Grit Magazine issue 8

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informal magazine issue8


Bimestrale di idee fotografiche/ bi-monthly magazine of photographic ideas AD & graphic design Andrea Basile with Alessio Matteucci Cover Photo Alessio Matteucci Photo Andrea Basile Mathieu Garnier Alessio Matteucci Kelvin Murray Giorgiana Scianca

Translation Marta Sanders Special Thanks Giorgio Bonaguro Lorenzo Damiani

informal magazine issue8


sommario/contents 05 > Editoriale/Editorial Never Fear Again/ Mai piĂš paura di Andrea Basile

68 > Fotografia/photography Sportster/ sportivamente di Kelvin Murrey

07 > Fotografia/photography Portraiture/ Ristrattistica Dan Comaniciu

85 > Fotografia/photography the real urban legends/ le vere leggende metropolitane di Alessio Matteucci

32 > Fotografia/photography Please don’t rush/ Per favore non correte di Giorgiana Scianca

105 > Fotografia/photography leaves on leaves/ foglie su foglie di Mathieu Garnier

56 > Design The sign portrait/ Lorenzo Damiani di Giorgio Bonaguro


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photo Andrea Basile design Carlo Contin


never fear again. Ore venti e cinquantadue, il Frecciarossa sparato a 300 Chilometri orari da Roma a Milano e John Legend che dice che è tutto “Alright”. Alessio è qui di fianco a me che tenta di stare sveglio, abbiamo appena finito di selezionare gli scatti di oggi. E’ stata un’altra giornata splendida e faticosa, con la sveglia che suona alle 4 del mattino per essere nella capitale di prima mattina, scattare tutto il giorno e rientrare in serata, che domani abbiamo i nostri ragazzi del liceo che ci aspettano per la lezione del giovedì. Fotografi in situazioni diverse ogni giorno, oggi ci sentivamo due motociclisti in piega estrema mentre scattavamo ritratti a mezzo secondo, me l’ha insegnato Vanessa che si può fare, qualche anno fa a Los Angeles. Quello che ci serviva, un po’ di bella e sana paura mentre premi l’otturatore. La realtà è che questa non è altro che una licenza poetica, non avevo paura, sapevo bene quello che stavo facendo, oggi. Però di paura ne ho avuta da vendere tante volte, un giorno di qualche anno fa, ad esempio, stavo facendo ritratti per una rivista ed il soggetto in questione si rifiutava di farsi fotografare. Dopo un’ora di vai e vieni si convince, con calma e pazienza, a farsi fare qualche scatto: erano le mie prime esperienze ed avevo montato un quintale di flash inutili tutto intorno a cui prestavo più attenzione che al mio soggetto; ne avevo messi quattro e scattavo a f16, veramente poco romantico. Ad ogni scatto seguiva una sua smorfia e la sua corsa verso la mia macchina fotografica per vedere come fosse venuta la foto. Straziante vedere le sue espressioni inorridite (senza motivo, a dire il vero) per ogni singola verifica; il terrore di non sapere gestire una situazione del genere si era materializzato ed aveva preso il sopravvento, ero in balia del mio soggetto, senza redini correva allo stato brado. Il risultato, sebbene davvero non fosse disastroso, venne letto tale perchè si leggeva la mia insicurezza. Da quella volta non ho più sbagliato, è evidente che sia sempre colpa del fotografo quando succedono queste cose, ho imparato la lezione. Nel mezzo del mio personale percorso fotografico ho scelto di prendermi la responsabilità di quello che accade perchè a nessuno interessano le scuse, a nessuno frega davvero nulla se il soggetto è uno stronzo: se ti hanno chiamato e commissionato un servizio è perchè sarai tu a risolvere il problema, non puoi certo pensare di portarne di nuovi complicando la vita a tutti. Andrea Basile

