La mia Umbria di Settimio Gambuli

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Settimio Gambuli

La mia Umbria


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Settimio Gambuli

La mia Umbria Autobiografia di un comunista nel secolo breve

Prefazione di

Walter Veltroni


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Ai giovani


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Indice

9 Premessa Alberto Stramaccioni 11 Prefazione Walter Veltroni 13 Presentazione Settimio Gambuli

I. AUTOBIOGRAFIA 19 1. Così imparammo (1943-1953) Una famiglia modesta – È nato un fascista? – Tanto tuonò che piovve – Dallo strano corso a partigiano – Una regione arretrata – Da comunista a carcerato – Il valore d’una scarpa – Elezioni ed oratori – Sospeso per servizio – Come arrivai a Gubbio – Lei dove va? – Perché divengo “funzionario” – Imparammo a fare politica – Le nuove elezioni

47 2. Il crollo di un mito (1953-1963) Il rapporto segreto – Andarsene o restare? – Passammo il Rubicone – La mia svolta – Dalla Sicilia a Dresda – Riparte la battaglia per l’Umbria – La terra – La repressione continua – La tela unitaria – Le magliette a strisce – La prima marcia – “Ecco perché siamo forti” – Le nostre risate

69 3. Un decennio al comando (1963-1973) Inaspettatamente segretario – Un periodo denso – L’amaro ‘64 – Che fare? – E il molino traballò – Molini – Un’azione unitaria d’alto significato – Tra la gente – L’XI Congresso: noi e Ingrao – Le grandi lotte – La casa di pietra – Il distacco dei giovani – Le nostre eresie – Un grande successo, ma... – I nuovi problemi – La fretta e il ricambio – Non si colse l’essenziale

95 4. Cambiare tutto? (1973-2005) Rimanemmo Provincia – La mia ansia – Un passo avanti, due indietro! – Un problema irrisolto – Un attacco brutale – L’aria era cambiata – Apriamo l’ospedale “Silvestrini” – Chi doveva dirigere le Usl? – L’ospedale e gli uomini – Incontro Natta – La sinistra in crisi – Dopo la caduta del Muro – Ed io? – E l’Umbria? – E il mondo?

129 II. GALLERIA FOTOGRAFICA


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III. SCRITTI E DOCUMENTI 147 Scritti 1943-1953 A Gaeta a far gavette – Verso le elezioni politiche del 1948 – Il vero ruolo del Pci – L’industria del tabacco e delle lotte operaie – Lo sciopero a rovescio di Gubbio – Finalmente si faranno le elezioni? – Qual è il nostro programma – Il parroco così parlava alle donne – Per la rinascita – Il Comune al popolo – Le piccole e medie industrie e noi – Noi e le operaie – La protesta dei mezzadri – La società “Terni” e le guerre – Nell’Archivio 1943-1953

189 Scritti 1953-1963 Siamo una grande forza, ma... – Arrestano i derubati – Saldare due mondi – Busseremo a ogni porta – La forza dei comunisti – Aiutare il Pcus a superare gli errori – Il lavoro della della delegazione – 8.000 edili: supersfruttamento e bassissimi salari – Il lavoro nelle fornaci – Schema per il corso della Cgil – Agire cambiando strada – Il grande sciopero generale – I Tambroni passano presto – Dopo Tambroni – Governo Fanfani: il Psi si astiene – Il Comune di Perugia e la “coerenza” Dc – Perché la terra ai mezzadri – Nell’Archivio 1953-1963

227 Scritti 1963-1973 Perché Kennedy – Una nuova unità per l’Umbria – Dopo la rottura – Il dibattito squilibrato – Né vinti né battuti – Noi e il congresso nazionale – Cecoslovacchia: perché? – Presento Ingrao – Si può battere la Dc? – Il nostro internazionalismo – Quale iniziativa – 1970: elezioni regionali – 1970: il voto e le alleanze – Creano tensione – I campanelli d’allarme – Noi e Roma – Con la direzione del Pci critiche ed autocritiche – Una regione aperta – Vittorie e limiti di grandi lotte – Un partito mutato – Aprirci con coraggio – Due brevissime note – Guai piangere sul latte versato – Non ci sono tetti – Nell’Archivio 1963-1973

291 Scritti 1973-1990 Decollo di una città – Malvetani tutto ferro – Convegno a Norcia sull’informazione – Per una informazione democratica – La moralità... – Verso le elezioni: 1976 – L’amaro 18 aprile – Presidente! – Moro perché? – Uccisione di tre missini – Le maschere – I nuovi acrobati – Dibattito con i cattolici – Un partito aperto al dibattito – Il nuovo ospedale entra in attività prima di dicembre – E i giovani? – Francesco Pierucci, ad un anno dalla sua scomparsa – Le confidenze di un gran rifiuto – Giunte con la Dc – La svolta del Pci – L’ottimismo della razionalità – Nell’Archivio 1973-1990

