Battuta di caccia - Annalisa Bertolotti

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Battuta di caccia Risultava davvero difficile immaginarlo in tenuta mimetica, appostato nella segretezza di un capanno in mezzo al fiume, armato della sua carabina, ad attendere che un ignaro pennuto si librasse in volo per colpirlo mortalmente, vederlo ricadere esanime sulle increspature dell'acqua, raccattarlo e gonfiarsi il petto per la propria prodezza. Che si trattasse di un'anatra selvatica, di un germano o di una pernice poco importava: veramente si faticava ad associare la sua corporatura longilinea, allampanata e persino un poco goffa alla fisicità lesta, agile e scattante di un cacciatore. Lui, il direttore di quella scuola media della Bassa- al secolo Settimio Ghironi, così altezzoso ed austero, talmente impeccabile nelle sue candide camicie dal rigido colletto azzimato, così pieno di boria e spocchioso persino nella sua andatura, sembrava uscito da un nugolo di polvere sollevata dalla caduta di uno di quei voluminosi tomi datati e obsoleti, stipati alla rinfusa nella soffitta della sua stessa scuola. Eppure, con la piccola schiera dei suoi “preferiti”, con quel minuscolo gruppo di insegnanti prodigo in languide piaggerie, egli non faceva che gloriarsi della sua mira infallibile, dell'ottima scelta delle sue prede e dei lauti manicaretti che sua moglie Edvige preparava con quella stessa selvaggina. Sì... risultava complicato immaginare... Però, se si analizzava il tutto da un'altra angolazione, se si elaborava la scena da una diversa prospettiva, si giungeva facilmente alla conclusione che uno sport vile e crudele come la caccia ben si coniugava con un essere senza cuore come lui. “Metteva tutti in riga”- come egli stesso era solito ripetere con vanto “Ché non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare e il lavoro nobilita- non tanto le tasche quanto lo spirito”. Questo egli diceva ai suoi dipendenti che, di certo, guadagnavano molto meno di lui. E sfoggiava questo motto anche con i neo-assunti nella sua scuola, in quell'edificio di campagna decrepito e mai ristrutturato dove egli stesso, a suo tempo, era stato scolaro, peraltro nemmeno tra i più brillanti. All'esame di terza media sarebbe sicuramente stato bocciato se non fosse intervenuto suo zio, parroco in un vicino paese, che si preoccupò di andare a parlare con l'allora preside Orsi: “Lasêgh pasêr l'esâm...” implorò in dialetto, com'era allora consuetudine anche per pattuire gli affari “Dôp agh pèins mé a tirêrel dèinter in seminâri e agh fâgh fêr al prêt!” (Lasciategli passare l'esame...

Dopo ci penso io a mandarlo in seminario e lo faccio diventare sacerdote!)

Al tempo, la figura di un prete, incuteva rispetto. Per di più, Orsi era un uomo buono, comprensivo: ormai attempato e prossimo alla pensione non cercava, di certo, rogne. Così accomiatò il sacerdote con la promessa che Settimio ce l'avrebbe fatta; convocò la commissione esaminatrice e raccomandò l'alunno: “Domandine semplici...” esortò “ Tanto questo dovrà solo imparare a dir Messa...” E così venne promosso. Di fatto, però, Settimio disattese le aspettative di suo zio. Alla proposta di entrare in seminario egli oppose un atteggiamento di repulsione così forte da iniziare persino ad evitare le funzioni domenicali per dedicarsi-invece- a ciò che più gli piaceva fare: sparare. Dopo quell'agognata promozione, suo padre gli aveva regalato un Flobert. Fu quello il suo primo fucile... Un'arma a un solo colpo; sicuramente poco sofisticata... Però una carabina vera e propria costava tanto ed egli non disponeva di tutto quel denaro... Il sogno di imbracciare un fucile vero e proprio rappresentò la spinta che lo indusse a continuare gli studi sino a diventare professore di Applicazioni Tecniche. Insegnò per un quinquennio prima di decidere di sostenere l'esame da preside e, in quel lustro, tutto ciò che egli spiegò ai suoi alunni non si scostò mai dalle diverse marche di fucili, dalla balistica e dalle peculiarità dei vari tipi di prede. Ma ora... ora era il direttore di quella scuola media della Bassa dove aveva instaurato un clima di timorosa soggezione che investiva tutto il personale: dai professori ai bidelli sino a scendere persino agli alunni.