8.52 p.m., the high-speed train is running at 300 km per hour from Rome to Milan and John Legend is saying that everything’s “Alright”. Alessio is here by my side trying to stay awake, we’ve just finished selecting today’s photographs. It’s been an other beautiful and exhausting day, with the alarm clock going off at 4 a.m. to be in the capital early in the morning, shoot all day and be back in the evening, because there are our high-school kids who are expecting us for their Thursday lesson. Photographers in different situations every day, today we felt like two fast motorcyclists while we made portraits at a shutter speed of half a second, Vanessa taught me it’s possible, a couple of years ago in Los Angeles. Just what we need, a bit of good and healthy fear as we took the photo. The truth is this is only a poetic licence, I wasn’t afraid, I knew what I was doing today. But I have been truely afraid many times , a day a few years ago, for example, I was taking some portraits for a magazine and the person I was working with categorically refused to be photographed. After an hour of discussing and negotiating they were convinced, with calm and patience, to let me take a couple of pictures: it was one of my first experiences and I had set up a ton of useless flashes all around which I kept worrying about instead of concentrating on the person; I’d put four and I was shooting at f16, really not romantic at all. Every picture taken was shortly followed by a frown and a run to the camera to see how the photo had come out. It was excruciating to see the horrified expressions (with no reason, to be honest) the subject made at every check; the fear of not being able to handle such a situation had become very real and had overcome me, I was at the mercy of my subject, who ran in the wild with no reins. The result, even though it wasn’t disastrous, was seen as such because you could read my insecurity in it. Since then I haven’t made the same mistake again, it’s undeniable that it’s always the photographer’s fault when these things happen, and I’ve learned the lesson. In the middle of my personal photographic journey I chose to take on my own responsabilities because nobody cares about excuses, nobody cares if the subject is a dickhead: if they called you and commissioned a work it’s because you’ll be the one to solve the problem, you can’t think of bringing new ones to the field, making everybody’s life harder.


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portraiture photo Andrea Basile agency Beatrice Model Management

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LAX_HAJ LAP_MO Ricordo perfettamente la piccola riunione interna che abbiamo fatto prima di cominciare questo lavoro con Beatrice. Ci siamo ripassati per filo e per segno Avedon, Penn, Ritts e compagnia bella; abbiamo messo dei libri sulle scrivanie a disposizione e intimamente ci siamo chiesti se saremmo stati in grado di fare un buon lavoro, se saremmo stati in grado di produrre sempre cose diverse e sensate, fotografie intelligenti insomma. Quello che non avevamo considerato, in questo caso, è che forse eravamo fin troppo preparati. Abbiamo sempre inteso la ritrattistica come un momento in cui il fotografo e il fotografato si confrontano culturalmente, si raccontano con calma le proprie esperienze, per poi passare sul bianco per sintetizzare l’incontro in una fotografia. Non avevamo fatto i conti con i ritmi delle agenzie di moda milanesi. Alla domanda “quanti te ne posso mandare oggi” mi si è gelato il sangue nelle vene. Gli schemi si sono rotti da subito, ma abbiamo capito che sarebbe stato un percorso professionale valido e così infatti è stato. Fotografare per altri è un duro lavoro, devi essere utile alla committenza prima che a te stesso e nel ritratto è una cosa che un po’ mi infastidisce. I ragazzi e le ragazze hanno cominciato ad arrivare in studio e giorno dopo giorno ci siamo accorti che ignorassero cosa o chi fossero Harper’s Bazaar, Avedon e via dicendo; uno ci ha anche chiesto se il nostro banco ottico fosse un trapano verticale. Infine ha prevalso il nostro spirito paterno