341 APPENDICE Commemorazione 349 INDICE DEI NOMI


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Premessa

Settimio Gambuli, iniziò a scrivere questo libro agli inizi del 2005 e dopo varie stesure e revisioni, concluse il suo lavoro nel marzo del 2006. Pochi giorni dopo, dovette ricoverarsi in ospedale e purtroppo il 2 aprile è avvenuta la sua scomparsa. Ebbe comunque il tempo di scrivere la Presentazione, di scegliere titolo e sottotitolo del libro, dei capitoli e dei paragrafi, curare le didascalie delle fotografie e leggere la prefazione di Walter Veltroni. Nel procedere alla stampa del volume abbiamo naturalmente rispettato tutte le scelte editoriali volute dall’Autore. Inoltre nel mese di giugno, mantenendo sempre fede alla sua volontà, è stata donata all’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, una quantità considerevole del materiale contenuto nell’archivio personale, che Settimio Gambuli aveva curato dal dopoguerra in poi. Si tratta di relazioni, appunti, articoli, interviste realizzati nel corso della sua lunga attività sindacale, politica ed istituzionale. Alcuni stralci di questi materiali sono stati riprodotti nella seconda parte del volume, mentre le copie originali possono ora essere consultate da studenti e studiosi presso l’Isuc. La definitiva cura editoriale del volume è stata possibile grazie all’impegno di Guido Maraspin, Luciano Maraspin e Valeria Marini. Perugia, febbraio 2007

ALBERTO STRAMACCIONI


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Prefazione di Walter Veltroni

Settimio Gambuli è sempre stato un dirigente politico atipico. Così l’ho conosciuto e così mi è stato ogni volta descritto. Quando, giovanissimo, scelse di combattere per la libertà contro il nazi-fascismo e poi, ancora, lungo tutto il suo impegno di amministratore pubblico e dirigente, la sua caratteristica fondamentale è stata quella di possedere e manifestare una straordinaria passione politica, un gusto autentico per l’innovazione, una tendenza a stare alla larga dal conformismo. Si può dire che Gambuli è sempre stato giovane e che lo è ancora oggi? Credo proprio di sì, e anche questo suo libro, a cavallo tra la memoria e l’attualità, ne è una ulteriore conferma. Già dal titolo, “La mia Umbria”, emerge poi un altro elemento fondamentale: il rapporto stretto, indissolubile di Gambuli con la sua terra. Un rapporto particolare, nell’Umbria delle cento città, che anche a me, negli anni Novanta, è capitato di conoscere bene e con la quale ho stabilito un rapporto forte. Questo libro, allora, ha a mio avviso un merito, tra i molti altri: quello di rispecchiare la visione di chi, in un tempo come questo, segnato dalla paura degli altri, dalla tendenza al localismo, dall’egoismo e dalla chiusura nella difesa di interessi particolari, sa alzare lo sguardo, per osservare più in alto e più in profondità. Gambuli, d’altra parte, lo sguardo ha saputo sollevarlo già negli anni in cui il sogno regionalista richiedeva di guardare oltre i propri territori. Misurandosi con le grandi sfide che il nuovo millennio ci pone di fronte, spesso in maniera drammatica: il terrorismo internazionale e le guerre che attraversano e segnano il mondo, la difesa dell’ecosistema e l’urgenza di uno sviluppo che sia sostenibile, il dramma di miliardi di persone prigioniere e vittime della povertà, della fame, dei conflitti troppo spesso dimenticati, di malattie che qui da noi, in Occidente, si cura-


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no con pochi euro e che in Africa, e nelle altre aree povere del pianeta, compiono una strage quotidiana, soprattutto di bambini. Del resto non c’è politica – quella dei pensieri lunghi – senza questo sguardo, senza questa consapevolezza. E poi, appunto, il gusto dell’innovazione: nel libro scorrono decenni di storia dai quali emergono, più di una volta, pagine di modernità anticipatrice. Fare i conti con i temi dello sviluppo dialogando con l’insieme delle forze sociali e non solo con quelle di tradizionale insediamento della sinistra e del Pci; tenere aperto e vivo il dialogo con il mondo cattolico; coltivare dubbi “eretici”, pur ricoprendo ruoli dirigenti, quando questo nel Pci non era affatto facile; mantenere capacità di ascolto e di confronto con l’altro schieramento politico: queste, a mio giudizio, sono state alcune delle qualità fondamentali che hanno sempre fatto di Gambuli un uomo politico stimato nel suo partito e anche dagli avversari. Gambuli – e il libro lo conferma – è stato un autentico democratico, e se si vuole anche un esempio di come si potesse stare nel Pci come hanno potuto fare milioni di italiani: senza credere a “dittature” del proletariato, senza praticare odio di classe e violenza, ma rispettando profondamente, e difendendo quando c’è stato bisogno, quei principi di democrazia e di libertà contenuti nella nostra Costituzione, figlia della Resistenza e della scelta che giovani come Gambuli ebbero il coraggio e la moralità di fare. C’è poi un altro aspetto che ha sempre incuriosito tutti coloro che hanno conosciuto Gambuli, ed è la grande attenzione, anche qui per molti versi anticipatrice, nei confronti delle forme del linguaggio e degli strumenti di comunicazione. Non si è lontani dal vero affermando che fu lui a contribuire in misura significativa a far compiere alla sinistra umbra un vero e proprio passaggio d’epoca, dalla propaganda alla comunicazione (e a questo proposito mi sembra giusto ricordare qui il grande rilievo avuto in quel passaggio da un uomo come Gino Galli). Giovane, dicevamo, e innovatore. Si può dire quindi riformista? Sì. Di un riformismo ancorato a forti valori ideali, a grande passione. Radicalità di valori e concreta pratica riformista: in questo binomio sta l’essenza di una vita spesa bene e che ancora oggi Gambuli mostra di spendere al meglio, lungo il filo di una memoria che rappresenta per tutti un bene prezioso.