Non di rado, infatti, egli irrompeva all'improvviso nelle classi, durante le lezioni, senza nemmeno bussare alla porta “ché, tanto, lui era il capo e poteva fare quel che voleva”. Gli scolari, allora, si alzavano immediatamente in piedi, composti e compiti e il docente di turno ammutoliva, prostrandosi in un rispettoso inchino. Serio e severo, il Ghironi indugiava a lungo pizzicando tra il pollice e l'indice l'estremità di un suo baffo: assemblava le idee per formulare un quesito e, una volta approntato, additava il primo, malcapitato studente: “Su un albero ci sono dieci uccellini...” esordiva “Io sparo e in un solo colpo ne ammazzo nove. Quanti uccellini rimangono?” “Nove, signor direttore!” Egli trasecolava: “Ma cosa dici?!?” tuonava, inalberandosi e insisteva “Ascolta bene...” e mostrava le due mani, con le dita ben aperte e distese “Ce ne sono dieci... io sparo un colpo di fucile... pum!” e ripiegava i mignoli, i medi, gli indici e gli anulari, mantenendo alzato un solo pollice “Quanti ne restano, eh?” “Sempre nove, signor direttore!” “Ma come fai a dire nove?!?” si spazientiva Settimio. “Ma come fa lei a colpire nove uccelli con un solo colpo?” sindacava lo scaltro scolaro, guadagnandosi una furtiva occhiata d'intesa da parte del suo insegnante. Allora il Ghironi, contrariato, incedeva verso la porta, bofonchiando tra sé: “Con l'aritmetica è un disastro qui dentro!” e, deluso, si ritirava in presidenza, propenso ad escogitare qualche strategia per innalzare il livello culturale delle sue scolaresche. “Buongiorno, signor direttore!” gli auguravano in coro le due bidelle Eges e Palmira che egli, da sempre, associava a due poiane- volatili facili da impallinare per la loro indole goffa, ingenua e sgraziata. “Ma che buongiorno che c'è una nebbia che non si taglia neanche con un coltello?” ribatteva riottoso. “Eh... mó perchè é sôm int la Bâsa, sgnör diretör!” (Eh... ma perché siamo nella Bassa, signor direttore!) commentava Palmira- la più audace delle “Tölel luntéra un cafè?” (Prende volentieri un caffè?)

due

e,

per

rabbonirlo,

proponeva:

In un angolo del loro sgabuzzino, infatti, Eges e Palmira avevano installato un fornelletto elettrico che, ad ogni ora della mattinata, sprigionava, attraverso la moca sovrastante, un confortante aroma di miscela arabica che si mesceva e si confondeva con il lezzo pungente dello stallatico che si alzava dai campi tutt'intorno. “Mó lêsa stêr, Palmira!” (Ma lascia perdere, Palmira!) sussurrava allora Eges all'orecchio della collega “Vèdet mia cmé l'é bèle nervös ed suo?... Agh manca söl l'efètt d'un cafè!” (Non vedi com'é già nervoso

di suo? Ci manca solo l'effetto di un caffè!) Un giorno, durante una lezione di Scienze, il Ghironi approntò una delle sue consuete apparizioni. Entrò in una classe prima, additò una bambina dalle trecce legate da vistosi fiocchi rossi e la interrogò: “Parlami della fauna che popola il Po!” La ragazzina sbiancò. Invano la professoressa Tafanetti cercò di incoraggiarla: “Pensa ai pesci... Ricordi quelli che vi ho mostrato durante la nostra uscita didattica? I lu... I lu...” Il direttore la gelò con lo sguardo: “Ma che pesci e pesci, professoressa?!?... E poi non l'ho chiesto a lei!” e, ritornando alla scolaretta, insistette: “Ordunque?” In un filo di voce, la bambina azzardò: “Le rane?” Ma il Ghironi pensava alle proprie battute di caccia e quella risposta lo lasciò disarmato. Non potendo negare l'esistenza di tali anfibi sulle rive del fiume, replicò in modo evasivo e seccato:


“Ma sì.. ma sì... ci sono anche quelle!” e, anche quella volta, girò i tacchi adirato e scomparve oltre la soglia, lasciando l'insegnante e gli alunni attoniti, con un'espressione interrogativa stampata in volto. Fu in seguito alle risposte ricevute durante quella lezione di Scienze che Settimio Ghironi escogitò un piano “di sicura valenza didattica”. Gli ci voleva tempo... nemmeno lui sapeva quanto, ma, caparbio e risoluto, era certo che avrebbe portato a termine il proprio progetto. Perchè- diceva- l'esperienza diretta è la miglior maestra e i suoi studenti avrebbero avuto modo di vedere con i propri occhi non solo ciò che, a suo avviso, ignoravano, ma anche ciò di cui dubitavano come, per esempio, la sua capacità di colpire nove uccelli con un solo colpo in canna. “Sì, sì...” ripeteva tra sé ripensando a quell'alunno interrogato durante la lezione di Matematica “ dovrà ricredersi... e fare i conti con l'evidenza!” Gli furono necessarie numerose battute di caccia. Anche perché ogni volta che rincasava con il fucile in spalla e gli stivali umidi e infangati, sua moglie Edvige non gli lasciava nemmeno il tempo di aprire la sacca: “S'é't ciapè?” (Cos'hai braccato?) inquisiva. E, se si trattava di un fagiano o di una pernice, già pregustava il delizioso profumo di erbe aromatiche che si sarebbe sparso per tutta la casa durante la concia e la cottura al forno. Fu così che Settimio, una domenica, decise di non dirle nulla. Partì all'alba, mentre lei ancora dormiva e le lasciò un biglietto sul tavolo di cucina: “Vado a trovare mio zio prete. Non torno per il pranzo. Ci vediamo stasera all'ora di cena” Indossò la tuta mimetica, calzò gli anfibi ed imbracciò il fucile. Poi scese in cortile, salì in macchina e si diresse verso l'argine. Parcheggiò l'auto in uno spiazzo prima di scendere nel fiume, dove si appostò in un capanno. Non albeggiava ancora e c'era un silenzio spettrale in mezzo ai canneti, tra gli sbuffi di vapore che si alzavano dalle golene. Attese... attese a lungo... Finché, ad un tratto, un verso querulo si alzò in volo. Uno sparo... un tonfo sull'acqua... Secco e sordido come una pietra scagliata dal cielo. Il Ghironi uscì dal suo nascondiglio con il cuore in gola. Procedette maldestramente tra la corrente, verso quel punto dove una vita cessava di esistere. Un rigogolo dai colori smaglianti, dalle ali di un giallo cangiante stava là, esanime, con il capo riverso in una pozza torbida di acqua stagnante. “Che mira!” si lasciò allora sfuggire, a voce alta... tanto era solo, solo sotto quel cielo basso e cupo che pareva piangere per quella creatura perduta. Fiero di sé, raccolse la sua preda e si diresse verso una vicina borgata dove abitava un certo Oreste, abile nell'impagliare ogni sorta di esemplare cacciato sul fiume. “Mó l'é stupènd!”(Ma è stupendo!) esordì l'imbalsamatore alla vista di quel volatile “Però che pchè...avèir masè 'n usèll acsé bèll...!”(Però che peccato... aver ucciso un uccello così bello...!) si lasciò

