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In contrasto con la monumentalità dell’architettura razionalista in cui si contestualizzano, ma in continuità con la ricerca avviata con le Triennali degli anni ’30 in Italia nel campo del design industriale, le bubblecars rappresentate in questo volume non rinunciano al caratteristico streamline delle automobili del New Deal mostrate nelle esposizioni americane di quegli stessi anni, rappresentando ancora oggi una risposta interessante ai problemi di mobilità nelle grandi città, un fenomeno propriamente europeo che provocò l’investimento di massime risorse nei maggiori paesi del vecchio continente e che ancora oggi non cessa di richiedere soluzioni innovative.

Macchinette

le bubblecars nel design del Novecento

le bubblecars nel design del Novecento

€ 35,00

PALOMBI EDITORI


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le bubblecars nel design del Novecento

a cura di Cristiano Rosponi e Francesco De Cunto

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Sommario Presentazione

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Giulia Rodano

Forma e sostanza

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Luigi Prisco

CONTRIBUTI Un’automobile per la “strada corridoio”

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Cristiano Rosponi

Macchinette

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Francesco De Cunto

Il design delle bubblecars. Una questione di scala

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Carlo Martino

L’auto al minimo: vicende della micro vettura in Italia

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Nicoletta Cardano

Machine-made, Drive-in, America

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Jean-François Lejeune

LE MACCHINETTE Isetta, ovvero una city-car in anticipo sui tempi

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Un aereo su tre ruote

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APPARATI

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a cura di Margherita Martelli

Indice cronologico

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patrocinio di

collaborazione tecnica MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

Presidenza Camera dei Deputati

MUNICIPIO ROMA “Centro Storico”

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L’Isetta a New York. Sullo sfondo il Rockfeller Center. Foto: BMW AG Group Archives

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Il complesso ex GIL di largo Ascianghi è uno straordinario esempio di architettura razionalista di cui è in corso il completo recupero funzionale per farne sede definitiva di iniziative legate alla cultura contemporanea. Già in questa fase, comunque, la struttura ha ospitato, a cura del nostro Assessorato, eventi importanti che ne hanno fatto punto di riferimento per artisti che operano soprattutto nel settore della fotografia e della multimedialità. Ora il nuovo appuntamento, la mostra “Macchinette – Le bubblecars nel design del Novecento” realizzata dalla Fondazione CE.SAR Onlus con EUR S.p.A., allarga ulteriormente l’orizzonte di lettura della programmazione di attività nell’ex GIL, aprendo una finestra sul tema mobilità, uno dei più importanti, dal punto di vista sia sociale che culturale, fra quelli che hanno caratterizzato il secolo appena trascorso. Il soggetto mobilità è stato, infatti, l’asse portante del Novecento e, oggi, mantiene sempre, con le sue forti contraddizioni, un ruolo da protagonista nella vita quotidiana come in quella economica, rappresentando anche la creatività al massimo livello. E il fenomeno delle micro vetture, sviluppatosi in particolare nell’immediato dopoguerra e negli anni Sessanta, permette, pur naturalmente nella sua ottica parziale, di riflettere su aspetti – dal design alla tecnologia, al costume, al rapporto con le problematiche urbanistiche e ambientali – di assoluta attualità. Non si tratta, dunque, con questa mostra di sollecitare semplicemente curiosità o di dare soltanto un riconoscimento, d’altra parte opportuno, all’impegno di appassionati e competenti collezionisti, quanto piuttosto di stimolare in forma insolita proprio l’approfondimento culturale di un periodo significativo della storia recente.

Giulia Rodano Assessore Cultura, Spettacolo e Sport alla Regione Lazio

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Forma e sostanza Furono gli americani a lanciare gli anni Cinquanta come gli anni della ripresa mondiale, un nuovo deal per superare la depressione post bellica, ma in questa storia gli americani non c’entrano. Il fenomeno delle Macchinette infatti è un evento europeo, un quadro storico, una finestra nel complesso clima della rinascita del vecchio continente, pressantemente bisognoso di nuova identità ed equilibrio sociale. Nel nostro paese in particolare cambia la focale sulla realtà, come cambia nell’arte il segno di molti pittori dal figurativo all’astratto, nel desiderio di dare inizio ad una nuova epoca o nel cinema con la camera da presa puntata su storie minori che tramutano in poesia il disagio di quel difficile momento. Nasce in quegli anni, soprattutto verso le nazioni perdenti, un’attenzione dei vincitori a ricostruire un nuovo clima culturale soprattutto per la generazione nata e cresciuta a ridosso della guerra. Dal clima collettivo forzato degli anni Trenta e sulla spinta del bisogno del momento, cresce la sfera individuale con la rincorsa al benessere, promessa dalla malconcia reindustrializzazione del paese. Inventiva ed ambizione fecero il resto. In questi anni nasce in Italia l’Isetta simulacro di una nuova autonomia per la mobilità personale, la risposta forse dimensionalmente esagerata per convertire l’industria al fabbisogno dell’individuo. La bontà del progetto è dimostrata oltre che dalle declinazioni estere dell’Isetta, anche dalle produzioni coeve promosse in tutta l’Europa. Ma è la bubble italiana a fare da capostipite, per quel suo design d’autore e per le sue soluzioni funzionali, è il trionfo delle linee curve organiche sulle linee rette, ortogonali, razionali. Torneranno presto familiari quelle linee curve, grazie ad una produzione industriale felicemente contaminata da disegnatori innovativi impegnati nella realizzazione di oggetti d’uso comune e domestico, nuove idee per migliorare la vita. Stadio intermedio tra una motoretta ed un’auto ebbe forse il limite di non soddisfare, a causa della limitata capienza, le necessità della famiglia, come invece garantirono i piccoli modelli Fiat. Eppure guardando le promozioni pubblicitarie di quegli anni, le vetturette sono un prodotto consolidato

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da una offerta innovativa e da un’accattivante commercializzazione. L’Isetta in particolare si distingue da molti altri modelli caratterizzati da una impronta quasi fumettistica o altre mini auto risultanti da semplici riduzioni di scala delle sorelle maggiori. Ci troviamo oggi, con questa mostra dunque ad attribuire un significato di storia e costume a queste vetturette, cogliendo nella dimensione ridotta ed intimista un termometro della società degli anni Cinquanta, un segno contrario al gigantismo architettonico dell’International style e una risposta fascinosamente perdente al problema della mobilità nei centri urbani. Si coglie infatti, dopo l’investimento nella miniaturizzazione del mezzo di trasporto il segno di una inevitabile crisi. Dopo un decennio di sperimentazioni infatti il mercato dell’auto sposerà con decisione la dimensione urbanistica dei grandi raccordi e delle autostrade. L’auto diventa traguardo sociale e strumento di affermazione, mezzo indispensabile per annullare le distanze non solo geografiche del paese. Ma guardando questi mezzi oggi, è inevitabile fare congetture, ripensando alle Macchinette degli anni ’50 ed alla attuale circolazione urbana caratterizzata da un ritorno al minimalismo per molti modelli sperimentali o in commercio. Viene da chiedersi ad esempio se la progressiva interdizione ai veicoli nei nostri centri possa essere mutuata dalla circolazione di piccole vetture a propulsione elettrica o fotovoltaica, mezzi, per ora atipici che potrebbero rivoluzionare il trasporto individuale con un minore impatto ambientale nelle nostre città. Nell’ideale carrellata sulla storia del XX secolo è sembrato importante per la Regione Lazio muovere queste riflessioni con questa mostra che valorizza il recupero promosso da attenti collezionisti di testimonianze uniche e sorprendenti. Ultimamente si parla molto di automobili in eventi sulla storia o sul mito della velocità, chissà se questo ritorno di attenzione coincide con i segnali di una irreversibile crisi del sistema auto-carburanti fossili, oppure molto più semplicemente è motivato da un antico amore per questa figlia del XX secolo? Luigi Prisco Direzione Regionale Beni e Attività Culturali

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Un’automobile per la “strada corridoio” Cristiano Rosponi*

Considerata all’inizio del secolo scorso ancora un bene di lusso in Europa, l’automobile, che si sviluppa su scala industriale solo negli anni Venti, resta indubbiamente una delle invenzioni che hanno modificato più profondamente il modo di vivere del XX secolo. Si potrebbe dire con Le Corbusier che il design dell’automobile ha rappresentato nel XX secolo lo spunto per il progetto, non solo della casa e della città contemporanea, ma anche di quella futura. Due pagine di «Vers une Architecture» paragonano il tempio di Paestum e il Partenone rispettivamente con un’automobile Humbert del 1907 e la Delage Grand Sport del 1921 contrapponendoli: «Mostriamo dunque il Partenone e l’automobile perché si comprenda che si tratta, in campi differenti, di due prodotti di selezione, l’uno realizzato compiutamente, l’altro in una prospettiva di progresso. Questo nobilita l’automobile. Allora! Allora restano da confrontare le nostre case e i nostri palazzi con le automobili. È qui che i conti non tornano. È qui che non abbiamo i nostri Partenoni»1. L’analogia architettura-macchina in quelle due pagine trova una dimostrazione visiva di come la casa divenga “una macchina in cui vivere” applicando alla città la soluzione per il problema dell’ottimizzazione dell’uso di uno spazio limitato da parte degli esseri umani: «Se il problema dell’abitazione, dell’appartamento, venisse studiato come si studia un telaio d’automobile, si vedrebbero rapidamente trasformate e migliorate le nostre case. Se le case fossero costruite industrialmente, in serie, come dei telai d’automobile, si vedrebbero sorgere rapidamente forme inattese, ma sane, definibili, e l’estetica verrebbe formulata con precisione sorprendente»2. Già dalla nascita dei movimenti artistici d’avanguardia che attraversavano l’Europa ai primordi della rivoluzione industriale che, da William Morris al Movimento Arts and Crafts e dall’Art Nouveau al Bauhaus hanno fatto da ponte fra il XIX e il XX secolo, le case e perfino le città cominciavano ad essere concepite come prodotti della produzione industriale per cui il principio di base della “età della macchina” poteva essere applicato anche alle residenze. La nuova arte propagandata da quei movimenti, era ancora una volta inscindibile dal desiderio di costruire una società migliore, trasformandola in una combinazione di progettazione urbanistica e utopia urbana: «… un connubio fra Henry Ford, che voleva portare le macchine là dove non c’erano, e le aspirazioni delle comuni socialiste, che volevano portare i bagni dove non c’erano»3. Al di là della particolarità delle teorie di Le Corbusier, è indubbio che ci fu uno stretto legame tra il Movimento Moderno ispirato dalle teorie di quest’ultimo e il design dell’automobile: «If the London Georgian terrace of the eighteenth century, for example, had been designed, unwittingly, as a kind of mirror image of the well-groomed contemporary pedestrian, and the elongated white stucco Regency terraces of John Nash around Regent’s Park designed to reflect the stately, if faster, movement

Un progettista cammina all’interno del plastico “metropolis of tomorrow” nell’ambito della mostra “Futurama” nel Padiglione GM, Alfred Eisenstaedt. Collection: Time & Life Pictures, © Ghetty images

Edifici modernisti e autostrade sopraelevate del plastico “metropolis of tomorrow” nell’ambito della mostra Futurama nel Padiglione General Motors, Alfred Eisenstaedt. Collection: Time & Life Pictures, © Ghetty images

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Le Corbusier, Verso una architettura, Longanesi & C., Milano 1973 (titolo originale: Vers une architecture) pp. 106-107. Idem, p. 105. Eric J. Hobsbawm, in Arte, progresso e società , Il fallimento delle avanguardie artistiche nel secolo breve, Le Monde diplomatique.

