al quale si era rivolto circa un anno prima dell’alluvione per una preoccupazione che lo tormentava: soffriva di coliche renali e dolori fortissimi nella minzione e non si accontentava della diagnosi dei numerosi medici contattati. Quando il fratello diede la sua, di diagnosi, il Depase avventuriero sparì definitivamente anche per il fratello che, quasi certamente, lo aveva offeso: gli aveva diagnosticato, alla vista dei vari esami e analisi, che con ogni probabilità soffriva di un’infezione dovuta a una rarissima causa patogena. Batteri erano entrati nelle vie urinarie dall’esterno; un caso rarissimo di infezione esoattiva extraflessa, ma non unico in letteratura. Per usare parole povere, aveva comunicato al fratello che l’aver tenuto addosso lo stesso paio di mutande per mesi e mesi aveva provocato quella situazione. Non erano in molti a preoccuparsi delle sorti del Depase, che era ri-sparito dalla circolazione. Il suo ex socio Geometra non ne sapeva niente da anni, e secondo lui si era ammazzato buttandosi in Po, ma non la ritenni un’ipotesi verosimile. Io, stupidamente, non avevo ancora pensato a cercare una foto di
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Idolo. La trovai da suo fratello. Era molto vecchia. L’immagine sfocata di un diciottenne da immaginare a ottant’anni. Però fu sufficiente per avere la certezza che Informatore 3 era Idolo Depase in persona. Come non averci pensato prima? Chi era l’unico a Lentigione che poteva sapere di Informatore 1, Il Geometra? A chi poteva interessare il contenuto di un cassetto in un tavolo dentro un piccolo scantinato distrutto da un’alluvione? A proposito: il rifugiato-emigrato-ritornato Idolo Depase probabilmente aveva solo un ultimo desiderio da esaudire. Quello di scrivere un suo racconto. Lo deduco dal contenuto della cartella con i fogli e il quaderno trovati in quel cassetto, che riportano però solo una serie di ricette, brevi considerazioni di carattere generale sulla società, incipit maldestri e aforismi di varia natura, del tipo: “Giovanni accetta un panino con la cicciolata” “Trovata Mary Jane nel letto con una fetta di cocomero. Non la voglio più vedere” “C’è chi spreca un bicchiere di Barolo per una ricetta chiamata Piccioni ripieni al Barolo” “Colorado Springs, Pasqua 1975. Un ex farmer si sta facendo i soldi portando in giro un vitellino con tre teste, due corpi, due cuori, due fegati, otto zampe di cui una povera e penzolante, due culi. Caga in continuazione” “Non si può suonare senza bere. Però si può bere senza suonare” “Il mondo ha iniziato a degradarsi da quando hanno fatto il Canale di Suez” “Resta chiusa dentro al cimitero. Muore nel tentativo di uscire - Questi sì, che sono titoli” “Mentre si uccide il pollo, fate cadere il sangue su fette di pane con mollica compatta e friggete immediatamente ogni fetta in abbondante burro, togliendole quando il sangue si sarà rappreso. Cospargete di sale e servite” “C’è da vergognarsi a mettere in una raccolta delle ricette dal titolo Torta di cipolle e piccioni oppure con questi contenuti:
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…Inserite in forno caldo a 200° e aspettate che la faraona vi dia il segnale di tirarla fuori” “Ritrovata etichetta con le seguenti indicazioni: Da consumarsi preferibilmente entro il XXIV sec. Una volta aperta la confezione conservare in luogo fresco e buio e consumare max entro 25 anni” Non so come, ma dopo aver ricostruito, seppure per sommi capi, la biografia di Idolo Depase detto Il Polesano, mi viene da fare il paragone con Antonio Ligabue, anche lui un personaggio caratteristico nato altrove, di padre sconosciuto, artista sui generis. Una delle principali differenze però, è che di Ligabue ci restano tanti quadri, mentre di Depase un mezzo chilo di carte disordinate e disomogenee, e tutte nelle mie mani. Santo Cielo, che responsabilità per un povero prof. di Geografia. Anzi, un bidello. Anzi. Un Collaboratore scolastico.
Renato Ceres è autore di Parrokkia progressive (2007), La messa a punta (2008) e Istriana blues (2010), tutti pubblicati con LdS - Milano. Nel 2013 ha pubblicato un bootleg in collaborazione col blogger Ciro Andrea Piccinini dal titolo Nei miei romanzi non scopano mai Storie di vita piatta, introvabile. Nel 2014 ha pubblicato con Maris Terraquae di Reggio Emilia Il nome della resa - Viaggetto in una Provincia da abolire. Da alcuni anni collabora con pochissime persone.
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L’occhio di Giampietro Lazzari
A volte penso a ciò che avvenne quel giorno e quando ciò accade mi sembra di sentirmi come se quell’occhio mi stesse ancora guardando. E non vorrei mai, mai e per nessuna ragione, che alcuno al mondo mi guardasse così ancora una volta. Era così bello quel fucile che passavo ore a guardarlo. Inaspettato regalo di mio padre a me, più o meno adolescente. Così pesante, tanto da sostenerlo a fatica. Così lucido nel brunito della sua canna. Così straordinariamente calda la sensazione di legno del suo calcio appoggiato alla mia guancia nell’atto di mirare. Così incredibilmente vero quel suo libretto di uso e manutenzione scritto in solo tedesco. Così gutturale la pronuncia della sua marca. E così vere le sue munizioni di piombo, racchiuse nella scatola cilindrica tintinnante di loro stesse. Dopo solo qualche ora che lo avevo riposto, avvolto in un panno, nel vano più basso di una vecchia cassapanca che c’era in cascina, ne sentivo già la mancanza; e correvo in quella stanza per guardarlo un’altra volta, per toccarlo, per sentire che era proprio lì, e che era mio. Mio padre, a metà degli anni ’50, aveva svolto servizio come ufficiale di complemento nell’esercito. Poco più di due anni di ferma, su e giù per l’Italia. Un periodo del servizio passato addestrando le reclute all’uso delle armi. E una certa passione per i fucili non me la aveva mai nascosta, sebbene in nessuna occasione lo abbia mai sentito glorificarne l’uso. Del resto, non fu mai cacciatore, né iscritto ad alcun poligono. Probabilmente
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le armi non gli ricordavano altro che alcuni momenti della propria giovinezza dove tutto sapeva di bello. Le cose della sua gioventù non le teneva dove abitavamo, bensì nella cascina dove era nato e dove vivevano ancora i miei nonni. In una cassetta di legno, semidimenticata in una stanza oscura di questa cascina, mio padre conservava i pochi ricordi di quel periodo in armi: un cappello da ufficiale col numero del reggimento, le stellette di metallo, alcuni gradi di stoffa e qualche immagine ove era ritratto sorridente in compagnia di alcuni commilitoni dalle facce pulite. Vecchie foto ingiallite di un’Italia in bianco e nero ormai scomparsa. Unite a queste poche cose, c’era anche qualche manuale sulle armi, sul loro uso, e altre pubblicazioni su addestramento e impiego di una semplice unità da guerra chiamata plotone fucilieri. Erano libretti di edizione ministeriale, che facevano parte del corso per gli allievi ufficiali di quel tempo. Fu così dunque che da bambino, ascoltando i suoi sporadici racconti su quel periodo passato in grigioverde, mi appassionai alle armi e al loro funzionamento. Avevo passato pomeriggi interi su quelle pagine ingiallite dai decenni in quella stanza non riscaldata della cascina. D’inverno, fattosi scuro, la luce della lampadina che penzolava dal soffitto rischiarava le pagine dei manuali ed esaltava le nuvole di condensa del mio respiro. Sapevo tutto sul fucile Garand, sul Mab e quasi tutto sulla mitragliatrice Breda; avrei potuto smontare e rimontare uno di quegli strumenti da guerra anche senza averne mai toccato uno realmente. Sapevo bene cosa era un otturatore, una molla di recupero, una tacca di mira. Conoscevo la gittata, il tiro utile, l’azionamento. All’atto della consegna di quel regalo inaspettato mio padre mi disse: “Questo è per te. Io ti insegnerò ad usarlo e tu starai attento perché è un’arma e con le armi non si scherza. Mai.
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Lo potrai usare solo dopo che mi avrai dimostrato capacità e giudizio”. Fu così che, dopo la teoria che mi ero imparato su quei libri senza farne parola con nessuno, venni introdotto alla pratica. Dietro la cascina, quando l’urbanizzazione era ben là dal venire, si estendeva a perdita d’occhio la campagna, a partire dal nostro terreno e fino ai binari della ferrovia, più in là qualche centinaio di metri, e oltre ancora. Le strisce di colore diverso delle coltivazioni si alternavano e mutavano colore a seconda della stagione, interrotte da bassi ceppi di rovi o da filari di castagni. Giallo paglia la prima striscia, dopo la mietitura del grano, poi quella verde rigoglioso del mais in piena crescita, poi marrone scuro di terra smossa, poi rosso di papaveri, poi ancora verde smunto, poi cielo, tali da sembrare tratti orizzontali di un pittore astratto stesi sulla tela del mondo circostante. Mio padre, verso la campagna, aveva sistemato dei vecchi barattoli di conserva su una cassetta in legno di quelle per la raccolta dell’uva. Fu lì che cominciò il mio addestramento. Dapprima mi mostrò il fucile nelle sue parti invitandomi a ricordarne il nome. E così feci. Facilitato dagli studi clandestini sui vecchi libri, non mi fu difficile ricordare tutto con celerità, tant’è che lui stesso parve stupirsi della mia prontezza. In verità mai gli avevo svelato di aver speso tempo sui quei testi ritrovati e sui quali lui stesso, un tempo, si era applicato. Finalmente venne il momento in cui potei esplodere i primi colpi, dopo aver compreso quale fosse la corretta modalità di mira. L’emozione fu grande e mista ad un certo dolore all’incavo della spalla dovuto alla forza cinetica del rinculo del fucile. Ogni mio gesto doveva essere accompagnato dalle parole che sottolineavano il significato della rispettiva azione: caricare... appoggiare... collimare… respirare… sparare. Nulla doveva essere lasciato al caso. Niente doveva uscire dalla
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sequenza dei gesti preordinati e per nessun motivo minimizzata la loro importanza. Era sì un passatempo che consentiva di sviluppare la mira, ma non era un gioco; un’arma non lo è mai. Un fucile non è un pallone con cui si può giochicchiare. Questa cosa mio padre la ripeteva ad ogni piè sospinto. Passavano i giorni e io non facevo altro che attendere quell’emozionante momento del tardo pomeriggio estivo ove io e mio padre ci dilettavamo con i nostri bersagli inanimati. Tà-pum... Tà-pum… Tà-pum… I barattoli volavano via colpiti dai pallini, ed era sempre stupefacente vedere come il metallo si deformasse, dando luogo al foro di entrata del proiettile e a quello slabbrato di uscita. Man mano che mi impratichivo, i barattoli più grandi, quelli da due chili, venivano sostituti con quelli più piccoli; poi con piccole bottiglie di vetro delle bibite che letteralmente esplodevano in mille pezzi, poi con pacchetti di sigarette vuoti appositamente trattenuti da mio padre, poi infine con sigarette singole che, ritte in piedi sul filtro, venivano sistemate come bersaglio sul supporto. Nella calura estiva della pianura il vento, si sa, è inesistente, quindi anche forme sottili e leggere come le sigarette potevano sostenersi verticalmente senza timore che cadessero. Dopo qualche tempo, non solo avevo perfettamente capito le modalità di mira del fucile e di quanto potessi spingermi in là nella distanza dei bersagli, ma soprattutto - cosa di ben altra sostanza - avevo imparato a controllare me stesso e il mio corpo in relazione all’attività di sparo. Avevo capito come imbracciare morbidamente per evitare tensioni, come ascoltare il mio respiro e l’impercettibile movimento che esso provoca in relazione all’essere necessariamente fermo nel momento dello sparo; come evitare di alzare immediatamente l’occhio dal punto di mira, ma rimanere
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ancora alcuni istanti fermo per aiutare la precisione evitando l’anticipo e altro ancora. La scoperta di una certa fisicità e della meccanica di un corpo vivente che spara - di cui fino ad allora ero stato totalmente incosciente - passava da quegli insegnamenti. Dopo l’addestramento congiunto, e acquisita la fiducia, venne il momento in cui fui autorizzato ad utilizzare il fucile da solo, sebbene con un limite di colpi, e senza mio padre al fianco. Ero libero di prendere il fucile e di sparare in quella specie di area delimitata e prefissata che era diventato il mio personale poligono. Srotolavo l’arma dal panno, sistemavo il supporto dei bersagli, ve li sistemavo sopra, mi allontanavo alla distanza preordinata e cominciavo la mia sessione di tiro. Tà-pum… Tà-pum… Tà-pum… Mio padre si limitativa ad osservarmi da lontano, dedito ai suoi lavori a mezzo fra l’agricolo e il passatempo, dopo le ore di ufficio. Passarono così pomeriggi e settimane. Capitò però che, dopo qualche tempo, mi venisse a noia e quasi innaturale continuare a colpire oggetti inanimati. I barattoli e le bottiglie erano sempre lì, sempre fermi e ormai non davano molta soddisfazione. Chissà come sarebbe stato sparare a qualcosa che si muovesse, mi chiedevo. In un pensiero surreale ragionai che gli unici soggetti che non fossero totalmente inanimati in quel contesto erano mia nonna, i gatti e le galline del pollaio. Nessuno di questi esseri poteva fare al caso mio, era naturale. La prima per ovvi motivi, i secondi perché - come ben sai, caro amico - li amavo profondamente, le terze perché probabilmente ne avrei pagato serie conseguenze. Tuttavia, e in verità, qualcosa che poteva fare al caso mio c’era.
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Al tempo, come anche ora, alcuni stormi di uccelli usavano i campi circostanti come area di becchime, specialmente dopo che la battitura aveva lasciato sul terreno ancora molti semi caduti e sfuggiti dalle grinfie meccaniche delle mietitrebbie. Da attenti spigolatori, gli animali svolazzavano, atterravano a raccogliere il nutrimento e qualche volta razzolavano anche per brevi istanti sul terreno. Non tutti però si limitavano a questo. Un volatile in particolare, più avventuroso degli altri, si avvicinava spesso - avevo notato - alla cascina venendo a beccare i prematuri acini d’uva del lambrusco cresciuti sulle spalliere che circondavano la casa, poco oltre il portico. Quell’uccello - che avevo identificato essere una tortora - veniva a casa nostra. Veniva a beccare la nostra uva, i nostri acini. Fu quella la mia scusa. Fu quello il pensiero che animò la mia mente, poi il mio braccio e infine l’arma che avrei stretta a me di lì a poco. Un tardo pomeriggio, come al solito, tolsi il fucile dal suo sudario in panno. Uscii in cortile; mi misi a raddrizzare i barattoli, le bottiglie e i pacchetti di sigarette, ma davanti a me, pochi metri più in là e più in alto, si posò lui: l’uccello spigolatore che avevo osservato nei giorni precedenti. Di certo un animale non piccolo. Di un bel grigio lucente; per certi versi dotato di una specie di nobiltà che gli altri suoi consimili che lo circondavano non avevano. Troppo grandi e rumorose le cornacchie. Troppo nervosi i passeri ed eccessivamente minuti. Mai ferme le rondini in quelle loro continue e quasi fastidiose circonferenze aeree tessute sul far della sera. Lo spigolatore volteggiava invece con grazia e tranquillità. Volava su di me e sulla mia realtà terrena; a volte se ne andava, poi ritornava, poi andava ancora a ritornava di nuovo. Infine, molto spesso, e più avanti quasi sempre, si soffermava sui fili che sostenevano i tralci dell’uva quasi matura.
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Era lì e beccava. Beccava con noncuranza e gusto. Che stranezza. Era l’unico uccello di tutti quei gruppi che si era preso quell’abitudine. Chissà - pensavo - forse era un esemplare particolare. Del resto, non avevo mai visto altri suoi simili beccare l’uva. A volte, a causa anche di questa sua particolarità, avevo l’impressione che mi guardasse quasi con aria di sfida per quel suo avvicinarsi così temerario. Lo osservai per molto, come del resto già lo avevo fatto nei giorni precedenti. Decisi alfine, con una certa dose di autoconvinzione, che quell’animale avrebbe potuto essere il mio nuovo bersaglio. Alcuni filari delle viti, che al tempo circondavano tutto il terreno, erano posizionati proprio davanti al portico, una ventina di metri più avanti. Era lì dove lo spigolatore era solito atterrare e stazionare per alcuni istanti. Mio padre quel tardo pomeriggio di fine estate non c’era, probabilmente affaccendato in altre cose. Mia nonna, che già aveva radunato le galline, stazionava in casa probabilmente dedita a qualche attività attinente le verdure. Presi il fucile dalla cassapanca e uscii dalla porta retrostante. Lo spigolatore era già andato e tornato più volte; mi parve che quel suo andare e venire fosse quasi sintomo di nervosismo, ma che in verità era il mio. Mi sistemai sotto il portico, seminascosto da alcune cassette da uva e dalle lunghe scale per la vendemmia che lì erano ricoverate da sempre, in attesa del loro uso. E aspettai. L’attesa carica di molteplici emozioni e tensione. L’eccitazione di quell’evento, così simile alla caccia o ad una specie di guerra, si mischiava con la sensazione - assolutamente nuova - di puntare ad un qualcosa di mobile, ma di più, ad un esser vivente, seppur animale.
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Il fucile era carico. Io ero lì ad aspettare. Che altro? La canna del fucile appoggiata ad un piolo di una delle scale. In lontananza qualche rumore di trattore. Ora mancava lui, lo spigolatore. Un brevissimo, quasi impercettibile refolo di vento lo portò. Eccolo! Sì, è lui… sta tornando. - lo vedo da lontano con il suo volo elegante - Sì, sì, sta arrivando! Dopo qualche volteggio l’uccello si posò sul filare, proprio lì, proprio davanti a me, come accaduto spesso. Lo spigolatore si muoveva piano su quel filo; due o tre passetti avanti, due o tre indietro, muovendo il collo come sempre, prima di beccare l’uva come suo solito. Appoggiai la guancia al calcio del fucile, ma stavolta non sentii la sensazione calda. Tentai di controllare il respiro - come avevo imparato durante quelle settimane di esercizio al tiro - che tuttavia stavolta si era fatto stranamente più veloce. Respirai ancora, poi lo trattenni, come si doveva fare appena prima di sparare. Inquadrai nel mirino l’animale. Lo avevo lì, proprio al centro della tacca di mira, in quel minuscolo cerchio dove stava in quel momento tutto il mio io. Sparai. Tà-pum. L’uccello ebbe un fremito e volò via. Maledetto me! L’ho mancato! - mi dissi. Uscii dal portico di corsa con il fucile in mano, mezzo deluso, mezzo arrabbiato, o forse mezzo contento senza volerlo ammettere. Alzando gli occhi al cielo seguii lo spigolatore e il suo volo che - quasi immediatamente - si era fatto disarmonico. Dopo poco, con una discesa di traverso, vidi l’animale cadere, un po’ più avanti, sul terreno smosso che circondava la cascina, a metà tra la casa e il confine, in quella che al momento mi pareva fosse
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la terra di nessuno. Mi avvicinai. Quei metri che ci separavano intrisi di una specie di amara contentezza per aver avuto la conferma di non aver sbagliato mira e il timore di vedere cosa avessi realmente provocato. Calpestando veloce la terra arrivai avanti a lui. Io in piedi, lui per terra. Lo spigolatore era ancora vivo. Un’ala sanguinante, quasi tronca, spezzata dal colpo del fucile. Di traverso, quasi di profilo, intravedevo i fremiti dell’animale ferito. Da terra il suo occhio laterale mi guardava. Terribile sensazione. Quel piccolo occhio di quell’animale ancora vivo, quel minuscolo cerchio aperto e vivissimo fra la sua testa argentea, mi diceva tutto del suo dolore, della sua paura, del suo non capire, del male e della mia colpa, e della mia vergogna e della mia disperazione e, come uno spillo rovente, mi trafiggeva. L’occhio continuava a guardarmi, l’animale a fremere e ad ostinarsi nel suo non morire. Perché non muori? Perché? Perché non metti fine alle tue sofferenze che in quel momento erano le mie? Perché? Maledetto animale, mi vuoi male… Non so che mi prese, ma ricordo bene ciò che feci, in quegli attimi di vera disperazione, in quel momento in cui mi ero accorto di quanta malvagità fossi stato capace, per una specie di gioco. Presi il fucile dalla parte della canna, con le due mani, lo sollevai sopra l’animale, e lo colpii col calcio una volta, due, tre, e ancora e ancora e ancora con l’intento di terminare le sue sofferenze; ma più le mie. Ciò che era stato lo spigolatore ora era lì; niente altro che un ammasso sanguinolento e informe di carni e piume. Evidentemente ora privo di vita. Respirai forte fin che i polmoni mi sembrarono scoppiare; mi guardai attorno; poi guardai me
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stesso. Il suo sangue mi aveva imbrattato i piedi e la prima parte delle gambe. Il fucile, anch’esso lordo di morte e scheggiato sul calcio, era ormai rimasto privo della originaria lucentezza. Guardai ancora una volta lo spigolatore. Provai ribrezzo per me. Feci un buco scavando vorticosamente nella terra con le mani. Presi ciò che rimaneva dell’animale lo misi dentro e lo coprii. Triste tentativo di nascondere a me stesso la mia angoscia del momento. Me ne tornai in cascina. Pulii il fucile e me stesso, e lo riposi nel suo panno dentro la cassa. Non lo usai più per molti anni. E comunque mai più contro alcun essere. Mi piace pensare che il sacrificio dello spigolatore mi sia servito per capire cosa sia il rispetto della vita e la pietà. O almeno spero sia così.
Giampietro Lazzari nasce nel 1966 a Casalmaggiore, una cittadina situata nell’ultimo lembo a sud della provincia di Cremona letteralmente affacciata sul fiume Po e confinante con le vicine provincie emiliane. Compie gli studi classici nel liceo cittadino, dopodiché consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Parma. Da sempre profondamente legato alle realtà della “bassa” inizia a dedicarsi alla scrittura di brevi racconti in età matura. I temi cari sono proprio le atmosfere delle piccole realtà locali padane che nascondono, fra nebbie e calure, grandi emozioni e personaggi caratteristici. Si dedica saltuariamente alla pittura ed è amante della musica jazz che interpreta con la tromba. Vive tutt’ora nel paese di nascita dove lavora come dirigente in un’amministrazione pubblica. Ha ricevuto alcuni riconoscimenti letterari in ambito locale.
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Racconti selezionati per la pubblicazione
La corsa con le rane di Franco Tagliati
Eravamo sdraiati sull’argine per goderci il sole del mattino, l’acqua del canale scorreva rumoreggiando e i nostri corpi di ragazzi, accarezzati da un vento caldo, si abbandonavano sull’erba godendo di quella pace. Il nonno ci raggiunse e ci invitò tutti a prestargli attenzione. “Tra una settimana in paese si svolgerà la sagra del patrono e per l’occasione la parrocchia, l’osteria e alcuni artigiani hanno deciso di organizzare una gara: la corsa delle carriole con sopra le rane. Il torneo è riservato a tutti i ragazzi del paese dagli otto ai quindici anni. Vi voglio tutti sotto il portico della barchessa dopo pranzo per programmare la vostra partecipazione alla gara”. Stava per andarsene quando si voltò e con voce severa ci rimproverò: “Vi ho detto mille volte che non mi piace vedervi qui sull’argine completamente nudi come fannulloni, brutti somari senza pudore”. Colpiti dal rimprovero, scattammo subito in piedi, ma tutti ci sentivamo alquanto sorpresi ed eccitati dalla proposta del nonno. Era un’enorme opportunità che ci veniva offerta proprio da lui che di solito con noi era molto severo e la cosa ci stupì. Dopo pranzo ci trovammo tutti sotto il portico seduti sulle balle di fieno, desiderosi di ascoltare il nonno, e ci sorprendemmo nel vedere con quanta pazienza riuscì a catturare la nostra attenzione dato che in quel momento, presi dall’eccitazione e dalla curiosità, eravamo alquanto euforici.