sfuggire, mosso a compassione “La ginta, ed sôlit, a'm fa impajèr dal pojàni, d'j germân, d'j nâder selvàtich...anca dal lévri... mó l'é la préma völta ch'a'm capita d'impajêr un galbêder...Comunque l'é un bèll esemplêr... cumplimèint al casadör!” (La gente, di solito, mi fa impagliare delle poiane, dei germani,

delle anatre selvatiche... anche delle lepri... ma è la prima volta che mi capita di imbalsamare un rigogolo... Comunque è un bell'esemplare... complimenti al cacciatore!) e, così dicendo, abbozzò un preventivo che a Settimio non parve nemmeno troppo esoso.


Una settimana di tempo e Ghironi avrebbe avuto il suo trofeo da mostrare a chiunque fosse scettico sulle sue abilità venatorie. “Palmira... é't vést l'usèll dal diretör?” (Palmira, hai visto l'uccello del direttore?) chiese la bidella Eges

alla collega. “Bèin... mó 'sa dìt?...” allibì Palmira “ Fêret mia sintîr a dìr cèrti cösi ch'é's fa prèst a finir in digràsia!” (Non farti sentire a dire certe cose che si fa presto a finire nei guai!) Constatando quanto l'amica non ne sapesse ancora nulla, Eges la invitò ad entrare in presidenza dove il rigogolo imbalsamato capeggiava sul ripiano più alto di uno scaffale. “Vést?” (Visto?) proseguì Eges, con aria di sfida “Al diretör l'a détt ed tuchêrel mia che s'al casca zò al se sbrèga!” (Il direttore ha detto di non toccarlo che se cade si rompe!)

“Ahhhh.... a'n gh'é dóbi! Al pöl stêr tranquéll!... A'm fa impresiòun söl a guardêrel!” (Ahhhh... non c'è dubbio! Può stare tranquillo!... Mi fa impressione solo a guardarlo!) “Sé, sé... a'n gh'é dóbi che mé égh dâga zò la pölvra!” (Si, sì... non c'è dubbio che io lo spolveri!) ribattè Eges con risolutezza “Anca a côst ed vêdregh al tralèdi gnìr zò dal bèch!”(Anche a costo di vedere le

ragnatele scendergli dal becco!) “Mó che usèll é srâl?” (Ma che uccello sarà?) si informò Palmira. “Guèrda... é n'al só mia, mó, vést ch'l'é dal diretör, a'n pöl che êser un pigâss!” (Guarda... non ne ho

idea, ma, visto che è del direttore, non può che essere un picchio!) rise Eges divertita, ma la collega non

colse l'ironia ed osservò: “Eh... difàti al piga in zò... Avànti, Eges, andôm via... a'n vré mai ch'al ciapésa al trapécch e al s'é sfritlésa per tèra ché al diretör l'aspèta êter per fêres un d'j sö cichètt!” (Eh... difatti piega in giù...

Avanti, Eges, filiamocela... non vorrei mai che perdesse l'equilibrio e si sfracellasse per terra ché il direttore non aspetta altro per farci uno dei suoi rimproveri!)

Eges lanciò un'ultima occhiata di sbieco al volatile e, scuotendo il capo, seguì Palmira per ritirarsi con lei nello sgabuzzino. Quello stesso giorno, il rigogolo fece il giro delle classi, trasportato con fierezza dallo stesso Ghironi. “Chi sa dirmi di che uccello si tratta?” domandò agli alunni, suscitando l'imbarazzo persino dei professori che non conoscevano la risposta. Ma anche questo rientrava nel piano mefistofelico del direttore: suscitare un senso di inadeguatezza, di ignoranza, di inferiorità rispetto a lui che, invece, ostentava con superbia un'inesistente onniscienza. Si rivolse, dunque, a quello scolaro che già aveva posto in dubbio la sua abilità di cacciatore: “Sghedoni...” declamò “Dimmelo tu!” Il fanciullo incurvò le labbra in un'espressione interrogativa ed azzardò: “Un allocco?” Settimio gli rivolse un'occhiata di commiserazione: “Ma ti pare che questo esemplare abbia le caratteristiche di un rapace?...” lo apostrofò “Ma lo hai osservato?!?... Ha forse gli artigli...o il becco adunco?” e, alzando la mano in un gesto colmo di dileggio, si rivolse ad una ragazzina: “Tu lo sai?” La bambina annuì, lasciando il direttore sconcertato:


