informal magazine issue5
Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas AD & graphic design Andrea Basile with Alessio Matteucci Cover Photo Henry Hargreaves Styling by Lisa Edsalv Photo Laura Fantacuzzi Brian Finke Marty Garfinkel Bruno Pulici Ryan Shude Translation Marta Sanders Special Thanks Liliana Basile informal magazine issue 5
sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Jungle Fever/ la Febbre della giungla di Andrea Basile
77 > Fotografia/photography Ignoring travel guides/ ignorando le guide turistiche di Bruno Pulici
07 > Fotografia/photography Touch soul down/ la meta dell’anima Brian Finke
100 > Design The sign portrait/ Elia Barreiro di Giorgio Bonaguro
27 > Fotografia/photography Them and Theirs/ loro e le loro cose di Ryan Shude
110 > Fotografia/photography The green sublime/ Il sublime verde di Laura Fantacuzzi
51 > Fotografia/photography Sleepy Hollow Motel/ il motel del borgo sopito di Marty Garfinkel
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photo Andrea Basile
Jungle fever Sono cresciuto con il mito americano, lo ammetto, come più o meno tutti i miei coetani nati agli albori degli anni ‘80. Abbiamo visto le serie televisive, dalla casa nella prateria ambientata in Minnesota a Starsky & Hutch, passando per film quali The Goonies, Grosso guaio a China Town e War Games. Poi ci siamo innamorati di Quentin Tarantino e di Pulp Fiction, di quel lato meno “luccicoso” a cui eravamo abituati: ci siamo lasciati conquistare dai Diner, dalle strade, dall’americano medio e dalle sue sempre meno sane abitudini alimentari. Las vegas, e cito, è diventata Disneyland e noi beviamo Cuba Libre a bordo piscina con quell’aria di superiorità di chi sa dire “basta”, che in realtà nasconde un generale senso di inferiortà nei confronti degli Stati Uniti d’America. Abbiamo anche preso spunti fotografici dagli Stati Uniti, dal loro inseparabile flash puntato addosso, ci siamo sentiti Avedon, Weegee, Diane Arbus e William Eggleston ed abbiamo fotografato a colori un furgoncino arruginito al tramonto. Mi metto direttamente in prima fila in questa voglia di evasione dal vecchio continente, posizionato a Malpensa, con un volo diretto per il JFK e Stevie Wonder nelle cuffie dell’iphone in rigorosa modalità aerea. L’esperienza americana è un consiglio che dò a tutti; consiglio di viverla interamente, per apprezzarne davvero la cultura, nei suoi alti e bassi. Vi invito a svegliarvi in mezzo ai grattacieli di New York, per poi dormire nei boschi del Maine, risvegliarsi nel bel mezzo del Texas per poi viaggiare anche di notte per scoprire una Los Angeles che è proprio come la vedete nei films. Vi consiglio di mangiare alle stazioni di servizio, di dormire nei motel economici, di ascoltare la radio che passa sempre buona musica che non si vergogna di essere dannatamente nostalgica. Ho pensato a lungo su cosa proporre sul nuovo Grit in realtà e mi è sembrato doveroso pagare tributo alla terra delle opportunità. Il problema principale era trovare dei contributi che non fossero già visti migliaia di volte: basta foto della Statua della Libertà, basta reportage dagli Studios, basta piscine del Cesar Palace. Quello che mi serviva era una selezione di fotografi che dessero una visione degli Stati Uniti non stereotipata e li abbiamo trovati. Andrea Basile
I grew up with the legend of America, I admit it, just like more or less all of my peers born at the beginning of the 80s. We watched TV series, from ‘Little House on the Prairie’ set in Minnesota to ‘Starsky & Hutch’, going through films like The Goonies, Big Trouble in Little China and and War Games. Then we fell in love with Quentin Tarantino and Pulp Fiction, of that less ‘shiny’ side we were used to: we let ourselves be captivated by diners, streets, by the average American and by their always less healthy eating habits. Las vegas, and I’m quoting here, has become Disneyland and we drink Cuba Libre besides a pool with that attitude of superiority of who can say ‘enough’, that in reality hides a general feeling of inferiority towards the United States of America. We were also photographically inspired by the States, by their inseparable flash pointed straight at the subject, we felt like Avedon, Weegee, Diane Arbus and William Eggleston and we photographed in colour a rusty truck at sunset. I put myself out in front with this desire to escape the old country, placed at Malpensa airport with a non-stop flight to JFK airport listening to Stevie Wonder on my iPhone on the airplane setting. An American experience is something I recommend to anyone; I suggest to live t entirely, to really appreciate its culture, both the good and bad sides of it. I recommend you wake up between New York’s skyscrapers, then sleep in the woods in Maine, wake up again in the middle of Texas and then travel, even during the night, to discover Los Angeles just how you see it in films. I recommend you eat at petrol stations, sleep in cheap motels, listen to the radio, that always plays good music that isn’t afraid of being terribly nostalgic. I thought about what to show in the new issue of Grit in reality, and I thought it was only right to pay tribute to the land of opportunities. The main problem was to find contributions that hadn’t already been seen a thousand times: enough of photos of the Statue of Liberty, enough reportages from the Studios, enough Cesar Palace swimming pools. What I needed was a selection of photographers that showed the States in a not stereotypical way, and we found some.