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of horse-drawn traffic, determinedly horizontal white Modern Movement architecture surely reflected the speed of the passing car»4. A tal punto che, dopo la seconda guerra mondiale le città sono state progettate per rispondere alla crescente velocità delle automobili: «… In a purely abstract sense, this phenomenon advanced the curious beauty of the clover-leaf US freeway junction, concrete flyovers, spiral garage ramps and buildings that looked as if they were made for the car rather than for human beings»5. Sono le grandi esposizioni del ’900, in particolare quelle americane, dove nell’ambiente sgargiante delle luci al neon i padiglioni delle case automobilistiche ereditano le forme delle auto esposte al loro interno, ad introdurre a pieno titolo l’automobile nel novero dei mezzi di trasporto di massa insieme ai treni e agli aeroplani. Nonostante infatti l’avvento della grande depressione del ’29 avesse messo la parola fine ad un’era di grande consumo energetico, le esposizioni mondiali del ’900, anche quando hanno coinciso con la prima guerra mondiale, la “grande depressione”, l’avvento dei grandi regimi totalitari, o la tragedia di Hiroshima, tutti fatti che hanno determinato il secondo conflitto mondiale, erano guardate come un ottimistico traguardo verso il futuro. Non è un caso se furono temi come: A century of progress e The world of tomorrow a contraddistinguere le esposizioni americane sino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Già nell’Esposizione di Chicago del 1933 “Rainbow city” così chiamata in contrapposizione alla discussa “White city” dell’Esposizione del 1900, il Chrysler Center Building di Holabird e Root con le sue linnee verticali e le ampie vetrate e l’edificio della De Soto motors con le sue linee curve ereditano dai modelli delle auto esposte i loro caratteri formali. Ma se nell’Esposizione di Chicago l’automobile cominciava a condizionare le forme dell’architettura, nella grande Esposizione di New York del 1939 i fabbricanti di automobili fanno la loro comparsa in grande stile profetizzando, come Le Corbusier nella “Ville radieuse”, la trasformazione della città futura. Insieme alla mostra “Democracity” ospitata nel Perisferio in cui Richard Dreyfuss presentava una città per un milione di abitanti formata da una serie di quartieri connessi tra loro attraverso una fitta rete di autostrade, il padiglione “Highways and horizons” della General Motors riproponeva lo stesso concetto nel grande plastico metropolis of tomorow nell’ambito della mostra “Futurama” di Norman Bel Geddes, mentre la monumentale rampa a spirale del padiglione della Ford era attraversata da trentasei modelli di Ford simboleggiando le strade del futuro. Si può dunque intuire come tutto il pensiero urbanistico del XX secolo sia stato permeato dal concetto di velocità secondo l’assunto di Le Corbuser per cui «La ville qui dispose de la vitesse dispose di success»6. Questo pensiero, che trova le sue radici prima ancora di Le Corbusier nel manifesto del Futurismo del 1909, ha portato alla condanna senza appello della strada come “rue corridor”, rafforzando l’idea che sarà la velocità a determinare la città futura: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a

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Le Corbusier, Plan Voisin, 1925 © Fondation Le Corbusier

Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, particolare

Schema di circolazione che evidenzia i rallentamenti provocati da una piazza moderna; da: C. Sitte, L’arte di costruire le città, Milano 1988


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Una rampa per automobili all’esposizione di New York del 1939 con, sullo sfondo, il padiglione della General Motors in cui si può notare la divisione del traffico veicolare da quello pedonale, da: «L’illustration», n. 5023, giugno 1939

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Jonathan Glancey, Architecture and the car: as the automobile evolved in tandem with modern architecture, it created myths, legends and new building types, in «The Architectural Review», giugno 2005. Idem. Le Corbusier, Urbanisme, p. 169, Champs Flammarion, Paris 1994.

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Nell’acquarello di Geo Ham per l’Esposizione internazionale di Parigi del 1937, all’architettura funzionalista del Padiglione dell’aeronautica degli architetti francesi Audoul, Hartwig e Gerodias viene accostata una macchinetta monoposto, in tutto simile a quello che sarà in Germania il Messerschmitt Kabineroller di derivazione aeronautica. Da: «L’illustration» n. 4917, maggio 1937

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Manifesto del Futurismo, «Le Figaro», 20 febbraio 1909. Le Corbusier, Urbanisme, Paris 1925. C. Sitte, L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici, Jaca Book, Milano 1988 (titolo originale: Der Städte-Bau nach seinen Künsterlischen Grundsätzen, Wien 1889) p. 125.


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serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia»7. Questa necessità di concepire la strada come un “organismo nuovo” una “macchina per circolare”, si basava sull’idea che le esigenze di mobilità dell’automobile sono incompatibili con la città tradizionale: «La ruecorridor à deux trottoirs, étouffée entre de hautes maisons, doit disparaître»8. In questo senso, la “città contemporanea per tre milioni di abitanti”, presentata da Le Corbusier alla Exposition Internationale des Arts Decoratifs del 1925, come frutto di una ricerca finanziata proprio da un costruttore di automobili, prevedendo un radicale intervento di demolizione e ricostruzione del centro di Parigi con la realizzazione di grattacieli cruciformi su un impianto viario razionale, un centro commerciale con al suo interno funzioni direzionali e servizi, una parte delle residenze situata all’interno della città, ed una ulteriore fascia residenziale suburbana, aveva l’intento di dimostrare l’inadeguatezza della città attuale rispetto alle necessità dell’uomo contemporaneo. Teorie che sfociano nel 1933 ne La Ville Radieuse dove le necessità dell’uomo moderno sono ridotte al minimo secondo i dettami della nascente cultura dell’ “età della macchina”. Ma le strade nelle grandi città sono da allora imbottigliate da congestioni senza precedenti e il traffico veicolare presente nelle città sin dall’antichità è accresciuto a causa delle automobili che sono costrette a viaggiare più lentamente delle antiche vetture a cavallo. La velocità media del traffico a Londra è oggi di 16 km/h e simile a quella che si aveva alla fine del XIX secolo. Lo aveva già intuito Camillo Sitte un decennio prima delle teorie di Le Corbusier: «… Tutti quelli che hanno l’abitudine di circolare in auto sanno che nei quartieri moderni è spesso impossibile avanzare più in fretta, mentre nelle vie strette e affollate della città vecchia si va facilmente di corsa»9. Evidentemente in mezzo secolo di storia non c’è stato un grande progresso, si è consumato tanto territorio a danno dell’ambiente per giungere allo stesso risultato. È indubbio dunque che le discussioni sulla città del XXI secolo non potranno prescindere dal dibattito sui mezzi di trasporto, e che non è più possibile pensare che la città si trasformi seguendo esclusivamente l’evoluzione del trasporto privato o qualche forma magari oggi innovativa di trasporto pubblico, così come non è più nemmeno possibile considerare il trasporto, sia pubblico che privato, senza considerare le nuove forme alternative di energia ad esso associate. Non è più nemmeno possibile non confrontare gli esiti cui hanno condotto le utopie urbane del XX secolo che facevano dell’automobile la misura per la costruzione della città funzionalista con le sue autostrade come “luoghi della velocità”, con le aspirazioni odierne ad un Rinascimento Urbano che pone nuovamente l’uomo a misura della città e la “strada corridoio” come spazio privilegiato di “comunicazione”. Sono sempre di più infatti i progetti che hanno come priorità la trasformazione delle periferie moderniste in quartieri autosufficienti. Piccole città dotate di strade, piazze, porticati, vicoli, dove le principali funzioni siano raggiungibili prevalentemente a piedi nella minore distanza possibile e collegati tra di loro da viali e boulevard

Nuovo quartiere Val d’Europe, Marne La Vallée. Brasserie in Place de L’Ariane, arch. Leon Krier con Colum Mulhern, ©2007 tibo.org.

Philippe Gisclard, Riqualificazione urbana del Parking Des Carmes, Toulouse, France (1985-87) Progetto presentato nel 1987 nell'ambito dell'Esposizione "Les delicies de l'imitation", prevede la costruzione di tre nuovi edifici e di una facciata addossati ad un parcheggio multipiano costruito nel 1960

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riservati ad un traffico più veloce. Quartieri dove non è il sistema di circolazione a preservare la vita della città, ma è la vita stessa della città con i suoi spazi e ritmi “ragionevoli”, che sono poi gli spazi tipici della città europea fino al XIX secolo, a determinare la forma e la velocità delle automobili, riscoprendone anche l’aspetto ludico e non “necessario”. Ammiccando, per forme e colori che tanto avevano trovato negli anni Trenta l’opposizione di Ford10, alle architetture allegre della Florida degli anni Venti e per creatività e contenuto innovativo al design tedesco e scandinavo, talvolta ancora troppo legato al funzionalismo del Bauhaus, la Vespa, la bicicletta motorizzata Cucciolo, la Lambretta e in particolare l’Isetta, testimoniano la ricerca di un formalismo che si è tradotto in una mescolanza di piacere decorativo e di impeto modernista in contrasto con la poetica funzionalista del movimento moderno che vedeva la forma seguire le funzione. Anticipando già in quegli anni «la svolta avveratasi negli anni Ottanta con il post-modernismo e il decostruzionismo in architettura»11, i modelli di bubblecars esposti in questa mostra, rivelano, con la loro ergonomia “minimal”, che pur non rinuncia alla caratteristica “ridondanza”12 e allo streamline delle automobili del New Deal mostrate nelle esposizioni americane degli anni ’30, con i loro bassi consumi dichiarati, con le loro innovazioni tecnologiche, nonché con i vari innovativi sistemi di ingresso e uscita dei passeggeri, ancora oggi una intuizione tutta italiana ed europea non solo di quella che sarebbe stata di lì a breve la tendenza del design, legato in particolar modo all’uso della plastica, ma soprattutto sul futuro del trasporto privato in Europa. Non è un caso che, mentre nel 1956 Ford immagina Aquacar e negli anni 1953-1958 impera il negli USA il Rocket design con i famosi prototipi delle Firebird dalle linee a cuneo e dall’aerodinamica spinta, nell’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958 dall’evocativo titolo “Building the World at a human scale”, alcuni modelli di microcars come quelli esposti vengono presentati in una scena di traffico cittadino assieme a modelli di auto di dimensioni correnti e soprattutto a mezzi di trasporto alternativi, rivelando l’affacciarsi di una riflessione critica sulla modernità che, allora legata ai ricordi delle devastazioni della seconda guerra mondiale e in particolare allo scoppio della bomba atomica, ed oggi connessa con le devastazioni ambientali e alla sempre minore disponibilità di petrolio, non cessa di interrogarci sul futuro delle nostre città.