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Presentazione

Un paio di anni fa qualcuno mi consigliò di guardare dentro i miei scaffali per ridare un ordine al materiale che negli anni ho accumulato. Così, assieme a molte relazioni di compagni (che conservo a casa in ordinate cartelle), ho ritrovato scritti miei relativi a diversi periodi. Si tratta di appunti di comizi, di relazioni, di interventi in riunioni di Sindacato e di Partito, di articoli in giornali e riviste, di brevi commenti televisivi, di opuscoli, ecc. A questo punto questo qualcuno, che poi sarebbe Alberto Stramaccioni, mi ha sollecitato a pubblicare parte di quel materiale, però facendolo precedere da una mia autobiografia. Ci ho pensato molto, prima d’avviarmi in una simile impresa; ho scritto e riscritto molte volte la mia biografia: non tanto per quello che mi riguarda, ma per come riuscire ad adagiarla in modo passabile nella storia del nostro paese e del mondo. Ora la frittata è fatta ed al lettore spetta il giudizio. Perché mi sono lasciato convincere, io membro di una “vecchia guardia” umbra tanto riservata da non aver scritto quasi niente sulla propria vita? Il fatto è che io ho sempre pensato che la vita di ogni uomo fosse una valida testimonianza per i posteri, e, se è vero che non si può costruire il futuro solo guardando al passato, ritengo che sia anche vero che senza le radici ogni pianta morrebbe. E se il XX secolo, detto breve, forse per la densità e spesso la tragicità di tanti avvenimenti, merita di essere ricordato, allora anche la vita dei singoli merita di essere narrata, soprattutto se quella vita è stata vissuta non soltanto per sé. Come si può vedere il libro e la relativa documentazione sono stati costruiti per periodi. Ho riflettuto molto se far seguire i diversi periodi dalle relative parti documentarie, oppure se costruire la prima parte con l’autobiografia e la seconda con la documentazione. Infine ho


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creduto fosse opportuno non interrompere con i vecchi scritti il fluire del racconto. Questo metodo ha uno svantaggio: allontana dai singoli capitoli i documenti. Sono essi che testimoniano il mio modo di pensare, parlare e scrivere di quel dato periodo, e credo possano essere utili al lettore per vedere meriti ed errori. La loro genuinità è assicurata dal materiale che ho consegnato all’Isuc i cui estremi sono riportati nel libro al termine di ogni periodo di documentazione con il titolo “I miei scritti in archivio”. Uno storico sicuramente criticherebbe la mia periodizzazione. Non si può raccontare in un capitolo mezzo secolo di storia ed in un altro soltanto dieci anni! Ma io non sono uno storico e lontana da me l’idea di scrivere di storia, la mia è la cronaca di una vita vissuta talvolta intensamente, altre volte lentamente. Lentamente si svolgono per me i primi decenni del ‘900 sino all’impennata della seconda guerra mondiale quando le circostanze mi fanno soldato, partigiano, volontario, recluso e poi impegnato nel Pci. Tanto accelerati per me gli anni tra il 1953 ed il 1973 da meritarsi due capitoli. In un periodo di grandi lotte sociali e di dura battaglia contro l’imbarbarimento della politica divengo “funzionario”, quasi “rivoluzionario di professione”, dirigente sindacale e politico, consigliere comunale e regionale, segretario provinciale e poi regionale del Pci umbro. Poi il mio lento deflusso verso ed oltre il Duemila mentre cambiano il paese ed il mondo: è la fine del comunismo, la crisi dei partiti italiani, la seconda repubblica. Con il maggioritario la vittoria del centro-destra nel 2001 ed il conseguente disastro economico nazionale, la speranza di un domani diverso, la speranza di un mondo migliore. Il titolo: non è stata una scelta facile. In un primo tempo avevo pensato a “un comunista riformista”, poi a “il mio secolo”. Ma mi sembravano titoli troppo impegnativi per una cosa modesta. Infine ho ripiegato sull’attuale “la mia Umbria”, in fondo tutta la mia vicenda si snocciola dentro questa regione ed è da questa piccola finestra che ho alzato gli occhi al cielo. Un grazie a chi mi ha sostenuto in questa fatica. In primo luogo ad Alberto Stramaccioni per i suoi consigli e per la sua insistenza. A Silvana, che mi è stata vicina ed ha sopportato i lunghi silenzi che


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seguivano a tanto impegno. A Pino Pannacci per i giudizi critici. A mia nipote Vittoria Capponi per avermi fatto riflettere su alcune questioni e per la sua opera critica sulla mia sbilenca sintassi. In fine a Sonia per la pazienza con cui ha più volte trascritto i miei confusi originali. A chi dedico questo libro? Ai giovani. Le generazioni che li hanno preceduti, tra le quali la mia, con molta grinta, e limitati successi, hanno provato a creare un mondo migliore. Ogni generazione ha un compito nuovo da svolgere. L’augurio ai giovani è che possano essere all’altezza dei problemi che il mondo pone loro di fronte. Perugia, marzo 2006

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I AUTOBIOGRAFIA


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1. Così imparammo 1943-1953

Una famiglia modesta È nato un fascista? Tanto tuonò che piovve Dallo strano corso a partigiano Una regione arretrata Da comunista a carcerato Il valore d’una scarpa Elezioni ed oratori Sospeso per servizio Come arrivai a Gubbio Lei dove va? Perché divengo “funzionario” Imparammo a fare politica Le nuove elezioni


