IL CONGO IN VENDITA
n째ottantasette
GREENPEACE NEWS - N.87 - II QUADRIMESTRE 2007 - ANNO XXI - ISBN 88-85216 - STAMPA PROMOZIONALE POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L: 27/02/2004 N.46) ART.1 - COMMA 2 DCB - ROMA
NEWS
SOMMARIO
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3 MARE
FORESTE
10
6 ENERGIA
14
11 INQUINAMENTO
Non tonno più
Il Congo in vendita
PERIODICO DI GREENPEACE ITALIA
Fateci girare le pale
OGM
Carte truccate
Green my apple
Direttore editoriale/ Andrea Pinchera Direttore responsabile/ Fabrizio Carbone Redazione/ Laura Celani, Maria Carla Giugliano, Luigi Lingelli, Francesca Sarandrea Archivio foto/ Massimo Guidi Progetto grafico/ Saatchi&Saatchi Impaginazione/ Francesca Schiavoni, Paolo Costa Internet/ Marcello Colacino
IL CUORE VERDE DELL’AFRICA CEDUTO PER QUALCHE BIRRA
Redazione e Amministrazione/ Greenpeace ONLUS Piazza dell’Enciclopedia Italiana, 50 00186 Roma email:info@greenpeace.it tel. 06.68136061 fax: 06.45439793 Ufficio abbonamenti/ Augusto Carta tel.06.68136061(223)
di SERGIO BAFFONI
Sped. in abb. postale -Art.1, Comma 2 - Legge 46/2004 - DBC Roma
Abbonamento annuo 35 Euro Aut. Tribunale di Roma 275/87 del 8.5/87
12 DAL MONDO
Foto Copertina / Greenpeace/Philip Reynaers
GREENMARKET
Questo periodico è stampato su carta amica delle foreste: carta riciclata contenente alte quantità di fibre post-consumo e sbiancata senza cloro. L’involucro per l’invio del Greenpeace News è in Materbi, un materiale derivato dal mais, completamente biodegradabile.
EDITORIALE milioni (dei quali 8 riservati agli impianti "nuovi entranti"), ha di fatto bocciato il piano italiano. Avremmo voluto di più, anche se si tratta di un primo passo importante: ora il nostro governo dovrà impegnarsi in modo più serio a tagliare le emissioni di gas serra. Ma la fine del mese, il 31, ha riservato qualche buona notizia anche per le nostre amate balene. Ad Anchorage, alla riunione annuale della Commissione baleniera internazione c'era da attendersi l'offensiva del Giappone. È da tempo, infatti, che il suo governo - con l'aiuto di Norvegia e Islanda - cerca di "acquistare" il voto di quante più nazioni per mettere fine alla moratoria alla caccia alle balene. Con qualche successo preliminare, come nella risoluzione di St. Kitts, con la quale nel 2006 si era stabilito un fantomatico legame tra il depauperamento delle risorse ittiche e l'ingordigia delle balene. La strategia di Greenpeace, in vista della riunione di quest'anno, è stata uguale e opposta: cercare di portare al voto il maggior numero di nazioni contrarie alla caccia alle balene. Il risultato è stata una risoluzione che con 37 voti a favore e 4 contrari, ha ribadito che «la moratoria alla caccia baleniera commerciale resta in vigore e che le ragioni che hanno portato alla sua adozione sono ancora rilevanti». Inoltre, il cosiddetto programma scientifico con cui il Giappone continua a uccidere balene è stato rigettato con un voto di 40 a 2, e con lo stesso margine è passata una risoluzione che sottolinea l’importanza degli usi non letali dei cetacei, a cominciare dal whale watching. Un bel maggio, quello del 2007, ma ora è giugno ed è il momento di ripartire. Non prima, però, di avere pagato pegno nei confronti di tutti i sostenitori di Greenpeace, che ci danno la forza economica e morale per fare tutto questo: grazie.
Greenpeace/Philip Reynaers
di DONATELLA MASSAI A VOLTE, si prova una certa soddisfazione nel sedersi a contemplare gli obiettivi raggiunti. È la tentazione che viene, alla fine di questo maggio 2007, denso di buoni risultati per Greenpeace, nel mondo e in Italia. Proprio il 2 maggio, infatti, Steve Jobs ha annunciato una serie di impegni per rendere la Apple, e i suoi prodotti, più "verdi". La Apple era entrata nel mirino di Greenpeace a causa delle sue deludenti performance ambientali. Come è possibile, ci siamo chiesti, che l'azienda che da anni realizza alcuni dei prodotti più avanzati in termini tecnologici ed estetici - dal Macintosh all'Ipod - abbia scelto un profilo così basso, quando si passa a parlare di ecologia? Per prima cosa è stato lanciato un sito - Green My Apple - che si è addirittura aggiudicato l'Oscar del Web, il Webby Award. Poi, con alcune iniziative, la "vergogna" di una "mela" refrattaria a sostituire le sostanze chimiche e a riciclare in modo responsabile i propri prodotti è stata esposta in pubblico. Iniziative culminate con un'azione di Greenpeace Italia: all’apertura del primo Apple Store in Europa continentale, presso il nuovo centro commerciale Roma Est, c'eravamo anche noi... e con noi "Steve and Eve"! Ma per i dettagli vi lascio all'articolo dentro Greenpeace News. Piuttosto, vorrei passare al secondo "successo". Il 15 maggio, infatti, la Commissione europea ha deciso di "tagliare" il Piano nazionale di assegnazione delle quote di emissioni di gas serra presentato dall'Italia. Come molti di voi ricorderanno, è su questo piano che si concentravano le richieste di Greenpeace al governo, durante l'azione alla centrale di Porto Tolle del dicembre scorso. Chiedevamo di fissare un "tetto" non superiore ai 186 milioni di tonnellate. Dietro la scelta di portare le emissioni a 209 milioni di tonnellate (e le forti pressioni, proprio a dicembre, per arrivare a 220) si nascondeva la mano libera concessa all'Enel per trasformare a carbone Civitavecchia e anche Porto Tolle. L’Europa, riducendo il limite a 195,8
IL CONGO IN VENDITA FORESTE