* Presidente Fondazione CE.S.A.R. Onlus

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Liberty Harbor North, New Jersey, Usa, masterplan: Duany & Plater Zyberk. Veduta della strada principale verso la statua della Libertà

Quartiere residenziale “Il Borgo” in Provincia di Rieti, Cristiano Rosponi (GAU Associati)

Quartiere residenziale a Roma, Cristiano Rosponi (GAU Associati), si noti la coesistenza delle viabilità pubblica, comprensoriale e pedonale connesse ad un tessuto tradizionale


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Nuova città di Poundbury a Dorchester, 1988-2006. Masterplan: Léon Krier. Progetti di: Wessex Design Partnership, B.B. Pentreath, R. Sammons, John Simpson

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H. Ford: «Potete scegliere la macchina del colore che volete, a patto che sia nera». Tomás Maldonado, Mitomacchina e altri miti in Mitomacchina: il design dell’automobile: storia, tecnologia, futuro, Skira editore, Milano 2006, p.19 Idem, p. 18

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Immagine pubblicitaria dell’Expo di Bruxelles del 1958 “Building the world to a human scale”, da: Jens Kron, Messerschmitt Kabineroller, Battenberg Verlag, Ausburg 1997


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Frank Lloyd Wright, Vista di una strada di Broadacre City, disegno; da: The Living City, 1958. © Frank Lloyd Wright Foundation, Scottsdale 5825.003

Henry Ford, Progetto per la città lineare di Muscle Shoals. Veduta a volo d’uccello della Tennessee Valley presso Muscle Shoals, che mostra la struttura regionale del piano di Henry Ford. Questo progetto fu fonte d’ispirazione per la Broadacre City di Frank Lloyd Wright; da: Scientific American, September 1922


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Machine-made, Drive-in, America Jean-François Lejeune*

È comprensibile che i giovani degli anni ’20 fossero affascinati dalla visione della Città Radiosa delle superstrade, con la promessa illusoria che essa sarebbe stata perfetta per l’era dell’automobile... Alcuni uomini tendono a restare attaccati ad antiche eccitazioni intellettuali, così come accade alle belle donne, che una volta diventate anziane signore continuano a restare aggrappate alle mode e alle acconciature della propria esaltante giovinezza. È tuttavia più difficile comprendere perché tale forma di sviluppo mentale frenato debba essere tramandata integralmente alle generazioni successive degli urbanisti e dei progettisti1. Come ricordato da Leo Marx ne La Macchina nel Giardino «sin dai tempi della scoperta, l’ideale pastorale è stato utilizzato per definire il significato dell’America»2. Dalla fondazione della Repubblica, gli scritti di Thomas Jefferson, Ralph Emerson, Henry David Thoreau, Edgar Allan Poe, Henry James – per nominarne alcuni – erano governati da una potente tradizione di anti-urbanesimo e dal «motivo del buon pastore, figura chiave dello stile classico Virgiliano […] di ritirarsi dal grande mondo ed iniziare una nuova vita in un paesaggio intatto e verde»3. Nel periodo a cavallo tra due secoli, la diffusa industrializzazione ed urbanizzazione hanno frantumato il fragile equilibrio ecologico e umano del XIX secolo, aprendo la strada a drammatici sconvolgimenti nel tessuto sociale e fisico delle città. I nuovi valori e le consuetudini sociali sono apparsi sempre più antitetici a quelli rurali e delle piccole città – un fenomeno presente anche in Europa e studiato prima di tutti dal tedesco Ferdinand Tönnies, che ha approfondito la relazione dicotomica della Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società), ma che ha raggiunto l’apice nella machine-made, drive-in, America4 del XX secolo.

Una Ford Modello-T nella città-giardino di Coral Gables, Florida, 1925 ca. Courtesy Historic Museum of Southern Florida

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Dal Modello-T alla Broadacre City Un articolo del 1913 intitolato L’Automobile e la sua Missione riassumeva i progressi strabilianti compiuti dall’automobile in America: nel 1908 era ancora un «gioco trascendente emozionante, seduttiva, decisamente costosa» ma cinque anni dopo apriva schemi di sviluppo radicalmente nuovi5. Lo strumento rivoluzionario era la piccola Ford Modello-T, la cui catena di montaggio a basso costo venne avviata nel 1913. Progettata per la middle e upper middle class, l’automobile suburb, un tipo di città-giardino alla scala dell’automobile e accessibile solo con l’automobile, faceva la sua veloce apparizione nell’intero paese ad esempio Roland Park, Coral Gables, Palos Verdes, e le nuove città di John Nolen. Come è accaduto in California, la Florida, l’ultimo stato di frontiera all’interno degli Stati Uniti, si modernizzava a partire da e grazie all’automobile. Foto contemporanee mostrano come la ModelloT, “la macchina nel giardino”, serviva da grande motore pubblicitario

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Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, Random House, New York 1961, p. 371 (edizione italiana: Vita e morte delle grandi città: saggio sulle metropoli americane, Einaudi, Torino 1969). Leo Marx, The Machine in the Garden: Technology and the Pastoral Ideal in America, Oxford University Press, New York 1964, p. 3 (edizione italiana: La macchina nel giardino: tecnologia e ideale pastorale in America, Lavoro, Roma 1987). Ibidem. Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft: Grundbegriffe der reinen Soziologie, Curtius, Berlin 1912 [1887] (edizione italiana: Comunità e società, Comunità, Milano 1979). Si veda Hubert Ladd Towle, The Automobile and its Mission, in «Scribner’s Magazine», 53 (1913), citato da Robert A.M. Stern e John Montague Massengale, The AngloAmerican Suburb, Architectural Design, London 1981, p. 11.

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della promozione immobiliare della Florida del Sud6. A livello nazionale, la Regional Plan Association of America, fondata da Clarence Stein nel 1923, fu determinante nello sviluppare un’agenda progressiva di pianificazione regionale, con l’obiettivo finale della de-urbanizzazione. Per i suoi membri più influenti, come Stein, Lewis Mumford, Benton MacKaye e Henry Wright, l’uso dell’automobile associato alla distribuzione nazionale di elettricità a basso costo doveva incoraggiare la comunicazione, il decentramento della popolazione e l’industria, ed infine l’autonomia dai grandi centri industriali7. Nel cuore del paese, le dighe idroelettriche dell’impoverita Tennessee Valley divennero presto il palcoscenico di un drammatico e fondamentale dibattito. Nel 1921, Henry Ford arrivò nella piccola città di Muscle Shoals, dove era stata costruita la prima diga produttrice di elettricità, con l’idea di trasformare quest’area in una metropoli: «Darò lavoro ad un milione di lavoratori a Muscle Shoals e costruirò una città lunga 75 miglia» dichiarò Ford, ma il progetto alla fine fallì8. Dodici anni dopo, nel pieno della grande depressione, Franklin Roosevelt creò la Tennessee Valley Authority. Benton MacKaye vide nell’Authority l’opportunità a lungo auspicata di attuare il suo piano dell’Appalachian Trail del 1921, che prevedeva una città lineare composta da «superstrade senza città» e «città senza superstrade». Nel suo progetto del 1933, egli immaginava una catena di città stretta e lunga duemila miglia tra il Tennessee e New York9. Questa versione modernizzata del pastoralismo americano potrebbe essere letta come una visione esasperata di un fenomeno internazionale che Ortega y Gasset chiamava “primitivismo” e che analizzò ne La ribellione delle masse del 1930. Il filosofo spagnolo utilizzava questo termine per definire il Naturmensch, un nuovo tipo di “uomo non civilizzato” che insorgeva nel bel mezzo di un “mondo civilizzato”: «Egli non vede la civiltà del mondo attorno a sé, ma la utilizza come se fosse una forza naturale. L’uomo nuovo vede la sua automobile, e gli piace, ma ritiene che sia il frutto spontaneo di un albero dell’Eden»10. Similmente, in Civilization and its Discontents, pubblicato lo stesso anno, Sigmund Freud si soffermava sull’impulso umano a ritirarsi dal crescente potere e complessità della civiltà11. Nessuna utopia rifletteva queste contraddizioni meglio della saga venticinquennale della visione trascendentalista dell’America Usoniana di Frank Lloyd Wright, Broadacre City (1932-1958)12. Sbigottito dalla mediocrità dell’espansione suburbana incontrollata, la perdita degli spazi verdi, e la disumanità della metropoli, Wright concepiva la Broadacre City come città-regione, utilizzando i nuovi strumenti della tecnologia e del “capitalismo organico” per disperdere la città nel paesaggio, mantenere un alto livello di spazio ad uso pubblico, e creare un nuovo urbanesimo per la democrazia: «per molti anni passati, la rapida mobilitazione, il volo, l’automobilismo e la teletrasmissione hanno restituito all’uomo il senso dello spazio, lo spazio libero, nel senso in cui un grande, libero e nuovo paese dovrebbe conoscerlo»13. In opposizione tanto alla classica città europea e le sue utopie come il Plan Voisin di Le Corbusier, così come al sobborgo americano informe e monofunzionale, ogni 4 miglia quadrate della Broadacre City costituivano una città idealizzata, basata sull’automobile e che includeva tutte le funzioni di una metropoli tradizionale senza tuttavia avere bisogno di un centro tradizionale.