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“Domani vi voglio svegli molto presto. Andremo nel bosco a catturare cavallette” disse camminando su e giù, come un generale che impartisce ordini per un’imminente battaglia. Antonio, il più piccolo, lo interruppe: “Ma nonno siamo in vacanza! - tentò di far osservare - Lasciaci almeno dormire un po’ di più e poi a che serve catturare cavallette?” “Ora ve lo spiego. An vöi mia cha sighi indré cme la cua dal gugiöl”1 rispose prontamente il nonno. “Questi insetti servono per poter poi catturare le rane nel canale”. “Ma nonno, come faremo a catturarle? Lo sai quanto sono veloci a saltare tutte e due”. “Sei proprio un brontolone! - gli rispose Ciro - Stai calmo e lascia finire il nonno”. Il nonno sorrise lievemente, poi riprese con la solita voce da generale: “Ora andrete in campagna, raccoglierete un bel sacco di foglie e fiori di menta selvatica, che metterete poi a macerare in due secchi d’acqua con due pezzi di cannella per dieci ore. Dopo aver strizzato bene la menta verserete il liquido dentro le macchinette del flit e quello che rimane va in bottiglie che serviranno da scorta. Il liquido, spruzzato sulle cavallette ancora appollaiate sulle foglie dei salici, delle gaggie o sui rovi, ci permetterà di catturarle, poi vi insegnerò a catturare le rane per cui dovrete essere più veloci di un fulmine”. Quella notte non riuscimmo a chiudere occhio, sentivamo che stavamo per vivere una nuova avventura. Erano le sette ed eravamo già tutti seduti sul muretto dell’aia. Il cielo era terso e l’aria frizzante. Il nonno aveva già attaccato il cavallo al calesse su cui aveva caricato una gabbia a rete finissima che sarebbe servita a contenere le cavallette, poi cinque macchinette del flit riempite d’acqua di 1
non voglio che siate arretrati come la coda del maiale
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menta con le bottiglie di riserva, un sacco di fieno per il cavallo e, dentro lo zaino, l’immancabile bottiglia di vino, dell’acqua, una polenta intera avvolta in un canovaccio, un salame con un sacchetto di ciccioli e l’immancabile gnocco fritto. Salimmo svelti e partimmo per il bosco. Migliaia di insetti ci svolazzavano attorno per perdersi ai margini della strada ghiaiata da dove ogni tanto qualche sasso schizzava sulla riva spaventando qualche uccello o animale nascosto. Filippo pregò il nonno di cantare una delle sue filastrocche e dietro le nostre insistenze lui iniziò con la sua voce roca e modulata: “Tutu, cela cavalón, va in piàsa dal padrón; degh-a-cse a la siura Laura ch’la paréccia bén la tàula; a ga da gnir di furastér bén visti da cavaliér, e la mama l’ha fat i gnocch e al papà al ‘na magnà tropp e la mama l’ha s’è ingusàda e al papà al l’ha bastunàda al l’ha bastunàda in un cantón al-c’fa far i macarón e la mama l’ha fat al grögn e al papà al ga dat di pögn”2. Tutti ridemmo a crepapelle, “Nonno sei forte!” disse Antonio dal volto paonazzo dal gran ridere. Attraversammo il ponte di chiatte per risalire l’argine mantovano e spingemmo lo sguardo sulle acque del Po nel loro gorgogliare. Dopo un sentiero sterrato ci fermammo vicini ad una spiaggia e l’odore del fiume che era spalmato sull’aria ci entrò dentro, trasportato da un venticello caldo che svogliatamente faceva ondeggiare i pioppi. Il cavallo fu legato ad un albero e gli fu dato il fieno e un secchio d’acqua, mentre noi scaricavamo prontamente il calesse. Il nonno distribuì il flit e diede a Ciro l’incarico di Tutu (la parola tutu è come il fischio di un treno prima di partire, in questo caso si tratta di un calesse trainato da un cavallo per darle il via) dai accelera cavallino, vai in piazza dal padrone; digli così a la signora Laura che apparecchi bene la tavola; devono venire dei forestieri ben vestiti da cavalieri; e la mamma ha fatto i gnocchi e il papà ne ha mangiati troppi e la mamma si è ingozzata e il papà l’ha bastonata; in un angolo le fa fare i rigatoni e la mamma ha fatto il muso, ma il papà le ha dato un pugno. 2
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trasportare la gabbia. Ecco che come soldati eravamo pronti alla battaglia o alla grande caccia inoltrandoci nel bosco silenzioso. Le prime cavallette vennero presto imbambolate dal flit e catturate e man mano riempivamo la rete. Quando fu piena, venne coperta dal nonno con un sacco di canapa. Il fischietto del nonno ci avvisò che l’azione compiuta con successo era terminata. Come eroi vittoriosi, o cacciatori soddisfatti, ci radunammo sulla spiaggia e, dopo aver acceso un fuoco, iniziammo a far colazione. Sulla griglia che Ciro aveva disposto sulla fiamma fu abbrustolita la polenta che il nonno divise a fette con un filo, mentre Filippo si accingeva ad affettare il salame. Antonio non esitò a chiedere al nonno un’altra delle sue filastrocche e lui iniziò a canticchiare: “Tasi, tasi, pütei ch’à faròm un bell piàtt ad turtèi a-ia faròm tant buiént da far plar i dént, i dént i s’insöpà a faròm balàr la pötta, la pötta l’han völ mia balàr, tö ‘na stanga e fala trutàr...”3 “Ora siete a posto?” chiese quando ebbe finito, ma Antonio continuava a ridere divertito: “Sei forte. Nonno! - riuscì a malapena a sussurrare - Dai cantacene un’altra, un’altra ancora!” “No, ora basta, la prossima quando rientriamo” ma davanti allo sguardo del piccolo cedette ed intonò la nuova filastrocca: “A piöv la gata la fa löv me madar la mal cös, me surèla la mal màgna l’è ingùrda cme ‘na cagna”4. Le nostre risate si persero sulla riva, eravamo felici e ad un tratto Andrea chiese: “Ma dove le hai imparate queste filastrocche?” “Mio nonno, quando ero bambino, le cantava nella stalla durante il filòs5 d’inverno. Io e i miei fratelli seduti su un mucchio di paglia Tacete, tacete ragazzi che faremo un bel piatto di tortelli, li faremo tanto bollenti che faranno pelare anche i denti, i denti si inzupperanno e noi faremo ballare la zitella, la zitella non vuol ballare, prendi una stanga e falla trottare. 4 Piove e la gatta fa l’uovo, mia madre me lo cuoce, mia sorella me lo mangia, è ingorda come una cagna 5 ritrovarsi a chiacchierare in compagnia 3
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ascoltavamo divertiti, mentre le donne rammendavano e gli uomini sistemavano gli attrezzi. Mio nonno faceva proprio come adesso faccio io con voi”. “Ma nonno - chiese Antonio - perché proprio nella stalla?” “Durante l’inverno era freddo e la legna era poca, nella stalla ci si poteva riscaldare e risparmiare la legna. Proprio come facciamo ancora oggi”. Andrea estrasse dalla tasca il suo organetto e iniziò a suonare. Avevamo il desiderio di fare il bagno, ma il nonno lo proibì. Il sole scintillava sull’acqua e diverse barche di pescatori sembravano scivolare in quell’incanto sfidando la frizzante brezza. Nonostante le nostre insistenze, dovemmo rinunciare all’irresistibile richiamo delle onde, il nonno fu irremovibile e disse: “Non avete il costume e non voglio che giriate completamente nudi sulla spiaggia. Alcuni di voi sono già grandi, in giro ci sono troppi pescatori e voi non avete un briciolo di pudore”. Improvvisammo allora una guerra con spade di legno create sul posto tanto per sfogare la nostra esuberanza. Il fuoco si era spento e il fischietto del nonno trillò avvertendoci che bisognava rientrare. Riattraversammo il ponte di chiatte. La luce danzava intermittente sull’acqua mentre i pioppi sfidavano l’orizzonte. C’eravamo tutti ammutoliti, ma ecco che improvvisamente il nonno ricamò con la sua solita voce un’altra filastrocca: “Trénta, quarànta, la pégura la cànta, la cànta in d’an sentér, ciàma ciàma al pégurèr; al pégurèr l’è anda a rómma, ciàma, ciàma la padróna; la padróna l’è al marca, ciàma, ciàma al carnuàl; al carnuàl l’era mort e nisön as’n’era acòrt, as’n’era acòrt li me surèli, chi-era dre far li fartèli”6. Trenta, quaranta, la pecora canta, canta in un sentiero, chiama, chiama il pecoraio; il pecoraio è andato a Roma, chiama, chiama la padrona; la padrona è al mercato, chiama, chiama il carnevale; il carnevale era morto e nessuno se n’era accorto, se n’erano accorte le mie sorelle, che stavano facendo le frittelle. 6
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Il buon umore tornò come d’incanto. Tra risa e schiamazzi il caldo si faceva sentire e le cicale stavano intonando la loro stridula canzone. A tavola il nostro vociare aveva assunto un tale frastuono che il bisnonno fu costretto a battere il suo bastone per richiamarci all’ordine. Eravamo trentasei intorno alla tavola e ognuno voleva dire la sua. Il nonno ci rammentò che il torneo doveva essere per noi solo un gioco, perché c’erano cose molto più importanti di cui doversi preoccupare. Ciò, però, non voleva assolutamente dire che dovevamo far male quello che stavamo preparando, anzi nulla andava trascurato, perché è dalle piccole cose che si vede la serietà di una persona. Il nuovo giorno sembrava non volesse concederci riposo. Per ordine del nonno, dopo pranzo, ci ritrovammo in fondo all’aia sotto il grande platano. Fummo addestrati all’uso delle canne che ci avrebbero consentito di catturare le rane, ma il tempo era poco e il nonno si raccomandò di porgere la massima attenzione se si voleva compiere i rimanenti preparativi. Il nonno sedeva su uno sgabello poggiando la schiena al grande albero e noi sedemmo intorno a lui avidi di apprendere. Si alzò e accese la sua pipa, afferrò una canna di bambù lunga circa due metri. Dopo averla sfogliata, la tagliò alla sommità, poi da una vecchia cartella di cartone estrasse una matassa di corda di canapa una camera d’aria di una bici, delle forbici e un coltello. “Fate attenzione, - disse - ora vi mostro perché voglio che per domani a mezzogiorno tutto il materiale sia pronto”. Detto questo fece un taglio con il coltello sulla canna e vi infilò la treccia di canapa, lasciandone quaranta centimetri da un lato e un metro e venti dall’altro. Iniziò poi ad avvolgere il cordone più corto disponendolo dentro e fuori il taglio fino a riempirlo. Fatto ciò chiuse il tutto applicando alla sommità un pezzo di camera d’aria e la strinse fasciandola con la treccia di canapa rimasta. Nella parte più grande della canna, quella che avremmo dovuto tenere in mano, fece alcune incisioni circolari ed equidistanti, vi avvolse la treccia
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tirandola stretta e creando una nuova impugnatura che ci avrebbe consentito di avere una presa non scivolosa quando, veloci, avremmo catturato le prede bagnandoci le mani con la loro pelle viscida. Dalla gabbia prese una cavalletta come esca che, calata in acqua, iniziò ad agitarsi attirando l’attenzione delle rane. “Qui dovete essere rapidi e ritirare la canna verso di voi prima che la rana rigurgiti l’esca e catturare la preda”. Eravamo attenti a non perdere neanche una parola di quanto spiegatoci e quella dimostrazione pratica ci rese sicuri sul da farsi. “Ora al lavoro! - ordinò il nonno - Dietro alla concimaia c’è il canneto, andate e scegliete le vostre canne. Usate l’occhio e la testa, avete tempo sino a domani prima di pranzo. Ricordate che una volta finite dovranno essere lasciate in acqua per almeno un’ora e dopo asciugate al sole, affinché la canapa si gonfi e poi asciugandosi si ritiri rendendo più robusti gli incastri”. Ci mettemmo subito all’opera e ci organizzammo dividendoci le mansioni. Eravamo in sette e quel pomeriggio fu davvero estenuante. Alla fine, avevamo le mani screpolate e piene di graffi, ma un altro tassello si aggiungeva alla nostra esperienza. Soddisfatti e orgogliosi, il giorno dopo come piccoli guerrieri ci presentammo con le nostre belle canne in mano. Dopo la rassegna il nonno parve contento del nostro lavoro: “Perfetto! - esclamò sorridendo - E ora a caccia”. “Ma nonno, non mangiamo prima?” chiese Antonio preoccupato. “Prima il dovere e poi il piacere, questa è l’ora più propizia per la caccia. Forza! Andiamo!” “Uffa!” rimbottò Antonio. “Smettila di lagnarti” disse il nonno con aria severa. Giungemmo al canale, la pesca fu abbondante e fummo meravigliati di scoprire quanto fossimo abili in quell’occasione; riempimmo tutti i nostri cestini che avevamo a tracollo. Al rientro, tutte le prede furono versate in un grosso mastello di legno, la suiöla, dove
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sul fondo era stato steso uno strato di fieno (come nascondiglio per le rane). Un coperchio lo chiuse e una pesante pietra fu messa per sicurezza per mantenerlo chiuso. Finalmente un bel piatto di tagliatelle ci attendeva, eravamo affamati e non riuscimmo a resistere al sugo preparato dalla nonna. Tutti facemmo il bis, anche il nonno non resistette, ma la nonna lo rimproverò: “Tan se mia pö un suvnòtt par magnàr acsè tant”7. Ma lui, quando era con noi, era felice e dopo l’avventura si sa che l’appetito cresce. C’era tutta la famiglia che ci stava osservando e improvvisamente si accese una discussione in quanto la nonna sosteneva che le energie andavano spese per cose importanti e non per le fesserie. Si alzò e, aperta la stufa, vi gettò una manciata di quelle sue erbe aromatiche che conservava nella vetrinetta della cucina. Era un’operazione che di solito faceva scappare via tutti come zanzare affumicate e interrompeva qualsiasi discussione. Io mi divertivo ad osservare la nonna con quel sorriso limpido; rimanevo sempre sorpreso da quei suoi modi forse bruschi, ma che nascondevano una profonda saggezza. Sabato, giorno prima della gara, sotto lo sguardo vigile del nonno lavammo per bene le carriole che si era fatto prestare da un suo amico muratore. Mentre eravamo intenti nell’operazione, fu Ciro che, interpretando le preoccupazioni di tutti, osò domandare: “Nonno come facciamo a tenere ferme le rane sulla carriola mentre corriamo?” “Per tutto il percorso dovrete imitare il loro gracidio, ma stanotte verserò nel contenitore una bottiglia di birra e vedrete che domani mattina saranno talmente brille che non potranno muoversi così velocemente e voi potrete giostrarle come vorrete”. La gara era una autentica guerra tra ragazzi di campagna e quelli del centro del paese. Ci sentivamo un po’ come in trincea e ovviamente quella notte prima della battaglia nessuno di noi riuscì 7
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a prender sonno. La domenica mattina sbocciò calda e limpida. Caricato l’occorrente sul carro, ci dirigemmo in paese. Ad ogni concorrente singolo, o squadra, era stata assegnata una postazione ove prepararsi. Il percorso era stato preparato sul campo da calcio della parrocchia: era un cerchio che bisognava percorrere ben cinque volte e il vincitore sarebbe stato colui che non avrebbe perso neanche una rana o almeno il minor numero possibile. Una grande folla, accorsa anche dai paesi vicini, si era accalcata sugli spalti e rumoreggiava allegramente. Un signore in giacca e cravatta avanzò al centro del campo e con un megafono annunciò l’inizio della gara, elencando alcune regole che bisognava rispettare durante la sfida: “Non fermatevi, non cadete, lasciate andare le rane che saltano fuori dalla carriola, non urtate le carriole avversarie e rammentate che non serve arrivare primi, ma mantenere il maggior numero di rane all’interno della propria carriola”. Il boato di una finta pistola diede il via. All’interno del percorso i giurati avrebbero controllato i concorrenti. Avevamo dieci rane ognuno e, tra singoli e squadre, eravamo una quarantina. Dovevamo affrontarci su un terreno cosparso di sabbia così il nonno aveva provveduto a far indossare ad Antonio che era allergico alla polvere negli occhi, un paio di grossi occhiali da fabbro che erano stati ben legati intorno alla testa. Ovviamente dopo il via si alzò un gran nuvolone di polvere, che diede insofferenza ad alcuni concorrenti che si dovettero fermare a starnutire o a pulirsi gli occhi. Alcuni, tenendo la carriola con una sola mano, si rovesciarono perdendo il carico, altri inciamparono per evitare di calpestare le rane che fuggivano da ogni parte. Anche Ciro fu sbalzato fuori pista e disperse il suo carico. La folla impazzita gridava e noi correvamo concentrati, ma sudati e affaticati, sotto quel sole battente che mescolava i colori. Le grida attorno erano soltanto un rimbombo confuso che somigliava al grido di un mare in tempesta. Il nonno osservava impassibile, sembrava un rettile in agguato, in attesa di catturare la sua preda. Alla fine del
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primo giro vi furono cinque squalificati, ma al secondo salirono a otto i concorrenti che persero le rane. Il terzo fu terribile, il numero degli eliminati salì a quindici; alcuni s’erano urtati, altri capovolti e molti s’erano persi a cercare di arginare la fuga delle bestiole. L’ultimo giro vedeva ancora in gara il nostro Antonio e due ragazzi del paese. La folla rumoreggiava e noi tifavamo per lui: “Tieni duro! Non mollare!” gridava Ciro. Non sappiamo come fece a mantenere intatto il carico, ma fu così. Forse la sua caparbietà o l’orgoglio, forse la voglia di non deluderci, sta di fatto che vinse la gara e, in fondo, devo dire che fu un’enorme soddisfazione. A braccia aperte, col suo sorriso vincente, conquistò la simpatia e l’ammirazione di tutti, anche degli avversari. Vi potete figurare il nonno. Gli corse incontro festante abbracciandolo, sembrava che quel gelido involucro di neve si fosse sciolto, lasciando apparire una persona diversa. Non ricordo mai di averlo visto così raggiante. Prese il vincitore e se lo caricò sulle spalle portandolo in trionfo, scortato da una banda urlante di ragazzi. Il premio era un grande cesto colmo di ogni ben di Dio. Il nonno continuava a correre tra la folla ubriaco di gioia, il vento gli scompigliava i capelli annullando ogni sforzo. Quella notte fu incastonata tra le stelle di un‘infanzia trascorsa troppo velocemente, ma colma di emozioni, come quel cesto che traboccava di golosi bocconi.
Franco Tagliati è nato a Guastalla (RE) dove vive e lavora. Commediografo, poeta, pittore. Ha ottenuto meriti e premi per poesie e racconti in vari concorsi ed è presente in numerose antologie italiane. Con la pittura, ha esposto in diverse città italiane e straniere. È membro dell’Associazione Culturale “Un poco di noi” di Reggio Emilia e dell’Associazione Culturale “Argine Maestro” di Guastalla (RE). Ha pubblicato Terra Amata con l’Editore E. Lui di Reggiolo (RE) e Racconti di vita e d’amore con l’Editrice Montedit di Milano.
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La poùlenta stiada1 di Ave Govi
“Sai fare il pane, spennare un pollo, tirare la sfoglia?” “Sì, anche la polenta”. “Beh, quella da noi non la si fa quasi mai, ma la sfoglia per maltagliati e tagliatelle quasi ogni giorno”. “Lo so fare”. “Bene. Dopo che avrai sistemato di sopra la tua roba, faremo il giro e ti mostrerò, oltre alla cucina e alla dispensa, l’orto, il pozzo e il forno a legna. Ora prendi il tuo fagotto e seguimi”. Era proprio un fagotto quel pezzo di telo liso a fiorami nel quale lei aveva cacciato dentro i suoi pochi indumenti, legati a coppie incrociate i quattro lembi, l’unico paio di scarpe che possedeva ai piedi. Era un paio di scarponcini di cuoio fatti a mano dal Minghin, il vecchio calzolaio del paese da poco deceduto, le suole borchiate per scalfire il ghiaccio che per mesi lastricava le strade della montagna, luogo dal quale proveniva, ormai deformati e consunti ma che la sera prima si era premurata d’ingrassare con la sugna, facendola penetrare nelle crepe; unica nota confortante, il paio di stringhe nuove acquistate alla privativa in cambio di due uova. Non si era ancora in pieno inverno, l’autunno appena iniziato, ma quel tipo di scarpe pesanti, se ne era accorta, aveva attirato gli sguardi quando era scesa dalla corriera a Porta Castello, guardandosi intorno confusa e spaesata, speranzosa
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La polenta tirata
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di essere riconosciuta da qualcuno come previsto negli accordi e accompagnata a destinazione. Segno convenuto, quella grossa treccia corvina penzolante sulla schiena, fermata all’estremità da un nastrino rosso. L’andirivieni frenetico, al quale non era abituata, la sfiorava, l’urtava, persone che, scese pure da altri mezzi, molte con valigie, s’affrettavano ad avviarsi verso la stazione, altre in strade e piazze vicine, lei sola, con posato ai piedi il suo fagotto, immobile sulla piazzola. Quando si sentì toccare sulla spalla, trasalì spaventata, trovandosi di fronte un volto serio ma non truce, palesemente incuriosito, capelli e barba rossicci, un vago sentore di tabacco. “Bene, ce l’abbiamo fatta. La macchina è qui a due passi”. Raccolto il fagotto che lui, assai cavallerescamente le tolse di mano, si trovò poco dopo seduta al suo fianco, sul sedile sfilacciato e sfondato, un mucchio di carte gettate alla rinfusa sul cruscotto, alcune cadute sul tappetino che lei s’affrettò a raccogliere. Un odore forte vi stagnava, pur essendoci i finestrini aperti. “Lascia pure tutto così com’è. È la macchina di mio padre che sono stato costretto a prendere perché la mia è in riparazione e solo in questo disordine lui riesce a raccapezzarsi”. Dunque, possedevano due auto, rifletté, gente quindi da soldi, come le aveva assicurato la madre del prevosto, nativa di quel luogo, che s’era adoperata a gestire la trattativa. “Non sarai lontana come se tu dovessi andare a Milano, poco più di un’ora di corriera e potrai tornare a casa assai spesso”. Milano infatti, specie nei mesi invernali, di domestiche ne assorbiva un buon numero, tornate poi a primavera per recarsi alla monda del riso. Quando l’auto, dopo circa mezz’ora, lasciata la strada principale s’inoltrò in un viottolo fiancheggiato da pioppi, intravide sul fondo una casa dipinta di bianco, discosti di un centinaio di metri alcuni edifici rurali.
