Bassa in Letteratura 2019

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AA.VV.

Bassa in Letteratura 2019

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Associazione senza fini di lucro


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Comune di Campagnola Emilia

Provincia di Reggio Emilia

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Introduzione di Vittorio Cottafavi

La decima edizione di Bassa (in) Letteratura, capirete bene, merita molto di più di una sia pur encomiastica prefazione, tra l’altro inevitabilmente ripetitiva. No: bisogna celebrarla come si deve. Come merita. Come meglio non si può: con un racconto liberamente tratto dalla

Veridica istoria della invenzione della pietanza vocata cicciolo di Campagnola1 Attorno al 1100, Campagnola era un borgo di qualche centinaia d’anime. Erano i bei tempi andati, quelli di cui si vagheggia così spesso, quando partorire era un terno al lotto sia per la puerpera che per il nascituro, la dieta era obbligata per larga parte della popolazione, le strade composte da fango ed escrementi e un semplice raffreddore poteva facilmente scivolare in polmonite, portandovi alla tomba. Eh sì, allora le famiglie erano molto più unite, o piuttosto ammassate in catapecchie gelide e buie, e a tavola non c’era figliolo che osasse far tardi, a rischio di non trovar più nemmeno le briciole ... eppure, nonostante tutto, già allora, nella Bassa, serpeggiava la passione politica. S’intende, a quei tempi governava Lei, la Contessa, anzi, la MaFonti: De invenzione rerum, Archivio Vaticano - Sez. Nihil veri - Sottosez. Sed haud veri

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gna Comitissa, insomma Matilde: e non c’erano santi, ma solo da ubbidire. Tuttavia una sia pur modesta autonomia bisognava pur concederla, un governicchio per le cose spicciole, le ronde, il mercato, le corvè ... e dunque ogni villaggio aveva il proprio, chiamiamolo così, Podestà, affiancato da un Consiglio. E a Campagnola, un annetto prima di quanto andremo a raccontare, c’era stato il ribaltone. Dopo un lungo predominio di una fazione, un’altra ne aveva preso il posto. Questa, la vincente, era composta e sostenuta da quattro importanti famiglie di contadini liberi, affittuari di grosse fattorie con stalle persino di otto o dieci vacche, stalle quindi rinomate in tutto il circondario; tanto che, per semplificare, la gente aveva preso a chiamare questa nuova consorteria al potere Le Quattro Stalle, e i suoi membri, di conseguenza, i Quattro Stalle. I Quattro Stalle volevano cambiare tutto. La ronda notturna doveva annunciare anche le mezz’ore, il mercato andava spostato un poco più in là, la festa del paese doveva essere, per decreto, più allegra di prima. E così via. Ma nel mezzo di questo travaglio, i Quattro Stalle furono raggiunti da una terribile notizia: la Gran Contessa si stava preparando ad ispezionare i propri possedimenti posti tra Reggio e Mantova, passando quindi anche da Campagnola. Il panico si diffuse. Bisognava riceverla seguendo un preciso cerimoniale, che nessuno conosceva, ospitarla senza badare a spese - ospitare soprattutto il suo famelico seguito, milizie comprese - e, ahimè, mostrarle il Libro Mastro della comunità. Era un problema serio per chiunque. La prima mossa dei Quattro Stalle fu di chiedere aiuto al Conte, il marito della Gran Contessa, un ragazzo di neanche diciott’anni mentre Lei ne aveva oltre quaranta. Essendo il suo secondo marito, era detto il Conte bis2, e lo si conosceva come piuttosto disinteressato alle faccende di governo, molto meglio una belAltre fonti sostengono che il nomignolo dipendesse dalla sua residenza preferita, Bismantova

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la partita di caccia. Raggiunto dai messi campagnolesi, che gli chiedevano di scongiurare la sosta del corteo matildico nel loro borgo, il Conte bis fu gentile, sì, ma accettando la forma di grana che gli porgevano si negò: “Cosa volete, io non conto niente... non ho maniera di aiutarvi. Vorrei, vorrei ma non posso”. Quando l’ambasciata tornò mestamente a riferire, il Consiglio si rassegnò a prepararsi alla visita: “Quanto abbiamo in cassa?” “Niente!” “Per forza!” “Con tutto quello che stiamo facendo!” “Sposta di qui!” “Aggiungi di qua!” “Decreta di lì!” “è ovvio!” “Bene, allora metteremo una tassa ad hoc. Non c’è altra strada e la gente capirà”. La mozione fu approvata a pieni voti. I consiglieri, soddisfatti di aver trovato una brillante soluzione al problema, si complimentarono l’un l’altro. “Un momento! E il cerimoniale?” Dopo accesa discussione, si decise di spedire un delegato ad assistere a una precedente tappa della Gran Contessa, che di nascosto osservasse ben bene le varie procedure d’accoglienza, in modo da riportarle poi con la massima precisione. “Benissimo!” “Faremo un figurone!” “Rimarrà stupita dalle nostre buone maniere!” L’entusiasmo dei Quattro Stalle saliva vertiginoso, come niente trovavano soluzione a qualsiasi problema, e non restava altro che riconoscerlo, elogiandosi tra di loro persino con pacche sulle spalle. La riunione stava dunque concludendosi tra reciproci complimenti, quando s’udì una vocina:

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“ ...e il Libro Mastro...?” D’un colpo scese il gelo. “Be’, mica possiamo ricordarci proprio tutto...” “E poi magari non lo chiede nemmeno...” Ma nessuno ci sperava. Anzi, si sapeva per certo che i contabili di Matilde spulciavano pignoli voce per voce e cifra per cifra. Dopo lunga e silenziosa riflessione, si levò stentorea la voce del Podestà: “Chiamate l’economo!” “Giusto!” “Sì! L’economo a render ragione!” Ma di nuovo, una vocina: “L’economo non c’è...” “E dov’è finito?” “Non c’è nel senso che non esiste più...” “L’abbiamo mandato via!” “Davvero?” “Ma certo, non ricordi? Era inutile!” “Pretendeva di essere pagato!” “Un costo in meno!” “Risparmio di denaro pubblico!” “Ma ora?” “Ora almeno vediamo questo dannato Libro Mastro! Portatelo qui!” “Se c’è!” “Come?!” “Eccolo!” Il libro fu posato sul tavolo, spolverato, aperto. Una voragine di lettere e cifre si spalancò agli occhi dei consiglieri... Silenzio e scoramento. Poi: “Ma noi praticamente non sappiamo leggere!” “E nemmeno far di conto oltre a dieci!” “Certo!” “E quindi non c’entriamo!” “Come potevamo tenere tutto in ordine, se non sappiamo né

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leggere né scrivere?” “Giusto!” “La colpa non è nostra, ma di quelli prima di noi!” “Loro sì, che sapevano!” “E dunque saranno loro a doversi confrontare con Matilde!” L’assemblea esplose in un’entusiastica ovazione. Poi felici e contenti se ne andarono a letto. Tuttavia aliud est dicere, alliud est facere; che nessuno del vecchio Consiglio era così sciocco da accondiscendere all’ingiunzione dei Quattro Stalle, di presentarsi cioè dalla Gran Contessa facendo ammenda di errori vecchi e nuovi; anzi, sol che fosse già stata inventata, gli avrebbero risposto: “Avete voluto la bicicletta? Adesso pedalate!” Comunque il senso era quello. Insomma sembrava che per i Quattro Stalle non ci fosse via d’uscita. I giorni trascorrevano, la visita della Contessa s’avvicinava e nel Consiglio si cominciava a litigare ... finché ... finché qualcuno si ricordò dell’esistenza di Cul Mol. Bisogna innanzitutto chiarire che Cul Mol non si chiamava Cul Mol - perlomeno, non ancora; Cul Mol infatti è il soprannome che gli venne affibbiato dopo, a causa dell’impresa oggetto di questa narrazione ... Cul Mol non era e Cul Mol divenne, ecco; ma poiché la cronaca da cui attingiamo non cita altro precedente nome, non ci resta che adeguarci al Cul Mol prima e dopo. Del resto, prima di diventare Cul Mol niente lasciava prevedere il glorioso destino che lo attendeva. Conduceva un’esistenza simile a tutte le altre, assolutamente anonima, di cui gli annali riportano qualche notiziola solo in nome di quanto compì in seguito ... età indefinita, piuttosto in carne, scapolo, bonaccione. Formidabile forchetta3. Vive da sempre in uno stanzino attiguo alla sala consigliare, è una specie di custode, di mestiere sarebbe

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copista ma il lavoro è saltuario. Se gli capita a tiro qualche manoscritto lo legge e rilegge, e quando si tiene Consiglio lo chiamano a stilare i relata, insomma i resoconti, i verbali delle sedute. Purtroppo, spesso si addormenta. Quasi sempre; e quasi subito. E proprio a Cul Mol, quando arrivò il giorno, fu affidato il Libro Mastro da consegnare all’esame della Gran Contessa, o meglio dei suoi contabili. Matilde si era fermata a San Bernardino, e là si dirigeva dunque l’ignaro e pacioso Cul Mol, a cassetta di un biroccino trainato da un’asinella di nome Violetta. Il carretto era malandato, l’asse che fungeva da sedile tutta scheggiata, e Cul Mol si pose il libro sotto le chiappe, ad attutire i sobbalzi del percorso. Poi, visto che il tragitto non era lungo, ma la fame sì, che gli scavava lo stomaco sin dalla sera prima, frugò a cercare se mai vi fosse, tra le leccornie destinate ad omaggiare la Signora, qualcosa da poter spilluzzicare senza che poi la smangiatura risultasse evidente. Scostando paglia e coperte, individuò salami e coppe, impossibili da intaccare. Un’intera forma di grana, figuriamoci. Poi orci di vino, ben sigillati. Boccette di aceto balsamico, comunque non gli interessavano. Passò quindi a tastare scigulate ed erbazzoni, ma di forme troppo regolari per potersene approfittare, e poi torte dolci, torte al savor, torte di riso - Dio come gli piaceva la torta di riso! - ma niente da fare, erano perfettamente rotonde. Intanto però la sua fame cresceva, gli pareva di non averla mai provata così acuta. Preso dalla smania frugò ancora, toccando una vivanda molliccia e molto oleosa ... ah sì, il pasticcio di grasso di maiale. Tra tutte non una gran specialità, era discreta subito, appena fatta, calda e con tanto pane, altrimenti rischiava di stomacare e poi, soprattutto, calda o fredda che fosse, spesso procurava feroci diarree ... però ... però lì poteva piluccare, l’impasto si disfaceva facilmente e non era affatto regolare. 3

Non era ancora stata inventata, ma vabbè, tanto per rendere

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Si pose dunque il cartoccio a fianco, lo aprì appena, in alto, e prese a spizzicare. L’asinella procedeva lenta, al passo, il sole splendeva nella limpida giornata invernale e Cul Mol mangiava beato, quasi dimentico di dove fosse diretto. Se lo ricordò un tantino tardi, allorché si trovò a tiro degli armigeri a guardia dell’ultimo tratto di strada che menava a San Bernardino. Ebbe appena il tempo di ricoprire le ghiottonerie, tanto per non eccitare la voracità dei militi; restava però il trancio di grasso suino, lì al suo fianco, e smangiucchiato anziché no - e i soldati ormai a pochi passi! Nel panico Cul Mol lo nascose nell’unico luogo dove poteva occultarlo con un solo rapido gesto - sopra il Libro Mastro, quindi sotto il suo capace sedere. Un paio di guardie lo scortarono sino al cortile interno. Nonostante il freddo Cul Mol prese a sudare - certo, è comprensibile, stava per incontrare la Magna Comitissa - ma quanto sudava accidenti, soprattutto dal fondoschiena in giù si sentiva grondare ... ah ecco, si trattava del grasso di maiale, sotto pressione si spandeva ovunque ... Cul Mol si rimboccò la veste sotto le chiappe, nel duplice disperato tentativo di frenare la sugna e rimodellare per quanto possibile il manicaretto, insomma, di ridargli un minimo di forma. L’attesa fu piuttosto lunga, ogni poco Cul Mol - ormai Cul Mol a tutti gli effetti - sculettava riassestandosi sopra il pasticcio, un po’ come la chioccia con l’uovo, al contempo rincalzando gli orli della tonaca sotto l’impasto. Quando infine la Contessa gli si avvicinò, Cul Mol cadde dal carretto per la fretta di inchinarsi, sia perchè si trovava al cospetto della Donna che dialogava alla pari con Papi e Imperatori, sia perchè il grasso impiastricciato nelle vesti gli rendeva difficoltoso il movimento. “Mia Signora! Vi reco la devota fedeltà delle genti di Campagnola, assieme a qualche umile omaggio che speriamo vogliate gradire. Possa Iddio concedere...”

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“Sì sì, crrazie caro” l’interruppe Matilde che, ricordiamo, aveva ascendenze franco-teutoniche. Poi, indicando l’involto di pasticcio grasso sul sedile: “Cosa esere qvello?” “Oh ... be’... mia Signora, una modesta vivanda, tipica però di...” “Io non cognoscere. Io cognoscere salami e crana e errbasone ma no motestavivanta. Asaggiare preco!” Proprio questa doveva scegliere, pensava Cul Mol mentre scartava l’involto per poi porgerlo a Matilde. Però ... però la consistenza era cambiata: non più molliccia, alta e trasudante grasso, ma sottile e compatta. E più o meno rotonda: ché schiacciandola col possente deretano e raffazzonandone di continuo i bordi, Cul Mol l’aveva resa una torta quasi perfetta, bassa, asciutta e ... e calda. E soprattutto gustosissima, se ne rese conto allorchè Matilde gli fece cenno di servirsi lui pure. Era friabile, saporita e un boccone tirava l’altro. “Motestavivanta è mia specialità preferrita! Ma non piacermi nome, motestavivanta ... piuttosto, fatta tu?” Cul Mol non riuscì a negare, e del resto sì, l’aveva fatta lui più di altri. “Pene. Tu piuttosto grasso ... larrdoso ... ciccioso ... tunque d’ora innanzi motestavivanta si chiama ... eeeh ... il ciccio ... no ... lo ciccio ... mmh ... cicciolo! Ecco, sì, il Cicciolo! E ogni giorno che mi trattengo qvi, tu mi portare una forma di cicciolo, verstander?” Matilde congedò Cul Mol con un gesto. Nel frattempo i servi avevano spogliato la carretta di tutto quanto recava, compreso il famoso Libro Mastro che consegnarono subito ad un contabile. “Un momento!” esclamò questi trovandosi le mani piene di unto. “Qua non si legge niente” proseguì poi aprendolo; il grasso disciolto, intridendosi nella carta pergamena, aveva infatti scolorato un bel numero di pagine. E qui Cul Mol fu veramente grande: “Per forza!”

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“Come per forrza?” domandò severamente la Gran Contessa, volgendosi di tre quarti al nostro. “Sì mia Signora. Per fare cicciolo ci vuole chiappe e libro!” rispose Cul Mol che pensava di farsi intendere meglio da Matilde parlando un po’ come Lei. “Eh?” “La pressatura, nel cicciolo, è fondamentale. Per farla a dovere ci vogliono chiappe possenti e Libro Mastro consistente, che assorba a dovere l’unto in eccesso...” “Ah ... sì ... ma non capito, perché folerci proprio Libro Mastro?” “TRADIZIONE!” gridò Cul Mol “Tratizione ... tu dici eh...” replicò tra stupita e dubbiosa Matilde. Poi, concludendo la questione mentre riprendeva il passo: “Va bene, ridategli il libro mastro. Esaminerete prrossima folta... non sia mai che tomani non abbia mio cicciolo secondo tratizione di Campag-nola”. E così si conclude la storia dell’invenzione del famoso Cicciolo di Campagnola. Altro non è dato sapere, nemmeno come fu accolto Cul Mol al suo ritorno ... a parte, sì, che trascorso un po’ di tempo le due fazioni contrapposte incredibilmente si riconciliarono. E governarono felici e contente. Loro. Questa prefazione è un’opera di fantasia. Qualsiasi rassomiglianza con fatti, persone o associazioni realmente esistenti è puramente casuale.

Vittorio Cottafavi (Milano 1958). Laureato in Scienze Agrarie, imprenditore agricolo. Pubblicazioni: Tempo di Tuoni, Solfanelli 1993; Dante Terluccani e la sfida dell’assassino, Giunti Demetra 2002; Purah’- l’Angelo della Dimenticanza, Aliberti 2012.

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I premiati



Il completo principe di Galles di Maria Lena Bonazzi

La ricordava ancora quella sera d’ottobre, una come tante, quando era già piacevole chiudere porte e finestre e gustarsi con la famiglia un piatto caldo di riso e verza. I suoi fratelli piccoli facevano confusione come i passerotti che si contendono i semi sulla terra umida e nera. Suo padre e sua madre avevano lo sguardo basso e nessuno dei due osava parlare; sì, ormai era deciso, sarebbe andato a fare il servitor dai Bolondi, nei Boschi di Novellara. Il padre aveva dato la sua parola, a 14 anni poteva andarsene di casa e aiutare la famiglia povera e numerosa. Già erano partiti Sante e Decimo e anche Caterina, a Milano, serviva in una casa di signoroni. Era partito in una livida mattina di novembre, quando le nebbie cominciano a farsi fitte e quel giorno parevano inghiottire anche la sua casa. Un fagotto sulle spalle, che gli aveva preparato la mamma, con il cambio, le scarpe buone di Decimo a cui era cresciuto il piede, una giacca pesante e tanta nostalgia di tornare bambino a giocare coi fratelli sull’aia, di cercare i nidi sugli olmi dei filari, di andare a pescare in Fossamana i pesce gatti, che la nonna faceva sfrigolare con lo strutto nella grande padella di rame. Proprio la nonna lo aveva rincorso con una ciambella, che aveva cotto insieme al pane, solo per lui, per ricordargli che gli voleva bene e che quella sarebbe stata sempre la sua casa. I Bolondi l’avevano accolto con una fetta di salame e un bicchiere di Lambrusco e gli avevano assegnato una stanzetta vicino al granaio che sapeva di mele, di noci, e anche un po’ di muffa. Gelida d’inverno, con degli spifferi che gli arrossavano il naso, se osava farlo sbucare dalle coperte pesanti, e afosa dal tempo

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della mietitura a quello delle cocomere, ma il suo rifugio quando il lavoro gli aveva spezzato le ossa ancora bambine o il padrone l’aveva ripreso per le sue distrazioni. Non gli dispiaceva comunque quel lavoro pesante: accudire le bestie nella stalla, dare una mano nei campi, badare ai maiali che ingrassavano nella porcilaia, ignari del loro destino. Si sentiva grande, un uomo in grado di badare a se stesso e di contribuire al mantenimento della sua famiglia alla quale portava per Natale e per Pasqua qualche gallina, uova e farina. Dai Bolondi le feste comandate erano onorate come si deve e la rezdora non lesinava negli ingredienti quando c’era da fare bella figura. Ma di tutte, la più attesa era quando si uccideva il maiale e, dopo aver lavorato sotto gli occhi attenti del masador, si allestiva una tavolata sotto il portico per gustare le ossa e gli zampetti lessati, la frittura con la polenta e le cotiche immerse nel brodo di fagioli. I bambini si contendevano i ciccioli ancora caldi, sempre troppo pochi per soddisfare la loro golosità. E poi le sere d’inverno nella stalla lo facevano sognare quando Sergio raccontava le sue storie di guerra o la Iolanda, che aveva un po’ studiato, leggeva romanzi di principi che s’innamoravano di ragazze povere che poi si scopriva che anche loro venivano da famiglie ricche e dopo tante peripezie si sposavano. A volte si arrostivano le castagne su un braciere improvvisato e si assaggiava il primo vino dell’annata. Ma erano belle anche le sere d’estate, quando si stava sull’aia a prendere il fresco e ad addentare una fetta di anguria tra nuvoli di zanzare e qualche volta il figlio dell’Antea, Demetrio, suonava la fisarmonica e si ballava. Proprio una sera sull’aia aveva vista per la prima volta l’Adua che abitava all’inizio della via S. Antonio, proprio vicino al casello. Ballava a piedi nudi con una leggerezza che lui non aveva mai visto, fluttuando nell’aria con il suo vestitino di cotone a piccoli fiori. Due gambe dritte e nervose, un corpo morbido e poi, tra una massa di riccioli neri, due occhi tra il verde e il giallo, gatus avrebbe detto sua nonna, per lui così intensi da fargli sentire una specie di scossa in tutto il corpo. Da quella sera porta-

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re il latte al casello era l’obiettivo della giornata, con la speranza di vedere l’Adua sul ponte che chiacchierava con le cugine o raccoglieva le more tra i rovi. E anche lei sembrava non disdegnare di vederlo e gli si affiancava per accompagnarlo, raccontandogli con entusiasmo i suoi progetti. Da quando aveva finito la scuola, faceva l’apprendista sarta a S. Maria ma, non appena avesse compiuto 16 anni, sarebbe andata a Reggio, in treno, alla scuola di taglio della Maramotti e sarebbe diventata una creatrice di moda. Perché per lei vestirsi bene era molto importante e non poteva sopportare la gente malvestita e non avrebbe mai sposato un uomo che non indossasse completi eleganti. E sorrideva maliziosa con le labbra rosso scuro per il succo delle more, arricciando il naso spruzzato di lentiggini. Livio allora si rese conto che per far colpo davvero sull’Adua doveva pensare al guardaroba e, se voleva portarla in giostra per la fiera di S. Cassiano, doveva farsi un completo. Si diede da fare in ogni modo per racimolare un gruzzoletto che teneva con ogni cura, avvolto in una pezza, sotto il materasso di crine. Vendette i conigli che allevava per conto proprio in una gabbia sotto il portico, si offrì di lavorare come garzone al casello la domenica, si alzò all’alba per mungere anche le mucche di Beltrami, quando suo figlio si ammalò di TBC. Arrivò anche a vendere le sue due fette di cotechino al figlio maggiore dei Bolondi, che era alto e grosso come un bernardone. E un giovedì mattina di aprile, quando l’Ada lo mandò al mercato per acquistare le piantine di pomodoro, coi soldi contati e ricontati s’incantò davanti al negozio di Cassianein che esponeva nei manichini vari completi da uomo all’ultima moda. La commessa prosperosa, con i capelli biondi a onde e un rossetto sgargiante, gliene provò diversi ma, così gracile com’era, i calzoni gli erano sempre troppo larghi e le spalle cadevano impietosamente. Finché, dopo un’accurata ricerca, uscì trionfante con un pezzo unico: un completo principe di Galles, taglia 42. Il taglio non era forse all’ultima moda, ma il prezzo poteva andare e quella stoffa principe di Galles evocò subito nella mente di Li-

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vio uno dei personaggi dei romanzi della Iolanda. L’abito, rivestito dal cellofan, fu appeso a una delle travi della sua stanzetta e ogni sera, prima di dormire, Livio immaginava lo stupore dell’Adua quando avesse visto passarla a prendere il principe di Galles. Si alzò prima del solito quel 4 maggio, per potersi liberare di tutte le sue incombenze e andare alla Messa solenne e poi, dopo pranzo, alla fiera con l’Adua. Ovunque la casa profumava di buono: dei cappelletti in file perfette sulle assi di legno, del brodo di manzo e cappone, dell’arrosto di coniglio nel forno, dell’alchermes delle zuppe inglesi in cantina. Serpeggiava in tutti la frenesia della festa, dei parenti che dovevano arrivare, degli abiti nuovi che le ragazze non vedevano l’ora di sfoggiare. Livio si lavò, si vestì, si pettinò accuratamente, sistemando con la brillantina il ciuffo ribelle. Davanti allo specchio stentò a riconoscersi: che il completo nuovo l’avesse davvero trasformato in un principe? Possono forse le storie, se ci credi davvero, diventare realtà? Quale soddisfazione avrebbe provato la nonna se lo avesse visto così tirato a lucido, con un vestito proprio della sua misura, comprato con i suoi sacrifici! Glielo aveva sempre detto che sarebbe diventato qualcuno perché era un ragazzo giudizioso. Un urlo forsennato lo distolse dai suoi pensieri: “Livio, Livio… cor, cor… l’è scapeda la gugiola!”1 Livio corse agitato in cortile. La porta della porcilaia si era aperta e la scrofa correva all’impazzata con un’energia incontrollabile. Le donne urlavano disperate, tentando di mettere in salvo il bucato, il nonno vide irrimediabilmente distrutte le damigiane che aveva messo a scolare e calpestate senza speranza le piantine dell’orto, galline e faraone starnazzavano, rifugiandosi di qua e di là. I figli di Bolondi, come impietriti, non sapevano che pesci pigliare e continuavano a chiamarlo come se lui, essendo l’addetto ai maiali, conoscesse un linguaggio segreto per convincere la scrofa a desistere dalla sua fuga distruttiva. 1

“Livio, Livio… corri, corri… è scappata la scrofa!”

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Solo i bambini sembravano apprezzare quello spettacolo insolito, battendo le mani e incitando l’animale. Livio si sentì perduto, i suoi progetti sfumavano così, in un attimo, per colpa di un maledetto maiale. I Bolondi lo incalzavano e lui, con tutta la sua rabbia, si gettò sopra alla scrofa, volteggiò agilmente sulla sua schiena e riuscì a bloccarle le gambe mentre i braccianti, accorsi dalle urla, la legarono, riportandola dentro allo steccato. L’impresa era riuscita, ma il completo era andato, sporco e sgualcito puzzava in maniera indescrivibile. Da principe a guardiano dei porci, come il figliol prodigo del racconto di Gesù, ma senza un padre che ti dia poi un vestito nuovo e faccia festa per te. Fu il più brutto S. Cassiano della sua vita, ma, quando lo raccontava all’Adua, lei sorrideva e gli schioccava un bacio sonoro sulla guancia per rassicurarlo che, anche senza completo, sarebbe stato sempre il suo principe di Galles.

Maria Lena Bonazzi, laureata in Lettere presso l’Università di Bologna, ha insegnato in Istituti superiori della provincia di Reggio Emilia. Ama la Storia e le storie, quelle ascoltate con stupore nell’infanzia o colte, per caso, da chi ha voglia di raccontarle. E a volte queste storie chiedono con discrezione di essere scritte e salvate dalla nebbia del tempo in cui fluttuano inquiete.

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La giga del cavallo morto di Claudio Caroli

Negli anni Novanta del secolo scorso, si scaravoltava con gioia per la Grande Pianura un gruppo musicale - si diceva già band - che, prendendo le mosse dalla Bassa emiliana e ovest-lombarda, luoghi d’origine dei fondatori, riuscì per un paio di lustri a portare in giro per l’Italia e l’Europa una proposta musicale alquanto curiosa e originale, più una pretesa che una proposta: quella di dare nuova vita a un genere interrotto nella prima metà del secolo scorso con l’esplosione del ballo liscio, ovvero si mise alla ricerca e alla riproposizione di musica tradizionale popolare, aggiungendo agli arrangiamenti di vecchi valzer, gighe, polke, mazurke, furlane e altri antichi balli saltati anche nuove composizioni rispettose dello stile. Qualcuno dei primi fans la voleva annoverare nel calderone della musica celtica; i più arditi la chiamavano addirittura musica etnica. Ebbe un discreto successo la band Il sibiolo, ma la partenza, come è semplice immaginare, tra sforzi fisici, investimento di denaro e fraintendimenti del pubblico, non fu per niente facile. Le vicende di questo gruppo non hanno niente da invidiare ai grandi racconti della storia del Rock ’n Roll più maledetto, che tutti ben conosciamo, ma il genere di nicchia che proponeva, pur avendo alcune eccellenze nel campo della critica e della musicologia, non ha purtroppo mai avuto scrittori che ne descrivessero le gesta; episodi tragici a volte, ma più spesso esilaranti e al limite del grottesco, come quelli che vado a narrare. Innanzitutto bisognava farsi conoscere. Un imperativo, come

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per tutti. Bisognava assolutamente farsi riconoscere al volo e fare in modo che il cittadino medio, quando avesse sentito in lontananza le note di un violino popolare o di una cornamusa scozzese, facesse immediatamente il collegamento con il gruppo italiano Il sibiolo e il bello era che loro, in quel momento, non avevano né un violino né una cornamusa, che arrivarono col tempo; oltre a chitarre e aerofoni di legno, quello che più poteva richiamare la tradizione era una fisarmonica. Alla fine di quell’estate famosa però, sarà stato il ’90 o il ’91, Nubro Tamelli, il capo, si presentò a una prova in compagnia di un curioso personaggio, un uomo dall’età indefinibile e dallo spiccato accento veneto: Aldo Stupazzoni da Camposampiero. Nell’ultimo viaggio-pellegrinaggio alla Mecca del folkettaro, il Festival Interceltico di Lorient, in Bretagna, Nubro aveva conosciuto e potuto apprezzare le doti artistiche di Stupazzoni, nonché il suo carattere remissivo e accondiscendente. Lo invitò ad una prova per poter capire se sia lui che gli altri fossero interessati ad una collaborazione. Non parlò molto Aldo, quella prima volta; non intervenne in dotte disquisizioni teoriche sulla musica folk e sulla tradizione, un esercizio molto praticato da quelli del Sibiolo. Si limitava a suonare e a bere, come un bravo caporale veneto. Perbacco. Suonava da dio, Aldo Stupazzoni, e non rompeva l’anima con fisime da artista. Suonava una cornamusa francese che per un po’ il gruppo dei sibioli ebbe la sfrontatezza di presentare al pubblico come emiliana, inoltre padroneggiava con abilità tutta una serie di strumenti ad ancia sia semplice che doppia. Fu amore a prima vista. Aldo si inserì nel sound del Sibiolo con una naturalezza disarmante e aprì loro la possibilità di metterli nel vero giro italiano del folk, perché lui era un vero folkettaro. Non solo sapeva suonare decine di attrezzi, come Nubro, ma gli strumenti li costruiva pure e li vendeva. Soprattutto le ance. Il vero folkettaro, ho potuto constatare, arriva ai massimi livelli del giro di questo piccolo mondo quando pratica e attribuisce pari dignità a musica,

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danza e costruzione degli strumenti. Lui praticava egregiamente tutte e tre le attività e le metteva tutte allo stesso livello di importanza. Per questo conosceva personalmente decine di altri come lui che, inoltre, organizzavano i festivalini folk. Così, oltre al peregrinare per la provincia di Nubro alla caccia di ingaggi, si aggiunse l’attività di Aldo e cominciarono ad arrivare i primi impegni seri, le prime partecipazioni a rassegne extraprovinciali dove si poteva suonare su un palco vero con le luci vere da concerto e un impianto serio. Solo i fonici - ho constatato - hanno sempre lasciato molto a desiderare, allora come oggi. Sembra che in Italia per fare il mestiere di fonico sia sufficiente possedere l’attrezzatura. Se poi oltre a cavi, microfoni, casse e mixer uno possiede anche due trespoli con tre faretti colorati, ecco che diventa un grande fonico di successo. Bisognava dunque farsi conoscere, farsi vedere in giro si dice, e così in quel primo periodo i ragazzi accettavano tutti gli inviti a tutte le cene che Nubro considerava essenziali per entrare nel giro degli Enti Locali, visto che questi organizzano poi gli eventi culturali, e di un po’ di musica tradizionale impegnata i Comuni e le Province avevano sempre bisogno. La musica delle classi subalterne. Una botta di inattesa notorietà fu data anche dal caso, che un giorno, dopo il successo ottenuto la mattina in piazza a Gonzaga, lungo il tragitto del ritorno, li vide finire la serata dentro ad una trattoria isolata e sperduta nelle Valli di Novellara. Dopo aver bighellonato tutto il giorno con la scusa della promozione in certe zone della Bassa sconosciute perfino a Zavattini e Guareschi, sulla strada di casa dunque, presi dai morsi della fame, decisero di fermarsi a mangiare qualcosa nel primo posto ancora aperto che avrebbero trovato. Quello che trovarono, un nome l’avrà anche avuto, ma l’unica insegna del locale era il ritaglio di un lattone di alluminio appeso con una catenella all’angolo di muro più vicino alla

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strada provinciale, illuminato di striscio da un lampione distante una dozzina di metri. Sulla latta c’era scritto a pennello: Specialità gatto-rane-mare. Nel bar-trattoria in quel momento c’erano due bevitori amici dell’oste appoggiati al bancone, altri quattro tiratardi mantovani che giocavano a tresette e tre giovinastri che si erano persi nella terra di mezzo fra il prediscoteca e la balera. Forse quello che cercavano lo avevano già trovato nei boccaloni da un litro di birra che tenevano in mano chiacchierando ad alta voce e sfogliando riviste di moto e quotidiani ormai vecchi e bisunti alle pagine con le inserzioni delle massaggiatrici. Oltremodo incuriositi dalla tecnologica insegna, i cinque del Sibiolo erano abbastanza numerosi per ordinare tutte e tre le specialità: pesce gatto fritto, rane fritte e, per quanto riguarda il mare, la portata consistette in una tripla porzione di insalata di pesce mista, quella da supermercato, corretta e camuffata dall’oste con un’aggiunta esagerata di prezzemolo e aglio, che avrebbe dovuto dare un’impressione di genuinità. Mangiarono, bevvero e poi, dopo il nocino, Nubro si alzò per andare al banco a confabulare con l’oste. L’uomo col grembiale ascoltò attentamente Tamelli per poi assumere quell’espressione del volto con gli angoli della bocca rivolti verso il basso mentre si stringeva nelle spalle, come chi riceve una richiesta di permesso e a quel proposito non abbia nulla da dire né da opporre. Nubro tornò raggiante al tavolo e intimò ai compagni di andare a prendere gli strumenti, ché “i ragazzi qui del posto ci tengono ad ascoltarci”. L’ardore giovanile e la speranza nel successo avevano sempre la meglio sulla possente stanchezza di quelle giornate. Fecero quasi tutto il repertorio. A metà del terzo pezzo i tre avventori più giovani erano già spariti, mentre i quattro giocatori si spostarono all’altro capo della sala, quello più lontano. Rimasero per circa mezzora a guardare con l’occhio vuoto solo i due amici dell’oste; in parte l’oste che stava rilavando e riasciugando gli stessi bicchieri ormai da quaranta

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minuti, e due amanti segreti che erano entrati a pigliarsi un caffè poco dopo l’inizio dell’esibizione. La donna abbozzò anche un applauso al termine di una giga indiavolata, prontamente bloccata da un’occhiataccia di chi era accanto a lei. Quando arrivò il brano col quale il gruppo aveva deciso di concludere la performance, il pubblico fu avvisato e così ci fu la possibilità per l’oste di chiedere: “Almeno una Lambada o la mazurca del fico fiorone. - ché lui non conosceva, disse l’oste - Tutte queste musiche moderne e ta-ta-cium ta-ta-cium”. Questo intendo quando parlo di fraintendimenti nel mondo della musica folk o tradizionale. Ci furono altre situazioni del genere, ma questa ebbe la sua importanza nella scalata verso la fama del complesso Il sibiolo, seppur indirettamente, perché qualche mese dopo avvenne che la trattoria Specialità: gatto-rane-mare si era rinnovata ed era perfino entrata nell’ottica del farsi pubblicità: aveva fatto stampare e distribuire in provincia migliaia di pieghevoli nei quali oltre ad inventarsi un nome per il locale, Il Faro del gatto, aveva inserito Il sibiolo nel menù. Il tecnico di cui si era servito, evidentemente molto maldestro, aveva proprio usato nel depliant lo stesso carattere grafico per Pesce Gatto, Salumi misti, Rane Fitte, Pane e Coperto e inspiegabilmente Musica Il sibiolo. Non seppero mai a che titolo erano stati inseriti nel menu, ma la cosa fece loro assolutamente piacere. In un qualche modo la band Il sibiolo avrebbe fatto parte per sempre delle offerte del nuovo ristorante Il Faro del gatto, anche se come cibo; un importante punto di riferimento nell’acquitrino padano di canali e gatti e rane e lumache. Mare, com’è noto, pochissimo. Fra valli alpine, corti antiche e città d’arte, ma soprattutto fra canali, golene e zanzare, il gruppo andò avanti, infilando vittorie e digerendo sconfitte. Una volta la band fu costretta a una performance per la quale dovette arrampicarsi con gli strumenti sulla torre medioevale di Palazzo Re Enzo a