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Si veda Robert A.M. Stern e John Montague Massengale, op.cit.; e JeanFrançois Lejeune, Il reticolo, il parco e il modello-T alla ricerca del paradiso: città-giardino in Florida, in Città Giardino: cento anni di teorie, modelli, esperienze, a cura di Gabriele Tagliaventi, Gangemi, Roma 1994, pp. 221-265. 7 Sulla RPAA, si veda Francesco Dal Co, From Parks to the Region: Progressive Ideology and the Reform of the American City, in The American City: From the Civil War to the New Deal, The MIT Press, Cambridge 1979 (edizione italiana: Francesco Dal Co, La città Americana della Guerra civile al New Deal, Laterza, Roma 1973); Mel Scott, American City Planning since 1890, University of California Press, Berkeley 1969. 8 Si veda Preston J. Hubbard, Origins of the TVA: The Muscle Shoals Controversy, Vanderbilt University Press, Nashville 1961. Le voci immediate sul progetto di Ford riempirono le strade, speculatori immobiliari iniziarono a comprare terreni e a parcellizzarli in lotti da 25 piedi, realizzando marciapiedi ed installando lampioni. L’offerta di Ford di acquistare la diga di Wilson per $5 milioni venne respinta dal Congresso. Al contrario, il Congresso, sotto l’influenza del Senatore George Norris del Nebraska, creò successivamente la Tennessee Valley Authority per sviluppare la diga e l’intera valle del fiume. Il Senatore Norris era profondamente convinto del fatto che dovessero essere le società pubbliche, piuttosto che quelle private, a ricevere i benefici degli investimenti del governo a Muscle Shoals. 9 In merito alla TVA, si veda Jean-François Lejeune, Piramidi democratici: il lavoro della Tennessee Valley Authority, in «Rassegna», 63 (1995), pp. 46-57. Si veda anche Benton MacKaye, The Appalachian Trail: A Project of Regional Planning, in «Journal of the American Institute of Architects», (1921); e anche Giorgio Ciucci, The City in Agrarian Ideology and Frank Lloyd Wright, in Francesco Dal Co, op. cit. 10 Citato da Leo Marx, pp. 7-8, da José Ortega y Gasset, The Revolt of the Masses, Norton & Co., New York 1932 (edizione italiana: La ribellione delle masse, Nuove edizioni italiane, Roma 1945). 11 Leo Marx, pp. 8-9. 12 Wright pubblicò Broadacre City in tre versioni: The Disappearing City (1932), When Democracy Builds (1945), e The Living City (1958). Usonia era l’acronimo di Wright per gli Stati Uniti d’America. 13 Frank Lloyd Wright, Modern Architecture, Being the Kahn Lectures for 1930, PUP, 1931; ristampato in Bruce Brooke Pfeiffer, ed., Frank Lloyd Wright: Collected Works, vol. 2, Rizzoli, New York 1992-95, p. 72. Si veda anche David G. De Long, ed., Frank Lloyd Wright and the Living City, Skira, Vitra Design Museum, 1998.


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Peter Berent, 6th Avenue El, 1937 © The Mitchell Wolfson Jr. Collection, The Wolfsonian-Florida International University

Norman Bel Geddes, Futurama General Motors Building, New York World’s Fair, 1939, particolare. © University of Texas at Austin Theater Arts Library, Harry Ransom Humanities Research Center, Norman Bel Geddes Collection; Courtesy of Edith Lutyens Geddes and Archer M. Huntington; photo Margaret Bourke-White

Futurama General Motors Building, New York World’s Fair, 1939; da «L’illustration», n. 5023, giugno 1939

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Victor Gruen, Sketch of the future da: Victor Gruen, The Heart of our Cities, 1964


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La metropoli sale In un articolo del «New York Times» del giugno 1944, Robert Moses, un uomo con maggiore influenza politica (il power broker) e attore potente dell’urbanistica e dei lavori pubblici di New York dall’inizio degli anni ’30 al 1968, attaccava le teorie inattuabili e “rivoluzionarie” degli «urbanisti con i capelli lunghi», citava Gropius, Wright, Mumford, e simili – che erano in favore di soluzioni urbani radicali che comportavano il frantumarsi della metropoli ed un programma generale di de-urbanizzazione14. In contrasto, Moses rappresentava e incanalava le forze del capitalismo metropolitano. Era il master builder delle infrastrutture pubbliche (parchi, piscine pubbliche, ponti, superstrade alberate, quartieri di edilizia popolare) nella New York davvero futurista che Frank Lloyd Wright detestava e che vedeva spuntare il Chrysler Building ed il Rockefeller Center nella skyline, mentre Hugh Ferriss disegnava The Metropolis of Tomorrow, e gli Ziegfeld Follies illuminavano Times Square. Thomas Benson ed altri “muralisti” dipingevano i ponti, i treni, le automobili e gli aerei che passavano sopra la città, incrociandosi in un gran orgasmo di velocità e di costruzione. Il futuro era ottimistico, pur se punteggiato di ansie premonitrici. Orson Welles spaventava la nazione in una lettura dal vivo alla radio di The War of the Worlds di H.G. Well nel 1938. Sulla copertina della rivista «Science Fiction», gli invasori provenienti da pianeti distanti attaccavano il Perisphere disegnato da Norman Bel Geddes come l’epicentro trionfante dell’Esposizione Universale di New York del 1939, The World of Tomorrow15. I visitatori entravano nel padiglione “Futurama” sponsorizzato dalla General Motors passando per una rampa futuristica. Si sedevano su sedili meccanici mobili e partivano per un viaggio attraverso tutto il paese. Concepito da Bel Geddes, il Futurama immaginava l’intero territorio americano come un immenso Gesamtkunstwerk, una “opera d’arte totale” basata sull’esaltazione della automobile e della città verticale e densa – un’utopia che per altro restava urbana, in contrasto con la città lineare basata sull’automobile di Neutra, Rush Reformed City del 1924-28 e la Broadacre City di Wright16. Nel corso degli anni ’20, Robert Moses aveva riattualizzato per l’automobile il concetto di sistema di parchi immaginato da Frederick Law Olmsted nel 1860 come mezzo per strutturare l’espansione urbana e suburbana. Ai margini abbandonati della metropoli industriale, le moderne parkway (stradeviali alberati, spesso a doppia corsia con spartitraffico, fiancheggiati da giardini) consentivano all’automobilista di entrare in un contatto estetico con la natura circostante – i sublimi paesaggi dei pittori della Hudson Valley attorno a New York oppure le montagne californiane nel caso del panoramico Arroyo Seco Parkway aperto nel 1940 per collegare Los Angeles a Pasadena. Concepite per guidare a velocità continuate di 80/130/170 chilometri l’ora, le Magic Motorways di Bel Geddes erano superparkways che andavano da est a ovest, collegando e bypassando le città senza penetrarle, salendo e scendendo dalle montagne, e attraversando la Hoover Dam su un ponte a due piani17.

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Si veda Robert Moses, Mister Moses Dissects the Long-Haired Planners, in «The New York Times», June 25, 1944. Su Moses, si veda Robert Caro, The Power Broker: Robert Moses and the Fall of New York, Knopf, New York 1974; e Hilary Balon e Kenneth T. Jackson, eds., Robert Moses and the Modern City: The Transformation of New York, Norton, New York 2007. Si veda Robert Stern, Gregory Gilmartin, e Thomas Mellins, New York 1930: Architecture and Urbanism Between The Two World Wars, Rizzoli, New York 1987. Si rilevi che accanto a Futurama vi era anche la Città del Domani, un’immagine completamente diversa e mixata di un sobborgo di ferrovia e autostrada sul modello di Radburn, NJ, progettato da Clarence Stein nel 1929. Rush Reformed City associava la pianificazione tradizionale europea, i grattacieli di Chicago e i drive-in di Hollywood. Si veda Thomas Hines, Richard Neutra and the Search for Modern Architecture, Oxford University Press, New York 1982. Norman Bel Geddes, Magic Motorways, Random, New York 1940. L’Hoover Dam è la più famosa diga idroelettrica degli Stati Uniti, un simbolo della conquista del deserto che rese possibile il rapidissimo sviluppo di Las Vegas.

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La guerra fredda e la morte della grande città americana La città americana fu colpita a morte dopo il 1945, vittima di Hiroshima, della guerra fredda e della psicosi nucleare che si era impossessata dei media, delle istituzioni e della popolazione. Nel bel mezzo della paranoia di articoli, riviste e programmi televisivi che parlavano del giorno del giudizio universale, Chesley Bonestell esaltava la paura dell’apocalisse nelle sue potenti visioni di New York e Washington colpite da bombe atomiche, in Hiroshima USA: Can Anything Be Done About It18. Spronato dai film noir che dipingevano la città come il territorio del crimine, dalle pubblicità commerciali televisive, e dalla retorica anticomunista di McCarthy contro la pianificazione urbana e regionale, il sogno americano e l’esodo dalle città divenne una realtà economica e strategica, rappresentando il trionfo dei disurbanisti, Wright, Mumford, e Clarence Stein che scrivevano: «anche se ci sono ragioni diverse, i requisiti di base della difesa sono simili ai bisogni pratici della bella vita e dell’economia industriale. Per la pace, così come per la guerra, il primo requisito è spargere invece di concentrare»19. Eppure, le nuove comunità industriali e residenziali che essi avevano immaginato nel modello di Radburn, separate tra loro da cinture verdi e spazi adibiti a giardini, venivano velocemente ridotte a Levittown (1947) e a suoi cloni – sobborghi enormi, amorfi e infiniti, dominati da case prodotte in massa, automobili, centri commerciali, parcheggi e culsde-sac. Nel 1956, Charles Wilson, Ministro della Difesa ed ex presidente della General Motors, lanciò il National System of Interstate and Defense Highways, un imponente programma nazionale di autostrade create per «disperdere le nostre fabbriche, i nostri negozi, le nostre persone; in breve, per creare una rivoluzione degli stili di vita», ma il cui obiettivo inconfessato era lo urban renewal, obbligando a spostarsi centinaia di migliaia di residenti neri e distruggendo i centri della maggior parte delle grandi e medie città20. Con le autostrade urbane arrivarono le shopping malls che l’architetto Victor Gruen fu il primo a disegnare a Northland, nella periferia di Detroit (1952)21. Trovandosi di fronte a sobborghi non regolamentati, funzionalmente incompleti e in qualche misura spaventosi, Gruen vedeva questi grandi centri commerciali come «punti di cristallizzazione suburbana» che dovevano rispondere ad una vasta gamma di bisogni sociali e civici, oltre a fungere in tempo di guerra da «uno dei più importanti dispositivi per proteggere le vite e il morale della popolazione civile»22. Se il Delirious New York degli anni ’30 era il paradigma delle forze centripete della città verticale, Los Angeles: Architecture of Four Ecologies del dopoguerra simboleggiava le forze centrifughe dell’espansione orizzontale dominata dalle macchine, spinte dall’industria cinematografica di Hollywood, da pittori come Ed Ruscha o Robert Bechtle, dagli architetti delle Case Study Houses, oltre a tutti gli altri artigiani della Birth of the Cool in California23. Infine, incapace di implementare qualsiasi tipo di pianificazione su vasta scala, ed in particolare l’ambizioso sistema dei parchi progettato negli anni ’20 per preservare la naturale bellezza della città, Los Angeles apparve velocemente come un “paradiso perduto”. Già nel 1950, nella Martian Chronicles di Ray Bradbury un Marte idilliaco veniva corrotto da materialisti terrestri divenendo il clone “metafisico” di Los Angeles24.

