Centoventi giorni - Egidio Braghini

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Centoventi giorni. Lina, dopo le scuole elementari aveva frequentato quelle superiori e poi aveva proseguito per conseguire un titolo di studio che avrebbe potuto permetterle di insegnare. Ma prima di finire gli studi, suo padre era andato a seminare del frumento in un giorno di vento di tramontana e aveva preso un colpo di freddo, morendo poco dopo di polmonite. Essendo la maggiore di tre fratelli, lei aveva dovuto sacrificare lo studio per andare a lavorare presso una sarta che aveva la bottega in una delle ultime case del paese. Di giorno confezionava camicie, gonne, vestaglie e alla sera, in casa e al lume di una candela, imbastiva con le spille il lavoro della giornata successiva. Alcuni anni dopo i suoi fratelli si erano trovati un lavoro nelle campagne come braccianti, sua madre si era messa con un altro uomo che la maggior parte del giorno e della notte era più ubriaco che sobrio e Lina si era sposata con un uomo molto ricco ed era andata ad abitare in città, a Parma. La casa era al terzo piano di un grande fabbricato costruito con dei mattoni faccia a vista rossi e in tutte le stanze c’erano stipati enciclopedie, libri e quaderni con migliaia di appunti. Il balcone si affacciava sul cortile di un vecchio convento che i frati avevano utilizzato per più di tre secoli e che ora era stato trasformato dalle istituzioni in scuole elementari. Spesso lei sbirciava dentro alle finestre e guardava i bambini con i grembiulini, le cartelle e i sussidiari in mano, arrivare e sedersi composti sui piccoli banchi. Li guardava trafficare con i calamai, i pennini e la carta assorbente e immaginava di essere una maestra mentre insegnava loro a leggere, a scrivere e fare i conti. Ma ormai lei era diventata troppo vecchia per riprendere gli studi e questo le pesava moltissimo nel cuore. Più passavano gli anni e più diventava irascibile e triste. Ora era ricca. Non doveva più lavorare e passava i minuti e le ore del giorno con lo sguardo perso nel vuoto e a sentire un orologio ticchettare. Fin da quando era bambina non sopportava i suoi capelli ricci, di un colore tra il biondo e il rosso rame, e ora li odiava ancora di più. Non voleva che diventassero lunghi e così li tagliava con le forbici da sarta, prima che arrivassero a coprirle le spalle. Odiava la sua pelle chiara coperta da lentiggini, il corpo esile e i seni troppo piccoli. Si vestiva sempre come le star del cinema, con i vestiti aderenti e le cinture che stringevano in vita, solo per far morire di rabbia le amiche che non potevano permetterselo. Era arrivata a non andare più a messa, né a teatro, né a comprare la frutta nel negozio sotto casa. Andava solo a passeggiare nei giardini comunali, ma non vedeva la gente salutarla passandole accanto. Suo marito la vedeva sempre più depressa e il giorno del suo quarant’esimo compleanno le aveva regalato un libro con la copertina in pelle e ancora tutte le pagine bianche. Ma, pur avendo una calligrafia morbida, elegante e femminile, Lina non trovava nessuna parola da poter scriverci sopra. Passava intere ore sul balcone, con quel libro stretto fra le braccia, a guardare dentro le finestre della scuola. Non sapendo più cosa fare, suo marito aveva chiesto aiuto a un suo amico che abitava a Mantova. Era uno che conosceva un sacco di persone e trafficava con delle macchine usate e dalla provenienza molto dubbia. Era arrivato un giorno con una Lancia Spider nera e aveva chiesto a Lina di fare un giro con quella macchina perché, se fosse stata di suo gradimento, per due soldi avrebbe potuto averla. E così, Lina cominciò ad andare sulle strade della bassa che portavano fino contro all’argine maestro del grande fiume e poi fino a Mantova. Andava nelle case di campagna ad insegnare a leggere e a scrivere alle donne perché sapessero far meglio i conti e tenere testa alla parlantina dei mediatori quando venivano nelle