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Era una bella casa, una stanza a torretta e diversi comignoli, balconi con cascate di gerani ancora in piena fioritura, tende di pizzo e imposte dipinte di verde. Pure l’interno, una volta entrati, le parve lussuoso: pavimenti in legno e ceramica e porte massicce, mobilia abbondante e funzionale. La giovane signora che l’accolse, moglie di colui che l’aveva prelevata, pur se di modi spicci e autorevoli, non le procurò quel disagio che aveva paventato. Intuiva tuttavia di essere sotto esame e sperava di non suscitare impressione negativa. Sapendo di non essere alta di statura, se ne stava eretta, spalle dritte e petto in fuori, e solo quella treccia contribuiva a darle l’aspetto di poco più di una bambina. Questa almeno era la considerazione tratta dalla signora che l’osservava e solo lo sguardo, attento e mai sfuggente, denotava una certa maturità. “Tra poco arriveranno i bambini con lo scuolabus e ti avverto che sono abbastanza vivaci. Se li saprai prendere però, non ti creeranno problemi. Mio suocero sarà di sicuro alle prese col mezzadro per un qualche problema”. A metà scala, mentre salivano, s’era fermata inducendola a fare altrettanto e: “Non lasciarti impressionare dai suoi modi. In fondo è un buon diavolo anche se spesso sembra avercela col mondo intero”. Ben presto apprese che il vasto podere era condotto a mezzadria da una numerosa famiglia, un altro considerevole appezzamento confinante, interamente coltivato a vite da loro stessi. La produzione di un buon vino era infatti uno dei loro maggiori introiti. Tanto di etichetta personalizzata sulle bottiglie. La prima cosa che notarono i due ragazzini, sette e nove anni, quando la madre disse loro “questa è Maria”, furono gli scarponi. Le borchie scricchiolavano sul pavimento lucido ogniqualvolta si muoveva, il tonfo pesante segnare il passo. Da un momento all’altro s’aspettavano di vederla scivolare e
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ruzzolare quasi fosse sul ghiaccio. Si guardarono e a stento trattennero il riso, cosa che indusse la madre a porvi rimedio. “Forse è meglio che sali a indossare qualcosa di più leggero” accennando appunto ai suoi piedi. “Ho soltanto questi” disse, arrossendo confusa. “Che numero porti?” “Trentasei”. “Beh, io porto il trentasette, ma con un po’ di cotone sulla punta, un paio di pantofole potremo rimediarle”. I ragazzini le parvero comunque simpatici e ben disposti, curiosi ma educati, non altrettanto il vecchio che, senza neppure averla degnata di uno sguardo, a tavola pareva avercela davvero con tutti senza spiegarne il motivo. Il figlio lo rimbeccava, la nuora taceva, i bambini ridacchiavano strizzandole l’occhio, quasi a dirle: “non badargli”. Non le sarebbe stato difficile instaurare con loro un buon rapporto, considerò. Con le pantofole risuolate di feltro, che trovò riposanti, e il pranzo preparato in precedenza dalla signora, prese a muoversi, sia pure con un certo impaccio, tra sala e cucina, silenziosa come un gatto. Trovare le cose occorrenti in quell’ambiente sconosciuto la rendeva alquanto insicura. La prima incombenza che le venne affidata nel pomeriggio, dopo aver rigovernato la cucina, fu di tirare una sfoglia, impasto di otto uova che la mise non poco in difficoltà. A casa l’impasto era di non più di tre uova, con l’aggiunta, dettata dal risparmio, di una mezza tazza di acqua, e anche se in alcuni punti, specie ai bordi, non risultava sottile come avrebbe dovuto, sua madre non ci badava. Nonostante i suoi sedici anni, tra poco diciassette, intuì che questa era una prova impartita di proposito, sotto esame la sua abilità in quella mansione ritenuta forse la più difficile. Nella stanza adibita a dispensa c’era una madia con su un enorme tagliere, un matterello lungo due metri che cercò di maneggiare come sempre aveva visto fare alla madre e, quando pensò di aver terminato, fece la sua comparsa in sala dove
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la signora stava assistendo i bambini nello svolgimento dei compiti. Il cuore le batteva all’impazzata mentre la signora, appressatasi al tavolo, tastava la consistenza trasbordante dal tavolo. “Hai avuto una brava maestra. Complimenti a tua madre”. Si sentì rinfrancata, un impeto di affetto, riconoscenza e nostalgia nei confronti della madre, che fin da piccola, quando ancora non era in grado di arrivare al piano del tavolo, la faceva salire, a mo’ di sgabello, su una cassetta capovolta. Presa man mano conoscenza della casa, i giorni iniziarono a scorrere in preordinata monotonia, a lei erano affidate ogni tipo di mansioni, anche se la signora dava un contributo notevole. Avendo il pomeriggio della domenica libero, chiese e ottenne di poterne usufruire soltanto ogni due settimane, accumulando così un’intera giornata, accompagnata al mattino a Porta Castello a prendere la corriera e rientrando a sera. Pure la padrona aveva la patente ed era quasi sempre lei a farlo. Motivo di frequente tensione a tavola era il rendimento scolastico del primogenito frequentante la quarta elementare, dolenti note da firmare sul quaderno causate dalle ripetute insufficienze. La geografia era il suo punto debole. Mentre il piccolo, quasi in competizione col fratello, s’impegnava al massimo, l’altro pareva detestare ogni forma di apprendimento. Lei i suoi pasti li consumava in cucina, ma dall’andirivieni mentre serviva loro in tavola non si perdeva una parola. In seguito all’ennesima insufficienza, avendo collocato durante l’interrogazione il Piemonte confinante con la Campania, essendo ormai all’inizio dell’ultimo trimestre, il tono della nota lasciava intravedere una possibile bocciatura. Non era abitudine in famiglia affibbiare qualche scappellotto, ma quel giorno dal padre alcuni volarono, col risultato di vedersi piombare in cucina il ragazzino piangente, quasi a cercare conforto. La domanda che le fece, dopo essersi asciugato le lacrime, la
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colse di sorpresa. “Tu sei stata a scuola? Sai la geografia?” “Pensavi fossi analfabeta? A cinque anni già conoscevo l’Italia da cima a fondo”. “Mi stai prendendo in giro?” “Non mi permetterei mai. È solo che… beh, meglio lasciar perdere”. “Perché? Dimmi perché.” “Beh, ecco, è tutto merito della polenta.” “Della polenta?” “Se mi prometti di non ridere di me, te lo racconto”. “Non mi… permetterei mai” fece sua l’affermazione. “Devi sapere che mio nonno, morto quando avevo dieci anni, aveva frequentato solo la prima elementare e a malapena sapeva leggere e scrivere il proprio nome, ma dal prete del mio paese, come ricompensa perché era sempre disponibile a fare il chierichetto, aveva avuto in regalo una carta geografica dell’Italia assai grande, che lui quasi ogni sera, dopo che avevamo recitato il rosario, srotolava sul tavolo e la studiava. Era il suo modo di viaggiare con la fantasia, lui che non aveva mai lasciato la sua montagna, forse neppure sceso sino a Reggio. Dovete imparare a conoscere il vostro paese, ci diceva, perché una volta cresciuti sarete costretti ad andarvene da qui. Tutto sta cambiando e questa nostra terra più che un pezzo di pane e una fetta di polenta non potrà darvi. La polenta a casa mia la si faceva ogni giorno, a volte stiada che significa lasciata molle e stesa col matterello sul tagliere all’altezza di circa due centimetri, ricoperta a zone con vari condimenti. Lardo fritto, ricotta, nella stagione giusta funghi trifolati. Non occorrevano piatti e seduti tutti intorno al tavolo, quasi si falciasse un campo, con la forchetta si procedeva sino a ripulire il tagliere. Prima però d’iniziare, il nonno, col manico di un cucchiaio tracciava un solco a forma di un enorme stivale, di seguito le varie regioni. Le aveva talmente studiate sulla cartina che sapeva dare ad ognuna la collocazione preci-
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sa, la forma esatta. Anche se la polenta si raffreddava, noi tre fratelli seguivamo con attenzione, in attesa della parte finale che consideravamo un gioco. Tu, diceva rivolto a uno di noi, oggi mangerai la Toscana. Tu il Lazio e tu la Lombardia e guai sconfinare. Su ogni regione scavava ogni volta un tondino che stava ad indicare il capoluogo. Staccate, sagomava anche le isole, la Sicilia e la Sardegna, persino la Corsica anche se, ci spiegava, ora non faceva più parte dell’Italia. Quando m’iscrissero alla prima elementare, conoscevo quasi tutto, persino il percorso del grande fiume Po, l’Adige e l’Arno, tracciati con la punta di un coltello”. Il ragazzino a occhi spalancati seguiva il racconto, evidente che qualcosa gli stesse frullando in testa. “Saresti in grado di farlo anche tu? La polenta stiada intendo”. “Certamente, ma da voi non la si fa”. “Non dire di no, la mamma non potrà non dare il permesso. Altrimenti… altrimenti beh, di essere bocciato non me ne importerebbe un fico secco”. Quella specie di gioco doveva averlo intrigato a tal punto da sfidare persino l’autorità materna. Presala per i lembi del grembiule, quasi la dovette strattonare per riportarla in sala, costringendola a ripetere quanto appena detto. “C-sèla còsta, na noùvitee mountanèra? Sèm minga nimeel nouvèter”.2 Bofonchiò il vecchio mentre si versava l’ennesimo bicchiere di vino. Già pentito per gli scappellotti appioppati e per mitigare l’atmosfera, il figlio si permise di contraddire il padre: “Anc a cà tua am risoùlta las magnèsa la polenta, e grasia sla gh’era”.3 2 3
Cos’è questa, una novità montanara? Siamo mica porci noi. Anche a casa tua mi risulta si mangiasse la polenta, e grazie se c’era.
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Il benessere era infatti giunto dopo, in seguito a fortuite circostanze. Lei, Maria, taceva, già pentita di quanto aveva raccontato al ragazzino. Come sarebbe stato infatti possibile realizzare quanto le veniva chiesto? Impensabile stiarla sul tavolo della sala ricoperto di cristallo, altrettanto su quello in formica della cucina, peraltro di dimensioni ridotte. Paradossale immaginare la famiglia disposta intorno con la forchetta in mano, neppure lo spazio dove appoggiare il bicchiere, la caraffa con l’acqua, la bottiglia del vino. Una soluzione le si stava prospettando, ma che non avrebbe mai avuto l’ardire di proporre: collocare il grande tagliere della dispensa sul prezioso tavolo in sala dove ora stavano riuniti, l’attenzione concentrata su di lei. Di fronte all’interesse generale, persino il vecchio pareva essersi incuriosito, in apparenza rabbonito, lo sguardo fisso su quella ragazzetta con la treccia che per la prima volta metteva a fuoco e gli pareva tutt’altro che tonta, sapere il fatto suo. “Per cena allora poùlenta stiada peder?”4 gli si rivolse la nuora, desiderosa di porre fine al battibecco, situazione che detestava. Il silenzio venne interpretato come consenso. Mentre rimestava la polenta in cucina e attendeva al sugo, lei intimò al ragazzino di preparare altrettante bandierine di carta quante erano le regioni, arrotolarle su uno stuzzicadenti, su ognuna il nominativo, e quando la polenta fumante fu stesa sul tavolo, tracciati i vari confini, lo esortò a collocarle, sotto l’occhio attento e divertito dei genitori. Dopo aver scavato un tondino, rivolta al ragazzino gli disse: “Questa è Bologna e noi siamo nei pressi di Reggio Emilia. Dov’è secondo te?” Lui l’aveva fissata un poco disorientato, la forchetta già a mezz’aria, pronta a fiondarsi sulla distesa fumante.
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Per cena allora polenta stiada padre?
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“Adesso ho fame. Per non sbagliare mi mangio tutta l’Emilia”. La polenta stiada da quel giorno venne inserita nei loro menù, la geografia una delle materie preferite dal ragazzino. Nota: le prime nozioni di geografia in famiglia noi fratelli le apprendemmo proprio così: l’Italia tracciata sulla polenta. Raccontarla, sia pure su trama di fantasia, mi ha riportata indietro nel tempo, ancora ben vivo il ricordo.
Ave Govi‚ nata a Villaminozzo (RE) il 16/12/1938. Pensionata quale dipendente del commercio, “scarabocchia” da sempre, ma soltanto da oltre vent’anni partecipa a concorsi collezionando una quarantina di premi, tra i quali 15 Primi Assoluti. Rispolverando l’ambiente contadino dal quale proviene, ha pubblicato una raccolta di poesie, Bachi e Zolle, in prevalenza testimonianze non più usuali. Tale libro ha conseguito il Terzo Premio “Ignazio Silone” nel giugno 2006 a Parma. Successivamente si è dedicata alla prosa con storie a carattere autobiografico. È stata due volte finalista al premio Liberetà con i libri L’ombra lunga del campanile (2013) e La zia Marianna (2016).
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Oggi sposi... di Annalisa Bertolotti
La chiamavano Fata per via di quei suoi insoliti poteri di preveggenza che, si diceva, si erano sempre rivelati straordinariamente infallibili. Nella Bassa, almeno una volta nel corso della vita, tutti si erano rivolti a lei e a lei si erano addirittura indirizzate persone provenienti da località distanti, intraprendendo un lungo viaggio nel proposito di porle un quesito e ricevere la sua ineccepibile profezia. Che si trattasse di problemi inerenti alla salute, al lavoro, agli affari o all’amore, la risposta della Fata si rivelava sempre efficace nel risolvere ogni difficoltà, dissipando la nebbia di ogni dubbio, rischiarando il cielo da ogni perplessità... Una sorta di oracolo, come la definivano alcuni, oppure una strega, nella convinzione d’altri: di fatto, al di là di ogni opinione, la sua fatiscente catapecchia nel cuore della golena rappresentava la meta di inarrestabili pellegrinaggi che, da più di cinquant’anni, avevano alimentato le speranze di tante anime alla ricerca di coordinate e di soluzioni. La Fata era in grado di soddisfare ogni curiosità. Con le palpebre abbassate, concentrata al punto da sembrare estranea al mondo, ella inspirava profondamente, come a trarre energia dalla polvere che si sollevava dai suoi tarocchi. Pazientemente, mischiava le carte: una... due... tre volte e sibilava, in un tremolio delle labbra raggrinzite, frasi incomprensibili, forse formule che lei sola conosceva o che, magari, inventava lì per lì... Infine, disponeva gli arcani in fila: uno accanto all’altro, in uno
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schema tanto ordinato quanto eloquente... Un lungo indugio precedeva la sua interpretazione che risultava semplice, in un linguaggio essenziale che sarebbe stato facilmente compreso anche da un bambino... Non nascondeva, né edulcorava eventuali sciagure, così come si rallegrava con l’interessato per ogni fortunata prosperità. La sua empatia l’aveva resa un personaggio ammirato e benvoluto. Non chiedeva denaro in cambio del suo vaticinio: ognuno le donava quel che poteva e, considerando il luogo e la natura della gente che a lei si rivolgeva, quasi sempre ella si assicurava prodotti della terra o cibarie... Quel mattino di marzo, Nando si recò da lei recando tra le mani due capponi. Aveva il cuore inquieto e trepidante, alla luce della sua decisione di convolare a nozze con la sua adorata Pasquina. Avevano atteso tanto quel momento: anni e anni di fidanzamento nella speranza del tempo propizio per coronare il loro amore. Ma la distanza che li separava continuava a costituire l’ostacolo più arduo da superare: Nando viveva e lavorava come bovaro a Luzzara, mentre la sua amata risiedeva in uno sperduto paesino del Mezzogiorno dove era stata assunta in qualità di sguattera in una pasticceria. Un misero salario, quello di Pasquina, che, tuttavia, non poteva venire a mancare nel ménage di quella famiglia che, sia lei che Nando, speravano di formare... Tuttavia, si erano detti, il tempo propizio non sarebbe mai giunto e allora tanto valeva osteggiare quella sorte che li aveva voluti così a lungo disgiunti e lontani l’uno dall’altra. Tanto valeva coronare comunque il loro sogno... Tanto valeva, almeno, regolarizzare formalmente il loro rapporto, nonostante esso rimanesse quello che era sempre stato: i due avrebbero continuato a raggiungersi solo nei fine settimana... Però, nonostante gli inevitabili ostacoli, malgrado le difficoltà che continuavano a resistere alla forza del loro sentimento, Nando desiderava che, almeno nel giorno delle nozze, tutto risultasse perfetto. Un matrimonio di tutto rispetto ed era que-
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sta la ragione che lo spingeva verso la fatiscente stamberga della Fata: voleva sapere se qualche ombra oscura, quel giorno, avrebbe annebbiato il cielo... Giunto al cospetto della maga, Nando rovesciò sul tavolo la propria mercanzia, saldando in anticipo il suo debito, davanti allo sguardo compiaciuto della donna che già pregustava un buon brodo di carne. “Cosa vuoi sapere?” gli domandò la maga con la voce roca e baritonale. Alla risposta di Nando, ella afferrò il mazzo di carte e diede inizio al solito, consueto, rituale. Una, due, tre fila di figure disposte ordinatamente l’una accanto all’altra secondo una sequenza cabalistica. Una combinazione che mutava di volta in volta, aprendo scenari sempre nuovi e sorprendenti come le immagini in un caleidoscopio. Una volta terminato lo schieramento, la Fata indugiò un solo istante... giusto il tempo di un’occhiata all’insieme. Poi, sconcertata, sgranò gli occhi e, con uno sguardo atterrito e la bocca spalancata, si portò una mano alla gola, come è solito fare chi si sente soffocare. “Cosa c’è? - si insospettì Nando - Che cos’hai visto?” Egli la incalzava, ma ella non rispose perché ciò che aveva veduto le toglieva il fiato. Iniziò, infatti, a tossire con spasmi che parevano scuoterle le viscere. Prontamente, Nando si avvicinò al lavabo e le porse una scodella d’acqua fresca che ella, ostinatamente, rifiutò. Nando si ravvide, in seguito, che ella beveva solo acqua del fiume e solo di notte... *** “E allora? - inquisì Pasquina - Che ti ha detto?” “Nulla...” replicò Nando, allargando le braccia. “Come sarebbe a dire nulla?! - ribatté lei, stizzita - No, scusa:
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fammi capire... Tu le hai portato due capponi e sei tornato a casa senza una risposta?!” “Sì... cioè... no... - balbettò lui - Insomma, non è andata come intendi tu...” “Come intendo io?! - trasecolò la donna - Ma ti è dato di volta il cervello?! Due sono i casi: o la Fata ti ha dato una risposta o ti ha sottratto gratuitamente due capponi... Quindi?” Il futuro sposo cercò di assemblare un discorso: “Sai, Pasquina... - replicò scandendo le parole per guadagnare tempo - Credo che la Fata abbia previsto qualcosa di terribile...” e, così dicendo, proseguì narrando alla fidanzata ogni dettaglio riguardo alla reazione sbalordita della maga. “Ho capito... - sbottò lei - Ma tu non hai insistito? Tossiva? Ti sembrava che stesse soffocando? Veh, Nando, girala come vuoi, ma la Fata ne sa una più del diavolo e ti ha proprio menato per il naso! E tu ci sei cascato come un allocco...” “Non è così, te lo assicuro! - si giustificò lui - La dovevi vedere! Era sbiancata, ansimava... Pareva che avesse visto un demone in persona...” “Ah beh, non mi stupirei visto che è solita scomodare i fantasmi nelle sue sedute spiritiche!” ribatté, secca Pasquina e, senza dare al compagno il tempo di replicare, lo incalzò: “Mancano tre settimane al giorno delle nozze... forza, Nando! Comincia a scrivere le partecipazioni. Invita i parenti stretti al ristorante e gli amici solo alla cerimonia seguita da un aperitivo. Non ti sbagliare! Conta bene le partecipazioni: quelle con l’immagine dei colombi sono per i parenti, mentre quelle interamente bianche per gli amici, chiaro?” “Sì, sì... inizierò dagli amici, dalla nostra combriccola...” e, così dicendo, Nando afferrò una penna e iniziò a scrivere gli indirizzi sulle buste. *** “Eh vâca bòia! - esclamò Doro rincasando, rigirando tra le
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mani una lettera - Diamante, vìn a vêder porco d’un mònd!”1 La moglie lo raggiunse in corridoio: “Doro, mò fa piân che al putìn l’é adrée a durmìr!”2 gli intimò. “Putìn?! Mó che putìn ch’al gh’a trèint-e -trì ân?! E pó l’é bèle mèzdé!”3 la rimbeccò lui. “Bèin, mó a’s pól savèir ‘sa gh’è’t da bruntlêr?”4 chiese la donna indispettita. “‘Sa gh’ó da bruntlêr?! Diamante, mé e tè indó éren ajér?!”5 la interrogò il marito. “Ahn? Mó come indó j’éren?! Cun còll ch’j’òm é-spèis é’n t’armâgn gnân pió al ricòrd?!”6 si indignò Diamante. “No, no... Doro al s’arcórda, fìdet! Doro al s’arcórda bèin!”7 esclamò l’uomo portandosi l’indice verso la tempia come ad indicare lo scrigno delle memorie. “E alóra perchè al dmàndet a mé? E pó perchè pèrlet in tèrsa persòuna quand Doro t’é té?!”8 sbottò la moglie. “Perchè gióst per còll che t’é dziv té a propòsit ed còll ch’j’òm é-spèis per andêr in Mongolia... l’é rivèda ‘n ètra spèisa!”9 la informò lui. “‘Na bulèta?”10 inquisì Diamante. “Nò, chêra... ‘na partecipasiòun a un matrimòni! Sêt ‘sa vól dìr? Ch’é gh’é da spender per cumprêr un regàl!”11 spiegò lui. Eh porca miseria! Diamante, vieni a vedere, porco mondo! Doro, fai piano che il bambino sta dormendo! 3 Bambino?! Ma che bambino che ha già trentatré anni?! E poi è già mezzogiorno! 4 Beh... ma si può sapere cos’hai da brontolare? 5 Cos’ho da brontolare?! Diamante, io e te dove eravamo ieri? 6 Ma come dov’eravamo?! Con quello che abbiamo speso non ti resta più neanche il ricordo? 7 No, no... Doro ricorda, fidati! Doro ricorda bene! 8 E allora perché lo chiedi a me? E perché parli in terza persona quando tu sei Doro?! 9 Perché giusto per quello che dicevi tu poc’anzi riguardo a quello che abbiamo speso per andare in Mongolia... è arrivata un’altra spesa! 10 Una bolletta? 1 2
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Diamante estrasse gli occhiali dalla tasca del grembiule, li inforcò e strappò la lettera dalle mani del marito: “Fà vêder! - mormorò - Cosa? Nando e la Pasquina? Mó s’ jn stè morós per vìnt ân, é’n prìven mia cuntinuêr? Mó ‘sa gh’é gnü in mèint?”12 “Eh, l’é còll ch’é dégh anca mé! - commentò Doro - Sêt ‘sa fâgh? Gióst perchè a ninsün agh sèlta in mèint ed mandèr avanti mé, adèss é fàgh ‘na telefunèda a càl dòni... ch’égh vàghen lór a cumprêr quèll!”13 “Doro, chilór é vàn a lavurèr, mèinter té t’é in pensiòun. - osservò la moglie - A’n gh’é dóbi ch’é sién d’acordi!”14 “Vèh Diamante, é lavór anca mé a la mé manéra, vèh?”15 replicò lui “Ah, sé? - lo canzonò la moglie - E ‘sa fêt?”16 “A’m tègn ed bòun!”17 rispose lui tutto d’un fiato, abbozzando un sorrisetto malizioso. *** Doro sollevò la cornetta del telefono e digitò il numero di Oriele. “Pronto, Oriele?” “Doro! - esclamò l’amica sorpresa - Mó t’é bèle turnè a cà da la Mongolia?”18 No, cara... una partecipazione a un matrimonio! Sai cosa significa? Che bisogna spendere per comprare un regalo! 12 Fammi vedere! Cosa? Nando e la Pasquina? Ma se sono stati fidanzati per vent’anni, non potevano continuare? Ma cosa è venuto loro in mente? 13 Eh, é quello che penso anche io! Sai che faccio? Giusto perché a nessuno venga l’idea di mandare avanti me, adesso telefono a quelle donne... che ci vadano loro a comprare qualcosa! 14 Doro, loro lavorano, mentre tu sei in pensione. Non accetteranno mai! 15 Veh Diamante, lavoro anche io a modo mio, veh? 16 Ah, sì? E cosa fai? 17 Me la tiro! 18 Ma sei già tornato dalla Mongolia? 11
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“Guèrda... - commentò l’uomo - A’m vrìven fêr Prémm Minéster d’Ulan Bator, ch’l’é la capitèla ed la Mongolia, però mé j’ó rifiutè...”19 spiegò con aria spavalda e con la giusta leggerezza che servisse a sostenere una tale bufala. “T’é rifiutèe? E perché?”20 si stupì la donna, non tanto perché avesse creduto ad una tale bugia, quanto per ascoltare la motivazione addotta dall’amico. “Perché Doro al gh’a al sèins ed l’amicéssia, chêra la mé Oriele... - replicò lui con supponenza e, come sempre, con quel suo strano vizio di parlare di sé in terza persona - E vést che Nando e la Pasquina é s’é spósen, Doro al vrìva êser a cà per andêr al só matrimòni!”21 “Giósta, pió che giósta!”22 commentò la donna. “E anca per fêregh un regâl!”23 aggiunse lui per arrivare al nocciolo della questione. “Ah, sé!”24 replicò la voce dall’altro capo della cornetta. “A proposit, Oriele... jv bèle pinsè a un regâl? T’al sèe che Doro a’n bèda mia a spèisi, ahn? Còll ch’é decidìv, Doro al gh’é sta sèimper... Sèint, dusèint, tersèint euro per Doro é’n fàn mia diferèinsa... Per quindi: andèe pór a cumprêr quèll che dòp é’s dividòm la spèisa!”25 Oriele indugiò.