“E allora avanti... dillo di grazia! Che uccello è?” Con timorosa ritrosia, la fanciulla replicò: “Non so come si chiami in Italiano, ma conosco il suo nome in dialetto. L'é un pigâss!... L'ho sentito dire dalle bidelle!” Il Ghironi trattenne a fatica un'esondazione di collera. Deglutì con forza per mantenere la calma e indagò: “Ah, sì?... E cos'altro hanno detto le bidelle a riguardo?” “Che loro non lo vogliono toccare perché se cade e si sfracella non vogliono prendere la colpa. E, visto che è già piuttosto instabile sul suo piedistallo... visto che il peso del suo corpo grava tutto oltre il bordo dello scaffale, verso il basso... hanno detto che, anche se si dovesse riempire di ragnatele, loro non vi passeranno mai lo straccio!” “Piccola impertinente!” bofonchiò il Ghironi a denti stretti, già intenzionato a riprendere le due donne in questione. Resta il fatto che, quella mattina, il volatile passò di banco in banco, di mano in mano: venne osservato, studiato nei minimi dettagli, voltato e rigirato, ma, al suono della campanella, ognuno uscì da scuola senza ancora sapere con esattezza cosa, in realtà, aveva veduto... “Mó sgnör diretör...”(Ma signor direttore...) si giustificarono le bidelle “Nuêter j'ôm détt acsé per...rispètt... ahn, Palmira?” (Noi abbiamo detto così per...rispetto... non è vero, Palmira?)

“Mó sicür... al guèrda... l'é mia da tött cavèrghla a ciapêr 'n usèll acsé bèll, sâl? E' gh'jn sra al màsim dü o trî in töta la Bàsa e ló l'a ciapè pròpria al pió grôss, ahn, Eges?” (Ma certo... guardi... non è da

tutti riuscire a prendere un uccello così bello, sa? Ce ne saranno al massimo due o tre in tutta la Bassa e lei ha cacciato proprio il migliore, non è vero, Eges?) “Al pió bèll e al pió grôss!” (Il più bello e il più grosso!) le fece eco la compagna “E l'é per côst che nuêter é gh'ôm paura a tuchêrel... a'n sia mai ch'al sbragòm!” (Ed è per questo che noi abbiamo paura

a toccarlo... non sia mai che lo rompiamo!) “Ah, sé... mé a'm sintiré in cölpa per töta la véta se, per sbàli, é fésa caschêr al só usèll!” (Ah, sì... io

mi sentirei in colpa per tutta la vita se, per sbaglio, facessi cadere il suo uccello!)

Settimio Ghironi, lo sguardo fisso e serio sulle due poverine, seguitava a tamburellare l'estremità di una penna sulla propria scrivania mentre, dall'alto dello scaffale, il rigogolo imbalsamato sovrastava, ad ali aperte, quella scena alquanto grottesca. E, nel mentre, la segretaria Sibilla- nota a tutti per la propria propensione ai pettegolezzi- dal suo ufficio- oltre la parete della presidenza- origliava, scandalizzata, quel dialogo equivoco, traendone le conclusioni più azzardate. Esterrefatta, rimase impietrita, come in trance, mentre il suo cervello confabulava freneticamente poiché lei, di quel rigogolo, non sapeva nulla: nemmeno lo aveva visto né, quantomeno, ne aveva udito parlare, chiusa com'era tra le sue scartoffie che ricoprivano interamente il suo tavolo. Tutto accadde un Lunedì mattina... Entrando in presidenza, il Ghironi si accorse, con sconcerto, dell'assenza del volatile. In preda ad una fibrillazione che gli impediva persino di articolare un discorso, convocò immediatamente le due bidelle per chiedere se ne sapessero qualcosa. Di fatto, quel giorno, all'apertura della scuola, esse avevano notato che il vetro nell'abbaino del bagno dei maschi era infranto. Avevano dovuto rassettare i cocci in terra. La prima idea che era balenata alla loro mente era stata quella di un maldestro calcio ad un pallone... non sarebbe stata, infatti, la prima


volta che una partita a calcio tra ragazzi provocava la rottura di una finestra. Mai avrebbero immaginato che lo sfondamento di quel vetro rappresentasse un varco per un ignoto ladruncolo intenzionato a portare via il rigogolo del direttore. “Bisognerà denunciare il furto... immediatamente!” tuonò il Ghironi e, detto fatto, incaricò le due donne di recarsi in questura per avvisare i carabinieri dell'accaduto. “Andate!” ordinò perentorio “E raccontate per filo e per segno ogni particolare senza tralasciare il benché minimo dettaglio!... Se scoprirò il nome di quel manigoldo... ahhh, non la passerà liscia! Suvvia... cosa aspettate? Andate e siate precise, meticolose … ” “Sgnör maresciâl...” (Signor maresiallo...) iniziò Palmira “Int la nöstra scöla l'é sucèss un lavör gnân da crèder!” (Nella nostra scuola è accaduto un fatto neanche da credere!) “E se non ci credete... perché mai lo volete denunziare?” replicò, pigramente, il carabiniere. “Mó no... é fèven per dîr ch'l'é sucèss un disâster!” ( Intendevamo che è successo un disastro!) precisò

Eges. “Ahhh... sentiamo!” e l'uomo in divisa sprofondò più comodamente sulla sua poltrona, al di là di una scrivania. “Al gh'a da savèir che al nöster diretör l'é un grân casadör!” (Deve sapere che il nostro direttore è un

gran cacciatore!) proseguì Palmira “Un ed chi casadör ch'a'n gh'é scàpa gninto...” (Uno di quei cacciatori a cui non sfugge nulla) calcò la mano, notando che il maresciallo stava annotando quanto riferito. “Un dé l'é gnü a scöla e al s'a fât vèder al só usèll...” (Un giorno è venuto a scuola e ci ha mostrato il suo

uccello...)