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Una famiglia modesta Si, di fatto, l’ho attraversato tutto quel ventesimo secolo. Tutto? Sono nato soltanto nell’anno di grazia 1922! Tutto ove si consideri le vicende narratemi dai genitori. Mio padre era nato a Città di Castello nell’anno 1890, nella bottega di Gamonchio era divenuto un artigiano completo del legno e ne aveva anche ereditato il soprannome, un soprannome di cui nessuno è mai riuscito a capire il significato. A vent’anni era andato militare nei bersaglieri e così s’era trovato a partecipare alla guerra di Libia. Tornato, aveva anche lui voluto tentare la via dell’America e per alcuni anni aveva lavorato in Argentina senza trarne particolari profitti. Anzi soleva dire che lui, laggiù, aveva avvertito una sola differenza: i manici dei badili erano diversi e più faticosi. Tornò per caso in Italia nel 1916. La nave mercantile dove s’era imbarcato come carpentiere anziché andare diritta in Inghilterra fece scalo a Genova ed a lui venne la voglia di fare una scappata a casa. Purtroppo l’Italia era in guerra e Gamonchio, mio padre, fu subito arruolato e mandato al fronte. La guerra terminò nel novembre del 1918 ma lui di “naia” ne ebbe ancora per molti mesi. Intorno al fuoco, d’inverno, talvolta tornava ai suoi episodi di quelle guerre. I suoi racconti non combinavano però con quello che mi insegnavano a scuola. Io sono nato nell’anno della affermazione del fascismo attraverso quella prepotenza che oggi tutti noi sappiamo. Quando ho iniziato a frequentare le scuole già s’era in piena dittatura, e c’era sempre un libro di testo unico che narrava le glorie del fascismo e della prima guerra mondiale. Ci preparavamo, vestiti da balilla prima e poi d’avanguardisti, al clima imperiale. Mio padre in mezzo ai momenti buffi della sua vita militare ci cacciava, come per caso – il fascismo aveva orecchi lunghi – anche gli stenti della vita in trincea, i tanti morti, più di mezzo milione, e il milione di mutilati. L’anarchico che era in lui non riusciva a tacere. Mia madre veniva da una famiglia di socialisti e due suoi fratelli erano stati perseguitati dai fascisti. Era del 1894 e a 12 anni era andata a lavorare alla tipografia Lapi di Città di Castello. Dieci, dodici ore al giorno. Spesso doveva accompagnarla suo padre perché partiva col


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buio e la sera tornava che era notte. Ed era una bambina. Era adulta quando, in seguito ad una lotta un gruppo di operai decise di dar vita ad una tipografia cooperativa e mia madre vi aderì. E nella tipografia “Arti grafiche” lavorò come compositrice per tutta la vita, fiera della cooperativa e del suo lavoro, poiché solo a Città di Castello c’erano tipografe con l’alta qualifica di compositrici. Dunque una famiglia modesta, la mia, che abitava una casa in affitto grande e malandata, nel centro della città, in via S. Antonio 5, e che vedeva crescere i quattro figli tutti di buona salute e buon appetito, due maschi e due femmine.

È nato un fascista? Noi giovani cresciuti sotto il fascismo e da lui “educati” vedemmo con favore la conquista dell’Abissinia nel 1936 ed il re divenire anche imperatore, mentre il “Duce” guidava “con mano sicura” i destini della nostra patria. In casa avevo attaccato al muro la carta geografica dell’Abissinia, come allora si chiamava l’Etiopia, e con bandierine segnavo l’irresistibile avanzata delle nostre truppe. Veramente c’era stato sotto la guida del generale De Bono un momento di stallo, ma poi era arrivato il generale Graziani e la vittoria ci aveva arriso. Allora non sapevamo che a stanare sulle “ambe” i soldati del negus era stato l’iprite, un gas letale che dopo la prima guerra mondiale era stato messo al bando dalla Società delle Nazioni. E la Società delle Nazioni aveva condannato il nostro attacco e ci aveva messo le sanzioni, ma la radio cantava: “sanzionami questo – se sei capace – lo so che ti piace – ma non te lo do”. Fu in una discussione in casa con mio padre sulle grandi sorti della Patria che lui, rivolgendosi a mia madre, disse sottovoce: “Marietta, sta a vedere che anche in casa nostra è nato un fascista”. Per me fu peggio di uno schiaffo, ma fu salutare, fu uno dei primi elementi che mi fecero guardare con occhio un po’ critico il fascismo. Avevo allora 13 anni. Voglio aggiungere che mia madre gli rispose: “sarà meglio tacere, sono ragazzi, possono parlare anche non volendo con altri” e