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Chesley Bonestell, “Hiroshima USA: Can Anything Be Done About It”; da: Collier’s, 1950)

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In qualità di architetto, Bonestell lavorò al Chrysler Building, alla Corte Suprema di Washington, ed al Golden Gate Bridge. Sul suo straordinario talento grafico, si veda Rom Niller, ed. The Art of Chesley Bonestell, Paper Tiger, London 2001. Clarence Stein, The Form of Future Cities, intervento alla University of Miami Winter Institute of Arts and Sciences, 1945. Clarence Stein Papers, Cornell University Library. Sul film noir, si veda Sheri Chinen Biesen, Blackout: World War II and the Origins of Film Noir, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2005. Dal Federal Highway Act, 1956. Alex Wall, Victor Gruen: From Urban Shop to New City, Actar, Barcellona 2005. Victor Gruen, nato in Austria, emigrò negli Stati Uniti nel 1938. Citato da Timothy Mennel, Victor Gruen and the Construction of Cold War Utopias, in «Journal of Planning History», 3, nº 2, 2004, p. 121, da Victor Gruen, Regional shopping centers and civilian defense: A memorandum with special reference to the Eastland Shopping Center in Detroit, (1951), in Victor Gruen Papers, American Heritage Center, University of WyomingLaramie, Box 23. Si veda Rem Koolhaas, Delirious New York: a Retroactive Manifesto for Manhattan, Oxford University Press, New York 1978; Reyner Banham, Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, Penguin, Harmondsworth 1971; Elizabeth Armstrong, ed., The Birth of the Cool: California, Art, Design, and Culture at Midcentury, Orange County Museum, 2007. Si veda Mike Davis, City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles, Vintage Books, New York 1992.


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Modello di automobile futurista, 1930 ca. Š The Mitchell Wolfson Jr. Collection, The Wolfonian-Florida International University


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La breve vita delle macchinette americane In una sorprendente consapevolezza della crescente congestione automobilistica e del relativo spreco di risorse, Frank Lloyd Wright raccomandava già nel 1954: «Non comprate una macchina americana enorme e con angoli sporgenti; comprate una macchina più piccola, come quella prodotta da Nash, coprendo trenta o quaranta miglia al gallone […]. Il costo del trasporto diminuisce fortemente grazie alle macchine più piccole»25. E nella versione fantascientifica che caratterizzava la sua ultima versione della Broadacre City, Wright aveva persino progettato una macchina futuristica con tre ruote che sembrava una grande chiocciola. La Nash Metropolitan cui aveva fatto riferimento era una delle poche storie di successo della macchina americana di piccole dimensioni dopo la seconda guerra mondiale. Progettata negli Stati Uniti ma prodotta nel Regno Unito dalla Austin Motor Company, il veicolo piccolo e leggero (3,79 m per 810 kg) era un prodotto innovativo realizzato in due diversi modelli: cabriolet e coupé. Venduta in circa 90.000 esemplari durante gli otto anni di produzione, la macchina era molto amata da alcuni dei suoi proprietari famosi, tra cui Elvis Presley e Paul Newman, ma fece anche carriera come macchina della Polizia facilmente guidabile nelle strade urbane più strette. Altre macchinette vendute durante quegli anni erano la Crosley Model CC e la Hot Spot (la più recente in versione cabriolet). Per quanto concerne la Hewson Rocket, un sorprendente oggetto affusolato in alluminio il cui prototipo (1946) mostrava una forma molto aerodinamica senza sporgenze (fanali anteriori coperti da vetro, fanali posteriori a filo, e assenza di maniglie sulle portiere), non è mai entrata in produzione26. Con il consolidamento dell’industria automobilistica nella Big Three di Detroit, la fase sperimentale si è affievolita, ed è la grande e lunga macchina americana ad alto consumo a conquistare il mercato e l’immaginario collettivo. Mentre l’ideale automobilistico e suburbano dovevano riportare gli americani ad una società definita dai valori della Gemeinschaft, essi ottennero l’effetto contrario: l’atomizzazione della società e l’isolamento crescente delle persone, aprendole ancor più alla vita industrialmente standardizzata dei fast food, della televisione, e della cultura delle armi da fuoco. Anche in questo caso Hollywood ha riassunto tutto: quattro decadi separano Mr. Blandings Builds his Dream Home (1948), e il sorprendente finale di Short Cuts (1993) di Robert Altman, in cui la camera zooma sulla carta stradale della Contea di Los Angeles, riassumendo il film nell’astrazione terrificante della crescita disordinata, di un assemblaggio caotico e incline alla violenza dei sobborghi – realtà di un urbanesimo fatto a modello di computer chip.

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Robert Bechtle, ’67 Chrysler, olio su tela, 1967; da: Robert Bechtle, A Retrospective, 2005. © Collection Ruth and Alfred Heller

Nash Metropolitan, modello del 1954 (prodotto fino al 1962); da: www.conceptcarz.com

Prototipo del Hewson Rocket, 1946; da: www.conceptcarz.com

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Citato da Frank T. De Long, da Frank Lloyd Wright, The Natural House, New York: Horizon Press, 1954. Informazioni dal Sito Web www.conceptcarz.com (ultimo accesso nel gennaio 2008).

Professore University of MIAMI, School of Architecture

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Il design delle bubblecars Una questione di scala Carlo Martino*

Mivalino, Microbo, Volugrafo, Volpe e Isetta, fino ad includere la nuova 500 per l’Italia, Brutsch Rollera, KR 200, Tiger della Messerschmitt e Meyra per la Germania, B.M.A. Hazelcar, Gordon e la nota Mini della Morris in Inghilterra, Manocar, Reyonnah per la Francia, Shelter in Olanda. Sono tutti modelli di automobili dalle dimensioni minime, microcars, comprese tra i 2 ed i 3 metri, per 2 o 4 passeggeri, a 3 o 4 ruote, progettate e prodotte in serie, e che hanno vissuto un’epoca d’oro in Europa, negli anni ‘50. Un periodo fecondo per il design, in cui si compiono ardite sperimentazioni, come sintesi di un programma progettuale che, nel perseguire l’obiettivo della mobilità di massa, accoglie le innovazioni tecnologiche di derivazione bellica, manipola i linguaggi formali e li declina in prodotti industriali ibridi che introducono nuove soluzioni tipologiche. Progetti che si trasformeranno in archetipi della modernità. Sono le mitiche “macchinette”. Una mostra sulle microvetture, o bubblecars, come sono state ribattezzate per il loro aspetto tondeggiante, è quanto mai opportuna in questo momento storico, poiché offre numerosi spunti di riflessione su questioni intrinsecamente legate al prodotto industriale per la mobilità e al design. L’input più interessante che emerge dall’osservazione di questi anomali e originali artefatti è, a mio parere, relativo proprio alla loro caratteristica più evidente, e cioè “la ridotta dimensione”, all’essere veramente piccole, e al rappresentare di fatto l’esito di ardite sperimentazioni sulla condizione limite di abitabilità e d’ingombro di una vettura. Ricerche che riaccendono un dibattito sul senso attuale dei temi scalari quali appunto il “piccolo” e il “contenuto” e per contrasto, mettono in risalto una delle condizioni morfologiche più pressanti del design contemporaneo, anche se di natura completamente opposta: l’enfatizzazione scalare, l’off scale. Ritengo infatti che la percezione della contemporaneità passi oggi più che per comuni esercizi linguistici – il minimalismo piuttosto che il neo-organicismo – per una profonda revisione dei rapporti proporzionali e scalari degli artefatti. Sembra che l’affermata e conclamata esigenza di comfort da parte dell’utente, e quindi di qualità delle esperienze che si compiono intorno e dentro gli oggetti, sia riuscita a scardinare un approccio riduzionista e restrittivo nella progettazione degli artefatti industriali, quello che Renato De Fusco definisce l’italico: «orgoglio della modestia»1. Si è finalmente riusciti a rivedere il concetto di standard minimo, fortemente influenzato dalla cultura dell’existens minimum di lecorbusieriana memoria, a favore di una maggiorazione e di una generosità dell’artefatto che è innanzitutto dimensionale. Una revisione non banale e gratuita che ha dimostrato, almeno in occidente, che nel design del nuovo si è finalmente usciti dall’emergenza dei bisogni primari e dai semplici esercizi di stile.

Microcar Isetta, design di Ermenegildo Preti (foto contestualizzata della Isetta nella versione prodotta dalla BMW; è visibile l’originale modalità d’accesso dal portellone frontale) Foto: BMW AG Group Archives

Microcar Isetta, design di Ermenegildo Preti (foto contestualizzata nella versione prodotta dalla BMW) Foto: BMW AG Group Archives

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R. De Fusco, Made in Italy, Storia del Design Italiano, Editori Laterza, Bari 2007, p. 110.