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TOUCH SOUL DOWN photo Brian Finke text by Liliana Basile
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TOUCH SOUL DOWN Sound_ Sky and Sand, PAUL KALKBRENNER
Roma. Tunnel, posto assegnato, bagaglio a mano. Si chiudono i portelloni, stacco il telefono. Guardo ipnotizzata il piccolo rituale: hostess, misure di sicurezza, divise, regole. Allaccio la cintura. E penso. A mio fratello, ai suoi diciotto anni, al suo avere la vita in pugno. A quando hai gli occhi elettrici, un’energia che ti tiene sveglio la notte, il giorno, e la notte ancora dopo. A quando hai addosso un odore di ormoni e insicurezza. Potenzialità che ti si scartano davanti come cioccolatini costosi. Penso a quando hai la vita in pugno, ma ancora non lo sai. Tu corri, corri, corri verso una meta che non è solo sportiva, ma che riassume una vita. Corri da solo, per te stesso. Per dimostrarti che ce la fai. Energia pura. Come lo sport, come una partita di tennis, una partita di football americano. Ragazzini di quattordici, sedici, diciotto anni. Studio sport studio sport studio sport. Amici. In una scuola privata cattolica, nel New Jersey, a una manciata di chilometri da New York. Come in mille altre scuole del mondo. Ragazzi d’acciaio. Con sogni d’acciaio, potenti come le onde dell’oceano. Un flash addosso ai pettorali scolpiti, ai sorrisi da star, alle divise della squadra del Don Bosco Prep. L’estetica regalata dai cerimoniali, dai colori, dalla routine sportiva. E poi una versione più delicata, nel loro essere umani più che stelle del football, nel sangue e nelle risate piuttosto che nei goal e nelle coppe. Esseri che anelano alla più alta delle perfezioni atletiche - che non è banalmente “vincere una partita”, ma l’essere in grado
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di disegnare una bellezza di movimento, rigore e armonia atletica, che, secondo gli antichi, ti avvicina agli dei. Niente pose per loro, ma sudore vero. Inquadrature ‘sbagliate’ e prese al volo: non c’è tempo per costruire l’immagine, non c’è voglia di perfezione. C’è una connessione tra il volo aereo e lo sport. Mondi paralleli, con regole proprie – divise, giubbotti salvagenti, caschi, cerimonie. Occhi un po’ persi. Un po’ sottovuoto, un po’ sottosopra. E tu che li guardi come animali in uno zoo, e passi il tempo a fare confronti tra la tua vita - così normale e regolare, e la loro - fatta di distanze, lacrime, tempi lunghi e poi attimi. Le assistenti di volo e i giocatori di football: categorie umane, un po’ protette, un po’ patite. Corpi come da ammirare in un museo, in un teatro dei caratteri. In un’estetica del corpo estrema, quasi pop. Mandrie di persone all’interno di un loro mondo, in cui si trovano a proprio agio con i loro simili e le loro abitudini, a cui regalano i sorrisi migliori. Non quelli da macchina fotografica, no, quelli veri, tra persone con cui hanno costruito l’intimità della routine. Persone che riconoscono i tuoi umori. E forse anche i tuoi odori. Si aprono le porte. È il Brasile. Nuove estetiche, nuovi occhi, nuove inquadrature ‘sbagliate’. Pesi imbullonati sulla spiaggia di Rio de Janeiro. Grazie, Brian Finke. A mio fratello. Uno sportivo vero.