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Bologna per godere di quindici secondi di apparizione in un programma sulle tradizioni emiliane di una TV locale. Nel ricordare l’episodio il contrabbassista bestemmia ancora fortissimo. Ma l’apice della notorietà di quel primo pionieristico epico periodo fu raggiunto a Pomponesco, dove i nostri eroi si inorgoglirono e si commossero per essere stati scambiati da qualcuno del pubblico per i MCR - Modena City Ramblers. Qualche anno dopo questi episodi abbastanza normali per un gruppo musicale agli inizi della propria carriera, ci furono un paio di avvicendamenti tra i componenti, il più importante dei quali fu l’uscita del leader Nubro Tamelli da Villarotta. Il capo era diventato Brenno Bonacini, il front-man, e il baricentro delle prove si spostò dall’Oltrepò mantovano a sudovest, fra Campegine e Poviglio, dove avevano preso casa in nuove lottizzazioni due dei componenti. Non sembra, ma è importante specificare che si trattava di una zona con villette nuove abitate da tipiche famiglie medio - borghesi. Il gruppo in quel periodo - siamo sul finire della decade - aveva già girato tutta l’Italia e si era fatto valere anche in alcuni importanti folk festival in Germania e nel Regno Unito. Per ben comprendere i fatti che avvennero in quei giorni, giorni che seguirono il ritorno dalla Germania, è necessario tenere presente che alla vigilia della partenza il gruppo aveva dovuto risolvere il problema dell’abbattimento del vecchio cavallo di Bonacini; fatto risolto non senza problemi, ma parlarne qui ci porterebbe troppo fuori strada. Per meglio dire il metodo della soppressione del cavallo di Brenno meriterebbe un capitolo a parte, ma conta sapere che i ragazzi non avevano considerato la grana dello smaltimento della carcassa, ché togliersi di torno un cavallo morto non è esattamente come sbarazzarsi di un gatto. Questi fatti avvennero proprio nel periodo in cui tutti i parenti di Brenno erano in vacanza lontano dal paese e i ragazzi

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del Sibiolo, oltre a provare lo spettacolo da portare in Germania, dovettero risolvere il problema del cibo per il cane da guardia di nome Pilato, nella settimana di tour. Cosa fa una persona che deve stare via da casa, isolata dal mondo per qualche giorno? Semplice. Fa provviste per il tempo necessario, facendo un approssimativo calcolo del fabbisogno giornaliero. Brenno pensò che potesse funzionare anche per una bestiola così come per un cristiano, e quindi accumulò in un cantone esterno della casa, sotto la protezione di un angolo di portico, il cibo necessario a un cane per una settimana: chili di pastasciutta cotta e condita e decine di scatole di carne per cani furono versate e ammassate insieme a mastelli di acqua. Furono molte le cose di cui non si tenne conto in quell’operazione. Pilato rischiò innanzitutto di scoppiare, perché un cane non riesce a regolarsi, e mangia finché ne vede, oltre ogni ragionevole limite di appetito, e Pilato si trovò davanti agli occhi il mucchio di cibo che doveva durare una settimana, senza padroni che mettessero un fermo alla sua voracità. Ma questo è solo l’inconveniente e il pericolo occorso al cane. Fu Bonacini Brenno, cantante, a correre i rischi maggiori. Quando il gruppo tornò dal viaggio in Nord Europa, il cancello di casa era spalancato, il cane era sparito e, appena scesa dal furgoncino, la band Il sibiolo fu assalita dai vicini che chiedevano spiegazioni per quello scempio che si era venuto a creare in quella tranquilla e decorosa strada della campagna mediopadana. Brenno cadeva dalle nuvole e chiese lui stesso spiegazioni ai vicini agitati. Accadde dunque questo. Già il giorno dopo la partenza, decine di gatti e cani, randagi e domestici, avevano scacciato il povero Pilato e si erano impossessati della montagna libatoria; poco dopo arrivarono le cornacchie che contendevano ai domestici mammiferi quell’improvviso esagerato banchetto. Non passò che qualche ora, che iniziò ad alzarsi dalla proprietà Bonacini un inspiegabile olezzo che disturbò oltremodo il vicinato per gior-

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ni, sicuro che la raccolta differenziata non era ancora partita in quella zona della provincia. Ma cosa dico. Eravamo ancora molto lontani dalla sensibilità ambientalista dei nostri tempi. Per non parlare degli animaleschi schiamazzi. Ermes Altimani, l’anziano dirimpettaio dei Bonacini, sempre generoso nel fornire particolari sulle storie del suo passato che il gruppo aveva la fortuna di ascoltare di tanto in tanto, quando li vide arrivare spuntò veloce al cancello di Brenno e spiegò loro che cosa era successo. Che cosa aveva visto coi suoi occhi un affidabile osservatore di vicini come Altimani? Un mucchio enorme di rifiuti sparso su tutto il plateatico dei Bonacini sul quale passeggiavano cani, gatti, una volpe e vari fagiani indisturbati, e il cane Pilato che guaiva e cercava di divincolarsi dall’attacco delle cornacchie, che sembravano più interessate al cane ormai tronfio e appesantito che al letamaio sul quale stavano godendo come non mai animali domestici e selvatici. Ermes giurò di aver visto all’imbrunire anche tassi, donnole, faine e martore, e di essere stato svegliato all’alba dal bramito di un cervo, che però non riuscì a vedere. Brenno chiese irrispettosamente all’anziano contadino ex cacciatore Altimani come faceva a distinguere al crepuscolo, da una quarantina di metri, una martora da una faina. Allora lui disse, ineccepibile: “Beh come non lo sai, te che fai tanto l’ambientalista? Non lo sai che la macchia sotto la gola della faina è bianca e quella della martora è gialla?” Rispose che lo sapeva e non replicò con la necessaria osservazione sul buio e la distanza, che sarebbero stati troppo intensi e lunghi per poter dare un giudizio su quale fosse la specie di mustelide presente al banchetto. Uno che sa queste cose merita in ogni caso rispetto al di là della veneranda età, perdinci, e così Brenno non replicò. E poi non era stato l’Altimani, ma qualcun altro dei vicini, a chiamare polizia munici-

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pale e USL, che qualche giorno dopo fecero arrivare a casa di Brenno un verbale da unmilioneseicentomilalire per discarica abusiva, disturbo della quiete pubblica e, inspiegabilmente, procurato allarme. Si era innescato un meccanismo perverso per cui settimane dopo dai Bonacini arrivarono anche delle assistenti sociali per accertarsi delle condizioni igieniche in cui viveva la famiglia, che aveva anche un paio di bimbi. E tutte le volte ricominciare a spiegare l’equivoco: la storia della montagna di cibo per cani e pastasciutta per Pilato. Cosicché la Sonia - moglie del Bonacini - s’incazzò moltissimo a dover fare sempre quelle figure. Comunque qualcuno aveva provveduto a smaltire in qualche maniera quella fabbrica di compost a cielo aperto durante l’assenza degli abitanti, ma il gruppo la pagò cara: se avesse voluto continuare ad usare casa Bonacini per le prove, avrebbe dovuto pagare la multa, così addio cachet della tournée in Germania. Tutto devoluto alle casse del Comune per il servizio di pulizia dell’aia. E all’avvocato per la causa di procurato allarme. È a questo punto che ritorna in fabula la questione del cavallo. Quel giorno, prima di sera, il gruppo musicale Il sibiolo deliberò che l’unica cosa che rimaneva da fare, nell’attesa della puzza che sarebbe arrivata a ore e dell’autogru che sarebbe arrivata solo il lunedì successivo, era circoscrivere il più possibile la fonte dell’odore. Quindi decisero di buttare delle badilate di terra così da ricoprire il più possibile la carcassa dell’equino, e poi santocielo, c’era da continuare a provare qualche brano rimasto indietro, e bisognava pur ripartire con gli strumenti, puzza o profumo che fosse. Così si riassettarono nella sala prove con delle birre. Tante birre. Era ormai sera, quasi notte, ed era consigliabile provare i brani dove non è presente la piva, perché con una cornamusa non si può suonare a basso volume. L’estate volgeva al termine, come le ferie; i vicini erano ormai tutti a casa, e i ragazzi non volevano dare altri motivi di lamentele. Brenno

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però tardava ad arrivare in sala prove. Non era strano. Essendo in casa sua, il padrone ha sempre qualche ciappino da fare, qualche contrattempo che prende la sua attenzione. Finestre da aprire e chiudere per creare la giusta corrente d’aria, se ci fosse stato un filo d’aria; mangimi da preparare per animali vari a determinati orari, medicine da coordinare per suocere in terapia, medicine alcoliche per i compagni musicisti da tenere alla giusta temperatura (le birre) e alla giusta gradazione (i compagni). Il grande olmo del cortile diceva, con la sua maestosa ancorché disordinata ma sensibile chioma, che non si stava spostando neanche un pelo d’aria. Aldi il chitarrista intimò a Simionato di rimettere via tutta l’attrezzatura da fumeria, ché non sarebbe il caso, visto il caos del pomeriggio, ma questi rispose che non l’aveva neanche con sé, che non aveva preso dietro nessun’erba illegale e nessun’essenza esotica. Non aveva neppure le cartine, e infatti mostrò un pacchetto di Lucky Strike addirittura col filtro. Si guardarono in faccia l’uno con l’altro con l’espressione preoccupata, perché nonostante le loro narici bruciate da anni di fumo e smog, tutti sentirono arrivare qualcosa, una bolla dolciastra e fetente nei trentatre gradi di aria immobile, e non si trattava di stupefacenti di alcun tipo. Era Lui. Aveva iniziato a decomporsi, e il sottile strato di terriccio e compattato da edilizia non serviva a niente. Come se non ci fosse. Incuriositi, si recarono nello stallino. Senza Brenno che ancora non era tornato in sala. Tutti sapevano comunque dov’erano le birre e fecero scorta, per darsi forza e coraggio, come fantaccini della Grande Guerra pronti per saltar fuori dalla trincea e attaccare. Sarebbe stata dura. Le mosche e i tafani ci stavano dando dentro nei pur sottili tunnel che erano divenuti per gli insetti le zone del cavallo non ricoperte dal velo di ghiaia e terriccio. C’era poca luce e veniva da una direzione sbagliata e inutile. Illuminava il mucchio di carne

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in putrefazione malamente ricoperto, in una maniera come studiata da un regista dell’orrore. Sembrava una mummia di cavallo pronta a vendicarsi dei torti subiti in vita; ricordava la cinerea tetra stolidità di uno zombie che si sta avvicinando. Qualcuno mosse la lampadina appesa con un filo a una trave dello stallino che, oscillando, creò un effetto movimento ombre quasi perfetto. Se non fosse stato per le decine di birre in corpo, ci sarebbe stato da cagarsi addosso dalla paura. La carogna col suo muso distrutto che sembrava in movimento anche per l’esercito di mosche che si era dato convegno su quei gengivoni sfatti. Lenta ma inesorabile, statica ma tremenda, pareva che da un momento all’altro la carcassa potesse rivoltarsi contro di loro. Al culmine di questo crescendo hitchockiano, come nel momento in cui la mummia della madre di Norman Bates viene girata sulla sedia a dondolo sulla quale era stata nascosta in cantina dal figlio pazzo in Psyco, ecco arrivare un grido da dietro: “HALLO BABE!” Simionato mise le mani in alto, gli altri si girarono lentamente con la scioltezza e l’incoscienza di chi è troppo ubriaco per prendere sul serio qualunque cosa stesse succedendo, e videro in una penombra ancora più povera di quella dentro allo stallino una figura alta con un cappello di vernice da uomo, a tesa strettissima del tipo da rapper, un paio di occhiali da sole e un ineffabile pastrano lungo fino al ginocchio apparentemente di pelliccia. Meno di un secondo durò il tempo per pensare che era una visione dovuta ai fumi dell’alcol, ma subito dopo quell’attimo di smarrimento si resero conto che la visione era la stessa per tutti, e riconobbero Brenno travestito da pappone portoricano. Invitarono a girarsi anche Simionato che lentamente abbassò le mani. Si riportarono barcollando dalle risate verso la casa, ma il fisarmonicista rimase fermo e con le gambe ancora più divaricate rispetto alla sua

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solita postura da cowboy. Il fetore del cavallo aveva il suo lato positivo nel fatto che riusciva a coprire del tutto la produzione del povero Simionato, al quale avevano ceduto gli sfinteri. Man mano che la luce aumentava avvicinandosi alla casa, si intuiva più chiaramente la natura di ciò che Brenno Bonacini aveva indossato. Poi, con le poche parole che riuscirono a forare uno scompostissimo eccesso di riso, spiegò: “…Coniglio… L’ho ritrovato… Mia nonna…” Che come spiegazione non fu granché, ma poi pian pianino riuscì a coordinare meglio le parole che diedero un motivo alle ultime incredibili mezzore di quella allucinante giornata di viaggio e di prove. Per meglio comunicare che i componenti della folk band Il sibiolo dovevano abituarsi a lavorare in compagnia di fetori nauseabondi, Bonacini Brenno ebbe una scintilla che lo collegò al passato, fornendogli l’intuizione per dare al gruppo l’esempio di chi ha già avuto a che fare con le esalazioni dovute alla trasformazione di stato degli animali. Era ormai tanto tempo che non ci pensava più, ma per molti anni in passato Brenno Bonacini, cantante, fu tormentato dal fatto di aver dimenticato dove potesse trovarsi l’oggetto che ora indossava e che stava facendo collassare tutta la band dalle risate: una grottesca smisurata pelliccia di coniglio. Quella volta dunque non si era eclissato per scaldare erbazzone o affettare salame come al solito, ma si era precipitato a casa dei suoi vecchi, distante duecento metri, perché durante il pomeriggio, a causa di quelle esalazioni diffuse in tutta la sua proprietà, ebbe come una visione che lo ricondusse agli anni della sua infanzia; traveggole, il miraggio nel sole campeginese, un richiamo irresistibile. Dalla nascita fino all’adolescenza inoltrata, Brenno, lì tra Case Cocconi e Caprara, dovette stagionalmente abituarsi ad utilizzare la lavanderia di casa sua tra file di banconi carichi di carcasse di coniglio e mastelli e tini pieni, anziché di biancheria o di vino, di pellic-

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ciotti di coniglio in trattamento. Ultime manifestazioni di una civiltà contadina dura a morire che, anche in tempi dilatati di vacche sempre grasse, continuava a collezionare, stivare e mettere da parte in attesa degli inevitabili tempi in cui ci sarebbe stato da tirare la cinghia. Così la signora Ilva Medici in Bonacini per tutta la vita aveva allevato conigli e seguitava a farlo sperando che proseguissero a prolificare come da proverbio, e che continuasse ad esserci un florido mercato, perché quella dovuta alla vendita dei conigli era nelle famiglie patriarcali l’unica risorsa di denaro liquido che una donna poteva disporre a proprio piacimento, senza render conto al capofamiglia. Problemi economici non ce ne erano più, la guerra era finita da vent’anni, e i conigli aumentavano straordinariamente di numero. Gli affari per l’Ilva andavano splendidamente, i conigli venivano piazzati tutti, ma pian piano la gente, che comunque apprezzava la carne cunicola allevata con tanto amore e genuinità dall’Ilva, cercava di acquistare il coniglio già pulito, e magari senza testina e già tagliato a pezzi. Così la signora Medici Bonacini si trovò a un bel momento con un mucchio di pelli che sarebbe stato un peccato cacciar via. Iniziò dunque a conciare e trattare i pellicciotti per poterli cucire insieme e trarne un’altra forma di reddito sotto forma di pedane da letto e scaldapiedi. La lavanderia a pian terreno, usata anche come deposito delle bici e dei motorini della famiglia, diventò un laboratorio per conciare le pelli, e ad ogni ora del giorno c’era almeno un pentolone che bolliva ed altre tinozze da lavaggio dei panni, che erano piene di pelli di coniglio in trattamento con prodotti chimici che oggi ti darebbero la multa solo a nominarli. A volte l’odore che usciva dalla lavanderia era così forte che il marito dell’Ilva era costretto a fare in cortile dei falò di cartoni e altro pattume scelto per confondere i vicini sulle esalazioni che inevitabilmente uscivano dal portone della lavanderia. Al nonno, Renato Bonacini, era permesso tutto quando diceva che tutti ’sti casini erano fatti in funzione dell’allevamento di

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piccioni da competizione che teneva, lui, amato presidente pluridecorato della Colombofila Provinciale. Poi una volta la nonna esagerò in creatività e, forse, in un colpo solo inventò anche l’anoressia adolescenziale. Dopo aver piazzato a vicini, parenti e conoscenti decine e decine di scendiletto, pedane da bagno, scaldapiedi e colli da paltò, l’Ilva decise di fare il salto di qualità e realizzò una intera pelliccia di coniglio. Un cappottone da otto - dieci chili lungo fino alle caviglie tipo “SS” completamente di morbido pelo di coniglio. Il prototipo fu regalato alla nipote, cioè la sorella maggiore di Brenno, allora quindicenne ma già con una statura da modella, la quale, obbligata dalla nonna a indossarla almeno quando andava a messa la domenica insieme alle amiche, smise di mangiare, mettendo così delle preoccupazioni ai genitori, che quando riuscirono a trovare la causa di quella crisi giovanile fecero chiudere definitivamente a nonna Ilva il laboratorio di pellicce di coniglio. Dunque quella sera, tornando a Il sibiolo, c’era il cantante con la birra in mano vestito di pelliccia di coniglio a trenta e passa gradi e umidità al 98%, intento a spiegare che si possono fare le prove anche con il cavallo morto, che tanto è a una trentina di metri di distanza, così attira tutte le mosche della zona e non ci sarebbe stato neanche più quel fastidio. Per quanto riguarda l’odore, un musicista folk non è mica un borghesuccio da conservatorio che per strimpellare ha sempre bisogno di tutti i comfort, e che dovevano tenere in mente di quando, col Sibiolo, per cinquantamila lire da dividere in cinque se ne spendevano sessanta di viaggio e si faceva l’animazione all’inaugurazione di un centro commerciale, e che lì, in quel momento, non era poi peggio del tanfo che usciva quel 12 luglio dalla friggitoria di anguille da asporto a Comacchio, in cui le finestre della cucina erano aperte esattamente sul palco dove si stavano esibendo. Brenno stava impartendo questa lezione con la pelliccia in-

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dosso e tutti i componenti del gruppo vollero poi provare la pelliccia di coniglio. Quindi uno per uno, in un modo assurdamente diligente, indossarono lo straordinario capo invernale e si scattarono la foto ricordo. Simionato disse che l’oggetto avrebbe meritato la copertina del prossimo disco; Valdo aggiunse che ormai, a questo punto, sarebbe ora di smetterla con la scusa delle prove, e che l’attuale situazione del gruppo, dopo anni di gavetta, permetterebbe di trovarsi a bere senza la scusa di suonare sempre. “La prossima volta che ci troviamo lasciamo a casa gli strumenti, eh - disse - che altrimenti sarebbe come se degli amici geometri che si ritrovano al bar, tutte le volte che vogliono stare un po’ in compagnia, dovessero portare con sé i tacheometri, le cordelle e le paline per avere la scusa per bere. O cinque amici falegnami che arrivano a banco col bindello e la circolare. Patetico”. Quella volta lì le prove, in quanto tali, furono brevissime, però i ragazzi bevvero moltissime birre. Il cavallo di Brenno obbediva alle sacre leggi della natura e stava marcendo nello stallino, ma in sala non c’erano più né una mosca né una zanzara; Aldo, il colto e riflessivo Aldo, partecipò il resto del gruppo di un interrogativo etico pressante: tutto questo era naturale? Tradizionale? Qualcuno di loro pensò fosse il caso di brevettare l’esperienza e trarne profitto; il concetto di fondo era: vuoi eliminare completamente dalla tua casa mosche e zanzare? Prendi un cavallo, quando è vecchio, malato e sofferente, abbattilo e tieni la carcassa appena fuori casa. Quando ho raccontato questa storia in anteprima a uno che se ne intende, sia di folk che di libri, prima mi ha chiesto quali strumenti tradizionali esattamente usasse Il Sibiolo, ma credo che l’abbia fatto così, per educazione, poi mi ha detto che in effetti una morale emerge: non si può suonare senza bere, ma si può benissimo bere senza suonare.

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Oggi comunque quei ragazzi sono ancora tutti vivi, e qualcuno di loro suona ancora. Il contrabbassista vive da eremita nella camera semianecoica delle ex-officine di un Istituto Tecnico reggiano. È lui che mi ha concesso la maggior parte dei fatti raccontati. Ne avrebbe un sacco di altri, ma preferisce che siano resi pubblici dopo la sua morte. Quasi inutile specificare, ma sibiolo è l’italianizzazione di una parola dialettale con la quale si indicano in particolare gli aerofoni cilindrici, e più in generale tutto ciò che è riconducibile a quella forma.

Claudio Caroli è autore di Parrokkia progressive (2007), La messa a punta (2008) e Istriana blues (2010), tutti pubblicati con LdS - Milano. Nel 2013 ha pubblicato un bootleg in collaborazione col blogger Ciro Andrea Piccinini dal titolo Nei miei romanzi non scopano mai Storie di vita piatta, introvabile. Nel 2014 ha pubblicato con Maris Terraquae di Reggio Emilia Il nome della resa - Viaggetto in una Provincia da abolire. Da alcuni anni collabora con pochissime persone.

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Bellocchio e l’albero dell’impiccato di Franco Bellandi

L’odiato Legato, sua Eminenza Sgraffigna, che governava la città di Novellara in nome dei Gonzaga, continuava ad emettere editti che limitavano sempre più le libertà dei cittadini e aumentava, in continuazione, le tasse e i balzelli che finivano sempre per colpire soprattutto la povera gente. La vita in città era diventata impossibile ma, date le pesanti sanzioni e le crudeli pene previste per chi tentava di sottrarsi al pagamento di queste gabelle, nessuno osava ribellarsi o protestare apertamente. Chi lo faceva rischiava di essere appeso per il collo al voltone del Palazzo. Bellocchio, all’osteria del salasso, in Borgo delle Capre, quella sera aveva alzato un po’ troppo il gomito, era già al suo terzo mezzo litro. Per lui la giornata era stata faticosa e pesante da passare. Aveva scaricato, per quasi tutto il giorno, legna e carbone portandoli nelle cantine dei ricchi cittadini. Insieme ad altri, due facchini della stessa corporazione alla quale lui apparteneva, la balla del Borgo, avevano scaricato tre carri di combustibile ricavandone i baiocchi per tirare avanti due o tre giorni, una parte dei quali, a fine serata, sarebbero finiti nelle tasche di Liborio, l’oste del Borgo delle Capre. Le discussioni all’osteria, anche per effetto del vino bevuto dagli avventori, erano animate e toccavano tutti gli argomenti che caratterizzavano la vita della città, gli ultimi editti e leggi del Legato che limitavano sempre più le libertà della gente e la spremevano con tasse che svuotavano le già loro misere tasche. Fu a quel punto che Bellocchio cominciò a sproloquiare e, dopo una lunghissima tirata di maldicenze, su tutte le ultime iniziative del maledetto

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Legato, sua Eminenza Sgraffigna, lo apostrofò ad alta voce di: “sporca carogna, sanguisuga succhia sangue del popolo, assassino di innocenti, ladro di galline (alludendo alla Decima) Giuda e ladrone”. Non si era reso conto, mentre in piedi con la brocca e il bicchiere in mano affermava ad alta voce, quasi gridando, quanto scritto prima, che il Capitano delle guardie era entrato nell’osteria accompagnato da due subalterni per espletare, con lo zelo che lo distingueva, il giro di ronda a caccia di male intenzionati o ricercati per qualche condanna da scontare. Ovviamente il posto migliore per pizzicarli erano le osterie dei quartieri più popolari. Ladri, assassini, fuggitivi, banditi, evasi non sapevano resistere al fascino e al richiamo dell’osteria per bersi una bella brocca di rosso, magari frizzante. Il Capitano delle guardie, fermo sulla porta dell’osteria, ascoltò tutti gli improperi che Bellocchio profferiva contro Sua Eminenza il Legato Sgraffigna, mentre tutti gli avventori ai tavoli vicino all’invasato, che non si era accorto di nulla e che, rabbiosamente, continuava con le sue invettive, cercavano disperatamente di avvertirlo e di segnalargli il pericolo che stava correndo, facendogli ampi gesti che lui, sconsideratamente, interpretava come segni di approvazione infervorandosi ancora di più nel suo dire. Il Capitano delle guardie avanzò nell’osteria fra il più assoluto silenzio degli altri avventori mentre Bellocchio, brandendo la brocca del vino come un’arma vendicatrice, continuava ad inveire contro l’odiato Legato. L’ufficiale, dopo essersi avvicinato, gli mise la mano guantata sulla spalla. Il nostro uomo, girandosi per vedere chi era quell’importuno che osava interrompere la sua filippica contro il tiranno Sgraffigna, restò con la brocca alzata per aria mentre l’ultima frase gli si strozzava in gola alla vista del graduato.

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“Qual è il tuo nome?” chiese l’Ufficiale. “Be... Be... Bellocchio...” “Così tu Bellocchio hai una così altissima stima del Legato Governatore della nostra città? Tu! Infimo plebeo, ubriacone scansafatiche, ti permetti, dentro un pubblico esercizio, alla presenza di tanti galantuomini, di offendere, oltraggiare e calunniare il nostro beneamato Legato, sua Eminenza Sgraffigna, benignamente inviatoci a governare questa città, direttamente dal Duca Gonzaga. Chi sei tu per dare questi giudizi sull’operato del Legato? Sei forse più importante del Duca?” Bellocchio si era fatto piccolo piccolo. Annichilito dalla situazione. L’aveva combinata grossa e cercava inutilmente delle parole che, in qualche modo, potessero rimediare alla situazione: “No, no... veda Eccellenza... c’è un equivoco...” “Equivoco? Guarda che io ho le orecchie buone e ho sentito tutto e sono sicuro che tutti questi galantuomini, dopo che avrò preso i loro nomi uno per uno, vorranno testimoniare quanto anche loro ti hanno sentito dire a proposito del nostro Legato. Salvo che qualcuno di loro, più duro di orecchi, non voglia essere arrestato con te, come tuo complice!” La minaccia del Capitano delle guardie era palese, chi si fosse rifiutato di testimoniare contro Bellocchio sarebbe stato arrestato con lui come complice del delitto di lesa personalità della massima Autorità della Città condividendone, quindi, la condanna che, visto l’ultimo editto del Legato, sarebbe stata tremenda: “Chiunque avesse, in luogo pubblico, offeso, denigrato, calunniato l’alta carica del Legato Governatore e alto rappresentante del Duca Gonzaga, sarebbe incorso nella condanna, vista la particolare offesa, della pena di morte per impiccagione”.

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Tutti i presenti, compreso l’oste Liborio, che all’arrivo delle guardie si trovava in cantina per prelevare una damigiana di vino, si dichiararono testimoni a carico del Bellocchio avendolo sentito profferire le offese e le gravi accuse nei confronti dell’amatissimo Legato, aggiungendo che solo l’arrivo del Capitano delle guardie aveva impedito loro di dare la giusta lezione all’infame che osava calunniare così il quasi Santo Legato Sgraffigna. Dopo tre terribili giorni di carcere a pane e acqua, e il dover bere acqua era la cosa più dura per Bellocchio tanto gli era inusuale berne, il poveraccio fu portato davanti al Tribunale per rispondere delle accuse a lui imputate. Il Legato in persona aveva voluto essere presente in aula, si aspettava dai giudici una condanna esemplare, poiché era necessario mettere un freno ai sobillatori del popolo che lo calunniavano attribuendogli mille nefandezze, che in verità commetteva, generando nell’ingenuo popolo devoto a Dio e al Duca, che finiva per credervi, la volontà di ribellarsi alle Autorità che, invece, erano sempre attente al benessere e alla felicità della povera gente, in special modo lui, il Legato che governava con giustizia e saggezza, nonché con generosità, per volontà dei Gonzaga. L’avvocato d’ufficio assegnato a Bellocchio, poiché lui non aveva i mezzi per potersene permettere uno che lo difendesse, tale Giuseppe Noncecapa, ovviamente avvocaticchio di scarsa levatura, si limitò, dopo che tutte le testimonianze a carico del suo assistito furono ascoltate, a chiedere clemenza alla Corte in quanto le offese da lui profferite nell’occasione erano state fatte sotto l’influsso dei fumi dell’alcool, del vino che non era abituato a bere. Quest’ultima affermazione fece scoppiare il pubblico presente in una grande risata, tanto era risaputa da tutti la fama di ubriacone del Bellocchio. L’avvocato concluse l’arringa con la richiesta che il suo assistito venisse impiccato senza fargli patire la pena della tortura prevista dalla legge.

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La Corte, dopo aver guardato il Legato, che fece un cenno di assenso con la testa, benevolmente concesse questa indulgenza dimostrando misericordia e generosità. L’imputato sarebbe stato impiccato senza essere prima sottoposto alla tortura. Prima della lettura definitiva della sentenza, come da tradizione legale, fu chiesto al condannato se avesse qualcosa da dire. Bellocchio chiese di poter parlare e ne ebbe facoltà. L’imputato si alzò in piedi e dopo essersi schiarito la voce con due colpi di tosse: “Vostre Eccellenze i Giudici, popolo presente, chiarissima Eminenza Legato Sgraffigna, consapevole di averle recato grandissima offesa, non solo alla sua limpidissima persona ma anche all’importante carica governativa che Ella ricopre, sapendo di avere detto falsità nei suoi confronti, mi dichiaro colpevole per tutte le falsità, le calunnie, le bugie che sotto l’influsso malefico del vino ho profferito nei suoi confronti. Certamente merito la condanna, l’impiccagione, che io accetto, anche perché la mia condanna sia di monito ed esempio di quello che può accadere quando si manca di rispetto all’Autorità che governa con tanta generosità e benevolenza. Ho solo una grazia da chiedere alla Corte e alla sua generosità Eminenza. Quella che, invece di essere impiccato nel voltone esterno al palazzo del Palozzo, la condanna sia eseguita appendendomi ad un albero. Sono nato in campagna e vorrei finire i miei sciagurati giorni appeso a una pianta e non a una asta di ferro infissa fra due muri. Fidando sulla vostra condiscendenza, vorrei avere il privilegio di scegliere io la pianta alla quale essere impiccato. Gradirei un albero di tradizione, una quercia, un platano, un faggio per poter, nel morire, chiudere gli occhi all’ombra di una pianta. Questo chiedo! Questa grazia per morire in Grazia di Dio pentendomi dei miei peccati e per poter dire all’Altissimo, qualora fossi ammesso alla sua presenza, quanto è stata generosa con me questa Corte e quanto lo è stato sua Eminenza il Legato Sgraffigna, che Dio lo abbia in gloria”.

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I Giudici rimasero molto colpiti e perplessi da questa insolita richiesta, e sorpresi anche dal parlare così forbito e appropriato, insospettabile per un bifolco qual era considerato l’accusato. Si guardarono fra loro perplessi non sapendo che decisone prendere. La richiesta del condannato era stata così accorata, l’ammissione di colpevolezza e il palese rimorso per quello che aveva fatto, il fatto di raccomandare la sua anima a Dio, li trovava inteneriti e ben disposti verso la sua richiesta. In definitiva che differenza c’era se era impiccato ad un albero invece che al voltone del Palazzo? La condanna sarebbe comunque stata eseguita in piazza alla presenza del popolo, come ammonizione, e giustizia sarebbe stata fatta. I Giudici volsero gli occhi al Legato per cercare la sua approvazione o disapprovazione, per prendere una decisione. Il Legato, colpito dal pentimento di Bellocchio e intravedendo in quell’eventuale concessione, che sostanzialmente non cambiava nulla in quanto il malfattore sarebbe stato comunque impiccato, una dimostrazione data al popolo della sua magnanimità, benevolenza e misericordia, fece un cenno di assenso con il capo e i Giudici concessore al condannato quel beneficio. Avrebbe potuto scegliersi personalmente l’albero al quale essere impiccato. Il tutto doveva comunque accadere entro cinque giorni e l’albero scelto, spiantato, sarebbe stato collocato in piazza Maggiore dove al pubblico, la cittadinanza, non sarebbe stato negato lo spettacolo dell’impiccagione che avrebbe fatto giustizia. Bellocchio, pertanto, aveva quattro giorni a disposizione per potersi scegliere l’albero al quale essere impiccato. Sul carro trainato da due cavalli, il condannato in catene, quattro guardie e il conducente, un vecchio birocciaio amico del futuro impiccato, stavano percorrendo la strada polverosa che portava a Nonantola, un paese vicino alla città dove, quel giorno, si sarebbe tenuto il mercato settimanale. Bellocchio aveva detto che voleva recarsi da quelle parti dove ricordava di

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aver visto, qualche tempo prima, un albero che secondo lui era adatto alla sua impiccagione. Il Guardasigilli addetto alla Giustizia, in ottemperanza alla condanna emanata dai Giudici, diede disposizione affinché il condannato fosse accompagnato sul posto al fine di fargli fare la sua scelta. Arrivati in paese, Bellocchio, in catene in mezzo alle quattro guardie che lo circondavano fra la curiosità dei presenti, si avviò alla piazza dove si teneva il mercato e, dopo aver girovagato un po’, trovò quello che stava cercando: “Ecco! Fermiamoci qui!” La piccola strana comitiva si fermò davanti ad un banco, dietro al quale vi era un uomo dalle fattezze orientali: viso giallognolo, basso di statura, capelli corvini raccolti in una lunga treccia e gli occhi a mandorla. Forse un cinese o un giapponese. Sul suo banco, dei piccoli alberi in miniatura. Alberi veri che con una tecnica orientale chiamata Bonsai erano coltivati in modo da rimanere nani, pur essendo alberi di alto fusto e di una notevole quantità di anni. Bellocchio scelse una bella quercia alta circa trenta centimetri. Avendo le mani incatenate, chiese alla guardia di prelevare dalla sua borsa, che teneva legata alla cintura, i baiocchi necessari per pagare la pianta acquistata dall’orientale. Quello sarebbe stato l’albero al quale intendeva farsi impiccare. Le guardie inizialmente furono sorprese e perplesse ma poi, capita l’astuzia, iniziarono a ridere a crepapelle. Quel furbone di Bellocchio stava gabbando la giustizia del Legato. Non c’era proprio nulla da dire, la trovata del facchino di Borgo delle Capre era ineccepibile: gli avevano concesso di scegliersi l’albero al quale essere impiccato, e lui lo aveva scelto. Il viaggio di ritorno verso Novellara fu molto allegro su quel carro anche perché Bellocchio, con i baiocchi che gli erano rimasti, comprò due fiasche di vino e sia il conducente sia le

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guardie gli fecero molto onore, bevendoselo tutto, con la fattiva collaborazione del condannato che non si tirò indietro. In un angolo del carro, ben protetto, viaggiava con loro l’albero scelto da Bellocchio. Ogni tanto, fra allegre risate, una guardia prendeva la piantina in mano e avvicinandola al collo del furbone ne simulava l’impiccagione e la tal cosa aumentava le risate e l’allegria. “Allora? Missione compiuta? Avete trovato l’albero?” chiese il Capitano delle guardie ai suoi sottoposti. “L’albero lo abbiamo trovato, ma non crediamo che il Guardasigilli alla Giustizia sia felice della cosa!” rispose il più alto in grado delle guardie. “Perché? C’è forse qualche difficoltà a sradicarlo e portarlo in città? O forse il proprietario della pianta non vuole cederla? Gli avete detto che si tratta di un ordine del Legato?” “No Capitano! Niente di tutto questo. L’albero è qui, l’abbiamo con noi”. “E allora? Qual è il problema?” “Eccolo il problema!” disse la guardia mostrando la piccola quercia Bonsai. “Che cosa è?! Uno scherzo?” chiese adirato il Capitano. “No Capitano! Non è uno scherzo! È proprio l’albero che ha scelto Bellocchio. Lui vuole essere impiccato a questo albero!” Dopo due giorni di ricerche legislative, di cavilli legali che potessero invalidare la scelta fatta da Belloccio, che fra l’altro non poteva ormai essere taciuta al popolo, in quanto la notizia era già di dominio pubblico raccontata in tutte le osterie nelle quali faceva posta il conducente del carro che aveva trasportato il condannato e le guardie a Nonantola a prelevare l’albero. Le stesse guardie, testimoni del fatto, non si erano fatte pregare, davanti a un mezzo di quello buono, a raccontare come si erano

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svolte le cose, fra le risate di tutti gli ascoltatori. Sia i Giudici, sia il Guardasigilli, non trovarono nulla di legalmente plausibile per annullare la furbesca scelta di Bellocchio. L’albero era effettivamente un albero! Un albero che aveva, tra l’altro, venti anni di età, com’era attestato dal certificato rilasciato dal coltivatore, e poiché la sentenza non prevedeva nessun accenno né all’altezza, né alla robustezza della pianta alla quale il condannato doveva essere impiccato, quella scelta non poteva essere contestata. Si riunì un gruppo di esperti per verificare o studiare un sistema per poter, comunque, impiccare il condannato a quella pianta in miniatura, ma dopo molti tentativi e prove non fu trovato nessun espediente che non violasse la Legge stessa. Fu così che per non affrontare il ridicolo di quella situazione il Legato, furioso di rabbia nei confronti dei suoi sottoposti che lo avevano messo in quella antipatica situazione facendolo diventare lo zimbello del popolino, al fine di non alimentare il dileggio popolare decise, con atto magnanimo, di concedere la grazia al reo Bellocchio, anche perché la legislazione vigente non permetteva di trasformare una sentenza di morte con il carcere a vita. O morto o libero. Questa era la Legge che vigeva in città sotto Sua Eminenza il Legato Sgraffigna. Così Bellocchio fu graziato. All’uscita di prigione, una grande folla acclamò Bellocchio che fu portato in trionfo fino al Borgo delle Capre, il quartiere dove era nato e dove abitava in una fatiscente casupola. Fu festa grande al Borgo e il nostro eroe fece il giro di tutte le osterie per onorarle con la sua presenza. Non era fatto che accadeva tutti i giorni che un popolano riuscisse a gabbare l’infame giustizia del Legato e dei suoi accoliti. Il piccolo Bonsai di quercia, per ordine del Legato, rimase a

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lungo in bella vista nell’ufficio del Guardasigilli alla Giustizia, con l’ordine di Sua Eminenza di curarlo con la massima attenzione e zelo in quanto: se quella pianta per qualche motivo fosse morta, l’alto funzionario ne avrebbe risposto con la sua testa. La pianta doveva restare lì, a monito della sua inettitudine, e ogni volta che il Guardasigilli riceveva qualcuno nel suo ufficio questi non poteva fare a meno, ben conoscendo la storia, di dare un’occhiata alla piccola pianta e farsi scappare un sorriso divertito con relativo attacco di bile da parte dello sfortunato funzionario. Ispirato a Bertoldo di Giulio Cesare Croce

Franco Bellandi, nato a Genova - giovane marittimo negli anni ’50 del secolo scorso, trasferitosi a Bologna per sposare la donna della sua vita - agente di commercio, poi funzionario aziendale. Direttore commerciale di medie aziende, infine pensionato con la passione di scrivere che gli sta dando tante soddisfazioni, avendo visti pubblicati diversi suoi racconti. Primo posto per due anni consecutivi al concorso letterario “Bassa in Letteratura” - Racconto pubblicato nell’antologia M.A.R.E edito dalla Regione Emilia Romagna - Morgan Miller Editore, antologia Il mare fra le righe - La sua fiaba Gocciolina è stata premiata al Premio Nazionale Fiaba di Mede - Nell’antologia Ciò che la nebbia racconta è presente un suo racconto. Due suoi racconti figurano in rete come e-book… e tante altre pubblicazioni di prosa e poesia.