Guarda... mi volevano fare Primo Ministro di Ulan Bator, che è la capitale della Mongolia, però io ho rifiutato... 20 Hai rifiutato? E perché? 21 Perché Doro ha il senso dell’amicizia, cara la mia Oriele... E visto che Nando e la Pasquina si sposano, Doro voleva essere a casa per partecipare al loro matrimonio 22 Giusto, più che giusto! 23 E anche per omaggiarli di un regalo! 24 Ah, sì! 25 A proposito, Oriele... avete già pensato ad un presente? Lo sai che Doro non bada a spese, eh? Quello che deciderete, Doro ci starà sempre... Cento, duecento, trecento euro per Doro non fanno alcuna differenza... Perciò: andate a comprare qualcosa ché poi ci dividiamo la spesa! 19
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“Oriele! E’t incòra lé?”26 si preoccupò l’uomo dinnanzi al silenzio. “Sé, sé, Doro... E’ sun ché. J’éra adrée a pinsêr a un regâl ch’al vaga bèin. Vést che Nando e la Pasquina é gh’arân da andêr seimper avànti e indrée tra Luzzara e Cutro... s’jn dìt s’égh cumpròm ‘na valisa?”27 Doro rifletté per un attimo, come ad effettuare un rapido calcolo, per poi irrompere: “Mó và là! ‘Na valìsa la va bèin pr’un cmé Doro ch’l’é sèimper in viàz ed piasèir! L’é al regâl gióst pr’un gaudiente pensionato cmé mé... mia per dü ch’é se spósen!”28 “E alóra?”29 inquisì Oriele a corto di altre idee. “E alóra égh regalòm un pêr ed mudànt pr’òun e amén...”30 tagliò corto Doro. Oriele inorridì: “Mó schêrset o dìt dabòun? Mò che râsa ed regâl ed nöss él? Mai ninsùn l’a regalèe a dü che s’é spósen... d’j mudànt!”31 sbraitò indignata. “Apùnt! - ribattè Doro con tono persuasivo - Perché nuêter é sòm originêl... fóra dal grègg!”32 *** “Cosa?” si indignò Ada dinnanzi al racconto dell’amica Oriele. Oriele! Sei ancora in linea? Sì, sì, Doro... Sono qui. Stavo pensando ad un regalo appropriato. Visto che Nando e la Pasquina dovranno andare sempre avanti e indietro tra Luzzara e Cutro... che ne dici se compriamo loro una valigia? 28 Ma va! Una valigia va bene per uno come Doro che è sempre in viaggio di piacere! È il giusto regalo per un gaudiente pensionato come me... non per una coppia che si sposa! 29 E allora? 30 E allora regaliamo un paio di mutande a ciascuno e amen... 31 Ma scherzi o dici davvero? Ma che razza di regalo di nozze è? Mai nessuno ha regalato ad una coppia di sposi... delle mutande! 32 Appunto! Perché noi siamo originali... fuori dal gregge! 26 27
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“Sé, sé... - insistette l’altra - L’a pròpria détt acsé: dü pêr ed mudànt... Un pr’òun...”33 “Mó mâma! - rabbrividì Ada - Agh pòs mia crêder! D’j mudànt? E’n vòj gnân imaginêr la ghégna ed la Pasquina quànd l’arvéss al pachètt e l’agh câta dèinter un lavór ‘d al gèner... D’j mudànt? No, no Oriele, mé é gh’ò vergògna!”34 “Difàti l’é un lavór da vergògna! - sottolineò Oriele - E pròpria perché l’é ‘n idea vergognósa, Doro a’s tìra indrèe e al mànda avànti mé e té!”35 Ada sbatté le palpebre per raccapezzarsi: “Mó érel mia stè ló a dìret ch’al badèva mia a spèisi?”36 si rassicurò. “Mó sicür! L’a détt: Sèint, dusèint, tersèint euro... per Doro é’n fân mia diferèinsa”37 ripeté Oriele. “Apünt! - proseguì Ada - E pó al sèlta fóra cun l’idèa ed dü pêr ed mudànt?”38 “Bèin, quili ed la Cocotte Scianel é còsten ‘na fortüna!”39 ribattè Oriele senza seguire il filo del discorso. “Mó ‘sa gh’èintra, Oriele? - si indispettì l’amica - Mé é gh’ó vergògna a fêregh un regâl ‘d al gèner... Dégh acsé a Doro ch’é gh’j fâga ló... Invéce, guèrda chês, ló al s’é tirèe indrée bèlo bèlo!”40 Sì, sì... Ha proprio detto così: due paia di mutande... Uno per ciascuno... Mamma mia! Non ci posso credere! Delle mutande? Non voglio nemmeno immaginare l’espressione della Pasquina quando apre il pacchetto e vi trova dentro una cosa del genere... Delle mutande? No, no Oriele, io ho vergogna! 35 Infatti è una cosa vergognosa! E proprio perché è un’idea vergognosa, Doro retrocede e manda avanti me e te! 36 Ma non era stato lui a dirti che non badava a spese? 37 Ma certo! Ha detto: Cento, duecento, trecento euro per Doro non fanno differenza 38 Appunto! E poi esordisce con l’idea di due paia di mutande? 39 Beh, quelle della Cocotte Scianel costano una fortuna! 40 Ma cosa c’entra, Oriele? Io mi vergogno a porgere loro un regalo del genere... Dì a Doro che ci pensi lui... Invece, guarda caso, lui si è tirato indietro bello bello! 33 34
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“Bèlo? Mó chi? Doro? Vèh, agh mànca sól che t’égh déga ch’l’é bèll... Chilò al vóla!”41 si schermì Ada. *** “Alóra, Doro, é’t sistemè la facènda ‘d al regâl ai spös?”42 si informò Diamante “Mó sicür, Diamante! Doro al sistéma sèimper tótt!”43 replicò il marito gonfiandosi il petto. “Per quindi? - si incuriosì la donna - A la fìn ‘s agh cumprée?”44 “Quèll d’ótil, ché alméno aj dröven...”45 sottolineò Doro “J’ó dmandè cosa, Doro, mia a ‘s al servéss, campanòun!”46 si stizzì Diamante. “Eh, próva a dìr!”47 “Vèh, Doro... adèss zugòmmia a j induvinèll? E’ t’ó fât ‘na dmànda: pòsia avèiregh ‘na rispósta?”48 sbraitò la moglie. “Diamante guèrda: s’é’t adrée a stirêr, ahn?”49 “Eh, i tó mudànd!”50 sospirò lei volgendo gli occhi al cielo. “Apùnt! E nuêter égh regalòm pròpria dü bée pêr ed mudànt...”51 sorrise Doro. “Oh, finalmèint! Egh vrìva tànt? Dòu öri per ricéver ‘na rispósta?!”52 sospirò lei. Bello? Ma chi? Doro? Veh, ci manca solo che tu gli dica che è bello... Quello vola! 42 Allora, Doro, hai sistemato la faccenda del regalo agli sposi? 43 Ma certo, Diamante! Doro sistema sempre tutto! 44 Quindi? Alla fine cosa gli comprate? 45 Qualcosa di utile, che almeno gli serva... 46 Ho chiesto cosa, Doro, non a cosa serve, campanone! 47 Eh, indovina! 48 Veh, Doro... adesso giochiamo agli indovinelli? Ti ho posto una domanda: posso ricevere una risposta? 49 Diamante guarda: cosa stai stirando, eh? 50 Eh, le tue mutande! 51 Appunto! E noi gli regaliamo proprio due belle paia di mutande... 52 Oh, finalmente! Ci voleva tanto? Due ore per ricevere una risposta? 41
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*** “No e pó no! - sottolineò Ada con tono irremovibile - Mé é’n gh’é stâgh mia!”53 “Gnân mé!”54 le fece eco Oriele. “Bisògna pinsêr a quèll êter... - sentenziò Ada arrovellandosi il cervello fino ad esordire - Sêt’s agh regalòm?”55 “Stà mó a sintìr...”56 replicò Oriele, incuriosita. “Oriele, vést che Nando al sta a Luzzara e la Pasquina a Cutro, égh regalòm un viàz a metè strèda: j mandòm a Ròma!”57 “A Roma? Perché a Roma?” inquisì l’amica. “Ch’é vàghen a fêres bindìr dal Pèpa ché mé égh n’ó bèle asèe ed la fòla dal matrimòni! Vèh, jn stè morós per vìnt ân... é’n prìven mia cuntinuêr? Comunque, dmatèina é vàgh a cumprèregh dü bigliètt dal tréno per Ròma e pó é s’é spartòm la spèisa e amén!”58 “Brèva Ada! E’n vèdd l’ öra ed cavêrom da tótt còll casèin ché! Ansi, s’j mandòm a Ròma cun Italo é fòmm incòra préma: ch’ é partésen cun l’Elta Velocitè!”59 rise Oriele, divertita. *** “Doro - disse Ada al telefono - e’ sòm a pòst... Dü bigliètt per No e poi no! Io non ci sto! Neanche io! 55 Bisogna escogitare qualcos’altro... Sai cosa gli regaliamo? 56 Sentiamo... 57 Oriele, visto che Nando abita a Luzzara e la Pasquina a Cutro, gli regaliamo un viaggio a metà strada: li mandiamo a Roma! 58 Che vadano a farsi benedire dal Papa che io ne ho già abbastanza della storia del matrimonio! Veh, sono stati fidanzati per vent’anni... non potevano continuare? Comunque, domani vado a comprare due biglietti del treno per Roma e poi ci dividiamo la spesa e amen! 59 Brava Ada! Non vedo l’ora di togliermi da tutto questo impiccio! Anzi, se li mandiamo a Roma con Italo facciamo ancora prima: che partano con l’Alta Velocità! 53 54
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Ròma: 60 euro. Vést ch’égh sòm in quâter a fêr al regâl jn 15 euro a tèsta”.60 “Quéndez euro?!”61 ripetè Doro con tono indignato. “Doro, al só ch’l’é mia un grân regâl... però mé e l’Oriele é’s vergugnèven a dêregh dü pêr ed mudànt... Alméno acsé é vàn a Ròma in San Péder a vèder al Pèpa e a fêres bindìr!”62 spiegò Ada. “Sèimper per fêr al cuntràri ed còll ch’al sugeréss Doro, ahn?”63 obiettò l’uomo, ma, alla fine, visto che ogni cosa era sistemata, finì per assecondare l’idea delle due amiche e convenne che un viaggio nella capitale fosse sicuramente un dono azzeccato. Tuttavia, Ada si stupì non poco di quella domanda, ripetuta fino all’ossessione, da parte di Doro: “Alóra, t’é détt quéndez euro, ahn? Quéndez euro a tèsta, no? Mé e la Diamante é sòm in dü, quéndez e quéndez é fàn trèinta... déghia bèin?”64 “Dróva la calcolatrice, Doro!”65 lo esortò Ada. *** “Quéndez euro a tèsta?! - esordì Diamante - Mó l’é ‘na matèda!”66 “L’é còll ch’é pèins anca mé. - replicò il marito - Mó gióst per fêr mia la figuràsa ‘d j rabèin, Doro al gh’a avü ‘n idèa genièla... Doro siamo a posto... Due biglietti per Roma: 60 euro. Visto che ci stiamo in quattro a fare il regalo, sono 15 euro a testa 61 Quindici euro?! 62 Doro, lo so che non è un gran regalo... però io e l’Oriele ci vergognavamo a dar loro due paia di mutande... Almeno così vanno a Roma in San Pietro a vedere il Papa e a farsi benedire! 63 Sempre per fare il contrario rispetto a ciò che suggerisce Doro, eh? 64 Allora, hai detto quindici euro, eh? Quindici a testa, no? Io e Diamante siamo in due, quindici e quindici fanno trenta... dico bene? 65 Usa la calcolatrice, Doro! 66 Quindici euro a testa?! Ma è una follia! 60
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Sta a sintìr: é spendòm quéndez euro a tèsta perché égh sòm in quàter... Mó se é s’égh zunten anca l’Elda e Olindo la céfra la chêla...”67 “Mó sêt, Doro, che dal vólti t’ù’m sorprènd? E’t pêr fìn inteligint! Brêv!”68 si compiacque Diamante. *** “Pronto, Ada? E’ sun Doro... Alóra, contrordine! E’ gh’é stàn anca l’Elda e Olindo a fêr al regâl!”69 Ada allibì: “Cosa?! E’ m’al dìt adèss ch’j’ó bèle cumprè i bigliètt dal tréno? S’l’ésa savü préma é prìven fêr un regâl pió gròss... pió bèll! E adèss? Un regâl indó é spendòm déz euro a tèsta? E’ spènden di pió i spös a dêres l’aperitìv! No, no... mé é’m vergògn!”70 Quella telefonata mise Ada di malumore. Lei che aveva avuto l’idea di regalare un viaggio a Roma, che si era recata in stazione, che aveva acquistato i biglietti... lei che aveva corso, che aveva cercato di mettere tutti d’accordo... ora si sentiva svilita dai cambi repentini di programma da parte di un pensionato gaudente che, pur oziando dalla mattina alla sera, non si era assunto il minimo impegno di muovere un dito se non per determinare scompiglio. Così la donna, nervosa e incollerita, si recò a casa dell’amica È quello che penso anche io. Ma giusto per non fare la figuraccia dei tirchi, Doro ha avuto un’idea geniale... Ascolta: spendiamo quindici euro a testa perché siamo in quattro... Ma se si aggiungono anche l’Elda e Olindo, la cifra cala... 68 Ma lo sai, Doro, che a volte mi sorprendi? Sembri quasi intelligente! Bravo! 69 Pronto, Ada? Sono Doro... Allora, contrordine! Ci stanno anche l’Elda e Olindo a fare il regalo! 70 Cosa?! E me lo dici adesso che ho già comprato i biglietti del treno? Se l’avessi saputo prima potevamo fare un regalo più grosso... più bello! E adesso? Un dono dove spendiamo dieci euro a testa? Spendono di più gli sposi ad offrirci l’aperitivo! No, no io mi vergogno! 67
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Oriele per confidarle il proprio disappunto. “E’t gh’é ragiòun! - commentò la compagna - Sèt ‘sa fòm? Al regâl d’j bigliètt é gh’al fòm mé e té!”71 “Brèva Oriele! Trèinta euro a tèsta jn ‘na bèla céfra, mó alméno n’é’s fòm mia cumpatìr!”72 chiosò Ada. “Adèss é gh’al dégh mé a Doro... aspèta ch’égh mànd un mesàg!”73 e Ada iniziò a digitare sulla tastiera del proprio cellulare. Due secondi e arrivò la risposta. La donna rimase a bocca aperta, con gli occhi sgranati a fissare lo schermo, incredula e allibita dinnanzi a ciò che aveva letto. “‘S al détt?”74 chiese l’amica e, non ricevendo risposta da Ada che pareva paralizzata, le strappò il cellulare dalle mani per restare, lei stessa, basita dinnanzi alle parole che comparivano sul display: Déh, dòni... Doro l’é bòun, mó fêgh mia scapêr la pasinsia senó jn d’j casèin: a’m sunja spieghè o gh’òja da mandèrov ‘na racomandèda in chêrta da bòll? Alóra, s’l’jva détt Doro, ahn? Dü pêr ed mudant! E vuêter: “No, no... é’s vergugnòm!” S’al détt Doro quànd vuêter jv decìs pr’i bigliètt dal tréno, ahn? Al gh’a fât gnân ‘na pìga! E se adèss é s’égh zünten anca l’Elda e Olindo l’é mia cólpa ed Doro, jv capì? Gnì zò da la bròca e andè a l’öva tóti dòu!75
Hai ragione! Sai che facciamo? Il regalo dei biglietti lo facciamo io e te! Brava, Oriele! Trenta euro a testa sono una bella cifra, ma almeno non ci facciamo compatire! 73 Adesso glielo dico io a Doro... Aspetta che gli mando un messaggio! 74 Cos’ha detto? 75 Veh, donne... Doro è buono, ma non fategli scappare la pazienza altrimenti sono guai: mi sono spiegato o vi devo mandare una raccomandata in carta da bollo? Allora, cosa aveva detto Doro, eh? Due paia di mutande! Ma voi “No, no... ci vergogniamo!” Cos’ha detto Doro quando voi avete deciso per i biglietti del treno, eh? Non ci ha fatto neanche una piega! E ora se si aggiungono anche l’Elda e Olindo, non è colpa di Doro, avete capito? Scendete dal piedistallo e andate all’uva tutte e due! 71 72
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“Oh, mó che râsa d’un vilàn!”76 inorridì Oriele. “Oriele, tgnòmel fóra dal nóster regâl... - suggerì Ada - Ansi, sêt ‘sa fòm? Egh cavòm l’amicésia! Ch’agh vàga ló a l’öva...”77 “Sé, sé e ch’al vègna ló zò da la bróca!”78 aggiunse Ada, ma, all’improvviso, si rabbuiò all’ombra di un pensiero. “Bèin, ‘sa gh’êt?”79 si incuriosì Oriele. “E’ sun adrée a pinsêr, Oriele... Se nuêter égh cavòm l’amicésia, é’n savròm mai còll che ló e company j’àn regalè ai spós, vést che né mé né té é gh’òm intensiòun d’andêr al matrimòni per vêder mia Doro...”80 “Mó figùret! Agh va la Merope e dòp la’s cùnta tótt!”81 la rassicurò Oriele. *** “Alóra, Merope... dai, cunta tótt!”82 la incalzavano le due amiche. “Mó mâma, la Pasquina l’éra prân bèla vistìda da spósa! Un gràn vistì biânch lòungh fìn ai pée...”83 Ada la stoppò, indispettita: “Mó ‘sa gh’èintra al vistì, Merope? Nuêter é s’interèsa quèll êter; al vistì al gh’èintra gninto!”84 Oh, ma che razza di villano! Oriele, teniamolo fuori dal nostro regalo... Anzi, sai che facciamo? Gli togliamo l’amicizia! Che ci vada lui all’uva! 78 Sì, sì e che scenda lui dal piedistallo! 79 Beh, cos’hai? 80 Sto pensando, Oriele... Se noi gli togliamo l’amicizia, non sapremo mai quello che lui e company hanno regalato agli sposi, visto che né io né te abbiamo intenzione di andare al matrimonio per non vedere Doro... 81 Ma figurati! Ci va la Merope e dopo ci racconta tutto! 82 Allora, Merope... dai, racconta tutto! 83 Mamma mia, la Pasquina era così bella vestita da sposa! Un gran vestito bianco lungo fino ai piedi... 84 Ma cosa c’entra il vestito, Merope? A noi interessa qualcos’altro; il vestito non c’entra niente! 76 77
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“E invéce, chêri al mé dòni, al gh’èintra... al gh’èintra eccome, vést che la Pasquina la pianzìva cmé ‘n aquila quànd Doro agh l’a bzuntè!”85 “B... bzuntè?”86 balbettarono, in coro, le due amiche, colte da un’irrefrenabile curiosità. “Pròpria acsé! Doro l’é andè arèint a la spósa cun un pachètt arvujè int ‘na chêrta bzùnta.... Al fa: Ciâpa Pasquina,. l’é gióst un pinsêr, tànt che té e Nando v’arcurdèv sèimper dal vöster amigh Doro e pó al gh’a méss in gròmbia al pachètt...”87 “Va avanti, Merope... fêres mia stêr in séma al gòci!”88 la incalzarono le due amiche. “Ah, pròpria al regâl gióst! - rise Merope, divertita - Doro al prìva mia pinsêr a quèll ed pió indichèe per fêres arcurdêr... Un salâm!”89 “Un... un salâm?”90 ripeterono Ada e Oriele irrompendo in una fragorosa risata. “Sé, sé... e pó l’é mia finìda!”91 seguitò l’amica. “Cioè?” “Int l’ültom bànch ed la césa é gh’éra la Fata. La tgnìva i dì incrusèe e la gh’ìva ‘na colàna ed curnèin ed curàl... Quand la Pasquina l’a scartè al regâl, la Fata l’a vést al salâm e l’é caschèda a séder, cmé s’l’ésa méss fìn a ‘n agonia... La’s fèva fìn vèint cun al librètt da mèsa. Alóra mé é gh’ó dmandè ‘s la gh’ésa e lée la E invece, care le mie donne, c’entra... c’entra eccome, visto che la Pasquina piangeva come un’aquila quando Doro glielo ha unto! 86 Unto? 87 Proprio così! Doro si è avvicinato alla sposa con un pacchetto avvolto in una carta unta... Ha detto: Tieni Pasquina, è giusto un pensiero tanto che tu e Nando vi ricordiate sempre del vostro amico Doro e poi le ha appoggiato in grembo il pacchetto... 88 Prosegui, Merope... non farci stare sulle spine! 89 Ah, proprio il regalo giusto! Doro non avrebbe potuto escogitare un regalo più appropriato per farsi ricordare... Un salame! 90 Un salame? 91 Sì, sì... e poi non è finita! 85
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m’a spieghè tótt...”92 “E cioè?” esordirono le due amiche in coro. “Cioè? - riprese Merope - Quànd Nando al gh’éra andè a fêres fêr i taröch, l’éra gnüda föra la chêrta ‘d l’Impichèe... ‘Na pió bróta chêrta còla ‘d l’Impichèe.! Mai e pó mai la Fata l’aré imaginèe ch’a’s tratésa ‘d un salâm...”93
Annalisa Bertolotti è nata e vive a Reggio Emilia. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, da sempre ama scrivere racconti e poesie non solo in italiano, ma anche negli idiomi esteri, nonché in dialetto reggiano. Partecipa a numerosi concorsi letterari nazionali e internazionali, quali il Concorso Letterario Internazionale “Shelley e Byron” (Giugno 2015) a La Spezia, al Concorso Letterario Nazionale “Il Trebbo” (Ottobre 2016) a Riolunato, al Concorso Letterario Nazionale “Eridanos” a Gussola (Settembre 2017) e al Concorso Letterario “Il Grappolo d’Oro” (Ottobre 2017) a Bardolino, senza citare gli innumerevoli concorsi locali in italiano e in vernacolo dove le sue opere hanno sempre ottenuto il giudizio favorevole della Giuria. Nel 2018 è risultata vincitrice 1° Premio Sezione Poesia Religiosa a Formigine Concorso Letterario Naz.le “Parole e Poesia”, del 3° Premio Concorso Internazionale “Shelley e Byron” Sezione Narrativa Breve Inedita e del 1° Premio Concorso dialettale “La Giarèda a Reggio Emilia” Sezione Poesia di argomento cittadino.