Rome. Tunnel, riserve seat, hand luggage. The doors close, I turn my phone off. Mesmerized, I watch the ritual: flight attendants, security measures, uniforms, rules. I fasten my seatbelt. And I think. I think about my brother, of his being eighteen years old and having life on a string. I think about having sparks in your eyes and an energy that keeps you awake during the night, during the day and during the following night. I think about when you smell of hormones and lack of selfconfidence. I think about possibilities that open up in front of you like posh chocolates. I think about when you your life on a string, but you don’t know yet. You run, run, run towards a goal which isn’t only a sports one, but also one that sums up a whole life. You run by yourself for yourself. To prove yourself you can make it. Pure energy. Like in sport, in a tennis match, in a football match. Fourteen, sixteen, eighteen years-olds. Homework sport homework sport homework sport. Friends. In a catholic private school, in New Jersey, a few kilometres far from New York. Like in thousands of other schools in the world. Iron kids, with iron dreams, as strong as the waves of the ocean. A flash on their strong pectoral muscles, on their movie star-worthy smiles, on the uniforms of the Don Bosco Prep uniforms. The aesthetics given by rituals, by colours, by the routine of sport. And then a more delicate version of them, their humanity rather than their being football stars, their blood, their laughter rather than their goals and cups. Human beings who aim at the highest of athletic perfection – which isn’t only winning a
game, but is being able to draw a beauty made of movement, rigour and athletic harmony which according to the ancients pulled you closer to the gods. No fake poses for them, only real sweat. Photos that are ‘wrong’ and taken immediately: there isn’t time to build the image, there isn’t a desire for perfection. There’s a connection between flight and sport. Parallel worlds, with their own rules – uniforms, life jackets, helmets, ceremonies. Slightly lost eyes. Slightly vacuum-sealed, slightly confused. And you look at them like animals in a zoo, and you spend your time comparing your life – so normal, and theirs – made of distances, tears, long periods of time and then moments. Flight attendants and football players: slightly protected and suffered groups of human beings. Bodies to admire like in a museum, in a theatre of characters. In an extreme body aesthetics, which is nearly pop. Herds of people inside their own world, in which they feel at ease with people similar to them and with their habits, to which they give their best smiles. Not the ones for the camera, no, the real ones, between people with whom they built an intimacy of routine. People who recognise your moods. And maybe your smells too. The doors open. It’s Brazil. New aesthetics, new eyes, new ‘wrong’ photos. Weighs bolted on the beaches of Rio de Janeiro. Thank you, Brian Finke. To my brother. A real sportsman.
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Brian Finke è uno dei più importanti fotografi contemporanei. Vive e lavora a Brooklyn (New York) e i suoi editoriali più recenti includono clienti come The New York Times Magazine, Rolling Stones, GQ e Wired. Il suo lavoro è all’interno di numerosi musei e collezioni permanenti in America, Francia e Giappone.
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Brian Finke is one of the most important contemporary photographers. He lives and works in Brooklyn (New York) and his most recent editorial works include The New York Times Magazine, Rolling Stones, GQ and Wired. His work his exhibited in many museums and permanent shows in America, France and Japan.
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them and theirs
a photo essay by Ryan Shude
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them and theirs
Quando ho incontrato il lavoro di Ryan Shude mi sono ritrovato a LAX alle 6 di sera. Ho sentito caldo, ma ogni tanto soffiava un vento rigenerante, mentre il cielo cambiava colore. In un solo istante mi sono sentito di nuovo in mezzo alla Cienega, con i suoni impazienti dei clacson che mi tenevano sveglio. Ryan è la sintesi perfetta di quello che per me è Los Angeles: Luce favolosa, attenzione ai dettagli, belle macchine, clima perfetto e personaggi favolosi da fotografare. Basta girare quindici minuti per West hollywood che a passeggio per Santa Monica Blvd puoi trovare tutte le comparse che ti servono per realizzare i servizi fotografici che hai sempre desiderato fare. Aggiungi a questo cocktail l’ingrediente fondamentale, ovvero un fotografo / art director che sa come fare il suo lavoro ed ottieni quello che seocndo me è la traduzione esemplare di un progetto fotografico. Dopo aver visto il lavoro di Ryan, ho passato qualche giorno con un di Deja-vu in testa che mi tormentava. Aveva trovato risposta ad una mia visione, che ho ritrovato dopo poco in un mio piccolo e non riletto flusso di pensieri, scritto proprio qualche settimana fa...