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L’incontro, secondo Lui e secondo Lei di Giampietro Lazzari

L’incontro (secondo Lui) Tornavo alla sera presto e lui era lì. Tornavo alla notte tarda e lui era lì. Uscivo di casa alla mattina e lui era lì: accovacciato nell’erba sotto quella specie di grande abete sul retro della casa, poco lontano dal garage che da sempre veniva utilizzato come ingresso posteriore. Per uno come me, che da sempre si sentiva oltremodo distante dal genere canino, e proprio per questo lo temeva, quella presenza risultava inquietante al limite dello spavento, per non dire, a volte, di vera paura. È pur da dire, in verità, che nel lontano passato ero stato morso e, verosimilmente per questo, mi portavo dietro un retaggio di timore misto ad astio nei confronti di qualsiasi cane, grande o piccolo che fosse. Semplicemente li detestavo, come si detestano le persone che ti hanno fatto un grave dispetto e nelle quali non hai mai visto l’ombra di pentimento. Del resto, era noto a tutti - e in parte è così anche ora - che il mio sentimento animale era fedelmente felino. Fin dai tempi della cascina avevo allevato, curato e prediletto schiere e schiere di gatti. Piccoli, grandi, nati dentro in casa, nella casetta della legna o sugli stracci del magazzino, o nella paglia lassù sul fienile o nella stalla, trovatelli, soriani, siamesi, di razza incerta, splendidi dal pelo folto e dagli occhi ipnotizzanti o storpi, brutti e malandati, affettuosi o assolutamente schivi, svelti e maldestri, ladri nel profondo o di vocazione onesta.

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Le mie cure per loro erano sempre e comunque infinite e avrei voluto, e in effetti così era, che i gatti fossero costantemente intorno me. Di giorno passavo molto tempo dedito alla loro osservazione. Spesso nelle notti d’inverno quando erano piccoli, ma non solo, li tenevo nel letto con me, e loro erano certamente contenti di condividere il caldo delle coperte, e mi addormentavo con le loro fusa di sottofondo. Li osservavo mentre dormivano; rimanevo impressionato dalla loro agilità e dal loro istinto; sfioravo i loro baffi, la peluria sottile all’interno delle loro orecchie; stupendomi del loro colore tenue toccavo i loro polpastrelli, in modo che uscissero le unghie retrattili. Osservavo le macchie leopardate posizionate sul ventre di alcuni di loro dal manto tigrato; giocavo con loro con un tappo di sughero legato ad una cordicella o con topi finti ricavati da piccole pallette di cartone ricoperte di filo di lana da maglia. Ricordo che li invidiavo quando nelle mattine fredde uscivo di casa malavoglia per la scuola e loro potevano seguitare a sonnecchiare sulla sedia vicino al calorifero, con il loro atteggiamento di superiorità mista ad indifferenza. I gatti, tutti i gatti, non mi stancavano mai. E le unghiate che spesso subivo le consideravo come la legittima conseguenza di un gioco fra buoni amici che, per scherzo, inscenavano ogni tanto una finta rissa. Lo sconosciuto continuava a starsene lì. Non che lui facesse chissà cosa. Si limitava a guardarmi e al massimo, qualche volta, a guaire piano, e ciò di per sé stesso era per me fonte di preoccupazione per timore di chissà quale improvviso attacco o conseguenza. Se fosse stato un animale affine a me, come lo erano i gatti, ne avrei compreso lo sguardo, le movenze, la voce. Invece quell’universo mi era sconosciuto e per questo pieno di ombre negative. Chi ha avuto, come me per molto tempo, paura dei cani, mi potrà capire. Confesso, con profondo senso di vergogna ancor oggi, che

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le prime volte che lo vidi tentai di scacciarlo con modi che decisamente non davano spazio ad incomprensioni. Con tiro di sassi presi dal cortile, con scope o altri oggetti depositati nel garage lanciati a mo’ di giavellotto, con grida, con tutto ciò che ritenevo fosse utile ad allontanarlo. Niente. Lui era lì, sempre lì. Non se ne andava. Al massimo si spostava di qualche metro più in là, ma era lì. Era lì e lì stava. E mi guardava. Ma pareva non guardarmi normalmente. Mi metteva a disagio quella sua espressione che sembrava essere vicina alla malinconia, che, me ne accorsi col tempo, non lo abbandonò mai del tutto. Pareva essere un cane di razza pastore tedesco, di certo non di razza purissima, ma comunque un bell’esemplare nei suoi colori nero e marrone e nel suo muso che denotava intelligenza. Non aveva ancora raggiunto una grande dimensione dal momento che, stimai, non avesse avuto nemmeno un anno di vita. Probabilmente abbandonato nelle vicinanze della stazione ferroviaria, dopo aver attraversato o vagato per qualche tempo nei campi limitrofi, era approdato in prossimità della nostra abitazione per fame, per caso o per voglia di incontrare uomini; possibilmente migliori di quelli che lo avevano abbandonato e che sicuramente lui aveva amato fino a quel momento. Ma si sa, gli uomini sanno essere crudeli e nonostante questo gli animali continuano ad amarli e spesso a cercarli. Al momento non sembrava avesse paura delle persone, o forse un poco sì, ma sicuramente non così come ne avevo io di lui (lo dico col senno di poi perché al momento ero incapace di interpretarne qualsiasi segno). In verità sembrava fosse proprio lì per cercare un contatto, sebbene a distanza, e per questo credo non se ne andasse. Con la pazienza di cui solo un animale può essere capace stette lì molti giorni, dimostrando di non dare molto peso ai miei

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modi cattivi. Non so dove si procurasse il cibo in quei giorni, né acqua, poiché io non gliene diedi. Probabilmente si abbeverava con l’acqua presente nei fossi circostanti, e forse si nutriva catturando piccole bestiole che abitavano i campi vicini, non so bene, o magari razzolando qua e là nelle abitazioni limitrofe. Mi era decisamente misterioso, e ripensandoci ancora oggi lo è, del perché stesse lì, nonostante me, nonostante tutto. Stanco della situazione, dopo averne avuto tanta paura tanto da essere snervato pure di questa, dopo avere tentato di scacciarlo in tutti i modi, dopo averlo successivamente ignorato con tutto il mio impegno, decisi che forse era venuto il momento di provare a conoscerlo sul serio. Quindi scendendo dal primo piano con una scodella di latte, una sera, tentai di avvicinarlo. Del resto lui e io ormai ci conoscevamo, un po’ come certi vicini di pianerottolo negli appartamenti delle metropoli che non si sono mai rivolti un saluto reciproco ma pure conoscono a menadito le rispettive abitudini diurne e notturne. Tuttavia, e avrei dovuto ben comprenderlo, dopo tutto ciò di non amichevole che avevo fatto nei suoi confronti, lui, giustamente, non si dimostrò immediatamente disponibile; e come dargli torto del resto! Io mi avvicinavo con cautela e lui indietreggiava un po’. La distanza era sempre più o meno di circa tre metri. Né meno né più. Andavo avanti un passo e lui retrocedeva di eguale spazio; mi approssimavo piano e lui indietreggiava piano. Con la medesima modalità del mio avvicinarsi lui faceva altrettanto, ma al contrario. A volte pensavo che mi prendesse in giro volutamente. Mi accucciavo a quattro zampe procedendo lentissimamente verso di lui e anche lui si tirava indietro con altrettanta lentezza facendo leva sulle zampe dietro. Fingevo di andarmene ma poi, voltatomi, mi accorgevo che, avanzando nascosto alla mia vi-

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sta, aveva ricolmato lo spazio fra di noi. Sembrava che quei pochissimi metri fossero la sua personale distanza di sicurezza, o forse il suo esclusivo modo di dimostrarmi il suo risentimento per i miei modi malvagi. Solo ora so che non poteva essere così. Gli animali non nutrono risentimenti, tuttavia al tempo la immaginai proprio così: una reazione vendicativa ai miei comportamenti. Questa cosa andò avanti così per parecchi giorni. Io lasciavo la scodella del latte alla distanza che lui mi consentiva e dopo poco la ritiravo vuota e leccata a fondo. E nemmeno mi concedeva il privilegio di osservarlo mentre mangiava. Credo che, con la fame che sicuramente lo attanagliava, abbia compiuto veramente uno sforzo durissimo e altrettanto consapevole per non aggredire il latte immediatamente, pur di non darmi la soddisfazione di osservarlo mentre si nutriva. O almeno al tempo questo era ciò che pensavo. Il suo comportamento non faceva che alimentare ancora una volta un certo mio pregiudizio sul mondo canino, anche se, devo dirla tutta, l’atavica paura se ne era quasi andata, quanto meno per quell’esemplare, e l’antipatia andava scemando come quando, pur mantenendo un atteggiamento di freddezza, si comincia a rivalutare una persona da sempre creduta nemica nel momento in cui si scopre che, in fondo, non era così negativa come la si era sempre immaginata. Ci guardavamo. E lo facevamo per parecchio tempo. Io, fermo e accovacciato sulle gambe, guardavo lui, e lui guardava me nella posizione tipica canina, accucciato con le zampe allungate in avanti. Stavamo lì, io un po’ al sole, lui all’ombra dell’abete che ormai era diventata la sua casa. Ci guardavamo e ci studiavamo. Lui osservava me, attentissimo, a volte con la bocca aperta e la lingua a penzoloni come fanno tutti i cani per favorire la traspirazione; con le orecchie tese e la punta del naso umida che tendeva, con impercettibili movimenti, a

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captare qualcosa di me. E io osservavo lui, guardandolo fisso negli occhi. Solo dopo molto tempo, approfondendo la conoscenza canina grazie alla mia compagna, profonda amante di quell’universo, seppi che guardare un cane profondamente negli occhi equivale ad un gesto di sfida. E così facendo, di certo, non aiutavo l’approccio. I giorni passavano. Dopo poco il latte venne sostituito da avanzi o da altro cibo più sostanzioso. L’abete e l’area circostante erano ormai diventati di fatto la sua casa. L’erba sufficientemente umida e fresca, unita all’ombra del grande albero, rappresentava una cuccia piacevole pur nella schiacciante calura estiva della Bassa, e le notti d’estate erano già di per sé stesse gradevoli e non spingevano alla necessità di altro riparo. Con il passare del tempo tuttavia mi accorsi che, dopo i primi inutili tentativi di approccio, la distanza fisica tra lui e me sembrava decrementare, seppure molto, molto lentamente. È chiaro che la diffidenza la faceva ancora da padrona, essa però lentamente scemava e io ne ero felice. Decimetro per decimetro, giorno dopo giorno, mi avvicinavo a lui, e lui a me. Notai che non solo lui tollerava che mi facessi un po’ più avanti; con mia meraviglia vidi che anche lui, qualche volta, si muoveva un poco verso di me, sebbene meno di quanto facessi io. Si trattava di centimetri. Ormai conoscevo il terreno palmo a palmo. C’eravamo quasi. Dopo poco, procedendo così, pensai, forse sarei riuscito a toccarlo e allora chissà… Mi rallegravo perché non solo vedevo la riuscita del mio intento, ma, cosa ben più preziosa, la mia paura per il genere canino stava svanendo, lasciandomi con una piacevole sensazione di avere superato un ostacolo che mi impediva, da sempre, l’in-

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gresso in una bella parte del creato. E una sera di luglio per i due sconosciuti che, in fondo, si conoscevano ormai benissimo, venne il grande giorno. Io toccai lui. Lo feci dopo avere ancora una volta provato con voluta e concentrata lentezza, sulla punta delle zampe distese in avanti, sfiorando con le mie dita le sue unghie che spuntavano dal pelo, dopo che, per molti minuti, proteso di fronte a lui, gli avevo tenuto bene in vista le mie mani, sui palmi e sul dorso. E lui, finalmente, toccò quella parte di me con il tartufo umido del suo naso. E fu grande gioia. Ripensandoci ti dirò caro amico, che, anni dopo, ebbi modo di rivivere la stessa scena, meravigliosamente descritta in un film sul vecchio West, quando il protagonista avvicina a poco a poco un animale selvaggio e se lo fa compagno. E forse mi commuovetti. Non dico che da quel giorno tutto cambiò, ma con certezza entrambi mettemmo da parte quasi totalmente le nostre diffidenze per scoprire reciprocamente il mondo dell’altro. Io quello dei cani, che non conoscevo, lui quello degli uomini che già aveva conosciuto ma forse nel loro aspetto più crudele. E fu vera scoperta. E fu vera contentezza per entrambi. Lupo, così decisi di continuare a chiamarlo, sebbene femmina, dal momento che, sin dal primo momento, così lo avevo battezzato immaginando fosse un maschio, si concedeva alla mia scoperta di lui e del suo mondo che per tanto tempo avevo, per timore ingiustificato, tenuto lontano da me. E anch’egli si dimostrava curioso nei miei confronti, assecondandomi nelle mie attività o in ciò che gli chiedevo. Naturalmente, un po’ più in là nel tempo, l’abete cessò di esser la sua casa all’aperto e, di buon grado, si fece accogliere in una

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casetta di legno che costruii per lui con molta cura utilizzando le assi dimenticate lì al tempo dei muratori, e, più avanti ancora, in casa durante la stagione fredda. Tuttavia il posto sotto l’albero rimase sempre il suo preferito, ed era lì che gli piaceva aspettarmi quando rientravo, ed era sempre lì che, contento, rosicchiava rumorosamente gli ossi che gli davo o, acquattato, osservava da lontano i gatti che ancora abitavano la casa. Nei mesi a venire imparammo a stare insieme, non senza difficoltà non ve lo nascondo. Conoscemmo le nostre capacità e i nostri limiti. Ci stupimmo a volte di capirci al volo, altre volte invece di come non si riuscisse proprio ad intendersi. E spesso litigammo e ci facemmo il muso. Rimaneva comunque in lui una specie di malinconia, non so ben dire, che lo aveva caratterizzato fin dai primi momenti che lo avevo incontrato. Innumerevoli volte, nel corso del tempo, mi chiesi cosa nascondesse nel profondo quel cane, o se il percepire da parte mia quella sorta di sentimento fosse solo una mia impressione, dovuta alle fattezze del suo muso o che altro. Arrivai alla conclusione, forse strampalata - giudica tu - che fosse un cane che non rideva poiché aveva assaggiato, a causa dell’uomo, le conseguenze dell’abbandono, e per questo la sofferenza lo aveva segnato, lasciando per sempre visibile in lui quella cicatrice che portava dentro di sé. Nonostante la malinconia divenimmo grandi amici Lupo e io. Ma non solo amici; compagni di avventure, complici, alleati. Stava con me, e con me si addentrava nel campo fra le piante di granoturco nel massimo della loro altezza e vigore come sperduti in una giungla amazzonica; con me, paziente, stava quando passavo i pomeriggi chiuso a dipingere in garage, scacciato dalle stanze civili per la puzza dell’olio di trementina, o

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per ore intento, spesso inutilmente, ad arrabattarmi su qualche pezzo meccanico della Vespa. Con lui stavo io, in parte e fermissimo, mentre faceva la posta alle talpe quando, in certe stagioni, i simpatici animali avevano deciso di popolare il giardino e di renderlo simile ad un gruviera. Con lui stavo quando si riposava sotto il portico dopo aver rincorso inutilmente le cornacchie che si prendevano gioco di lui e sembrava che ne fosse deluso dal non averne catturata nemmeno una. Era bello vedere che ogni stagione poteva, stando insieme, portare a nuove e sempre diverse forme di felicità e contentezza. Era magnifico rotolarsi e correre nel trifoglio a primavera, inzupparsi di nebbia pesante nelle passeggiate d’autunno e tuffarsi nella neve quando questa imbiancava la pianura. L’estate poi, con le sue giornate infinite e il caldo che permetteva di stare fuori per tutto il giorno, era sempre piena di giochi. Scoprimmo anche le nostre reciproche paure. Durante i temporali, terrorizzato dai tuoni, cercava rifugio sotto il mio letto e il suo cuore andava a mille tanto che qualche volta temetti che potesse scoppiare. Spesso sembrava, guardandomi, che mi rimproverasse quando indulgevo alla televisione piuttosto che allo studio. Non sto qui ad elencarti ulteriormente le innumerevoli prove d’affetto che lui, Lupo, riversò verso di me nei tanti anni in cui fummo insieme. Né tanto meno ti tedierò dicendoti del genuino dolore che mi prese quando, ormai vecchio e incapace di reggersi sulle zampe, mi lasciò. Ogni possessore, o meglio compagno di vita di un amico cane, sa bene a cosa mi riferisco. Un giorno di novembre, ormai troppo vecchio o troppo stanco, Lupo semplicemente se ne andò come è nella natura degli animali e degli uomini, non prima di avere tentato, per un’ul-

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tima volta di rialzarsi e stare accanto a me salendo al piano di sopra. Lupo, da tanti anni, dorme nel giardino, vicino all’abete che con il passare delle stagioni si è fatto più grande, e che lo protegge ancora con la sua ombra, come in quei giorni in cui scelse di incontrarmi.

L’incontro (secondo Lei) Un cane abbandonato e un umano che ha paura dei cani: un incontro interessante. Questo ho pensato dopo che Lui mi raccontò come Lupo era approdata nella sua casa. Userò il genere femminile, perché da conoscitrice, amante e osservatrice dei cani, ho sempre dissentito dal caratterizzarla col genere maschile come Lui faceva sempre. “Ci sono differenze comportamentali fra maschi e femmine!” ammonivo, ma per Lui Lupo era un cane e basta, e credo avesse necessità di semplificare anche per la paura che cercava di vincere. Dopo i primi giorni di netto rifiuto aveva cambiato idea. Diceva che le paure vanno superate, sempre e comunque, e aveva deciso che questa era l’occasione buona per superare la diffidenza verso questi animali che aveva sempre evitato a causa di un’esperienza infantile negativa con uno di loro. Questo era ciò che ufficialmente sosteneva. In realtà dopo poco tempo era ormai del tutto evidente che a Lui non interessava l’intero genere canino ma solo lei, Lupo. Voleva cercare un contatto. Gli piaceva. Non capiva perché fosse rimasta nonostante avesse fatto di tutto per scacciarla. La tenacia di Lupo, la sua bellezza e il mistero del suo sguardo

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lo avevano affascinato. Non sapeva niente dei cani e sapeva tutto dei gatti: all’inizio fu un problema. I gatti hanno una comunicazione corporale opposta a quella dei cani: la coda tenuta perpendicolarmente o le orecchie abbassate e attaccate alla testa, nell’una e nell’altra specie hanno significati opposti. Ma alla fine, con mia grande sorpresa, lui e Lupo riuscirono a stabilire un contatto. Per giorni lei lo osservò e sono quasi certa che interpretò i segnali mandati da quell’umano rumoroso come non pericolosi per se stessa, ma espressione di territorialità e paura. Lei rimase ferma mentre l’umano abbaiava. Ferma. In attesa. Un cane equilibrato sa riconoscere i segni della paura e Lui gliene mandava moltissimi: si agitava, strepitava, urlava, lanciava oggetti, e lei, a debita distanza, aveva capito fin dal primo momento. Vedeva i segni della paura e col tartufo ne captava l’odore e fece di conseguenza l’unica cosa che un cane può fare per tranquillizzare: stette ferma e mandò flebili segnali vocali di pacificazione. Era stata abbandonata da un umano che certamente aveva fatto meno rumore nel compiere quell’atto disonorevole e turpe: una sgommata dell’auto e via. Aveva probabilmente vagato senza meta per qualche tempo senza allontanarsi troppo dal luogo del misfatto perché si sa che i cani rimangono lì, nel luogo dell’abbandono, in attesa. Non sanno, non capiscono, non si aspettano che il loro umano non torni. Aspettano. Ma poi la fame l’aveva certamente portata a vagare in cerchio alla ricerca di cibo fino ad arrivare in quel giardino non recintato che le consentiva di esplorare ma anche di battersela in caso di necessità. E quando fu lì, lei lo vide. Milioni di geni la portarono a cercare un contatto con lui. L’antico sodalizio uomo-cane, che è gran parte della felicità di quest’ultimo, è scritto nel suo DNA da quando l’uomo prei-

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storico decise di addomesticare i lupi. Lei ne sentì il richiamo e seppe aspettare pazientemente che quell’umano cessasse di avere paura e si disponesse ad un contatto. Mai avrei immaginato che un uomo e un cane potessero legarsi tanto senza riuscire mai a capirsi veramente. Nei loro anni insieme Lupo aveva imparato a non comunicare con Lui attraverso il linguaggio del corpo. Dicevamo: “questo cane non ride” perché non scodinzolava e non mandava messaggi con la postura ma in realtà lei aveva rinunciato a parlare per osservare Lui e agire di conseguenza e, come un cane e un gatto a volte diventano amici, anche loro due divennero inseparabili. Il loro era un legame esclusivo, io non ero quindi compresa. Lupo mi tollerava ma non voleva avere niente a che fare con me, sebbene fossi in grado di comprendere meglio il suo linguaggio. Potevo entrare, uscire e muovermi in libertà per la casa, a lei andava bene, ma se all’improvviso abbracciavo il suo umano allora l’intervento era immediato e repentino: un leggero morso al fondoschiena era un avvertimento sufficiente. Lupo era un cane dominante. Le porte segnate dalle sue unghie ne erano una prova evidente, così come l’accoglienza non proprio di bon ton riservata al postino, gli ospiti poi erano controllati a vista, ma col suo umano non c’era la logica conseguenza che normalmente si riscontra in questi casi: non c’era rivalità gerarchica. Con Lui le cose andavano più o meno come quando in una casa convivono un cane e un gatto: il gatto è dominante. Solo una volta lei si ribellò con tutta se stessa. Fu quando Lui decise di punto in bianco di metterle museruola e guinzaglio. Fu un disastro. Tanto che Lui non ci provò più e concluse bizzarramente che Lupo non era portata per la passeggiata col guinzaglio, come

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se si trattasse di un oggetto connaturato ad ogni cane dalla nascita. La loro amicizia era fatta di fedeltà, onestà e lealtà e anche se lei sapeva, come tutti i cani, leggere perfettamente il suo umano e lui no, io non ho mai interferito. Si era stabilito un curioso e magico equilibrio fra loro, era un piacere guardarli e non volevo turbare quell’incanto. Solo una volta decisi di parlare per lei, di darle voce. Fu quando si ammalò ed entrò in agonia. Lui la curò teneramente: l’accarezzava, le parlava piano, la rassicurava, ma fu presto chiaro che la situazione era irreversibile. “Devi aiutarla ad andare” gli dissi. Litigammo furiosamente. La displasia all’anca in forma grave le impediva di fare ciò che è essenziale per un animale: camminare. Ormai giaceva da giorni e da giorni noi due litigavamo sul da farsi. Quanto dolore si prova nel prendere una tale decisione? Tanto. Fa molto male, ma non più che stare a guardare impotenti un animale che soffre e tenta continuamente e invano di alzarsi da terra. Le nostre liti erano durissime e con gli occhi pieni di lacrime. Noi umani prendiamo molte decisioni riguardo ai nostri cani ed esse non sono sempre propriamente naturali per loro: quando devono mangiare, dove devono fare i loro bisogni, se possono accoppiarsi. Decidiamo che non possono salire sul letto, non possono rotolarsi in odori disgustosi e poi salire sul divano, non possono tentare di arrivare in Giappone scavando in giardino. I cani non sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato ma solo cosa è gradito agli umani e cosa no, se siamo bravi a farglielo capire. Acconsentono alle limitazioni della loro libertà pur di stare con noi. Ma se programmiamo tutta la loro vita abbiamo anche il dove-

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re di non tirarci indietro nel momento più difficile. Dobbiamo evitare che il nostro compagno soffra e soprattutto soffra inutilmente e qui sta il problema: l’umano nutre speranze anche irragionevoli perché il dolore annebbia la sua mente. Lui la scrutava continuamente cercando segni di speranza, mi telefonava raccontandomi miglioramenti inesistenti. Nel cuore sapeva che ciò che gli dicevo era ragionevole e misericordioso ma rimandava. Stasera. Domani. Finché fu lei ad andarsene. Li lasciai soli. Lui aveva bisogno di stare un po’ con lei e io ero decisamente di troppo. Lo vidi dalla finestra preparare con cura e lentamente il luogo dove Lupo avrebbe riposato per sempre e quando alla fine rientrò mi chiese con gli occhi lucidi: “Pensi che abbia scelto il posto giusto? A lui piacerà?” Risposi di sì e mi trattenni dal dire “a lei” piacerà.

Giampietro Lazzari nasce nel 1966 a Casalmaggiore, una cittadina situata nell’ultimo lembo a sud della provincia di Cremona letteralmente affacciata sul fiume Po e confinante con le vicine provincie emiliane. Compie gli studi classici nel liceo cittadino, dopodiché consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Parma. Da sempre profondamente legato alle realtà della “bassa” inizia a dedicarsi alla scrittura di brevi racconti in età matura. I temi cari sono proprio le atmosfere delle piccole realtà locali padane che nascondono, fra nebbie e calure, grandi emozioni e personaggi caratteristici. Si dedica saltuariamente alla pittura ed è amante della musica jazz che interpreta con la tromba. Vive tutt’ora nel paese di nascita dove lavora come dirigente in un’amministrazione pubblica. Ha ricevuto alcuni riconoscimenti letterari in ambito locale.

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La mostarda di mele di Donatella Boccalari

Rannicchiata sotto le coperte, Anna attese di sentire il rumore dell’auto di Alberto che usciva dal garage e si allontanava prima di decidersi a scendere dal letto. Quando lui si era alzato, un’ora prima, aveva finto di dormire per evitare di parlargli. Le sembrava che non avessero più nulla da dirsi ma la cosa non la faceva soffrire come avrebbe dovuto, anzi era per lei un peso in meno. Con un sospiro si infilò una felpa sopra al pigiama e scalza uscì lentamente dalla stanza, evitando di lanciare anche un solo sguardo alle due porte chiuse lungo il corridoio. Entrando in cucina i suoi occhi furono colpiti dalla luce chiara, quasi opalescente, che trasformava le due grandi vetrate affacciate sul giardino in uno schermo cinematografico senza pellicola. Di là dai vetri la nebbia era fittissima e non lasciava intravedere nulla. La luce, riflettendosi sugli acciai lucidi dei mobili, raddoppiava la sua luminosità. L’atmosfera della stanza era quasi glaciale e per un momento fu tentata di accendere il camino, ma farlo solo per lei le sembrava uno spreco. La cucina, negli ultimi tempi, non era certo un ambiente che ferveva di attività e tutto quell’acciaio lucido e immacolato la faceva sembrare più una sala operatoria che il cuore caldo della casa che lei aveva sempre amato. La stanza dove ci si ritrovava per mangiare, dove si rideva, discuteva, dove nascevano idee e venivano prese decisioni. Lì si fermavano gli amici dei figli per uno spuntino che interrompeva lunghi pomeriggi di studi, lì si

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radunavano amici e parenti in grandi tavolate festose e venivano organizzate eleganti cene per i clienti di suo marito. Anna amava cucinare più di ogni altra cosa e per questo aveva fatto realizzare una cucina enorme e modernissima che prendeva luce da due ampie vetrate che si affacciavano sul giardino e su una lunga fila di alberi di frutta che parevano la continuazione della stanza. Quel giorno però la vista delle piante, seppur spoglie data la stagione, non le era di conforto, completamente nascoste dalla fitta e gelida nebbia. Con un ennesimo sospiro si preparò una tazza di caffè accompagnato da una fetta di ciambella e, appoggiata al bancone della sua cucina silenziosa, continuò a fissare il nulla al di là delle finestre. Da alcuni giorni l’abete giaceva, spoglio, in un angolo del salotto in attesa di essere decorato con le bellissime palline di cristallo che negli anni Anna aveva collezionato. Solitamente in quel periodo dell’anno la grande stanza era abbellita da profumati rami di pino, da decorazioni di pungitopo e vischio e da una quantità di candele di tutte le misure. E il camino sempre acceso trasmetteva allegria e vivacità. Ora invece tutto era spento e freddo. Era alla seconda tazza di caffè, accompagnata questa volta da alcuni biscotti, quando squillò il telefono. Con un’ingiustificata ansia si affrettò a rispondere. “Ciao cara, come stai?”. Era sua sorella Laura che, senza lasciarle il tempo di parlare, proseguì rapidamente: “Notizie dai ragazzi? Hai pensato al menù di Natale? Ti sei ricordata di cercarmi la ricetta della torta di pere? Pronto? Anna, sei lì?” Anna alzò gli occhi al cielo. Sua sorella era un fiume in piena e starle dietro era veramente stancante. “Sì, sono qui. Dove vuoi che sia?” Senza attendere risposta alle precedenti domande, Laura riprese: “Dove pensi di mettere l’albero di Natale? Ti ricordi, vero, che quest’anno saremo in venti e dovremo spostare il tavolo?

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Ma, lo hai fatto l’albero?” “No Laura, non ho ancora deciso il menù, non ho decorato l’albero e nemmeno pensato dove metterlo”. Dall’altro capo del telefono vi fu una breve pausa. “No? Va beh, non c’è fretta. Mancano ancora dieci giorni a Natale. Ah, stavo per dimenticare il motivo della telefonata. Potresti portare subito un vasetto di mostarda di mele alla zia Vanda? Sta preparando il ripieno per i tortelli di zucca e ha finito la sua...” “Scusa Laura, - ringhiò Anna - mi telefoni alle otto del mattino per dirmi di portare la mostarda di mele alla zia?” “Veramente non sono le otto, ma quasi le dieci e trenta”. Sorpesa, Anna cercò con lo sguardo l’orologio della cucina. “Ma c’è una nebbia fittissima” tentò di resistere con voce piagnucolosa. “Ma dai, se passi dallo stradello sotto l’argine, sono cinque minuti. Ma se hai da fare...” “Va bene, va bene. - si arrese Anna - Porterò la mostarda di mele alla zia, ci sentiamo più avanti per i dettagli del pranzo di Natale. E non preoccuparti, sarà tutto perfetto come sempre” concluse con voce incerta. Mentre riattaccava il telefono, colse la sua immagine riflessa nella vetrata e si fermò smarrita. Vide una donna di mezza età un pò appesantita con indosso un vecchio pigiama, i capelli spettinati, i resti della colazione sparsi sul bancone della cucina. E ovviamente aveva ancora il letto da rifare. Stancamente andò nella stanza che aveva adibito a dispensa, con scaffali traboccanti di vasi e vasetti di confetture, salse, verdure sott’olio e mostarde, che aveva preparato nel corso dell’estate, e recuperò il vasetto di mostarda di mele. Su un mobile aveva impilato, con l’intento di trovarvi una collocazione idonea, tutti i diplomi e gli attestati dei molti corsi di cucina che aveva frequentato e di alcuni concorsi che aveva vinto grazie alle sue abilità di cuoca. Abilità che ora non servi-

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vano più a nulla, inutili come lei. In qualche modo riuscì a cambiarsi e finalmente uscì di casa. Percorse lo stradello lentamente, i fili d’erba bianchi di galaverna scricchiolavano sotto i suoi piedi. Di là dall’argine intuiva la presenza dei neri rami dei pioppi che si tendevano verso il cielo. La fitta nebbia sembrava penetrarle attraverso i vestiti facendola rabbrividire, mentre il fiato si condensava in candidi sbuffi. Minuscole goccioline le si erano raccolte sulle ciglia e sulle ciocche di capelli che sfuggivano dal berretto di lana. Si sentiva così stanca, oppressa dalle incombenze che l’attendevano, dai preparativi per il Natale che aveva sempre svolto con entusiasmo e le davano gioia, mentre ora non provava altro che un’apprensione che le premeva nel petto. La casa le apparve all’improvviso, emergeva scura dalla nebbia come una nave fantasma. Era una vecchia casa di campagna dove la sua famiglia e quella della zia avevano vissuto per molti anni, lì era cresciuta insieme alla sorella e ai tre cugini. La casa allora era piena di bambini e ragazzi e nella grande cucina, dove la stufa a legna era accesa anche d’estate, c’era sempre qualcuno con cui parlare, dividere una merenda, discutere su chi doveva apparecchiare la tavola o andare a raccogliere le uova nel pollaio. Nella divisione dei compiti familiari zia Vanda si era sempre occupata della cucina e Anna aveva iniziato a starle accanto sin da bambina facendosi affidare piccoli lavoretti per poi dividere con lei, via via nel corso degli anni, quasi tutto il lavoro da sbrigare per la numerosa famiglia. Tra lei e la zia si era creata presto una grande sintonia, oltre che un affetto profondo, tanto che ben presto Anna si rese conto, non senza vergogna, di preferirla a sua madre. Il velo dei ricordi calò su Anna con una tale intensità da farle riempire gli occhi di lacrime. Entrò in casa utilizzando la propria chiave e annunciando a gran voce: “Sono io!”