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Ecco allora che la mostra sulle microvetture risulta essere alquanto significativa come punta estrema di una ricerca tesa al raggiungimento del limite massimo della riduzione, stabilendo una sorta di punto di non ritorno. Una ricerca che Enrico Morteo2 fa derivare appunto dall’intuizione del grande Le Corbusier, che già nei suoi schizzi della Voiture Maximum del 1928, «… una vettura “utilitaria” da produrre in grande serie», prefigurava l’insieme delle caratteristiche che saranno alla base delle vetture per la massa dei decenni successivi, fino all’apice rappresentato proprio dagli anni ’50. Un punto di non ritorno, si diceva, un po’ com’è accaduto nell’ambito della miniaturizzazione di nipponica memoria, tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, in cui la sfida verso il piccolo nell’oggettistica elettronica, pensiamo agli orologi-calcolatrice, ha trovato nelle dimensioni fisiche dell’uomo e dei suoi polpastrelli il limite dell’interfaccia. Dopo di che si è ricominciato a valorizzare la comodità dei grandi tasti, ed il comfort che l’uso di questi comporta. Nell’ambito automobilistico, le ricerche sulle microcars non sono mai terminate, come le gallery dei numerosi siti di collezionisti e musei testimoniano, ed hanno anzi costituito un ambito di sperimentazione da cui hanno attinto a piene mani le attuali citycar. Queste ultime rappresentano le eredi del boom della mobilità di massa, divenute oggi centro di attenzione e di grandi investimenti da parte di multinazionali – si pensi al progetto coordinato Toyota Aygo, Citroen C1 e Pugeot 107 – per la soluzione della mobilità urbana e delle problematiche ambientali legate all’inquinamento. La loro progettazione è però stata sempre concepita come ottimizzazione dimensionale, tesa alla conquista di qualche centimetro e quindi di spazio. Ne è un’ultima dimostrazione la neonata Tata Nano, la microvettura che proprio sulla base del successo delle bubblecars in occidente nell’immediato dopoguerra, intende replicare il fenomeno, ponendosi come ambizioso obiettivo quello di trasferire 60 milioni di indiani dalle 2 alle 4 ruote, con un mezzo che certamente fa un passo indietro rispetto alle dotazioni tecnologiche oggi disponibili sul mercato, ma che si è posto il traguardo del costo di soli 2500 dollari. Nell’ultimo decennio però, si è delineato un filone alternativo di ricerca sulle citycar, che va esattamente nella direzione a cui si accennava prima, e cioè ad una revisione scalare dettata da una dichiarata volontà di conservare alti livelli di comfort. Mi riferisco al fenomeno Smart, che ha dimostrato di poter affrontare il tema citycar, rovesciando l’approccio al piccolo, ottenendo cioè il piccolo non attraverso la conquista di pochi millimetri, ma con una radicale revisione tipologica. Per cui l’auto da città, a fruizione prevalentemente individuale, per restare piccola, rinuncia ai passeggeri posteriori, a favore di un maggiore comfort dei due posti anteriori. Una scelta che ha incontrato il favore di target assolutamente inaspettati, come quello delle coppie anziane, e dei giovani neopatentati. Ma la mostra cade anche nel momento di massimo trionfo internazionale dei restyling automobilistici degli anni ‘50. Dalle ormai note New Beetle e Mini, lussuose riedizioni dei popolari modelli tedeschi ed inglesi, alla più recente FIAT 500, che a distanza di 50 anni, ripropone i caratteri

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Le Corbusier, Voiture Maximum, 1928, disegno, © Fondation Le Corbusier

Mini Minor della Morris, design di Alec Issigonis 1950, disegni e schizzi; da: Charlotte & Peter Fiell, Industrial Design A-Z, Taschen, Köln 2000, pp. 298-299

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E. Morteo, Automobili, in Storia del Disegno Industriale, 1919-1990, il Dominio del Design, Electa, Milano 1991, p. 288.


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e le atmosfere della famosa Nuova 500 di Dante Giacosa. Un fenomeno che denuncia sia la grande capacità della cultura postbellica e pop europea di produrre archetipi, sia l’incapacità attuale di elaborarne di propri. Miti della cultura popolare che rappresentano l’avverarsi di progetti sociali per una mobilità di massa, che sono riusciti a sintetizzare in oggetti assolutamente unici, l’innovazione tipologica, tecnologica e morfologica, e a “permanere” nell’immaginario collettivo. I recenti restyling automobilistici hanno però lavorato prevalentemente sull’aggiornamento morfologico dei modelli storici, operando proprio quell’enfatizzazione scalare di cui sopra. L’attualizzazione della Mini, piuttosto che della stessa 500, ha comportato come prima macroscopica azione la revisione dimensionale, a favore di una dilatazione volumetrica che è stata pienamente percepita in linea con la modernizzazione. Il fenomeno restyling, ha inoltre messo in evidenza che tra le caratteristiche più significative delle piccole auto restano le brillanti soluzioni formali, che si sono imposte come “Tipi”, come cioè veri modelli da emulare. L’innovazione più interessante delle microvetture è dunque stata l’originale sintesi formale, che rimanda nella maggior parte dei casi alla comune matrice morfologica organica e che ne giustifica tra l’altro l’appellativo bubblecars. Segni morbidi che si sono prestati a risolvere sia questioni funzionali, come ad esempio l’aerodinamica, sia tecnologiche, con l’introduzione delle scocche continue, sia programmi progettuali che affermano la “monovolumetria” come alternativa valida ed accattivante alla più tradizionale “polivolumetria”. Sagome a campana, ben impiantate sulle 4 ruote, che hanno avuto il merito di accorpare all’abitacolo il vano motore e il bagagliaio. Un riconosciuto tributo allo streamline americano e ai linguaggi organici di derivazione scandinava. Una morbidezza quella delle bubblecars, che si accompagna infine alla ludicità insita nel processo di riduzione scalare – non dissimile dal modo di concepire un giocattolo – e che si traduce in messaggi semantici positivi e giocosi, che ben si sposano ai rimandi antropomorfi o zoomorfi delle piccole autovetture.

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Citycar Smart,1996, sezione con ingombro antropometrico; da: Phaidon Design Classics, vol. III, Phaidon Press Limited, London 2006

Citycar Smart, 1996; prima versione del progetto in joint venture con Swatch; da: Swatch/Mercedes-Benz A Smart, in «Domus», n. 789, gennaio 1997, pp. 76-77

Docente Ricercatore presso il Dipartimento Itaca dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma

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Macchinette Francesco De Cunto*

Proprio quest’anno, il titolare della Tata, la più grande fabbrica automobilistica dell’India, ha presentato ai giornalisti di tutto il mondo il nuovo e ambizioso prototipo di una vetturetta di minimo ingombro, minimo peso e di costruzione supereconomica (significativamente denominata “Nano”) con queste semplici parole: «osservando famiglie intere in sella agli scooters, con il padre che guida, un figlio in piedi davanti a lui e la moglie, dietro, con un altro figlio in braccio, mi sono chiesto se non fosse possibile concepire per queste famiglie un mezzo di trasporto sicuro, economico e adatto a tutte le condizioni meteorologiche». Questa osservazione, perfettamente adeguata alla situazione dell’India dei primi anni del XXI secolo, avrebbe potutto altrettanto bene descrivere l’estrema penuria della motorizzazione individuale nelle principali nazioni d’Europa attorno al 1950, quando l’economia dei vari paesi stentava a riprendersi dalle distruzioni della seconda guerra mondiale e il lungo e faticoso processo di ricostruzione era appena ai suoi inizi. Le più note case automobilistiche europee misero allora in produzione veicoli quanto più possibile leggeri ed economici: “utilitarie”, secondo la denominazione che proprio allora entrò a far parte del vocabolario corrente. Ma si trattava di veicoli tutto sommato convenzionali, i cui costi di produzione si mantenevano assai elevati per i modesti stipendi dell’epoca; basterà ricordare la Citroen 2 CV in Francia, la Fiat 500 in Italia, la tedesca Volkswagen (peraltro progettata già nell’anteguerra), tutte vetture dotate di soluzioni tecniche innovative ma il cui successo giungerà negli anni economicamente più favorevoli, fra 1960 e 1970. Parallelamente, e fin dai primi anni del dopoguerra, una miriade di piccoli costruttori e di artigiani poveri di capitali ma ricchi di idee si era sforzata di fornire, in maniera originale, una risposta ancor più immediata alla crescente richiesta di motorizzazione “popolare”, dando spesso prova di audacia, di creatività, di forte capacità di innovazione non disgiunta talora da un pizzico di temerarietà. Nacquero così, in pochissimi anni, centinaia e centinaia di fantasiose “macchinette”, alcune destinate al successo, molte costruite soltanto in pochi esemplari, qualcuna rimasta del tutto sulla carta. Tutte presentavano comunque soluzioni fortemente anticonvenzionali, non solo negli organi meccanici, ma soprattutto nell’aspetto esterno, nella tipologia dell’abitacolo, nei materiali utilizzati per la carrozzeria; in luogo della classica lamiera d’acciaio si sperimentarono largamente, alla ricerca della massima leggerezza, le leghe d’alluminio, la fibra di vetro e persino il compensato rivestito in finta pelle. Una mostra delle “macchinette” degli anni Cinquanta – forse la prima nel mondo interamente dedicata al peculiare fenomeno delle microvetture – trova in Italia la sua sede ideale. Il nostro paese, che in quegli stessi anni Cinquanta ha avuto il merito di reinventare lo scooter moderno – chi non ricorda il successo planetario della Vespa Piaggio e della Lambretta

Fend Flitzer del 1948 da: Jens Kron, Messerschmitt Kabineroller, Battenberg

Fasi di costruzione della Volpe

La Volpe ultimata

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Innocenti? – è stato assai attivo anche nel campo delle microvetture, progettando e realizzando in particolare la più conosciuta e la più imitata fra le “macchinette”: l’Isetta. Grazie al suo perfetto disegno ovoidale, alla geniale soluzione dell’unica porta anteriore, in una parola al suo aspetto inconsueto e perfino un po’ “marziano” (non per niente gli anni Cinquanta sono anche caratterizzati da continui avvistamenti di dischi volanti…) l’Isetta resta l’icona più nota fra le microvetture, quella che più colpisce l’immaginazione e che desta simpatia a prima vista, prefigurando peraltro per molti versi l’evoluzione delle moderne city cars, come l’odierna Smart. In mostra, sono presenti numerosi modelli di Isetta costruiti in Europa e persino in Brasile e in Argentina: poco apprezzata in Italia, forse proprio per eccesso di innovazione, l’Isetta ebbe in effetti assai miglior fortuna all’estero, soprattutto quando fu costruita su licenza della BMW, tanto che riuscì a trovare acquirenti perfino in un paese caratterizzato da gigantismo autobilistico come gli Stati Uniti. La produzione di “macchinette” fu in Europa vasta e variegata. Insieme con vari modelli di bubblecars, ossia le “auto a goccia” di cui l’Isetta è l’indiscussa capostipite, la mostra espone numerose vetturette di aspetto più convenzionale – piccole berlinette come la Goggomobil, destinata a un duraturo successo, o cabriolet minimi come la tedesca Spatz o la francese Rovin – e con esse un’altra diffusa e assai interessante tipologia di microvetture: quella dei veicoli a tre ruote, veri e propri scooters dotati di carrozzeria completa, fra cui spicca soprattutto il Messerschmitt, dal disegno fortemente anticonvenzionale caratterizzato dalla originale disposizione dei due posti in tandem e dal peculiare cupolino interamente in plexiglas. Negli anni Cinquanta, milioni di persone hanno sognato l’acquisto di una microvettura, per gettarsi definitivamente alle spalle le difficoltà e le ristrettezze del dopoguerra: non c’è quasi bisogno di dire che “aguzzare l’ingegno” era proprio ciò che i saggi di un tempo consigliavano in simili momenti. Questa esposizione permette di esaminare con quali capacità di fantasia e di innovazione questo motto fu declinato in campo motoristico, dando vita a un fenomeno tecnologico e di costume per molti versi unico, e contribuendo in maniera non episodica ad aprire la strada agli anni scintillanti del “miracolo economico”.