NELLE FORESTE del Congo vivono i più stretti parenti dell’uomo: il gorilla, lo scimpanzè e soprattutto il bonobo, o scimpanzè nano, l’animale dal patrimonio genetico più vicino al nostro. L’uomo però non ha mai abbandonato queste regioni: i contadini bantù e soprattutto i raccoglitori seminomadi pigmei hanno imparato a conoscere i segreti della foresta e a rispettarne la vitalità. Fino a quando l’Africa è stata scoperta dall’industria europea. In trent’anni l'Africa ha perso due terzi delle sue foreste tropicali e quelle millenarie sono ora ridotte all’8 per cento della superficie originaria. Di quel che resta in Africa Centrale, 50 milioni di ettari sono già sotto il controllo delle multinazionali del legno. Ma nella Repubblica democratica del Congo questo processo è appena cominciato. Qui ci sono ancora circa cento milioni di ettari di foresta intatta, i due terzi di tutto il bacino del Congo, e solo negli ultimi mesi le ruspe hanno iniziato a rosicchiarla. Purtroppo l’economia si muove rapidamente e gli ordinativi salgono. L’Italia, che nel 2006 importava da questo paese 38.341 metri cubi di tronchi, appena due anni dopo praticamente raddoppiava la quota. A detta degli esperti, circa sessanta milioni di ettari saranno probabilmente destinati al prelievo di legname. Un'area di foresta primaria grande due volte l'Italia, destinata ad essere deforestata! LE PIÙ AMBITE DALL’INDUSTRIA Eppure è ancora possibile salvarla. Mentre un terzo di queste foreste (venti milioni di ettari) è già stato allocato in concessione, due terzi sono ancora temporaneamente protetti da una moratoria sul rilascio di nuove autorizzazioni. Una bella notizia? Non troppo. Infatti, la moratoria era legata alla promulgazione del nuovo codice forestale e alla verifica legale delle concessioni esistenti, processi ormai quasi ultimati. Il guaio è che la prossima riapertura delle vendite di nuove autorizzazioni rischia di svendere le future aree protette. Non è stato, infatti, completato il piano di destinazione d’uso, e ancora non si sa quali aree dovranno essere protette o affidate alle comunità locali. Quando queste decisioni verranno prese sarà tardi, perché potrebbero essere state ormai saccheggiate. E le foreste più incontaminate e ricche di biodiversità sono anche le più ambite dall’industria del legno. Greenpeace si è recata più volte in Congo, trovando un quadro sconcertante. Valga per tutti il caso della principale impresa forestale del paese, la Sodefor (Societé de Développement Forestier). La Sodefor fa parte del colosso forestale NordSudTimber (NST), con sede in Lichenstein, che controlla direttamente 4,7 milioni di ettari di foresta,
ANCHE BOMBIANI DIVENTA “AMICA DELLA FORESTA”
NIENTE LEGNO PER GLI ABITANTI Se la legalità delle nuove concessioni della Sodefor è questionabile, non ci sono dubbi sull’impatto delle operazioni forestali sulle popolazioni locali. Nel maggio-giugno 2006 e nel gennaio 2007, Greenpeace ha visitato l’area di Bandundu, sede operativa della Sodefor: le strade, che erano in buono stato di manutenzione prima dell’arrivo della compagnia, versano ora in uno stato disperato, l’elettricità è stata tagliata a gran parte della città e nella maggior parte delle scuole della zona non ci sono né banchi né centri medici o ambulatori debitamente equipaggiati. Perfino le comuni assi di legno sono merce difficile da ottenere: non una sola falegnameria lavora il legno della regione, tutto destinato ai mercati esteri. I villaggi situati presso le aree di operazione ormai concluse sono semi-abbandonati e gli abitanti trasferiti in baraccamenti presso il fiume, unica via di comunicazione rimasta. Come nelle altre regioni della Repubblica democratica del Congo, dopo il passaggio dell’industria del legno, pesce e selvaggina sono sempre più rari e la popolazione vive solo di manioca. L’impresa non offre neppure opportunità di lavoro, e i pochi assunti rimangono eterni apprendisti, senza vero contratto, senza sicurezza sanitaria, senza i bonus ricevuti dai non locali, e allo stipendio minimo: 70 centesimi di dollaro per una giornata di dieci ore lavorative. Perfino il manager operativo della Sodefor ha ammesso che la malnutrizione a Madjoko è una realtà. Agli abitanti dei villaggi spetta ancora meno: in cambio
di alcune piccole regalie le comunità devono sottoscrivere la rinuncia a qualsiasi forma di protesta verso le attività dell’impresa. E assumersi anche la responsabilità del buon funzionamento delle operazioni e di qualsiasi eventuale ostruzionismo o interferenza. IN AZIONE, IN ITALIA Lo scorso 12 aprile Greenpeace si è presentata presso l’ufficio di Mario Draghi, direttore della Banca d’Italia e direttore italiano della Banca Mondiale, proponendogli di comprare il palazzo della Banca per quanto viene dato alla gente in Africa in cambio dell’accesso a foreste ricche di prezioso legno: due sacchi di sale, 18 barre di sapone, quatto pacchetti di caffé, 24 bottiglie di birra, due sacchetti di zucchero. Il 23 maggio ha fatto di più: ha bloccato una nave carica di legname proveniente dal porto congolese di Matadi carica di legno destinato all’industria italiana del parquet. Ostacolando l’attracco, i nostri gommoni hanno permesso agli scalatori di arrampicarsi a bordo lungo le gru, dalle quali sono stati issati due enormi striscioni “Proteggiamo le foreste” e “No alla distruzione delle foreste primarie”. Nel frattempo, una dozzina di attivisti si sono incatenati ai tronchi, bloccandone lo sbarco. Il messaggio è chiaro: non mettiamo sotto i nostri piedi l’ultima grande foresta del Congo. Greenpeace, insieme a molte associazioni congolesi, richiede il prolungamento della moratoria delle foreste pluviali africane ancora intatte, fino a quando non sia stato completato il piano di destinazione d’uso della foresta, basato su una seria e informata consultazione con le comunità locali. Questo piano deve comprendere una rete di aree protette sufficientemente ampia, rappresentativa dei vari ecosistemi. Alcune cose iniziano a muoversi. Il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio ha dichiarato che “la protesta di Greenpeace è legittima e condivisibile”, inviando il Corpo forestale a controllare il carico dell'Andreas K, e un messaggio di sostegno sui temi è giunto anche dal sottosegretario agli Affari Esteri con delega sull’Africa, Patrizia Sentinelli.