Nell’ultimo banco della chiesa c’era la Fata. Teneva le dita incrociate e indossava una collana di cornetti di corallo... Quando la Pasquina ha scartato il regalo, la Fata ha visto il salame e si è accasciata a sedere, come se avesse posto fine a un’agonia... Si faceva vento agitando un messale. Allora io le ho domandato il perché e lei mi ha spiegato tutto... 93 Cioè? Quando Nando ci era andato a farsi fare i tarocchi, era uscita la carta dell’Impiccato... Una pessima carta quella dell’Impiccato! Mai e poi mai la Fata avrebbe immaginato che si trattasse di un salame... 92
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Nessun dorma... di Angela Villa Ruscelloni
“Mó mâma, Dolores! - esclamò Virginia fissando, con gli occhi a fessura, la vecchia amica - Che bróta céra ch’é’t gh’é!”1 “Ah... - sospirò la poverina - E’t l’é capida, finalmèint! Quand é t’é dziva: Virgénia, é’n stâgh gninto bèin, é sun pìna d’aciâch dapertótt... e té gninto, sèimper a minimizêr e a dìrom ch’é sun ‘na maniaca... Mó che maniaca? Per fortüna ch’é vàgh dal dotór tótt i dé a pruvèrom la presiòun, senò a st’óra é sré bèle morta! E pó, zuntegh anch al fât che da tri mèis é’n dórom pió... tombola!”2 “Bèin, - constatò la compagna - adèss é’t pré anca durmìr tranquéla... La pìna dal Po l’é bèle pasèda. só bèin ch’jn stè ‘d j mumèint dür per tótt...”3 “Mó mé é’m rifériva mia a la pìna dal Po...”4 ribatté Dolores “Ah, no?” “No, la pìna l’é gninto a cunfrunt ai Begotti...”5 “I Begotti?!” Virginia strabuzzò gli occhi e si mise tutt’orecchie, consapevole del fatto che l’amica le avrebbe svelato qualAccidenti, Dolores! Che brutta cera che hai! Ah... L’hai capita, finalmente! Quando ti dicevo: Virginia, non sto per niente bene, sono piena di acciacchi dappertutto... e tu niente, sempre a minimizzare e a dirmi che sono maniaca... Ma che maniaca? Per fortuna che vado dal dottore tutti i giorni a provarmi la pressione, altrimenti a quest’ora sarei già morta! E poi, aggiungici il fatto che da tre mesi non dormo più... tombola! 3 Beh, adesso potresti anche dormire tranquilla... La piena del Po è già passata. lo so bene che sono stati dei momenti di apprensione per tutti... 4 Ma io non mi riferivo alla piena del Po… 5 No, la piena non è niente in confronto ai Begotti... 1 2
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cosa di estremamente interessante su cui spettegolare. “I Begotti jn i növ zvinànt... - spiegò Dolores - Da quànd jn ‘rivè, tri mèis fa, adio pèz! J’ó mai vést, ahn? Però, crèd a mé, ch’é j’ó sintü... forte e chiaro!”6 “Dai, Dolores... - cercò di calmarla Virginia - T’al sèe che quànd é’s fa San Martèin l’é acsé... Spòsta ‘n armàri, tìra in sa’ ‘na tèvla, arvòlta ‘na scràna, sfà zò i scatlòun... a’s fa ‘d l’armór... l’é gnân inótil!”7 “E’ pós capìr Virgénia, mó fin tànt che l’armór l’é da dé é sóm tótt d’acòrdi... Mó a’t sa nurmèl che chilór é tàchen a la sira a óra ed sèina e pó é vàghen avànti tóta nótt?”8 obiettò, indispettita, l’amica. “Mó pórta pasinsia, Dolores... Quànd j’aràn catè la giósta pusisiòun a tótt al mubéli é’t vedrè ch’égh daràn un tàj!”9 la rassicurò Virginia, ma l’amica non le lasciò il tempo di proseguire: “Vèdet che, cmé al sòlit, t’é capì gninto? Oja fórse détt ch’é spòsten i mòbil? Oja fórse parlè ed San Martèin?”10 Virginia si serrò nelle spalle e assunse un’espressione confusa, ma l’altra proseguì: “Té, t’é parlè ed San Martèin o no?”11 Annuendo, Virginia tentò di giustificarsi: “Però t’ér stèda té a dìrom ch’jven scarghè quàter freezer da
I Begotti sono i nuovi vicini... Da quando sono arrivati, tre mesi fa, addio pace! Non li ho mai visti, eh? Però, credimi, che li ho sentiti... forte e chiaro! 7 Dai, Dolores... Lo sai che quando si fa un trasloco è così... Sposta un armadio, tira in qua la tavola, rivolta una sedia, guasta gli scatoloni... si fa rumore... è inevitabile! 8 Posso capire Virginia, ma finché il rumore è di giorno siamo tutti d’accordo... Però, ti sembra normale che loro inizino alla sera a ora di cena e poi proseguano tutta la notte? 9 Ma porta pazienza, Dolores... Quando avranno trovato la giusta posizione a tutto il mobilio... vedrai che la faranno finita! 10 Vedi che, come al solito, non hai capito niente? Ho forse detto che spostano i mobili? Ho forse parlato di trasloco? 11 Tu hai parlato di trasloco o no? 6
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un camios!”12 “Sé, mò la fòla d’j freezer l’é finida lé... - ribatté Dolores - Mé a’m riferéss a ‘n êter tipo d’armór...”13 Il discorso assumeva contorni misteriosi e la curiosità di Virginia saliva alle stelle. Non staccava lo sguardo dal volto dell’amica e, senza batter ciglio, la incalzava a raccontare: “Spiéghet, per Diana!”14 “Virgénia, - proseguì l’altra - Té t’al lés al giurnèl?”15 “Mó sicür! A’m tègn infurmèda, vèh? E’ guèrd anca La Vita in Diretta a la televisiòun. Ch’a’s fa sèimper in tèimp a dvintèr ignurànt... Mò ‘sa gh’èintren al nutési dal giurnèl cui tó zvinànt?”16 Virginia non si raccapezzava. Allora Dolores le accostò le labbra all’orecchio e, in sordina, sillabò: “Nanòuna, chilór é quistiòunen ed brótt!”17 Virginia sgranò gli occhi e si portò una mano sulla bocca, lasciandosi sfuggire un meravigliato: “No!” “E invéce sé! - fece eco Dolores con supponenza - E’t gh’aréss da sintìr còll ch’é sbràjen, anzi, l’é ló ch’al sbràja... a’s sèint sól la só vóz... lée, per lo piò, la tèz...”18 “Mó mâma!”19 rabbrividì Virginia, ma subito la curiosità prese il sopravvento, spronandola a rivolgere all’amica una domanda Però eri stata tu a dirmi che avevano scaricato quattro freezer da un camion! Sì, ma la storia dei freezer è finita lì... Io mi riferisco ad un altro tipo di rumore... 14 Spiegati, per Diana! 15 Virginia, tu lo leggi il giornale? 16 Ma certo! Mi tengo informata, sai? Guardo anche La Vita in Diretta alla televisione. Ché si fa sempre in tempo a diventare ignoranti... Ma cosa c’entrano le notizie del giornale con i tuoi vicini? 17 Mia cara, quelli litigano di brutto! 18 E invece sì! Dovresti sentire quello che urlano, anzi, è lui che sbraita... si sente solo la sua voce... lei, per lo più, tace... 19 Mamma mia! 12 13
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tanto inevitabile quanto indiscreta: “Bèin, e ‘sa sbràjel? Sé, é vòj dìr... perchè tótt al sìri é’l acsé rabi?”20 “Mó sòja mé?! L’é al só carateràss, é’s vèdd... Vèh, ajér al sbrajèva a só mujéra: Vèdet ch’la mân ché? L’é la surèla ed ch’l’êtra!”21 “Oh, mó che ràsa ed discórs a ‘na mujéra! - commentò Virginia, inorridita - Mó che lavór! E lée, puvrèina, la manda zò? L’é pròpria acsé ch’é sucéden al tragèdi! E’ gh’ò ragiòun mé... é’n gh’é mia pió j òmen ed ‘na vólta... ‘na vólta éren romàntich, apasiunèe, pròpria cmé al mé póver Egédi...”22 “Alóra, - proseguì Dolores - e’t gh’è da savèir ch’j’ó pugè ‘n urècia cuntr’al mür per sintìr bèin!”23 “Stà mò a sintìr...”24 ribattè Virginia che non stava nella pelle dal desiderio di udire quel racconto... “E’ s’éren méss a tèvla, perchè a’s sintìva spignatèr... Ló al sèlta só e al fa: ‘S’é’t fât da magnêr ch’é gh’ò fâm? J’ó mia sintü la rispòsta ed chilée, mó ló al dvintèva sèimper pió rabì. Al fa I macaròun?! E alóra dai,. impéss i piâtt ch’é gh’ó fâm!”25 “Ché manéri, póvra dòna! L’é mia la só sèrva!”26 osservò Virginia. Beh, e cosa urla? Sì, intendo dire... perché ogni sera è così arrabbiato? Ma che ne so? È indubbiamente frutto del suo caratteraccio... Veh, ieri urlava a sua moglie: La vedi questa mano? È la sorella dell’altra! 22 Oh, ma che razza di discorsi a una moglie! Ma che roba! E lei, poverina, non reagisce? È proprio così che succedono le tragedie! Ho ragione io... non ci sono più gli uomini di una volta... un tempo erano romantici, appassionati, proprio come il mio povero Egidio... 23 Allora, devi sapere che ho appoggiato un orecchio contro al muro per ascoltare bene... 24 Stiamo a sentire... 25 Si erano messi a tavola, perché sentivo il rumore di piatti... Lui irrompe e dice: Cos’hai preparato da mangiare che ho fame? Non ho sentito la risposta di lei, ma lui diventava sempre più iracondo. Ha detto: I maccheroni?! E allora, dai, riempi i piatti che ho fame! 26 Che modi, povera donna! Non è mica la sua serva! 20 21
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“Insòma, al tèimp d’incumincer a infrucêr al prémm macaròun... é sèint un sbràj ch’é m’é dèe un còlp... Al fa: Custansa! E mé, secònd té, é gh’aré da magnêr chla schìva ché? Guèrda, vin a vèder: é gh’é un cavì int i macaròun e vést ch’l’é biònd, a’n pól che êser tuo!”27 “Chilée la’s ciàma Custànsa? Ah, la gh’a pròpria al nòm gióst! Puvrèina, pr’un cavì... l’é un fât ch’al pól capitêr... E lò, e lò cm’a’s ciàmel?”28 domandò Virginia. “Guèrda, é’n sun mia sicüra... però da còll ch’j’ó sintü, al gh’a da ciamères Sandro. Difàti l’ónica vólta ch’la parlèe lée é gh’ò sintü dìr Sandròun!”29 Dolores si abbandonò sul divano. Aveva le palpebre pesanti e le membra dolenti, come di solito accade a chi perde il sonno. “Mó, é vàn avânti a qiustiunêr tóta nòtt?”30 incalzò Virginia. “E’ vàn avânti a fêr casèin fìn a matèina... é quistiòunen fìn a mezanòtt, pó per un po’ é gh’é silèinsi...”31 spiegò Dolores. “Bèin, mó alóra ‘s’a’t lamèintet?” 32 “Aspèta! Dòp é gh’é ‘n êter tipo ‘d armór... còll ed l’altéra dal lètt ch’la sbàtt cuntr’al mur: tom! Tom! Tom! E mé é gh’ó la mé altéra gióst da ch’l’êtra pèrta dal mür!”33 Insomma, il tempo di inforcare il primo maccherone... sento un urlo tale che sono sobbalzata. Lui sbraita: Costanza! E io, secondo te, dovrei mangiare questa schifezza?! Guarda, vieni a vedere: c’è un capello sui maccheroni e, dato che è biondo, non può che essere tuo! 28 Lei si chiama Costanza? Ah, ha proprio il nome giusto! Poverina, per un capello... è un fatto che può succedere... E lui, lui come si chiama? 29 Guarda, non sono sicura... però, da quello che ho udito, deve chiamarsi Sandro. Infatti, l’unica volta in cui ha ribattuto lei, ho sentito che diceva Sandrone! 30 Ma, continuano a litigare tutta la notte? 31 Continuano a far rumore fino a mattina... litigano fino a mezzanotte, poi per un po’ regna il silenzio... 32 Beh, ma allora di che ti lamenti? 33 Aspetta! Dopo subentra un altro tipo di rumore... quello dell’altera del letto contro il muro: tom! Tom! Tom! E io ho la mia testata giusto dall’altra parte del muro! 27
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“Oh, mó che lavór! Và là che anca té é’t gh’é ‘na bèla crós!”34 gemette Virginia. “T’al pó propria dìr!”35 ribatté l’amica. “Nanòuna, pinsèregh mia... Stasìra, s’é tàchen a fêr casèin, tót só e va al cinema. A Bresèll é dàn un film ch’al gh’a da êser gninto mèl: Il grande Gatsby”36 la consigliò Virginia. “S’é gh’ésa da andêr al cinema é’m durmiré subètt dal sònn ch’é gh’ó!”37 piagnucolò Dolores. *** “Custansa! Al sajva mé, râsa ed ‘na disgrasièda! T’é tirè in cà al gât! E dìr mia ed no perchè al só, vèh? Guèrda: é gh’ó bèle la pirina al nèz! L’é inótil quànd óna l’é düra ed cumprendòni a’n gh’é gninto da fêr... e intànt chi’l màgna al medzèini cuntr’a l’alergia, ahn? Mé! Tìra pórr la córda, mó ócio ch’la se sciànca! E... etcì! Ecco, é gh’ó bèle al ferdór... é n’jn pòss pió... Me ne vado!”38 Avevano ripreso a litigare. Non passava serata che le urla del Begotti non infrangessero la pace. E Dolores si sentiva sempre più inquieta, sempre più stanca... Si chiedeva il perché di quella curiosa alternanza di liti e di amore, che senso avesse bisticciare quando poi, ogni notte, essi raggiungevano la pace tra le coltri del loro talamo... Provava compassione per Costanza, ma, Oh, ma che roba! Va là che anche tu hai una bella croce! Puoi ben dirlo! 36 Mia cara, non pensarci... Stasera, se iniziano a fare caos, prenditi su e vai al cinema. A Brescello danno un film che non sembra male: Il grande Gatsby. 37 Se dovessi andare al cinema, mi addormenterei subito dal sonno che ho! 38 Costanza! Lo sapevo io, razza di una disgraziata! Hai fatto entrare il gatto in casa! E non dire di no perché lo so, sai? Guarda: mi cola già il naso! È inutile, quando una è dura di comprendonio non c’è niente da fare... e intanto chi ingoia le medicine contro l’allergia, eh? Io! Tira pure la corda, ma attenzione che si strappa! E... etcì! Ecco, ho già il raffreddore... non ne posso più... Me ne vado! 34 35
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allo stesso tempo, avvertiva un sentimento indispettito nei suoi confronti: ella, al posto suo, avrebbe già da tempo fatto valigia per fuggire via da quel marito rissoso. Sì, forse aveva ragione Virginia quando diceva che non esistono più gli uomini galanti e romantici di una volta. Forse non esistono più... Dolores sobbalzò al tonfo secco di una porta sbattuta, seguito dall’urlo acuto di Costanza che, in falsetto, sillabava: “Sandròun!”39 Basta... Un’altra nottata in bianco? Dolores ne aveva abbastanza! Decise pertanto di seguire il consiglio di Virginia. Indossò il soprabito e uscì, diretta verso il cinema, per assaporare qualche ora di quiete... *** Al cinema Politeama, le locandine mostravano scene del film Il grande Gatsby in cui un giovane uomo, elegantissimo e di bell’aspetto, compariva ora a bordo di una lussuosa automobile, ora a fianco di una graziosa signorina, ora nel salone della sua ricca dimora, attorniato dai suoi levrieri. Già da questo primo impatto, Dolores convenne che quel film le sarebbe piaciuto e, con fare deciso, si accostò alla cassa, acquistò il biglietto e, entrata in sala, si accomodò sulla prima poltrona libera che scorse distrattamente, senza nemmeno guardarsi intorno. Poi, le luci nella sala si spensero e la proiezione iniziò. Dolores si identificò nella graziosa ragazza di cui il grande Gatsby era innamorato e iniziò a sognare... E, a mano a mano che le scene scorrevano sullo schermo, il suo sogno divenne così profondo, così vissuto che ella, senza accorgersene, usò come cuscino la spalla di chi le sedeva a lato: un distinto signore bruno.
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Sandrone!
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Egli, dapprima fu un po’ contrariato da quello strano comportamento, ma, successivamente, constatando che si trattava di una donna e, per di più, di una persona inconsapevole del proprio agire inopportuno, decise di non svegliarla... dopo tutto non stava arrecandogli particolare disturbo: sarebbe stato ben peggio trovarsi di fianco chi sgranocchiava patatine o pop corn! “Signorina... - mormorò gentilmente quando iniziarono a comparire sullo schermo i titoli di coda - “Signorina... è finito!” Dolores spalancò gli occhi e una colata di porpora le tinse il volto. “Ci chiedo scusa!” sussurrò timidamente in un linguaggio proprio a chi è abituato a parlare sempre in dialetto “Mi ero dormita... non ho mica fatto apposta!” “Me ne ero accorto!” ribatté l’uomo con gentilezza. “Ci ho dato fastidio?” si preoccupò Dolores. “Ma no, ha fatto bene! Doveva essere molto stanca...” constatò il signore e Dolores immediatamente ripensò ai suoi vicini, frenando a fatica l’impulso di svelare a quello sconosciuto il motivo di quel suo sonno beato. “Non ci siamo ancora presentati... - proseguì l’uomo - Io mi chiamo Alvaro.” “Do-lo-res...” sillabò lei, distratta da un pensiero, o meglio, da una constatazione che, lentamente, stava prendendo forma nella sua mente. Riguardava la sorprendente affinità tra Alvaro e il grande Gatsby: la medesima galanteria, le stesse splendide maniere che la condussero a dissociarsi dall’idea che l’amica Virginia aveva cercato di inculcarle quando sosteneva che non c’erano più gli uomini gentili di un tempo... Non era vero e Alvaro ne era la prova. “È bene che vada a dormire, adesso. - proseguì il signore - A casa... Nel suo letto!” le accostò le labbra alla mano e, mostrando in un sorriso ogni elemento della sua dentatura, si accomiatò da lei, lasciandola lì, tanto sbalordita quanto inebriata. Rincasando, Dolores constatò, con meraviglia, che dall’altra
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parte della parete non sopraggiungeva alcun rumore. Così, si abbandonò ad un sonno foriero di un sogno... *** “Alvaro, Virgénia! A’s ciamèva Alvaro... - Dolores confidò, l’indomani, all’amica e le raccontò ogni particolare della sera precedente - Elt, elegànt, un galantòmm!”40 Virginia ascoltava con espressione incredula, inarcando le labbra e scuotendo la testa. “Bein, ‘sa gh’è’t da fêr chla ghégna lé?!”41 si stizzì Dolores. “Perchè vèdet, Dolores, a méno ch’é’n t’abi vést un marsiân... fa mèint a mé: d’j òmen acsé, al dé d’incóo, agh n’é pió! T’arcòrdet mia còll ch’é’t m’é cuntèe a propòsit dal tó zvinànt? Un vilàn bêgher ch’al trâta só mujéra cmé ‘na pèsa da pée... Chèra la mé Dolores, jn tótt acsé! E anca al tó Alvaro, in fin d’j cunt t’al cgnòss mia! Sòl perchè al t’a fât da cusèin? Chi él? Indó stâl? Che mistêr fâl? T’é’n sèe mia gninto ed chiló e, bèin cla vâga, l’é un delinquèint!”42 le parole di Virginia risultarono come spade acuminate che trafissero il cuore sensibile di Dolores. “Mó ‘sa dìt? - la interruppe bruscamente l’amica - Un delinquèint al bèsa mia la mân a ‘na dòna, vèh? E pó, ed sicür al gh’a da êser ‘n insgnêr o un dotór perchè cun ‘n elegànsa dal gèner a’n pól êser êter... Al gh’jva ‘na sièrpa biànca intór’n al còll ch’agh dèva ‘n aria acsé sofistichèda... é’t gh’jv da vèder, Alvaro, Virginia! Si chiamava Alvaro... Alto, elegante, un galantuomo! Beh, cos’hai da fare quella faccia? 42 Perché vedi, Dolores, a meno che tu non abbia incontrato un marziano... dammi retta: di uomini così, oggigiorno, non ce ne sono più! Non ricordi quello che mi hai raccontato a proposito del tuo vicino? Un villano ignorante che tratta sua moglie come una pezza da piedi... Cara la mia Dolores, sono tutti uguali! E anche il tuo Alvaro, in fin dei conti, non lo conosci! Solo perché ti ha fatto da cuscino? Chi è? Dove abita? Che mestiere fa? Non sai nulla di lui e, ben che vada, è un delinquente! 40 41
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Virgénia! Biànca cmé i só dèint, oh, ‘d j dèint fìnt, ahn? Mó dal rèst l’é mia pió un zuvnót, anca mé é’n sun mia pió ‘na ragasóla, peró é’m sun stufèda d’êser póta... e Alvaro al gh’a tótt al qualitèe ch’j’ó sèimper serchèe int un òm!”43 asserì con fare sicuro. “Ah, sé? - la canzonò la compagna - Che qualitèe? Sintòm... El bèll?”44 “Mó ‘sa m’imbarâsa a mé ‘d la belèsa?! Alvaro l’é un ed chi òmen ch’é fân sintìr ‘na dòna impurtànta!”45 replicò Dolores con aria sognante. *** “Custansa! Mó porco d’un mònd lêder: indó é’t méss la mé màja ed la Juve? ‘S é’t détt? L’é’t lavèda?! L’é incòra mòja?! Pròpria stasìra ch’é gh’é la partìda? Mó râsa ‘d ‘na disgrasièda... mó ‘sa t’é gnü in mèint?”46 le grida del Begotti tuonavano nel silenzio della palazzina e scuotevano la quiete della Bassa, incuneandosi tra le alte sagome dei pioppi oltre i vetri delle finestre, giù, verso le statiche golene, verso un cielo nebbioso... E Dolores ripensava ad Alvaro, ripercorreva gli attimi di quel suo incontro fugace, soppesava lo scetticismo della sua amiMa cosa vorresti insinuare? Un delinquente non fa il baciamano ad una donna, sai? E poi, di sicuro dev’essere un ingegnere o un dottore perché con un’eleganza del genere non può essere altro... Aveva una sciarpa bianca intorno al collo che gli dava un’aria così sofisticata... dovevi vedere, Virginia! Bianca come i suoi denti, oh, denti finti, eh? Ma, del resto, non è più un giovanotto, anch’io non sono più una ragazza, però mi sono stancata di essere zitella... e Alvaro possiede tutte le qualità che ho sempre ricercato in un uomo! 44 Ah, sì? Che qualità? Sentiamo... È bello? 45 Ma cosa mi importa della bellezza?! Alvaro è uno di quegli uomini che fanno sentire una donna importante! 46 Costanza! Ma porco di un mondo ladro: dove hai messo la mia maglia della Juve? Cos’hai detto? L’hai lavata?! È ancora bagnata?! Proprio stasera che c’è la partita? Ma razza di una disgraziata... ma cosa ti è venuto in mente? 43
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ca Virginia e alimentava la propria speranza riguardo all’uomo conosciuto al cinema: “Lui è diverso... - diceva tra sé - Alvaro è un signore...” Ma, mentre questi pensieri turbinavano nella sua mente come i vortici del grande fiume, una voce femminile, oltre la parete, la riportò al presente e la strabiliò. Era la prima volta che udiva la replica stizzita di Costanza alle continue accuse del marito: “Vèh, sandròun, vót mètret indòss ‘na màja criclèinta? E’t l’ jv bzuntèda cun al sügh ‘d j macaròun... Perchè, a quanto pare, éren bòun anca s’é’t gh’é catè un cavi... Senò chla màcia lé l’agh sré mai gnüda... Mó ló, no, al gh’a sèimper da bruntlêr... E pó, cus’éla la móda ed mètres la màja ed la Juve per guardêr ‘na partìda a la tèle in cà, ahn? Gnân s’é’t gh’éss da zughêr té al balòun!”47 “S’la pêrd, l’é cólpa tua, tìntel int la mèint!”48 ruggì lui. Dolores rabbrividì. Quelle grida continue, quella cattiveria non le permettevano di abbandonarsi alle sue fantasie sentimentali come avrebbe voluto. La razionalità le suggeriva quanto una persona, con il tempo e con la confidenza, possa trasformarsi fino a fare emergere i lati più spigolosi del proprio carattere; ma l’istinto alimentato dalle pulsioni più ingenue la spingevano a convincersi che la prima impressione si rivela sempre veritiera ed eterna, pertanto Alvaro differiva in tutto e per tutto dal collerico Sandro. Alvaro... Dolores avvertì in sé un incontenibile desiderio di rivederlo...