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Presidente AIMAC

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da: Malcolm Bobbitt, Bubblecars and Microcars, The Crowood Press Ltd, Malborough 2003

L’Isetta nel traffico cittadino Foto: BMW AG Group Archives


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Disegno tecnico Isetta, particolare Collezione De Cunto


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Isetta, ovvero una city-car in anticipo sui tempi

La storia della Isetta, la microvettura progettata in Italia nel 1952 dalla fabbrica Iso di Bresso (Milano) e ben presto conosciuta e venduta in tutto il mondo, costituisce per molti versi un fenomeno unico nel panorama motoristico mondiale. L’ampio successo che gli arrise, fino a farne una vera e propria icona di quegli anni, fu sorprendentemente alimentato da due contraddizioni che finirono per trasformarsi in punti di forza: da una parte, le caratteristiche della vetturetta (leggerezza e semplicità costruttiva, forma innovativa, minimo ingombro) la rendevano una originale prefigurazione delle odierne city cars, mentre la situazione economica dell’epoca rendeva necessario proporre l’Isetta come l’utilitaria per eccellenza, primo gradino della motorizzazione privata; d’altra parte all’Isetta, tipico esempio dello “stile italiano”, ben si attaglia l’antico detto nemo propheta in patria, poiché alla modesta accoglienza del mercato nazionale – le vendite cessano già nel 1955, con poco più di un migliaio di vetture immatricolate in tre anni – si contrappose invece un successo planetario all’estero, che condusse il “brutto anatroccolo” a divenire, ancora una volta in anticipo sui tempi, una vera e propria world car, costruita su licenza in numerosi paesi dell’Europa e dell’America latina, per un totale di oltre un centinaio di migliaia di esemplari. L’Isetta non mancava in effetti di nulla per essere considerata una perfetta city car: un design sicuramente originale, caratterizzato dall’essenziale forma ovoidale (peraltro esaltata dalla forte curvatura della finestratura laterale in plexiglas) e dalla geniale soluzione della grande porta anteriore, che garantiva un’ottima accessibilità e, vista la limitatissima lunghezza del mezzo, consentiva in città di parcheggiare frontalmente rispetto ai marciapiedi; un abitacolo spazioso e luminoso, dotato anche di tetto apribile e sostenuto da una robusta struttura di tubi d’acciaio che ricorda da vicino la “cellula” dell’odierna Smart; una rimarchevole semplicità tecnica assicurata da soluzioni tecniche funzionali ma allora non ancora diffuse, come la lubrificazione con pompa dell’olio separata, che consentiva di rifornire il motore a due tempi con benzina anziché con miscela, o da vere e proprie innovazioni come le due ruote posteriori accostate, che evitavano l’instabilità dei veicoli a tre ruote permettendo tuttavia di eliminare il peso e il costo del differenziale. Che l’Isetta, con la sua leggerezza (330 kg di peso a vuoto) e i suoi minimi ingombri (appena 2,25 m di lunghezza), si presentasse piuttosto come “seconda macchina” adatta all’uso cittadino era verosimilmente un sospetto che doveva sfiorare anche i suoi ideatori: su un dépliant pubblicato al momento della presentazione, si legge che «l’Isetta è un mezzo di trasporto agile, elegante e soprattutto pratico che può essere utilizzato dalla signora, dall’uomo d’affari, dal professionista, dal viaggiatore, dal turista»: dove l’insistenza sul concetto di “eleganza” e, nell’ambito delle categorie preferibilmente considerate come potenziali clienti della vetturetta, l’accento posto su signore desiderose di una prima motorizzazione e su professionisti e

da: «Cronaca Vera»

L’Isetta alla Mille Miglia

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uomini d’affari – presumibilmente già possessori di confortevoli e spaziose berline da viaggio – sembra già prefigurare quel target di clienetela cui oggi si rivolge il “fenomeno” Smart. In un certo senso, la scarsa fortuna di vendita della Isetta nel nostro paese è forse dovuta proprio al fatto di essere un veicolo in anticipo sui tempi; una city car nata parecchi decenni prima del necessario, quando le nostre città non erano ancora megalopoli e il problema della sosta non si presentava ancora come drammatico, e una “seconda macchina” offerta troppo presto a una nazione che era ben lungi dal potersi permettere la prima. La pubblicità dell’epoca aveva un bell’insistere sul fatto che l’ampio divano dell’Isetta poteva accogliere una coppia di adulti e un bambino; in realtà l’Isetta – priva fra l’altro di un vero e proprio bagagliaio – difficilmente poteva soddisfare le esigenze della famigliatipo italiana: una famiglia che, quand’anche avesse racimolato una cifra per allora sicuramente ingente (l’Isetta era venduta a 350.000 lire dell’epoca, pari a poco meno di due anni di stipendio di un medio impiegato), si sarebbe probabilmente orientata su una coeva Fiat Topolino o Belvedere, magari di seconda mano ma sicuramente più spaziosa e psicologicamente assai più gratificante di quanto non fosse la “buffa” e rotondeggiante Isetta. L’acquisto di un veicolo, come ben sanno oggi i responsabili delle campagne promozionali dei vari produttori automobilistici, nasce dalle concrete esigenze dell’acquirente ma ha sempre una non trascurabile connotazione psicologica. Proprio per quella forma riconoscibile fra mille, fin dai primi mesi di lancio della nuova vetturetta, molte Isette erano state utilizzate come veicoli pubblicitari, anche al seguito di popolarissime manifestazioni sportive come il Giro d’Italia: questo fenomeno finì per connotare l’Isetta più come veicolo folkloristico e promozionale, che come un “vero” mezzo di trasporto; molti potenziali acquirenti, poi – spesso possessori di Vespe, Lambrette o degli efficienti scooters fabbricati dalla stessa Iso – si lasciarono forse scoraggiare dal timore che amici e conoscenti lanciassero loro la temibile e italianissima accusa del “vorrei, ma non posso”: di aver insomma rinunciato allo scooter per acquistare un veicolo che non sembrava conferire pienamente lo status di automobilista e che, in una parola, non era abbastanza “macchina”. Nemmeno le ottime prestazioni sportive messe in mostra dalle Isetta alla Mille Miglia del 1954 e 1955, condotte brillantemente a termine sfiorando gli 80 km/h di media, e il buon servizio svolto sulle strade italiane dai furgoncini Isetta in qualita di veicoli soccorso dell’ACI, convinsero del tutto i nostri connazionali a confidare nelle qualità del piccolo “ovetto con le ruote”. All’estero, fortunatamente, le contorsioni psicologiche dell’automobilista italiano non trovarono terreno fertile, mentre dell’Isetta fu subito apprezzato il disegno innovativo e le indubbie doti di economia, semplicità, versatilità: tanto che ben presto l’innovativo veicolo italiano potè vantare, come un noto settimanale enigmistico, un cospicuo numero di imitazioni: la più nota resta la Heinkel ‘Kabine’, sostanzialmente una copia dell’Isetta, appena più stretta e più lunga, mentre la Zündapp Ianus tentò di “raddoppiare” l’Isetta, proponendo un veicolo perfettamente simmetrico con una porta anteriore, una posteriore e quatto posti con

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Fasi di costruzione della BMW Isetta Foto: BMW AG Group Archives


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Mazzetta dei colori da carrozziere per ISO Isetta

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Disegno tecnico Heinkel, kabine, carrozzeria, 1956, copia da originale, Collezione De Cunto

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schienali addossati. Fu allora che la rinomata fabbrica di motociclette BMW, i cui risultati di vendita non erano pienamente soddisfacenti, intuì che l’Isetta poteva essere il veicolo giusto per proporsi nel campo delle quattro ruote: nel 1955 acquistò la licenza di costruzione dalla Iso e l’intera catena di montaggio, e la offrì sul mercato tedesco a un prezzo concorrenziale e con alcune importanti migliorie: un robusto motore a quattro tempi, fanaleria anteriore disposta in maniera meno elegante ma sicuramente efficiente, un impianto di riscaldamento assai gradito a quelle latitudini. A differenza che in Italia, fu subito un grande successo di vendite ma anche di immagine, che si protrasse fino a metà degli anni Sessanta, con oltre 165.000 esemplari prodotti. Quando le immatricolazioni della Isetta-BMW, pubblicizzata in Germania come “motocoupé”, cominciarono a dar segni di stanchezza – ne era stata presentata fra l’altro una singolare versione allungata, con motore di 600 cc e quattro posti – la BMW aveva ormai capitali sufficienti per tentare la strada della produzione automobilistica in grande stile con le prime berline di ampie dimensioni; molti storici dell’industria concordano nel ritenere che fu proprio l’eccezionale risultato commerciale dell’Isetta a “salvare” in un momento sicuramente difficile quello che è oggi uno dei giganti della produzione automobilistica europea. Ma l’Isetta fu prodotta su licenza in moltissimi paesi: in Francia (qui la Isetta-Velam era caratterizzata da una carrozzeria lievemente rimaneggiata, con la coda ancor più tondeggiante), in Belgio, in Spagna, in Austria. In Inghilterra, l’Isetta fu prodotta nel Sussex, a Brighton, sia nel modello classico, sia in una peculiare versione a tre ruote, avvantaggiata dalla locale legislazione fiscale: pubblicizzata come the worlds’ cheapest car to buy and to run, ma anche come the perfect family ‘second-car’, conobbe un buon successo, specialmente quando la crisi del canale di Suez (1956) provocò un periodo di drastico razionamento dei prodotti petroliferi. Anche paesi d’oltreoceano si procurarono licenze di costruzione dell’Isetta: è il caso del Canada, dell’Argentina e perfino del Brasile, dove – in una sitazione economica forse più difficile di quella italiana – la locale fabbrica Romi ne replicò più di duemila esemplari. La sua caratteristica carrozzeria ovoidale – che ha dato origine nei paesi anglosassoni alla definizione di bubblecar, ormai divenuta canonica per designare l’intera categoria delle microvetture – resta nell’immaginario degli abitanti di paesi diversissimi come un simbolo di fantasia, di modernità, di innovazione: credo che proprio questa fosse l’opinione del presidente brasiliano Kubitschek, quando nel 1961 volle presentarsi su di una Romi-Isetta – la prima autovettura effettivamente costruita sul suolo brasiliano – alla solenne inaugurazione dei primi quartieri della nuova e avveniristica capitale Brasilia. L’imagine di questo evento, ancora una volta, testimonia che l’Isetta è stata davvero una world car e un fenomeno irripetibile non solo nella storia dell’automobilismo e del design industriale, ma anche della moda e del costume. [F.D.C.]