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reenpeace/Philip Reynaers
un’area grande una volta e mezzo il Belgio. Due terzi di queste foreste sono stati allocati illegalmente, ossia dopo l’entrata in vigore della moratoria sul rilascio di nuove concessioni, in cambio della rinuncia ad aree improduttive che l’azienda deteneva, in parte perché già sfruttate. Anche la procedura di allocazione è stata discrezionale, senza gare pubbliche, ed eccedeva di gran lunga il limite massimo di foresta cedibile a una impresa. Insomma, tutte violazioni del codice forestale.
IN OCCASIONE dell’edizione 2007 della Fiera internazionale del libro di Torino, Greenpeace ha organizzato una giornata per le foreste, con lo slogan "Per fare un libro NON ci vuole un albero". Così, sul piazzale antistante la Fiera, un grande libro fabbricato in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council) ha salutato i visitatori, raccogliendo messaggi in favore delle foreste e di una editoria responsabile. L'iniziativa sottolinea il successo del progetto "Scrittori amici delle foreste", che raccoglie gli autori italiani impegnati a proteggere le foreste a partire dai propri libi, facendoli stampare su carta riciclata. Quasi in contemporanea con l’appuntamento di Torino, infatti, il progetto ha segnato un altro successo: Bompiani ha annunciato che stamperà tutti i suoi libri su carte riciclate o su carta certificata FSC, che garantisce l'impiego di fibre provenienti da una gestione forestale pienamente rispettosa degli ecosistemi e dei popoli nativi. In Italia, grazie a scrittori come Andrea De Carlo, Niccolò Ammanniti, Sandro Veronesi, Sandrone Dazieri, Wu Ming, Camilla Baresani, Carlo Grande, Edoardo Albinati, Giancarlo De Cataldo, Enrico Brizzi, Erri De Luca, Giovanni Dal Ponte, Acava Mmaka, Marinella Correggia, Girolamo De Michele, Fernanda Pivano, Dacia Maraini, Lidia Ravera, Rosetta Loi, Lisa Ginzburg, Luciano De Crescenzo e tanti altri, sono stati stampati su carta riciclata milioni di libri. Sono sempre più numerose, inoltre, le case editrici che stanno scegliendo di stampare tutti i propri libri su carta riciclata. Tra queste, Fandango, Larcher, Edizioni il Foglio Clandestino, Gaffi, Prospettiva editrice, Il Rovescio, oltre alle edizioni italiane di Lonely Planet e alla collana di Rizzoli Oltreconfine.
ATTENTI a dove mettete i piedi o rischiate di inciampare in una foresta. Dopo la scelta alla guida del legno, Greenpeace pubblica la Guida alla scelta del parquet. Wengè della Repubblica democratica del Congo? Meglio evitarlo: nel paese non vi è legge, le foreste vengono distrutte usando titoli di taglio senza valore e minacciando per sempre gorilla e bonobo. Anche l’afrormosia del Camerun è da evitare, e così il merbau dell’Indonesia o della Papua Nuova Guinea, dove la caccia a questo prezioso legno ha portato ai limiti dell’esaurimento tutta la specie. Peggio ancora il teak della Birmania, che proviene da una spoliazione delle foreste naturali e al tempo stesso mantiene una sanguinosa guerra civile, con tutte le conseguenze di brutalità, violazioni dei diritti umani e perfino schiavitù. Il 19 marzo, nel corso di un incontro con l’attivista birmana Daw San San organizzato a Firenze da Greenpeace, WWF, Legambiente e Cisl, è stata lanciata una campagna per i diritti umani e ambientali in Birmania Sul sito è possibile firmare una petizione: www.greenpeace.it/birmania. Attenzione infine anche al Castagno del Caucaso e al parquet prodotto con legno proveniente dalle foreste primarie di Europa e Canada. Cosa comprare allora? Ovviamente i parquet certificati FSC, ma se proprio non se ne trovano, sono indicate numerose ipotesi intermedie. Ma la guida di Greenpeace fa di più: mette nero su bianco i nomi di produttori e i parquet che mettono in commercio, con tanto di paese di origine del legno. Una operazione di trasparenza mai tentata nel nostro paese. Scopriamo così che metà dei produttori offre parquet in teak birmano, che 39 su 36 offrono l'iroko e 13 il wengé, mentre 18 hanno in catalogo l’afrormosia. Insomma, bisogna farne ancora molta di strada. Cominciando a non camminare più sulle foreste primarie. La guida alla scelta del parquet: www.greenpeace.it/parquet
Greenpeace/Philip Reynaers
Greenpeace/Andrea Guermani
ATTENTI A DOVE METTETE I PIEDI
Già nel 2003, un sondaggio di Greenpeace aveva rivelato che quasi il 90 per cento dei lettori sarebbe disposto a pagare il proprio libro preferito almeno il 5 per cento in più se solo fosse disponibile in libreria in carta amica delle foreste. La percentuale cresceva ulteriormente tra i grandi lettori (più di venti libri in un anno). Nel settembre dell’anno dopo, usciva “Giro di vento” di Andrea De Carlo (Bompiani), stampato in 130.000 copie su carta riciclata con un 50 per cento di fibre postconsumo e primo libro ad alta tiratura pubblicato in Italia su carta amica delle foreste. In questo modo Andrea De Carlo, assieme a Greenpeace, smentiva i vecchi luoghi comuni sulla carta riciclata, secondo cui sarebbe di bassa qualità, costerebbe troppo, potrebbe essere impiegata solo in produzioni di nicchia. (F.S.)