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mio padre, il buon Oreste, tacque. Allora, a dir male del fascismo, si rischiava minimo il confino. Avevo cominciato bene. A soli 5 anni, per puro caso, mi ero ritrovato a fare la prima elementare privata così a sei anni con un piccolo esame, fui promosso alla seconda elementare statale. Tra una corsa e un tiro al pallone – allora noi bambini, figli di popolani, passavamo molto del nostro tempo libero in strada – le elementari furono facili. Debbo dire che non mi pesò negli ultimi due anni andare di volontà mia a fare il garzone in una farmacia; a quei tempi nessuno parlava di lavoro minorile, molti miei compagni erano garzoni in officine con lavori ben più pesanti. Finite le elementari, i miei genitori mi chiesero cosa volessi fare ed io, forte dell’esperienza di garzone, dissi: studiare. Così fu. Aspetta un momento, alcuni alunni della mia classe erano stati preparati dal maestro per l’ammissione al ginnasio per poi continuare gli studi sino alla laurea; una strada costosa e quindi impossibile per figli di operai, cui le uniche alternative erano il Seminario oppure la scuola statale di “avviamento professionale”. Tre anni, senza sbocchi scolastici, dove imparavi un po’ di tutto ed al massimo potevi divenire un piccolo travet. Non avendo alcuna vocazione religiosa imboccai con decisione la scuola statale e, anche se dovetti ripetere una classe, mi diplomai alla stessa età degli altri. A quel punto non rimaneva che trovarsi un impiego e la cosa anche allora era tutt’altro che facile. La proposta venne da mia zia Vera che, nubile, lavorava a Roma presso una famiglia altolocata e che mi era particolarmente affezionata. Era disponibile a pagare la retta mensile presso l’istituto magistrale privato che aveva la sua sede a Città di Castello. Vitto, alloggio, vestiti e libri restavano a carico dei miei genitori. Intrapresi i 4 anni con grande volontà e a 18 anni mi licenziai maestro.

Tanto tuonò che piovve Era il giugno del 1940: stavo, con anticipo rispetto agli altri anni, dando gli esami a Gubbio quando Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, annunziò che l’Italia aveva dichiarato guerra all’Inghilterra


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ed alla Francia. Una scia di bandiere e di giovani passò cantando per le vie di Gubbio, poi la città cadde in un silenzio assoluto: la gente sentiva che si stava passando dalla commedia delle sfilate alla tragedia della guerra. Hitler aveva superato la linea Maginot e con le sue armate motorizzate stava volando verso Parigi. Era la guerra lampo. Mussolini ritenne che doveva dichiarare guerra alla Francia in tutta fretta se voleva sedersi onorevolmente al tavolo dei vincitori. Gli era andata bene in Etiopia e poi in Spagna, dove aveva inviato truppe per far vincere un’altra dittatura, quella di Franco; ed anche in Albania avevamo vinto rapidamente. Ma questa volta non andò così. La Francia fu vinta, ma poi Hitler assalì la Russia e Mussolini lo seguì, come lo seguì nei bombardamenti sulla popolazione londinese. In casa mia, come in tante altre che vivevano a reddito fisso, sentimmo le conseguenze della guerra, prima con il tesseramento del pane, della pasta, dello zucchero, dei grassi, cioè con la fame, i pochi generi alimentari razionati e sempre più immangiabili, e poi con il coprifuoco. La notte dovevi oscurare le finestre per diminuire il rischio e l’efficacia di bombardamenti aerei. Con il crescere dei problemi familiari e nazionali crebbe anche il mio spirito di avversione al fascismo. Ricordo ancora le parole di mio padre quando dichiarammo guerra alla Russia: “Faremo la fine di Napoleone”. Terribile presagio! I vecchi d’allora sapevano che si sarebbe, purtroppo, avverato. Nel 1941 fui assunto come impiegato avventizio dal Comune di Città di Castello, ma essendomi piazzato bene in un concorso per maestri preferii, nel 1942, far domanda per insegnare. Ebbi il “posto” nella frazione di Cordigliano di Todi, una scuola pluriclasse con pochi alunni e tanta bella campagna intorno. E lì in dicembre, d’autorità, mi giunse per lettera dal Fascio la nomina a segretario del fascio di una importante frazione di Todi: Quadro. Entrai in crisi perché già mi sentivo del tutto contro il fascismo e contro le sue avventure. Che fare? Le vacanze di Natale stavano finendo ed io dovevo dare una risposta che non poteva essere che affermativa se volevo conservare il posto di lavoro. Il caso volle che nei primi giorni di gennaio del 1943 mi arrivasse la cartolina “rosa”, cioè il richiamo alle armi. Così finì per sempre la mia esperienza di “maestro”. La storia, quella con la “S” maiuscola, dispose diversamen-


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te della mia vita e della vita di tante altre persone. E la storia mi aveva, in quel modo, voluto liberare da quel maledetto problema, per ritrovarmi a Vittorio Veneto a fare il corso allievi ufficiali di fanteria. Intanto la guerra faceva il suo corso. Contro una Francia quasi finita non riuscimmo ad avanzare di un passo, poi in Grecia per poco venivamo rigettati in mare senonché ci vennero in soccorso le truppe tedesche. In Etiopia fummo fatti prigionieri, in Libia avanzammo ma poi, malgrado l’intervento delle truppe tedesche comandate da Rommel, la “volpe del deserto”, fummo buttati a mare. In Russia, secondo il racconto che ci facevano i superstiti della Julia, il disastro fu ancora più grande: eravamo andati con un Corpo di spedizione mal vestito e peggio armato ed al momento della ritirata mentre i tedeschi ripiegavano con le loro colonne motorizzate, i nostri soldati a piedi, malgrado il loro eroismo, a migliaia morivano nel gelo della Russia.

