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Una ragazza nella giungla di Calais

UNA RAGAZZA NELLA GIUNGLA DI CALAIS

Era stata la prima a svegliarsi, affamata. Gli altri dormivano ancora nella tenda blu, rannicchiati uno contro l’altro per tenersi caldo, una figliata di cuccioli senza madre. Avvolta in una coperta che le dava un’aria da spaventapasseri e lasciava passare il vento arrivato dall’Inghilterra, la ragazza guardava la città spenta e le sue poche luci permanenti.

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Aspettava, erano mesi che aspettava con impazienza, mesi che vegliava. Era uscita sullo stradone deserto, stando però attenta a non farsi vedere. Da quando si era tagliata i capelli con il coltello, aveva l’aspetto di un ragazzo. Le gocciolava il naso, se l’è asciugato con la giacca, incurante della scia che ci ha lasciato sopra. L’aria aveva un odore di fiato salato, il mare faceva sentire la sua presenza fino a qui. Dall’altra parte, in lontananza, al lato opposto dei container, ha visto la fila di roulotte pronte per essere demolite. Si sentivano ancora delle grida, talvolta

richieste d’aiuto, rumori di motore, ma più spesso a regnare era il silenzio della notte giunta al termine.

Un piccione sudicio saltellava come se stesse giocando a campana. Quando si è avvicinata, si è resa conto che gli mancava una zampa. Al suo posto, un moncherino rosa vivo che gli avrebbe impedito per sempre di volare. Lo ha preso tra le dita intirizzite per il freddo: bagnato di pioggia, quello cercava di dibattersi, allora lei lo ha stretto ancora più forte, non potendo fuggire l’animale ha finito per arrendersi, mentre lei gli alitava sulle piume appiccicose. Il piccione ci prendeva gusto: ha socchiuso gli occhi. La notte era chiara, umida e fredda. La ragazza aveva un volto puro, delicato. Le labbra piene di gioventù, appena rovinate dalle screpolature, riscaldavano il piccione spennato, talmente sporco che solo la zampa amputata pareva essere scampata al fango. Lo ha accarezzato con la punta delle dita. Sembrava un topo con le ali.

Ogni tremulo bagliore in lontananza era una possibile festa, una casa dove altri bambini dormivano, un ristorante dove si preparava da mangiare per la giornata. Lei immaginava l’energia di quella città che non sarebbe mai stata la sua benché ci vivesse da nove mesi. I pochi abitanti con cui aveva avuto l’occasione di parlare l’avevano guardata tutti con una specie di diffidenza. Quando non c’erano reti

metalliche, c’erano delle barriere, visibili o meno, tra lei e la gente, mentre qui, nella giungla, aveva i suoi punti di riferimento. Anche se le strade erano vuote da qualche ora.

Sarebbe stato più facile ubbidire agli ordini e andare via. Ora sarebbe stata seduta sul sedile rosso di un pullman riscaldato diretto a un centro d’accoglienza, o forse sarebbe già stata in una stanza preparata per lei, senza nient’altro da fare se non aspettare che qualcuno decidesse al posto suo il luogo dove finire di crescere. Forse, avrebbe dovuto abbandonare gli altri e lasciare Elira a sbrigarsela da sola, ma preferiva essere lei a decidere cosa fare e cosa non fare. E che ne sarebbe stato di Elira senza di lei? Non avevano creduto all’ambigua proposta di abbandonare la giungla in attesa che qualcuno scegliesse per loro. Lei ormai si fidava solo della sua banda. Si è tirata su il colletto del vecchio parka e si è avvoltolata la sciarpa intorno al collo per non lasciare esposto al freddo nemmeno un centimetro di pelle.

Il giorno prima, i pullman avevano portato via gli ultimi accampati, tutti quelli che avevano accettato i bracciali verdi e rosa. Loro, invece, avevano preferito nascondersi in una delle tende rimaste in piedi, che odorava di plastica bruciata e si sollevava con le raffiche di vento. Erano tornati la sera, perché

questa qui era casa loro, ma ora che non c’era anima viva non sapevano più se avevano fatto la scelta giusta. Ormai era impossibile tornare indietro. Ritornare dal Kurdo? Meglio crepare. Lei aveva scelto di continuare e di andare avanti, ma con i suoi mezzi. ‘Fanculo la polizia. ‘Fanculo il Kurdo. ‘Fanculo i pullman. Preferiva vivere mangiando tra la spazzatura. Chiedere l’elemosina. Il giorno prima aveva trovato delle arance ancora buone in una baracca svuotata. Potevano cavarsela, aiutandosi l’uno con l’altro, ma sarebbero anche potuti morire qui, senza che nessuno lo venisse a sapere.