Il timbro sul passaporto viaggia insieme al “Welcome to the west coast” dell’agente in servizio. Esci ed accendi una sigaretta, una palma ti guarda e LAX cambia colore. Giri a destra e prosegui fino all’autobus blu. Dai una mancia all’autista che parte subito. Strisci la carta di credito e sali a bordo di una automatica. Metti su 92.3 e aspetti che il controllore abbassi lo “stop dentato”. Imbocchi la Cienega; i pozzi di petrolio stanno sulla destra e Il caldo è bello. Un’altra sigaretta col braccio teso fuori dal finestrino, Marvin Gaye per 4 minuti con “sexual healing”, non sei di Los Angeles ma è come se ci vivessi da 30 anni. A Santa Monica BLVD giri a destra e rallenti per goderti il momento, ti sei fatto la Cienega in mezzo al traffico, bellissimo. Prosegui su santa monica e c’è Stevie Wonder, poi Aretha, i Blood, Sweat & Tears e per finire Michael Jackson. 8200 di Santa Monica: da Marco’s c’è Robert Forster che fa colazione come tutte le mattine. Il caldo è sempre più bello. Entri nel parcheggio del Donuts e degli altri negozi sfitti, poi parcheggi. “Beep Beep” e chiudi la macchina. Attraversi e davanti a Marco’s non c’è neanche bisogno di parlare, ti riconoscono ed entri. Poi arriva Mark Capanni e ti abbraccia solo come saprebbe fare tuo papà. -How you doin’ Bro-I’m here and I’m great-welcome to L.A. Bro, let’s have a turkey burgerand everything is gonna be alright.
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When I came across Ryan Shude’s work I felt like I was at LAX at 6 p.m.. I felt hot, but every now and then there was a reinvigorating breeze while the sky changed colour. In one single moment I felt like I was in the middle of Cienega again, with the noise of impatient hors keeping me awake. Ryan is the perfect summary of what Los Angeles is to me: fantastic light, attention to detail, nice cars, perfect climate and fantastic people to photograph. You only have to go around West Hollywood for 15 minutes to find every person you need for the projects you’ve always dreamed of walking down Santa Monica Blvd. Add the essential ingredient to this cocktail, a good photographer/art director who knows how to do his job and you get something that I think is the translation of an exemplar photographic project. After seeing Ryan’s work I spent a few days with a bothering feeling of déjà-vu. It answer a sight that I found in a short stream of thought I didn’t even reread that I wrote a few weeks ago…
The stamp on my passport goes along with the officer saying “Welcome to the West Coast”. I leave and light myself a cigarette, a palm tree looks at me and LAX changes colour. I turn right and walk up to the blue bus. I give the driver a tip, and he starts off straight away. I swipe my credit card and get onto an automatic car. I put 92.3 on the radio and wait for the inspector to lower the stop. I take the Cienega, there are oil wells on the right and the heat is good. An other cigarette with my arm stretched out of the window, Marvin Gaye on the radio for four minutes with ‘sexual healing’, I’m not from Los Angeles, but it’s like I’ve lived here for 30 years. On Santa Monica Blvd I turn right and slow down to enjoy the moment. I carry on on Santa Monica and the radio plays Stevie Wonder, then Aretha, then Blood Sweat & Tears and to end Micheal Jackson. 8200 Santa Monica: at Marco’s Robert Forster is having breakfast just as every other morning. The heat is always better. I get into Donuts’ and other empty shops’ car park and stop the car. “Beep beep” and I close the car. I cross the car park and in front of Marco’s I don’t even have to speak, they recognise me and I walk in. Then Mark Capanni gets there and hugs in a way only your dad could. -How you doin’ Bro? -I’m here and I’m great -Welcome to L.A. Bro, let’s have a turkey burger And everything is gonna be alright.
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before: Huy Doan and his 1971 Honda CB 350. Glassel Park, Los Angeles. May, 2013. this page: Megan McIsaac and JeanPaul Jenkins with their 1977 Toyota Dolphin. Korea Town, Los Angeles. April, 2013.
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Kestrin Pantera and her 1976 Mercedes Benz 450SL. Burbank, California. October, 2011.
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Jimmy Marble and his 1991 Jeep Cherokee. Elysian Valley, Los Angeles. March, 2013.