“Uno scandalo!” esclamò il carabiniere sgranando gli occhi. “Eh...mó al pêz al gh'a incòra da gnîr!” spiegò Eges “Al s'a anca bravè perchè mé e la Palmira é'n vrìven mia tuchêrel per paura ch'al s'é sbraghésa!”(Ci ha anche sgridate perchè io e la Palmira non

volevamo toccarlo per paura che si rompesse) “Sé, sé...” la incalzò l'altra bidella “Difàti al pighèva in zò...” “Eh... e ló al pretendìva ch'égh pasésen al strâss da dêregh zò la pölvra...” (Eh... e lui pretendeva che

ci passassimo lo straccio da spolverarlo...) “Pazzesco!” commentò il maresciallo. “L'é acsé gelös dal só usèll...puvrètt... l'é anca da capîr, a la só etè!” (E' così geloso del suo uccello... poveretto... è anche da capire alla sua età!) osservò Eges. “Ma voi, alla fine, gli avete obbedito?” indagò il carabiniere “Sì... insomma... lo avete spolverato?” “Mai!” replicarono le donne in coro. “Anca perchè...” azzardò Palmira “...Adèss a'n gh'é pió!” Il maresciallo aggrottò le sopracciglia: “Come sarebbe a dire che non c'è più?” ma, ancor prima di ricevere risposta, spazientito della sua stessa incomprensione, l'uomo dell'Arma tagliò corto: “Ho afferrato perfettamente...” soggiunse “ Ma vedete... è necessario lasciare che la cosa si sgonfi, è utile insabbiare il tutto per salvaguardare il buon nome della scuola... Credete a me che svolgo questo mestiere da vent'anni e ne ho viste di tutti i colori...Voi adesso tornate alle vostre faccende e comportatevi come se nulla fosse successo...” “Al dìs bèin ló!” (Dice bene lei!) inveì Palmira “Mó... agh j spiéga ló al diretör! Capésel mia che mé


e l'Eges é sôm in perécol ed licensiamèint?... E tött per 'n usèll!” (Ma... glielo spieghi lei al direttore!Non

capisce che io e l'Eges rischiamo il licenziamento?... E tutto per un uccello!)

Ma il maresciallo ignorò le obiezioni delle due bidelle e le sospinse garbatamente verso la porta. Nella piccola scuola media di campagna regnava un clima oltremodo teso. Il direttore risultava più che mai intrattabile dopo la sparizione del suo trofeo di caccia; le due bidelle erano seriamente preoccupate sul loro futuro lavorativo ed erano questi i soli tre personaggi, all'interno dell'istituto, ad essere a conoscenza di cosa fosse realmente accaduto. Tutti gli altri, invece, percepivano quanto qualcosa di misterioso fosse sopraggiunto ad infrangere i già precari equilibri all'interno di quell'edificio, ma ne ignoravano l'esatta natura. E, il fatto di non sapere, diede adito alle più ardite mormorazioni, fagocitate dalla malefica fantasia della segretaria Sibilla che- diceva- “aveva udito quella conversazione equivoca tra il direttore e le due bidelle” e lo ripeté talmente tante volte, con un tale ardore, da suscitare il più malizioso vociare in tutto il paese. Sibilla non aspettava altro per infangare il nome di “quel despota, quell'inetto del Ghironi” e i pettegolezzi rimbalzarono velocemente di bocca in bocca dando origine ad una serie di eloquenti ammiccamenti, di furtive gomitate, di espressioni sdegnate ogni qualvolta Settimio, o sua moglie Edvige, comparivano lungo le strade del paese, in chiesa, al mercato... La signora Ghironi intuiva la malizia di quegli sguardi che la squadravano dai capelli cotonati ai tacchi a spillo e, non riuscendo a farsene una ragione, rispondeva con un'espressione infastidita, con un ghigno che riassumeva un indispettito: “E allora...?!?” Poi, sconcertata, in preda ad una sensazione di persecuzione, si rivolgeva al marito e, istericamente, gli confidava tutto il suo disagio: “Ma insomma, Settimio, si può sapere cos' hanno quelle da scrutarmi a quel modo?... Guardale, per diamine!... Da mezz'ora non mi tolgono gli occhi d'addosso!” Ma il marito, laconico, la confortava: “Pura invidia, Edvige... Non è da tutte essere la moglie di un direttore!...” Una mattina, il Ghironi era a scuola quando sua moglie ricevette una telefonata: “Pronto?” “Edvige... é't té? E' sun Don Remigio...” La donna raccolse le idee: ma sì... certo... lo zio prete di suo marito: “Vèh... Don Remigio... e alöra 'sa gh'é ed növ?” (Vèh... Don Remigio... e allora che c'è di nuovo?)

domandò. “E' vrìva capîr s'é sîv vìv o môrt, vést ch'jn dü mèis ch'a'v fèe pió né vêder né sintîr...!” (Volevo sapere

se siete vivi o morti, visto che da due mesi non vi fate più né vedere né sentire!)