I volontari delle associazioni le avevano detto che in Europa negli ultimi due anni erano scomparsi oltre diecimila bambini migranti. Migliaia di minorenni come lei, svaniti nel nulla. Nessuno sapeva dove fossero. Nessuno sarebbe venuto a cercarli. Le loro famiglie avrebbero pensato per sempre che erano degli ingrati, che avevano dimenticato da dove venivano. A volte, i loro corpi venivano ritrovati sull’autostrada, spinti nella cunetta ai margini della carreggiata, e se si conosceva il nome allora avevano una targa in legno sulla tomba, altrimenti la tomba rimaneva muta. A volte, non si sapeva nemmeno che fine avessero fatto, scomparsi senza lasciare traccia. Ora che erano soli nella giungla, anche lei poteva essere depennata dalla lista senza che nessuno se ne accorgesse. Gli unici a compiangerla sarebbero stati quelli della sua banda.

Hawa ha spinto delicatamente il piccione, lui è tornato verso di lei, lei lo ha spinto di nuovo e sembrava che quello avesse voglia di giocare, a meno che non volesse solo essere protetto, o che lei continuasse ad asciugarlo. Lo ha spinto ancora una volta, più forte, e il piccione è ruzzolato via, il becco nel fango. Si osservavano entrambi con gli occhi sgranati e neri.

Non aveva più niente, ma aveva fiducia nel gruppo. Si erano giurati che sarebbero rimasti insieme qualunque cosa accadesse. Bisognava solo trovare una soluzione per andarsene da lì.

È ritornata nella tenda che sapeva di stalla, di latrina. Gli altri cominciavano a muoversi, ancora immersi nel cumulo di coperte umide, avevano i capelli incolti e troppo lunghi, e i vestiti erano sporchi, la mattina puzzavano ancora più della sera prima. Elira si stiracchiava, una mano le ha allungato una sigaretta, lei l’ha subito accesa, appena sveglia. Il fumo che le usciva dalla bocca pareva la nebbia che aleggiava nel cielo, segnali indiani di fumo mandati al mondo di fuori. Elira ha lasciato la sigaretta ad Hawa e si è accesa una cicca che conservava in tasca. La cicatrice sotto l’occhio le dava un’aria furbesca nonostante le pupille spente. Sulle unghie della mano sinistra c’erano resti di smalto rosso, su quelle della mano destra niente. Ha ripiegato le lunghe gambe sotto di sé, d’istinto, per nasconderle.

I ragazzi si sono svegliati, già chiassosi appena alzati. Si spintonavano, dolcemente, rudemente, subdolamente. Si sputavano addosso, s’insultavano, si tiravano calci prima di afferrarsi per il collo per poi spintonarsi di nuovo. Un linguaggio.

Milad era l’unico che rimaneva seduto nel suo sacco a pelo. Ha teso la mano per toccare suo fratello che dormiva ancora, poi ha guardato Hawa con insistenza, con una luce selvaggia e incendiaria negli occhi. Lei ha fatto finta di non sentirsi il suo sguardo addosso, ha solo sorriso vagamente mentre metteva una felpa in più, prima di girare la testa verso di lui. Si sono guardati. Qui, lei aveva imparato a non abbassare lo sguardo. È lui che lo ha distolto per primo.

Ali stava già mangiando. Era uno scoiattolo, aveva sempre del cibo in tasca, caramelle sciolte, un po’ di mandorle, carne secca, mele vecchie. Ora, stava mordicchiando una specie di pasta rossa. Si sarebbe detto il moncone del piccione, ma forse era un pezzo di pomodoro con del pane che aveva conservato dal giorno prima – o un dolcetto che era riuscito a rimediare in giro, o magari una zampa di gallina, non si riusciva mai a capire come facesse a trovare tutte queste cose. Si è spazzolato via le briciole dalla pancia grassoccia. Tra le dita paffute si vedeva la zampa cruda di gallina. Lo stomaco di Hawa ha

cominciato a brontolare. Si è passata una mano sulla pancia, diventata un animale da ammansire. Ali l’ha guardata, e le ha allungato qualcosa, della pasta di mandorle, o un lokum, rosso anche lui. Hawa lo ha afferrato e inghiottito. La saliva le ha fatto male, mentre ricopriva il piccolo pezzo di zucchero.

Milad si è infilato la giacca di pelle che gli dava un’aria da cattivo ragazzo, ha preso il suo bastone, ha allontanato il ciuffo di capelli dagli occhi con uno scatto della testa e ha detto con la sua voce calda, dolce per le orecchie di Hawa, che la giungla apparteneva a loro, adesso. Solo a loro.

Sono usciti dalla tana, agili come gatti lungo le tende di plastica e legno rabberciato che resistevano nel campo. Il fondo dei pantaloni si è bagnato di nuovo in quel fango che sporcava tutto, scarpe, mani, vestiti, e si incrostava ovunque, non se ne sbarazzavano mai del tutto. Un fango pesante, appiccicoso, che inghiottiva i passi. Lei ha percepito latrati e rombo di motori. Il sole d’inverno era sorto, lo stradone gelato brillava sotto una luce livida. Le onde in lontananza spazzavano la riva con impeto sempre maggiore.