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e ci siamo adeguati cercando di dare loro qualche spunto di riflessione oltre alle fotografie; devo dire che sono tutti ragazzi e ragazze fortemente motivati e disponibili ed anche a questo non eravamo preparati, li immaginavamo diversi. Il lavoro con il booker procedeva e procede bene: Giuseppe è il nostro riferimento, è giovanissimo anche lui ma è uno molto serio, sa che cosa sia il lavoro, insegna ai ragazzi sin dalle basi con costanza, li fa viaggiare, gli ordina puntualità ed educazione, li mette in riga insomma come un fratello maggiore. E poi, direte? E poi sei quasi solo su fondo bianco, perchè non hai che venti minuti per conoscere e fotografare un polacco che non rivedrai mai più in vita tua, una danese che si mette la maschera di quello che sembra essere la moda per lei, un russo che non parla bene inglese ma che si strappa di dosso la maglietta perchè ha gli addominali scolpiti, una ragazza di Bolzano timida e bellissima che ha sempre freddo anche se la fotografi col cappotto. Ti studi una luce che funzioni perchè non hai tempo, devi farli bene perchè i ragazzi ci devono mangiare con quelle foto, devono vendersi e devono ricordarsi di te possibilmente. La foto sul book è la tua per qualche settimana, poi si tagliano i capelli e tu sparisci dalla loro vita velocemente così come ci sei entrato, per dare spazio ad altre mille fotografie che muovono il business. Senza romanticismo, senza memoria, senza amore.


J_JFK OW_ YMX I remember perfectly the small internal meeting we had before starting this collaboration with Beatrice. We revised in depth Avedon, Penn, Ritts, and all the others; we put some books on our desks to have at our fingertips and we asked ourselves if we would have been able to do a good job, if we would have been able to always make different and sensible things, clever photographs. What we hadn’t considered, in this case, was that maybe we were too prepared. We always thought of portrait photography as a moment in which the photographer and the photographed get to know eachother froma cultural point of view, take their time to tell each other’s stories, so then they can move to set to synthesize the encounter. We hadn’t considered the rythm of Milan’s fashion agencies. I froze in place when I was asked: “How many can I send to you today?”. Our schemes broke straight away, but we understood it would have been a valid professional experience, and it was like that. Photographing for others is hard, but you have to be useful to the client first and foremost, and that’s something which bothers me a little in portraiture. Boys and girls started coming to our studio and day after day we realized they had no idea who or what Harper’s Bazaar or Avedon and so on were; someone asked us if our optical bench was a vertical drill. In the end our fatherly instincts took over and we adapted trying to give them not onlt some photographs, but also some food for thought.

I must say they are all strongly motivated and willing boys and girls, and this was something else we were’nt prepared for, we imagined them in a different way. The collaboration with the booker went and still goes well: Giuseppe is our reference point, he is very young too, but he’s very professional, he knows what work is, he teaches the models from the very start with resolution, he makes them travel, he orders them to be on time and well-behaved, he keeps them in line like an older brother does. And what next, you may ask. Next you’re on set basically on your own because you don’t have more than twenty minutes to get to know and photograph a Pole who you’ll never meet again, a Danish girl who wears a mask of what seems to be fashion for her, a Russian boy who doesn’t speak English well, but who takes his shirt off because he has a six-pack, a beautiful and shy girl from Bolzano who’s always cold, even if she’s wearing a coat. You study a light scheme which works because you don’t have time, and you have to take good photos because they live on those photos, they have to sell themselves with them, and possibly they’ll remember you because of them. The photo on their book is yours for a couple of weeks, then they cut their hair and you disappear from their lives as quickly as you entered them, to give space to a thousand other photographs which move the business. Without romanticism, without memory, without love.

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PLEASE DON’T RUSH a photo essay by Giorgiana Scianca from Laos