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Before: Sven Barth and his 1985 GMC Suburban. Elysian Valley, Los Angeles. January, 2013. This page: Tashina Hunter with her 2002 Jaguar XJ8. Pasadena, California. November, 2012.
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Emily Shur, Isac Walter, and the Baroness with their 1964 Volkswagen 1500s Notchback. Echo Park, Los Angeles. December, 2012. next pages: Jenny Messer and her 1980 Subaru Brat. Silver Lake, Los Angeles. November, 2011. Adam and Krista Bork with their ‘67 Pontiac Tempest Wagon, ‘63 Plymouth Belvedere, and ‘62 Plymouth Valiant Marfa, Texas. June, 2011.
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David Browne and his 1975 Datsun 620 Pickup. Elysian Valley, Los Angeles. June 2013.
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photo by Marty Garfinkel courtesy of Roadside Gallery Text by Donata Basile grit 51
Sound_ Route 66, NAT KING COLE
La mia passione per gli USA nasce nel 1990 quando decisi di portare alla maturità d’arte, un tema un po’ azzardato: la “Neon art”. Lo studio tecnico della luce poco mi affascinava, ma il suo utilizzo nella comunicazione e nell’arte mi ha conquistata totalmente. Il neon nasce nel 1893 alla Chicago Columbian Exposition e divenne da subito uno straordinario strumento espressivo che pose fine al regime della notte e del giorno nelle grandi città americane. La prima insegna è stata quella di un barbiere “Palais Coiffeur” e venne istallata a Boulevard Montmartre nel 1910. Tre anni dopo la luce al neon sbarca negli Stati Uniti e il proprietario di un autosalone di Los Angeles, paga 24mila dollari due scritte luminose “Packard”. Subito dopo a New York il neon regalò alla metropoli statunitense il suo fascino notturno e l’appellativo di città che non dorme mai. “Il neon è associato alle più alte aspirazioni e alle fantasie del sogno americano. Nessun’altra arte esprime con tale forza lo spirito di questo paese” Lili Lawick E’ negli anni quaranta ma soprattutto cinquanta, che la luce diventa la grande protagonista di questa materia nobile priva di contenuto che ne limitasse il potere d’informare e di trasformare. Questo tubo di vetro estremamente duttile è diventato un importante medium in grado di diffondere il nome di una marca o di una qualsiasi insegna, capace di farci cogliere il messaggio del contenuto sostituendo il principale utilizzo di illuminazione della luce elettrica. Successivamente il neon divenne protagonista di un ampio filone di produzione artistica e il mezzo espressivo dell’arte povera per Mario Merz e Lucio Fontana, della minimal art per Dan Flavin e della conceptual art per Joseph Kosuth e Keith Sonnier. Successivamente divenne materia Pop per Andy Warhol, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat
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e contemporaneamente vestì un ruolo importante anche nel mondo della moda con Elio Fiorucci per poi diventare materia Vintage comune a molti artisti internazionali contemporanei. La prima città americana di cui mi sono innamorata per le sue insegne luminose è stata New York, ma la grande emozione dopo le luci di Las Vegas l’ho provata percorrendo la Route 66 from Chicago to L.A. Quando si viaggia on the road la tua anima si trasforma e segue il ritmo rock alternato al country e al blues; il viaggio è segnato dalla linea gialla sull’asfalto nero e le mete sono definite dai neon dei motel. Non hai bisogno di nulla, solo della tua libertà e di benzina per viaggiare. La notte è sempre luminosa e macini chilometri con l’adrenalina che caratterizza il vero viaggiatore. E’ strano ma pur sapendo che in molti attraversano gli USA on the road, mai nessuno può farlo meglio di te, perché tu hai la pellaccia dura e vedi cose che solo i tuoi occhi sono in grado di osservare! E’ questo il vero sapore dei neon americani, rappresentano la storia del loro paese dal fascino trasgressivo e ci proiettano nei film cinematografici e nelle canzoni dei cattivi della musica. Costantemente il mio DNA grafico si unisce alla mia fotografia, ma in questo caso per Grit Magazine, la mia passione per il neon e l’America si uniscono al fotografo Marty Garfinkel che ha realizzato questo progetto fotografico molto ampio che ritrae interessanti insegne di motel degne di essere ipoteticamente incluse in un grande libro di Rudi Stern: “Let there be neon” in cui sono raccolte le più storiche insegne neon degli Stati Uniti. Il neon è luce fredda continua che sprigiona colore, forme, significati e valori, il neon è grafica, è arte, è font, è moda, è design, è storia. Il neon è America, è movie, è rock, è on the road, è Harley Davidson vs Cadillac. Il neon è vacancy e no vacancy…il neon ha cento anno e li porta da dio!