Erano in sei: due grandi, due piccoli e due ragazze. Una banda di sbrindellati che marciava quasi a ritmo. Il fratello di Milad, Jawad, arrancava per ri-

manere al passo degli altri, abituato a saltare con gli stivali sui bancali di legno che impedivano di affondare nel fango, e ha finito per afferrare la mano del fratello.

Aveva sempre meno ricordi della loro famiglia. Milad diceva che era meglio così.

Ali, invece, era sempre ultimo perché più lento. Appena fatti tre passi, aveva già l’affanno. La pancia lo faceva sembrare una divinità in miniatura, e dava l’idea di ostacolarlo nella marcia – come uno zaino portato sul davanti. Un telone ha sbattuto dietro di loro ed è volato via col vento. Ali ha sobbalzato cacciando un urlo, seguito da una risata generale.

Ibrahim seguiva Milad, di continuo. Era ancora più grande di Milad, e più robusto, la pelle del viso tutta butterata per via di vecchie cicatrici lasciate dall’acne, sembrava una guardia del corpo, con in più il senso dell’umorismo. Ibrahim parlava poco, sorrideva poco, ma faceva ridere gli altri – non appena apriva bocca, anche quando non era sua intenzione essere divertente, tutti si mettevano a ridere.

Il paesaggio assomigliava meno che mai a una giungla, o comunque era una giungla fredda, di legno e fango, con animali inzaccherati, e mostri di metallo in lontananza, il tutto sotto una pioggia sottile. Non proprio il posto dei sogni, con pappagalli e foglie verdi e grasse, dove si suda in mezzo all’odore di humus. Piuttosto, una giungla dei poveri.

Qui non c’era un solo albero, una sola foglia, né tantomeno il caldo. Niente aveva colore. Era tutto grigio. C’era puzza di fumo e di spazzatura. E quel giorno, c’era il silenzio. Questa giungla, che era stata un caos nel quale migliaia di persone vivevano, mangiavano, parlavano, lottavano, era diventata un deserto, dove loro erano soli, tutti e sei.

Dovevano per forza esserci ancora poliziotti in giro, a controllare che tutti fossero realmente andati via. Se li avessero trovati, quelli tra loro ritenuti maggiorenni sarebbero stati portati direttamente al centro di trattenimento, un posto dove rinchiudevano le persone, sostenendo tuttavia che fossero libere, visto che non avevano fatto niente di male. All’inizio lei aveva dubitato che le cose stessero davvero così, ora invece credeva a ciò che le era stato raccontato. Si diceva che c’erano delle reti tutt’intorno, e degli scivoli per i bambini.

Milad l’ha raggiunta. Si appoggiava sempre al suo bastone, per aiutarsi a camminare nel fango, e stranamente questo gli dava un’eleganza che gli altri non possedevano. Nella melma, i loro stivali producevano un rumore di risucchio, le pozzanghere avrebbero potuto inghiottire i piedi. I due procedevano in testa al gruppo, fianco a fianco. Lei si è aggiustata il seno smunto. Aveva perso parecchi chili negli ultimi mesi, le braccia e le gambe erano

diventate degli stecchi. Aveva fame, sempre. Era disidratata, con la pelle secca, ruvida. Sentiva prurito tra le dita delle mani e dei piedi. Era grazie a Milad che stavano lì, soli in mezzo alle macerie. Lui le ha detto che ormai nessun adulto avrebbe più detto loro quello che dovevano fare. Lei ha annuito con la testa guardando dritto davanti a sé. Niente avrebbe potuto farla dubitare in quel momento.

Il piccione li ha sentiti arrivare e, su una zampa, ha cercato di trovare riparo in un anfratto. Ibrahim ha lanciato il piede in avanti all’improvviso sferrando un gran calcio al piccione, che è volato via lontano, come un pallone da calcio, Elira ha riso nervosamente, prima di prendere lo slancio per colpire anche lei forte la testa del piccione, il quale ha tratto uno strano gemito, poi è stato Ali ad accanircisi, selvaggiamente, e la bestiola non ha emesso più alcun verso, sembrava uno straccio grigio e rosso con le piume piene di fango e un becco penzoloni. Milad ha gridato che però non bisognava rovinarlo, magari avrebbero potuto mangiarlo. Il suo fratellino ha raccolto l’uccello ridotto in poltiglia che odorava di sangue, e lo ha messo nello zaino. Hawa ha guardato Milad, lui le ha detto che, ad ogni modo, un uccello che non poteva nemmeno volare non serviva a niente. Non era nemmeno più un uccello.

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