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di ALESSANDRO GIANNÌ
Iccat), che ha applicato al tonno il sistema delle “quote”: si decide un quantitativo totale di tonno che si può pescare che viene poi ripartito in quote nazionali. È un sistema che nella pratica non ha mai funzionato, in nessuna parte del mondo, e il “gioco delle tre carte” dell’Iccat ci spiega il perchè. Primo: il Comitato scientifico dell’Iccat suggerisce un prelievo totale di non oltre 15.000 tonnellate/anno (oltre il quale c’è il rischio di un collasso dello stock). Secondo: gli stati si accordano per un quantitativo che è quasi il doppio (29.500 tonnellate) e siccome l’anno scorso le catture totali erano di 32.000 tonnellate, questa ridicola diminuzione viene fatta passare per “piano di conservazione del tonno”. Terzo, Turchia e Libia obiettano al piano e si assegnano quote supplementari: e così il totale arriva a 32.400 tonnellate! Intanto, l’Iccat ha ammesso che l’anno scorso sono state pescate più di 15.000 tonnellate di tonno oltre le quote ammesse. Perché questa frenesia? Il tonno rosso è sempre stata una cattura pregiata, ma fino a qualche anno fa la pesca si riduceva dopo giugno
per la diminuzione di valore dei tonni che, nel loro ciclo di migrazione e riproduzione, tendono ovviamente a smaltire le riserve di grasso accumulate nel periodo invernale. Alla fine della primavera il tonno è “dimagrito” mentre il mercato giapponese, che importa il tonno dal Mediterraneo per il sushi (200 milioni di euro l’anno) vuole tonno grasso. Oggi però si pesca fino a settembre e oltre, e in tutto il Mediterraneo, perchè quasi tutti i tonni sono catturati vivi dalle “tonnare volanti” (grandi reti a sacco) e trasferiti in gabbie dove sono ingrassati artificialmente per essere poi uccisi ed esportati. Questo ha scatenato una corsa all’oro di dimensioni colossali: la capacità degli impianti di ingrasso del tonno nel Mediterraneo supera ormai le 58.000 tonnellate, quasi il 60 per cento oltre la quota ammessa. Ovviamente, in questa situazione continuare a costruire impianti di ingrasso serve solo a incentivare la pesca pirata, ma ci sono anche altri problemi. Il tonno è un animale a sangue caldo e il suo elevato metabolismo basale comporta un notevole dispendio energetico:
tonno rosso, finanziata anche da fondi pubblici (negli ultimi dieci anni i sussidi comunitari hanno superato i 28 milioni di euro) è una storia di pesca illegale e, ovviamente, di molti soldi: a Tokio, un tonno può arrivare a valere oltre 50 mila euro. Quanto a lungo possa durare non si sa: gli esperti parlano di tre o cinque anni, al massimo. Il dubbio è che nel frattempo “qualcuno” stia ammassando enormi quantitativi di tonno surgelato, con la prospettiva di enormi guadagni quando lo stock sarà collassato e il prezzo del tonno sarà arrivato alle stelle.
Greenpace/Gavin Newman
LO SCORSO 15 maggio, dalla Rainbow Warrior, nel porto di La Valletta (Malta), Greenpeace ha lanciato una richiesta precisa: chiudere la pesca del tonno rosso e creare una rete di riserve marine in alto mare per tutelare una risorsa al collasso. L’80 per cento della popolazione, infatti, è già perduta e solo una gestione seria della pesca potrà garantire un futuro al tonno, una specie dal grande passato. Si prepara invece un’estate calda per il tonno, soprattutto nelle acque della Libia, ormai considerate l’ultimo baluardo di una specie in declino. Sarà un massacro? Il tonno viene a riprodursi nel Mediterraneo dopo aver passato l’inverno nutrendosi nelle fredde e ricche acque dell’Atlantico. I banchi dei riproduttori attiravano (e attirano) l’attenzione dei pescatori: una volta i tonni finivano nelle trappole delle tonnare, mentre oggi vengono individuati con aeroplani e satelliti che, monitorando la temperatura dell’acqua, dirigono i pescherecci quasi a colpo sicuro. Questa pesca dovrebbe essere gestita dalla Commissione internazionale per la conservazione del tonno dell’Atlantico (in inglese,
ROMINA POWER A FAVORE DELLE RISERVE MARINE
Greenpace/Gavin Newman
MARE
C’È CHI SCOMMETTE SULLA SUA ESTINZIONE?
sotto casa (a Castellammare del Golfo, Marina di Camerota, Vibo Valentia, Procida e Corigliano Calabro) e di chi, come nel caso della Costiera Amalfitana, teme gli impatti sul turismo. In quest’ultimo caso, si tratta di un impianto che dovrebbe essere realizzato a Cetara, dove opera uno dei maggiori gruppi tonnieri d’Italia. Il progetto è al centro di una complessa querelle legale: il Comune di Cetara ha dichiarato di fronte al Tar di aver sospeso il progetto, anche se in realtà alcune boe sono già state piazzate in mare. La storia della distruzione dello stock del
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Romina Power. «Siamo tutti responsabili di questo disastro che avviene in silenzio perchè quello che succede sott’acqua non si vede», ha dichiarato la Power durante la conferenza stampa. «Da soli forse non si ottiene nulla ma in tanti è possibile raggiungere risultati concreti». Greenpeace ritiene che la soluzione sia quella di governare le risorse del mare – la pesca, i trasporti, il turismo, l’estrazione di minerali o di idrocarburi con un “approccio ecosistemico” e applicando il principio di precauzione. Di qui la proposta di una rete di riserve marine. (F.S.)
I TRE QUARTI delle popolazioni ittiche di interesse commerciale sono sfruttate oltre il limite e quasi il 90 per cento delle popolazioni delle specie di maggior valore – dal merluzzo atlantico al tonno, al pesce spada del Mediterraneo – è stata pescata. Il rapporto di Greenpeace, In un mare di guai (www.greenpeace.it/inunmarediguai), presentato lo scorso 3 maggio in una conferenza stampa a Roma, denuncia le cause principali della crisi della pesca: dalla potenza delle flotte pescherecce, sostenute da oltre 30 miliardi di dollari l’anno di sussidi pubblici, all’uso di metodi di pesca distruttivi, al fallimento della lotta alla pesca illegale come, ad esempio, le spadare italiane che continuano a pescare malgrado il bando delle Nazioni Unite (1992) e dell’Unione Europea (2002). Nuova “guerriera dell’arcobaleno” e madrina della campagna Mare è
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Greenpeace/Cavicchi
NON TONNO PIÙ
se per produrre un chilo di un pesce come un’orata “bastano” 5-8 chili di mangime, per far ingrassare di un chilo un tonno ci vogliono fino a 25 chili. Per i tonni del Mediterraneo si usano come mangime circa 225.000 tonnellate l’anno di pesce, in gran parte adatto al consumo umano: ancora una pesca eccessiva e inutile che sottrae preziose risorse alimentari. Inoltre, presso gli impianti sono state segnalate chiazze oleose e intorbidamento delle acque (in gran parte dovuto ad avanzi di mangimi e alle deiezioni dei tonni) che hanno suscitato le proteste di chi, i tonni, li ha già
UNA MARATONA EOLICA IN SARDEGNA
ENERGIA
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Greenpeace/Tedesco
di FRANCESCO TEDESCO
aiutare l’Italia nella difficile sfida di coprire il 25 per cento del fabbisogno nazionale da fonte rinnovabili al 2010. Oggi siamo al 1618 per cento circa, a seconda delle fluttuazioni dell’idroelettrico. “Non c’è VENTO da perdere!”: questo lo slogan della due-giorni passata a correre tra i parchi eolici nel nord della Sardegna attraversando i comuni di Nulvi e Ploaghe (prima tappa), dove l’eolico è perfettamente inserito, e di Buddusò-Alà dei Sardi (seconda
tappa), dove uno dei maggiori parchi eolici è invece bloccato. Francesco Galanzino e i corridori di Survivor Triathlon (tra cui Italo Orrù, Gigi Muso, campione regionale nel 2006, e il "Re del deserto" Roberto Zanna, uscito da poco da un infortunio al ginocchio rimediato in Niger) hanno bruciato le tappe, tagliando il traguardo sotto lo striscione “Fateci girare le pale”. La maratona di Greenpeace ha decisamente movimentato la scena: Soru è stato contestato dalla sua
stessa Giunta e ha dovuto rinunciare al limite di 550 MW che voleva imporre all’energia dal vento (nel 2006 la potenza eolica installata ha raggiunto i 346 MW). Tuttavia, a un mese di distanza, i parchi autorizzati rimangono ancora bloccati e l’eolico è relegato alle aree industriali già compromesse. La sfida è ancora aperta: la Sardegna può diventare la capitale delle fonti pulite del Mediterraneo. Il carbone, semplicemente, non è un’opzione praticabile.