My passion for the USA was born in 1990 when I decided to discuss a risky topic during my high school final exam: ‘Neon art’. I wasn’t very fascinated by a technical study of light, but I completely fell in love with its use in communication and art.
become Vintage material many contemporary international artists have in common. The first American city with which I fell in love for its neon signs was New York, but I felt the great thrill after the lights of Las Vegas driving along Route 66 from Chicago to L.A.
Neon light was born in 1893 at the Chicago Columbian Exposition and instantly became an extraordinary meaningful tool that put an end to the regular pattern of night and day in big American cities. The first to use a neon sign was the barber ‘Palais Coiffeur’ and was installed on Boulevard Montmartre in 1910. Three years later neon light reached the United States and the owner of a car showroom in Los Angeles paid 24 thousands dollars for two neon signs that read ‘Packard’. Soon after neon light gave to New York its nighttime charm and the name of a city that never sleeps.
When you travel on the road your soul evolves and follows rock rythm alternating coutry and soul ones; the journey is marked by the yellow line on black concrete and the destinations are marked by the neon signs of motels. You don’t need anything but your freedom and petrol to travel. The night is always bright and you eat up the miles with a real traveller’s adrenalin. It’s strange but even knowing that many have crossed the USA on the road, nobody can do it the way you do because you’re as tough as nails and you see things only your eyes can! This is the real tone of American neon signs, they represent the history of their country and its transgressive charm and they take us to movies and songs by the bad people of the music scene.
“Neon light is linked to the highest ambitions and fantasies of the American dream. No other form of art expresses with such strength the spirit of this country” Lili Lawick In the 40s and, most of all, in the 50s light becomes the key player of this noble and empty material that limited its power to inform and transform. This extremely flexible glass tube has become an important means able to publicize the name of a make or of any sign, able to make us understand the message of the contents replacing the main use of lighting of electric light. Later on neon light became the key player in a wide current of art and the descriptive means of Mario Merz’s and Lucio Fontana’s Arte Povera, Dan Flavin’s minimal art and Joseph Kosuth’s and Keith Sonnier’s conceptual art.
My graphic DNA constantly merges to my photography, but in this case, in this issue of Grit Magazine, my passion for neon light and America merge with photgrapher Marty Garfinkel, who developed this very wide project in which he photographed interesting motel signs worthy of being hypothetically put in a great book by Rudi Stern: “Let there be neon”, in which the most historic neon signs of the Unitade States are gathered together. Neon light is a cold, continuous light that frees colours, shapes, meanings and values, neon light is graphics, art, font, fashion, design, history. Neon light is America, movies, rock, on the road, Harley Davidson vs Cadillac. Neon light is vacancy and no vacancy… neon light is hundred years-old but doesn’t look it!
Later on it became Pop material for Andy Warhol, Keith Haring and Jean-Michel Basquiat and at the same time it played an important role in fashion with Elio Fiorucci to then
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all photo by Marty Garfinkel courtesy of Roadside Gallery www.roadsidegallery.com 970-963-9333
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IGNORING TRAVEL GUIDES New York City
photo by Bruno Pulici text by Alessio Matteucci
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IGNORING TRAVEL GUIDES New York City
Atterrare al JFK per me era atterrare negli Stati Uniti, un sogno nel cassetto finalmente realizzato. Non ne potevo più di migliaia di foto storte di grattacieli troppo alti da poter essere fotografati. A bordo del mio taxi da 45 dollari più’ dieci di mancia ho fatto la mia prima ricognizione di quella metropoli che da li’ a dieci giorni mi avrebbe ospitato. Una New York sudata,irriverente e con una pelle butterata mi ha dato il benvenuto nel caos del suo quotidiano respiro. La città che non dorme mai aveva dei ritmi e delle conseguenti pause, delle luci e delle ombre, delle salite e delle discese. Le mille luci di Times Square, i grandi spazi di Central Park e le visite in ascensore al Crysler building non mi avrebbero aiutato a capire, ma al contrario avrebbero fuorviato la mia ricerca di una città vera. Ho visto tante città, tante solitudini, tanti tasselli non combaciare l’uno con l’altro. Ho visto tale eterogeneità rappresentare un grido di appartenenza a cio’ che non c’è, ma che si vuole far credere che esista, tante vite scandite da un unico battito fortissimo a me totalmente estraneo. Lontano dai turisti, lontano dai percorsi obbligati e dagli sguardi dei commessi imposti dalle varie bibbie per venditori esposte nelle librerie, ho scoperto una superficie in perenne mutamento,una ferita sempre aperta che sembra non rimarginarsi mai e sulla quale decine e decine di operai si accaniscono quotidianamente. Le lunghe file sotto alla statua della libertà continuano inesorabilmente, come un flusso vitale inarrestabile, un po’ come l’horror vacui che da sempre affligge i graffitari Newyorchesi. God save nyc!