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PLEASE DON’T RUSH Sono partita sognando i suoi fiumi, li ho trovati, li ho vissuti e ora porto la loro calma dentro di me. Un viaggio in Laos è lento come lo scorrere dei suoi corsi d’acqua, scomodo come il suo passato, dolce come la sua gente. La mattina mi svegliavo presto come i Laotiani e, quando alle sei calava la notte, li osservavo stare seduti nella polvere intorno al fuoco, somigliavano a presepi nell’oscurità. L’odore della brace nell’aria era lo stesso di quando scende la sera nel piccolo paese di mia nonna, in Umbria, eppure ero così lontana. In quest’angolo di mondo, ogni posto dove vuoi andare ha un nome impronunciabile, Muang Noi Neua, ad esempio, roba che per comprare il biglietto di andata ho dovuto puntare il dito sul tabellone delle partenze. Ci si arriva solo via fiume e le barche partono da Nong Khiaw, che però si pronuncia nonchiao. Come falene i viaggiatori vanno tutti a Luang Prabang, attirati dalla luce del mercato notturno, dei lounge bar affacciati sul Mekong, dei templi dorati e dalla questua dei monaci prima dell’alba. E’ una città ipnotica, io ci ho trascorso tre giorni ma ci sarei rimasta un mese. Da qui in su, inizia il Nord, profondo e lontano un secolo, io mi sono spinta fino

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quasi a raggiungere la Cina, tra villaggi di etnia Lao Huay, Akha, Tai Dam, Khmu, Hmong e Tai Lue. In Laos ci sono cartelli che ti ricordano “think more, wear more and please don’t rush, you are in the Lao People’s Democratic Republic”, e tu hai voglia di dargli retta. Ho camminato per ore senza mai smettere di guardare, rispondendo sabadee al saluto di ogni bambino, ma quanti sono? Un codazzo di faccette sporche piedini nudi e grandi occhi neri che mi facevano sentire il pifferaio magico; io, la falang, la straniera con la macchina fotografica al collo e lo schermo che fa rivedere le foto, ero una magia. Ho capito che è la fotografia che mi fa a girare il mondo in lungo e in largo, mi autorizza a farlo da sola ma con uno scopo ben preciso. Lo diceva anche la Leibovitz ai suoi inizi, solo che lei era Annie. Questo photoessay rappresenta alcuni istanti nel Nord della Repubblica Democratica del Laos, con gli occhi spalancati mentre guardo fuori dal finestrino di un autobus scassato e gremito all’inverosimile, un lento andare che per me significa viaggiare. Please, don’t rush.


I left dreaming of its rivers, I found them, I lived them and now I carry their calm inside of me. A journey in Laos is as slow as the flow of its currents, troublesome as its past, sweet as its people. In the morning I woke up as early as the Laotians and when at six the night fell I watched them sit in the dust around a bonfire, they looked like nativity scenes in the darkness. In this corner of the world, every place you want to go to has an unutterable nam, Muang Noi Neu, for example: I had to point to the departures board to buy the ticket. You can get there only by boat, and the ferries leave from Nong Khiaw, which is pronounced nonkiao. Just like moths, travellers all go to Luang Prabang, attracted by the lights of the night market, by the loung bars on the Mekong, by the golden temples and by the offertory of the monks before dawn. It’s a hipnotic city, I spent three days there, but I would have stayed a whole month. From here going upwards, the North begins, deep and centuries apart, I nearly reached China, visiting villages of Lao Huay, Akha, Tai Dam, Khmu, Hmong and Tai Lue ethnies. In Laos there are signs that say “think more, wear more and please don’t rush, you are in

the Lao People’s Democratic Republic”, and you really would like to do so. I walked for hours always looking, answering sabadee to the greeting of every child. But how many of them are there? A throng of dirty cute faces bare feet and big black eyes which made me feel like the Pied Piper; me, the falang, the foreigner with a camera strapped to my neck and a display which allows to see the photos, I was magic. I understood that it’s photography which makes me travel the world far and wide, which allows me to do it alone, but with a welldefined aim. Leibovitz use to say it too, at the beginning, but she was Annie. This photoessay represents some moments in the North of the Democratic Republic of Laos, with my eyes open wide while looking outside of the window of a wrecked and incredibly crowded bus, a slow proceeding which to me means travelling. Please, don’t rush.