È GIUNTA L’ORA DI... “BAN THE BULB!” sioni mondiali di gas serra raddoppieranno e questo sarebbe catastrofico per il clima. La sfida è durissima e l’efficienza è la prima arma. Il mondo non ha bisogno di più energia, ma di utilizzare meglio quella che viene prodotta. Le lampade a incandescenza appartengono all’era preistorica: non cambiarle non solo è un crimine contro il pianeta, ma è anche stupido. Le LCF costano di più, ma l’investimento si ripaga in breve tempo con i risparmi in bolletta.
VIA LE LAMPADINE INEFFICIENTI dalle nostre case: è partita la campagna Greenpeace “Ban the Bulb!” per il bando delle lampadine a incandescenza! Lo scorso 20 aprile a Berlino, mentre i ministri europei erano riuniti per discutere di efficienza energetica, i nostri attivisti a cavallo di un rullo compressore hanno distrutto diecimila lampadine a incandescenza. Entro il prossimo 30 giugno, tutti i Paesi europei dovranno presentare un “Piano d’azione per l’efficienza energetica”, indicando come intendono abbattere i consumi nazionali. È l’occasione ideale per intervenire. Oggi esistono lampadine di gran lunga più efficienti delle incandescenti: una LFC (fluorescente compatta) consuma l’80 per cento in meno di una lampada tradizionale che spreca quasi tutta l’energia disperdendola sotto forma di calore. A breve arriveranno anche i LED, ancora più efficienti delle LFC, da smaltire correttamente riportandole al rivenditore poiché contengono tracce di mercurio. California e Australia hanno già deciso di eliminare le lampadine a incandescenza, l’Europa ci sta pensando. Proprio per questo gli uffici europei di Greenpeace hanno lanciato una cyberazione per chiedere ai parlamentari europei di sostenere il bando: dall’Italia sono partite migliaia di mail agli europarlamentari italiani. Il premio di reattività l’ha vinto però l’Olanda: il ministro dell’Ambiente ha dichiarato che il Paese è già pronto a togliere le incandescenti dagli scaffali. È questo di cui abbiamo bisogno: le previsioni dicono che al 2050 le emis-
Andreas Shoelzel/Greenpeace
UNA DUE-GIORNI tra gli alberi piegati dal vento per denunciare la politica “clima killer” del governatore Renato Soru, intenzionato a promuovere il carbone e bloccare lo sviluppo dell’eolico, prima fonte rinnovabile della Sardegna. Sessanta chilometri di maratona con gli “Orsi” – i runner di Francesco Galanzino – e gli atleti di Survivor Triathlon, associazione di “iron-man” sardi abituati a ben altre imprese. Così, Greenpeace è scesa in campo in scarpe da ginnastica e integratori, per puntare il dito su un problema essenziale: mentre il Governo ratifica accordi europei e internazionali, la politica energetica rimane alle Regioni, che spesso non remano nella stessa direzione. Il “caso Sardegna” è emblematico: dopo la ratifica di Kyoto nel 2005 e i nuovi obiettivi europei dello scorso 8 marzo (riduzione unilaterale gas serra al 2020, nuovi traguardi per rinnovabili ed efficienza energetica) occorre investire in nuove tecnologie pulite. Tutto il contrario di quello che vorrebbe fare Soru. La Sardegna importa circa il 90 per cento dell’energia primaria, non utilizza gas naturale e consuma quasi esclusivamente combustibili fossili. Il carbone, che produce le più alte emissioni di gas serra, è passato dal 10 per cento nel 1999 al 51 per cento nel 2004, in seguito alla conversione a carbone di due gruppi della centrale di Fiumesanto. Nel 2005, è stato poi aperto un nuovo gruppo a carbone presso la centrale Enel del Sulcis, e lo scorso gennaio, la Regione ha raggiunto l’accordo con Endesa Italia per la conversione di altri due gruppi a Fiumesanto. A questi si aggiunge la cosiddetta “centrale della miniera”, un impianto nel Sulcis che brucerà carbone autoctono di “bassa qualità”, voluta dallo stesso Soru. In questo modo, la Regione pianifica il raddoppio delle proprie emissioni di gas serra, in completa controtendenza con gli obiettivi di Kyoto dell’Italia. Sull’isola le rinnovabili coprono oggi appena il 5 per cento della produzione elettrica e, in attesa del gas dall’Algeria, il contributo del metano è nullo. Eppure, la Sardegna è una delle regioni più ventose d’Italia e si potrebbero installare circa 3.000 Megawatt (MW) entro il 2012, soddisfacendo così la metà dei consumi energetici sardi con appena il 3 per cento del territorio. Secondo Greenpeace si può studiare dove fare i parchi eolici (aree industriali, altipiani disabitati e zone per il pascolo) così da limitare gli impatti sul paesaggio, contribuire all’indipendenza energetica, rilanciare un’occupazione pulita e
Greenpeace/Tedesco
FATECI GIRARE LE PALE
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MAIS MONSANTO, I RISCHI PER LA SALUTE
di FEDERICA FERRARIO
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Greenpeace/Graf
OGM
MA LA MELA NON È ANCORA VERDE
GREEN MY APPLE? INQUINAMENTO
di FRANCESCA SARANDREA
Greenpeace/Alessandro Vasari
CARTE TRUCCATE