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Landing at the JFK to me was landing in the United States, a dream come true. I couldn’t stand any more not straight photos of sky-scrapers to high to be photographed. I did my first reconnaissance of the metropolis that was going to host me for the following ten days on a 45 dollars plus 10 dollars tip taxi. A sweaty, irreverent, with pitted skin New York welcomed me in the chaos of its daily breathing. The city that never sleeps had rhythms and therefore breaks, lights and shadows, roads uphill and roads downhill. The thousands lights of Times Square, the huge spaces of Central Park, and the elevator visits of the Crysler building wouldn’t have helped me find a real city, but would have sidetracked me even more. I’ve seen many cities, many lonely places, many pieces of the puzzle not correspond. I saw such heterogeneity represent a cry of belonging to something that doesn’t exist, but you want to believe it does, I saw many lives marked by a single incredibly strong heart-beat I had never known before. Far away from tourists, from imposed itineraries, from the looks of shops assistants who learnt them from the bibles for sellers bought in bookshops, I discovered a surface in never ending change, a wound that wouldn’t heal on which tens and tens of workers persevere every day. The long queues underneath the Statue of Liberty continue relentlessly, like an unstoppable stream of life, a bit like the slack horror that has always bothered New York graffiti drawers. God save NYC!
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the signportrait Elia Barreiro
Elia Maria Barreiro was born in Cuba, lives and works in San Juan, Puerto Rico. During the last 4 years she has conducted studies in Architecture and Industrial Design paying particular attention to the research and reuse of industrial materials that can be transformed into new types of objects and furniture. Elia exhibited as a student during the last Milan Design week representing the International School of Design of Puerto Rico in the 2013 edition of the Salone Satellite with the selected design schools. During the past edition of the New York design week, she developed a project in collaboration with the collective Design Puerto Rico for Wanted Design, a satellite exhibition complementary to the ICFF furniture fair. At the moment she continues developing projects in the FAB LAB Puerto Rico with digital fabrication technologies and reused materials. She has presented at the FAD Feria de Arte y Diseño a project curated by the architects Marilú Purcel and Andrea Bauza in the Galeria Nacional, San Juan, Puerto Rico.
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curated by Giorgio Bonaguro
Elia Maria Barreira è nata a Cuba, vive e lavora a San Juan, Porto Rico. Negli ultimi quattro anni ha studiato Architettura e Design Industriale prestando particolare attenzione alla ricerca e al riciclo di materiali industriali che possono essere trasformati in nuovi tipi di oggetti e di arredamenti. I lavori di Elia, ancora studentessa, sono stati esposti durante l’ultima settimana del Design a Milano a rappresentare la International School of Design of Puerto Rico nell’edizione del 2013 del Salone Satellite con selezionate scuole di design. Durante l’ultima edizione di della settimana del Design di New York, un’esposizione satellite complementare alla fiera dell’arredamento ICFF. Al momento continua a sviluppare progetti nel FAB LAB Puerto Rico con tecnologie di montatura digitali e matariali riciclati. Ha presentato al FAD Feria de Arte y Diseño un progetto curato dagli architetti Marilù Purcel e Andrea Bauza nella Galeria Nacional, San Juan, Puerto Rico.
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in collaboration with “Two Squared Studio” FOR wanted Design, presented during the New york Design Week In collaborazione con “Two Squared Studio” per Wanted Design, presentato durante la settimana del Design di New York.