Dallo strano corso a partigiano Il nostro fu un corso ufficiali davvero strano. Quelli che lo avevano frequentato prima di noi dopo tre mesi furono fatti ufficiali e spediti ai vari fronti; noi dopo tre mesi fummo promossi caporalmaggiori e mandati a presidiare le coste del Tirreno, nel grossetano. Lì ci sorpresero quegli avvenimenti che dovevano determinare un profondo cambiamento della situazione italiana. Il 25 luglio 1943, molti di noi allievi ufficiali già avevamo assunto una posizione di aperta critica al fascismo, parlando convenimmo che forse i militari, molti dei quali avevano visto criticamente il potere fascista, avrebbero meglio potuto assicurare una transizione verso la pace. L’otto settembre, l’armistizio ci trovò a Istia sull’Ombrone. Restammo più giorni in attesa di ordini che non arrivarono per cui decidemmo di gettare nel fiume le armi pesanti e di prendere la strada di casa. Intanto mentre noi, e come noi tanti soldati e ufficiali, scivolavamo come fuggitivi vestiti da contadini verso le nostre dimore, il re ed il suo governo erano fuggiti, in qualche zona si combatteva, come a Roma, si vinceva come in Sardegna, senza ordini ci si arrendeva in seicentomila ai tedeschi, si moriva come


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a Cefalonia. L’esercito tedesco era calato con le sue colonne corazzate in Italia e l’aveva occupata; non tutta però perché il 10 luglio erano già sbarcati in Sicilia gli alleati e stavano risalendo la penisola. Un po’ a piedi ed un po’ in treno, aiutato dai ferrovieri che ci avvertivano dei tratti di ferrovia pericolosi per la presenza di tedeschi od anche di militi del ricostituito esercito fascista, riuscii a raggiungere casa. E nei giorni seguenti vedemmo affissi ai muri della città i primi bandi tedeschi e fascisti che ci imponevano di presentarci alle armi. Chi non si presentava sarebbe stato passato per le armi, come chiunque avesse offerto un rifugio a ribelli, a renitenti alla leva, a stranieri fuggiti dai campi di concentramento. Iniziava così il periodo più duro per l’Italia sotto il dominio di Hitler e delle sue forze armate, con un fascismo che divenne servo della violenza e della crudeltà nazista. Oggi storici revisionisti affermano che quel periodo fu la “morte della patria”. No, fu la fine di una classe dirigente che non seppe dimostrare energia, intelligenza e valore e fu l’inizio di un paese nuovo e libero che ha trovato sulla sua strada in questi 60 anni tante difficoltà e tante vecchie forze, ma che ancora lotta per rinnovare davvero il paese. E chi quell’otto settembre era un giovane vissuto sotto il fascismo, ora disilluso, con chi doveva stare? Cosa doveva fare? Ed il popolo italiano come poteva reagire a così grandi sventure? L’Italia era divenuta un campo di battaglia. Le truppe alleate sono a Napoli ed a Cassino, e solo nella prima metà del 1944 dopo essere sbarcate ad Anzio, in una lunga battaglia giungono a occupare Roma e risalgono rapidamente le Marche, l’Umbria, parte della Toscana e della Romagna. Poi, il lungo inverno ferme sulla linea gotica per riprendere l’offensiva finale nell’aprile del 1945. Gli alleati, dunque, avanzano combattendo paese per paese e bombardando le città ed i punti nevralgici delle vie di comunicazione, mentre i tedeschi, per rendere difficile quella avanzata, distruggono ponti, ferrovie, fabbriche, acquedotti e per impedire il dilagare della lotta armata terrorizzano le popolazioni rastrellandole e uccidendole. Basta vedere qualsiasi documentario di quel periodo per capire la vastità delle distruzioni materiali del paese, un paese affamato, bombardato, minacciato e colpito dalla violenza nazi-fascista.


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Ed io cosa debbo fare? Presentarmi? Nascondermi? Andare nel servizio civile a lavorare per i tedeschi? Devo decidere da solo, nessuno vuole dare consigli, ne va della vita. Così con altri due amici partii per la montagna con tre moschetti che ci ritrovavamo in mano dopo la scomparsa del reparto militare che era accasermato a Città di Castello. In verità cercammo di trovare tracce di qualche formazione ribelle ma non trovammo niente, per cui dopo alcuni giorni di sosta nella casetta di montagna di un nostro amico per mancanza di viveri dovemmo tornare a casa. Non mi diedi per vinto ed alla fine trovai qualche amico che era deciso a prendere la via dei monti e che aveva già qualche collegamento con antifascisti attivi. In pochi trovammo un rifugio in montagna, qualche arma, cercammo contatti con altri. All’inizio potevamo contarci sulle dita di una mano e lentamente crescemmo sino a diventare, nel nevoso inverno tra il 1943 ed il 1944, parte di una formazione partigiana. In montagna, in pieno inverno, con tedeschi e fascisti alle calcagne puoi vivere solo se attorno hai una popolazione che è dalla tua parte, che ti sostiene, ti nasconde, ti appoggia. E quello che trovammo nella zona dove ci insediammo fu un popolo di contadini meraviglioso che rischiò la vita delle famiglie per nascondere i renitenti alla leva, i fuggiaschi dai campi di concentramento, gli ebrei, e per sostenere i partigiani. Così fu in Umbria. Data la brevità del periodo della resistenza armata nella nostra regione (poco più di sei mesi) il suo sviluppo fu davvero eccezionale ed a me pare ingeneroso pretendere, come alcuni hanno scritto, che essa dovesse avere non so quale tipo di organizzazione unitaria, di comando unico, di capacità tattiche e strategiche cui mancavano nella pratica tempo e cultura. L’Umbria del 1943 era figlia della breve storia dell’unità d’Italia, della sua struttura sociale ed economica immobile da secoli, della decadenza dopo lo splendore dell’età dei liberi comuni e dei suoi attuali campanilismi. Fino ad allora, per tanti, la patria era la propria città, la propria gente che ti dava e voleva protezione; ma se nel 1943 Terni era lontana da Gubbio e da Città di Castello, ovunque cresceva la stessa voglia di pace, di libertà, lo stesso odio contro il fascismo. Le formazioni partigiane non furono com-


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poste da eroi, ma da giovani e giovanissimi renitenti alla leva, da slavi ed ebrei, da qualche anziano spesso comunista e già pratico della battaglia politica e quindi in grado di organizzare la formazione, di renderla capace di difendersi dai grandi rastrellamenti tedeschi e financo di mordere ai fianchi la potente e crudele macchina da guerra nazista.