corti per comprare capponi, galli e conigli. Anche se alcuni vecchi non imparavano a scrivere una sola parola giusta, le piaceva portare loro dei giornali e dei libri che parlavano di altra gente, di altri mondi e di altri dolori. Per i suoi insegnamenti non prendeva soldi, ma uova, patate, cipolle o zucche seccate al sole. O quando i contadini non avevano neppure quello si accontentava di dar loro una carezza sul viso e andare via con il cuore gonfio e pulito. Con il passare del tempo era diventata una brava pilota e tutti i giorni spingeva sempre di più sull’acceleratore e andava sempre più lontano. Le piaceva sentire l’aria fra i capelli, il sole che bruciava la pelle scoperta e correre lungo le carraie solo per alzare una scia di polvere dietro di lei. Quando sentivano il rombo del suo motore, i ragazzi smettevano di prendere le rane e i pesci con le


mani nude e uscivano dai fossi. I bambini, che dalle chiaviche facevano i tuffi nell’acqua alta, si fermavano e ridevano, urlavano e salutavano. Nelle campagne i contadini smettevano di ammucchiare il fieno o la paglia e correvano in strada, si appoggiavano al manico del rastrello e ammiravano quel bolide nero passare. Ma poi c’era stata quella maledetta buca, quella maledetta curva e quel maledetto salto giù dall’argine. Il cielo si era capovolto e l’odore del fango si era mescolato con quello della benzina, delle gomme, del vomito e dell’olio bruciato. Le lamiere si erano contorte macchiandosi di sangue e i fogli dei quaderni erano volati via mescolandosi alle foglie secche cadute dai pioppi. Il suo cuore si era fermato per un istante e su tutto il corpo sentiva il dolore delle ferite e quello delle ossa spezzate. Aveva pianto e con il volto bagnato dalle lacrime aveva chiamato aiuto a voce alta. I minuti erano diventati ore e la luna piena, le lucciole e le stelli lucenti illuminavano una notte che non era più sua. Sentiva le falene che le accarezzavano il viso, il verso di una civetta e quello dei grilli e delle cicale che non sembrava si fossero accorti di nulla. Pregava la Madonna e pensava al marito che, nel soffrire per la sua assenza, sarebbe andato più volte giù in strada convinto di averla sentita arrivare. E lei sapeva di essere lì e di non potersi muovere. Poi, all’alba erano arrivate delle mani forti che, piantandole le dita nelle carni, l’avevano tirata fuori dalle lamiere contorte. Poi ricordava le voci che dicevano di fare in fretta, l’odore dell’erba appena tagliata di cui era pieno il carro, il rumore delle ruote cerchiate sulla ghiaia della strada e l’odore acre del fumo del trattore. Poi, ancora, quelle mani forti che la sollevavano di nuovo, il cigolio di una porta, il rumore di alcune sedie in legno che venivano spostate in gran fretta e quello di piatti in ceramica che venivano tolti dalla tavola e appoggiati sulla madia per le farine. Poi l’odore di polenta abbrustolita sul fuoco che era servita per colazione e quello di aceto di vino per disinfettare le ferite. Sentiva le mani di una donna che con uno strofinaccio umido lavava via il sangue secco e il vomito dalle ferite, la voce di una bambina che chiedeva al dottore se era grave e lui che diceva che bisognava portarla subito all’ospedale altrimenti non sarebbe vissuta fino a quella stessa sera. ***** Ora erano passati ben centoventi giorni da quella notte. Per tutto quel tempo, Lina era rimasta in un letto con le lenzuola che odoravano di sangue, sudore e medicine ad aspettare che le ferite guarissero dall’infezione e che le ossa si attaccassero ancora insieme. Era appena passato capodanno, c’era molto freddo e suo marito l’aveva portata sul luogo dell’incidente. La campagna era coperta da una coltre bianca, la strada da un insidioso strato di ghiaccio e c’erano volute due ore per arrivare. La neve aveva coperto ogni cosa. Tutto era pulito e si sentivano solo i versi dei merli, dei fagiani e delle cornacchie. I pioppi, le querce e gli olmi erano coperti da uno