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recycled cardboard panels
The stool 14X14X14 made of individual recycled cardboard panels that are held together with pvc cylinders . The stool was fabricated using CNC digital technology and is 100% recyclable Lo sgabello 14X14X14 è fatto di singoli pannelli riciclati tenuti insiemi da cilindri di pvc. Lo sgabello è stato construito usando tecnologie digitali CNC ed è interamente riciclabile.
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The trays are developed from various geometrical shapes, square, hexagon and pentagons, the trays have different dimensions allowing to have multiple uses depending on the space, and are held together with pigmented rubber bands. The trays are made out corrugated cardboard and are 100% recyclable and can be transported in a bi-dimensional packaging. I vassoi sono stati sviluppati a partire da diverse forme geometriche, il quadrato, l’esagono, il pentagono. I vassoi hanno forme diverse che permettono diversi usi a seconda dello spazio, e sono tenuti insieme con fasce di gomma pigmentate. I vassoi sono fatti di cartone ondulato, sono del tutto riciclabili e posono essere trasportati in una forma bi-dimensionale.
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multiple uses depending on the space grit 107
SQUARE HEXAGON AND PENTAGONS
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green sublime
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a photo essay by Laura Fantacuzzi
green sublime
the
Mettere a posto la natura.
To tidy nature up.
Il principio che guida la costruzione degli orti botanici sembra ripetersi identico in ogni luogo, in ogni foglia.
It looks like the principle that pushes us to build botanical gardens is the same in every place, in every leaf.
Ho iniziato a fotografare gli orti botanici nel momento in cui ho sentito la necessità di confrontarmi con degli spazi ordinati. Luoghi finiti e rassicuranti in cui la natura si manifesta in tutta la sua bellezza e diversità senza intimorire. Una natura quasi impotente che crea l’illusione di poter essere controllata. Questa, tuttavia, rimane mera illusione. Gli osservatori, i visitatori, gli studiosi, sono anch’essi parte del gioco di ruolo che da secoli contraddistingue l’osservazione della natura, la sua variegata diversità, la sua maestosa semplicità. Uno dei primi orti in Italia veniva soprannominato “Il giardino dei semplici”: la spoglia riverenza con cui l’osservatore si accosta alla pianta viva, al fiore rigoglioso, al cactus è la medesima in ogni città, perché il contesto urbano rimane fissato fuori dalle vetrate, dai portici, dalle mura. A Berlino, a Brooklyn, a San Francisco, i fiori si ripetono, variando al massimo le geometrie delle aiuole. Lo stesso fanno i visitatori: la distanza con cui ci si relaziona con la pianta, la prudenza nell’odorare i fiori scavalcano confini fisici, sociali e culturali. Il senso di sicurezza del ritrovare germogli e gemme in spazi lontani e disparati avvolge sia le piante che gli utenti, che spesso scelgono questi luoghi non solo per ragioni di ricerca, ma anche per inseguire la pace. La costante ripetitività protegge, attraverso la classificazione, dall’entropia. Nomi, provenienze, colori, illuminazione. All’interno, osservatori curiosi e piante perfette, che fioriscono indipendentemente dalle temperature, dalle intemperie, dal riscaldamento globale, in un’immobile immanenza, che affascina e inibisce al tempo stesso.
I started photographing botanical gardens when I felt the desire to face neatly organised spaces. Well-defined and reassuring places where nature appears in all its beauty without being frightening. In botanical garden nature nearly seems helpless and it give the impression that it can be controlled. But this is a mere illusion. Observers, visitors, scientists are part of the role play that has made the observation of nature, its great diversity, its majestic simplicity stand out. One of the first gardens in Italy was called “The garden of simple people”: the simple reverence with which the observer approaches a plant, a luxuriant flower, a cactus is the same in every city, because the city is always shut outside the glass, the cloister, the walls. In Berlin, in Brooklyn, in San Francisco the flowers are all the same, it is the patterns of the flowerbeds that change. Not even the visitors change: the distance from which they look at flowers, the caution in smelling them go beyond the physical, social and cultural boundaries. The feeling of safety given by finding the same sprouts and buds in far away places wraps both the plants and the visitors, who often choose these places not only for research but also to find peace. The steady repetitiveness protects, through classification, from entropy. Names, origins, colours, lighting. Inside, there are curious observers and perfect plants, that flower whatever the temperature and the weather and the global warming, in a static immanence that fascinates and inhibits at the same time.
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