Una regione arretrata L’Umbria nel 1944 era una regione arretrata, che se a Terni aveva visto lo sviluppo di una industria legata alla guerra, per il resto era ancora dominata da una agricoltura che faceva perno sulla mezzadria, insomma una regione povera che non faceva passi avanti. Con l’unità d’Italia e la fine della dominazione papale erano venute alla ribalta forze borghesi liberali e anticlericali, ma poi, nel correre dei decenni, le forze liberali più conservatrici s’erano alleate con forze clericali, formando vere consorterie con la conseguenza di mantenere la regione nelle condizioni di arretratezza e di estrema povertà. Non a caso è di quel periodo la massima estensione nelle campagne umbre della pellagra, malattia dovuta alla povertà del cibo con cui si alimentavano i contadini. Contro quella politica si sviluppa dapprima una lotta condotta da repubblicani e radicali, poi entrano in scena anarchici e socialisti. La fine del secolo vede una forte persecuzione contro queste forze, ma poi il periodo giolittiano permetterà ad esse di esprimersi più liberamente. In Umbria ciò significherà una espansione del partito socialista e delle organizzazioni sindacali. È a questo punto che i socialisti iniziano una “predicazione” nelle campagne e con essa la organizzazione delle leghe mezzadrili. Un passo importante questo dei socialisti verso la campagna che un’antica cultura cittadina e borghese aveva sempre rifiutato, considerando gli abitanti della campagna “villani”, cioè ignoranti e reazionari. La guerra del 1915-18, poi, aveva fatto uscire i contadini dal podere, li aveva messi a contatto con gli operai e li aveva scaraventati in un dramma epocale, creando le condizioni per una scesa nella battaglia civile di tanti contadini che avevano scoperto un mondo nuovo e


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che ormai volevano rompere con la miseria cui erano costretti. Così finita la guerra, ridimensionate le industrie belliche, l’Umbria tornava ad essere una regione prevalentemente agricola, dove poche centinaia di proprietari terrieri volevano continuare a dettare le regole del giuoco. Lo scontro fu aspro ed i mezzadri non solo conquistarono un nuovo patto, ma contribuirono, nelle elezioni politiche del 1919, a portare al 47% dei voti il partito socialista e nel 1920, malgrado una diminuzione dei voti, a conquistare i maggiori comuni della regione. Com’era potuto avvenire che una società arretrata come l’Umbria desse tanti voti ai socialisti? La “predicazione socialista” d’una società nuova (faremo come in Russia) ma soprattutto un lavoro politico fatto di concretezza e teso a migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli operai e dei contadini, la capacità di ricercare soluzioni relative allo sviluppo economico e sociale di vaste zone avevano compiuto il miracolo. Così fu il socialismo riformista di Pierangeli a Città di Castello, così, partendo da una visione politica radicale, fu il programma per lo sviluppo dell’industria e della economia ternana, ma già nelle elezioni del 1921 si vive la debolezza di un movimento che soffre l’attacco violento del fascismo. È contro questa avanzata delle masse popolari che gli agrari divengono i finanziatori ed i sostenitori del nascente partito fascista e non a caso la marcia su Roma nell’ottobre del 1922 partirà da Perugia. Debbo però sottolineare che se il rullo fascista poté tanto, non riuscì a far tacere in Umbria tutte le voci contrarie, ad impedire una resistenza attiva assieme ad una passiva, che l’attraversarono nei venti anni del suo potere e che dalle ceneri riemerse con grande forza nei giorni della sconfitta del fascismo. Numerosi furono gli umbri che resistettero. Alcuni furono uccisi, molti altri ripararono all’estero o furono arrestati e condannati a molti anni di carcere, alcuni parteciparono alla battaglia della Spagna repubblicana, tanti furono coloro che si opposero al fascismo tacitamente. Così fu per alcune categorie operaie ed artigianali d’orientamento socialista ed anche cattolico. Voglio sottolineare che se una parte del clero seguì il fascismo in alcune sue battaglie, una parte notevole di sacerdoti e di cattolici non cedette al fascismo. Ho già accennato alla