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L’andito era come sempre gelido ma, entrando in cucina, trovò con sorpresa la stufa spenta. “Buon Dio, ma qui si gela! Come mai non hai acceso la stufa?” esclamò rivolta a sua zia. L’anziana donna era in piedi, davanti al tavolo di quercia su cui era posata una spianatoia, e stava energicamente stendendo con il mattarello una grande sfoglia gialla come il sole. Era una donna alta, dal portamento ancora eretto, e con una gran massa di capelli ricci, di quel colore grigio che rivela il biondo della passata giovinezza. Vestiva sempre di nero. A prima vista poteva destare soggezione, ma in realtà era una donna dolce e generosa. Guardando Anna al di sopra degli occhiali le rispose tranquillamente: “Con il calore della stufa la sfoglia si secca troppo e non riuscirei a piegare i cappelletti”. “Già, è vero” mormorò Anna. Togliendosi giacca a vento e cappello, posò il vasetto di mostarda sulla credenza e andò a lavarsi le mani. Senza aggiungere altro, si avvicinò al tavolo e accarezzò con le due mani aperte la superficie della sfoglia per tastarne lo spessore. Era liscia, sottile e morbida come seta. Il nodo che aveva in gola iniziò ad allentarsi al contatto della pasta gialla che pareva dare luce a tutta la stanza. Respirò i profumi che ancora permeavano l’ambiente dove lo stracotto aveva sobbolito dolcemente in un angolo della stufa per molte ore, percepiva il sottile aroma di chiodi di garofano che, insieme alle carni e a una spruzzata di vino rosso, avevano creato parte del succulento ripieno dei cappelletti. Leggendole nel pensiero, zia Vanda le porse la terrina contenente il pesto. Anna staccò un pezzetto di massa compatta e ne aspirò il profumo. Ancora prima di assaggiarlo esclamò: “Questo è il Parmigiano Reggiano 30 mesi che il tuo amico casaro riserva solo a te!” poi assaporò il ripieno ad occhi chiusi. “È perfetto zia, è una vera sinfonia di sapori” concluse sorridendo. Il primo sorriso della giornata e probabilmente il primo sorriso da

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molto tempo. Iniziarono quindi a piegare i cappelletti e lavorarono in silenzio per parecchio tempo, le teste chine e le mani che si muovevano rapide e in sintonia. “I ragazzi non torneranno a casa questo Natale. - sbottò d’improvviso Anna - Clara è ospite della famiglia del fidanzato a Londra e Federico dice che il biglietto aereo da Sidney è troppo costoso. Costoso... glielo avremmo pagato noi, ma lui dice che preferisce così. Non tornano a casa da molti mesi ormai e non riesco a immaginare un Natale senza i ragazzi, non riesco proprio”. Anna fece una lunga pausa continuando a disporre i piccoli cappelletti, simili a montagnole dorate, sull’ennesimo vassoio. “Non riesco a sopportare la casa così vuota, ecco! E Alberto è sempre fuori per lavoro e quando c’è non sappiamo di che parlare!” concluse girandosi a posare il vassoio sulla credenza in modo che i suoi occhi umidi non fossero evidenti. “Zia, ma quanti cappelletti hai già fatto? Ti stai mettendo avanti per le feste... ricordi che a Natale sarai da noi, vero?” “Non sono per me. - ribattè la donna - Sono per la signora Adele, la moglie del farmacista”. “E perchè mai dovresti fare i cappelletti per la signora Adele?” “Perchè me li ha chiesti. Lei non li sa fare”. “Vuoi dire... che te li pagherà?” chiese stupita Anna. “Beh certo, il costo degli ingredienti, più o meno” precisò zia Vanda riponendo finalmente il mattarello e spolverando la spianatoia ormai vuota. Con calma andò ad accendere la legna già pronta nella stufa e si sedette sulla poltrona accanto al fuoco che iniziò subito a crepitare. “Una piccola pausa e poi preparo il ripieno per i tortelli di zucca. Sempre per la signora Adele” aggiunse soddisfatta. “Zia, ma che bisogno hai alla tua età, senza offesa, di lavorare?” “Beh, cara Anna, ormai nessuno sa o vuole cucinare questi

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piatti. Io lo so fare molto bene e ho molto tempo libero”. “Potrei darti una mano, se vuoi” si ritrovò a dire Anna. La donna non rispose e, alzandosi dalla poltrona, iniziò a predisporre gli ingredienti per il ripieno dei tortelli di zucca compreso un vasetto di mostarda di mele che aveva recuperato dal frigorifero. “Hai seguito corsi di cucina di alto livello, sai cucinare praticamente tutto, - iniziò a spiegare la zia mentre tritava finemente la mostarda - hai una cucina enorme e un grande senso di organizzazione. Ricordi quanti pranzi per le feste del paese hai preparato da sola? Potresti tenere dei corsi di cucina”. Anna spalancò gli occhi dalla sopresa. “Io? E perchè mai dovrei...” balbettò Anna. “Perchè hai talento, passione e un marito commercialista che seguirà la parte amministrativa”. “E hai molto tempo libero” concluse tranquillamente la zia fissando la nipote che se ne stava ammutolita, schiacciata dall’enormità dell’idea e da ciò che sottintendeva. “Perchè no, Anna? Pensaci. Ma adesso farai bene ad avviarti verso casa, prima che inizi a fare buio, con questa nebbia rischieresti di perderti. Tieni questo per la cena. - aggiunse porgendole un sacchetto e un contenitore colmo di brodo - Non c’è niente di meglio che un piatto di cappelletti per parlare di affari con un uomo” concluse con un sorriso complice. Anna, confusa, accettò i preziosi doni, poi si bloccò di colpo: “perchè mi hai chiesto con urgenza la mostarda di mele?” domandò accennando al vasetto della zia. L’anziana donna le rispose con un sorriso “perchè... è sempre utile”. Anna si avviò verso casa con i pensieri che rimbalzavano nel suo cervello come una pallina in un flipper. Un pensiero dopo l’altro, poi un’idea dopo l’altra... e tutti estremamente confusi. “In effetti la cucina è molto spaziosa, adatta a tenere lezioni di cucina... c’è l’orto con le verdure e le erbe aromatiche, la frutta. Potrei farlo, sarei in grado di farlo... Oppure un laboratorio per

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confetture e mostarde... sì, mostarde!” Nell’agitazione aveva dimenticato di mettersi il cappello e ora i capelli le ricadevano in ciocche pesanti e umide sul viso. Arrivata a casa si affrettò ad accendere la legna nel camino e andò in garage a recuperare alcuni scatoloni impolverati. Si arrampicò su una scaletta, ignorando i resti della colazione sul tavolo, e ovviamente il letto ancora sfatto, e si mise a collocare, con espressione assorta, i piccoli balocchi di cristallo sull’abete. Fu così che la trovò Alberto entrando in cucina, circondata da un allegro caos di carta velina e palline colorate, i capelli tutti arruffati sulla fronte. Dall’alto della scaletta, Anna fissò per un lungo momento il marito ed esclamò: “Alberto, dobbiamo parlare. - poi, indicando i cappelletti e il brodo posati sul tavolo della cucina - Prima però metti il brodo sul fuoco”.

Donatella Boccalari nasce a Luzzara (RE)... alcuni anni fa. Vive a Roteglia (RE) con il marito, il figlio, quattro gatti e un cane. È appassionata di cucina, in particolare di piatti della tradizione emiliana, di storia dell’alimentazione e cucina italiana. Ha pubblicato Ti ricordi il profumo del brodo? (2011), Avanzo a chi? (2013), il corale Nove galline e un gallo. Racconti e ricette tra il Crostolo e il Secchia (2013). Collabora occasionalmente con riviste locali con articoli sul tema della tradizione in cucina.

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Maiale in fuga di Franca Giaroni

Nevicava da tre giorni e la macellazione era stata rinviata. Il prescelto poteva contare ancora su qualche giorno di vita, gli altri suini invece erano stati caricati sul camion che li avrebbe portati al macello. Loretta Boni aveva da poco compiuto nove anni e sapeva benissimo che il destino del maiale era segnato, tuttavia si era sentita sollevata da quel rinvio. Tutti quei suini li aveva visti nascere e li aveva pure portati a grufolare sotto le querce, dopo che l’erba era stata falciata e fatta essiccare per farne fieno per le mucche durante l’inverno. I suoi famigliari l’avrebbero presa in giro se avesse manifestato qualche affezione per i maiali, il destino degli animali allevati dai contadini era quello di finire sulle tavole per rallegrare convivi, sagre e altre feste di paese. L’uccisione del maiale significava per lei e la sua famiglia giorni di fermento e di saporiti pranzetti. Dalle ossa che venivano bollite, al sangue col quale si facevano frittelle, della carne del maiale nulla veniva sprecato. Persino il codino veniva messo a insaporire in padella assieme alle orecchie e alle frattaglie. Qualcosa doveva essere andato storto nella lavorazione del maiale dell’anno precedente, le riserve della cucina, quell’anno, erano agli sgoccioli già dalla fine di ottobre. Il nonno, che era sempre stato un buon norcino, non sapeva capacitarsi del fatto che qualche salame fosse diventato rancido durante l’estate, perfino i prosciutti erano risultati più salati e asciutti del solito. La nonna aveva dovuto riparare al danno con sfoglie sempre più robuste e qualche pollo per sfamare la famiglia. Per

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rimediare alla mancanza di salumi, sulla tavola, specialmente la domenica, era apparso qualche arrosto di coniglio e sua madre, che non osava brontolare apertamente perché il cibo non poteva mancare, era diventata nervosa e la sgridava per un nonnulla. Con ciò che ricavava dalla vendita dei conigli la mamma ci vestiva i figli e, qualche volta, la domenica col babbo, quando era il turno di qualcuno degli zii di accudire le mucche, andavano perfino al cinema. Insomma, i conigli rappresentavano un reddito esclusivamente suo, soldini che venivano spesi solo per il suo nucleo famigliare. Poi una mattina era finalmente uscito il sole, un sole che aveva cominciato a scaldare come fosse primavera e la neve si era sciolta pian piano lasciando pozzanghere dentro cui le anatre andavano a spulciarsi. E siccome il tempo sembrava essersi messo al bello, in casa cominciarono a comparire tutti gli arnesi che sarebbero serviti per la lavorazione del maiale. A Loretta faceva una certa impressione vedere la mazza che avrebbe usato il nonno per tramortirlo, prima che, con uno stiletto lungo e sottile, venisse sgozzato. Quello era il momento in cui la nonna usciva dalla cucina e andava a raccogliere il sangue in una pentola grande. Per cena avrebbero avuto sanguinacci. Loretta sentiva lo stomaco chiudersi alla vista del sangue che coagulava, prima che venisse lavorato per farne frittelle. Nessuno sarebbe mai riuscito a convincerla a mangiarle. Le era stato detto di badare ai suoi cuginetti adesso e di non uscire di casa fino a quando non fosse finita la mattanza. Lei, che dei bambini della famiglia era la più grande, sapeva bene come calcolare il tempo. Una volta finiti gli strilli raccapriccianti del maiale, avrebbe potuto uscire assieme ai suoi cuginetti per assistere alle prime operazioni di pulizia dell’animale. Ma quella mattina successe l’imprevedibile: il maiale scappò. La nonna e i bambini lo videro dalla finestra della cucina correre, imboccare la carraia e zigzagare fra gli olmi spogli che

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sostenevano le viti, slittando sull’erba ghiacciata. Dopo un paio di capitomboli aveva ripreso a correre barcollando sulle gambette corte, ormai inadeguate a sostenere il peso che il nonno gli aveva fatto raggiungere per renderlo idoneo alla macellazione. Gli zii lo rincorsero lungo i campi spruzzati ancora di neve, il nonno bestemmiava appoggiato al manico della mazza e la nonna aveva mollato la pentola e si era messa le mani in testa in segno di disperazione. “Ossignor… ossignor…”1 gridava con gli occhi sgranati verso la vigna. Le donne della famiglia avevano sospeso le operazioni che precedevano la preparazione della rasatura del corpo del maiale lasciando spegnere il fuoco sotto il paiolo. Guardavano i campi dove erano spariti i loro mariti, sorprese, pietrificate e mute nel cortile. Anche il cane, che abbaiava come un forsennato, era riuscito a strappare la catena e a correre attraverso i campi alla caccia del maiale. Era quasi mezzogiorno e gli uomini non erano ancora rientrati. La nonna, pratica come sempre, aveva detto: “Adèss a prepèr da magnér, a panza vooda s’và mia tant luntan… Vedrii che tornen indrée anca s’en l’an mia ancòra ciapèe…”2 A mezzogiorno c’erano tutti. La nonna aveva preparato le solite tagliatelle e insaporito il brodo con un soffritto di lardo e cipolla. “In do sràl andèè a finir al nimèl? Al pool mia èser sparìi…”3 aveva esordito il nonno appena si erano messi a tavola. Lo zio Bibi, così lo chiamava Loretta, dopo una serie di rosari fantasiosi, aveva detto: “Bisògna catèrel, in do s’ral andèe? A i’òm dmandèè anca ai Funtaneis se l’iven vést… Al vècc l’ha det ch’al l’à vest corer, mo’ gh’era frèd e lò l’e stèe in cà, al gh’è Oh, Signore… Oh, Signore… Adesso preparo da mangiare, a pancia vuota non si va tanto lontano… Vedrete che torneranno indietro anche se non l’hanno ancora preso… 3 Dove sarà andato a finire il maiale? Non può essere sparito… 1 2

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mia cors adrée…”4 I Fontanesi erano i loro vicini, affittuari di un podere di una decina di biolche, si trattava di una famiglia piccola, con solo due figli maschi non ancora sposati. “Se pàsa ‘na carovana d’zéngher va a finir c’al ciapén e al portén via…”5 E questa ipotesi, per la famiglia Boni, era decisamente la peggiore. Nel pomeriggio iniziarono di nuovo le ricerche. Fu perlustrata anche la casa abbandonata che stava vicino al Rodano, lontana da quella dei Boni circa trecento metri, una distanza notevole per un maiale non avvezzo a correre e appositamente ingrassato per farne salami e prosciutti. Una volta in quel podere abitavano i Miari, una famiglia che nel giro di qualche anno si era divisa in tre nuclei diversi. Il capostipite, rimasto solo con la moglie e il figlio più giovane non ancora sposato, aveva suo malgrado dovuto abbandonare la terra per mancanza di braccia robuste per poterla lavorare. I Miari erano rimasti famosi nella zona per la loro ospitalità, chiunque passasse da quelle parti poteva ristorarsi con un pasto caldo o un alloggio per la notte, nessuno era mai stato cacciato con la fame, a dormire all’addiaccio. Capitava che qualche vagabondo finisse per dormire nel fienile, o nella stalla, per tutto l’inverno. Ora la casa era in parte diroccata e invasa dalle erbacce, dentro vi strisciavano bisce e vi scorrazzavano le pantegane. In altro modo era rimasta fedele alla propria natura ospitale. Fu Camillo, il figlio più giovane dei Boni, a proporsi di perlustrare la casa e i dintorni. Era un giovane baldanzoso, sprezBisogna trovarlo, dove sarà andato? Abbiamo chiesto anche ai Fontanesi se l’hanno visto… Il vecchio ha detto che l’ha visto correre, ma c’era freddo e lui è rimasto in casa, non gli è corso dietro… 5 Se passa una carovana di zingari, va a finire che lo prendono e lo portano via… 4

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zante del pericolo, un po’ attaccabrighe, specialmente se si parlava di politica. Socialista Prampoliniano come il padre, che del suo eroe gli aveva dato il nome, era solito sostenere le sue idee con molto fervore. Camillo dunque, armato di bastone, si fece largo fra le erbacce apprestandosi di nuovo alla ricerca del maiale. Perlustrò i ruderi della stalla, si introdusse in ciò che era rimasto della vecchia cucina, guardò perfino nel pozzo nero, vuoto e ancora puzzolente nonostante gli anni di inattività. Quando alla sua destra vide ondeggiare dei rami scheletriti si affrettò in quella direzione, inciampando nelle radici, brandendo il bastone come fosse un fucile. Si trovò sulla riva del fosso: la poca acqua sul fondo aveva formato un sottile strato di ghiaccio e un topo di grosse dimensioni passeggiava tranquillo sul muschio che si era formato su una pietra sottostante. Dopo aver girovagato per circa un’ora nei pressi della casa, il giovane dovette constatare che del maiale non v’era traccia, come non v’era traccia di possibili ladri, o fanghi molli e profondi dove il porco avrebbe potuto impantanarsi. Sconfitto e irritato, Camillo dovette tornarsene a casa a mani vuote. La sera a cena nessuno parlò. Ognuno rifletteva per conto suo, incapace di proferir parola per indagare quel mistero. Un maiale di oltre cento chili, pronto per la macellazione, era sparito senza lasciare traccia. Tornò la neve e nessuno osò continuare le ricerche. Dopo due giorni di intense nevicate tornò il sole, ma la temperatura rimase sotto lo zero a lungo, tanto a lungo che perfino le pozzanghere del cortile rimanevano ghiacciate per tutto il giorno. Nessuno della famiglia, con quel tempo ostile, osò avventurarsi ancora alla ricerca del maiale. La prima mucca partorì nella stalla la sera di Santa Lucia; un paio di uomini aiutarono il vitellino a venire alla luce e la mamma di Loretta iniziò a mungere la mucca tutte le sere per poter allattare il neonato.

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Arrivò un Natale triste, perfino l’albero, che ogni anno veniva allestito in casa dei Boni, sembrava soffrire di stenti e malinconia, con quei rami mezzi vuoti come non s’era mai visto in famiglia. Fu la sera di Santo Stefano che la nonna osò affrontare l’argomento: “Bisògna còmprèr n’èter nimèl, se nò cm’è’ s’ farà a magnèr ch’é n’ gh’é piò gnìnt in cantéina?”6 Nella porcilaia dove prima stavano i maiali, vi era rimasta solo la scrofa che avrebbe partorito a primavera. Si sarebbe potuto sacrificare un porcellino, ma sarebbe finito velocemente, c’era bisogno di salami e prosciutti per poter sfamare la famiglia. E nemmeno si poteva uccidere un pollo o un coniglio ogni giorno, il pollaio si sarebbe svuotato velocemente. Solo a primavera le galline avrebbero ripreso a fare le uova e qualcuna a chiocciare; verso la fine di gennaio iniziavano le potature e non ci sarebbe più stato tempo per la macellazione. Urgeva prendere una decisione. Seguì dunque un’animata discussione per stabilire dove avrebbero potuto comprare un maiale buono per farne salumi. Una soluzione c’era, lo sapevano tutti, ma nessuno osava pronunciare il nome di quel commerciante di suini. Con l’allevatore non c’erano mai stati rapporti sereni per via di un vecchio affare di famiglia. “So, sò… a’gh pèrel mé cun me surèla, l’è pò mia al dièvel sò màri…”7 Il nonno l’aveva guardata scuotendo la testa in segno di disapprovazione, poi aveva detto: “Mò se t’taséss ogni tànt…”8. Però si capiva che la proposta della moglie non lo lasciava indifferente.

Bisogna comprare un altro maiale, se non come faremo a mangiare che non c’è più niente in cantina? 7 Su, su… parlo io con mia sorella, non è poi il diavolo suo marito… 8 Ma se tacessi ogni tanto… 6

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“Bèin, in roobi vèci, l’è ora ed derègh un tàj cun ch’al bàli lé…”9 aveva risposto la nonna. Il resto della famiglia era rimasto in silenzio, nessuno aveva mai osato parlare apertamente di quella vecchia vicenda che riguardava zia Margherita. Zia Margherita era la sorella della nonna e nella famiglia d’origine, fra cinque sorelle di cui due già maritate, era la più piccola. Nelli, l’allevatore di maiali, aveva preso a frequentare la casa delle ragazze e tutti in famiglia pensavano che corteggiasse la Norina, una ragazza prosperosa abituata ormai a ogni fatica. Per ordine di età avrebbe dovuto essere lei a sposarsi, invece rimasero tutti senza fiato quando Adelmo Nelli, commerciante quasi trentenne, chiese al padre delle ragazze il permesso di convolare a nozze con Margherita. Norina, che riteneva quell’uomo il suo fidanzato, tolse per sempre la parola alla sorella. Piangendo raccontò alla madre che Margherita l’aveva spudoratamente provocato, andando a sedersi sulle ginocchia del suo moroso, giocando con lui come fosse stata una bambina. La mamma aveva rincorso Margherita attorno alla tavola della cucina per suonargliele e farla ragionare. “’Sa t’é gnu in mèint, bròta muclòuna… Guèrda che figura t’é fàt fér à tò surèla… Vèdet mia ch’l’é tròp vècc per té?”10 le gridava brandendo la cannella della sfoglia. “Sa m’imbaràsa a mé, mama, s’ l’é vècc? Quànd a lètt t’é smors la lùz tòtt j’òmen in cumpàgn…”11 Adelmo e Margherita si sposarono in breve tempo e i rapporti con le sorelle rimasero tesi, formali e privi di intimità per molto tempo. Dopo un’accesa discussione, si stabilì che a parlare con Nelli Beh, sono cose vecchie, è ora di darci un taglio con queste balle… Cosa ti è venuto in mente, brutta sporcacciona… Guarda che figura hai fatto fare a tua sorella… Non vedi che è troppo vecchio per te? 11 Se non imbarazza a me, mamma, se è vecchio? Quando a letto spegni la luce, tutti gli uomini sono uguali… 9

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sarebbe andato il nonno con Ettore, il figlio maggiore, che era il più istruito della famiglia. Quando frequentava le elementari, il prete del paese era riuscito ad ottenere il permesso dal padre di farlo studiare in seminario, visto che a scuola imparava velocemente e con profitto. Il buon prete sperava gli venisse la vocazione al sacerdozio. Ettore invece, dopo tre anni di studi e di freddo nel seminario di Marola, con una vocazione che tardava ad arrivare, scappò per tornare in famiglia. Fu accolto da tutti con calore e suo padre, da buon socialista, dichiarò che le braccia del figlio erano sicuramente più adatte alla coltivazione della terra che all’elevazione dell’ostia. Arrivarono nella casa dell’allevatore di buon mattino e fu Giuseppe, il figlio maggiore di Margherita, a riceverli. Il vecchio Nelli era andato al mercato perché doveva accordarsi col mediatore sul prezzo di un carico di maiali pronti da vendere, disse ai due parenti quando gli chiesero notizie del padre. Furono fatti accomodare in cucina e la zia si prodigò a preparare una miscela di caffè che portò in tavola assieme a qualche fetta di busilan, una ciambella casalinga che in famiglia non mancava mai. Dopo qualche considerazione sul tempo e sulla salute dei reciproci famigliari, con un po’ di imbarazzo il nonno decise che era venuto il momento di spiegare il motivo della loro visita. Non volevano raccontare che il maiale pronto alla macellazione era scappato, avrebbero fatto una magra figura. “E gh’aresen bisògn ed cumprèr un nimèl…”12 aveva esordito il nonno. Poi aveva aggiunto. “E sòm in tànt in famìja… i ragàss in dvintè grànd e ormài un sol al bàsta piò…”13 Il cugino di Ettore aveva fatto un cenno affermativo con la testa, sembrava riflettere su cosa rispondere. Tutti in paese sa-

Avremmo bisogno di comprare un maiale… Siamo in tanti in famiglia… i ragazzi diventano grandi e ormai uno solo non basta più… 12 13

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pevano che il maiale dei Boni era scappato durante i preparativi per la macellazione, al mercato del martedì non si parlava d’altro. “Am’ risulta ch’a’v sia scapèe, al pòl capitèr… Gh’é mia bisògn ed cuntèr dal bàli…”14 aveva risposto distogliendo gli occhi dai due uomini che erano avvampati, un po’ per la vergogna e un bel po’ per la rabbia. Era seguito un momento di imbarazzo, poi zia Margherita aveva detto: “Come se a nuèter èn fòsa mai capitè quànd às càrga i nimè in séma al camios… Anca l’éter dé a mumèinti in caschèva zò ùn…. So, Jusfin, an srà mia còlpa ed me cugnèe s’é gh’é scapèe al nimèl préma ed masèrel”15 Dopo quelle parole e molto imbarazzo da entrambe le parti, la situazione tornò sotto controllo. Ettore trovò parole adeguate per condurre una buona trattativa, si accordarono sul pagamento con l’aiuto di zia Margherita e padre e figlio tornarono il giorno dopo col cavallo e il biroccio per portare a casa il maiale. Dopo un paio di giorni fu fatta la macellazione e così, anche per quell’anno, le provviste alimentari per la famiglia Boni furono assicurate. Verso la fine di febbraio, con le giornate più lunghe e le viole che spuntavano dietro le siepi, l’inverno sembrava finalmente alle spalle. Loretta aveva ripreso ad andare a scuola con la sua biciclettina rossa, un reperto storico ormai, visto che era appartenuta a un paio di generazioni prima di lei. Il pomeriggio andava spesso nei campi a raccogliere viole e margherite, accompagnata dalla cuginetta Maria. Fu nel primo pomeriggio di un giorno di sole che Loretta, Mi risulta che vi sia scappato, può capitare… Non c’è bisogno di dire bugie… 15 Come se a noi non fosse mai successo quando si caricano i maiali sul camion… Anche l’altro giorno a momenti ne cadeva giù uno… Su, Giuseppe, non sarà colpa di mio cognato se gli scappato il maiale prima di ucciderlo 14

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alzando gli occhi dal mazzetto di viole che aveva raccolto, lo vide. Era sbucato dal vigneto dei Fontanesi e stava attraversando la carraia lentamente, il muso a terra alla ricerca di cibo. Il pensiero di Loretta corse subito al maiale scomparso e tornò a casa di corsa per comunicare la notizia alla famiglia. La mamma, dopo aver ascoltato la bambina, chiese perplessa. “Mò ét sicùra?”16 “Sé sé, mama, l’é propria al nòster!”17 Lo zio Bibi, dopo uno dei suoi soliti coloriti rosari, disse: “Mo ‘sa dìsla ch’la ragazòla lé, al nòster nimel ormai a’s cata piò, gh’aran fat di salàm…”18 Ettore invece inforcò la vecchia bicicletta di famiglia e senza dire una parola si avventurò lungo la carraia alla ricerca del maiale. Era il padre della bambina, sapeva che sua figlia aveva la vista buona e non era avvezza a raccontar balle. La sera a cena non si parlò d’altro, il maiale non l’aveva visto, ma Ettore disse di aver trovato tracce fresche di sterco oltre a orme che si perdevano in direzione della casa abbandonata. Il giorno dopo era domenica e venne deciso che gli uomini avrebbero fatto una battuta di caccia al maiale fino alla vecchia abitazione dei Miari. Nel fosso c’era solamente un rigagnolo d’acqua, le bisce erano ancora intorpidite dal letargo invernale e il terreno era asciutto. La vecchia abitazione sembrava conservare un’idea di dignità o forse era percepita così solamente nel ricordo dei Boni. A terra Ettore aveva ritrovato tracce di impronte suine e stava perlustrando palmo a palmo la zona, mentre i suoi fratelli si erano divisi un altro pezzo di territorio. Con gli occhi rivolti a terra

Ma sei sicura? Sì, sì, mamma, è proprio il nostro! 18 Ma cosa dice questa bambina, il nostro maiale ormai non si trova più, ci avranno fatto dei salami… 16 17

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Ettore non si era accorto che c’era un uomo nei pressi della stalla. Quando lo vide pensò si trattasse di un vagabondo, uno di quelli che i Miari erano soliti ospitare. L’uomo aveva la barba lunga e zoppicava vistosamente, si sosteneva a un bastone rudimentale, probabilmente un ramo spezzato che aveva trovato nei paraggi. Lo raggiuse e il vagabondo lo guardò con stupore. “E vò chi sìv?”19, gli chiese Ettore con cipiglio severo. L’uomo rispose: “Mi non capisco, non son de chi…” “Vi ho chiesto chi siete, cosa ci fate qui…” ripeté Ettore. L’uomo si grattò la barba e dopo un silenzio abbastanza lungo disse: “Tanti anni fa io e mio padre siamo stati qui… Gh’avémo passato l’inverno in ‘sta casa. Dove son sparì i padroni?” “Le domande le faccio io… - rispose Ettore in tono deciso Perché siete qui, da dove venite?”. “Da un paesino del mantovano, végno… Mio padre faceva l’mulèta20 e aveva clienti anche qui. Siccome mia madre è morta quando io ero ancora piccolo, mi prendeva con lui. Ho imparato il mestiere, lui non c’è più…”. C’era una cadenza nota nella sua pronuncia, man mano che parlava Ettore cominciava a ricordare il mulèta, una volta aveva anche pranzato con loro. “Quando è caduta la prima neve ero ancora nei dintorni, allora ho pensato di venire qui… Non sapevo che i vecchi padroni non c’erano più… Mi sono fatto male a una gamba, facevo fatica a camminare e allora sono rimasto qui”. “Ma siete qui da dicembre? Come avete fatto a mangiare che qui non c’è più niente e gninto ca stà sò…21 Tutto diroccato è, non vedete?” “Eh… però la stalla è ancora su. Mi sono messo lì, c’era ancora un po’ di fieno quando sono arrivato”.

E voi chi siete? l’arrotino 21 niente che sta più su… 19 20

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“E cosa avete mangiato?” “Beh, avevo un po’ di roba sul carretto. Tante volte mi pagano con delle uova o un salame e qui c’è un pozzo con dell’acqua buona… Prima ero andato in una casa dove stavano per ammazzare il maiale e mi hanno fatto molare tutti i coltelli. Dopo mi hanno detto di tornare e mi hanno dato una forma intera ed gràsoo.22 I contadini non hanno tanti soldi da spendere e pagano con quello che hanno. Con quello che ci davano c’erano degli anni che ci mangiavamo tutto l’inverno…” aggiunse con orgoglio. Ettore guardava l’uomo sempre più stupito. Era sporco, magrissimo e sofferente. “Cosa avete fatto alla gamba?” “Sono scivolato nel fosso una mattina che c’era tutto gelato. Ci sono caduto dentro, ci sono caduto. Non riuscivo più a venir su con tutta la neve che c’era. Poi è arrivato un maiale e ho avuto paura…” “Un maiale? Un nìmèl?”23 Ettore era sbigottito. “E dov’è adesso il maiale? Perché avete avuto paura?” “Il mio babbo, quando ero piccolo, mi diceva che i maiali mangiano tutto, anche i bambini, mi diceva…” Ettore era sbalordito. Gli sembrava incredibile che quell’uomo avesse potuto vivere per quasi due mesi in quelle condizioni. “Allora mi sono tirato su dal fosso, ancora non so come ho fatto. Le braccia mi fanno ancora male…” continuò il figlio del mulèta fregandosi il braccio destro con una smorfia. “E il maiale? Indò è’l andè al nimèl?”24 aggiunse in dialetto. Intanto, annunciato da una sfilza di bestemmie, era arrivato lo zio Bibi. “A iò càtè un nimèl int al stabìool arèint a la stàla! Prova a gnir a vèder s’l’e al nòster, percà…”.25 Poi, alzando

di ciccioli Un maiale? 24 Dove è andato il maiale? 22 23

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gli occhi, vedendo finalmente l’estraneo, dopo un’imprecazione dove citava anche il maiale scomparso, chiese: “mò chi èl lilò?”26 Seguì un’animata discussione fra i due fratelli, poi ignorando completamente il figlio del mulèta si avviarono con passo deciso verso la stalla. L’uomo li seguì zoppicando, rimanendo a debita distanza quando entrarono nello stabbiolo dove stava il maiale. “L’é dvintèe mégher dimòndi, mò secònd mé l’é pròpria al nòster. E’t vést la màcia scùra ch’al gà sòta la còva? L’é al nòster t’sicur…”27 disse Ettore dopo aver guardato a lungo il maiale che stava sdraiato nel bel mezzo di un mucchietto di paglia imputridita. Nel frattempo era arrivato anche Camillo che, vedendo il porco, era scoppiato in una risata sarcastica: “Mò guérda lè in do l’éra andèe a finìir, le propria un nimèl da corsa, còl’lè! Etèr che salàm, i salàm a sòm nuèter, ch’ iomm dòvu comprèren n’èter…”28 Camillo non aveva mai confessato in famiglia che quando era andato in perlustrazione nella casa abbandonata aveva completamente ignorato lo stabbiolo. Non era stata una dimenticanza, la porticina non c’era più e nel bel mezzo dell’accesso c’erano due topi grossi come gatti. Camillo aveva provato ad avvicinarsi, ma i due, invece di scappare, avevano messo su un’aria bellicosa tale che lui se l’era data a gambe. Gli era sembrata una fuga indecorosa e non l’aveva detto a nessuno. Dei topi gli era rimasta una paura atavica da quando era piccolo,

25 Ho trovato un maiale nello stabbiolo vicino la stalla! Prova a venire a vedere se è il nostro, per caso… 26 ma chi è questo? 27 È diventato molto magro, ma secondo me è proprio il nostro. Hai visto la macchia scura che ha sotto la coda? È il nostro di sicuro… 28 Ma guarda dove era andato a finire, è proprio un maiale da corsa questo! Altro che salami, i salami siamo noi che abbiamo dovuto comprarne un altro…

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dopo che uno di questi gli aveva passeggiato su una gamba mentre giocava in mezzo al fieno per le mucche, quello che stava ammonticchiato sotto il portico della stalla. “A sòm a pòst… adèsa se fòmmia? Se l’é al nòster dovrèsen purtèrel a cà… Vagh a toor al caval cun al barooz, va bein? E’gh vool anca di sughèt per tirèrel sò…”29 propose Camillo, contento di avere una buona scusa per allontanarsi da lì. “Bisògna purtèr via anca càl poover crést che gh’é ché, c’me faràl a andèr via cun c’là gamba lé?”30 aveva aggiunto Ettore valutando la proposta del fratello. “Porta anca al bàbo, ag’ vol d’la fòrsa per tirèr sò al nimèl. Anca s’l’è calèe, l’è ancòra dimòndi pèis. Acsé al vèd anca chilò e sintòm s’al dis”31 aggiunse lo zio Bibi. Occorse tutto il pomeriggio per poter portare a casa il porco. Anche lo sfortunato figlio dell’arrotino aveva dovuto ricorrere all’aiuto di Camillo per poter salire sul biroccio. Dopo averlo fatto lavare in un mastello nella stalla perché puzzava in modo orrendo, si riunirono tutti intorno al tavolo a mangiare la minestra di fagioli che la nonna aveva preparato. Era poi apparso in tavola, accompagnato da un paio di bottiglie di Lambrusco, un bel cotechino che gustarono tutti con grande appetito. Arturo, il figlio dell’arrotino, rasato e ripulito anche se emaciato e denutrito, sembrava perfino più giovane dei ventidue anni che aveva. “D’mateina andòm a ciamèer al dutoor, ch’al rgaz lé al g’hà bisògn ed cùri…”32 aveva detto la Tina, la mamma di Loretta. 29 Siamo a posto… e adesso cosa facciamo? Se è il nostro, dovremmo portarlo a casa… Vado a prendere il cavallo con anche il barroccino, va bene? E ci vogliono anche delle corde per tirarlo su… 30 Bisogna portare via anche questo poveretto che è qua, come farà ad andare via con una gamba così? 31 Porta anche il babbo, ci vuole della forza per tirare su il maiale. Anche se è dimagrito, è ancora molo pesante. Così vede anche lui e sentiamo cosa dice

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“Mò che dutoor… s’le na stòrta agh vol la Minghina ch’la la sègna”33 aveva detto la nonna. “Mah? E s’lé malèe? Bisògna fèrel visitèr”34 aveva obbiettato la Tina. “Fè cmé vri, mo’ second mè s’al màgna un pò al guaréss da per lò”35 aveva aggiunto la nonna osservando Arturo con sguardo critico. Il nonno continuava a fargli domande, non riusciva a capacitarsi del fatto che il ragazzo fosse sopravvissuto, assieme al maiale, per quasi due mesi con tutto quel gelo. “C’era ancora un po’ di fieno in un angolo del fienile. Sul carretto tengo sempre una coperta per la notte, dormivo lì. Poi c’era il maiale che girava attorno alla casa in cerca di qualcosa da mangiare, verso sera tornava nello stabbiolo di fianco alla stalla. Faceva tutto da solo, faceva… Io accendevo il fuoco così mi scaldavo e lui mi stava lontano, del fuoco aveva paura. La legna non mancava, ne avevo portato dentro un bel po’, così stava asciutta. Avevo anche una bella scorta di fiammiferi, sapete? Andando in giro nelle case si vendono anche quelli, ci sono famiglie che stanno lontane dal paese e a volte le rézdore rimangono senza…” aveva spiegato. Ettore e il nonno tornarono a far visita a Nelli. Gli chiesero se accettava il maiale ritrovato, invece di aspettare che crescessero quelli della scrofa che avrebbe partorito a giorni. Lo scambio faceva parte dell’accordo raggiunto con l’aiuto di zia Margherita. Invece di pagare il vecchio Nelli in soldoni, avrebbero fatto

Domattina andiamo a chiamare il dottore, perché il ragazzo ha bisogno di cure… 33 Ma che dottore… se è una storta ci vuole la Minghina che la segna 34 Ma? E se è malato? Bisogna farlo visitare 35 Fate come volete, ma secondo me, se mangia un po’, guarisce da solo 32

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Solo perché siete dei parenti… Io i maiali li allevo per venderli

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uno scambio con uno dei maiali della nuova covata, appena fossero cresciuti e diventati pronti per la vendita. Nelli aveva accettato. “Sool perché sii di parèint… Mé i nimèe i tìr sò per vèndri”36 aveva aggiunto. Arturo rimase in casa Boni fino ad aprile e prima di andarsene molò tutti i coltelli della famiglia. Fu la Minghina a guarirlo dalla storta. L’aveva segnata e poi gli aveva dato un unguento puzzolente che preparava lei con delle erbe che raccoglieva in posti lontani, mai rivelati a nessuno. Le sue prestazioni furono pagate dalla nonna con una ventina di uova.