Veh, sandrone, vuoi indossare una maglia sporca? L’avevi unta con il sugo dei maccheroni... Perché, a quanto pare, erano gustosi anche se ci hai trovato un capello... Altrimenti quella macchia lì non ci sarebbe mai venuta... Ma lui, no, deve sempre trovare da brontolare... E poi, cos’è questa moda di indossare la maglia della Juve per guardare la partita alla tele in casa, eh? Neanche se dovessi scendere tu in campo! 48 Se perde, è colpa tua, ricordalo! 47
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Ma nemmeno sapeva dove abitava, non conosceva il suo cognome... Nessun dato anagrafico le era stato fornito che la potesse ricondurre a lui... *** “Sèint Dolores, - disse Virginia con fare materno - Próva a pinsêr... Alvaro: ‘n óm perfètt, galànt, educhèe, gentìl... E alóra perchè érel al cinéma da per ló cmé un cân? Se dabòun al gh’ésa tanti bèli qualitèe, sèt quànti dòni al gh’aré ai só pée? Meint’r invéce, vót ch’al sia arivèe a la só veneranda etèe pr’aspetèr pròpria té?”49 Dolores avvampò di collera: “‘Sa vréset dìr? - si inalberò - Guèrda che mé é gh’ó tótt al chèrti in regòla, vèh? E pó, sé! L’a aspetèe pròpria mé! Cmé int al film Colti da un insolito destino in una notte d’agosto…”50 “Sé, sé... però é sòm in novèmber!”51 osservò Virginia. Un tonfo secco al di là della parete mise fine al loro battibecco. “E’t sintü?!”52 sibilò Virginia. “E’ ricumìncen!”53 gemette Dolores. “Fèrom mia cunfesèr al mé suspètt...”54 irruppe Virginia. “Suspètt? Che suspètt? Per caritèe, Virgénia, fèrom mia paura! Che suspètt?”55 la incalzò l’amica. Ascolta Dolores, Prova a ragionare... Alvaro: un uomo perfetto, galante, educato, gentile... E allora perché era al cinema da solo come un cane? Se davvero avesse tante belle qualità, sai quante donne avrebbe ai suoi piedi? Mentre invece vuoi che sia giunto alla sua veneranda età per aspettare proprio te? 50 Cosa vorresti insinuare? Guarda che io ho tutte le carte in regola, eh? E poi, sì! Ha aspettato proprio me! Come nel film Colti da un insolito destino in una notte d’Agosto… 51 Sì, sì...però siamo in novembre! 52 Hai sentito? 53 Ricominciano! 54 Non indurmi a confessarti il mio sospetto 55 Sospetto? Che sospetto? Per carità, Virginia, non farmi paura! Che sospetto? 49
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“Al suspètt d’j quàter freezer...”56 “Cioè? Spiéghet!”57 la implorò Dolores con gli occhi sgranati. “Dolores, é gh’jn in dü... ‘Sa s’jn fàn ed quàter freezer? - ragionò Virginia - Màgna pór... mó pió d’un tànt al magòun al tìra mia!”58 “E alóra?”59 domandò l’amica che non riusciva ad afferrare la sottigliezza di quel pensiero. “Egh tìnen dèinter la nóna mórta per cuntinuèr a tirèr la só pensiòun!”60 irruppe Virginia senza tanti giri di parole. Dolores spalancò la bocca con gli occhi pieni di terrore. “Ah, no? - proseguì Virginia - Quâter freezer per magnêr ‘d j macaròun? Mó dai!”61 Una doccia ghiacciata per la povera Dolores. Meno male che aveva incontrato Alvaro... Ella pregava quel destino che li aveva fatti incontrare, implorando che quell’uomo così gentile, dolce e galante la portasse via da quell’inferno di spietati demoni... *** La sorte parve ascoltare le invocazioni di Dolores. Di lì a qualche giorno rivide Alvaro e fu come una folgorazione. La sorprese al mercato, accanto al banco dell’ortofrutta. Ella reggeva a fatica due pesanti sporte di patate quando egli le si avvicinò: “Lasci che la aiuti, signorina Dolores!” e, prontamente, egli le tolse di mano le borse per poi chiederle: “Abita lontano? Gliele porto fino a casa!” Il sospetto dei quattro freezer... Cioè? Spiegati! 58 Dolores, ci sono in due... cosa se ne fanno di quattro freezer? Mangia pure… Ma lo stomaco ha una certa capienza... 59 Quindi? 60 Ci tengono la nonna morta per continuare a percepirne la pensione! 61 Ah, no? Quattro freezer per poi mangiare dei maccheroni? Ma dai! 56 57
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Dolores sorrise di gratitudine. “Sto in Via dei Caduti numero 17” rispose con sollievo perché, finalmente, era sicura di avergli fornito una coordinata affinché egli la potesse, in futuro, rintracciare. Si sorprese, tuttavia, nel vederlo trasalire. “Mi è venuto in mente che ho un impegno tra cinque minuti... - si giustificò l’uomo - Le porto la spesa fino all’inizio della via, poi proseguirà da sola...” “Beh, é già un bell’aiuto!” replicò Dolores senza porsi alcun perché... Fantasticava sull’aspetto di lui, posando lo sguardo, di sottecchi, ora sulla candida sciarpa che gli avvolgeva il collo, ora su quella maglietta color rosa confetto che metteva in risalto il suo volto dall’incarnato olivastro. Giunti all’inizio della via, Alvaro posò le sporte in terra e, diretto lo sguardo oltre una fila di alberi, se la diede a gambe levate, come se avesse visto un fantasma, lasciando la povera Dolores tanto esterrefatta quanto sbigottita. *** Cosa avrebbe detto all’amica Virginia? Avrebbe posto l’accento sulla gentilezza di Alvaro nel portarle la spesa o sulla stranezza dell’incomprensibile fuga di lui una volta giunti alla meta concordata? E, soprattutto, cosa prevaleva nei propri pensieri? La gratitudine per quel gesto gentile o, piuttosto, il dilemma di mille perché? I dubbi di Dolores ebbero vita breve... “Posta!” sbraitò il portalettere dal cortile. Prontamente, Dolores scese le scale. “C’è una raccomandata da firmare... - disse il postino - Ho suonato al destinatario, ma non risponde nessuno... La lascio a lei?” Dolores indugiò: “A chi è indirizzata?”
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“Ad un certo Alvaro Begotti” replicò il portalettere. “Cosa? Ma si chiama Sandro! Sandro Begotti!” corresse Dolores, ma subito si arrestò nella percezione di una presenza alle sue spalle. Alto, serio e impettito, Alvaro allungò la mano e, con prepotenza, strappò la lettera dalle mani del postino. Da lontano, una donna seguiva la scena. Come aprì bocca per pronunciare una frase, Dolores riconobbe la voce di Costanza: “Alvaro! Râsa d’un sandròun é’t vést? E mé che t’é dzìva: Va piàn in machina ch’é’t dàn la multa! Mó té gnìnto... E la multa l’é ‘rivèda! Mó che sandròun, mó che sandròun! Stasìra, mé e té é fòm i cünt!”62 Quella sera, mentre al di là della parete Alvaro e Costanza davano atto all’ennesima sfuriata, Dolores, sconsolata, piangeva per il suo sogno d’amore infranto... Angela Villa Ruscelloni vive a Reggio Emilia dove lavora in qualità di addetta alle vendite in un grande store. Da sempre fantasiosa e creativa, fin da piccola si dilettava a scrivere fiabe e racconti per bambini, mantenendo questa attitudine e trasformandola, in età adulta, in una produzione di novelle e poesie spesso a sfondo comico, che però - per timidezza - non ha finora mai pubblicato né presentato a concorsi letterari. Spronata da amici e parenti, solo quest’anno, ha deciso di presentare una sua poesia dialettale al concorso “La Giarèda” di Reggio Emilia, dove si è aggiudicata il secondo premio. Da questo esordio, ha tratto coraggio ed entusiasmo per proseguire in questa affascinante avventura letteraria. Nei suoi racconti, che presentano note talvolta comiche e altre volte romantiche, i personaggi sono sempre tratti dalla vita reale dalla quale riportano detti, proverbi e motti popolari e sono altresì perfettamente integrati in un ambiente naturale dal quale percepiscono semplicità e sentimenti buoni. Alvaro! Razza di un sandrone hai visto? E io che ti dicevo: Vai piano in automobile che ti danno la multa! Ma tu niente... E la multa è arrivata! Ma che sandrone, ma che sandrone! Stasera io e te facciamo i conti! 62
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Uno splendore di ragazza (Vecchie superstizioni e moderne allucinazioni) di Giancarlo Sacchetti
Molti anni fa, quando ero bambino, mi facevano impressione i discorsi dei grandi su certi fatti strani che sembravano il frutto di superstizioni nate dalla propensione dei contadini a credere nel soprannaturale, relegando in quella dimensione fantastica eventi forse non del tutto ordinari, ma che in seguito ho interpretato come frutto di una scelta consapevole, funzionale al bisogno di alleviare con l’immaginario una vita grama fatta solo di fatiche. A questo proposito mi viene in mente l’usanza di lasciare sulla tavola una scodella di latte zuccherato in una certa notte di gennaio per alleviare le sofferenze di una mia lontana cugina morta di febbre tifoide anni prima. Oppure la storiella della vecchia girovaga che aveva gettato il malocchio su una famiglia, col risultato che le galline facevano le uova senza il tuorlo. Cose così. Tutto questo è riaffiorato prepotentemente, come una macchia d’olio sul pelo dell’acqua, parecchio tempo fa di ritorno da Expo 2015. Abitando a Guastalla, scelgo di fare la Paullese che da Casalmaggiore mi porta direttamente a casa. Ed è proprio nel tratto Cremona - Casalmaggiore che mi accade l’impensabile. È incredibile come ancora oggi la stessa scena mi scorra nella mente con forza immutata, come in un infinito rewind, a tre anni di distanza. Solo di una cosa sono certo: che alle 23,15 di quel giorno prefestivo avevo creduto di dovermi assumere la responsabilità della morte di una giovane donna; nitidi fla-
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shback tenacemente aggrappati alle mie connessioni neuronali. Ero sceso dall’auto con lo sguardo fisso negli occhi di quella ragazza apparsa all’improvviso al centro della mia corsia che, tranquilla come se la cosa non la riguardasse, mi dona un sorriso che le illumina lo sguardo di una luce speciale, abbagliante come il riverbero del sole dopo un’eclisse, stordente come il profumo di un’orchidea: un vero splendore! “Ti sei fatta male?” le chiedo, riprendendomi dallo stupore. “Sto bene, scusami: ho attraversato senza riflettere” mi risponde dispiaciuta. “Posso fare qualcosa per te?” mi viene da dire d’istinto. “Dove sei diretto?” mi domanda, accostandosi con un approccio inaspettatamente confidenziale che mi provoca un lieve turbamento. “Vado verso casa… a Guastalla”. Intuendo il suo disorientamento, le spiego che è nel reggiano. “Mi dai un passaggio?” Ricordo di essere ripartito incanalandomi nel traffico crescente del sabato sera con sciami di ragazzi che sarebbero rientrati dopo una notte in discoteca consumata tra grida di gioia, amori nati e consumati sul momento, qualche tirata di sostanze più o meno nocive e musica sparata a mille. “Mi chiamo Vanessa, e tu?” mi chiede giocherellando distrattamente con un piccolo monile appeso al braccialetto. “Giancarlo… scusa, ma prima, com’è che ti trovavi lì che non ho visto auto ferme: ci sei arrivata a piedi?” le avevo chiesto ancora scosso. E lei, lo ricordo perfettamente, mi disse di aver chiesto un passaggio a un automobilista che l’aveva poi scaricata nei paraggi; si spostava così perché aveva l’auto incasinata per un incidente che le era capitato di recente. Di lei rammento il gesto ripetuto di passarsi una mano tra i capelli, che avevano la consistenza e i riflessi di una matassa di fili d’oro, che le lasciavano scoperta una piccola porzione della nuca, diafana come alabastro. In certi momenti mi sembrava traslata in un universo popo-
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lato solo dai suoi insondabili pensieri, fisicamente incorporea come un’entità divina. Ricordo come fosse adesso che mi aveva chiesto se ero sposato con un tono neu-tro esente da emozioni. E quando le avevo parlato di mio figlio e della nipotina, lo ricordo bene, disse d’invidiarmi con un’intonazione auto commiserante che sembrava denunciare una speculare solitudine. Mi disse anche che le sarebbe piaciuto conoscere la mia famiglia fissandomi con quel suo sguardo particolare che, per quanti sforzi facessi, m’imponeva un dominio mentale a cui non riuscivo a sottrarmi. Vanessa era di un fascino seducente e misterioso: un connubio di sesso e innocenza davvero inquietante. Mi accorgo che dalla narice le scende una goccia di sangue e le offro il mio fazzoletto con bordo azzurro che lei accetta, ringraziandomi, mentre preme sul naso con la testa reclinata all’indietro: mi appare fragile come lo stelo di un giglio sul punto di spezzarsi. Interrompe il flusso dei miei pensieri chiedendomi se posso prestarle il cellulare che il suo se l’era dimenticato da qualche parte: digita sulla tastiera senza conseguenze. Ricordo ancora quella strana sensazione di vissuto in una dimensione anomala, ma non definibile in alcun modo: ne avverto tuttora il disagio. Sfioravo quella ragazza che mi stava lì accanto, eppure era come se tra di noi ci fosse stato, trasparente come un soffio, eppure impenetrabile, un velo che m’impediva di interferire col suo essere. Dopo alcuni chilometri mi vedo costretto ad accodarmi a una lunga colonna di auto ferme sulla carreggiata, illuminate a tratti dall’intermittenza dei lividi bagliori dei mezzi di soccorso stradale. Proprio lì mi dice di essere arrivata. Scatta in me l’impulso di trattenerla e abbracciarla per l’idea di solitudine che mi restituisce: le chiedo invece che posto è quello. Senza rispondermi si avvicina sfiorandomi il viso col palmo
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delle mani, lieve come la carezza di un angelo, e mi dona un bacio che ha il sapore di un addio. Con un sussurro che sembra una preghiera, lo rammento ancora con infinita tenerezza, mi chiede di pensarla qualche volta mentre già si appresta a scendere dall’auto. Nemmeno il tempo di riprendermi che già si era incamminata, confondendosi tra colonne di auto fuse nel fosco grigiore di quella notte autunnale avvolta nel freddo sudario di nebbia che stava calando su tutta la zona. Sconcertato, mi chiedo perché avesse deciso di scendere in quel posto squallido dove non c’erano abitazioni né, tantomeno, locali notturni in cui fare le ore piccole: solo auto ferme con i motori al minimo che scaricano gas combusti frammisti alla plumbea bruma. Decido di raggiungerla per capire che significato potesse avere per lei quella meta raggiunta, facendomi largo tra una folla di automobilisti intenti a commentare l’accaduto accennando al fatto che c’era scappato il morto. “Brutto incidente” mi conferma stancamente un tizio che, stressato dell’attesa, sta rientrando nella sua auto informandomi che la vittima era una ragazza molto giovane. Seguendo il riverbero rossastro delle torce sparse sull’asfalto, giungo sul limitare dell’area oltre la quale ferve il lavoro dei soccorritori affaccendati attorno a una Punto semidistrutta dall’evidenza di ripetuti cappottamenti i cui segni sono ben visibili sull’asfalto con lunghe strisciate del colore dell’auto: non vedo altri mezzi coinvolti. La prima cosa che noto sono le parti di un cellulare sparse attorno ai rottami dell’auto: una batteria, la tastiera e il display, più alcuni pezzi dell’involucro. Una disgrazia recente, come poi mi conferma uno di quelli arrivati a botta fresca che aveva allertato il 118 mezz’ora prima; ipotizza la solita disattenzione di quelli che telefonano mentre vanno a cento all’ora. Mi dice di essere rimasto impressionato dalla bellezza intatta di quella giovane donna morta sul colpo: non un graffio. Preda di un’angoscia crescente, attratto dalla forza di gravità
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di un incontrastabile vortice emozionale, riesco alla fine a posizionarmi in modo da avere una visuale piena dell’abitacolo e a scorgere il volto della conducente, accasciato sull’airbag sfatto del volante, che sembra fissarmi con uno sguardo riconoscente. Era quello di Vanessa! Avverto ancora intatto lo stesso raccapriccio di allora. Impossibile! “Come può essere lei se fino a pochi istanti prima stava con me?” m’interrogo disorientato. Senza rendermene pienamente conto guardo l’orologio: le 23,15. Le 23,15? Impossibile! La osservo di nuovo incredulo, negando a me stesso persino l’idea che fosse la stessa ragazza cui avevo dato un passaggio, di nuovo interrogandomi sulla natura di quel mistero. La suggestione indotta da quell’esperienza così straordinariamen-te insolita è a tal punto forte da indurmi il disorientamento tipico degli ubriachi in stato di alterazione mentale. Ogni pensiero mi porta a dubitare del mio raziocinio. In pieno tormento introspettivo registro infine un particolare che, di fatto, attesta l’identità di quella ragazza ancora bellissima che sembrava voler sconfiggere la morte con una grazia ancora intatta. Solo una minuscola goccia di sangue scesa dal naso imbratta quel tragico scenario di morte. Sbalordito, noto che la sua mano, abbandonata inerme a lato del sedile, trattiene il mio fazzoletto bianco orlato d’azzurro. È troppo! Come può essere? Impossibile, mi dico rifiutando la visione dei miei occhi. Del tutto sconcertato, assisto all’intervento dei soccorritori che con l’ausilio di un grande telo bianco occultano lo scempio, mettendolo al riparo dalla curiosità dei tanti sguardi irriverenti che gravitano sul corpo inanimato di Vanessa. Incredulo dell’accaduto, rassegnato, ero poi ritornato alla mia auto abbandonandomi sul sedile vinto da un’emozione che montava come un’onda, oppresso dalla mole soverchiante di quesiti ai quali, razionalmente, non riuscivo a dare risposta.
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Rammento chiaramente che a un certo momento la mia attenzione è stata attratta dal bagliore riflesso del ciondolo di Vanessa, abbandonato nel piccolo vano portaoggetti sotto la leva del freno a mano. Mi abbasso incredulo e in quel momento ho notato una macchia scura sul sedile accanto al mio: quella di una piccola goccia di sangue. Guardo di nuovo l’orologio: segna le 23,19. Il tempo, come il traffico, aveva ripreso a scorrere.
Giancarlo Sacchetti, 1948, Guastalla (RE). Scrive storie di preferenza giallo-noir il cui contenuto ha richiamato l’attenzione della prestigiosa Accademia degli Artisti di Napoli con l’assegnazione di un premio agli Holmes Awards 2016. Per l’autore il tempo dedicato alla scrittura assume una valenza marcatamente giocosa per la particolare complicità che s’instaura con i suoi amici immaginari, protagonisti di avventure del tutto fittizie, sebbene non prive di una loro plausibilità.