Pubblicità dell’Isetta BMW

Pubblicità della Velam Isetta

Pubblicità dell’Isetta BMW

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in questa pagina, sopra: Disegno Tecnico Isocarro 500, schema autotelaio con cabina guida, 1954 Copia da originale Collezione De Cunto sotto: Disegno Tecnico Isetta, particolare del faro, 1953 Copia da originale Collezione De Cunto

alla pagina accanto, sopra: Disegno Tecnico Isetta, particolari finestrino anteriore 1953 Copia da originale Collezione De Cunto sotto: Disegno Tecnico Isetta, schemi sospensione posteriore e trasmissione secondaria, 1953, disegno aggiornato al 1954 Copia da originale Collezione De Cunto


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Un aereo su tre ruote Il Messerschmitt, uno dei veicoli più interessanti qui in mostra, è un tipico prodotto delle dure condizioni del dopoguerra tedesco: La sua nascita è merito di due brillanti talenti tecnici, diversissimi per età e per vicende di vita: il giovanissimo ingegnere Fritz Fend, geniale sperimentatore e costruttore di veicoli ultra leggeri fin dal 1945, e l’autorevole professor Willy Messerschmitt, titolare dell’omonima industria già famosa per i velocissimi “caccia” della seconda guerra mondiale, ma allora inibita dalle stringenti condizioni d’armistizio a sviluppare qualunque progetto di tipo aeronautico. Fend aveva costruito in proprio, sfidando le mille difficoltà di approvigionamento dei materiali, vari prototipi di veicoli monoposto a tre ruote; al primo, azionato addirittura a pedali (!), era seguito un primo modello motorizzato con un modesto propulsore ausiliario per biciclette, di soli 38 cc3, e poi il cosiddetto Flitzer, che con un motore Fichtel & Sachs di 98 cm3 raggiungeva già i 60 km/h. La “fame” di motorizzazione individuale era tale che Fend riuscì comunque a venderne circa cento pezzi fra 1949 e 1950: ma le sue modeste capacità produttive e la nacanza di capitali non avrebbero mai potuto permettere una produzione di grande serie. Fend, che aveva negli anni di guerra lavorato presso le industrie Messerschmitt, si decise a chiedere un aiuto finanziario per la sua impresa: e Willy Messerschmitt, che si trovava proprio nella necessità di diversificare in qualche modo la sua produzione, seppe intuire per quel veicolo supereconomico e perfettamente adeguato alle necessità dell’epoca un promettente futuro industriale, in grado anche di dar respiro alle non floride finanze della sua industria. Fu lui a rendersi conto che per garantire un buon successo di vendite era necessario poter trasportare almeno due persone; per proteggerle dagli agenti atmosferici, la soluzione era pronta “in casa”: una elegante “cupola” di plexiglas, chiaramente ispirata a quella degli aerei militari per tanti anni prodotti dalla Messerschmitt. Nacquero così il Messerschmitt KR 175 – dove la sigla KR sta per la parola tedesca Kabinenroller, ossia scooter cabinato, e il numero indica la cilindrata – prodotto dal 1953 al 1955 con motore Fichtel & Sachs di 175 cm3, cambio a quattro marce e velocità massima di 90 km/h, e poi il KR 200, dotato anche di retromarcia, che veniva ottenuta – caso probabilmente unico nella tecnica automobilistica – attraverso la inversione del moto del propulsore stesso, facilmente realizzabile in un motore a due tempi. Sul KR 200, in grado di raggiungere i 100 km/h, l’acceleratore precedentemente comandato a manopola, proprio come sugli scooters, era ora azionato a pedale: ciò consentiva di aumentare l’atmosfera “aeronautica” del veicolo, che sfoggiava ora un “mezzo volante” in luogo del tradizionale manubrio motociclistico. Rispetto all’artigianale Flitzer di Fend, il biposto Messerschmitt fu in sostanza completamente riprogettato da valenti tecnici di formazione aeronautica, che ne mantennero l’idea di base assicurando però prestazioni, stabilità e tenuta di strada del tutto rimarchevoli. Anche all’interno dell’abitacolo, l’accurata “ingegnerizzazione” del progetto appariva evidente: il Messerschmitt era dotato ad esempio di un comodo sedile anteriore basculante, per rendere ancora più agevole l’accesso, mentre quello posteriore poteva

La produzione del Messerschmitt negli stabilimenti di Regensburg

Il Messerschmitt KR 200 accanto ad un caccia della seconda guerra mondiale

Materiale illustrativo della KR 200 de lux

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essere facilmente rimosso per ottenere un ragguardevole spazio per bagagli: secondo le testimonianze dell’epoca, perfino gli sciatori riuscivano a trasportare la loro ingombrante attrezzatura nella capiente “fusoliera” del veicolo. Il Messerschmitt KR 175 fu per un breve periodo (1954-55) costruito su licenza anche in Italia. La Mival, nota fabbrica di motocicli di Gardone Val Trompia (Brescia), riceveva dalla Germania la carrozzeria completa e la dotava di un robusto motore di 175 cm3 di propria produzione, sempre a due tempi. Il Mivalino era immatricolato in Italia come motocarrozzetta, per guidarlo era dunque sufficiente la patente A: ma il prezzo continuava a rimanere alto per i potenziali acquirenti dell’epoca, e d’altra parte uno scooter coperto, per evidenti ragioni climatiche, attirava l’utente tedesco assai più di quello italiano. È interessante notare che la Mival offriva per il Mivalino un optional tipicamente italiano: la verniciatura della parte superiore della “bolla” in plexiglas, allo scopo di proteggere almeno in parte i passeggeri dall’inevitabile “effetto serra” che si produceva nelle soleggiate giornate estive. Alla fine degli anni Cinquanta, la fabbrica Messerschmitt può riprendere la progettazione e la costruzione di aerei: la necessità di “contenere” l’Unione Sovietica e il progredire della guerra fredda hanno il sopravvento sulle inflessibili condizioni d’armistizio. Il piccolo “aereo a tre ruote” che ha permesso di superare in qualche modo il durissimo dopoguerra tedesco – i governi alleati avevano programmato in un primo tempo di azzerare l’intero potenziale industriale, riducendo di fatto la Germania a un paese esclusivamente agricolo – perde così l’elegante marchio Messerschmitt, contraddistinto da un volatile stilizzato, mentre la ragione sociale della ditta costruttrice è ora FMR, ovvero Maschinenfabrik di Regensburg (per gli italiani Ratisbona, in Baviera). Continua – e continuerà fino al 1964 la produzione del KR 200, cui si affianca il KR 201, elegante modello cabriolet nel quale il caratteristico cupolino in plexiglas è sostituito da una copertura ripiegabile in tela, e per il quale verrà offerta anche una preziosa e assai vistosa tappezzeria in finto coccodrillo. Nel complesso la produzione dei vari modelli a tre ruote raggiungerà la ragguardevole cifra di circa 70.000 unità. L’evoluzione del veicolo termina nel 1958 con la singolare proposta di un modello “spinto”, significativamente denominato Tigre. La consueta carrozzeria fusiforme poggia stavolta su quattro ruote, e il propulsore è ora un bicilindrico di 500 cm3 in grado di sviluppare una potenza di 25 CV. Così equipaggiato, il piccolo siluro – già dotato di ridottissima sezione frontale e quindi di ottima penetrazione aerodinamica – può raggiungere la ragguardevole velocità di 130 km/h, da sviluppare prevalentemente in rettilineo, poiché la guida in curva richiede cautela, vista le ridotte misure della carreggiata e la modesta stabilità che inevitabilmente ne deriva. In effetti il Tigre non rientra più nella consueta tipologia del veicolo utilitario, ma è piuttosto un mezzo speciale, progettato per l’agonismo sportivo e per il quale vengono ben presto organizzate apposite competizioni. Fino al 1964, se ne costruiranno poco più di un migliaio, e fra coloro che ne rimasero affascinati vi fu anche una testa coronata: il re Hussein di Giordania. [F.D.C.]

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da: Jens Kron, Messerschmitt Kabineroller, Battenberg, Ausburg 1997


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Depliant pubblicitario “Besser mit messerschmitt�, 1955; Collezione De Cunto

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1955 - Italia (Bresso, Milano) Costruita da ISO Rivolta; Esemplari costruiti meno di 1000; lung. cm 220, larg. cm 135, peso Kg 330, 85km/h; Posti 2; Costruite dal 1953 al 1955 colore bianco standard; Motore bicilindrico sdoppiato, 236 cc, due tempi con miscelatore automatico, 9,5 hp; 4 marce + retromarcia, trasmissione a catena senza differenziale; Freni idraulici; Carrozzeria in acciaio, telaio tubolare

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Iso Isetta


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1956 - Germania (Monaco) Costruita da Bayerische Motoren Werke; Modello lusso detta Z TRIM con divisore di colore; Esemplari costruiti 15.338 dal 1955 al 1956; lung. cm 220, larg. cm 135, peso Kg 350, 85km/h Posti 2; Motore monocilindrico 4 tempi 295 cc, 13 hp; Avviamento dinamomotore; 4 marce + retromarcia; Freni idraulici; Carrozzeria in acciaio, telaio tubolare

Bmw Isetta Standard 300

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1960 - Germania Costruita da FMR (Fahrzeug und Maschinenbau, Regensburg) Germany; Esemplari costruiti 320, sopravvissuti 150, costruita dal 1957 al 1961; lung. cm 300, larg. cm 127, peso Kg 305, 160km/h; Posti 2 in tandem; Motore bicilindrico 2 tempi 494 cc, 20,5 hp, avviamento dinamomotore; 4 marce + retromarcia; Carrozzeria monoscocca; La pi첫 performante delle bubblecars e non solo

Messerschmitt Tiger

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1955 - Francia Costruita da SNCAN Lione dal 1953 al 1956 Esemplari costruiti poche centinaia; lung. cm 300, larg. cm 135, peso Kg 175, 80km/h; Posti 2 in tandem; 8 hp, 3 marce + retromarcia; Avviamento gyrostarter; Motore YDRAL 175 2 tempi monocilindrico; Sospensioni ad elastici; Freni meccanici; Carrozzeria monoscocca

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1959 - Germania Costruita da Fulda; dal 1956 al 1962 in 7 versioni; lung. cm 310, larg. cm 147, peso Kg 379, 85km/h; Posti 4; Motore 2+2 Sachs 2 tempi 191 cc, 10 hp; 4 marce avanti + 4 marce indietro Freni meccanici; Carrozzeria fibra di vetro, telaio tubolare

Fuldamobil 142


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