LE CAVIE che lo hanno mangiato per soli novanta giorni hanno sviluppato segni di tossicità a fegato e reni. Eppure, il mais transgenico Monsanto, MON863, è stato regolarmente approvato dalle autorità europee e circola liberamente dal gennaio 2006. Può essere già nei supermercati o sulle nostre tavole – fino alla soglia dello 0,9 per cento non c’è obbligo di etichettatura per gli alimenti contenenti Ogm – oppure nella dieta di mucche o maiali, che forniscono quei prodotti Doc o Dop di cui l’Italia va giustamente fiera. E dall’allarme, siamo alle chiare evidenze: un gruppo di ricercatori indipendenti, guidati dal professor Gilles Eric Séralini, esperto governativo in ingegneria genetica dell’Università di Caen (Francia) e membro del Criigen (Comitato per la ricerca e l’informazione indipendente sull’ingegneria genetica), hanno effettuato un nuovo studio per verificare eventuali effetti del MON863 sulla salute. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Archives of Environmental Contamination and Toxicology a marzo 2007, ha analizzato i risultati dei test sulla sicurezza sottoposti dalla Monsanto all’Efsa (l’autorità per la sicurezza alimentare europea, con sede a Parma) e alla Commissione europea per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione. I risultati parlano chiaro: gli esperimenti della Monsanto sono approssimativi e sono stati addirittura omessi dati clinici cruciali. È la prima volta che un prodotto transgenico, autorizzato per il consumo umano e animale, mostra segni di tossicità per gli organi interni. Come dicono gli stessi autori dello studio «non si può concludere che il mais MON863 sia un prodotto sicuro». Il mais della Monsanto, quindi, andrebbe ritirato immediatamente e si dovrebbe procedere a una nuova valutazione degli altri Ogm autorizzati finora. L’Efsa è stata incaricata dalla Commissione europea di esaminare questo nuovo studio e, per fornire una risposta, ha chiesto anche ulteriori dati agli stati membri dell’Unione europea. L’autorità, infatti, non effettua studi indipendenti ma valuta i dossier che le vengono sottoposti dalle aziende che richiedono autorizzazioni per i nuovi Ogm (come è avvenuto per il MON863). È incredibile, ma è così. In una recente comunicazione a Greenpeace sull’argomento, il ministero della Salute italiano ha già comunicato che si affiderà completamente alla valutazione dell’Efsa. Speriamo che l’Efsa non indichi anche che… “bisogna saltare dalla finestra”. Sarebbe un peccato vedere un intero Ministero buttarsi nel vuoto.
ALL’INIZIO del mese di aprile, Greenpeace ha pubblicato il terzo aggiornamento della Ecoguida ai prodotti elettronici, lanciata lo scorso mese di agosto. Tra vari sali-e-scendi nella classifica delle aziende virtuose, curiosamente una conferma: la Apple non aveva fatto nessun progresso. La guida premia le aziende che non fanno uso di sostanze chimiche pericolose e contribuiscono al riciclaggio dei rifiuti elettronici. Il punteggio viene assegnato in base alle informazioni disponibili sui siti web delle aziende, valutando con maggiore attenzione l'eliminazione delle sostanze pericolose rispetto al riciclaggio, perché, senza sostituzione dei composti tossici non è possibile un riciclaggio sicuro dei componenti. Ebbene, l’azienda di Cupertino confermava di essere più interessata al design che alla tutela dell’ambiente. Già dai primi segnali, lo scorso mese di settembre, Greenpeace aveva lanciato la campagna internazionale “Green my Apple”, invitan-
do tutti i clienti di Steve Jobs a indirizzargli una lettera di protesta attraverso il sito omonimo, la cui veste grafica ricalcava sospettosamente quella dei siti Mac. In pochi mesi, più di 40 mila cyberattivisti hanno fatto arrivare la loro protesta al guru dell’Ipod Generation. Lo scorso 31 marzo, poi, in occasione della inaugurazione a Roma del primo Apple Store dell'Europa continentale, Greenpeace ha messo in scena una parodia dell'episodio biblico di Adamo ed Eva – “Steve and Eve” – per invitare Steve Jobs a cedere alla tentazione della mela verde e regalare a tutti gli utenti Mac una Apple più ecologica. Nel pomeriggio in Campo dei Fiori, i nostri attivisti hanno distribuito ai passanti mele biologiche e materiale informativo della campagna “Green my Apple”. È stata l’occasione per lanciare anche la versione italiana del sito www.greenmyapple.org/it Insomma, noi di Greenpeace amiamo la Apple.
Amiamo il suo amore per il design. Ma ci chiediamo perché i Mac, gli iPod, i MacBook e gli altri prodotti contengano sostanze nocive che altre aziende non usano più. Per questo, Greenpeace chiede alla Apple di investire in ambiente, oltre che in design. Chiediamo alla Apple di cambiare la sua politica ambientale, rimuovendo le sostanze tossiche più pericolose – a iniziare dal PVC e dai ritardanti di fiamma bromurati – e promuovendo un servizio gratuito di ritiro dei propri prodotti per evitare il drammatico problema dei rifiuti elettronici. Contemporaneamente, Greenpeace ha inviato una lettera ad Al Gore per chiedergli, in qualità di membro del board della Apple Computer, di usare la sua influenza – e tutto il peso dei suoi 5,3 milioni di dollari di stock option – per convincere Steve Jobs ad adottare nuove politiche in materia ambientale. E, alla fine, qualcosa ha iniziato a muoversi…
L’ANNUNCIO DI STEVE JOBS ...E IL SITO DI GREENPEACE VINCE L’OSCAR DEL WEB re una politica mondiale di recupero e riciclaggio, cosa che al momento avviene solo negli Usa. L’impegno di Steve Jobs dimostra che, entrando in azione, i risultati si ottengono. Intanto, il sito della campagna Green My Apple di Greenpeace (www.greenpeace.org/apple) ha vinto l'Oscar del Web, il Webby Award, per la categoria "attivismo". La richiesta di Greenpeace e dei fan della Apple non è solo quella di un cambiamento superficiale ma di una scelta seria, che modificherà in profondità le attività dell’azienda. Con l’obiettivo di rendere eco-compatibile l’intera industria elettronica.