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the signportrait Lorenzo Damiani Nato nel 1972, Lorenzo Damiani si è laureato in Architettura presso il Politecnico di Milano conseguendo, successivamente, il Master in Disegno Industriale presso la Scuola Politecnica di Design. Ha esposto i suoi progetti in numerose mostre e ha partecipato, ottenendo premi, a vari concorsi tra i quali: “Compasso d’Oro”, XVIII, XIX, XXI edizione, Milano (Premio Progetto Giovane-Compasso D’Oro, 1998 - Segnalazione, 2001 – Segnalazione 2008); “Good Design Award”, Chicago Athenaeum, Chicago (2001-2007); “Young&Design”, Milano (Primo Premio, 2001 e 2004). Fra le mostre personali: Il Doppio Senso delle Cose, curata da Cristina Morozzi, presso la Fiera di Milano nel 2003, In-Coerenza, presso la Otto Gallery di Bologna, nel 2004 e Ma dove sono finiti gli inventori?, Triennale Design Museum nel 2009. Nel 2012 altre due mostre “Lorenzo Damiani: Senza Stile”, curata da Giovanna Castiglioni, tenutasi alla Fondazione Achille Castiglioni e “Prova a Prendermi”, curata da Silvana Annicchiarico, alla Triennale di Milano. Nel 2013 progetta l’allestimento dedicato ai fratelli Castiglioni all’interno della sesta edizione del Triennale Design Museum. Ha inoltre partecipato a varie edizioni del Salone Satellite di Milano. I progetti Flex e OnlyOne sono nella sezione Design della collezione permanente del Museo di Chicago. Ha collaborato con diverse aziende tra cui Campeggi, Cappellini, Montina, Acqua di Parma, Abet Laminati, Erreti, Omnidecor, Coop, Illy Caffè, IB Rubinetterie, BBB EmmeBonacina, Tabu, Tod’s.

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curated by Giorgio Bonaguro Born in 1972 , Lorenzo Damiani graduated in Architecture at the Politecnico of Milano achieving, then the Master in Industrial Design from the Scuola Politecnica di Design. He has exhibited his projects and has participated in numerous exhibitions , winning prizes at various competitions including: “Compasso d’Oro” , XVIII, XIX, XXI , Milan ( Young Award Project - Golden Compass 1998 - Report 2001 - Report 2008), “ Good Design Award” , the Chicago Athenaeum , Chicago (20012007), “ Young & Design” , Milan ( First Prize , 2001 and 2004). Selected solo shows : The Double Sense of Things, curated by Cristina Morozzi , at the Fiera di Milano in 2003 , In - Coherence, at the Otto Gallery Bologna , in 2004 , wwwbut where are the inventors ? , Triennale Design Museum in 2009. In 2012, two other exhibitions “Lorenzo Damiani: Senza Stile”, curated by Giovanna Castiglioni, held at the Foundation Achille Castiglioni and “Prova a Prendermi”, curated by Silvana Annicchiarico, at the Triennale di Milano. In 2013 Lorenzo Damiani designed the exhibition dedicated to the Castiglioni brothers in the sixth edition of the Triennale Design Museum. He also participated in various editions of the Salone Satellite in Milan . The Flex projects and OnlyOne are in the permanent collection of the Museum of Design in Chicago. He has worked with several companies including Campsites , Caps, Montina, Acqua di Parma, Abet, Erreti, Omnidecor, Coop, Illy Coffee, IB Rubinetterie , BBB emmebonacina, Tabu, Tod’s .