Franca Giaroni è nata e vive a Reggio Emilia. Ha lavorato presso le Farmacie Comunali della sua città, si è occupata di volontariato ed è iscritta da tempo all’Università dell’età libera. Scrive da circa vent’anni, soprattutto racconti, pubblicati in antologie con altri autori. Ha pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti. Ha ricevuto premi e riconoscimenti che l’hanno incentivata a continuare a scrivere.

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Racconti selezionati per la pubblicazione (in ordine alfabetico)



Diario di una lettura di Rossella Bacchi

19 dicembre La gente ha fretta. Troppa fretta. Me ne sono accorta stando al tavolino del solito bar guardando fuori dalla vetrina, in attesa di fare colazione. Le corse agli ultimi acquisti di Natale da mettere sotto l’albero distraggono da noi stessi, illuminati solo dalle luci colorate e intermittenti. A me pare di essere diversa, io mi fermo e osservo. Il tempo che passa mi fa rallentare anche perché alla mia età le gambe mi fanno male e cammino piano. I miei pensieri camminano piano, come un gregge in transumanza. Stanotte la temperatura si è abbassata di dieci gradi, ma oggi è una bella giornata e un pallido sole riscalda il muro stinto della nostra casa. Penso a Vittoria, a quante volte abbiamo detto di tinteggiarlo di nuovo ma non l’abbiamo mai fatto! È ancora così, come l’aveva lasciato quando se n’é andata a vivere a Milano. “Vado ad insegnare in un’altra città” mi aveva detto. Nella sua lista i sogni erano più coraggiosi dei miei. Ho sentito la sua mancanza, come la mancanza dell’aria che respiravo, l’ho perfino odiata. Avevo paura di separarmi da lei, perché il sogno era di mia sorella, non il mio. Io sono rimasta qua dove sono nata, in un paese della Bassa che non ha più tante pagine bianche da scrivere, ma è attaccato alla vita di chi gli vuole ancora bene. Misuro lo spazio usando i miei passi. La strada si disegna da sé, due portici, una piazza e la geometria un po’ scompigliata

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delle case che le stanno attorno.

20 dicembre Da più di due mesi scrivo di me su queste pagine di diario. Tiro fuori i pensieri dalla testa per guardarli meglio, nella speranza di rendere più leggere le mie paure, le angosce, i desideri, come l’adolescente di un tempo che teneva il diario segreto chiuso in un cassetto, sempre pronto ad ascoltare. Stamattina Antonio mi ha portato il giornale. Continuava a fissarmi impalato sulla porta d’ingresso con la faccia incredula e stupita di un ragazzino. “Beh? Cosa c’è?” gli ho detto. “Sei bellissima” mi ha risposto. Così. Determinato. Senza vie di mezzo. Ho avuto il sospetto che ci stesse provando. Ma figurati alla nostra età! Sono diventata tutta rossa, poi mi sono messa a ridere. Mi sono sentita più giovane.

21 dicembre Ho più di settant’anni e quando mi guardo allo specchio vedo solo le rughe che si stanno moltiplicando. Ho ricominciato a ridere da quando Antonio l’anno scorso, rimasto vedovo, è venuto ad abitare nella piccola casa qui di fronte. Nella sua calma, nella sua verità, mi riempie di attenzioni portando un po’ di buonumore alla mia solitudine. Devo far riparare il tetto perché quando piove gocciola, gli avevo detto alcuni giorni fa, così stamattina sono salita con lui nella soffitta, ma i gradini alti mi hanno stancato parecchio. Mi guardavo intorno. Mai come in quel momento mi sono sentita dentro a richiami lontani della mia famiglia e pochi attimi mi sono bastati per ripercorrere un pezzo di vita.

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Nonostante la poca luce e il freddo umido, che mi stordivano, mi sono messa a rovistare dentro a vecchi scatoloni accatastati qua e là. Sopra ad un vecchio tavolo di legno, dentro ad una scatola di cartone, ho trovato un album di fotografie di me e Vittoria bambine. Ricordo che papà andava sempre in giro con una Leica al collo, quasi a non perdere mai l’occasione di qualche scatto. Vittoria nelle pose non stava mai ferma, io invece sembravo un baccalà. Alcune erano ritratti con i nonni e la mamma, altre con le persone del borgo che non ci sono più. Un paio mi hanno colpito più di altre perché ci ritraevano con i venditori ambulanti che con le loro cantilene scandivano il ritmo delle nostre giornate. Ricordo il timbro di voce lento fino a salire alle note più stridule di Ferrante, il venditore di pesce che ogni giovedì mattina sostava non lontano da casa nostra. Un richiamo che attirava le massaie a sistemarsi il grembiule un po’ sporco di farina e ad uscire fuori. Il pesce, quello pescato nel Po, si muoveva ancora dentro a un largo mastello e senza urlare ingiustizia, sospeso nel piatto, veniva pesato sulla stadera. In una foto io ero tra la mamma e Piero che ogni sabato mattina risvegliava il vicinato con il suo motocarro rosso. Nel piccolo girotondo di ciottoli, facevano bella mostra cassette di frutta e verdura. Le sue mani esperte, i suoi gesti consueti e il suo sorriso allietavano le signore a comprare ciò che l’occhio suggeriva. I sacchetti di carta marrone si riempivano poco per volta, perché dentro doveva starci il sapere che accoglieva e custodiva quella terra donata dalla buona mano di Dio. Vicino a Piero c’era l’Adele, immortalata in sella alla sua bicicletta, che passava di casa in casa a vendere la ricotta. Tra i ricordi impolverati di nostalgia ho ancora voglia d’amore. Quell’amore che non c’è solo a Natale, perché a Natale si

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può amare di più, ma in ogni minuto, in ogni momento della giornata.

22 dicembre La mia sbadataggine mi fa andare nel panico, però non mi arrabbio più. Ho cercato gli occhiali per tutta la mattina, poi come per magia sono spuntati dalle tasche del cappotto nero. Ho iniziato la lista della spesa e ho già i sensi di colpa. Antonio vuole portarmi in città, ma io non ho voglia di buttarmi in un gomitolo di strade affollate e non ho voglia di comprare cose inutili da regalare. Vittoria mi ha chiamata dicendo che a Natale non verrà. Deve tenere i nipoti. Come se non li tenesse abbastanza. I genitori vanno alla Spa, nelle Dolomiti. Devono godersi le vacanze senza i figli. Loro. È una guerra persa in partenza. Il mio cuore si stringe, qualcosa mi dilania dentro perché non so se ci sarà ancora quel tempo per raccontarci di nuovo, come una volta. Mi sembra di essere tornata figlia unica ma so che Vittoria, anche se non verrà, esiste. Questo è il mio unico conforto.

23 dicembre La brina stanotte ha paralizzato ogni cosa come se volesse fermare il tempo nel suo gelido abbraccio. Domani sarà la Vigilia di Natale. Nell’aria c’è già odore di Vigilia. L’atmosfera è impregnata di auguri e sorrisi e tutti intorno fanno finta di essere felici. Io non andrò alla Messa di mezzanotte. Il freddo che entra nelle ossa e la calca di persone intorno, intente ad accomodarsi in prima fila e sfoggiare qualcosa di rosso, non fanno per me.

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Me ne starò in soggiorno davanti al presepe. Gesù mi vedrà e si lascerà amare anche in dialetto.

24 dicembre Il cellulare è da stamattina che è bersagliato da messaggini che suonano, di neve che scende, di canzoncine mielose, di renne animate. Prima o poi risponderò. Non ho dimestichezza con questi aggeggi. Io vivo ancora nel cartaceo e scrivo i biglietti di auguri a penna, ma così rischio di sembrare troppo vecchia! Stamattina mi è venuta in mente mia madre quando la Vigilia di Natale si rintanava in cucina per ore e ore. Non voleva nessuno ad aiutarla. Anche io e Vittoria non potevamo entrare. Quello era il suo mondo. E dal suo mondo emergeva con la grande zuppiera di tortelli di zucca, conditi con burro e Parmigiano, assecondando le tavolate chiassose di parenti che puntualmente ogni anno sedevano alla nostra tavola. Io non confesserò di averli comprati. Non lo dirò nemmeno ad Antonio, ma tanto lo capirà da solo. Stasera verrà qui, nella mia capanna, dove la solitudine è diventata un po’ meno sorda, dove non c’è bisogno di pacchetti e panettoni, ma di parole. Parole che fanno bene al cuore di due anime fragili come noi, che hanno solo bisogno di restare abbracciate per non morire.

Rossella Bacchi, nata a Poviglio (RE), negli ultimi anni si divide tra l’Emilia e la Repubblica di S. Marino. Appassionata di arte, viaggi e cucina, nel 2008 riscopre la passione per la scrittura. Partecipa a concorsi letterari e per le sue pubblicazioni riceve premi e riconoscimenti. In questo momento sta lavorando al suo primo libro.

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Chewing gum di Annalisa Bertolotti

Nella canicola infuocata di luglio, il paese della Bassa, soverchiato da una cappa d’afa, giaceva sornione come un gatto acciambellato. Nemmeno l’oscurità della sera riusciva ad arrecare il tanto agognato refrigerio e, per di più, in quelle ore, il silenzio era infranto dall’insistente ronzio di moleste zanzare. Così, nelle case, si guardava la televisione al buio, con le finestre spalancate e uno zampirone fumante sui davanzali. Fausta non trovava pace. Invano continuava ad agitare il suo ventaglio davanti al volto imperlato di stille di sudore: un sudore che le appiccicava il vestito alla schiena facendole avvertire la pesantezza di una giornata di luce abbacinante, di zolle riarse dal sole, di arbusti rinsecchiti, del Po in secca... Invocava la pioggia: un temporale come non si era più verificato dallo scorso mese di maggio. Da allora era iniziata un’estate che ella classificava come la più rovente della sua vita. Si rigirava sul divano cercando invano di appisolarsi, cedendo a quella calura che le toglieva le forze, ma che, al tempo stesso, non le concedeva il riposo. Stendeva le gambe, poi le ripiegava, apriva le braccia in senso di resa per poi blandire nuovamente il ventaglio e agitarlo freneticamente quando, all’improvviso, un grido agghiacciante, simile ad un prolungato lamento, infranse il silenzio e la fece sobbalzare. Si alzò di scatto per dirigersi verso la finestra. Si sporse, ma non vide nulla... niente fuorché il nero della notte. Allora aguzzò la vista e quando lo sguardo si fu adattato all’oscurità, scorse una fiammella sul davanzale di Lilli, la sua dirimpettaia. “Lilli! - la chiamò in un sussurro - Stai fumando?”

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“Eh, visto che non si riesce a dormire...” replicò quella in un sospiro. “Hai udito anche tu?” insistette Fausta. “Ma sì. - rispose l’amica senza enfasi - È il gatto della Cesira... è in amore! Se continua così, con i miagolii che fa, gli saltano le corde vocali!” “Certo che quando un maschio fa il cascamorto per conquistare una femmina non ha mezze misure, eh? Diventa persino ridicolo!” commentò Fausta, ma subito si arrestò nella percezione di una terza presenza alla finestra del piano di sotto. Allora chiamò: “Cesira, sei tu?” “Cesira, sei tu?” le fece eco Lilli dal davanzale dirimpetto. “Donne... - piagnucolò quella - Mi è scappato Moreno!” Stavolta il silenzio venne infranto dalla fragorosa risata delle due amiche: “Chi ti è scappato, Cesira?!” la beffeggiarono bonariamente le due, senza smettere di sghignazzare. “C’è poco da ridere, sapete? - ribatté quella, risentita - Moreno, il mio gatto... non lo trovo più!” Ma non ricevette dalle vicine la reazione desiderata. All’udire quel nome, le due si sbellicavano dalle risate e continuavano a spalleggiarsi ripetendo tra loro: “Ahahah, Lilli hai sentito come ha chiamato il gatto? Moreno!” “Ahahah, Faustina... da crepare dal ridere!” ribatteva l’altra e, rivolgendosi alla terza, la esortavano: “Veh, Cesira, non farti sentire a chiamarlo con il nome che gli hai dato... non sia mai che torni a succedere quello che è accaduto l’anno scorso, eh?” Stavolta, malgrado il gatto disperso, anche Cesira si unì alle risate nel riemergere dei ricordi legati all’estate più esilarante della sua vita...

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Un anno prima... Era accaduto all’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Per festeggiare il suo settantesimo compleanno, Moreno aveva prenotato il pranzo al ristorante Da Piero, sull’Alpe di Succiso. Siccome la ricorrenza cadeva il 15 di luglio, sarebbe stata anche un’occasione per sfuggire all’afa della Bassa, almeno per un giorno e godere il fresco dei boschi e delle praterie di montagna. Lui, la moglie Donata e due coppie di amici - scelti più da Donata che dallo stesso Moreno per l’inclinazione delle altre mogli al pettegolezzo - erano partiti di buon’ora per raggiungere la meta a mezzogiorno, accomodarsi al tavolo ad essi riservato e da lì non alzarsi più sino a sera, quando avessero deciso di rincasare. Un lauto banchetto con le specialità del posto: tortelli di patate, puntine di maiale, insalata di pomodori e cipolla, torta al cioccolato, caffè e amaro, il tutto condito da chiacchiere e gossip e annaffiato con buon vino. Era accaduto durante il rientro, mentre, in auto, scendevano lungo la statale 63. All’improvviso, Moreno aveva diretto a Donata uno sguardo preoccupato per poi irrompere: “Ho un orecchio chiuso!” “È la pressione! - lo aveva rassicurato la moglie - È quasi normale quando si scende dalla montagna. Un montanaro non ci fa neanche caso, ma per noi della Bassa può rappresentare un inconveniente... Prova a soffiarti il naso, a vedere se passa!” Moreno la assecondò: estrasse dalla tasca il fazzoletto e, con tutta la forza che aveva nei polmoni, soffiò una, due, tre volte... Niente da fare. Avvertiva uno strano ottundimento nell’orecchio sinistro che gli sembrava addirittura aumentato dopo la ricerca di quel rimedio suggerito da Donata. “Va meglio?” si premurò la donna. “No! - replicò lui in preda all’agitazione - È sempre peggio... Anzi, adesso mi sembra anche di sentir fischiare il treno!”

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“Ma che treno, Moreno?! - minimizzò la moglie - Siamo allo Sparavalle, sai? Non a Ciano! Qui non ci arriverebbe neanche un trenino a cremagliera!” Ma l’uomo, in preda all’ansia, non la stava nemmeno ad ascoltare: colto da un incontenibile senso di panico, continuava ad agitare il proprio mignolo all’interno del padiglione auricolare dinnanzi allo sguardo esterrefatto di Donata che cercava di scervellarsi per proporgli rimedi improvvisati. La donna frugò freneticamente nella propria pochette: “Tieni... - gli disse esibendogli un chewing gum - Prova a masticare che a volte è sufficiente un movimento della mandibola per aprire l’orecchio!” Moreno scartò la gomma frettolosamente, se la portò alla bocca e iniziò a biascicare. “Prova a fare il palloncino con il chewing gum!” lo consigliò Donata, ricevendo, in tutta risposta, una replica adirata da parte del marito: “Veh, Donata... non è uno scherzo, eh? Non capisci che dall’orecchio sinistro non sento più niente all’infuori del fischio di un treno che non c’è?” “Eh, e allora cosa intendi fare?” domandò la moglie in senso di resa. “Cosa intendo fare?! Con un simile problema è una domanda da fare? Appena arriviamo a casa chiamo subito Egidio che venga a visitarmi!” Egidio Bellanti era il medico di condotta del paese, nonché grande amico di Moreno. Entrambi appassionati di calcio, ogni qualvolta veniva trasmessa una partita, essi si trovavano al bar della piazza a tifare per la loro squadra del cuore. Appartenenti alla stessa classe, erano anche stati - per un certo periodo - compagni di banco alle elementari per poi venire separati dall’insegnante a causa delle loro continue chiacchiere. Un’amicizia di vecchia data che rendeva i due affiatati e complici, benché le loro scelte di vita avessero poi imboccato strade completamente diverse: Egidio aveva proseguito gli stu-

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di laureandosi in Medicina, mentre Moreno, che non eccelleva di certo nell’impegno scolastico, si era specializzato in qualità di imbianchino... Quella sera Moreno non si premurò nemmeno di posteggiare l’auto in garage: la lasciò nel cortile di casa e, in preda ad un disagio incoercibile, salì le scale due gradini alla volta. Giunto nell’ingresso, sollevò la cornetta del telefono e digitò il numero dell’amico. Con la voce strozzata, gli spiegò l’accaduto. “Vieni a casa mia che ti do un’occhiata!” lo confortò il dottore ed egli, così come aveva salito la rampa di gradini, la ridiscese altrettanto febbrilmente per dirigersi verso l’abitazione del Bellanti. “Caro il mio Moreno... - refertò il dottore - Devi capire che non abbiamo più vent’anni e nemmeno trenta... Alla nostra età cominciano a saltar fuori gli acciacchi, si comincia a perdere dei colpi e bisogna farsene una ragione altrimenti uno non vive più... Ogni frutto ha la sua stagione e per noi, ormai, è giunta la stagione dell’uva passa!” Moreno trasecolò. Sgranando gli occhi allibito, incurvò le sopracciglia e irruppe: “Ma cosa dici? Perdere dei colpi?! La stagione dell’uva passa?! Veh, Egidio parla per te che io sono ancora in gamba, tanto da suscitare l’invidia di un giovane di vent’anni!” e, bofonchiando tra sé e sé, indignato, ripeteva: “Ma pensa cosa mi tocca sentire... e per fortuna solo da un orecchio! Sta a vedere che per un orecchio otturato uno è da ricovero... quando magari è sufficiente instillarvi una goccia d’olio d’oliva per liberarla!” Stizzito, si diresse verso la porta e afferrò la maniglia. Prima di abbassarla si girò verso l’amico e, con gli occhi a fessura, mormorò: “Ricorda, Egidio... anche se ho un orecchio otturato, le donne cascano ancora ai miei piedi, sai?” Egidio trattenne a stento una risata. Con un cenno della mano lo accomiatò.

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“Allora, cosa ti ha detto il dottore?” incalzava Donata al rientro del marito. “Avevi ragione tu, sai? - replicò Moreno - È la pressione! È un fatto normale quando si scende dalla montagna. I montanari ci sono abituati, non ci fanno neanche caso... ma per noi della Bassa è un fastidio...” “Eh, e il treno?” insisteva la donna. “Che treno?” “Il fischio che senti, no?” “Egidio ha detto che è un buon segno…” replicò Moreno con supponenza. Donata allibì: “Un buon segno un fastidio simile?!” “Sì, sì... - insistette il marito - Egidio ha detto che ho le orecchie con la sensibilità di un ragazzino!” Donata gli lanciò uno sguardo bieco e irruppe: “Veh, Moreno... considerato che ci senti solo da una parte, sei proprio sicuro di aver capito bene?!” Il giorno seguente il paese fu sconvolto dagli avvisi funebri che annunciavano la morte di Pietro Picciati, detto “Il Picio”, di anni 71. Moreno sbiancò. Il Picio era un suo caro amico. Avevano trascorso insieme un’allegra serata solo pochi giorni prima... nulla, assolutamente nulla, lasciava presagire una simile tragedia. “Ma, come è successo?” sillabò afflitto da un’angoscia insostenibile. “Era andato a mangiare le rane fritte al Lido. - gli spiegò la barista del Cafè Italia - Poi è andato in riva al Po... faceva caldo, aveva sete e ha bevuto una birra ghiacciata. Congestione! Non c’è stato niente da fare... Anche perché alla sua età... sì, insomma, bisogna riguardarsi!” Moreno si schermì: “Alla sua età?! Ma non era vecchio!” La barista lo commiserò: “Era forse un ragazzino a settantun anni?” “Però li portava bene!” obiettò Moreno.

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“Bene o male erano sempre settantuno... E a settantun anni uno è vecchio!” commentò lei, serafica. Il giorno del funerale del Picio, Moreno sedeva, impettito, nel primo banco della chiesa. Aveva gli occhi lucidi, ancora increduli dinnanzi ad una dipartita tanto improvvisa quanto, a suo dire, prematura. Aveva lo sguardo sconcertato e assorto sulla bara, posta al centro della navata, ai piedi dell’altare, quando un fastidioso tramestio al suo fianco lo distolse dai suoi pensieri. “Ma porco cane... proprio adesso?” irruppe in un bisbiglio una voce femminile al suo lato. Moreno si girò di scatto e vide la Cesira indaffarata a cercare di risistemare la fibbia della sua scarpa destra che si era staccata. “No, voglio dire... è un paio di scarpe nuove, comprate ieri per l’occasione. - proseguì la donna stizzita - Pazienza che facciano venire le vesciche nei piedi... ci può anche stare con delle scarpe nuove... ma che ti si guastino indosso no e poi no, eh?” Moreno si incuriosì. All’improvviso gli tornarono in mente le parole del suo amico dottore, si sovvenne della sua replica indignata e decise che, proprio lì, al funerale del Picio, forse gli si stava presentando l’occasione giusta per la propria rivalsa e per dimostrare ad Egidio, alla barista del Cafè Italia e a chiunque pensasse che un settantenne è anziano... sì, proprio così... per dimostrare a tutti che c’è un fascino singolare che emana dalla maturità e dalla saggezza della terza età, anche qualora essa sia già in fase avanzata. Convenne con se stesso quanto l’ottundimento al suo orecchio sinistro, gli acufeni e l’ipoacusia convergessero con il problema di quella donna al suo fianco - peraltro molto più giovane di lui - e si persuase ancor di più del fatto che un guaio momentaneo - di salute o di altra natura - non sia affatto una circostanza legata all’età, quanto - piuttosto - al destino. Sì, sì, l’amico dottore avrebbe dovuto ricredersi... quella donna sarebbe stata la dimostrazione di quanto egli - Moreno Sguroni

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- all’età di settant’anni fosse ancora piacente e potesse ancora contare sul suo fascino inossidabile. Le sue meningi iniziarono allora a vorticare freneticamente, alla ricerca di una soluzione da proporre a quella signora. Dalla comparsa del suo problema, Moreno non aveva mai smesso di masticare chewing gum, seguendo fedelmente il consiglio di sua moglie Donata e anche ora, in chiesa, egli teneva in bocca una gomma, spalmata dalla lingua sul palato per rendere i movimenti delle mascelle pressoché impercettibili. “Signora o signorina, la posso aiutare con quella fibbia?” propose gentilmente alla donna al suo fianco. “Non c’è soluzione. - replicò quella rassegnata - Si è scollata... ci vuole una goccia di Attack”. “Mi faccia vedere!” insistette Moreno. “Cosa? Ma secondo lei mi tolgo una scarpa in chiesa nel bel mezzo di un funerale?” si indignò la donna. Moreno si serrò nelle spalle e architettò una strategia per poterla, comunque, assecondare. Estrasse la gomma biascicata dalla bocca e gliela mostrò. Quella si ritrasse con ribrezzo. “È una soluzione improvvisata, lo so... - le disse - Ma almeno le permetterà di accostarsi alla comunione con le scarpe in perfetto ordine...” La donna gli lanciò un’occhiata scettica, indugiò un istante, ma infine convenne che, forse, quello sconosciuto aveva ragione. “Non ci calchi troppo però, eh? Che dopo fa un piastrone che non riesco più a rimuovere! E mi rovina le scarpe nuove!” si raccomandò la Cesira. La donna non si tolse la scarpa: fu Moreno a chinarsi sotto il banco, ai suoi piedi, per procedere all’operazione. Un intervento risolutivo. Mentre la Cesira si accostava all’altare per ricevere la comunione, egli si sentiva leggero, quasi dimentico di quella preoccupazione che lo aveva accompagnato notte e dì nei giorni precedenti. E il fischio di quel treno nella profondità del suo timpano gli parve il lieto presagio di avere ancora tanta strada

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da percorrere... “Maledizione! - imprecava la Cesira mentre, sul davanzale del bagno, si ostinava a raschiare dalla scarpa i residui del chewinggum - E dire che mi ero raccomandata di non calcare troppo... per fortuna! Vatti a fidare... Porca miseria, non si stacca neanche con una cannonata!” Il continuo mugugnare attirò l’attenzione della Fausta che si affacciò alla finestra: “Veh, Cesira, ma cos’hai da brontolare?” Così l’amica le spiegò nei dettagli quel fastidioso imprevisto che le era accadduto durante il funerale del Picio e la soluzione al problema escogitata da quello sconosciuto al suo fianco. “Ma tu pensa... con un chewing gum?! - allibì Fausta - Ma non capiva che ci sarebbe saltato fuori un pasticcio? Veh, Cesira... a me questa storia non convince, sai?” “Perché, cosa vorresti insinuare?” si insospettì la Cesira. “Niente... Cioè, che età aveva l’uomo in questione?” proseguì Fausta. “Mah... occhio e croce dai sessantacinque ai settant’anni!” azzardò la Cesira. “Ecco, vedi? Non sai che è l’età dei cascamorti?” addusse l’amica. “Ah?” “Ascolta, Cesira... intorno alla settantina un uomo inizia a sentirsi vecchio e non riesce a farsene una ragione... Nonostante inizino a saltar fuori mille acciacchi, lui continua a fare il galletto più di quando aveva vent’anni. Sì, sì, una cosa patetica... come il pasticcio che ha provocato nelle tue scarpe nuove con il chewing gum!” “Mamma mia, Faustina! - esclamò Cesira - Ho un nervoso che non puoi neanche immaginare!” “Per il chewing gum o perché ha fatto il cascamorto?” ironizzò Faustina. “Ma dai... cosa mi importa di un vecchio che mi fa la corte? - si

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indignò l’amica - Lascialo fare, poveretto! Però, le mie scarpe nuove... pensare che mi piacevano tanto... in tinta con la mia gonna... mi snellivano anche i piedi! “Ti posso capire... - la confortò Fausta - Anche io detesto i pasticci. Pensa che l’altro giorno con il manico della scopa ho urtato contro il muro… Ho provocato una sbrecciata grossa come un’unghia, ma a guardarla mi dà l’idea che tutto il muro sia scrostato. Ah beh, non ho indugiato, sai? Ho chiamato subito l’imbianchino. Verrà lunedì!” La Cesira trasecolò: “Ma sei pazza a fare imbiancare un’intera camera per una sbrecciata delle dimensioni di un’unghia?! Non capisci che ti viene a costare una fortuna per un segno pressoché invisibile?” “No, sai! - la smentì l’amica - Veh, ho trovato un volantino di un imbianchino economico... Guarda, c’è scritto: Con Moreno spendi meno. Comunque lunedì, quando viene, mi faccio fare il preventivo... Che veda anche lui che il muro è imbiancato di fresco... c’è solo il problema di una piccola ammaccatura...” “Beh, - chiosò la Cesira - speriamo che non sia un pasticcione come quello sciocco che ho incontrato al funerale... guarda qui le mie scarpe nuove... rovinate!” e, in un impeto di collera, inferse un colpo di raschietto così violento sui residui di chewing-gum da tagliare anche la pelle sottostante... Allora, in un raptus di stizza, raccolse da terra anche l’altra scarpa per gettarle entrambe nel sacco dell’immondizia... “Buongiorno signora! - disse l’imbianchino a Fausta - Allora dov’è il muro da tinteggiare?” “Ma che muro? - ribatté lei - È un ritocco... un lavoretto da niente!” E, così dicendo, gli raccontò del suo movimento maldestro con la scopa che aveva causato quella minuscola sbrecciata. Moreno vi infilò il polpastrello dell’indice: “È venuto via anche l’intonaco... - constatò - Non basta coprire con una pennellata di bianco, sa?”

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“Quindi? - inquisì Faustina - C’è bisogno di una bitumiera per fare il cemento?” chiese sarcastica. Moreno si arrovellò le meningi e, dopo un lungo indugio, le presentò la soluzione: “Guardi, l’importante è riempire il buco... dopo imbianco il tutto e il gioco è fatto!” e, con fierezza, si infilò le dita in bocca per estrarre un pezzo della gomma che stava masticando. Facendola ruotare tra le falangi del pollice e dell’indice, ne ricavò una pallina - grossa quanto un’unghia - che spalmò all’interno della sbrecciata sotto lo sguardo esterrefatto della donna. “Un… chewing… gum?!” sillabò lei in un filo di fiato. “Sì, sì...stia tranquilla che non si stacca più!” ribatté Moreno con l’aria di chi conosce i trucchi del mestiere. Come in un flash, si presentò alla mente della donna la scena in cui rivedeva l’amica Cesira alle prese con la sua scarpa rovinata proprio da un chewing gum e adesso... adesso quell’imbianchino le stava proponendo un rimedio che le appariva un pasticcio dello stesso calibro. E sempre con una gomma da masticare: ma cos’era? Una moda? Moreno livellò il muro spalmando la pallina con le dita. “Adesso bisogna aspettare che si secchi…” e, di sua iniziativa, si sedette sul divano ad attendere il tempo di posa. Si raschiò la gola e irruppe: “Che caldo, eh? Le do fastidio se mi tolgo la maglia?” Fausta strabuzzò gli occhi, ma l’uomo non attese la risposta. Con un movimento fulmineo si sfilò la t-shirt e rimase a torso nudo. Fausta trattenne a stento un’espressione di ribrezzo. Aveva un torace irsuto e le stille di sudore formavano un’orripilante condensa che avvolgeva ogni singolo pelo. La schiena pareva la superficie lunare con i suoi crateri e le protuberanze di qualche ciste sottocutanea. Dinnanzi all’espressione allibita di Fausta, Moreno iniziò a parlare del proprio tempo libero, ostentando una serie di interessi tipici di un uomo di giovane età: “Mi dica, signora, le piace andare a ballare? Il rock’n roll, eh?

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In discoteca!” “Ma cosa dice? - si schermì Fausta - Non ho più vent’anni! In discoteca?! Con tutta la ciurma di ragazzacci? Tanto che mi si scambi per la loro nonna?!” “Ma quale nonna?! - la adulò lui - Lei non ha nulla da invidiare ad una ragazza di diciott’anni, sa? Non mi dirà che si sente vecchia, eh?” “Mi sento gli anni che ho…” replicò Fausta indispettita, per nulla lusingata dal fare languido dell’imbianchino. Ma quello non si perse d’animo: “Mi piacerebbe farle fare due giri di valzer!” “Accidenti, com’è appiccicoso! - pensò Fausta - Se il suo chewing gum è uguale a lui, ha ragione a dire che non si stacca più!” e, per vincere l’imbarazzo, passò un dito sulla sbrecciata del muro: “È secca!” esclamò. Allora Moreno intinse il pennello in un barattolo di vernice e lo passò sulla parete. “Ecco fatto!” annunciò. “Quanto le devo?” chiese Fausta frettolosamente, nel desiderio che egli indossasse di nuovo la maglia e si togliesse di mezzo. “Quanto mi deve?” le fece eco lui “Due giri di valzer! - insistette - Sabato sera… alla discoteca Elisir, a Boretto”. Non le lasciò nemmeno il tempo di replicare. Inforcò l’uscio e scomparve, lasciando la povera Fausta con un palmo di naso. “Allora, Faustina... - inquisì la Cesira - Sei rimasta contenta del tuo imbianchino?” “Non mi ci far pensare! - gemette l’amica “Un pasticcione che non ti dico! Aveva l’aria di uno che sa tutto... ha infilato un dito nella sbrecciata del muro e ha detto: Bisogna riempire il buco ...e sai con cosa? Indovina!” “Con la calce?” azzardò la Cesira. “Macché! Con il chewing gum che stava masticando!” si lamentò Fausta.

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“Beh, e tu l’hai lasciato fare?” la riprese l’amica. “Guarda Cesira, aveva un comportamento da lasciarmi senza parole! Come quando si è tolto la maglia ed è rimasto a torso nudo...” La Cesira sgranò gli occhi, accecata dalla curiosità di conoscere il seguito della storia: “A torso nudo?! - le fece eco - Ma era almeno un bell’uomo? Che età aveva?” “L’età dei cascamorti, Cesira... non si scappa da lì! Dai sessantacinque ai settant’anni! - replicò Fausta - E poi, mentre il chewing gum si seccava, ha iniziato a dire che lui va a ballare in discoteca... che gli piace il rock’n roll... e poi giù con dei complimenti tanto falsi che mi sembrava di vedere il suo naso che si allungava! Diceva che non ho niente da invidiare ad una ragazza di diciott’anni…” “Beh, in effetti!” concordò Cesira. “Ma in effetti cosa che sono piena di acciacchi?” ribatté Fausta risentita. “E alla fine, quanto ti ha preso?” domandò la Cesira. “Eh, bella domanda! È stato come se mi facesse un ricatto! Io gli ho chiesto il prezzo e lui mi ha dato appuntamento alla discoteca Elisir, a Boretto, sabato sera!” spiegò Fausta. “E tu ci andrai?” allibì la Cesira. “Ma cosa dici?! - si schermì l’amica - Non sono mica matta, sai? A parte il fatto che mi ha combinato un pasticcio che non ti dico... Nel muro, dove ha attaccato il chewing gum, ci è venuta una macchia grigia che profuma di menta!” “Vedi? - ribatté la compagna - Se tu avessi tenuto il muro con la sbrecciata... sarebbe stato meglio! Io ti avevo avvertito!” Ma subito, come in un flash, si affacciò alla mente di Cesira un dubbio che, nel ripercorrere il racconto dell’amica, pareva arricchirsi di conferme al punto da risultare quasi una verità. Allora ella decise di approntare una serie di domande per poi mettere al corrente anche Fausta delle sue argute intuizioni: “Senti, Faustina... il tuo Moreno era alto o basso?”

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“Un tappo!” “Biondo o moro?” “Grigio topo!” “Grasso o magro?” “Un barilotto! Uno a cui piace mangiare salsicce e cotechini!” “E quando è arrivato da te... aveva già in bocca il chewing gum?” “Senti, Cesira! - si spazientì Fausta - Ti hanno assunto nell’F.B.I.?” La Cesira rise di gusto, con gli occhi illuminati dalla luce della propria perspicacia: “È lui, Faustina!” irruppe in un’esclamazione. “Ah?” inquisì l’amica che non aveva afferrato una sola virgola di tutto quel collegamento. Allora Cesira le ricordò l’episodio della sua scarpa e di quell’uomo che, durante il funerale del Picio, si era tanto prodigato a riparargliela. Con gli occhi sgranati, Fausta si portò una mano alla bocca, come a ricacciare in gola un grido stupefatto: “Intendi insinuare che...” sillabò. E le due irruppero in una fragorosa risata. Erano giorni che Lilli non si faceva vedere. Benché la sua finestra avesse le ante spalancate, nonostante Fausta e Cesira giorno e sera la chiamassero per le loro consuete chiacchierate, ella non rispondeva all’appello. “Ma dove sarà andata?” si chiedevano le due amiche, dapprima incuriosite, poi, con il passare dei giorni, preoccupate. Fu la barista del Cafè Italia a fornire loro una segnalazione: “L’ho vista passare più volte, in questi giorni, con la sporta da spiaggia sotto il braccio. Era diretta verso il fiume... Del resto, con questo caldo, è l’unico modo per rinfrescarsi un po’... Sì, sì, entrava qui al bar per la colazione e poi si incamminava verso il Lido. Là c’è pieno di bagnanti e una come la Lilli - che conosce tutti - non ha certo difficoltà ad intavolare un discorso

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che si prolunga da mattina a sera...” “Beh, e senza avvisarci?” si schermirono le due amiche, con una punta di offesa. “Che abbia trovato un fidanzato?” insinuò Fausta. “La Lilli?! Ma cosa dici?! - la rimbeccò Cesira - È zitella ed è felice di esserlo! L’ha sempre detto!” “Sì, come nella fiaba della volpe e l’uva! Si biasima sempre ciò che non si possiede, ma una volta che lo si trova, si fa presto a cambiare idea!” insistette Fausta. Quella stessa sera, però, le due ebbero finalmente una risposta alla loro curiosità quando videro la Lilli rincasare, pallida come un cencio e con i capelli ancora bagnati e scarmigliati. “Sono viva per miracolo!” esalò quella con il terrore ancora impresso in volto e iniziò a narrare l’accaduto: “Sono andata a Po per fare il bagno. Ho gonfiato il salvagente e poi sono entrata in acqua... Ma c’era la corrente e ad un certo punto nell’acqua c’era un filo di ferro, ci ho preso contro con il salvagente... ci è venuto un foro... ha iniziato a sgonfiarsi... Ho urlato con tutta la voce che avevo in gola... Ad un certo punto vedo un ometto basso e grasso che si tuffa in acqua, nella mia direzione. Quando è stato ad una spanna da me si è infilato due dita in bocca... ha estratto un chewing gum e ha otturato il foro nel mio salvagente, poi mi ha lasciato là e lui è ritornato a riva... Però il chewing gum non teneva e io mi sentivo annegare...” “Mamma mia, Lilli!” esclamarono esterrefatte le due amiche, lanciandosi occhiate complici di chi ha già identificato l’attore della scena. “Quando finalmente i Santi del Paradiso mi hanno aiutato a raggiungere la riva, lui era là e mi fa: Se non ci fossi stato io, lei sarebbe già morta, sa?” “Oh, ma che becco di ferro!” esclamò la Cesira. “Sì, sì. - proseguì la Lilli - E non è ancora finita... Mi fa: Per sdebitarsi dell’aiuto che le ho offerto potrebbe venire a ballare con me all’Elisir, a Boretto, domenica sera!”