LO SCORSO 2 maggio, in occasione del meeting con gli azionisti dell’azienda, Steve Jobs ha deciso di regalarci una Apple più verde, accettando una parte delle richieste che Greenpeace, insieme a tanti “Mac fan”, avanzavano da tempo. Jobs, inoltre, ha annunciato che questa prima dichiarazione di impegno verde non sarà l’ultima ma che altre seguiranno. L’inedita scelta di trasparenza della Apple e la dichiarazione di voler eliminare alcune delle peggiori sostanze chimiche dai suoi prodotti è un vero e concreto passo in avanti. Ora Greenpeace aspetta il momento in cui Apple dichiarerà di mettere sul mercato il primo prodotto privo di sostanze tossiche e di adotta-
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BREVI DAL MONDO
BALENE, LA MORATORIA RESISTE
UN’ARCA PER PROTEGGERE IL CLIMA
E L’ENEL SI DÀ AL NUCLEARE. SOVIETICO
GLI “AMICI DEL SANTUARIO”
SCORIE, IL CONTRATTO SOGIN-AREVA
COME OGNI ANNO, Giappone, Norvegia, Islanda e i loro clienti hanno provato a riesumare la caccia baleniera su scala commerciale. L’occasione era la cinquantanovesima riunione dell’Iwc – Commissione Baleniera Internazionale – che si è tenuta ad Anchorage (Alaska, Usa). Ma stavolta si è assistito, non per caso, a un deciso ribaltamento della Commissione a favore delle balene. Per anni, il Giappone ha comprato, con accordi commerciali o con semplice corruzione, il voto di numerosi paesi in via di sviluppo che non hanno alcun interesse nella caccia baleniera. Per contrastare questa strategia Greenpeace, altre associazioni e diversi Paesi si sono alleati per far partecipare altri stati come Grecia e Cipro che, per la prima volta, hanno votato per le balene e contro la caccia. La maggioranza è stata talmente evidente che il Giappone e i suoi alleati hanno spesso abbandonato il voto. Tra le risoluzioni più importanti, quella sulla Convenzione di Washington (Cites) che, con 37 voti a favore e 4 contrari, ha ribadito che «la moratoria alla caccia baleniera commerciale resta in vigore e che le ragioni che hanno portato all’adozione della moratoria sono ancora rilevanti». Bocciato anche (40 a 2) il cosiddetto programma scientifico con cui il Giappone continua ad sopprimere balene in Antartide. Nonostante ciò, il Giappone ha dichiarato che l’anno prossimo nel Santuario Antartico ucciderà oltre un migliaio di balene. Grave che le discussioni sulla caccia baleniera continuino a mettere da parte tutti gli altri rischi che incombono sui cetacei: ogni novanta secondi muore un delfino o una balena, a causa dell’inquinamento, del cambiamento climatico o uccisi da reti o altri attrezzi di pesca, come il capodoglio che pochi giorni fa è stato ucciso da una spadara italiana a Vibo Valentia. Greenpeace chiede a quelle nazioni come l’Italia che finora sono state a guardare di impegnarsi in un’attività diplomatica per fermare questo massacro: votare contro la caccia, come fa sempre l’Italia, non basta.
LO SCORSO 31 maggio, a pochi giorni dal G8 di Heiligendamm, un’Arca di Noè ha preso forma sul Monte Ararat in Turchia per richiamare l’attenzione dei grandi del mondo sui cambiamenti climatici e stimolarli a intervenire subito per arrestare quella che rappresenta la prima minaccia globale dei nostri tempi. Durante la cerimonia di inaugurazione, gli esponenti di Greenpeace insieme a simpatizzanti provenienti da tutto il mondo hanno letto insieme la “Dichiarazione di Ararat” nelle principali lingue del pianeta, chiedendo così ai leader di agire per proteggere i diritti primari alla vita e alla salute, entrambi messi a rischio per milioni di persone dagli effetti dei cambiamenti climatici. Sono poi state liberate 208 colombe, una per ogni Paese del mondo, come veicolo simbolico per far giungere il messaggio in ogni angolo del globo. Nei giorni precedenti all’inaugurazione, gli scalatori di Greenpeace erano già arrivati a 5.137 metri sulla vetta dell’Ararat, portando con sé degli striscioni indirizzati ai leader presenti a Heiligendamm: “G8: questo è il punto di non ritorno. Salviamo il clima ora”. I paesi del G8 sono responsabili per oltre la metà delle attuali emissioni di gas serra nel mondo e dovranno farsi carico del maggiore sforzo di riduzione. L’ultimo rapporto Ipcc (International Panel on Climate Change) avverte che i paesi industrializzati dovranno ridurre le loro emissioni dell’80-90 per cento entro il 2050. Nella Dichiarazione, viene richiesto ai grandi di collaborare tra loro a livello globale con un programma credibile, che limiti l’aumento del riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali e stabilizzi le emissioni mondiali di gas a effetto serra entro i prossimi dieci-quindici anni. L’entità del problema è stata sottolineata anche dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che ha messo l’accento sul fatto che il cambiamento climatico è la più grande sfida della nostra generazione. Ricordando il mancato appoggio degli Stati Uniti agli obiettivi di Kyoto, i presenti sull’Ararat hanno infine sottolineato come questo non dovrà mai rappresentare un pretesto per non agire subito.
“ENEL E ITALIA: non esportate il rischio nucleare”: questo lo slogan delle manifestazioni di Greenpeace organizzate il 17 aprile alle ambasciate italiane di Bratislava, Praga, Varsavia, Budapest e Sofia contro la decisione annunciata da Enel di voler completare due vecchi reattori sovietici a Mochovce nella Repubblica Slovacca. In Italia, oltre alla distribuzione in alcune città di una falsa pubblicità dell’Enel, una petizione online di protesta rivolta a Prodi – l’Enel è ancora pubblica per il 30 per cento – ha raccolto 22 mila firme in tredici giorni, anche grazie all’aiuto del blog di Beppe Grillo. Il 15 maggio è stato presentato a Roma una rapporto sulla sicurezza di questo tipo di reattori in attesa di vedere il piano di fattibilità dell’Enel previsto a fine aprile ma non ancora pronto. Vari i punti critici, tra cui assenza di un guscio che protegga il reattore da eventi esterni e un sistema di contenimento di eventuali incidenti mai testato se non su modelli in scala ridotta. In Germania, dopo la riunificazione del 1990, tutti i reattori di tipo sovietico, compreso uno appena entrato in funzione e identico a quelli previsti a Mochovce, furono bloccati perché era impossibile portare la sicurezza sul livello dei reattori di costruzione occidentale a costi accettabili. In Finlandia, la centrale di Loviisa – entrata in funzione nel 1977 – fu riprogettata, prevedendo un sistema di contenimento di progettazione statunitense, e dotata di una strumentazione e di un sistema di controllo di produzione tedesca. L’investimento previsto per i reattori di Mochovce è di circa 1,9 miliardi di euro per 880 MW e non si prevede nemmeno un miglioramento della sicurezza come nel caso della centrale finlandese. Enel ha anche intenzione di partecipare al progetto di Belene in Bulgaria, sempre una centrale di nucleare di tipo sovietico, in zona sismica. Non è così molto lontana dal vero la finta pubblicità Enel realizzata da Greenpeace: “La vera rivoluzione è tornare al nucleare. Sovietico” (vedi www.greenpeace.it/community/templates/enel/pieghevole_enel.pdf).