“Coosa?” trasecolò la donna “Mó 'sa dzìv???... Mó se Settimio l'é gnü a catèrov ch'al srà gnân 'na smàna e l'é armês vösch da la matèina a la sìra... ahhh, 'na bèla riconosèinsa, và là!” ( Cooosa?Ma

cosa dite??? ...Ma se Settimio è venuto a trovarvi che non sarà neanche una settimana ed è rimasto con voi dalla mattina alla sera … ahhh, una bella riconoscenza, va là!) “Mó quând?” (Ma quando?) allibì il sacerdote “Vèh... guèrda che l'ültma völta ch'é l'ó vést l'é stèe

quànd j'òm masè al nimêl... e l'éra Otòber. Adèss é sômm sòtt a Nadêl... fâgh i cünt!...Dü mèis sunèe!... Mó tânt... Don Remigio l'é gnü vècc e al servéss pió a gnìnto! E pinsêr che quànd Settimio l'éra un ragasöl... còll ch'é n'ó fât per fêrel dvintêr quelchidün...” (Vèh... guarda che l'ultima volta che l'ho visto


è stato quando abbiamo ucciso il maiale... ed era Ottobre. Adesso siamo sotto Natale... facci i conti!... Due mesi suonati!... Ma tanto... Don Remigio è diventato anziano e non serve più a niente! E pensare che quando Settimio era un ragazzo... quello che non ho fatto per farlo diventare qualcuno!...) “Ahhh... fösa stèe per vuêter al sré dvintè un prêt...”(Ahhh... fosse stato per voi sarebbe diventato

sacerdote...) osservò Edvige, togliendosi, una volta per tutte, quel sassolino dalla scarpa “Gnân mêl ch'al v'a mia dèe a mèint senò anca l'Edvige- ch'é sun pó mé- la srévv armêsa póta!”(Meno male che

non vi ha dato retta altrimenti anche l'Edvige- che sono poi io- sarebbe rimasta zitella!). Ma, ancor prima di

finire quella frase, i suoi pensieri slittarono a quella domenica mattina quando il marito era uscito di casa ancor prima dell'alba, lasciandole sul tavolo di cucina quel biglietto in cui la informava della sua destinazione: proprio la canonica di suo zio Remigio... Dunque... le aveva mentito!? E, se sì, dove si era realmente recato a quell'ora antelucana? E dove era rimasto per tutto quel giorno, sino a quando le campane della chiesa richiamavano i fedeli alla messa vespertina? Un guizzo... e un'associazione con tutti quegli sguardi di commiserazione da parte delle comari del paese, con i loro ammiccamenti che seguivano il suo passaggio, con le parole pronunciate a metà, in sordina... Un guizzo... e un sospetto atroce, un'idea che le trafiggeva il cuore così come lo staffilo aveva trafitto mortalmente quello del suino due mesi prima: “Settimio ha un'amante!” “Edvige... Edvige... é't incôra lé?” (Edvige... Edvige sei ancora lì?) si preoccupò il sacerdote dinnanzi a quell'improvviso silenzio. “Sé... égh sun...” (Sì... ci sono...) mormorò la donna con la voce rotta dal pianto.

“Bèin... agh sun anca mé...” (Bèh... ci sono anch'io) disse tristemente il parroco “E quànd é vrìv gnîr a catêrom... é'v vèdd sèimper luntéra!” (E quando volete venirmi a trovare... vi vedo sempre volentieri!) “E' vègn... é vègn mé... é vègn dmatèina... é sèint un bisôgn urgìnt ed confesèrom!” (Vengo... vengo

io... vengo domattina... avverto un bisogno urgente di confessarmi!) proruppe Edvige. “Palmira...” sussurrò la bidella Eges “Secònd té al maresciâl aràl capì dabòun còll ch'é gh'ôm cuntè?” (Secondo te il maresciallo avrà capito davvero quello che gli abbiamo raccontato?) “Vèh, Eges... nuêter j'ôm fât còll ch'al s'a comandè al diretör... al vrìva ch'andésen in questura e nuêtri agh sôm andèdi... Al vrìva ch'é cuntésen i fât ai carabinér e nuêtri égh j ôm cuntè...” (Vèh,

Eges... noi abbiamo fatto quello che ci ha ordinato il direttore... voleva che andassimo in questura e noi ci siamo andate... Voleva che raccontassimo i fatti ai carabinieri e noi glieli abbiamo raccontati...)

“Sé...” insistette la compagna “Però mé é gh'ó al magòun l'istèss... a'm sa quèsi d'avèir sbagliè quèll!” (Sì... Però io ho ugualmente l'ansia... mi sembra quasi di aver sbagliato qualcosa!) “Mó sta tranquéla, Eges! T'é't farè mia gnìr l'esaurimèint per 'n usèll, ahn?” (Ma stai tranquilla, Eges!

Non ti farai mica venire l'esaurimento per un uccello, eh?) “Guèrda, Palmira...” (Guarda, Palmira...) piagnucolò la donna “Sêt che a la nöt é'n gh'la chêv pió a durmìr?” (Sai che alla notte non riesco più a dormire?)


“Esagerèda!...” (Esagerata!) esclamò l'altra, ma, subito, assunse un'espressione pensierosa, prima di

irrompere: “Però a't pös mia dêr tôrt... Anca mé égh pèins sèimper... ansi... dal völti é'm l'insògn anca!... Un incubo! E' vèdd l'usèll ch'al torna vìv... Al svulàsa... e mé e té là, cun la granèra in mân, ch'é sercòmm ed masêrel...E a còll punt lé al sèlta föra al diretör e al dìs: “E' sìv licensièdi!”... Mó a's pöl viver cun 'n osesiòun cumpàgna?... Nuêtri ch'j'ôm fât gnìnto in tött còll casèin ché!?!” (Però

non ti posso dare torto... Anch'io ci penso sempre... anzi... a volte lo sogno anche!... Un incubo! Vedo l'uccello che torna vivo... Svolazza... ed io e te, là, con la scopa in mano che cerchiamo di abbatterlo... E a quel punto esce il direttore e dice: “Siete licenziate!”... Ma si può vivere con una tale ossessione?... Noi che non abbiamo fatto nulla in tutto questo guazzabuglio!?!) “E alöra... 'sa vréset fêr?” (E allora... cosa intendi fare?) domandò Eges.