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“Sì, perché sabato sera dovrei andarci io!” irruppe Fausta. Lilli le lanciò un’occhiata interrogativa. Allora le due amiche le raccontarono i fatti accaduti all’una durante il funerale del Picio e all’altra durante i lavori di tinteggiatura della parete, convenendo che si trattasse della stessa persona: l’imbianchino Moreno ormai noto come il cascamorto. “Sì... - sospirò Lilli - Però ho ingoiato tanta acqua... non mi sento per niente bene!” “Poverina! - la compianse Fausta - Anch’io, sai? Ho un tale nervoso, una tale ansia con il mio muro così rovinato!” “E io allora? - intervenne la Cesira - A raschiare via il piastrone del chewing gum sulla scarpa mi sono venute le vesciche nelle mani!” “Sapete cosa facciamo, donne? - propose Fausta - Domattina andiamo tutte e tre dal dottor Bellanti. Gli raccontiamo tutto! Ci facciamo dare una cura!” “Capisci, Egidio? - disse Moreno quella stessa sera all’amico dottore - Tre donne in tre giorni... Altro che perdere dei colpi... io dovrei ringraziare il mio orecchio otturato!” Il dottor Bellanti lo guardava di sottecchi: “Ma cosa c’entra un orecchio otturato?” Allora Moreno gli spiegò gli usi sorprendenti del chewing gum come stratagemma non solo per alleviare il fastidio dell’ottundimento al timpano per sé, ma anche come rimedio per ogni tipo di inconveniente in cui una femmina possa incorrere. “Alla prima ho aggiustato la scarpa... alla seconda la sbrecciata nel muro... alla terza il salvagente... - narrava Moreno - e non è ancora finita, caro il mio Egidio, sai?” Sorseggiò il suo caffè e proseguì: “Dopo loro si sentono in debito per il mio favore... E allora io do loro appuntamento in discoteca... Però bisogna essere furbi, eh? Ad una il sabato sera... all’altra la domenica! Eh? Continuerai ancora a dire che a settant’anni uno è un povero vecchio acciaccato? Guarda qui, Moreno: la smentita!”

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L’indomani le tre amiche si presentarono nello studio del dottor Bellanti. “Mi dica, Cesira!” la invitò il dottore. Al che la donna gli mostrò le mani piagate nello sforzo di raschiare i residui di chewing gum dalla scarpa. “Sì. - piagnucolò - È successo al funerale del Picio... E pensare che io non ho chiesto niente a nessuno!” “Porti pazienza, cara la mia Cesira... l’arteriosclerosi è una gran brutta bestia, sa? Uno vede la realtà a modo suo. Chissà cosa pensava... Venga che le ordino una pomata che le risanerà le mani entro sera!” Il dottor Bellanti le consegnò la ricetta e la congedò. “Capisce, dottore? - disse Fausta - L’esaurimento nervoso! E tutto per una sbeccata nel muro... Si presenta l’imbianchino Moreno. Si toglie la maglia... sputa un chewing gum e ottura il buco... Mi dica lei, poteva mai essere un lavoro ben fatto? Ma non è finita qui... Mi voleva far fare due giri di valzer... in discoteca... io alla mia età! E per di più con lui! Guardi, ho un nervoso che mangerei una biscia!” “Cara Fausta, - la interruppe il medico - è la crisi della terza età, sa? Arriva quando uno non si rassegna all’idea di invecchiare... Ma è una parola! Se non si muore prima, non si scappa! Si faccia una bella camomilla e ricordi che il problema è di Moreno e non suo! “Dottore, sono quasi annegata! Ho ancora i polmoni pieni d’acqua marcia!” gemette Lilli e narrò al medico la storia del salvagente e di quell’uomo che glielo riparò con il chewing gum. “Sì, invece di portarmi a riva, mi ha lasciato là, in mezzo al Po, con il salvagente sgonfio, aggiustato con un chewing gum che saltava via... E quando, finalmente, sono riuscita a raggiungere la riva, lui si gloriava come se fosse stato lui stesso il mio bagnino... E voleva che andassi a ballare con lui, la domenica, perché il sabato era già impegnato con la Fausta!” “Ho capito... era sempre lui, no? Moreno con il suo chewing gum!” irruppe il Bellanti.

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“Un pazzo! esclamò Lilli. “Ma che pazzo? È l’Alzheimer. Crede di avere ancora vent’anni!” e, sospirando, il medico si lasciò sfuggire “Ah, povera Donata!” poi si ricompose e consigliò la sua paziente: “Vada in montagna a respirare l’aria buona. Le farà bene ai polmoni. Ma stia attenta quando scende a valle... vada molto lentamente perché la pressione può fare brutti scherzi... Anzi, mastichi di continuo un chewing gum per non correre rischi!”

Annalisa Bertolotti è nata e vive a Reggio Emilia. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, da sempre ama scrivere racconti e poesie non solo in italiano, ma anche negli idiomi esteri, nonché in dialetto reggiano. Partecipa a numerosi concorsi letterari nazionali e internazionali, quali il Concorso Letterario Internazionale “Shelley e Byron” (Giugno 2015) a La Spezia, al Concorso Letterario Nazionale “Il Trebbo” (Ottobre 2016) a Riolunato, al Concorso Letterario Nazionale “Eridanos” a Gussola (Settembre 2017) e al Concorso Letterario “Il Grappolo d’Oro” (Ottobre 2017) a Bardolino, senza citare gli innumerevoli concorsi locali in italiano e in vernacolo dove le sue opere hanno sempre ottenuto il giudizio favorevole della Giuria. Nel 2018 è risultata vincitrice 1° Premio Sezione Poesia Religiosa a Formigine Concorso Letterario Nazionale “Parole e Poesia”, del 3° Premio Concorso Internazionale “Shelley e Byron” Sezione Narrativa Breve Inedita e del 1° Premio Concorso dialettale “La Giarèda a Reggio Emilia” Sezione Poesia di argomento cittadino.

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La telefonata di Dina Paola Cosci

Tutto cominciò quella mattina, quando squillò il telefono. Un poco scocciata, perché era molto presto, alzai il ricevitore. Una voce, dallo spiccato accento straniero, si presentò: “Sono Selma Blaker, lei è la signora Fruzzelli?” Risposi affermativamente e lei decisa: “Avrei bisogno di farle qualche domanda, non si allarmi, sarà solo un colloquio privato tra me e lei”. “Attualmente sono all’estero, ma tra poco sarò di nuovo in Italia”. “Per favore mi dica, quando posso richiamarla?” Le detti la data di quindici giorni dopo, feci mentalmente il conto guardando il calendario. Sicuramente sarei stata sola in casa, mio marito a caccia, i bambini a scuola e io sarei stata pronta a declinare qualsiasi proposta di acquisto. Infine pensai: se mi scoccia butto giù e finisce lì. Ma ero troppo curiosa per lasciar perdere. Quel venti marzo di tanti anni fa ero ansiosa e senza motivo apparente. Puntuale, all’ora stabilita, suonò il telefono. “Signora, si ricorda di me? Sono Selma Blaker, segretaria del Prof. Edward Bachamann, si prepari perché la porterò lontana nel tempo, precisamente al 1944. La prego di correggermi se sbaglio: Lei con le sue sorelle e i suoi genitori eravate sfollati presso Codemondo, nel reggiano, vado bene? I tedeschi, intuendo forse vicina la sconfitta, si erano fatti più severi con i civili, da parte loro i Partigiani erano in febbrile attività e voi, anche se spaventati, un giorno offriste del cibo a un ragazzo straniero senza divisa. Forse un disertore… Non pensaste alle

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rappresaglie alle quali potevate andare incontro. Lo rifocillaste lasciandolo riposare qualche ora. Al momento di andarsene chiese a vostro padre se poteva accompagnarlo là in fondo all’orto, lungo il fossato che delimitava l’orto stesso. Fu laborioso intendersi reciprocamente, ma appena fu notte si avviarono insieme fino alla confluenza col Fosso Maestro. A questo punto lui lo lasciò, tornandosene a casa”. Io ero allibita, questa sconosciuta ne sapeva più di me, stava riportandomi alla mente episodi, addirittura stati d’animo, che riaffioravano dalle nebbie del tempo dietro alle sue parole. Chi era costei, cosa voleva da me, perché mi faceva ricordare un periodo così doloroso per noi, per la nostra Italia? Le mie sorelle, entrambe sposate all’estero, i genitori che non c’erano più. Improvvisamente mi sentii l’oggetto inconsapevole di un intrigo. Per un momento mi persi dietro a mille congetture, ma rientrai in me quando lei disse: “Quel ragazzo, cara signora, era mio figlio. Giovanissimo, partì volontario arruolandosi nell’esercito tedesco, dopo un paio d’anni disertò unendosi ai Partigiani Italiani. Da allora non l’ho più visto, né ho avuto sue notizie. Da qualche tempo collaboro con un professore che si occupa di ricerche storiche, il più possibile particolareggiate, sull’ultimo conflitto. Nel cuore nutro sempre la speranza di sapere qualcosa sul mio Eric. Grazie a questo sono riuscita a recuperare una specie di diario che mio figlio affidò ad un amico. Così ho saputo di voi e cosa faceste per lui. Probabilmente non lo incontraste più, vero?” A questo punto risposi io: “Ricordo benissimo il periodo che abitammo nei dintorni di Codemondo. Il colono, che ci affittò due stanze, chiese ai miei se volevano anche il pezzo di terra vicino alla casa, da adibire a orto. Babbo accettò di buon grado, gli avrebbe fatto piacere passarci qualche ora, e così fu. Lo rivedo quell’orto, con intorno piccoli fossi che ne delimitavano i confini. Al di là un sentiero, lungo il quale c’era il Fosso Maestro che riceveva tutti i fossetti. Proprio davanti a noi, al di là dell’argine, un vecchio pioppo, sotto al quale, qua-

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si tutta coperta dall’edera, c’era una specie di sedile di pietra. Quando con le mie sorelle andavamo a giocare nell’orto, ci faceva gola l’ombra al di là del Maestro, ma Babbo ci aveva vietato assolutamente di attraversare il confine dell’orto e il fosso grande, anche se non c’era l’acqua. In quel periodo suo figlio venne da noi. Sapeva poco l’italiano, ma bene o male fece capire che cercava un pioppo con sotto un sedile, ma doveva fare in fretta a trovare il luogo. Babbo capì subito e lo condusse dove lui desiderava dopo cena. Poi lo lasciò solo. Mai più veduto. Dopo questo episodio, apparentemente insignificante, i nostri genitori, di comune accordo, decisero di abbandonare le due stanze e andare in un’altra zona. Fu così che andammo a finire nelle campagne attorno a Cavriago. Pochi giorni dopo il trasloco, nei pressi del famoso pioppo, fu trovato il corpo di un giovane sconosciuto in abiti mimetici, ucciso da diverse coltellate. In paese nessuno lo aveva mai visto. Questo è tutto quello che so e che ricordo”. La donna, dall’altra parte del filo, pareva trattenere il fiato; poi con voce commossa mi fece promettere che l’avrei chiamata se mi fosse venuto in mente qualcosa, a questo proposito mi dette un numero telefonico in Italia. Promisi e riattaccai. Mio malgrado, la sua telefonata inattesa mi aveva scossa. A mente fredda cercai di ricordare… Quando Babbo tornò, dopo aver accompagnato Eric, si mise a parlottare con mamma e ci sembrarono preoccupati. Essendo io la maggiore, forse feci più caso delle altre alla loro espressione. Ecco perché lasciammo la casetta di Codemondo! I miei erano impauriti da qualcosa, ma mai saputo da che cosa, solo che quel trasloco ci sembrò una specie di fuga. Alle nostre domande Babbo rispondeva: “Meno sapete, bimbe, meglio è”. A guerra finita tornammo alla nostra casa di Reggio, fortunatamente risparmiata dalle bombe, e la vita riprese. Diversi anni fa, con mio marito, durante una gita ci fermammo ad un cimitero militare sul Passo della Futa, non ricordo dove era ubicato, ma ricordo benissimo il nome che lessi su una croce:

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Eric Blaker. Chissà se sua madre saprà almeno dove riposa suo figlio? Appena a casa cercai il numero che la signora mi dette, un giorno lontano… Composi le cifre e attesi, stava chiamando. Una severa voce di un uomo rispose alla mia richiesta: “La signora Selma non è più qui, è tornata in Germania con suo figlio!”. Sono riuscita a riagganciare in silenzio, sorpresa. Vorrei poter mettere ordine in questa storia… ma davanti ad un piatto di cappelletti e cotechino fumante ho raccontato della telefonata a mio marito, che ha riso: come investigatrice valgo poco, ma mi si perdona, perché come cuoca sono insuperabile, le emiliane sono così!

Dina Paola Cosci, da ragazza ricamava: era il suo lavoro. Dopo il matrimonio divenne casalinga e mamma di tre bambini. Seppure autodidatta, amava dipingere, rubando ore al sonno pur di poterlo fare. Così andò avanti per qualche anno con lusinghieri successi. Alla morte del padre, gettò i pennelli: lui non era più lì ad incoraggiarla. In compenso, sempre da autodidatta, tornò al suo primo amore, la penna: primi passi in un terreno che via via si faceva sempre più ricco di incoraggiamenti e successi. I numerosi premi in ogni regione d’Italia, soprattutto con il vernacolo pisano, non hanno fatto altro che stimolarla a migliorare.

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Rataplam di Federico Frau

Notte, sento il silenzio all’improvviso. Calma, tranquillità, le uniche caratteristiche che aspettavo dopo una dura giornata di lavoro e che mi danno un senso di benessere. Socchiudo gli occhi sdraiato sul mio letto, avanza il buio che stimola il mio sonno. All’improvviso i ricordi affollano la mia mente. Abitavo con i nonni in una casa isolata lontano dalla città, nel cuore della Pianura Padana, in provincia di Reggio Emilia a Campagnola Emilia. Il paesaggio di questo piccolo paese è proprio quello tipico della bassa Pianura Padana. Ricco di fauna e flora, di campi coltivati e di vigneti che durante il periodo autunnale arricchiscono di colori vivi e forti le terre di questo piccolo paesino; è talmente bello che sembra una cartolina da spedire, soprattutto d’estate quando si sente l’odore della terra, dell’erba e del fieno che riescono a far dimenticare il duro caos della città. Il mio papà e la mia mamma sono morti quando avevo tre anni in un incidente stradale e io, dopo la tragedia, sono stato affidato alle loro cure; praticamente li ho sempre considerati come dei veri e propri genitori. Ero un bambino e l’unico compagno di giochi che avevo non poteva che essere il mio cane, un bastardino di taglia media molto affettuoso tutto nero con dei pallini bianchi; l’avevo chiamato Rataplam. La sua particolarità era quella del cerchietto di pelo nero che

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aveva nell’occhio destro, il che lo rendeva molto buffo e simpatico agli occhi di tutti. Mi voleva molto bene e mi seguiva sempre ovunque io andavo, tanto che quando arrivava l’autobus alla mattina presto a prelevarmi per accompagnarmi a scuola, lui piangeva sempre. I miei nonni furono costretti a legarlo tutte le volte che arrivava il momento per me di andare a scuola, altrimenti lui avrebbe seguito l’autobus rischiando di essere investito. Non avevo molti amici e l’unica possibilità di vedere i miei coetanei era appunto la scuola, ma questo non mi preoccupava più di tanto, perché io avevo il mio Rataplam che mi faceva molta compagnia. Ricordo che parlavo spesso con il mio cane e avevo sempre l’impressione, anzi ero sicuro, che lui mi capiva e mi ascoltava. Scodinzolava, mi guardava, osservava ogni mia mossa ed era sempre felice quando stava con me. Mi piaceva vederlo correre nei campi e quando arrivava verso di me dopo una bella corsa, con la lingua fuori, mi dava un forte senso di tenerezza e di felicità. Non potrò mai dimenticare l’ultima volta che lo vidi. Quel giorno pioveva, ero in casa con i miei nonni. Li adoravo, erano sempre uniti, fatti l’uno per l’altro. Quirino, questo il nome di mio nonno, era sempre pronto ad aiutare la nonna Lea nei momenti di difficoltà, specialmente nei lavori di casa. Un uomo che, nonostante l’età avanzata, era ancora fisicamente robusto, ma che sentiva i segni della vecchiaia e della stanchezza fisica, perché aveva lavorato come contadino, arando e coltivando i campi per molti anni. La sua immagine mi è ancora chiara. Il suo modo di vestire non era molto ordinato, indossava sempre il suo cappello di colore grigio, tutto sdrucito e rovinato dall’usura. La nonna lo sgridava sempre, consigliandogli di buttarlo via e di comprarne uno nuovo, ma lui non se ne voleva separare.

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Vestiva con i pantaloni larghi, stretti da una vecchia cintura di cuoio, la camicia era spesso un po’ fuori dai calzoni e il suo panciotto con un taschino, dove teneva sempre il suo vecchio orologio a cipolla che non sbagliava mai un minuto e che caricava sempre con cura alla fine di ogni giornata. Non ha mai smesso di amare la sua adorata compagna che, simpaticamente e amorevolmente, chiamava sempre ogni giorno non con il suo nome ma con la parola Amore. Lui, la nonna, la teneva sempre per mano durante le piccole passeggiate o quando andavano in paese a fare la spesa, anche nel periodo invernale quando fuori di casa faceva molto freddo e la nebbia avanzava lungo la strada del ritorno. Lei, la nonna Lea, una donna tenerissima, austera e silenziosa, ma da una rara e preziosa capacità: l’ascolto. Con la passione della cucina, preparava sempre dei piatti appetitosi, quelli tipici emiliani, pieni di profumi e aromi che proprio fanno venire l’acquolina in bocca solo a sentirne nominare i nomi prima di essere preparati. Ricordo il gnocco fritto con affettato di salume o i classici tortellini d’erba, i cappelletti e la polenta fritta, tutte specialità fatte con le proprie mani e con tanta fatica, ma con tanto amore e passione. Sapeva preparare anche ricette con ingredienti e avanzi lasciati nella dispensa con pane raffermo, albumi, salumi, croste di formaggio, frutta e persino fondi di caffè, perché diceva che in casa sua non si doveva buttare mai via niente, tutto risultava utile, anche lo scarto. Continuava a piovere ininterrottamente ormai da due giorni, era inverno, una fredda mattina d’inverno e la visibilità fuori era ancora scarsa dato che faceva ancora buio. Mi ero svegliato e alzato dal letto presto quella mattina. Andai al piano di sotto, vicino al camino appena acceso da mio nonno, e mi sedetti al tavolo della cucina per consumare la colazione preparata dalla nonna. Mi aveva preparato una fetta di torta alla marmellata fatta in

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casa e una tazza di latte caldo che mi gustai con tanto piacere. Sentivo il rumore e il calore del camino che bruciava la legna e questo mi piaceva molto. Ero pronto per andare a scuola, aspettavo solo l’autobus, ma era ancora troppo presto. Ad un tratto mi accorsi che la cuccia di Rataplam era vuota, mi guardai intorno e capii che in casa non c’era. Strano, pensai: mi accoglieva sempre la mattina con delle feste e, durante il periodo invernale, la notte dormiva sempre in casa nella sua cuccetta in legno costruita da mio nonno, situata proprio vicino al camino. Improvvisamente sentii abbaiare, guardai fuori dalla finestra, era Rataplam. Abbaiava insistentemente, lo vedevo agitato e sembrava volesse dirmi qualche cosa. Allora mi infilai l’impermeabile, presi l’ombrello e uscii di casa per andare incontro a lui. Mi girava intorno e poi si allontanava, poi abbaiava e tornava verso di me e questo lo fece più volte fino a quando capii che voleva che io lo seguissi. Non ci pensai più di tanto e andai verso di lui. Correva forte, talmente tanto forte che per un attimo avevo perso le sue tracce e fu proprio in quell’attimo che sentii il rumore di una forte frenata di un’automobile e il lamento di un cane. Rimasi fermo impietrito per non so quanti secondi, poi corsi più in fretta che potevo verso i rumori che avevo appena sentito. Quando arrivai vidi l’autobus della scuola fermo, l’autista era sceso e si era avvicinato ad una sagoma che sembrava proprio quella del mio Rataplam. Non volevo crederci, ma era proprio così, il mio povero Rataplam era morto. Lo presi in spalla piangendo, non dissi niente, le mie parole erano bloccate dal dolore, lo portai più avanti dove c’era la casa

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dei nostri vicini e lo posai in terra sotto una tettoia. Mi fermai un po’ con lui, ancora non ci credevo, gli parlavo come se lui fosse ancora vivo, ma non mi rispondeva, non respirava. Ad un tratto sentii alle mie spalle dei lamenti di cucciolo, mi voltai e vidi che dentro a una cuccia c’era una cagnolina che aveva da poco partorito dei cuccioli. Uno di loro era come Rataplam, nero con dei pallini e con un cerchietto di pelo nero intorno all’occhio. Allora capii subito dove mi voleva portare e farmi capire che era diventato papà. Una lacrima scorre sul mio viso, poi la notte mi porta al sonno completo.

Federico Frau è un cinquantenne che si diletta a scrivere, qualche volta, dei racconti che riguardano soprattutto storie di animali e di natura. Cresciuto in famiglia con una mamma che proviene da generazioni di contadini, ha vissuto parte della sua infanzia in campagna con i nonni. Le loro storie, che riguardano le nostre tradizioni, sono rimaste nel suo cuore, trasmettendogli l’amore per la natura e per gli animali. Proprio da qui deriva il suo hobby di scrivere racconti.

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La Bassa reggiana di Elena di Giulia Gasparini

La Bassa reggiana è un luogo che Elena ha particolarmente a cuore, essendo nata esattamente lì. Novellara è la sede della vecchia dimora dei Gonzaga. Lei è sempre stata attratta dalla grande storia che vi si cela dietro. La Rocca, in particolare, è il monumento più significativo, i cui lavori iniziarono nel 1300 e si conclusero nel 1400. La dinastia dei Gonzaga ebbe inizio con Feltrino Gonzaga, il quale fu obbligato a cedere Reggio ai Visconti in cambio di Novellara e Bagnolo. Oggi nella Rocca vi è la sede del comune di Novellara, il museo degli stessi Gonzaga, la biblioteca e l’archivio storico. La storia di questi signori accomuna in parte quasi tutti i paesini della Bassa reggiana. Elena è una ragazza solitaria, ama rifugiarsi nei propri pensieri stando all’aria aperta, nelle grandi campagne di grano di Novellara. Da piccola si divertiva ad arrampicarsi sulle balle di fieno per poi cadere subito. Ogni qualvolta esce di casa e si isola in mezzo ai campi, si ricorda di tutti i momenti vissuti con suo nonno Ermete, le lunghe passeggiate in mezzo ai prati, ai grandi viali alberati, alle fattorie… poi per l’ora di pranzo si avviavano verso casa e la mano di Elena era talmente piccolina da tenere il mignolo del nonno… passeggiavano così per le strade del centro abitato. Una volta arrivati a casa c’era sempre la nonna ad aspettarli, con un piatto d’caplèt arsan1 che sono tipici della provincia di Reggio Emilia, ma la ricetta varia da famiglia a famiglia. La 1

di cappelletti reggiani

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regola principale dei cappelletti è il gustarli accompagnati con il brodo di cappone o annaffiati dal vino rosso. Gli ingredienti principali del ripieno consistono in una costata di manzo, che deve essere ben saporita, in un po’ di prosciutto a piacere e in carne di maiale con pane, formaggio e spezie come i chiodi di garofano. E poi sui cappelletti della nonna Orietta non poteva mai mancare un velo di Parmigiano Reggiano, che è uno dei formaggi più buoni in assoluto sul mercato. A Novellara c’è l’azienda Novelli, dove è prodotto con il latte delle vacche rosse con stagionatura fino a più di 30 mesi. Come secondo piatto Orietta aveva in serbo il suo scarpasotto, lo scarpasòt! È simile al classico erbazzone ma senza la pasta sfoglia. È una torta salata con spinaci, cipolla, aglio, pangrattato e Parmigiano Reggiano. Non poteva mancare il dolce, Elena non aspettava altro che questo momento… Orietta aveva preparato il suo Savurett, il sugo d’uva. Esso ha la consistenza di un budino e ha origine nel periodo della vendemmia. Capitavano alcuni giorni in cui venivano cucinati i piatti della tradizione antica. Elena amava ascoltare la storia e la vita dei suoi nonni, del periodo fra le due guerre mondiali e di come all’epoca si vivesse in una condizione di povertà. Dopo Orietta le cucinava qualche volta la panèda, che è una semplice zuppa di pane e acqua. Ermete e Orietta a pranzo bevevano sempre un’intera bottiglia di Lambrusco, che è un vino tipico della provincia di Reggio. Accompagnavano il Parmigiano Reggiano con l’aceto balsamico, anch’esso prodotto reggiano garantito. Trascorsi questi momenti pensierosi di isolamento, Elena andava spesso a fare un giro con il suo fidanzato Giorgio: facevano un giro per il centro storico del paese, da gelateria a gelateria. Si conoscevano da anni e anni, dai tempi dell’asilo; avevano sempre giocato insieme e pranzato insieme, son cresciuti praticamente insieme, l’uno a fianco dell’altro. La sera stessa decisero di rimanere fuori ma Elena doveva es-

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sere a casa per le ore 19,00 e invece stette tutta la sera con Giorgio senza avvisare nessuno e lasciando nella preoccupazione i nonni. Un altro giorno lei e lui andarono a mangiare in una locanda situata nel centro del piccolo paese. Il momento preferito da Elena arrivò in fretta, il dolce. Non aveva mai assaggiato una Spongata così buona, nemmeno quella di sua nonna era così! Si tratta di un dolce di Natale e il suo nome deriva da sponga ovvero spugna, a causa della superficie piena di piccoli buchini. Per la preparazione sono necessarie le noci delle colline emiliane, esse vengono aperte e si estrae il gheriglio il quale viene tritato, lavorato e impastato insieme al miele. Il passaggio successivo è l’aggiunta delle mandorle e dell’uvetta e si ricomincia con l’impasto aggiungendo alla fine altri pinoli. Conclusa la cena continuarono la loro passeggiata, quando ad un certo punto suonò il telefono del fidanzato. Lei cercò di sbirciare e di leggere il messaggio e quello che scoprì la fece rimanere a bocca aperta. L’sms era di una ragazza, Giada, la quale aveva scritto: “quando ti libererai di Elena vieni a casa mia senza farti scoprire dalla tua ragazza”. Elena scoppiò in lacrime e gli disse di non farsi più vedere; era un insieme di rabbia e sofferenza. Così scappò e tornò dai suoi nonni, i quali la accolsero caldamente. Si sentiva abbandonata, esclusa, perché Giorgio era l’unica persona con cui aveva avuto uno stretto rapporto e del resto non aveva più né amici né amiche. Solo nei giorni seguenti la brava Elena riesce a calmarsi stando, come al suo solito, in campagna e chiedendo incessantemente al nonno Ermete di fare insieme le solite camminate. Quello che desidera è staccare la spina dagli ultimi eventi sociali vissuti fuori dalla cerchia familiare e trascorrere la propria vita in mezzo al verde della Bassa. Giulia Gasparini, nata nel 2002, abita a Novellara (RE). Frequenta il 5° anno del Liceo Artistico.

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Fame, che sentiva le anime di Mauro Lasagna

Sono vecchio, ormai in pensione da parecchi anni, ma non a riposo, visto che aiuto mio figlio nello svolgere un mestiere che ho amato. Per quarant’anni ho fatto il casaro ma, credetemi, quando un lavoro ti piace, lo fai volentieri anche se non sei pagato. Devo necessariamente parlare di me per arrivare a raccontare ciò che ho visto e che purtroppo non ho mai potuto dire ad alcuno. Sono nato nel ’40, fortunatamente mio padre claudicava, perciò non è andato in guerra. Finita la terza media l’ha stroncato un infarto, allora mia madre ha venduto il bestiame, avevamo dieci vacche, e senza tanti preamboli mi ha detto di cercare un lavoro, la terra l’avremmo affittata. E io l’ho fatto: sono andato al caseificio dove conferivamo il latte, il casaro era Dualco. “Vuoi venire a lavorare qui? Bene domani mattina ti aspetto per le cinque, un giorno di riposo a settimana e per le ferie se ne parlerà più avanti, poi, Natale, Pasqua, Ferragosto. Non si sa se puoi fare festa, accetti?”. “Sì, Dualco”.

1960 Lavoravo con Dualco dal ’53, ormai non doveva più dirmi che cosa dovevo o non dovevo fare, ma lui continuava durante la lavorazione a ripetere la stessa lezione che ormai sapevo a memoria. Ogni passaggio, ogni parola di quella lezione, come la chiamava lui: “Imparare a memoria la lezione ti aiuterà a non perdere mai di vista l’obiettivo: fare un buon formaggio, la qualità, la qualità vuole il mercato, non la quantità!”. Dualco era un

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gran casaro, ce l’aveva nel sangue, lui la riteneva una specie di lezione ed era talmente bravo che gli altri casari venivano a scuola da lui nei momenti in cui avevano delle difficoltà. Non era una persona che la sapeva più lunga, era invece un uomo semplice, conscio delle difficoltà che si incontravano lavorando una materia viva e trasformandola in un prodotto altrettanto vivo quale era ed è il Parmigiano Reggiano. Verso il mezzogiorno di un lunedì mi chiama mentre sto prendendo la bicicletta per tornare a casa. “È venuto stamattina Negri, il mediatore, e mi ha detto che stanno cercando un casaro. Il caseificio è nuovo, la casa nuova, per quel che mi riguarda direi che sei pronto. Ti interessa la cosa?”. “Io pronto? E per far che cosa?”. “Per far il casaro, zuccone! O vuoi restare qui a sorbirti le mie filastrocche per il resto della vita?”. “Dualco, è difficile rispondere…”. “Di’ di sì, sei pronto!”. Il nuovo caseificio era meraviglioso: caldere da otto quintali, impianto del vapore ultimo modello, bacinelle per l’affioramento d’acciaio con getti dell’acqua sotto per il raffrescamento, zangola nuova rivestita d’acciaio, impianto per la produzione del ghiaccio direttamente sul luogo, un paradiso! “Ti piace?” mi ha chiesto un tizio. “Salve, sono il proprietario Dottor Belli” e mi ha stretto la mano con un sorriso. “Sono Carlo, mi ha mandato Dualco”. “Lo so chi ti ha mandato, è stato amico di mio padre per tutta la vita e se ti manda lui vuol dire che va bene. Vieni in ufficio a casa mia così parleremo”. L’ho seguito. “Mio padre è venuto a mancare alcuni anni fa, io stavo ancora studiando veterinaria e in assenza di guida tutti gli animali sono stati venduti. Durante gli studi ho potuto conoscere realtà che per me erano solo sogni e anche per mio padre lo erano. Ho visitato stalle con vacche che producono 50-60 quintali di latte all’anno: le Olandesi le chiamano. Le nostre razze come ben sai non ne fanno più di 15 e… quando va bene! Le razze Formentina, Bianca padana, Bruno alpina sono superate, ci vuole l’Olandese per far del latte. Per questo ho costruito il caseificio nuovo, cercato soci per formare una cooperativa e acquistato bestiame olandese, direttamente nel Nord Europa. Ho preso anche dei

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tori da riproduzione in stalle la cui produzione superava le altre. Ora, te la senti di prendere le redini di tutto questo? Sei di qualche anno più giovane di me, ma penso che tu abbia in mente di sposarti, farti una famiglia insomma, la casa è a tua disposizione. Sei spesato di luce elettrica e riscaldamento, che dici?”. “Per me va bene Dottore…”. “Sono Augusto per te…”. E mi ha nuovamente stretto la mano. “Ah, una cosa, avrai bisogno di un aiutante, immagino…”. “Credo di sì, anche se le comodità sono tante…”. “A questo proposito, avrei… una persona che ti potrebbe aiutare, è forte come un orso ma è un po’… sembra ritardato ma è speciale…” Forte doveva essere forte, ma il suo sguardo sembrava perso nel vuoto. Rispondeva alle domande in modo strano, sembrava quasi che non le avesse capite. Un enigma. Quando è incominciata la lavorazione vera e propria, poiché essendo stagione le vacche cominciavano a partorire in parecchie, come per abitudine ho cominciato a ripetere la lezione di Dualco. Allora ho visto una trasformazione in Fame (così lo chiamavano). Mi ascoltava con lo sguardo fisso su di me, gli occhi attenti e lucidi. “Ho capito” mi ha detto semplicemente. Ma quel che non avevo capito io era che aveva capito veramente ma non in modo meccanico, ci metteva l’anima a tal punto, e mi vergogno a dirlo, che era meglio di me. Allora mi sono chiesto: “Se era così bravo, perché non osare?”. Oltre alla solita lezione ho cominciato a parlare dei problemi che poteva dare il latte, specialmente quello che arrivava da fuori, cioè latte sporco, latte annacquato, latte con le medicine che causavano disastri non solo nel formaggio appena fatto, ma anche nel siero innesto che perdeva forza o efficacia. Ho parlato di medicine ma mi riferivo agli antibiotici. “Vedi, se il latte è sano si fa il formaggio buono, mentre se il prodotto di partenza è scadente per quanto ne fai verrà formaggio scadente. Capisco che se ci fosse la possibilità di separarli l’uno dall’altro ci sarebbero meno problemi. Facciamo un esempio, Fame, un bidone di latte è caldo, è stato al caldo, c’è sporcizia dentro come feci, paglia o altro. Se si sapesse prima, non verrebbe mischiato con

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quello buono, no? Si potrebbe invece passarlo direttamente nella scrematrice così come il latte con le medicine, ma purtroppo sono informazioni che non si possono sapere perché nessuno dice niente. Credono che il casaro usi la bacchetta magica per fare il suo lavoro ma tu sai che non è cosi. L’unica stalla di cui mi posso fidare è quella di Augusto, le altre no. Sarebbe troppo bello sapere cosa passa nella testa a quei contadini…”. “Io ti posso aiutare in questo, ma non mi chiedere come faccio perché non lo so e poi sono solo un operaio”. “Fame non ti chiedo come fai, ma davvero potresti saperlo?”. “Sì se vuoi, ma non voglio crearmi dei problemi con nessuno, voglio la pace io”. “Bè allora facciamo così: quando portano il latte mi fai dei piccoli cenni col capo e io capirò, dirò ad Augusto, il Presidente, di fare una riunione dei soci per informarli tutti”. Una settimana dopo il Presidente ha indetto un’assemblea, all’ordine del giorno c’erano: condizioni del latte conferito, frodi e sofisticazioni, stato di salute degli animali, risanamento tubercolosi bovina, segnalazione di aborti per rischio Brucellosi. La riunione si è tenuta in casa mia nella sala che fungeva anche da ufficio, ricordo ancora l’ultima parte del discorso. “Signori soci, siamo in un momento di cambiamento, tutti abbiamo acquistato la mungitrice e gli abbeveratoi individuali e produciamo di più ma dobbiamo adeguarci a questi cambiamenti, imparare ad usare le macchine, a mantenerle in ordine e non solo: gli animali che alleviamo sono diversi da quelli che avevamo da sempre nelle nostre stalle, sono più deboli e non ultimo ci sono malattie che arrivano da lontano e che dobbiamo tenere sotto controllo. Risanamento vuol dire eliminare i capi infetti da TBC e Brucellosi, se non andremo in questa direzione possiamo dire addio al nostro buon formaggio. L’Ispettorato Agrario organizza sempre degli incontri che arrivano anche nel nostro Paese, vi esorto a partecipare e se non capite qualcosa chiedete, non fate brutta figura, vengono apposta per rispondere ai vostri quesiti”. Fame, quando consegnavano il latte, era sempre lì, con un piccolo cenno del capo mi indicava in quale bacinella metterlo. Tenevo quello più a rischio

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separato e lo lavoravo a parte, se ce n’era poco da non poter fare una forma standard, lo mettevo nelle fascere piccole e si vendeva bene nel giro di due o tre mesi. Una sera Augusto è venuto da me dopo cena, avevo acquistato il mio primo televisore e stavo cercando di capire bene il suo funzionamento. “Ciao Carlo, disturbo?”. “Certo che no! Accomodati. Ci sono problemi?”. “Assolutamente no, anzi devo dire che il formaggio non presenta difetti precoci”. “Lo so, ma guarda che non è merito mio, è Fame che non solo mi aiuta ma… addirittura mi dice in quale latte separare. Quando dicevi che è speciale, cosa intendevi?”. “Suo padre era un nostro salariato che abitava in corte ma non aveva voglia di lavorare. Una volta preso moglie, si è arruolato ed è andato in Spagna volontario. Eravamo nel ’35. Valentina, sua moglie, era incinta e mio padre non se l’è sentita di mandarla via. Di locali ce n’erano fin troppi. Mia madre aspettava me e siamo nati con due giorni di differenza. Prima è nato Fame, che si chiama Vittorio, e poi io, ma mia madre è morta nel darmi alla luce. Mio padre allora ha chiamato in casa Valentina perché nutrisse e facesse da madre anche a me. Era una donna buona, paziente, severa, ma non si arrabbiava mai. Restarono nella casa grande anche dopo l’allattamento, basti pensare che Fame abita ancora con me, ma fin da piccolo aveva atteggiamenti strani. Non ha parlato fino a cinque anni e la prima parola che ha pronunciato è appunto fame. Piangeva però, specialmente quando in casa capitavano certi tipi, si tappava le orecchie e si andava a nascondere poi in granaio. Mio padre che non era uno stupido e aveva buona memoria aveva collegato le due cose: se piangeva erano persone o cattive o false oppure che potevano in qualche modo nuocere alla famiglia e ha sfruttato questa cosa negli anni con successo. A sei anni sono stato mandato a scuola in collegio, lui invece in paese. C’è andato solo un giorno e poi i maestri hanno detto che non era normale e che forse sarebbe stato meglio rinchiuderlo in qualche manicomio. Allora Valentina ha risposto loro che è meglio un ignorante buono che persone istruite e cattive. Io tornavo a casa solo per Natale e un mese d’estate.