strato bianco di aghi appuntiti e le loro chiome ondeggiavano impercettibilmente sotto la spinta del vento dell’inverno. Lina sentiva i capelli mossi dall’aria gelida, il gelo sulle guance e solo in quel momento si ricordò che, il giorno dell’incidente, in macchina con lei c’era anche il suo gatto. Non aveva mai saputo la razza a cui apparteneva, ma aveva una testa che sembrava una grossa mela, il pelo lungo, morbido, rosso come la ruggine e con alcune macchie nere disegnate sopra. Era un gatto di città, socievole e mangiava solo le cose che gli preparava lei: polpette, riso e tortellini inclusi. I topi, le lucertole e gli uccellini non sapeva che si potessero mangiare. Nessuno aveva trovato il suo corpo e sicuramente non era morto, ma era scappato. E lei si chiedeva se era possibile che avesse passato l’autunno a correre libero in golena. Lo immaginava a cacciare topi e lucertole all’ombra delle foglie del granoturco, a giocare con i girini e a farsi le unghie contro i pioppi. Ma ora era inverno e sentiva la necessità di cercarlo. Così disse a suo marito di rimanere in auto, di tenere il motore acceso per stare al caldo e di aspettare un paio di ore, perché lei avrebbe fatto un giro. Dentro la golena c’era una casa con il tetto crollato e le travi marcite dall’acqua. La porta d’ingresso era divelta e sul pavimento dell’andito c’era uno strato di fango ghiacciato con ancora delle orme impresse dentro. Le bottiglie rotte erano ovunque, i vetri delle finestre non c’erano più e tutt’attorno arbusti di pioppo e di salice erano cresciuti arrivando a superare l’altezza delle mura.


L’aia era coperta dalla neve ghiacciata con impronte di uomini, di cani, di lepri e di vacche o cavalli. Fra un cespuglio di rovi c’era un laccio che serrava le zampe di una lepre, mentre il resto del corpo era stato mangiato e sulla neve non era rimasto altro che una macchia nera di sangue. Lina capì che il suo gatto non poteva essersi rifugiato in un posto come quello. Quindi decise di scendere dall’argine maestro e andare verso la corte dove aveva avuto le prime cure dopo l’incidente. Per risparmiare tempo non seguì la strada, ma prese una scorciatoia che passava per i campi. Il paesaggio sembrava polare, fatto da una distesa di neve e ghiaccio che copriva la campagna. I rovi e le siepi erano coperti dalla brina, nei fossi l’acqua era ghiacciata e una sottile nebbia argentata reggeva il cielo. Nei filari della vigna le viti erano spoglie, gli olmi erano stati potati da poco e le fascine ghiacciate erano ancora accatastate contro ai loro tronchi. Lina arrivò nella corte non per l’entrata principale, ma passando da dietro. Il vento aveva ammucchiato la neve in ogni angolo esposto e disegnato strane colline ovunque. La concimaia era coperta dalla neve e il porcile e il pollaio erano ben chiusi per impedire agli animali di uscire. Lunghi candelotti di ghiaccio pendevano pericolosamente dai coppi, il fumo dei camini volava basso e due cani neri, legati alle catene, mostravano i denti ringhiando. C’erano due uomini vestiti con pesanti tabarri che stavano sistemando un mucchio di pali di olmo contro le mura della casa e puntellando il tetto di una barchessa che si era appesantito troppo. L’aia era coperta dalla neve gelata e mentre Lina l’attraversava scricchiolava ad ogni passo. La porticina del portone era aperta ed entrò sotto al grande portico pieno di carri, gabbie di conigli e tante zappe, falci, vanghe e rastrelli appesi al muro. La porta della stalla era socchiusa e dentro s’intravedevano delle persone che curavano le vacche, le manze e davano il latte ai vitellini. Invece la porta di casa era chiusa e Lina bussò più volte prima che le venisse aprire una vecchia con un viso sciupato, un corpicino esile e leggermente piegato in avanti. Indossava una camicia nera a pois bianchi, una lunga gonna nera che le arrivava fino alle caviglie, un fazzoletto nero legato dietro la testa e un grembiale bianco con cui si stava