“Eh... mé 'n idèa égh l'aré!... Andêrom a cunfesêr dal prêt... Sé... t'é capì bèin: mêter a pôst la mé anma! Guèrda che dal völti la vêl di pió 'na paröla d'un prêt che 'na spörta ed medzèini d'un dotör, vèh?” (Eh... io un'idea ce l'avrei!... Andarmi a confessare dal prete... Sì... hai capito bene: sollevare la mia

anima! Guarda che a volte vale di più una parola di un prete che una sporta di medicine di un dottore, sai?)

“Bèin... mó Palmira... mó é't màta? Mó capéset mia che Don Remigio l'é al zio dal diretör?...” (Bèh..ma Palmira... ma sei matta? Ma non capisci che Don Remigio è lo zio del direttore?) si schermì Eges.

“Giöst apùnt, Eges!... Só bèin ch'al gh'a al segreto ed la cunfesiòun, però alméno ch'al sàpia che nuêtri é'n gh'intròm gnìnto... E vést che al maresciâl al s'a mia dèe sudisfasiòun- che chisà s'l'a capìalméno ch'agh sia 'n êtra autoritèe ch'a's da a mèint... Dal rèst l'é al só mistêr, ahn? Sintîr còll ch'agh va a dìr la ginta... dêregh 'na sprichèda d'aqua sànta... fêregh fêr la penitèinsa ...e dôp é't vìn föra pulì cmé un ninsöl int la lisciva...” (Per l'appunto, Eges!... So bene che ha il segreto della confessione,

però almeno che sappia che noi non c'entriamo nulla... E, visto che il maresciallo non ci ha dato soddisfazioneche chissà cos'ha capito- che ci sia almeno un'altra autorità che ci ascolti... Del resto è il suo mestiere, eh? Ascoltare quello che gli va a dire la gente... darle una spruzzata d'acqua santa, farle fare la penitenza... e dopo vieni fuori pulita come un lenzuolo nella lisciva...) “Mó sêt, Palmira, ch'é't gh'è ragiòun?... Quànd égh vêt ch'é vègn tégh?” (Ma lo sai, Palmira, che hai

ragione?... Quando ci vai che vengo con te?) “Dmatèina a sètt ör... préma d'arvîr la scöla!” (Domattina alle sette, prima di aprire la scuola!) decise Palmira. “Va bèin... a'm fàgh catêr in piàsa, davanti a la statua ed Garibaldi!”(Va bene... mi faccio trovare in

piazza, davanti alla statua di Garibaldi!) Nella penombra opalescente dell'oratorio, tre anime aspettavano di venir confessate. “Palmira...” bisbigliò Eges all'orecchio della collega “Mó chilée éla mia la mujéra dal diretör?” (Palmira... ma quella non è la moglie del direttore?) “Fa finta ed gnìnto, Eges!...” la esortò l'amica “ La srà gnüda lée per spurghêr tótt i pchèe ed só marî!” (Fa finta di niente, Eges!... Sarà venuta lei ad espiare tutti i peccati di suo marito!) “Eh... difàti la'n gh'a mia 'n aria tànt cuntèinta, ahn?” (Eh... in effetti non ha un'aria molto contenta,

vero?)


Con passo stanco sotto il peso degli anni, l'ombra nera di Don Remigio incedette dalla canonica al confessionale, dove si appostò in religioso raccoglimento. “Vàgh préma té, Palmira!” (Vacci prima tu, Palmira!) mormorò Eges alla compagna. La donna scattò in piedi per dirigersi lungo la navata. Si inginocchiò sul gradino igneo davanti alla grata da cui le giunse l'invito del prete: “Elenca i tuoi peccati...” Palmira avvertì un senso di sconforto dinnanzi a tanta freddezza e cercò subito di instaurare un dialogo molto più confidenziale: “Don Remigio... é sun mé... la Palmira: la bidèla ed la scöla!” (Don Remigio... sono io... la Palmira: la

bidella della scuola!)

“Va bene, figliola...” accondiscese la voce oltre la grata “Confidami i tuoi peccati!” “Dòunca, reverènd... mé é gh'ó la cusinsia a pòst, ahn? Ché mé j'ó mai fât gninto 'd mèl! Anca se... anca se la mé véta l'é cambièda da quànd j'ó vést l'usèll dal diretör! E'n fâgh êter che insugnêrel... l'é 'n osesiòun!...Mó mé a'n vré mai che la ginta la pinsésa ch'é sia stèda mé a törel... mé é'n l'ó mai tuchè!” (Dunque, reverendo.. io ho la coscienza a posto, eh? Ché io non ho mai fatto niente di male! Anche

se... anche se la mia vita è cambiata da quando ho visto l'uccello del direttore! Non faccio altro che sognarlo... è un'ossessione!... Ma non vorrei mai che la gente pensasse che sia stata io a prenderlo... io non l'ho mai toccato!)