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Il resto delle vacanze lo trascorrevo dalla zia Matilde, superiora del Sacro Ordine della Madonna, in montagna, sulle colline del Monte Baldo. Quando avevo più o meno 8 anni, ho chiesto a Fame perché piangesse e si comportasse così: “Sento delle voci nella mia testa, se sono parole buone io non piango, ma se sono cattive sì”. “E quand’è che ti succede, sempre?”. “No, solo quando si avvicina gente che non conosco ed è cattiva, a me parlano anche le case, sai? Sento se una casa è buona o se ha visto la gente soffrire. Anche le case mi parlano!”. “Io sono buono?” gli ho chiesto. “Sì, anche il tuo papà e la mia mamma”. “Allora mio padre ha pensato di lasciarli soli Fame e sua madre a fare le faccende di casa, ma anche il pane, il bucato e tutto il resto. Lui cresceva, era pulito, educato e aveva sempre fame ed è diventato quel che vedi, grosso e forte come un bue. Ma ora devo dirti il vero motivo per cui sono venuto a quest’ora a casa tua. Carlo, mi sposo tra un mese e c’è il problema di Fame, non è conveniente che abiti ancora in casa mia quando arriverà Felicita, quella che sarà mia moglie. Pensavo, visto che abiti da solo, se lo puoi ospitare”. Aveva ragione Augusto, si era rivelato un coinquilino discreto, si ritirava presto la sera, parlava poco e sembrava sempre assente ma arrivava dove volevo arrivare io, quasi mi leggesse nel pensiero ma forse era solo suggestione. Fame era analfabeta, per caso un pomeriggio la tv era accesa su quella trasmissione Non è mai troppo tardi che conduceva Alberto Manzi. Fame guardava il televisore nel modo che conoscevo, fisso, gli occhi aperti e non batteva ciglio. D’un tratto il maestro si è fermato, ha guardato la telecamera e ha esclamato: “Signore e Signori, qualcuno di voi si è introdotto nella mia testa e sta cercando di imparare velocemente quello che a tutti è dato da imparare in anni di studio. Invito quella persona di smettere o altrimenti io domani mattina mi sveglierò con un gran mal di testa. Conosco queste cose, ho lavorato in Africa parecchi anni e ne sono stato già vittima. Grazie, dunque continuiamo la lezione”. Io guardavo Fame che si è riscosso, poi ha preso una matita e ha scritto sul calendario appeso al muro: Io sono Vittorio detto

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Fame continuando poi a seguire la trasmissione. Dal giorno dopo faceva i conti del latte meglio di me, annotando diligentemente il peso sui libretti dei conferenti. Quando l’ho detto ad Augusto si è messo a ridere. “Carlo immagina quello che posso fare io che ho fatto anche l’università, abbiamo preso lo stesso latte!”. E continuava a ridere. Erano passati tre anni da quel giorno, le partite di formaggio venivano vendute bene con il 95% di scelto marchiato. Un miracolo! Quando si pensa che gli altri caseifici a malapena arrivavano al 60%. Quell’estate avevo conosciuto una ragazza, Angela, e la frequentavo. Avevo anche un’automobile nuova, una Giulietta dell’Alfa Romeo, e ne ero contento. Fame restava indifferente alla mia euforia ma una sera, mentre mi sto vestendo per andare da Angela, lo trovo elegante, ben pettinato, con le scarpe lucide. “Adesso dove vai? Se posso permettermi di chiedertelo Fame”. “Vado a cercarmi una donna, si fa cosi, no?”. “Ma dove vai di preciso per cercare una donna?”. “Ma a ballare, come fanno tutti!”. “Ma sei capace di ballare?”. “No, ma imparo in fretta”. “A questo ci credo, con cosa vai se non hai neanche una bicicletta?”. “Mi porti tu in paese, stasera è sabato, ballano!”. “Come vuoi!”. Io sono tornato tardi, lui era già a letto tranquillo. Al mattino era in piedi prima di me, stava già cominciando a vuotare le bacinelle in caldera. Come lo vede: “Carlo mi sposo!”. “E con chi?”. “Con una o con l’altra”. Ho allargato le braccia, non capivo. “Scusa Fame, ne parleremo dopo il lavoro, ti va?”. “Sì”. Sgattaiolo da Augusto, gliene parlo. “Vengo anche io”, ha detto serio. Stava preparando il pranzo, la pasta col pomodoro. “Ciao Fame, cosa mi ha detto un uccellino, che ti sposi?” gli ha chiesto con garbo Augusto. “Sì Augusto, mi sposo”. “Ma con chi?” era allarmato. “Con la madre o con la figlia, loro hanno bisogno di me”. “Chi ha bisogno di te?!”. “Le bambine”. “Quali bambine, di chi?”. “Non lo so, ma hanno bisogno di me, domani andiamo a far richiesta in chiesa”. Siamo restati a bocca aperta tutti e due increduli. “Bravo Fame, complimenti! Vieni Carlo, dobbiamo andare, il mediatore ci sta aspettando”. Una volta in macchina gli ho chiesto: “Dove andiamo Augusto?”.

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“Dal prete”. Don Angelo ci ha ricevuti nel suo studio: “Allora ragazzi, di cosa volevate parlarmi?”. Ha parlato Augusto: “Don Angelo, deve sapere che…”. Il sacerdote ha sospirato: “Quando ero in seminario, ero curioso, studiavo diligentemente ma avevo un’attrattiva particolare per la parte meno nota della nostra Dottrina. Un mio insegnante se n’è accorto e ha incominciato segretamente ad avviarmi in quella direzione. Fenomeni che la scienza non spiega o spiega in modo errato sono noti alla Chiesa. L’eterna lotta tra il Bene e il Male, tra il reale e lo spiritico, le Anime... In questo senso ero molto promettente, facevo progressi, capivo. Poi quando sono arrivato ad un certo punto il mio mentore mi ha detto: “Arrivati qui, puoi fermarti o proseguire, ma sappi che continuare significa darti al Male. Mi spiego, non puoi combattere il Male se non lo conosci o se non ne fai parte. Sei pronto a prendere una decisione che potrebbe in qualche modo, sempre in peggio, cambiarti la vita?”. Gli ho risposto che io volevo farmi prete per vocazione e perché volevo il bene delle persone, non il loro male per cui mi sarei fermato. Ma qualcosa sapevo e, quando da curato in questo paese ho visto Vittorio il primo giorno e l’ultimo di scuola, ho capito: sente le anime, le loro voci dentro la sua testa come potrebbe anche sentire i luoghi o meglio, ciò che le anime che sono vissute nei corpi dei vivi hanno lasciato, gioie ma soprattutto sofferenze. Di solito chi presenta questa sindrome impazzisce arrivando anche al suicidio o viene internato nei manicomi. Vittorio, se è vero ciò che mi dite, deve avere una forza interiore incredibile per non cedere. Il mio consiglio è… e badate bene che so quel che dico, lasciarlo fare, tanto lo farebbe comunque visto che niente e nessuno potrebbe fermarlo. Possiamo solo accompagnarlo nel suo intento e voi due che gli siete vicini consigliarlo, di voi si fida”. Il tempo necessario per le pubblicazioni e Fame si è sposato con la figlia di Dora, Doranna. Erano entrambe incinte dello stesso uomo. Sono state mandate dalla zia di Augusto, la Superiora sul Baldo, ad aiutare le reverende madri, così da permettere loro di avere

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una gravidanza lontana dal luogo dove avrebbero abitato con Fame a B. in una casa di proprietà di Augusto e da quel momento Fame non avrebbe più lavorato con me. Le bambine sono nate ad un giorno di distanza l’una dall’altra e sono state registrate all’anagrafe come gemelle di Vittorio e Doranna. Quando ci siamo salutati Fame era tranquillo, andava verso una nuova vita, solo, senza mezzi e senza un lavoro. A sistemarlo in modo discreto ci hanno pensato Augusto e il parroco edotto da Don Angelo. Le notizie, quando ne aveva, me le riportava Augusto. Fame aiutava il mugnaio, l’idraulico, il perforatore di pozzi per la maggiore, ma si adattava a qualsiasi lavoro per umile o pesante che fosse. Aveva un pollaio, l’orto e Dora si era trovata un lavoro in una piccola maglieria vicino a casa. Le bambine erano cresciute ma all’età di sei anni le madri si sono ammalate dello stesso male incurabile. Ospedale e terapie non hanno potuto far nulla, una dopo l’altra se ne sono andate assistite fino all’ultimo da Fame che si prodigava per loro, alleviando come poteva le sofferenze. Augusto e io andavamo a trovarli dopo la scomparsa delle donne e devo riconoscere che le bimbe erano accudite e seguite in modo esemplare da Fame, Eva e Sonia ci chiamavano zii, capivano che volevamo bene al papà e ce ne volevano anche loro. E gli anni passavano, il piccolo caseificio è stato chiuso per ovvi motivi economici nel ’70 e ho trovato lavoro sempre nello stesso comune presso una grande Cooperativa di caseificazione, dove abito ancora. Quando le figlie di Fame si sono diplomate abbiamo pensato di fare loro una sorpresa: ci siamo presentati a B. con una macchina nuova fiammante, regalo per la loro promozione. Fame piangeva e ci abbracciava, non smetteva più di ringraziarci. Pure Eva e Sonia erano commosse. Erano state le più brave del corso e non hanno tardato molto a trovare impiego: Sonia in una banca ed Eva in una azienda che produceva attrezzature per l’agricoltura. Finalmente Fame poteva rallentare e concedersi un po di riposo, solo piccoli lavori e la pesca, attività della quale si era scoperto particolarmente appagato, forse perché lontano da tutti poteva restare solo con i suoi pensieri

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e non con quelli degli altri. Forse. La notizia mi ha sconvolto e anche Augusto lo era quando mi ha chiamato al telefono. Fame era morto, annegato! Siamo andati subito dal parroco del paese. “Sì, Vittorio è morto annegato, ma quello che non sapete e so solo io è che… era a pescare lontano, all’ombra dei sambuchi. Una ragazza di Carpi ha scelto per farla finita un luogo solitario a 200 metri di distanza da Vittorio. Decisa ad annegarsi, si è buttata con la testa raccolta tra le mani, voleva morire, quando ha sentito nella sua testa una voce: “Non farlo, non farlo! La vita è bella, arrivo, resisti!”. D’un tratto si è sentita sollevare di peso e scagliata sulla riva. Vittorio è rimasto impantanato con le scarpe. La ragazza impaurita ha preso la macchina ed è fuggita. È venuta da me. Non può tornare a casa, l’ho tenuta in canonica fino a sera, poi l’ho sistemata da una vicina che ha perso da poco un figlio e che vive sola”. Aveva le lacrime agli occhi. Le prime sue parole all’omelia della funzione funebre sono state: “È venuto a mancare un angelo…”. Io e Augusto ci siamo guardati e abbiamo pensato entrambi la stessa cosa: “E se fosse vero?”. Uno per parte eravamo vicino alle ragazze, eravamo gli unici della famiglia. Finito tutto siamo andati a casa con Eva e Sonia, avevano gli occhi arrossati, non c’era molta gente al funerale, Vittorio era stato accettato ma non si era fatto molti amici. “Facciamo un caffè”, ho chiesto per superare il momento di imbarazzo appena giunti in casa. “Sì volentieri, lo faccio io. Sonia vai a prendere le lettere che il papà scriveva a loro due e non ha mai spedito? Diceva che era un modo per sentirvi vicini”. Hanno suonato alla porta. Sono andato io ad aprire, era una ragazza. Aveva pianto, aveva ancora il fazzoletto in mano. “Scusate, disturbo?”. “Certo che no, prego!”. E la accompagno in cucina. “Sono Maria, io volevo… lui mi ha salvata…” e piangeva. Eva e Sonia, che non ne sapevano nulla, sono rimaste zitte poi Sonia ha chiesto: “Scusa Maria, chi sei? Chi ti ha salvata, da cosa? Noi non ti abbiamo mai vista?”. “Io volevo… farla finita, la vita mi era diventata impossibile, sono incinta e mio padre mi ha cacciata da casa, il mio ragazzo mi ha lasciata appena lo ha saputo. Ho perso anche

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il lavoro, da sola non ce la faccio, l’unica soluzione mi sembrava quella… poi, mentre mi buttavo, ho sentito quella voce che mi diceva di non farlo, che la vita è bella che arrivava, ma la voce era dentro la mia testa, lì non c’era nessuno! Ero già sotto decisa a morire che qualcuno mi ha preso e mi ha buttata sulla riva, era lui, vostro padre! Mi ha salvata, sapete? Come facesse a farsi sentire da me non lo so, ma mi urlava nella testa!”. E ha cominciato nuovamente a piangere. Le sorelle l’hanno abbracciata. “Scusate, Eva e Sonia, ora vi spieghiamo chi era veramente Vittorio, parlo io perché siamo nati si può dire assieme e ci siamo nutriti dello stesso latte. La mia vera madre era morta nel darmi alla luce…”. E ha spiegato piano misurando le parole ma non ha detto nulla riguardo la loro paternità. Dopo un silenzio un po’ lungo, Eva ha detto: “Papà era un angelo… Maria, se non sai dove andare, la nostra porta è aperta, saresti la benvenuta, così ci ha insegnato nostro padre”. Fame era una persona semplice, buona, ha fatto del bene e ha lasciato il Bene.

Mauro Lasagna, nato a San Benedetto Po (MN) nel 1958, nella casa dove tuttora abita. Già nel periodo scolastico ha cominciato a leggere, da sempre la sua passione. Le sue letture sono cambiate col procedere dell’età e degli studi. Si è diplomato all’Istituto Tecnico Agrario di Palidano (MN) e ha sempre lavorato nell’azienda famigliare che produce latte per il Parmigiano Reggiano. Non ha mai abbandonato la passione per la scrittura. Scrive esclusivamente a mano, con la radio accesa.

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Ciao nonno Umberto di Osvaldo Marastoni

Anno di nascita 1956, mese maggio, giorno 3. Il nome Osvaldo lo estorse nonno Umberto alla mamma. Lei diceva sempre: “come potevo dire di no al nonno? Era troppo buono e dirgli no era impossibile”. Nel 1956 una gelata tardiva, a maggio per l’appunto, compromette il raccolto dell’uva, sarà un caso che sono nato proprio io? Mamma Lidia ha avuto un travaglio di 72 ore… Luogo di nascita Cà de Frati, località di Rio Saliceto, provincia di Reggio Emilia, nella bassa Pianura Padana, in via San Pietro numero 9, una vecchia casa colonica; i miei genitori Teobaldo e Lidia erano contadini mezzadri, vivevamo insieme alla nonna Pierina e al mitico nonno Umberto. Un fisico asciutto, alto 1,85, piuttosto alto per l’epoca, camminava sempre scalzo, era completamente calvo, ma soprattutto aveva uno sguardo sereno con un lieve sorriso in viso. Uomo molto fortunato! Era del 1889 quindi ha fatto tutte due le guerre, la Prima in trincea sul Monte Grappa, la Seconda nelle retrovie (per l’età avanzata). Ma, tra una guerra e l’altra, non poteva rimanere lì a girarsi le dita. Si è comprato un piccolo podere e si è costruito da solo la casa. Ma nel 1929 è arrivata la quota novanta e il podere e la casa se li è portati via la banca. Così nonno Umberto, senza mai perdere il sorriso e l’ottimismo, è dovuto andare a fare il mezzadro, c’era però un problema: cinque figlie, tutte femmine (due figli maschi erano morti piccoli e mio papà è nato più tardi nel 1931) e le femmine nei campi non erano braccia buone, servivano i maschi. Nonno Umberto, pieno di risorse e con il suo bel sorriso stampato in

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viso, prese le sue amate figliole e le rapò (a dire il vero nonna Pierina raccontava a mia mamma che mentre le tosava piangeva più lui delle sue figliole). Nonna Pierina, donna austera e un tantino autoritaria, preparò gli abitini da bimbo ed ecco la perfetta famiglia mezzadra! Cinque figli maschi, un papà forte e una vera sdora emiliana che può mandare avanti la famiglia. Poi la Seconda Guerra Mondiale, la fame, gli stenti, i bombardamenti, la fine della guerra, il ritorno ad un minimo di serenità e benessere, infine il mio arrivo! Il cognome Marastoni aveva garantita una continuità. Poi dicono che nonno Umberto non era fortunato… Mamma Lidia era orgogliosissima perché con i miei capelli riusciva a farmi non una, non due, ma tre banane. Praticamente sembravo una bimba… In quegli anni un bambino con la banana in testa era probabilmente uno status symbol, mah!? Giugno 1958, la via San Pietro non era soltanto la via dove abitava la mia famiglia, ma ci abitavano anche i genitori di mamma Lidia e i suoi fratelli, praticamente i miei zii. Erano cinque e avevano una differenza di età rispetto a me che andava dai cinque ai quindici anni. Naturalmente io volevo andare continuamente da loro, ma non sempre mi veniva accordato il permesso, io però dovevo assolutamente andare, nonna Pierina controllava lo stradello, che era l’unica via di uscita/ingresso a casa nostra e io pensai bene di saltare il fosso! Grande ideona… Finii nell’acqua e melma, praticamente ero spacciato, stavo annegando, erano le due e mezza del pomeriggio e a quell’ora i contadini fanno la pennichella, ma di lì passava una ragazza (quando si dice che non è l’ora) in bicicletta, aveva 19 anni, si chiamava Vilda; sbattevo le braccia e lei sentì: “ma che confusione queste anatre”, buttò l’occhio, mi vide, mi tirò su di peso, cominciò a gridare e a piangere, arrivarono subito il papà, la mamma e i nonni. Io non ricordo quasi niente di tutto questo (a due anni si ricorda poco), ricordo solo che piangevo, vomitavo e mamma e papà mi asciugavano con due asciugamani… strano, due asciugama-

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ni, che lusso per l’epoca. La casa dove abitavo era vecchia come tante allora, aveva degli infissi inesistenti, e d’inverno faceva un freddo atroce; la camera da letto era gelida, ma la mamma metteva il prete a letto con la padellina delle braci e quando arrivava il momento di andare a dormire era una vera e propria libidine! Com’era calda quella cuccia: sì perché c’era il materasso di piume, fatto con le piume delle galline e delle anatre che sfamavano tutta la famiglia; quando ti buttavi nel lettone ci veniva subito la cuccia e dormivi tutta la notte come un pascià. Il maiale si allevava in ogni famiglia, perché era lo spazzino di casa; non che ci fosse tanto cibo avanzato anzi! Ma le bucce delle mele, gli scarti della verdura, la frutta bacata e caduta dagli alberi… Insomma non si buttava niente! Poi forniva la dispensa di strutto per le fritture, l’olio per friggere non si usava proprio! Naturalmente poi, tutti i salumi e gli insaccati per un intero anno. Così a gennaio arrivava il norcino, al masador, e si macellava. Il giorno seguente si lavoravano le carni, si rifilavano i prosciutti, si smontavano le coppe, le pancette, si preparava prima il trito, poi il pesto per i salami, i cotechini, ecc. Si preparava il paiolo e si cominciavano a cuocere i ciccioli. Nonno Umberto era addetto alla cottura dei ciccioli, dosava sapientemente la legna per mantenere sempre il fuoco costante e quando diventavano belli dorati, allora si toglievano e si torchiavano. Un profumo ineguagliabile! In casa intanto si imbudellavano i salami, i cotechini e le salsicce; queste ultime erano veramente di mio interesse… Nevicava tanto, quattro anche cinque volte in un inverno e per me era una vera e propria festa! Soprattutto perché potevo uscire a fare le palle di neve con nonno Umberto; lui si raggomitolava i pantaloni fino al ginocchio, la camicia fino ai gomiti e usciva con me a piedi scalzi! Io gli chiedevo di imitarlo ma

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lui imperterrito: “Osvaldo, non si fanno queste cose”. Io dopo mezz’ora tornavo in casa tutto infreddolito, mentre nonno Umberto rimaneva fuori a spalare la neve scalzo! La pulizia della strada si faceva con la Trola, praticamente era una V trainata dal Landini a testa calda, era una slitta in legno larga come la stradina, 5/6 metri, e alta circa 60/70 centimetri. Partiva dalla fine o dall’inizio (immaginatela in piena libertà) della via e iniziava il suo percorso; al passaggio di ogni casa, ci si fermava, si beveva, si mangiava e almeno un componente della famiglia saliva sulla Trola. Ricordo ancora l’agitazione in casa: nonna Pierina e mamma Lidia intente a preparare il gnocco fritto; nonno Umberto tutto soddisfatto, guardava fuori dalla finestra aspettando l’arrivo dei giovani della via, naturalmente c’era anche papà Baldo (diminutivo di Teobaldo) sulla Trola e, quando arrivavano, si fermava il trattore in strada, entravano tutti, si mangiava qualche pezzo di gnocco fritto con il salame o la pancetta o quel che c’era, si beveva un bicchiere di Lambrusco e si proseguiva: praticamente alla fine della via erano tutti mezzi ubriachi ma contenti! Per la cronaca la strada era sgombra dalla neve a costo zero per la comunità. Poi arrivava la primavera, a Pasqua si andava a messa con gli zii. Per la cronaca, in casa mia si era comunisti (soprattutto Baldo e nonna Pierina), nonno Umberto ne aveva viste troppe per esaltarsi in un senso o in un alto; invece i nonni materni erano democristiani. I comunisti all’epoca non andavano in chiesa. Dovevano essere integerrimi. Però ti dovevi battezzare, cresimare e fare la prima Comunione e poche balle. A messa, come tutti i bimbi, mi annoiavo un po’, ma all’uscita c’era il centro commerciale, praticamente era un negozio di generi alimentari, con annessa ferramenta, bottega del barbiere, bar e trattoria. Finita la messa si entrava in bar e c’era il premio! Il cioccolatino della Ferrero con le arachidi tritate e sull’incarto la figurina con ritratto un calciatore, poi tutti a casa. C’erano i parenti da abbracciare e poi c’era un succulento pranzo pre-

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parato da mamma Lidia e da nonna Pierina, una vera libidine! Di quei pranzi, il ricordo più bello che ho è il viso soddisfatto di nonno Umberto. Si sedeva a capotavola, mangiava con appetito ma senza esagerare mai, poi si allungava leggermente sulla sedia, si metteva le mani dietro la nuca e ci guardava soddisfatto, con quel sorriso appena accennato: eravamo tutto ciò che aveva costruito nella sua vita, Tutto ciò che era riuscito a salvare dai primi disastrosi cinquant’anni del Novecento. In primavera e in estate a casa nostra si stava davvero bene. Avevamo un orto coltivato amorevolmente da nonna Pierina, dove cresceva ogni tipo di prelibatezza, c’era un giardino con piante da frutto di ogni tipo, ciliege, prugne, pere, mele, fichi e chi più ne ha più ne metta. C’era il pollaio: nonno Umberto ogni pomeriggio mi prendeva per mano e andavamo a levare le uova nel nido, prendeva un uovo ancora caldo, tirava fuori il fazzoletto dalla tasca, dopo un giorno di lavoro e sudore disinfettava un dente del forcone, praticava due forellini nel guscio dell’uovo ancora caldo e me lo dava da bere, una delizia! A fine giugno, arrivava la mietilega, si mieteva il grano e si facevano i covoni. Poi papà Baldo e nonno Umberto li caricavano sul carro e li portavano nell’aia di casa. Venivano scaricati covone per covone e posizionati a formare un grande cubo con le spighe verso l’esterno, per favorire l’ulteriore essiccazione dei chicchi. Dopo qualche giorno arrivava la trebbia. Era enorme! Ovviamente trainata dal trattore Landini, al seguito c’era l’imballatrice per la paglia e lì entravamo in campo noi bambini. Le balle di paglia erano legate da due fil di ferro; all’estremità del filo si realizzava un occhiolo utilizzando un piccolo marchingegno dotato di una manovella, un lavoretto leggero che stranamente attirava noi bimbi e che ci faceva sentire parte di una grande equipe di lavoro. Come consuetudine mamma Lidia e nonna Pierina preparavano un buonissimo e abbondante pranzo per tutti e io, quando scoccava l’ora, mi sedevo con i macchinisti. Quando si dice sentirsi uomini! La stalla era il centro della casa, forse anche di più della cucina:

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avevamo sette vacche da latte, una più bella dell’altra. Nonno Umberto le accudiva amorevolmente, parlava loro, le accarezzava, le spazzolava e loro sembrava rispondessero a ciò che lui diceva. Ogni animale aveva il suo nome, c’era la Margherita, la Moretta, la Caròla, la Tosca, ma il latte della famiglia lo dava la Canlesa. Ho sempre fantasticato sull’origine di quel nome (pensavo al Canada), poi un bel giorno qualcuno mi ha detto: “guarda che si chiamava così perché proveniva da Canolo” una località a cinque chilometri da casa nostra. Nella stalla, in inverno, ci si intratteneva a chiacchierare con i vicini, si riparavano o costruivano le cassette in legno per l’uva, si sistemavano gli attrezzi agricoli, si sfruttava il calore emanato dalle vacche per fare tutti i lavori di manutenzione dell’azienda agricola, ma anche per socializzare con i vicini o gli amici che passavano a trovarti. La mamma era alta e, come si dice dalle nostre parti, ben messa ma ad un certo punto ha cominciato ad ingrossarsi il pancione, finché un bel giorno mi alzo e non vedo né lei né papà. Dopo qualche giorno arrivano entrambi: il papà aveva in mano una cesta, dentro c’era un bimbo! Quel tipo lì era Daniele, il mio fratellino. Devo dire che agli inizi non mi era troppo simpatico, ma con l’andare del tempo, prima ci siamo sopportati poi… La vita è lunga… I mezzi motorizzati presenti in casa erano: - Un ciclomotore Bianchi modello Bianchino (il concorrente del più famoso Mosquito): lo usava nonno Umberto per andare in paese la domenica. - Una motocicletta Benelli 125 modello Leoncino: era di papà Baldo, per l’epoca una bella motocicletta. - Una motofalciatrice Bertolini con motore Co.Ti.Emme 7HP che oltre allo sfalcio dell’erba serviva da mezzo di traino per i carri agricoli. In casa non c’era la televisione, quella strana scatola, con un signore tutto impettito che parlava e tante persone che lo ascoltavano, l’avevo già vista alla casleina, la casa del popolo, dove si

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andava qualche volta con papà. Un bel giorno la televisione la portarono anche a casa nostra, che meraviglia! Da allora la nostra vita cambiò radicalmente, c’era la Tivù dei Ragazzi al pomeriggio e c’era il Carosello la sera dopo il Telegiornale, poi però tutti a nanna! Tutta la mia infanzia l’ho vissuta a casa con i nonni, i miei genitori e i miei zii, qualche mese ho anche frequentato l’asilo parrocchiale di Cà de Frati, ma probabilmente in famiglia non si poteva sostenere il costo e a casa c’era sempre qualcuno che ti accudiva. In quel periodo i bimbi parlavano il dialetto, ma mio padre obbligava tutti a parlarmi in italiano (lo ringrazierò sempre per questo). La cura, però, non sempre portava i frutti attesi. Un pomeriggio d’estate arrivò un temporale, il vento, i lampi, quando cominciò a piovere, mia nonna Pierina mi chiamò: “vieni dentro che c’è il torone!”1 Il tempo passa e un bel mattino mamma Lidia mi infila una vestina nera, un colletto bianco e un bel fiocco azzurro e insieme a lei andiamo a scuola. Un attimo prima di uscire di casa, entra il nonno con un bel mestolo pieno di latte della Canlesa, mi guarda e con gli occhi lucidi di contentezza: “come sei bello. - Per i nonni i nipoti sono tutti belli… - Studia Osvaldo, studia perché il mondo è delle persone istruite”. Purtroppo ancora oggi rimpiango di non averlo ascoltato abbastanza. Per uno come me, che non mi ero quasi mai mosso da casa, la scuola è stato un bel trauma ma poi ti abitui presto a stare con gli altri. Pian piano abbiamo iniziato a socializzare. La maestra era una ragazza giovane ma molto comprensiva e buona, eravamo due classi unite perché a Cà de Frati gli alunni erano pochi, così Prima e Seconda la frequentavamo tutti insieme. La scuola vista dagli occhi di un bimbo era gigantesca. Le aule erano alte, le finestre enormi, gli infissi tenevano poco, la legna era contingentata, così verso metà mattina si rimaneva al fred1

troun, il tuono!

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do, ma la nostra giovane e sveglia maestrina ci mandava con una cassetta a rubare la legna nel seminterrato della scuola, la stufona riprendeva vigore e si stava tutti al caldo con grande soddisfazione di tutta la classe (si notava già allora l’attenzione dei politici per la scuola pubblica). Alla fine del primo anno di scuola e all’inizio del secondo, a San Martino (11 novembre) la nostra famiglia trasloca, ce ne andiamo… E comincia un’altra storia.

Osvaldo Marastoni, nato a Rio Saliceto (RE) nel 1956, malauguratamente ha studiato pochissimo! La passione della sua vita è vendere. Naturalmente non poteva che fare l’Agente di Commercio. Ama molto scrivere, ma ha poco tempo per farlo. Questo è il suo primo racconto e lo dedica ai suoi figli e ai suoi nipoti.

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Due genitori dimenticati di Franco Tagliati

Albeggiava. La campagna si ridestava mentre fuggivano le ultime ombre tra perle di rugiada e i profumi e i colori, ancora opachi, iniziavano ad impadronirsi del giorno nascente. Arturo si destò ansimando e, pur percependo il bisogno di socchiudere gli occhi, accese la luce sul comodino e gettò un’occhiata alla sveglia. Erano le 6,30. Si voltò verso sua moglie che giaceva accanto a lui e la chiamò, ma Rosa rimase immobile. Arturo tentò delicatamente di scuoterla, le prese la mano, ma si accorse che era gelida. Rosa se n’era andata, discretamente la morte l’aveva chiamata lasciando su quel volto pallido e freddo un’espressione di grande serenità. Arturo rimase sconvolto, si precipitò tremante e confuso al piano di sotto con il viso inondato di lacrime e una morsa che attanagliava il cuore, afferrò la cornetta del telefono con la disperazione che gli bloccava la gola, ma l’apparecchio non dava alcun segnale. Si rammentò che era guasto da una settimana. Tremando afferrò il cellulare provando più volte a contattare i suoi figli, ma riuscì soltanto a lasciare loro un messaggio, poche parole che neanche lui seppe mai dire, come fosse riuscito a scrivere, data la scarsa dimestichezza che aveva sempre avuto con la nuova tecnologia: “Sono papà, la mamma è morta”. Salì da Rosa. La stanza gli parve improvvisamente estranea. Aprì gli scuri, socchiuse i vetri e cadde accanto a Rosa, ancora avvolta nella sua camicia da notte, e con le mani si coprì il volto senza riuscire a trattenere il pianto. Non seppe quanto tempo rimase immerso in quel dolore, ma si accorse che era ancora in pigiama, allora si alzò, si infilò i

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pantaloni e una camicia e, indossate le scarpe, decise di andare in paese per cercare di chiamare il medico. Uscì precipitosamente senza neanche chiudere la porta ma, mentre si affrettava, gli venne in mente che era domenica: si sentì disperato al pensiero che forse in paese non avrebbe trovato aiuto. Il paese distava tre chilometri, ma la strada ghiaiata sembrava scorrere veloce sotto i suoi passi. Intorno il silenzio, che avvolgeva i campi di granoturco e i filari di vite, gli parve straziante come le mille domande che gli assillavano la mente e d’un tratto si sentì perdutamente solo con l’amara sensazione che cinquant’anni di vita insieme a Rosa fossero volati come polvere. Quell’amore, che li aveva visti sempre uniti e da cui nacquero due figli, era finito. I figli se n’erano andati. Da oltre quindici anni. Uno in Australia, l’altro in Brasile. Il tempo era volato e senza che nessuno dei due fosse mai tornato una volta. Ambedue avevano sposato donne di quei paesi. Pietro, il primogenito, aveva avuto due maschietti, mentre Mario aveva avuto un maschietto e una femminuccia. Nipoti mai conosciuti, se non dalle rare foto e da notizie spedite con sommarie lettere e veloci telefonate. Così sovrappensiero non s’era accorto d’essere entrato nella piazza del paese. Sconvolto, si fermò confuso e sudato e, voltandosi, rimase immobile con lo sguardo che si spingeva verso la sagoma in controluce della sua casa, agli alti pioppi che circondavano il suo podere. Per un attimo gli sembrò lontana. A quell’ora Rosa avrebbe rifatto il letto, ordinato nell’armadio la biancheria stirata la sera prima, spolverato, riassettando la casa prima di prendersi cura del pollaio, del cane e dei gatti, a cui era affezionata, per poi dar da mangiare ai suoi colombi e tortore di cui andava fiera. Ora era soltanto una sagoma scura che si perdeva nella campagna assolata di un disperato mattino. Dall’interno del suo locale, il barista lo osservò a lungo sostare nel bel mezzo della piazza, barcollando con aria confusa e non ci mise molto a capire che qualcosa non andava. Uscì preoccupato e andò incontro all’anziano amico. “Che succede Arturo, amico mio?”