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1904. Storie di Teo di Mauro Lasagna
Andai a prendere Oriele alle prove, Natale si stava avvicinando e pure il concerto. Lei suonava il clarinetto. “Ciao, com’è andata?” le chiesi. “Vuoi sapere come sono andate le prove o quante proposte ho ricevuto da altrettanti aspiranti corteggiatori?” e rideva. “Ma tu ce l’hai un fidanzato che sposerai, non vorrai che la gente parli male di te, spero?”. “Ma insomma, smettila con queste mezze scenate di gelosia, lo so che ti dà fastidio, ma non vorrai chiudermi in una stanza murata! Solo ti volevo rendere partecipe delle mie cose!” e divenne seria. “Scusa occhioni, è vero mi dimenticavo che ai tati si dice tutto!”. “Così va bene, allora…”. Mentre stavamo tornando a casa, lei parlava e io alzavo gli occhi al cielo tante volte, contai 10 aironi e 30 o 40 corvi e anche delle anatre ritardatarie e pure le prime gocce che mi cadevano sul naso. Arrivammo che non aveva ancora finito. La pioggia cominciava a darmi fastidio, immaginiamoci l’accoglienza che ricevetti da una certa Giulia, moglie di un certo Cicetti. “Spirlungone te ne vai a zonzo sotto la pioggia così come se fosse piena estate? Domani si ammazza il maiale e non c’è niente di pronto!”. “Come niente di pronto! È tutto predisposto già da stamattina”. “Ah sì! E i tavoli dove sono?”. “Piove, come vuoi che si scaldi l’acqua se si spegne il fuoco e poi…”. “Calmati Giulia, fammi scendere e poi ti spiego” risposi. “Dov’è il paiolo per i ciccioli?”. “E che ne so”. “Vedi che non è pronto niente, devo venire io da Suzzara per dirti che cosa devi fare? Sarai anche alto, ma ti manca il resto!”. “Giulia…”. “Che c’è?”. “Non mi abbracci, è tanto che non ti vedo” mi volò direttamente in braccio sulla biroccina, sotto la pioggia. “Ciao Oriele, ha fatto il bravo oggi pomeriggio?”. “È
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geloso! Non vuole che abbia corteggiatori”. Prima di scendere Giulia mi sbaciucchiò e poi diede la mano ad Oriele. “Vieni entriamo in casa che mi racconti”. Trovai mio fratello Alfredo sulla porta. “Hai fatto il prelievo?”. “Sì” e gli porsi i soldi da mettere in cassaforte, l’indomani avrebbero consegnato il legname per riparare il fienile che era stato bruciato mentre erano nella corte gli altri affittuari. “Speriamo che questo tempaccio non duri ancora molto, dovremmo seminare: di segale ne mettiamo sei biolche, di frumento invece una quarantina, non voglio sacrificare più del necessario l’erba medica e il mais. Dobbiamo puntare sull’allevamento, il formaggio duro si vende bene. Il Signore del Vò mi ha detto a quante lire ha venduto la partita, roba da capogiro. Per adesso spendiamo, ma nel giro di un paio d’anni dovremmo risistemare le finanze”. “Speriamo Alfredo, lo sai che nei campi chi decide è sempre il tempo e, come se non bastasse, i lavori della bonifica vanno a rilento, continuano a scioperare e il bello è che sembra che a nessuno importi nulla. Il risultato è che gli scariolanti fanno la fame e le maestranze se ne stanno al caldo nei loro uffici, gli scavi si riempiono d’acqua e, fin quando non si asciugano, non è possibile lavorare ancora. Hanno le pompe ma una ogni 10 km, solo per trasportarla da un punto all’altro occorrono tre giorni”. “Chissà se mai un giorno lontano le opere di pubblica utilità verranno eseguite nei tempi prestabiliti. Mi sa che noi due non faremo in tempo a vedere”. “Ma allora siete ancora qui a giocare a fare i grandi?” entrava la furia. “Sì Giulia, almeno noi lo siamo, anche solo per finta” risposi. “Brutto villanaccio di un contadino spilungone” era infuriata. “Per penitenza dormi con Dama, la tua cagna” e si riunì alle altre. “Ce l’ho fatta, l’ho cacciato e mi ha anche offeso, ma chi si crede di essere, il Re?” Antonellina mi venne vicino e mi sussurrò che avrebbe scaldato un altro letto. “Grazie bimbina, tu sì che mi vuoi bene. Spero che le serpi si annodino nel sonno” e a mia volta me la ridevo sedendomi. Comparve Matteo, il nostro prete, con la sua ombra Fedele che si era stabilito nel nostro piccolo borgo dopo aver abbandonato gli studi da seminarista. Quando Matteo vide Giulia, le chie-
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se: “Tu sei Giulia, vero? Hai già lasciato tuo marito?”. “No, è andato a Verona per lavoro, lui almeno lavora!” e mi lanciò un’occhiataccia. “In casa dei miei non c’è più il mio letto per cui dormo con Oriele e Mercede”. “Giulia, non ti ho mai confessato, perché non vieni domani?”. “Impossibile! Domani c’è lavoro per tutti, il primo maiale viene fatto su”. “Ma allora si mangia domani sera!”. “Solo il sanguinaccio e al massimo qualche osso, poca roba” dissi. “Li adoro, vero Fedele?”. “Oh certo, ne facciamo una scorpacciata mattino, mezzogiorno e sera” e rise. Fedele mi guardò e mi chiese: “Domani se piove non lavoro al cantiere, posso venire ad aiutarvi?”. “Penso non ci siano problemi, ma fa solo ciò che ti ordina il norcino”. “Qualcosa so fare certo, ma mi atterrò ai suoi ordini”. Non era ancora tardi che ci ritirammo. Io pensavo al mio lettone con amarezza ma perlomeno non avevo nessuno a disturbarmi. Ero nella camera che dà sul cortile, pioveva, mi lasciai cullare dal gocciolare dei tetti. Mi addormentai in pace come il Principe di Condé: tutto era predisposto per la battaglia dell’indomani. “Ma insomma, smetti di russare come un maiale? - disse sussurrando - E fai un po’ di coccole alla mia farfallina?”. “Che?” esclama di soprassalto. “Ah già, Giulia, il dovere è il dovere e io le voglio tanto bene” […] Così come arrivò, scomparve, senza neanche augurarmi la buonanotte. Mercede mi svegliò: “Dai alzati che sono arrivati i norcini”. “Vengo, ma che ore sono?”. “Saranno le 7 più o meno” e scese le scale. Poco dopo la raggiunsi, Ulisse il norcino e i suoi due figli stavano prendendo il caffè con Alfredo: “Teo, Ulisse lo conosci! Ti presento i suoi due figli, Marco e Adalgisa”. “Buongiorno, scusate sono un po’ assonnato, ho avuto degli incubi che non mi hanno lasciato in pace stanotte” e mi sedetti. Marco, calmo, determinato, una copia giovane del padre, mi sembrava una persona a posto. La figlia, Adalgisa, invece aveva un non so che di selvatico. Calma nelle movenze pareva una tigre addomesticata che alla prima occasione poteva uccidere. Parlava poco, si limitava ad assentire. Quando si intravide un po’ di chiarore si iniziò. Prima che mi svegliassi, avevano già acceso i fuochi sotto la rimessa. La pioggia era costante, senza ven-
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to. Quando il paiolo cominciò a levare il bollore, la prima bestia venne separata dalle altre e tirata fuori con l’aiuto di un uncino. Adalgisa ne era avvezza ma le ragazze si ritirarono in casa, in attesa, i versi erano strazianti. Le tole per raccogliere il sangue, come pure la capra per issare in alto il maiale, erano pronte. Di sangue non ne andò persa neanche una goccia; Ulisse era preciso e si capiva subito che con la sua esperienza riusciva a dare all’animale il meno dolore possibile. Una volta pronto, rimesso giù, cominciò il lavoro di raspa e acqua bollente per togliere le setole, levati gli unghioni, poi di nuovo issato per l’evisceramento. Allora ricomparvero le donne. Reni, polmoni, cuore, fegato, stomaco, milza, intestino, testa e zampette vennero consegnati loro. Adalgisa prese gli intestini e andò con una carretta a svuotarli sulla concimaia. Sarebbero stati lavati, una volta tagliati in pezzi, con acqua tiepida e aceto. Non sarebbero bastati solo quelli del maiale, per cui Ulisse ne aveva portati di già pronti sotto sale; i gentili, ottenuti solo dalle scrofe, sono più grossi e resistenti, il salame risulta voluminoso e riesce meglio a superare la stagione calda, per non parlare della fetta. Finalmente le mezzene vennero portate sul banco e iniziò lo spoglio vero e proprio della carcassa. Venne deciso il numero dei capi grossi: coppa, culatello, il numero dei dritti da consumare presto, il tipo di concia, la quantità di grasso nei salami e la macinatura fine o grossolana. Ulisse annotava tutto e annuiva. Giulia spellava l’aglio, Oriele e Mercede, sotto la guida di Adalgisa, cominciavano a cucire i budelli e intanto facevano una tal gazzarra che Ulisse le richiamò più volte al silenzio. Tanto per cambiare ridevano di me e raccontavano cose vecchie e nuove, ogni tanto parlavano sottovoce ad Adalgisa che ascoltava. Prima di mezzogiorno arrivò il convoglio con il legname. Imponenti tiri di cavalli trainavano carri doppi con le travi. Due ore dopo era già tutto a terra e, dopo aver controllato il numero e la lunghezza del legname, pagammo il conducente capo che ci rilasciò una ricevuta. Al pagamento era presente Elena, la madre di Giulia, che volle per precauzione visionare il documento di identità del capo e di due suoi sottoposti annotando tutto
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minuziosamente sul registro. Ripresero il loro cammino e tornai nella stanza dei norcini. “…Ti ripeto che il pepe guasta i salumi, ce ne vuole poco, se vuoi aggiungi aglio!”. Era Amedeo, il nostro gastaldo, che voleva evitare alle sue emorroidi inutili tormenti. Ulisse paziente: “Amedeo la concia la decidono i padroni”. “Te non capisci gnente come loro! Ma che ci sto a fare qui, a perdere del tempo? Ma guarda che se voglio mangiare del salame buono me lo devo andare a comprare alla locanda!” e sbuffava. “Medeo, - dissi - ma tu hai mai incontrato nessuno che capisse qualcosa?”. “Giraffone, tu capisci qualcosa un anno sì e un anno no, ma siccome hai usato la testa per cinque anni di seguito adesso ne dovrai passare cinque nell’oscurità. Dimmi, com’è che è tanto che non si muove gnente? Un tempo il letto ballava e adesso finalmente si dorme in pace”. “Appunto, tu dormi e non senti”. “Al Monda non scappa gnente e ti dico che da tanto tempo non…” si interruppe di colpo. Antonellina e Angela, sua moglie, stavano portando qualcosa da mangiare per tutti: polenta abbrustolita con fettine di lardo fresco condito con l’aglio e il sale. Non c’erano seggiole per tutti ma così, in piedi, era uguale, avevo fame, ma non come Alfredo che mangiò con buon appetito e tornò ad essere in pace col mondo. Mi venne vicino Adalgisa e mi chiese se poteva parlarmi in privato. Ebbi l’impressione che le ragazze stessero ascoltando ma non lo davano a vedere “Sì Adalgisa, ma dove?”. “Giulia mi ha detto che il paiolo per i ciccioli è in granaio, andiamo a prenderlo?”. “Sì”. Uscimmo da casa di Medeo ed entrammo nella nostra. Nel salire le scale, sottovoce, mi spiegava che aveva diciannove anni, aveva avuto un fidanzato, ma si era arruolato nell’esercito e non l’aveva più visto. “…che tu ci creda o no, Teo, noi donne ne sentiamo il bisogno come vuoi uomini. E io ne ho voglia e tanta! Ma non voglio sposarmi e fare la fine di mia madre, sono nata libera e libera resto”. Non capivo dove voleva andare a parare. “Le ragazze mi hanno detto che tu sei una persona discreta, fai l’amore con loro da parecchio tempo e non hai mai avuto, diciamo, inciampi. Hai capito?”. “Adesso credo di sì, ma tu te la senti?”. “Sono venuta qui apposta” quasi supplica-
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va. Le diedi la mano “Allora vieni…” e la condussi in camera mia. […] Tornammo dopo allo scopo iniziale, il paiolo con la fornacella di ferro. Prima di rientrare nella stanza dei norcini mi sussurrò un grazie e mi chiese se lo volevo fare di nuovo. “Non ti avrei mai chiesto una cosa del genere Teo, non ti conosco neppure, sono state le ragazze che mi hanno incoraggiata”. “Certo Adalgisa” e risi. “A prenderne dove ce n’è e a metterlo dove manca non si sbaglia mai, grazie a te”. Sorrideva quando tornò al lavoro. Giulia mi si avvicinò parlando piano: “L’hai trovato il paiolo per i ciccioli?”. “Sì, era proprio dove dicevi tu”. “Lo so, senza di me saresti orfano ma guarda che stanotte torniamo a trovarti io e la farfallina, l’hai usato tutto con Adalgisa o ne è rimasto un pochino per noi due?” e mi guardò dal basso. “Giulia ero un granatiere di Sardegna, il pericolo è il mio pane”. Cominciò ad urlare: “Brutto spirlungone ti ho fatto una domanda seria e tu mi prendi in giro e mi guardi anche dall’alto per farmi capire che sono piccola, maleducato!”. “Ma Giulia, stai calma”. “E cosa vuoi che mi calmi, ha ragione la Tonina, dice che sei un frocio, comincio a pensarlo anch’io sai! Continua così e ti sposerai il giorno del mai più”. Mi salvò Fedele mentre stavo guardando le travi, nessuno faceva caso allo strano comportamento di Giulia, continuavano tranquilli il loro lavoro. “Scusate se è tardi, ma in chiesa c’era da fare un funerale, pensate aveva quasi 100 anni la vecchia Desolina, il figlio diceva che aveva visto Napoleone da bambina e se ne era innamorata, ancora ieri l’altro si pettinava e si metteva il profumo che se fosse arrivato Bonaparte voleva farsi trovare in ordine!” e rideva. “Chi sei ragazzo?” gli chiese Ulisse. “Sono Fedele Grossi, ero seminarista e ora sono tutto e niente”. “Bene, vieni con me, andiamo ad ammazzare il secondo maiale, Teo l’acqua bolle?”. “Credo di sì Ulisse, Tognino è addetto al fuoco”. “Allora andiamo, desolino, che ne impari un’altra di quelle che non sai, ma bada di fare ciò che ti dico o ti do delle sberle!”. “Obbedisco Generale, se sono bravo e mi piace, mi porti con te a fare il norcino ancora?”. “Parole ne hai tante, ma sono i fatti che contano!”. “Allora andiamo”. Le ossa spolpate con un po’ di carne attaccata erano
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già state messe a bollire da Antonella e Angela. La polpa era pronta per essere insaccata. Adalgisa stava tagliando le cotiche e Mercede azionava una specie di pompa a vite, il figlio di Ulisse infilava i budelli nel beccuccio e con maestria li riempiva. Oriele e Giulia legavano i salami due a due e li poggiavano sulle pertiche, ma dato che ero alto lo facevo io. “Giulia, se fai un saltello magari ci riesci anche tu”. Cosa non le venne fuori di bocca, tutti ridevano, poi si mise a ridere pure lei. “Una mamma sa sempre quando il suo bimbo scherza” e mi sculacciò davvero. Medeo rientrò fradicio: “O porco d’un mondo, l’ho presa tutta! Cosa mi è saltato in mente di andare a vedere i braccianti addetti alle scoline, ma del resto, se non ci vai quando piove, non vedi gnente. Vhé, domani, se siete d’accordo, i ciccioli li faccio io. I reni e la milza li avete tenuti vero?”. “Sì Medeo, sono qui, ma cosa ne fai?” gli chiesi. “Si vede che voi non avete fatto la fame come me. Tagliati a pezzi e cotti con i ciccioli legati con uno spago per non perderli, si mangiano subito con un pizzico di sale, però stasera bisogna tagliarli e coprirli di sale grosso”. Alla sera arrivarono come le cavallette e come le cavallette divorarono tutto. Dama aveva una tola piena di ossa da rosicchiare, ne avrebbe avuto per i prossimi sei mesi. Il sanguinaccio preparato con il sangue, le uova e il formaggio era ottimo con la polenta e anche il fegato con le cipolle. Ci ritirammo presto e i norcini restarono a dormire. Essendo stato impegnato tutta la mattina, tornato da Pegognaga verso l’una, solo nel primo pomeriggio entrai nella camera dove stavano lavorando. “Ciao Teo” era Fedele che stava dando la concia alla carne. “Ciao Fedele, ma Ulisse… lasci un lavoro così delicato ad un principiante?”. “Principiante! Ne sa più di me, che mi venga un fulmine! Dice che ha imparato nelle cucine dei preti, loro sì che si trattano bene, l’unica differenza è che i maiali glieli regalano, non si prendono neanche il disturbo di crescerli, troppa fatica” e rideva. “Fedele! - dissi guardandolo - Sei un uomo dalle infinite risorse”. Fedele rispose: “Mio padre faceva il norcino d’inverno, mi obbligava a seguirlo, poi la cosa mi è tornata utile in seminario, l’addetto alla norcineria preferiva seguire il lavoro seduto con una botti-
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glia di prosecco davanti; io lo facevo volentieri meglio di tre messe giornaliere, una basta, no?”. “Già, hai ragione, avrei fatto uguale”. Adalgisa mi venne vicino e parlando piano mi chiese se potevo accompagnarla a vedere se Medeo eseguiva il lavoro come si doveva. “Andiamo, sono appena stato da lui, non vorrei prendere altre parolacce, ne ho prese fin troppe!” Adalgisa sorrise: “No, con me si tratterrà, ne sono sicura, vieni” e si avviò fuori dalla porta. Io la seguì. Medeo fece finta di non vedere che invece che da lui ci dirigevamo verso la stalla e il fienile. Di lì a poco sarebbero tornati i lavoratori dai campi. Un po’ freddino sul fieno, ma la prospettiva era buona. “Lo faresti ancora” mi chiese Adalgisa. “Certo, ma prima spiegami ciò che hai voluto dire ieri riguardo a tua madre, se hai un segreto, di cui non ne hai mai parlato con nessuno, dirlo non può farti altro che bene”. Cominciò piano a singhiozzare. La lasciai fare. “Mia madre si chiamava Silvia, era una donna libera, credeva in Dio, ma rifiutava le imposizioni della società e della Chiesa stessa. Tutti credevano che fosse pazza o comunque stramba. Mio padre la conobbe ad una riunione segreta di sovversivi, ma in realtà essi lottavano per una società migliore, più uguaglianza e parità di diritti tra uomini e donne. Silvia era figlia di gente agiata, mio padre un manovale che per sei mesi all’anno non lavorava. Quando i miei nonni seppero chi voleva sposare si opposero. Scapparono insieme e per vivere lei dava lezioni private e mio padre lavorava dove poteva e quando poteva. Avevano le stesse idee, diciamo politiche, e ciò non faceva altro che rafforzare la loro unione. Ulisse, mio padre, fu uno degli imputati nel famoso processo di Venezia, per La Boje. Conobbe in quel frangente Enrico Ferri, che lo prese in simpatia e gli offrì, dopo l’assoluzione con formula piena, di venire a stabilirsi qui a San Benedetto Po, nella casa dove abitiamo. La mamma non era soddisfatta e, nonostante fossimo nati noi due, non smise mai di avere contatti con elementi tenuti d’occhio dai tutori dell’Ordine. I suoi erano rapporti solo epistolari, ma la arrestarono ugualmente. Accadde dieci anni fa, non ne abbiamo saputo più niente per cinque mesi. Quando tornò non parlava più, era
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invecchiata e morì perdendo un bambino che portava in grembo. Nei cinque mesi che era stata via doveva averne sopportate tante, forse per lei la morte fu una liberazione. Forse! Non voglio fare la sua fine Teo, ma dentro di me sento di somigliarle molto. Mio padre si raccomanda sempre di accettare il mio destino ma di stare attenta. Quando incontro certi vecchi bavosi, che mi offrono una lira per andare a letto con loro, li ucciderei. Io voglio giacere solo con chi mi piace e mi rispetta. Quando avverrà che le donne potranno far valere i loro diritti come gli uomini? Cambierà o saremo sempre schiave come lo siamo state in passato? Leggevo le lettere che mia madre conservava piena di speranza, di idee chiare, ma che purtroppo sono rimaste inchiostro su carta. Chi ha ucciso mia madre? Chi le ha fatto violenza? Perché?”. Aveva due lacrimoni enormi che la facevano sembrare ancora bambina, la tirai verso di me e la coccolai. Quando si fu calmata, le parlai piano. “Adalgisa, lasciamo stare la mamma, ora riposa ed è in pace. Non sprecare inutili energie nel voler sapere cose che forse è meglio che tu non sappia. Cosa credi? Che io non condivida con te le tue idee? Ma la società è fondata su idee che esulano il volere del singolo”. “Ma allora non cambierà mai niente! Teo, tu dici di abbracciare queste idee di libertà e di uguaglianza ma non fai nulla per cambiare…”. “Ah no? Hai trovato qualcuno lamentarsi di come ci comportiamo io e Alfredo qui all’Aldegata? Qui tutti hanno gli stessi diritti. Oriele, Mercede e Giulia che cosa ti hanno detto?”. “Che fai l’amore con ma…”. “Hai mai trovato una cosa del genere da qualche altra parte?”. “No”. “Non è solo il fatto di dormire, Adalgisa, è il modo in cui sono trattate che a loro piace. Angela, la moglie di Medeo, parla male di me?”. “No, anzi, dice che sei cresciuto troppo, ma ti vuole bene!”. “Allora vedi! Nel nostro piccolo agiamo, non sono solo parole! Adalgisa, la mamma non c’è più, non ripetere gli stessi errori e, anche se abbracci le sue idee, non rivelarle a nessuno...” Da sotto al fienile: “Ho promesso ad una certa persona che avrei cercato la figlia…” parlava ad alta voce Medeo. “Che sia andata al cesso? Qui non c’è! O che sia andata accompagnata dal padrone
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a vedere come si fa il formaggio? In entrambi i casi il padrone stesso dovrà pagare il mio silenzio con un po’ di pesto senza pepe!” e rideva aggirandosi attorno al fienile per fare la guardia. Poi riprese “E sì, in questo momento non c’è nessuno in giro, che sia il momento adatto?”. “Andiamo?” le chiesi. “Sì, aspetta” e mi diede un lungo bacio. Giù dalla scala, poi in caseificio. “Claudio, Carlo, vi presento la vostra nuova collaboratrice…”. Claudio, che mi conosceva, fece finta di nulla e sorrise, ma Carlo rimase di stucco. “Beh, Carlo, non la vuoi conoscere?”. “Certo, Teo, signorina io sono Carlo”. “Io sono Adalgisa, la figlia di Ulisse, il norcino” rispose. “Ti ho vista in giro, ma aiuti tuo padre a far su?”. “Da quando sono alta così” e rise. “Teo, ma davvero lei ci aiuterà?” disse rivolto a me. “E no, caro il mio pollo, non vi aiuterà, con gli occhi dolci che le stai facendo guasteresti tutto il formaggio. A proposito, una strisciolina di tosone per Adalgisa?”. “Sì certo, lo prendo, ce n’è poco, posso rivederti? Se ti fa piacere, intendo” e la guardò speranzoso. “Mi sa di sì, se porti il tosone, ti rivedrei ancor più volentieri” e rise. Era ora di andare e appena fuori dalla porta incontrammo Ulisse. “Ma allora dove ti eri cacciata, vorrei finire e andare a dormire nel mio letto stasera!”. “Scusa papà, non avevo mai visto fare il formaggio e mi hanno spiegato come si fa” e sorrise. “Ti perdono perché hai il sorriso di tua madre. Teo, ma lo sai che quel rompiscatole di Fedele è proprio bravo! Mi sa che me lo tiro dietro ancora, non tace mai ma è una persona precisa e non bestemmia, odio chi lo fa”. “Ci puoi giurare, in seminario non lo ha imparato di certo!”. Intanto le ragazze si erano riunite e sghignazzavano ascoltando il resoconto di Adalgisa. Le donne! Valle a capire. Epilogo: Adalgisa e Carlo si sposarono sei mesi dopo e il primo figlio lo chiamarono Teodoro. Per quel che mi riguarda capitolai quattro anni dopo. L’idea venne al nostro strambo prete, Matteo per intenderci, che mi sistemò con la sua bellissima nipote Carolina togliendomi da una vita dissoluta, diceva lui, ed evitando l’im-
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barazzo alla sua famiglia: Carolina avrebbe voluto frequentare l’università e diventare medico. Cosa che anni dopo fece… ma questa è un’altra storia. Teodoro Bottoli. N. d. A. La grande bonifica entrò in funzione nel 1907. Cambiò letteralmente il volto della Bassa. Più terre arabili, più produzione, più lavoro e non ultimo più salute (fine del flagello della malaria). Ma il rovescio della medaglia era che, dato che la terra rendeva di più, i proprietari aumentavano gli affitti e gli affittuari dovevano poi rivalersi sui lavoratori. Era venuto a mancare un equilibrio che sfociò nelle lotte di categoria e nella formazione delle prime leghe contadine che al contrario de La Boje erano organizzate. Proprio nel basso mantovano iniziarono e si diffusero a macchia d’olio.
Mauro Lasagna, nato a San Benedetto Po (MN) nel 1958, nella casa dove tuttora abita. Già nel periodo scolastico ha cominciato a leggere, da sempre la sua passione. Le sue letture sono cambiate col procedere dell’età e degli studi. Si è diplomato all’Istituto Tecnico Agrario di Palidano (MN), ma ha sempre aiutato in azienda la sua famiglia che produceva e produce latte per il Parmigiano Reggiano. Finito il servizio militare, si è sposato nell’83. Ha due figli. Nel 2013 la svolta: si è separato per motivi noti solo alla sua ex moglie. Ha trovato asilo in un appartamento nella casa di sua sorella Claudia e suo marito. È stato un brutto periodo, ma è da allora che scrive, prima solo brevi racconti e poi Storie di Teo, di cui ha inviato uno scorcio. Chi lo ha incoraggiato è stata proprio Claudia circondandolo del suo affetto e di quello della sua famiglia. Scrive esclusivamente a mano, con la radio accesa. Da due anni convive con la sua compagna Vanna, sua implacabile correttrice, nella casa natia. Li aiuta anche Chiara, figlia di Vanna, maestra e arteterapeuta che con la magia dell’informatica rende tutto più facile.
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Profumo di mosto di Luisa Torelli
Le viti e gli olmi, distanziati sul filare almeno sei metri, erano riusciti a dare, per ogni ceppo, fino a quattro aste. Queste erano cresciute con vigore fino a tre metri di altezza e avevano raggiunto l’impalcatura dell’olmo. Là, da ciascuna di esse, si dipartivano le tirelle nel senso del filare e radialmente: insieme ricoprivano, con un decoro sapiente, i campi sottostanti. Qui crescevano altre colture e i tralci, portati a tre metri dal piano, dove la temperatura è più alta di quella al suolo, erano protetti dalle gelate. Le foglie dell’olmo, raccolte in agosto, rappresentavano un ottimo foraggio per le mucche da latte, mentre le fascine e la legna da ardere sarebbero state preziose durante l’inverno gelido. Un giorno, però, per un’avaria al motore, un aereo tedesco era caduto nel podere e l’impatto col suolo aveva provocato una buca enorme. Al suo interno, parecchie munizioni di mitragliatrice stavano accatastate minacciose una sull’altra. Un paio di giorni dopo, i bambini ne avevano portate a casa alcune e le avevano nascoste con cura alla vista degli adulti. Poi, sollecitati da una curiosità incontenibile, inconsapevoli, per gioco avevano cominciato a smontarle. Un proiettile era esploso in mano a uno di loro, lacerandola e, dopo poco, davanti ai suoi occhi una nebbia fitta aveva oscurato una bella giornata di sole. Gli altri, che erano con lui, sopraffatti dalla paura, erano scappati a casa e, dell’accaduto, non avevano fatto parola ad alcuno. Da solo, sanguinante, Amedeo aveva raggiunto la casa più vicina, dove la mamma, che aveva sentito lo scoppio, era arrivata correndo.
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L’aveva guardato e abbracciato, l’aveva sollevato con delicatezza sulle ginocchia e, in attesa che qualcuno passasse per portarlo all’ospedale, pregava. Nel mentre era sopraggiunta un’auto, una rarità a quei tempi. Gli occupanti, visto un assembramento di persone, incuriositi si erano fermati. Scesa per verificare l’accaduto, la brigata nera aveva visto le ferite del piccolo e la disperazione della madre, ma se n’era andata indifferente. Era arrivato anche il padre. Walter, il vicino di casa che era con lui, aveva fatto l’infermiere e, prima di accompagnare il bambino all’ospedale del paese, gli aveva prestato le prime cure. Nel reparto in cui era stato ricoverato, l’anestesia era finita e il medico di turno gli aveva cucito le dita piccoline a mente serena: portate dal vento, le sue urla di dolore erano arrivate, senza fatica, alle case circostanti. Piano piano, era scesa la notte; una notte lunga. Al mattino, il piccolo era stato trasferito all’ospedale cittadino, collocato, in quel tempo infelice, presso le scuole elementari del capoluogo. Dopo aver salito le scale e oltrepassato il portone, si erano accorti di un uomo vestito di nero, che stava lì immobile, sulla soglia, tutto il giorno: seppero, poi, che il suo compito era quello di impedire il ricovero ai partigiani che ne avessero avuto necessità. In oculistica, dove Amedeo era stato condotto successivamente, l’assenza del medico era stata compensata dalla suora presente in reparto che, con professionalità, gli aveva tolto la scheggia dall’occhio funzionante e gli aveva medicato le ferite della mano. Era rimasto lì, completamente bendato, per quattro giorni e, solo il quinto giorno, gli era stata tolta la benda davanti all’occhio sano. La mano sinistra continuava a fargli molto male, le garze si appiccicavano ai fili coi quali gli erano state cucite le dita e, al momento della medicazione, il bambino scappava per sottrarsi a quel dolore insopportabile. Ecco, allora, un infermiere comprensivo che gli porgeva il boccetto dell’acqua ossigenata e lo invitava a fare da solo: era un’illusione che così avrebbe sofferto di meno, ma era bastato a far sì che non fuggisse più.