Dall'altra parte della grata, Don Remigio inorridì. Rimase attonito, senza parole. “A'm dâga pör la penitèinsa, s'al crèdd, che mé é sun anca bòuna ed biasêr un rosari intêr mèint'r é tìr al strâss!” (Mi dia pure la penitenza, se crede, ché io sono anche capace di recitare un intero rosario mentre lavo i pavimenti!) proseguì la donna. Con la voce strozzata dallo sbigottimento, il prete ebbe solo la forza di sillabare: “Ora pro nobis!” “Vèh, Eges... l'a capì tótt vèh?... A'm sun cavèda un pèis dal stòmegh... A'm sèint acsé solevèda, finalmèint!... Al m'a gnân dèe la penitèinsa! Dal rèst... per cosa ch'j'ó fât gninto? Dai... va mó là ch'é tòca a té!”(Vèh, Eges... ha capito tutto, vèh?... Mi sono tolta un peso dal cuore... Mi sento così sollevata,

finalmente!... Non mi ha neanche dato la penitenza! Del resto...per cosa che non ho commesso niente? Dai... va là, ché tocca a te!)

Eges s'incamminò lungo la navata. Giunta al confessionale, si inginocchiò. Non udendo alcuna voce fuoriuscire dalla grata, si sollevò leggermente sui talloni, si sporse e, con un dito, scostò la tenda. Vide Don Remigio con una mano sul petto. Rassicurata della sua presenza, lasciò ricadere la cortina, ritornò nella posizione originaria e, senza nemmeno attendere l'invito del sacerdote- che chissà se fosse mai giunto- iniziò da sola la propria confessione: “E'n gh'ìva mia al curàg ed gnirom a cunfesèr... E' sun l'Eges, la bidèla...E' sun gnuda per cuntêregh la fòla ed l'usèll dal diretör!” “Ma per l'amor di Dio!” esclamò Don Remigio, sconcertato, a denti stretti, scandendo per bene le sillabe. La donna fraintese. Si rialzò e, rianimata, raggiunse la collega in fondo alla chiesa. “S't'al détt?” (Cosa ti ha detto?) indagò Palmira.

“Vèh... al s'é schermì anca ló ch'é gh'andésa a cuntêr 'na stupidèda cumpàgna! L'é inteligìnt... l'a capì subétt che mé é sun sèimper stèda onèsta. Al m'a gnân lasè spieghêr... L'a détt: “Ma per l'amor di Dio!”... Capéset? Adèss é prôm stêr tranquéli... dai, Palmira...ch'é gh'ôm da arvìr la scöla!” (Vèh...


si è schermito anche lui che gli andassi a raccontare una simile stupidata! E' intelligente... ha capito subito che sono sempre stata onesta. Non mi ha neanche lasciato spiegare... Ha detto: “Ma per l'amor di Dio!”... Capisci? Adesso possiamo stare tranquille... dai, Palmira... che dobbiamo aprire la scuola!) “Remigio...”singhiozzò Edvige, giunta davanti al confessionale “Settimio ha un'amante, ne sono certa!... Già da tanti giorni noto uno strano atteggiamento della gente, nei miei confronti. Nei tradimenti sono sempre i diretti interessati gli ultimi a sapere... Ed io mi chiedevo sconcertata cosa avessero mai le comari del paese da mormorare tra di loro alle mie spalle... Poi, finalmente, la tua telefonata è stata come uno squarcio tra le nuvole... una rivelazione!” “La mia... telefonata?” indagò il prete. “Sì... Settimio, un giorno, mi aveva lasciato un biglietto. Diceva che sarebbe venuto da te. Che avrebbe passato l'intera giornata in tua compagnia. Ma tu non lo vedi dallo scorso Ottobre, come tu stesso mi hai riferito. Dunque... dov'è andato?... E nel frattempo il paese mormora...” “Vox populi, vox Dei!” commentò il sacerdote passando poi, immediatamente, dal latino al dialetto: “ Vèdet s'l'ésa dèe a mèint a mé? Al dvintèva prêt e adèss é'n gh'é sré mia tött còll casèin ché!” (Vedi

se mi avesse ascoltato? Sarebbe diventato sacerdote e adesso non ci sarebbe tutto questo guazzabuglio!)

“Quello che più mi irrita in questa storia è il fatto di ignorare chi sia lei...” proseguì la donna. “Lei chi?” “Ma l'amante, perdiana! Se me la trovassi davanti le caverei tutti e due gli occhi, stanne certo!” “Mó é't pròpria sicüra ch'é sién söl dü e mia quâter?”(Ma sei proprio sicura che siano solo due e non

quattro?) osservò, con scaltrezza, il sacerdote. Edvige non fornì spiegazioni. Usò la stessa tattica già impiegata da Settimio con lei. Una mattina, aspettò che egli uscisse per andare a scuola, poi preparò le valigie e gli scrisse un biglietto: Vado da mia sorella Norma, a Firenze. Non torno più. Edvige Di fatto, da Norma non andò mai, come Settimio poté appurare di persona quando, spinto più dall'orgoglio ferito che dall'amore, andò a cercarla. Di lei non seppe più nulla, né mai capì il perché.. Non gli fu mai dato di sapere il motivo di quella fuga insensata della moglie. Don Remigio, fedele al sacramento, mantenne sempre il massimo riserbo. Le due bidelle continuarono a lavorare nella scuola, comportandosi come se nulla fosse mai successo. Quanto al rigogolo... fu rinvenuto da una scolaresca durante un'uscita didattica. Lo trovarono, umido ed infangato, in una pozza d'acqua stagnante, sulla riva del fiume. Lo raccolsero, lo ripulirono alla bene e meglio e lo riconsegnarono al direttore, certi di assicurarsi un encomio per quel grande favore. Invece... invece il Ghironi lo strappò con prepotenza dalle mani dell'insegnante che glielo porgeva e, in uno scatto di collera immotivata, lo scagliò nel cestino dei rifiuti, sollevando uno sbuffo di piume multicolori...


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