DOPO AVER REALIZZATO un rapporto contro la realizzazione di un rigassificatore nel Santuario dei cetacei, Greenpeace ha presentato ricorso al Tar del Lazio per riaffermare il principio che il mare non è un sito industriale. Inoltre, Greenpeace ha scoperto una serie di documenti che provano che il Comitato di pilotaggio del Santuario dei cetacei, contrariamente a quanto affermato sia nella Valutazione di impatto ambientale sia nell’autorizzazione alla costruzione del rigassificatore, non ha mai dato parere positivo sulla compatibilità tra rigassificatore e Santuario. Greenpeace ha denunciato questa frode alla Procura di Roma. Ma il Santuario non è minacciato solo dall’inquinamento e dalle attività industriali. Nella sua area, infatti, pescano ancora le reti derivanti (italiane e francesi), le famigerate spadare vietate dall’Onu e dall’Ue perché tra l’altro fanno strage di delfini e capodogli. Nel Santuario, inoltre, continuano le gare motonautiche offshore, e in generale non è stato preso nessun provvedimento per eliminare l’emissione di rumori nocivi per la salute dei cetacei. Insomma, è l’unica area marina protetta (così la chiama il ministero dell’Ambiente) per la quale non esistono né sanzioni né misure specifiche di tutela: una farsa. Tutto ciò dimostra che purtroppo il Santuario è stato utilizzato solo come richiamo per turisti, ma nessuno dei Paesi interessati (Francia, Italia e Monaco) sta intervenendo con misure di tutela efficaci. Invece, Greenpeace crede che il Santuario abbia molti amici che vogliono difenderlo e vuole essere il megafono di queste persone. Agli “amici del Santuario”, Greenpeace chiede di fotografare quanto di bello (cetacei, fauna e flora marina, paesaggi…) e di brutto si trova nell’area e di spedire le foto (le informazioni sono sul sito www.greenpeace.it) all’indirizzo santuario@greenpeace.it. Con queste foto vogliamo creare, nel sito internet di Greenpeace, un album di immagini, per far vedere a tutti, anche a chi deve prendere decisioni su questo mare, quanto sia bello, e fragile, il Santuario dei Cetacei.
SIGLATO tra l’italiana Sogin e la francese Areva il contratto per il ritrattamento in Francia del combustibile irraggiato (detto anche “riprocessamento”): dal 2015, 235 tonnellate di combustibile irraggiato (gran parte ancora a Caorso) transiteranno oltr’alpe e torneranno in Italia entro il 2025 sotto forma di scorie vetrificate. Oltre 250 milioni di euro per questa operazione che Greenpeace ha sempre contestato: è lo stoccaggio a secco la modalità di gestione meno pericolosa, costosa e inquinante, oltre a essere la più praticata nel mondo. Una modalità, peraltro, già avvallata dal primo Governo Prodi nel 1999. Gli Usa hanno abbandonato il riprocessamento già da trent’anni, sotto la presidenza di Jimmy Carter, e da allora non lo hanno più ripreso, nonostante l’alternanza tra gli schieramenti politici. In passato, l’Italia aveva inviato barre di combustibile irraggiato a Sellafield, impianto inglese chiuso dopo l’ennesimo incidente nel 2005. Nel febbraio 2005, proprio per protestare contro questa scelta, Greenpeace aveva cercato di bloccare un carico di scorie. Recentemente i dodici attivisti sono stati tutti assolti al processo di primo grado. Altri rifiuti nucleari di terza categoria (quella più pericolosa a cui appartiene anche il combustibile irraggiato) di cui oggi non è chiaro il destino sono, secondo Greenpeace: • il combustibile del reattore statunitense Elk River (ossidi misti uranio-torio) che rimane in Trisaia (Basilicata), di cui non si conosce la destinazione; già di proprietà statunitense la responsabilità della sua gestione per la sistemazione è stata rifiutata dagli Usa; • i rifiuti liquidi di Saluggia (240 metri cubi di materiale altamente radioattivo sciolto in acido nitrico) che devono essere condizionati (solidificati) in sito e comunque messi in un deposito italiano • i 3000 metri cubi di grafite contaminata da carbonio 14 nell’impianto di Latina di cui non sono note modalità di smantellamento e condizionamento e che comunque dovranno andare in un deposito italiano.
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STORIA (E PREISTORIA) DI GREENPEACE
«La manifestazione di lunedì pomeriggio contro l’esperimento di esplosione atomica sull’isola di Amchitka è cominciata. Siamo circa in cento all’inizio. E più o meno fra i due e i trecento verso la fine, un’ora più tardi. Chi siamo? Un gruppo inizalmente composito: siamo cittadini molto rispettabili e per bene, seri e con uno stipendio decoroso e un po’ meno che analfabeti, professori, ministri e casalinghe della Società per il controllo dell’inquinamento e dell’ambiente (…). E così ci sono donne che stanno imparando i trucchi del mestiere nell’organizzazione. Niente mi aveva dato più speranza da tanti anni a questa parte. La forza delle madri che insorgono è famosa. Politici prendete nota. C’è una potenza laggiù nei sobborghi, fino ad ora incanalata verso campagne e iniziative caritatevoli e associazioni genitori-insegnanti, che, se fatta pesare in modo adeguato sui grandi problemi dei nostri giorni, avrà un impatto così grande che le conseguenze della sua detonazione (come quelle dell’esperimento nucleare di Amchitka) non sono neanche immaginabili». ROBERT HUNTER, Sun di Vancouver (02.10.69)
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