asciugando le mani. Era mattina, ma le imposte delle finestre erano chiuse per non fare entrare il gelo dell’inverno. La stanza era buia, illuminata solo dalla fioca luce di una lampada a petrolio appesa sopra alla tavola e dal fuoco acceso nel camino. Sopra al fuoco c’era appeso un pentolone dove stavano bollendo le ossa, la coda e i piedi del maiale macellato il giorno prima. Sul soffitto c’erano appesi dei salami, coppe e cotechini ad asciugare e il fumo, l’odore di grasso e di concia erano ovunque. La vecchia guardò Lina con diffidenza. Il giorno prima aveva aperto ad un uomo con una fisarmonica a tracolla che le aveva detto di essere un musicista e di saper curare le storte e il fuoco di sant’Antonio. Ma quando lei si era accorta che era un ladro aveva preso in mano un forcone e l’aveva scacciato. Ma lui, prima d’andarsene, le aveva detto di essere uno stregone e di aver lanciato un maleficio sulla casa. Lei credeva nei fantasmi, nei demoni, nei morti che andavano a bussare nelle case e si era spaventata. Aveva tolto i pioli a una vecchia scala, li aveva legati assieme a formare quattro croci e li aveva portati negli angoli della corte e messi in terra coperti con del sale. Poi era andata dietro la stalla, aveva spostato la neve e sollevato alcune pietre per raccogliere della schiuma dai rospi e della bava dalle lumache. Aveva poi aggiunto alcune gocce delle sue urine e spalmato il tutto contro la porta di casa. Poi era rientrata, aveva appoggiato la schiena contro l’uscio della porta e aveva recitato un rosario, facendo due volte il segno della croce per la dritta e due volte al contrario. Infine si era inginocchiata e aveva chiesto al cielo di tenere lontano le disgrazie o almeno la tosse e la polmonite dalla sua famiglia. E ora aveva paura di stringere la mano e dare informazioni a una sconosciuta. Lina rimase sulla soglia di casa e le disse di essere la donna dell’indicente avvenuto l’estate scorsa e che il motivo per avere bussato alla sua porta era solo per cercare il suo gatto. Ma la vecchia le spiegò della povertà in cui viveva la sua famiglia e di quante difficoltà avessero per mangiare in quei giorni dove l’orto era sepolto sotto la neve. Disse che le piante da frutto erano spoglie, che le rane e i pesci gatto erano impantanati sotto al ghiaccio, che il miele delle api selvatiche era introvabile e che a forza di prendere con i lacci le cornacchie e le gazze perfino loro erano sparite. Disse anche che c’erano poche uova di gallina per fare le frittate e l’unica cosa che


abbondava era la polenta. Ma la polenta non si poteva sempre mangiare da sola. Quindi le disse che se avesse visto un gatto forestiero sicuramente lo avrebbe preso, ucciso, spellato e cucinato per servirlo alla sua tavola, facendolo passare per uno dei suoi conigli. Delusa, Lina chiuse la porta alle sue spalle e tornò fuori. Nella corte abitavano altre due famiglie con l’ingresso di casa che dava direttamente sull’aia. Lina provò a bussare più volte alle loro porte, ma come risposta sentì solo lo scorrere dei catenacci e delle voci sussurrate di persone che, da dentro, chiudevano le imposte delle finestre. Così uscì dalla corte e decise di tornare dal marito. S’incamminò fra due filari di alberi da frutto coperti dalla brina. Sulla neve c’erano migliaia impronte di cani o di volpi che andavano in ogni direzione. Lina pensò a quello che gli aveva detto quella vecchia e si convinse che il suo gatto non poteva essere sopravvissuto per tutti quei mesi in quelle campagne. Anche se lei ormai era una donna ricca e abitava in città non si era dimenticata com’era dura la vita dei contadini. Stagione dopo stagione donne, uomini e ragazzi lavoravano per la maggior parte della giornata, solo per la loro sussistenza. I benefici erano pochi e, soprattutto in inverno, gli abitanti delle case e gli animali selvatici avevano troppa fame per ignorare un gatto di città.


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