Photo Andrea Basile


“Cerchiamo un rapporto di comunicazione con l’osservatore, tendente a sollecitare le sue capacità di penetrazione, nella conoscenza dell’oggetto, al di là delle apparenze formali. Potremmo forse dire un rapporto di reciproca curiosità.” Questa dichiarata volontà di ricercare un rapporto di interazione con l’osservatore, espressa dai fratelli Castiglioni, è stata per me il punto di partenza per immaginare questo allestimento all’interno del TDM6. Ho voluto mettere l’oggetto al centro del racconto, senza troppi “giri di parole”…o forse ho scelto parole su cui sedersi. La sedia viene proposta come percorso di conoscenza dell’approccio progettuale dei due autori; il rapporto con l’oggetto cambia di volta in volta stabilendo, o ristabilendo, diverse modalità di comportamento o concezione. Sopra ogni seduta è appoggiata una scatola che, una volta aperta, offre al visitatore un racconto, soggettivo, relativo all’origine, alle contaminazioni e alla vita dell’oggetto, attraverso la progressiva scoperta di scritti, disegni, immagini e altri materiali, capaci di suggerire relazioni e influenze di quegli anni. Ogni scatola rappresenta, quindi, un piccolo scrigno da consultare seduti sull’oggetto stesso, che diviene il narratore privilegiato della propria genesi. Ho voluto proporre una modalità di fruizione alternativa, più diretta e personale, una sorta di rapporto 1:1 tra autori, oggetto e visitatore. Infatti il visitatore arriva, vede le scatole appoggiate sulle sedute, ne prende in mano una e, dopo essersi accomodato sulla sedia prescelta, appoggia la scatola sulle proprie gambe, “consultando” la mostra in modo individuale. “We try to communicate with the observer, we try to stimulate his level of understanding of the object, for it to go further than formal appearances. We could say we’re looking for a relationship of mutual curiosity.” This declared will to interact with the observer, expressed by the Castiglioni brothers, has been for me the starting point to imagine this set-up in the TDM6. I decided to put the object at the centre of the story, without beating about the bush... or maybe I chose words on which to sit. The chair is proposed as a path to learn about the design approach of the two authors; the relationship with the object changes every time establishing, or re-establishing, different ways to behave or think. There’s a box on every seat which, once opened, offers the visitor a story, which is subjective, relative to the originis, the contaminations and the life of the object, through the progressive discovery of the writings, drawings, images and other materials, able to suggest relationships and influences of those years. Every box, so, represents a small treasure chest to refer to sitting on the object itself, which becomes the priviled story-teller of its own creation. I wanted to suggest a different consumption, which is more direct and personal, a sort of 1:1 ratio between authors, object and visitor. In fact the visitor arrives, sees the boxes and the seats, takes one in his hands, and, after sitting down on his chair, he puts the box on his legs, and looks at the exhibition in an individual and personal way.

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SPORT a photo essay by Kelvin Murray

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the real urban legends a photo essay by Alessio Matteucci

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La prima volta che sono sceso dall’alta Brianza per avvicinarmi alla periferia a nord di Milano sono entrato in contatto con un tipo di urbanizzazione a cui non ero abituato. Essendo legato ad un territorio morfologicamente diverso da quello dell’hinterland milanese, per me è stata una grossa novità vedere una miriade di comuni sulla via Comasina intersecarsi tra di loro ,dove l’unico elemento che ne determina la competenza territoriale è solo il cartello che indica il nome del comune successivo. Nonostante questo il tipo di urbanizzazione che si è sviluppata è profondamente eterogenea, e questo è quello che ha motivato la mia ricerca fotografica. All’interno di uno spazio ridottissimo,quale può essere una via o un quartiere, si sono riusciti a sviluppare moltissimi stili architettonici differenti che a volte,forse un po’ pretenziosamente, cercano di avvicinarsi a modelli ben lontani dalla zona in cui sono realmente sorti. The first time I left the Brianza area to approach the suburbs north of Milan I encountered a kind of urbanization which I wasn’t used to. Living in a context which is morphologically different to the one of the Milan hinterland, for me it was a huge change to see countless villages on the via Comasina intersect eachother, where the only element which defines the jurisdiction is the sign which says the name of the next town. However, the type of urbanization which was developed is profoundly heterogenous, and this is what motivated my photographic research. Within a very small space, for example a street or a neighborhood, an incredible quantity of different architectural styles managed to develop, and sometimes, possibly a bit pretentiously, they try to imitate models which are very far from the area where they have actually appeared. 84 grit


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leaves on leaves a photo essay by Mathieu Garnier

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