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In quel periodo erano stati ricoverati altri due bambini, sui loro volti mai nessuno vide un sorriso. Dopo una settimana, era stata ricoverata anche una bambina, era ferita al collo e ad una gamba, era sfuggita miracolosamente all’eccidio nazista della Bettola e, dopo la guarigione e la dimissione dall’ospedale, Amedeo non l’aveva più rivista. Tanti anni dopo, però, aveva trovato sul giornale un articolo che parlava di lei. Aveva chiesto alla redazione l’indirizzo, che permise loro d’incontrarsi di nuovo, dopo 55 anni. Durante questo incontro, emozionante per entrambi, Amedeo aveva mostrato le foto che erano state scattate in ospedale nel 1944 e si era accesa, per loro, quella vecchia amicizia, che la condivisione del dolore aveva reso più forte. Intanto, il ricovero dei feriti continuava, alcuni di loro morirono. Gli aerei sorvolavano l’ospedale e la paura dei bombardamenti era tanta, perché, davanti alla scuola, nascosti tra i pini sostavano i tedeschi coi loro automezzi. Nel frattempo, i grappoli dai chicchi turgidi e le foglie ramate preannunciavano la vendemmia. Come tutti i raccolti, si sarebbe trasformata in una festa, alla quale avrebbero partecipato in tanti, dalla seconda settimana di settembre, senza sconfinare oltre la prima di ottobre, in previsione della semina dei cereali autunnali. Un lavoro lungo, non particolarmente faticoso, che avrebbe permesso alle donne di conversare tra di loro e, nel corso degli anni, di scherzare coi più giovani. Ecco che facevano la loro comparsa le scale ampie, che permettevano di raccogliere l’uva dalle tirelle poste a due - tre metri di altezza, il cestino col gancio di legno legato al manico e una piccola roncola per tagliare i grappoli. Nelle vicinanze, un grande contenitore di legno, posto su di un carro agricolo, raccoglieva il contenuto dei cesti. Scesa la sera, terminati i lavori nei campi e nella stalla, ci si preparava alla pigiatura coi piedi. Il mosto, coi raspi, trovava la collocazione nei tini per la fermentazione, che variava a seconda del vino dolce o secco che si voleva ottenere: a San Martino, comunque, era già nelle botti.
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Le donne di casa trattenevano qualche litro di mosto che, sulla stufa a legna, sobbolliva dolcemente nella pentola assieme alla farina sapientemente setacciata, affinché non si formassero i grumi. Un profumo soave di uva dolce e matura si spandeva nell’aria, mentre il cucchiaio di legno girava in modo preciso, sfiorando appena il fondo e i bordi, per impedire al sugo di attaccarsi. Le scodelle, di forme diverse, aspettavano, in fila, di essere riempite e che si formasse sopra la pellicina lucida che lo ricopriva e lo proteggeva, in attesa di essere gustato: una pausa festosa fra tanta tristezza e privazione. Erano trascorsi ventiquattro giorni dal ricovero. Per tutto quel periodo, Amedeo non aveva mai visto la mamma né il papà e, quel giorno, chiese di poter ritornare a casa. Gli fu concesso, poiché le sue condizioni erano migliorate, anche se l’occhio sinistro era stato compromesso irrimediabilmente e, in parte, lo era anche la mano. Venne a prenderlo il fratello con una bicicletta da donna che, al posto della canna, aveva un’assicella, una soluzione scomoda che riuscì, però, a condurli a casa. A pochi passi il loro cuore cominciò a battere all’impazzata. I tedeschi, fermi lungo la strada, avrebbero potuto fermarli, a causa del fratello in età da militare, ma fortunatamente furono fatti passare. Giunti finalmente a casa, la mamma l’aveva abbracciato e baciato e, insieme, avevano pianto a lungo. La mano guarì, le ferite del cuore no. Erano trascorsi gli anni. Un giorno, Amedeo era ritornato presso le scuole di Rivalta, sede dell’ospedale durante la guerra, e una maestra gentile l’aveva invitato ad entrare. In quell’occasione aveva potuto rivedere la stanza delle medicazioni e quella nella quale era stato ricoverato. Non c’era più il letto nel quale aveva pianto tanto, pensando alla sua casa, ma un ambiente allegro, con tante bandiere, carte geografiche, libri e giocattoli. Terminata la ricreazione, i bambini erano rientrati schiamazzando, felici e inconsapevoli che quella che ora era la loro aula, tanti anni prima fosse stata un luogo di
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dolore per bambini come loro. Amedeo, allora, nutrì in cuor suo la speranza che tutti loro, una volta diventati grandi, avrebbero fatto tutto il possibile affinché la storia non si ripetesse, giacché, come disse qualcuno: “le bombe intelligenti sono solo quelle che tornano indietro!”
Luisa Torelli, nata a Campagnola Emilia (RE) in via Grande il 5 marzo 1954. Vive a Novellara (RE) con il marito e i loro animali. È pensionata, mamma e nonna.
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Un amore perduto nel tempo… di Dina Paola Cosci
Nel 1936 da Pisa ci trasferimmo a Reggio Emilia a causa del lavoro di mio padre. Dopo un breve periodo di assestamento in un appartamento ammobiliato, i miei, con me piccolina, decisero di cercare una sistemazione stabile. Questa fu trovata in due stanze a piano terra in città, via del Portone. I proprietari, i signori Mori, tra l’altro di origini toscane, ci accolsero con piacere, piacere che nel tempo divenne una lunga affettuosa amicizia. Poi ci fu da arredare la nostra casetta e, con le poche risorse a disposizione, i miei si recarono da un vicino rigattiere dove trovarono ciò che occorreva loro: un letto, due comodini, un comò, quattro sedie, un tavolo e un mobile per le stoviglie. Nonostante le nubi minacciose che si addensavano nei cieli d’Italia, la nostra vita prese a scorrere normale e serena. Spesso andavo su dalla signorina Santina, insegnante elementare, a quel tempo credo facesse scuola a Rubiera. Con me trovò terreno fertile, ogni giorno imparavo una cosa nuova. Il signor Domenico, papà della signorina, divenne per me un nonno, buono e paziente. Avevo circa quattro anni quando fui invitata al matrimonio di Giuseppe, figlio minore del signor Mori. Sua sorella Santina per l’occasione compose una poesia dedicata agli sposi e, con encomiabile pazienza, me la fece imparare. A dispetto dei timori di mamma, feci un figurone, generosamente applaudita dai numerosi presenti alla mia prima esperienza mondana. Questo non è che il preambolo ad uno dei tanti ricordi che ho della permanenza in Emilia. Protagonista fu proprio il comò, comperato per la camera di via del Portone. Di noce, solido, line-
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are e vecchio anche se ben tenuto, con tre grandi cassetti. Il rigattiere lo raccomandò vivamente ai miei esaltandone la robustezza, così venne in casa nostra rimanendoci fino a che, passata la guerra, non decidemmo di tornare a Pisa. Pensando di rivenderlo, ormai eravamo al 1945-46, arrivò il momento di vuotarlo. Io, ormai undicenne, aiutai la mamma a togliere i cassetti e a spolverare dove gli stessi scorrevano. Le mie mani piccole incontrarono qualcosa di tenacemente incollato al legno. Faticai non poco per staccarlo e sui piedi mi cadde un pacchettino di carta marrone che mi affrettai a raccogliere, per vederne il contenuto: un libricino d’argento, annerito dal tempo, due centimetri per uno e solamente mezzo centimetro di spessore. Sulla copertina, incisi due cuoricini smaltati di rosso, sotto di essi la scritta Diario. Emozionata, la sollevai, così apparve la prima paginetta con queste parole: Amami per la gioia di amare affinché tu possa seguitare ad amarmi per tutta l’eternità dell’amore… Mamma si commosse e io pure. Volli voltare pagina, sotto un piccolo spazio vuoto all’interno del quale un fogliettino piegato con racchiusa una C di capelli biondi, sulla carta, scritta a matita, questa frase: A giorni il reggimento partirà per il fronte. Aspettami amore, tornerò… M Chi e perché avrà nascosto quell’oggetto, per cancellarlo o serbarlo segreto a qualcuno? Come dimostrava la lavorazione, risaliva quasi sicuramente alla seconda metà dell’Ottocento oppure ai primi del Novecento. Per circa otto anni rimase in casa nostra, ma da quanto il rigattiere lo aveva in negozio? Da chi lo comperò? Babbo, forse con la speranza che ce lo volesse ricomprare, ci fece un giretto ma la saracinesca era chiusa. Chiese a qualcuno e seppe che il titolare era deceduto tre anni prima, da allora il fondo era vuoto. Di tante domande, neanche una risposta. Il comò lo comperò il figlio del contadino dove eravamo sfollati, ma il libricino lo conservo gelosamente. Continuerà a dare ali alla fantasia, che ogni tanto spazia tra mille versioni diverse sul destino dei due innamorati.
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M. potrebbe essere stato ucciso in battaglia… oppure si saranno ritrovati, chissà. Per sempre rimarrà segreto quell’amore perduto nel tempo, ma a me piace così. Lo custodisco tra i ricordi che mi donò l’indimenticabile terra emiliana, compreso quello dei serpenti con la cresta. Mi facevano paura, però avrei voluto vederli! Ma questa è tutta un’altra storia…
Dina Paola Cosci, da ragazza ricamava: era il suo lavoro. Dopo il matrimonio divenne casalinga e mamma di tre bambini. Seppure autodidatta, amava dipingere, rubando ore al sonno pur di poterlo fare. Così andò avanti per qualche anno con lusinghieri successi. Alla morte del padre, gettò i pennelli: lui non era più lì ad incoraggiarla. In compenso, sempre da autodidatta, tornò al suo primo amore, la penna: primi passi in un terreno che via via si faceva sempre più ricco di incoraggiamenti e successi. I numerosi premi in ogni regione d’Italia, soprattutto con il vernacolo pisano, non hanno fatto altro che stimolarla a migliorare.
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Racconti selezionati e pubblicati online su www.ilcicciolodoro.com in ordine alfabetico
Racconti: Marta, Grana, amore e fede Pane e cipolla Autore: Franco Bellandi ... Racconti: Oggi sposi... Scherzo da prete Autrice: Annalisa Bertolotti ... Racconti: La poÚlenta stiada Il tempo di nessuno Autrice: Ave Govi ... Racconti: L’occhio Il giorno che incontrai la morte Autore: Giampietro Lazzari
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Racconti: A caccia di rane nei fossi La pűgnata ad Fratel Dumenic (La pignatta di Fratel Domenico) Autrice: Rosa Manara Gorla È nata a Rivarolo Mantovano (MN) nel 1947, abita da sempre nella frazione di Cividale. Autodidatta e appassionata cultrice delle sue radici, dal 1989 collabora con l’Associazione Pro Loco di Rivarolo Mantovano e con la Fondazione Sanguanini Rivarolo Onlus. Scrive sul trimestrale di cultura rivarolese La Lanterna e collabora alla redazione del calendario locale. Dal 1985 cura le pubbliche relazioni e la rassegna stampa del marito Alberto Gorla, maestro orologiaio di fama internazionale. Nel 1992 pubblica il libro L’Orologio astronomico-astrologico di Mantova. Dal 1997 redige il calendario e collabora al giornalino della Parrocchia di Cividale Mantovano. Nel 2006 pubblica il volume Cenni di storia della Scuola Materna di Cividale Mantovano. Nel 2008 pubblica Sivdal al me paes e la so’ Şent (Cividale il mio paese e la sua gente). Nel 2009 pubblica Coriandoli. Nel 2011 partecipa al concorso letterario di Campagnola Emilia (RE), classificandosi al secondo posto con il racconto Fine di uno Stradivari. Nel 2014 pubblica I racconti della nonna (Il giardino degli animali). Nel 2016 pubblica Dinastie famigliari - Manara. Gorla (albero genealogico pubblicato in occasione delle nozze d’oro e donato ai partecipanti alla cerimonia).
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Racconto: Natale biturbo Autore: Andrea Moretti 42 anni, laureato in Filosofia all’Alma Mater di Bologna, vive a Correggio (RE) dove lavora presso il Municipio, fa il papà e suona la batteria in un gruppo mod, cercando ogni giorno di fare proprio il motto “move and learn”. Pubblicazioni: Il caso Piron. Voci di un cippo partigiano, RS, Reggio Emilia, 2005 - ricerca storica; Preoccupati dei vivi, Gingko edizioni, Bologna, 2009 - romanzo; Giro di Basso e Sabotaggio nelle antologie La Bassa in 200 parole, E. Lui, Reggiolo, 2009, 2010; Mephisto, nell’antologia Bassa in Letteratura, Aliberti, 2010 - racconto, 1° premio “Bassa in Letteratura”; Alba sull’Amba, nell’antologia Bassa in Letteratura, La Clessidra Editrice, 2016 - racconto breve, 3° premio “Bassa in Letteratura”. ... Racconto: La sagra di Santa Lucia Autrice: Carla Pietri Nata a San Martino in Rio (RE) nel 1961. Vive e lavora, come architetto libero professionista, a Correggio (RE) dal 1986. Si occupa di progettazione soprattutto per edilizia residenziale e ambientazioni di interni. È molto legata ai ricordi della vita contadina e alla sua civiltà. La sua tesi di laurea Le case contadine della media pianura reggiana ha dato in seguito origine alla pubblicazione del libro Abitazioni rurali della Pianura Reggiana redatto con l’architetto Luciano Pantaleoni edito da Maggioli Editore nel 2000.
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Racconto: Il mercante di stoffe Autore: Gabriele Salsa (Galliate, 1968) è un appassionato di cibo e gastronomia. È anche un musicista, trombettista, autore e compositore di brani di genere melodico e di musica da ballo. Nel tempo libero si diletta in corsi di cucina, pittura e scrittura creativa. Oggi è un professionista nella coltivazione del riso e si dedica con passione allo sviluppo della sua azienda agricola. Partecipa da qualche anno al concorso “Bassa in Letteratura” con brevi racconti. ... Racconti: Nessun dorma... Il profumo delle serenelle in fiore... Autrice: Angela Villa Ruscelloni
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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2018 Composizione giuria
Presidente: Alessandro Di Nuzzo, direttore di Aliberti Compagnia Editoriale e scrittore. Eraldo Baldini, romanziere affermato in Italia e all’estero per il suo “gotico rurale”, attualmente vive a Porto Fuori (Ravenna). Paola Baraldi, insegnante e già Sindaco di Campagnola Emilia (RE). Daniele Bevini, libraio, titolare della libreria “Moby Dick” di Correggio (RE). Vittorio Cottafavi, imprenditore agricolo e scrittore. Francesco Nicodemo, scrittore ed esperto di comunicazione e innovazione digitale. Orianna Ottaviani, felicemente pensionata e appassionata di letteratura.
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Elenco cicciolai 2017
Aldrovandi Cesare Altini Ilario Baraldi Paola (ex Sindaci) Barani Claudio Baratti Elisa Bellesi Jacopo Belluzzi Rino Benzi Luca Bertazzoni Nino Bigi Maurizio Bigi Roberto Bigi Serena Bigi Treves Bocciolesi Giovanni Bonacini Denis Cavazzoli Mauro Cavazzoli Pasquale e Amici Cucchi Andrea e Alfredo Davoli Alvaro Diacci Silverio E Amici S. Bernardino Esposito Giuseppe Farri Filippo Forlani Enrico
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Gli Amici del Fondo Grilli Gramostini Vando Grandi Fabio Gualtieri Roberto e Fratelli Guerzoni Andrea e Amici I Maver c/o Pedrazzoli Maurizio Incerti Medardo Lanfredi Massimo Le Mavre c/o Pedrazzoli Alessia Lusuardi Matteo (Gli Amici di Mandrio) Malagoli Marco Manfrin Marco e Amici Manfrin Maurizio e Amici Marastoni Laurenti e Amici Melegari Andrea Molinari Giovanni Morini Afro Palazzi Lauro Panisi Stefano Paoluzzi Guido Piccinini Roberto Pignagnoli Gianluca Pignagnoli Natale e Gabriele Previato Gianpaolo Righi Clinio Ronzoni Camillo Rossi Marziano Santachiara Alessandro Santachiara Stefano Amici Soprani Luca e Amici Tamagnini Ivan e Amici
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Tirelli Lauro Valla Francesco Veroni Romano Vezzali Giordano Vezzani Giancarlo Violetti Eros Zaccarelli Luca Zanardi Adrian Zanichelli Alessandro Zanoni Mauro
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Vincitori “Cicciolo d’Oro” 2017
“Il paiolo più bello del mondo 2017”: Marastoni Laurenti Cicciolo d’Oro 2017: 1. Rinaldi Adriano 2. San Bernardino 3. San Bernardino - 2° gruppo 4. Farri Filippo & co 5. Frignani Roberto 6. Marastoni Laurenti 7. Bargi Enrico 8. Giovannini Alfredo 9. Bigi Maurizio e Roberto 10. Guidotti Giampietro Cicciolo Rosa 2017: Bigi Serena Miglior Under 30: Pignagnoli Gianluca
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In copertina: Vigna vecchia di Renato Biolcati Olio su tela, dimensioni 40 x 50 cm Dipinto vincitore di Bassa in Pittura edizione 2017
Renato Biolcati nato a Ferrara il 05/08/1941. Pittore paesaggista. Trasferitosi a Fabbrico (RE) nel dopoguerra, ora vive a Limidi di Soliera (MO). Ha frequentato un corso di pittura assistito dalla Prof.ssa Enrica Melotti di Carpi (MO). Ama la nostra campagna, per questo esce di proposito, munito di macchina fotografica, per cogliere soggetti particolari della nostra zona, da trasmettere poi su tela. Molti suoi dipinti sono presenti in collezioni private. È iscritto al gruppo Pittori “Angolo Arte” di Correggio (RE) e al gruppo Pittori “Tricolore” di Novellara (RE).
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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2019 Regolamento
L’associazione “Il Cicciolo d’Oro”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 10° edizione del concorso letterario per racconti “Bassa in Letteratura” anno 2019. REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato a racconti inediti scritti in lingua italiana o in dialetto emiliano, è aperto a tutti. Argomento/tema del racconto sono le storie e le atmosfere tipiche della Bassa padana, con particolare attenzione alla tradizione enogastronomica. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due racconti. Il racconto non deve superare i 21.000 caratteri, spazi inclusi, per esigenze di stampa. 3. La partecipazione è gratuita. 4. I racconti devono essere inviati a mezzo posta elettronica all’indirizzo info@ilcicciolodoro.com in formato word, entro e non oltre il 20 ottobre 2019, corredati da: • La domanda di iscrizione debitamente compilata, datata e firmata, come documento scansionato; • Fotocopia del documento d’identità in corso di validità; • L’indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico del concorrente.
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• Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere compilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. La Segreteria organizzativa del concorso provvederà, sempre via e-mail, a notificare la ricezione del materiale. 5. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile ed inappellabile. La premiazione avverrà in occasione della manifestazione denominata “Il Cicciolo d’Oro”, e si terrà a Campagnola Emilia nella giornata di domenica 8 dicembre 2019. 6. I racconti meritevoli di interesse saranno pubblicati in volume, riprodotti e diffusi in ogni forma e modo, originale o derivato, previsto della Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicati, a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro”. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle opere partecipanti. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto D’Autore. 7. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 8. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”
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Domanda di iscrizione 10° edizione del concorso letterario per racconti “Bassa in Letteratura” - anno 2019 Il sottoscritto/a _______________________________________ residente a____________________________________________ Prov_______________________________CAP______________ via/piazza_________________________________ n._________ cellulare/tel.__________________________________________ e-mail _______________________________________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 10° edizione del concorso letterario “Bassa in Letteratura” anno 2019, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è inedita e frutto della propria creatività; - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e della pubblicazione dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Data_____________
Firma___________________
Concorso di arti grafiche a tecnica libera Bassa in Pittura 2019 Regolamento
L’Associazione “Il Cicciolo d’Oro”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 5° edizione del concorso di arti grafiche a tecnica libera “Bassa in Pittura” anno 2019. REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato ad opere grafiche eseguibili a tecnica libera, è aperto a tutti. Argomenti delle opere stesse saranno i paesaggi, le atmosfere e i volti tipici della Bassa padana, guardando alla tradizione passata e alla cultura enogastronomica del presente. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due opere. Le dimensioni non devono superare 60 cm x 80 cm (senza cornice), per motivi di logistica espositiva. 3. La partecipazione è gratuita e, ripetiamo, aperta a tutti. 4. Potranno partecipare alla selezione della Giuria Qualificata solamente le opere per le quali la Domanda di iscrizione (debitamente compilata, datata e firmata) sia stata inviata entro e non oltre il 17 Novembre 2019 all’indirizzo e-mail: info@ilcicciolodoro.com. Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere compilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria po-
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testà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. 5. Le opere devono essere consegnate, presso i locali del Comune di Campagnola Emilia, nella prima settimana di dicembre 2019, corredate da: • Fotocopia del documento d’identità dell’autore in corso di validità; • Una breve didascalia che riporti il titolo dell’opera ed eventuali commenti dell’autore alla stessa; • L’indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico del concorrente. 6. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile e inappellabile: essa si riserverà infatti il diritto di esporre negli spazi comunali solamente i quadri meritevoli, per poi procedere alla premiazione delle migliori opere pervenute. La premiazione degli autori avverrà in occasione della manifestazione denominata “Il Cicciolo d’Oro” a Campagnola Emilia. La migliore opera pittorica così valutata diverrà copertina grafica del volume “Bassa in letteratura - 11° edizione 2020”, che come ogni anno raccoglierà i migliori racconti dell’omonimo concorso letterario. 7. Le opere meritevoli di interesse saranno esposte negli spazi cittadini comuni per le settimane successive alla manifestazione invernale “Il Cicciolo d’Oro 2019” e in ogni eventuale forma e modo, originale e derivato, previsto dalla Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicate le foto delle opere stesse, sempre a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro”. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle
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opere partecipanti. L’Associazione declina ogni responsabilità su eventuali danni causati alle opere per le settimane di esposizione pubblica e gratuita offerta. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto d’Autore. Potrà ritirare l’opera stessa al termine dei tempi espositivi decisi da Associazione e Comune, indicativamente a fine gennaio 2020: gli autori verranno contattati e informati su tempi e modalità precisi di ritiro. 8. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 9. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”
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Domanda di iscrizione 5° edizione del concorso per arti grafiche a tecnica libera “Bassa in Pittura” - anno 2019 Il sottoscritto/a _____________________________________________ residente a__________________________________________________ Prov____________________________________CAP_______________ via/piazza_______________________________________ n._________ cellulare/tel.______________________ e-mail _____________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 5° edizione del concorso di arti grafiche “Bassa in Pittura” - anno 2019, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è frutto della propria creatività; - che l’opera presentata ha le seguenti caratteristiche Prima opera - titolo: _______________________ misure: ____________ Seconda opera - titolo: _____________________ misure: ____________ - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e di trattamento dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Se disponibile ad oggi, allego fotografia dell’opera realizzata: □ SÌ Allego copia della mia Carta di Identità.
□ NO
Data_____________ Firma_____________________
Indice
Introduzione di Andrea Moretti
1
Marta, Grana, amore e fede di Franco Bellandi
9
L’odore di Rosa di Egidio Braghini
19
Accadde a settembre di Donatella Boccalari
29
Altre migrazioni di Renato Ceres
36
L’occhio di Giampietro Lazzari
50
La corsa con le rane di Franco Tagliati
63
La poùlenta stiada di Ave Govi
73
Oggi sposi... di Annalisa Bertolotti
82
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Nessun dorma... di Angela Villa Ruscelloni
99
Uno splendore di ragazza di Giancarlo Sacchetti
114
1904. Storie di Teo di Mauro Lasagna
120
Profumo di mosto di Luisa Torelli
131
Un amore perduto nel tempo... di Dina Paola Cosci
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Racconti selezionati e pubblicati online
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Stampato nel novembre 2018 presso tipografia E. Lui di Reggiolo (RE)