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“Mia moglie è morta. - rispose il pover’uomo con un filo di voce - Devo fare una telefonata al dottore perché il mio telefono non funziona da giorni”. Il barista fu colpito dalla notizia, afferrò l’amico sottobraccio per sostenerlo e lo fece entrare nel suo bar. Lo fece sedere offrendogli da bere. Arturo ingoiò il liquore in un solo colpo come un automa, cercò dei gettoni ed entrò nella cabina telefonica, ma per quanto riprovasse nessuno rispose al numero. “Devi avere pazienza, amico mio, oggi è domenica, può darsi che ci sia la segreteria telefonica”. Fu così infatti e all’ennesimo tentativo Arturo fu in grado di lasciare il suo triste messaggio, pagò i gettoni e salutò l’amico che, barcollando, lo vide uscire dal locale nonostante tentasse di trattenerlo. Mosse passi incerti lungo la strada, ma era come se non fosse lui a camminare, ma una misteriosa forza muovesse i suoi passi lungo una via che ora gli pareva sconosciuta. “Cosa faccio ora?” Questa domanda continuava a rimbombare nella sua testa inasprendo lo smarrimento e la morsa di una terribile solitudine. Quando i suoi figli scelsero di seguire le loro strade, lui e sua moglie, pur condividendo le loro scelte, si sentirono abbandonati e in seguito dimenticati, ma col tempo si fecero forza e iniziarono a frequentare un gruppo di anziani che aveva la passione per il ballo. A volte si svolgevano gare di briscola o qualche gita, ma ora tutto questo apparteneva al passato, rimanevano i ricordi ed erano dolorosi. Era giunto davanti alla chiesa e, senza che se ne fosse accorto, il barista e altri paesani nel vederlo così turbato l’avevano raggiunto. “Amico mio, lascia che ti accompagni a casa, sei stravolto”. “Vi ringrazio tutti, ma voglio parlare con il prete” rispose Arturo avviandosi verso la sagrestia. Ma gli amici attesero in silenzio mentre suonava il campanello del portone.

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Mentre attendeva che qualcuno aprisse l’uscio, il suo sguardo cadde sul muro screpolato ingiallito dal tempo dove una lunga fila di formiche metodicamente compiva la sua ordinata marcia col suo pesante fardello e la vita con i suoi dolori, le fatiche e le incertezze stesse, dandogli l’opportunità di apprendere che la legge eterna governava anche le più piccole cose. Suonò una seconda volta e finalmente la perpetua venne ad aprire la porta alquanto seccata. “Cusa ghiv da sunàr acsè fort, al ne mia l’organ dla césa. E po’ cusa vriv? Al prét al ‘na ghè mia l’è anda in gita al Santuàri ad la Madòna dal Caravaggio con i pütèi”.1 “Non c’è un altro prete che può dir messa?” domandò Arturo. “Nò cara al me om! A ghè carénsa ad prét, quìndi incö gninto mèsa e gnint ad gnint E adèsa scüse ma me a go da far i me làur in cüsìna”.2 “Hai sentito Arturo? Il prete è via, ora lascia che ti accompagni a casa, sei stanco e hai bisogno di riposare”. Così il barista tentò di convincere il poveretto a lasciarsi condurre a casa, ma Arturo non volle acconsentire. E gli amici compresero che forse cercava di rimandare il momento in cui inevitabilmente, varcando quella soglia, il dolore per la scomparsa di Rosa avrebbe assunto la più terribile acutezza. Arturo aveva un amico di nome Giovanni, che era titolare di una agenzia di pompe funebri, ed espresse il desiderio di recarsi da lui. Giovanni non c’era, così amareggiato, confuso e sfinito si avviò verso casa. E man mano che si avvicinava non poté fare a meno di notare “Cosa avete da suonare così forte, non è mica l’organo della chiesa. E poi cosa volete? Il prete non c’è, è andato in gita alla Madonna del Caravaggio con i ragazzi”. 2 “No, caro il mio uomo! C’è carenza di preti, quindi oggi niente messa e niente di niente. E ora scusate, ma ho da fare i miei lavori in cucina”. 1

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il profondo silenzio che avvolgeva il podere e allora la morsa del dolore aprì le sue fauci e il macigno della solitudine lo fece ansimare e piangere. Inevitabilmente lo assalirono i ricordi piantando lame sottili e crudeli in quell’anima affranta. Aveva già assaporato la solitudine quando da ragazzo perse i genitori e si trovò ad accudire con non poche fatiche i due fratelli che ormai non vedeva da anni. Gli anni passati in miniera in Belgio, ma allora era giovane, oggi l’amaro calice che gli inaridiva la bocca era ancora più crudele. Entrò in casa e si trascinò nella camera dove Rosa giaceva tra le lenzuola senza vita. Sopra il letto un’oleografia della Sacra Famiglia, l’armadio a due ante, il vecchio comò a cui mancava una maniglia d’osso e in un angolo un baule bombato, dove Rosa custodiva le coperte e le trapunte, e le due poltrone, una accanto all’altra, dove amavano riposare tenendosi per mano. Sopra una delle due poltrone c’era ancora il raccoglitore delle sue ricette culinarie di cui andava fiera. Rosa era un’ottima cuoca e in paese le sue ricette andavano a ruba. Tra queste ve ne era una alla quale teneva molto, perché ereditata dalla bisnonna ed era: “Pulpétti da störlo”.3 Arturo l’aiutava sempre quando preparava questi piatti e di questo in particolare ne ricordava tutti i passaggi. Prendere una decina di storni, spennarli, pulirli all’interno, metterli in una pentola di rame con aceto, sale, prezzemolo, carote, una buona grattata di noce moscata, aglio e cipolla. Far bollire fino a cottura della carne. Togliere dal fuoco gli storni e gettare il brodo. Spolparli bene e tenere solo la carne del petto, metterla in un tegame di terracotta e tritarla fine. Grattare un po’ di pane vecchio e metterlo con due uova e formaggio delle nostre vacche. Sbattere bene il tutto, poi aggiungere la carne di storno. A questo punto fare le polpette, grosse quasi come un uovo, da star chiuse in una mano. Metterle nel tegame di terracotta, con tre cucchiai di grasso di maiale, una manciata di pancetta tritata fine e una scarsa di

3

Polpette di storno

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granellini di ginepro. Mettere il tegame sulla stufa a legna e passare lentamente, ogni tanto bagnare con vino bianco di S. Rocco di Guastalla. Alla fine servire con polenta abbrustolita e buon Lambrusco di Guastalla. Ad Arturo sfuggì un leggero sorriso, nessuno mai era riuscito a cucinare le polpette come la sua Rosa. Ma quella stanza e i suoi oggetti gli apparvero estranei come se per la prima volta facesse loro caso. Si avvicinò alla consorte e si sdraiò vicino a lei, la fissò per un attimo, mentre una lacrima gli scendeva dal viso, a bassa voce cominciò a cantare una canzone: La canzone del minatore guastallese che a Rosa piaceva tanto. Con un piede sulla staffa e l’altro in un vagone ti saluto caro paese fuori d’Italia io me ne andrò fuori d’Italia andrò lontano dove la sorte per me sarà. Parto lontano con la speranza spero che un giorno ritornerò. Lascio la mamma e anche i fratelli ma col pensiero non li lascerò. Lascio i parenti e pure gli amici ma spero che un giorno ritornerò. Il tempo corse inesorabilmente e lo avvolse un sonno profondo. Rosa era sulla soglia, indossava un abito bianco e gli tendeva le mani sorridendo: “Tranquillo caro, avvertirò io i ragazzi, vedrai che verranno al più presto. Presto sarai con me, staremo ancora insieme per sempre e metteremo fine ai nostri dolori”. Il suono di un clacson interruppe quel sogno. Era giunta la sera con le sue ombre che scivolavano lungo le travi della stanza mentre il vento si era destato. Il medico di guardia all’ospedale e il barista scesero dall’auto, che sostò sull’aia, e rimasero sbalordi-

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ti davanti alla scena che si mostrò davanti ai loro occhi. Il cane e i due gatti s’erano accucciati davanti all’uscio, il maiale e un nutrito gruppo di galline sembravano imbalsamati tanto apparivano immobili, come le tortore e i piccioni che in silenzio parevano esprimere il loro dolore per la loro amata amica che li aveva lasciati. Facendo attenzione a non calpestare quelle creature, i due entrarono in casa e chiamarono l’amico, ma non ebbero risposta. Salirono in ansia e quando furono nella camera da letto rimasero senza parole. Rosa, seduta su una poltrona, stringeva la mano di Arturo che sedeva sull’altra accanto a lei. Il dottore constatò che l’amico giaceva in un profondo stato confusionale, dubbioso si rivolse al barista che era rimasto basito sulla soglia: “Se come mi hai raccontato, Rosa è deceduta durante la notte di sabato e domenica nel suo letto, come fa ad essere lei a tener stretta la mano di suo marito seduto accanto a lei sulla poltrona?” Questo rimase per sempre un mistero. Arturo fu trasportato di urgenza in ospedale e il barista si offrì di vegliare la salma sino all’arrivo dei figli di Arturo. Durante quella notte non riuscì a chiudere occhio, aprì le finestre e abbassò le zanzariere gettando uno sguardo alla notte che avvolgeva la campagna. Sull’aia le creature del podere rimanevano immobili davanti all’uscio. Il barista non poté fare a meno di rammentare la profonda amicizia che legava Arturo a suo padre. Dopo la morte del genitore si era sposato, ma fu un fallimento. Sua moglie era cubana e un bel giorno lo piantò dopo avergli fatto fuori tutto ciò che possedeva. In nome della vecchia amicizia, Arturo si offerse di prestargli una notevole somma senza pretendere alcun interesse salvandolo dal fallimento. Erano circa le sette del mattino quando il barista fu scosso dal dormiveglia dei passi che risuonavano sulla ghiaia. Il titolare delle pompe funebri entrò nella stanza e con lui i due figli di Arturo.

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I due ragazzi ringraziarono il barista chiedendo del padre e furono messi al corrente. Piero si inginocchiò ai piedi della madre e suo fratello Mario gli poggiò una mano sulla spalla nel tentativo di confortarlo. Rosa fu vestita e deposta nella bara. Il barista invitò i ragazzi a servire del cibo alle creature ancora in attesa davanti all’uscio. Nel frattempo il parroco era arrivato scortato da alcune vecchiette del paese che recitarono un rosario e convenne con i figli per il funerale che si sarebbe svolto alle 9,30 del giorno dopo. Quel giorno sembrò che il cielo venisse squarciato dal vento e che il giorno stesso avesse indossato i paramenti funebri. Al funerale c’era tutto il paese e, nonostante non si reggesse sulle gambe e il parere contrario del medico, Arturo accompagnò la sua Rosa sino all’ultimo saluto, scortato e sorretto dai suoi due figlioli. Ringraziò tutti con i suoi occhi profondi, ma dopo di ciò si chiuse in un silenzio profondo. Dalla finestra di quella stanza d’ospedale, dove dovette tornare, guardava lo spicchio di cielo che si affacciava dai vetri con lo sguardo fisso che man mano perdeva di luce, come se attendesse qualcosa. Piero e Mario si trattennero per tutta la settimana e giorno e notte si alternarono per assistere il padre, ma ormai fu chiaro a tutti che la fiammella di Arturo s’andava spegnendo e un bel giorno Rosa entrò nella stanza tendendogli la mano, i due figli lo videro che alzava la testa bisbigliando qualcosa con un sorriso che accese il suo volto sereno. La sua solitudine era finita. Franco Tagliati è nato a Guastalla (RE) dove vive e lavora. Commediografo, poeta, pittore. Ha ottenuto riconoscimenti e premi per poesie e racconti in vari concorsi ed è presente in numerose antologie italiane. Con la pittura, ha esposto in diverse città italiane e straniere. È membro dell’Associazione Culturale “Un poco di noi” di Reggio Emilia e dell’Associazione Culturale “Argine Maestro” di Guastalla (RE). Ha pubblicato Terra Amata con l’Editore E. Lui di Reggiolo (RE) e Racconti di vita e d’amore con l’Editrice Montedit di Milano.

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Breaking Pork (Sguastèr al gugiol) di Federico Torriani

Cap. 1 “Vedi Sandra, il punto è che noi non dobbiamo verificare se loro paghino le tasse o versino l’IVA; per quello ci penseranno i colleghi della Guardia di Finanza. Noi dobbiamo controllare che ingredienti usano e soprattutto dove li producono!” disse il capitano Pedrazzi con fare autoritario, ma tutto sommato bonario, alla sua giovane e ancora poco esperta collega. “Ma, non capisco… tutti dicono che sono i salami migliori dell’Emilia: c’è una richiesta che nemmeno al mercato nero in tempo di guerra, i prezzi sono anche più alti dei prodotti concorrenti venduti con regolare scontrino. Saranno senz’altro ottimi!” “Sì, ma comunque la legge prevede che i luoghi di produzione abbiano determinate caratteristiche e parametri igienico sanitari precisi”. “Mio nonno dice sempre che con tutte queste restrizioni, la tracciabilità e le materie prime conservate, il sapore dei salami oggigiorno fa schifo. Mia com quand a sera putèl me, che i salam sajeven ed salam!1 Mi ripete sempre… e poi aggiunge che è colpa delle industrie alimentari che ci pagano per fare i loro interessi”. “Sandra! - sbottò arrabbiato il capitano - Faccio finta di non aver sentito! E tutto sommato non mi interessano i commenti e le illazioni di tuo nonno; l’unica persona che dobbiamo ascoltare 1

Non come quando ero bambino io, che i salami sapevano di salame!

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adesso, e con molta attenzione, è Simonini”. E così dicendo aprì la porta della stanzetta senza finestre, dove, davanti ad un tavolino in mezzo alla stanza, stava seduto il proprietario della Premiata macelleria Simonini di Simonini Antonio fu Antenore. “Quindi mi dica signor Simonini” cominciò con piglio sicuro Pedrazzi. “Cosa vuole che le dica? Le ho già detto tutto stamattina al negozio, i miei fornitori sono tutti censiti e registrati…” “Non mi prenda in giro! Sto parlando dei salami di…” “Eisenpork!” finì con entusiasmo la frase Sandra, in un impeto di zelo. “Esatto… Eisenpork” continuò Pedrazzi. “Già, Eisenpork, - fece eco Simonini - ma ve l’ho già detto mille volte. Io non so chi sia! Mi portano la sua roba all’alba, me la fanno trovare davanti alla saracinesca del negozio. Poi passa un ragazzo sempre diverso, che si fa pagare in contanti. Di più non so”. “E come fai ad ordinare la merce? Chi contatti?” “Fiorinda. Contatto Fiorinda, anzi è lei che contatta me. Passa in negozio e io le dico ciò che mi serve”. “Quindi non vendi solo salami!?” “Beh, veramente… no. Non solo salami; anche cotechini, zamponi e cappelli del prete, o la sachina come la chiamiamo noi. Una volta sono stato fortunato e mi hanno dato anche al Sòc, lo zucco! E poi salsicce, luganeghe, coppa e pancetta. Ma queste sono più rare da trovare, bisogna sbrigarsi per tempo, se no non te le danno”. “Un impero criminale!” sbigottì Sandra. “Sì, un impero… e ben strutturato a quanto pare! - continuò il capitano - Quindi, Simonini, lei detta a voce quello che le serve a Fiorinda, così non ci sono prove, vero? E poi cosa succede? È lei che produce gli insaccati?” “Ma si figuri Capitano! Fiorinda non saprebbe distinguere una culaccia da un strolghin!”2

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“E allora chi li fa i salumi?! Chi è Eisenpork?” urlò Pedrazzi. “Guardi non lo so davvero! So che Fiorinda passa tutto al ragazzo del distributore di benzina, che poi coinvolge quella parrucchiera vicino al giornalaio nell’angolo… poi non so più niente. Dopo qualche giorno però mi arriva tutto, e nel giro di una mattinata è già tutto venduto… Non so come abbiate fatto a beccarmi!” “Siamo sulle tracce di Eisenpork da diversi mesi, sappiamo muoverci. Invece tu, mio caro Simonini, sei proprio nelle grane. Lo sai che hai commesso un grave reato, vero?” “Sì Capitano, però mi avevate assicurato che avreste chiuso un occhio se avessi collaborato”. “Giusto, ma sembra che tu non abbia informazioni utili da darci. Fiorinda è da tempo sotto controllo, e anche il resto è risaputo”. “Veramente…” “Veramente cosa? Hai qualcos’altro da dirci?” “Ma, Dottore… - balbettò Simonini, mentre un rivolo di sudore gli percorreva il viso - sono pericolosi! Se parlo chissà cosa mi succede!” “Affari tuoi. Mi sembra che tu sia già abbastanza nei guai con la legge. Però se parli, magari potremmo aiutarti”. “Vede, il fatto è che conosco un loro progetto… Se ne parla nell’ambiente…” “Quindi? Vacca boia, parla!” “Ho saputo da fonti quasi certe che Eisenpork ha intenzione di…”

Cap. 2 “Il Cicciolo d’Oro? Ma sei matto? È troppo pericoloso!” “Non ti preoccupare Cessy…” 2

strolghino

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“Non mi chiamare Cessy, io sono Cesira, tutti mi chiamano Cesira, cesso sarai poi tu!” “Oh ma che du maròun!3 Cesira è troppo lungo, ci vuole un diminutivo!” “Vabbè lasciamo perdere. Il fatto è che Il Cicciolo d’Oro è una rassegna importantissima. È pieno di gente, c’è anche quel cantante di lissio4 con le sue coriste. Sì quello là, quello che fa la trasmissione in televisione. Le vie d’accesso sono tutte sotto controllo. Ci sono telecamere dappertutto, telefonini, videocamere… ci beccano sicuramente. È troppo pericoloso Eisenpork!” “Ma non capisci Cessy, noi siamo il meglio del meglio! E lo dimostreremo al mondo in questa festa!” “E dove lo facciamo? Non certo nella mia cantina, non ho il gas, e comunque i fumi invaderebbero il quartiere facendoci scoprire e…” “E basta! Per chi mi hai preso? Sono o non sono Eisenpork? Ho avuto un’idea geniale! Hai presente Pansadura? Bene, ha una roulotte al Lago di Garda, che sua moglie affitta ai turisti; l’ultima volta che gli ho portato gli zamponi e i salami, ci siamo messi d’accordo per prenderla in affitto come pagamento. Adesso che la stagione turistica è finita, non ha avuto problemi a darcela ad un buon prezzo”. “Ma dègh, set imbambi? Mo vòt che mè a vaga al Leg ed Gherda a cosler?5 E poi il campeggio sarà chiuso”. “No, non devi andare al lago. Ci sono già stato io e te l’ho portata qui. Anzi, non proprio qui. È in quella carraia nel podere di Pignagnoli che porta al campo incolto, quello vicino al canale della bonifica. Sai dove c’è quel boschetto di pioppi?” “E l’odore?” “Non è lontano dalla discarica. Quando hai il vento a favore, gli odori si mescolano con quelli dei rifiuti e tutto si confonde!” Ma che due maroni! liscio 5 Ma dico, sei rimbambito? Vuoi che io vada al Lago di Garda a trafficare? 3 4

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“Ma set sicur?”6 “Sono sicuro. E finalmente potremo dimostrare quello che siamo capaci di fare! Allo scoperto, alla faccia dei Poliziotti, Carabinieri e Guardia di Finanza!”

Cap. 3 “Sandra ci sei?” “Sì Capitano, sono in posizione e la sento forte e chiaro”. “I ragazzi?” “Tutti ai propri posti Capitano! È da ieri che vigilano su tutti i produttori e gli standisti. Hanno controllato salami, cotechini, salsicce… insomma tutti gli insaccati e i salumi che sono presenti a questa festa sono stati esaminati!” “Quindi?” “Tutto in regola, dottor Pedrazzi: nessuna sofisticazione, etichette precise, tracciabilità certa, conservazione idonea… e soprattutto, ogni salume proviene da un produttore regolarmente autorizzato… nessuna traccia del genio criminale di Eisenpork!” “Ottimo lavoro, Sandra. Bene, a questo punto tu e i ragazzi potete interrompere i turni di sorveglianza. Andatevi a prendere un bel vin brulé e qualche assaggio agli stands gastronomici”. “Grazie Dottor Pedrazzi” rispose soddisfatta l’allieva. Era stata una lunga giornata, appostati dall’alba con un freddo cane a controllare minuziosamente etichetta dopo etichetta. E dalla piazza veniva un profumo… ora che stavano finendo di cuocere il cicciolo gigante, le era venuto un languorino… La giovane allieva ufficiale si avviò a passo svelto verso la piazza, dove stavano celebrando la premiazione per il miglior cicciolo dell’anno. Si mise proprio di fronte al tavolo della giuria, per 6

Ma sei sicuro?

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godersi quello che rimaneva dello spettacolo. Sul tavolo erano disposti i ciccioli presentati dai concorrenti, ognuno accompagnato dalla busta anonima, contenente il nominativo del partecipante. Il presidente della giuria prese il microfono e, con gesto cerimoniale, estrasse dalla busta il nome del vincitore… il silenzio assoluto regnava in piazza a Campagnola. Il presidente della giuria sorrise ancora una volta, chinò lo sguardo sul foglio… e ammutolì, le mani tremanti. Poi si scosse e, con un filo di voce, espresse il verdetto della giuria. “Il vincitore per il miglior cicciolo di quest’anno è… Eisenpork!” E uno scroscio di applausi accompagnò le parole del presidente! “Capitano ha sentito? Eisenpork ha partecipato come produttore di ciccioli, non di insaccati!” “Porca vacca di una vacca boia! Maledetto Eisenpork, ci ha fregati anche questa volta… Ma non finisce qui!” Fine

Federico Torriani nasce a Novellara (RE) nel 1973, dove tuttora risiede. Diplomato in ragioneria, decide di proseguire gli studi diplomandosi in sceneggiatura per fumetto alla Scuola Internazionale di Comics a Roma. Attualmente scrive e pubblica favole e racconti su Amazon.

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Racconti selezionati e pubblicati online su www.ilcicciolodoro.com in ordine alfabetico

Racconto: Tagliatelle al ragù Autore: Franco Bellandi ... Racconto: Centoventi giorni Autore: Egidio Braghini Nato il 1/10/1958 a Parma. È pensionato e vive con la moglie a Novellara (RE). ... Racconto: Un tabarro ed un campo di zucche Autrice: Elena Filippi Nata a Reggio Emilia il 16 agosto 2001 e ad oggi residente a Rivalta (Reggio Emilia). Frequenta il quinto anno al Liceo Artistico Gaetano Chierici nel centro storico di Reggio Emilia. ... Racconto: Il Risciò della Contessa Autrice: Rosa Manara Gorla Nata a Rivarolo Mantovano (MN) nel 1947, abita da sempre nella frazione di Cividale. Autodidatta e appassionata cul-

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trice delle sue radici, dal 1989 collabora con l’Associazione Pro Loco di Rivarolo Mantovano e con la Fondazione Sanguanini Rivarolo Onlus. Scrive sul trimestrale di cultura rivarolese La Lanterna. Dal 1985 cura le pubbliche relazioni del marito Alberto Gorla, maestro orologiaio di fama internazionale. Nel 2011 partecipa al concorso letterario di Campagnola Emilia (RE), classificandosi al secondo posto. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sivdal al me paes e la so’ Şent (2008); Coriandoli (2009); I racconti della nonna (Il giardino degli animali) (2014). ... Racconto: Uno spirito allegro Autore: Marco Martinelli Nato a Reggio Emilia il 6 ottobre 1974, dall’età di diciotto anni scrive poesie e racconti prevalentemente in lingua italiana, saltuariamente qualche lirica in dialetto reggiano. Ha pubblicato diverse sue opere letterarie. Ama viaggiare e raccogliere impressioni che poi riversa nei propri componimenti. è molto legato alla sua città natale che valorizza conducendovi gruppi di turisti come guida autorizzata. Da più di vent’anni è iscritto all’Associazione Scrittori Reggiani. ... Racconto: I tesor dl’Emilia basa Autrice: Martina Ruggiero Residente a Cavriago (RE), frequenta il Liceo Artistico Gaetano Chierici di Reggio Emilia. Le piacerebbe continuare, durante il suo percorso di studio, nella scrittura, che adora e nella passione della storia dell’arte legata anche al suo caro territorio.

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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2019 Composizione giuria

Presidente: Alessandro Di Nuzzo, direttore di Aliberti Compagnia Editoriale e scrittore. Paola Baraldi, insegnante e già Sindaco di Campagnola Emilia (RE). Daniele Bevini, libraio, titolare della libreria “Moby Dick” di Correggio (RE). Vittorio Cottafavi, imprenditore agricolo e scrittore. L’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” e la giuria ringraziano Olivia Iside Caramaschi, Consigliere del Comune di Campagnola Emilia, per la sua collaborazione nella fase di ricezione dei racconti in gara.

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Elenco cicciolai 2018

Aldrovandi Cesare Belluzzi Rino Benzi Luca Bernini Andrea Bigi Maurizio Bigi Roberto Bigi Serena Bocciolesi Giovanni Borciani Ermanno (San Bernardino) Briganti Carpi Giuliano Catellani Enrico Catellani Luigi Cavazzoli Matteo Cavazzoli Mauro Cervi Marco Covri Paolo Diacci Silverio F.lli Gualtieri Folloni Pierino Gasparini Enzo Gianotti Marco Gli Amici del Fondo Grilli (Lorenzo Gorrini o Zaldini Vittorio)

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Gli Amici di Mandrio Gramostini Vando Grandi Fabio I Maver Incerti Medardo Iotti Ivano Lanfredi Massimo Le Maver Lusuardi Angelo Manfrin e Amici Marastoni Laurenti Marastoni Sauro MenzĂ Antonio Neri Mario Paoluzzi Guido Pignagnoli Gabriele Pignagnoli Gianluca Pignagnoli Natale Ronchetti Maurizio Rossi Marziano Saccani Cesare Salati Marco Santachiara Alessandro Santachiara Stefano Savazza Soprani Luca Stecco Matteo Storchi Aimone Tamagnini Ivan Tamagnini Lando

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Un Midollo per Matteo (Piccinini Roberto) Vezzani Giancarlo Violetti Eros Zanichelli Alessandro Zanoni Mauro

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Vincitori “Cicciolo d’Oro” 2018

Miglior Norcino 2018: Cavazzoli Mauro di Campagnola Emilia Quote rosa - miglior Norcina 2018: Catapano Nicoletta Miglior Under 30: Bernini Andrea di 27 anni

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Le Notti del Salame 2019 - Il podio

1° classificato: Azienda Agricola I Tre Porcellini (Codisotto) 2° classificato: Cianni Daniele (Castiglione delle Stiviere) 3° classificato: Bocciolesi Giovanni (Campagnola Emilia)

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In copertina: La stalla di Verther Carretti Dipinto vincitore di Bassa in Pittura edizione 2018 Verther Carretti, nato a Correggio (RE) nel 1952, da famiglia correggese ed ivi risiede. Consegue il diploma di Maestro d’Arte nel 1970 presso l’Istituto Chierici di Reggio Emilia. A partire dal 1980, in più di un’occasione, ebbe modo di lavorare a Parigi. Partecipò a diverse manifestazioni internazionali di pittura al Gran Palais de Paris, come il Salon de Automne, nonchè Des Indipéndents. Attualmente lo si può vedere spesso al lavoro sulle strade di Correggio, mentre interpreta dal vivo le particolarità o gli scorsi degli edifici e dei monumenti. ... In quarta di copertina: un estratto di Dulcis in fundo di Marisa Bertozzi Marisa Bertozzi, nata a Campagnola nel 1940, ha iniziato a scrivere una volta diventata nonna, per riappropriarsi del suo tempo. Da allora si è accorta che le storie le si attaccavano addosso, ovunque andasse e qualsiasi esperienza vivesse: non restava che riportarle su carta, ed ancora oggi, per quel che si può, continua a farlo.

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Concorso letterario Bassa in Letteratura 2020 Regolamento

L’associazione “Il Cicciolo d’Oro”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 11° EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO PER RACCONTI “BASSA in LETTERATURA” anno 2020

REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato a racconti inediti scritti in lingua italiana o in dialetto emiliano, è aperto a tutti. Argomento/tema del racconto sono le storie e le atmosfere tipiche della Bassa padana, con particolare attenzione alla tradizione enogastronomica. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due racconti. Il racconto non deve superare i 18.000 caratteri, spazi inclusi, per esigenze di stampa. 3. La partecipazione è gratuita. 4. I racconti devono essere inviati a mezzo posta elettronica all’indirizzo info@ilcicciolodoro.com in formato word, entro e non oltre il 31 ottobre 2020, corredati da: • La domanda di iscrizione debitamente compilata, datata e firmata, come documento scansionato; • Fotocopia del documento d’identità in corso di validità; • L’ indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefo-

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nico del concorrente. • Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere compilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. La Segreteria organizzativa del concorso provvederà, sempre via e-mail, a notificare la ricezione del materiale. 5. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile e inappellabile. La premiazione avverrà nella giornata di sabato 12 dicembre 2020, alle ore 16.00, presso la Biblioteca Comunale di Campagnola Emilia. 6. I racconti meritevoli di interesse saranno pubblicati in volume, riprodotti e diffusi in ogni forma e modo, originale o derivato, previsto della Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicati, a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione Il Cicciolo d’Oro. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione Il Cicciolo d’Oro in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle opere partecipanti. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto D’Autore. 7. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 8. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”

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Domanda di iscrizione 11° edizione del concorso letterario per racconti “Bassa in Letteratura” - anno 2020 Il sottoscritto/a _______________________________________ residente a____________________________________________ Prov_______________________________CAP______________ via/piazza_________________________________ n._________ cellulare/tel.__________________________________________ e-mail _______________________________________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 11° edizione del concorso letterario “Bassa in Letteratura” anno 2020, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è inedita e frutto della propria creatività; - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e della pubblicazione dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Data_____________

Firma___________________



Concorso di arti grafiche a tecnica libera Bassa in Pittura 2020 Regolamento

L’Associazione “IL CICCIOLO D’ORO”, in collaborazione con il Comune di Campagnola Emilia, indice la 6° EDIZIONE DEL CONCORSO di ARTI GRAFICHE a TECNICA LIBERA “BASSA in PITTURA” anno 2020 REGOLAMENTO 1. Il concorso, riservato ad opere grafiche eseguibili a tecnica libera, è aperto a tutti. Argomenti delle opere stesse saranno i paesaggi, le atmosfere e i volti tipici della Bassa padana, guardando alla tradizione passata e alla cultura enogastronomica del presente. 2. Ogni candidato può partecipare con un massimo di due opere. Le dimensioni non devono superare 60 cm x 80 cm (senza cornice), per motivi di logistica espositiva. 3. La partecipazione è gratuita e, ripetiamo, aperta a tutti. 4. Potranno partecipare alla selezione della Giuria Qualificata solamente le opere per le quali la Domanda di iscrizione (debitamente compilata, datata e firmata), sia stata inviata entro e non oltre il 24 Novembre 2020 all’indirizzo e-mail: info@ilcicciolodoro.com. Per i minorenni, la domanda di iscrizione deve essere com-

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pilata e firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà, sempre allegando fotocopia di documento d’identità valido di chi firma il modulo. 5. Le opere devono essere consegnate presso i locali del Comune di Campagnola Emilia, nella prima settimana di dicembre 2020, corredate da: • Fotocopia del documento d’identità dell’autore in corso di validità; • Una breve didascalia che riporti il titolo dell’opera ed eventuali commenti dell’autore alla stessa; • L’indicazione di nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico del concorrente. 6. Il giudizio della Giuria Qualificata è insindacabile ed inappellabile: essa si riserverà infatti il diritto di esporre negli spazi comunali solamente i quadri meritevoli, per poi procedere alla premiazione delle migliori opere pervenute. La premiazione degli autori avverrà in occasione della manifestazione denominata “Il Cicciolo d’Oro”, a Campagnola Emilia. La migliore opera pittorica così valutata diverrà copertina grafica del volume “Bassa in letteratura - 12° edizione 2021”, che come ogni anno raccoglierà i migliori racconti dell’omonimo concorso letterario. 7. Le opere meritevoli di interesse saranno esposte negli spazi cittadini comuni per le settimane successive alla manifestazione invernale “IL CICCIOLO D’ORO 2020” ed in ogni eventuale forma e modo, originale e derivato, previsto dalla Legge sul Diritto d’Autore. Saranno inoltre pubblicate le foto delle opere stesse, sempre a titolo gratuito, sul sito web dell’Associazione Il Cicciolo d’Oro. L’iscrizione al concorso implica pertanto, da parte dei concorrenti, la cessione in capo all’Associazione Il Cicciolo d’Oro in via esclusiva, a titolo gratuito e senza limitazione di tempo e

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di spazio, di tutti i diritti di utilizzazione economica sulle opere partecipanti. L’associazione declina ogni responsabilità su eventuali danni causati alle opere per le settimane di esposizione pubblica e gratuita offerta. L’autore, in ogni caso, manterrà il diritto di rivendicare la paternità dell’opera, oltre agli altri diritti morali a lui riconosciuti dalla legge sul Diritto D’Autore. Potrà ritirare l’opera stessa al termine dei tempi espositivi decisi da Associazione e Comune, indicativamente a fine gennaio 2021: gli autori verranno contattati e informati su tempi e modalità precisi di ritiro. 8. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione di tutte le clausole del presente Regolamento. La mancata osservanza di uno solo dei presenti articoli comporta l’esclusione dal concorso. 9. Per informazioni sul regolamento e sul concorso potete visionare il sito internet www.ilcicciolodoro.com o contattare i seguenti recapiti: E-­mail: info@ilcicciolodoro.com Cell: 392 6471908 - Marzia Segretario de “Il Cicciolo d’Oro”

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Domanda di iscrizione 6° edizione del concorso per arti grafiche a tecnica libera “Bassa in Pittura” - anno 2020 Il sottoscritto/a _____________________________________________ residente a__________________________________________________ Prov____________________________________CAP_______________ via/piazza_______________________________________ n._________ cellulare/tel.______________________ e-mail _____________________ CHIEDE DI PARTECIPARE alla 6° edizione del concorso di arti grafiche “Bassa in Pittura” - anno 2020, organizzato dall’Associazione senza fini di lucro “Il Cicciolo d’Oro” in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. DICHIARA - di accettare tutte le norme del Regolamento di cui attesta di aver preso completa conoscenza; - che l’opera presentata è frutto della propria creatività; - che l’opera presentata ha le seguenti caratteristiche Prima opera - titolo: _______________________ misure: ____________ Seconda opera - titolo: _____________________ misure: ____________ - di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge. AUTORIZZA il trattamento dei suoi dati personali unicamente per i fini e gli scopi connessi allo svolgimento del concorso. Partecipando al concorso l’autore dell’opera acconsente all’utilizzo e al trattamento dei dati da parte del comune di Campagnola Emilia (RE) e dell’Associazione “Il Cicciolo d’Oro” di Campagnola Emilia, per ciò che concerne tutti i passaggi del concorso stesso e di trattamento dell’opera e ne accetta tacitamente tutte le modalità. Ogni concorrente ha diritto a richiedere la cancellazione dei propri dati ma sarà automaticamente escluso dal concorso. Se disponibile ad oggi, allego fotografia dell’opera realizzata: □ Sì Allego copia della mia Carta di Identità.

□ NO

Data_____________ Firma_____________________



Indice

Introduzione di Vittorio Cottafavi

1

Il completo principe di Galles di Maria Lena Bonazzi

15

La giga del cavallo morto di Claudio Caroli

20

Bellocchio e l’albero dell’impiccato di Franco Bellandi

36

L’incontro, secondo Lui e secondo Lei di Giampietro Lazzari

46

La mostarda di mele di Donatella Boccalari

60

Maiale in fuga di Franca Giaroni

68

Diario di una lettura di Rossella Bacchi

87

Chewing gum di Annalisa Bertolotti

92

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La telefonata di Dina Paola Cosci

110

Rataplam di Federico Frau

114

La Bassa reggiana di Elena di Giulia Gasparini

119

Fame, che sentiva le anime di Mauro Lasagna

122

Ciao nonno Umberto di Osvaldo Marastoni

133

Due genitori dimenticati di Franco Tagliati

141

Breaking Pork (Sguastèr al gugiol) di Federico Torriani

149

Racconti selezionati e pubblicati online

157

184


Stampato nel novembre 2019 presso tipografia E. Lui di Reggiolo (RE)



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