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saldatura che era avvenuta con il nuovo secolo tra forze conservatrici laiche e clericali. Dopo la fine del dominio papale in Umbria il clero s’era chiuso in se stesso e non aveva neppure risposto all’appello delle autorità vaticane che gli chiedeva di dar vita ad una organizzazione cattolica che si stava diffondendo nel nord: l’Opera dei Congressi. È con l’età giolittiana che s’avverte di nuovo un fermento nel mondo cattolico. Il vecchio clero finirà con l’appoggiare le forze conservatrici, i giovani preti, che hanno studiato al Seminario Pio di Roma, avvieranno nuove esperienze sul piano spirituale e su quello sociale, “Correnti novatrici”, come dice il Tedeschi, che risentiranno del Murrismo, ma che avranno una loro identità, avvieranno la loro attività in diverse zone dell’Umbria. Questo moto rinnovatore già prima della guerra mondiale sarà represso dalle autorità vaticane e nella diaspora ci sarà chi si ritirerà in qualche parrocchia di campagna, chi, come Don Giovagnoli, aderirà al nazionalismo e poi al fascismo, chi come Don Piastrelli, Don Rughi, Gabriotti ed altri continueranno la loro opera dopo il 1918 nel Partito Popolare e nelle leghe bianche, poi con il fascismo svilupperanno una azione antifascista più o meno palese. È da notare che con il fascismo si determinerà, alla base negli anni ‘30, un ravvicinamento notevole tra le forze laiche antifasciste e quelle cattoliche, presupposto questo positivo per la futura battaglia resistenziale. Anche la grande maggioranza dei contadini non aderì mai al fascismo, come in un suo libro sottolinea il console americano Orebaugh, che godette della loro protezione nel periodo della resistenza.

Da comunista a carcerato Ho detto che il periodo partigiano fu in Umbria particolarmente breve, tuttavia visse esperienze diverse sotto il profilo politico, mediate con fatica dai Comitati di Liberazione sorti nei principali centri della regione. La liberazione però fa sentire subito il peso dell’orientamento politico degli alleati. Essi disarmano i partigiani, cercano di limitare al massimo la vita dei partiti e nella provincia di


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Perugia affidano i più alti incarichi pubblici ad esponenti di forze moderate. Tuttavia l’attività dei partiti si estende rapidamente e vede prevalere quelli che saranno su scala nazionale i grandi partiti di massa: Dc, Psi, Pci. Ed anche io, che mi ero mantenuto indipendente durante la vita partigiana, come tanti altri giovani, mi iscriverò ad un partito. Come lo scelsi, con quali motivazioni? Allora l’entusiasmo per la libertà e per l’Italia libera in me erano grandi ed io mi rifeci alle idee di unità nazionale, di libertà ed uguaglianza che erano state le idee base della vita in montagna. Mi parve allora che per il sacrificio dei suoi uomini, per l’unità nazionale e l’eguaglianza che predicava, il mio partito potesse essere quello comunista e ad esso mi iscrissi. Senza dubbio contribuirono alla mia scelta le posizioni che esso aveva preso dopo l’arrivo di Togliatti a Salerno nel marzo del 1944. Infatti al Sud, dove con il consenso degli alleati s’era riaffermata la monarchia, i partiti antifascisti si rifiutavano di entrare in un governo monarchico, né peraltro il re intendeva dimettersi. Era una situazione di stallo dalla quale si poté uscire per la presa di posizione di Togliatti che, a Salerno, dichiarò che i comunisti erano pronti ad entrare in una coalizione diretta da un uomo della monarchia. Questa mossa rese possibile la creazione di un governo di unità nazionale, mentre la questione istituzionale veniva rinviata a dopo la fine del conflitto. Ora alcuni storici stanno da anni discutendo se la linea portata avanti fosse stata suggerita da Stalin o fosse una idea di Togliatti. Debbo dire che in quel momento questa questione non me la posi, ma allora, anche se fosse stata suggerita da Stalin, il vero vincitore del nazismo, non avrebbe influito. Oggi sono del parere che abbia ragione Giorgio Bocca quando, nella biografia di Togliatti, nota come questi dalla radio non avesse mai attaccato la monarchia e la casta militare e ricorda come lo stesso già nel novembre del 1943, affermasse che: “Sarebbe assurdo, in un paese il quale ha fatto la tragica esperienza di vent’anni di fascismo... pensare al governo di un solo partito e al dominio di una sola classe. L’unità e la stretta collaborazione di tutte le forze democratiche popolari dovranno essere l’asse della politica italiana”. Quell’unità resse sino alla metà del 1947. Fu una unità non facile ma avviò la ricostruzione, diede al paese l’istituto della repubbli-


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ca, elesse una Costituente che votò quasi all’unanimità la nuova Costituzione italiana: il patto di civile convivenza che era costato al paese tanti sacrifici e tanto sangue. Nel 1944 segretario della sezione di Città di Castello era Orazio Gallo. Un uomo maturo che trattava legname per una società del suo paese, Chioggia. Era politicamente preparato e quindi per noi giovani un buon maestro, ma forse era troppo ingenuo ed anche pessimo oratore. Fu lui a cercare di dissuadere almeno una parte di noi giovani dal partire volontari nel risorto esercito italiano, ma il suo fu un insuccesso soprattutto nei confronti dei giovani più attivi. Fui anche io tra quei giovani 500 umbri che s’arruolarono nel nuovo esercito italiano e che dal gennaio 1945 alla fine della guerra con il “gruppo di combattimento Cremona” furono sul fronte di Ravenna e fecero l’avanzata di aprile da Alfonsine a Venezia. Con uno strascico post-bellico particolare che riguardò me ed altri 14 soldati del “Cremona”. Per aver fischiato il “Re di maggio”, cioè il principe Umberto di Savoia, durante una rivista militare dieci di noi furono inviati a Gaeta, famoso carcere militare, e ritornammo alle nostre case solo nel dicembre dello stesso anno. Questa fu l’unica ricompensa che ho avuto come volontario. Pensai che quella condanna non fosse determinata dal nostro atto di insubordinazione, ma da un disegno ben più vasto. I partigiani volontari nel corpo italiano di liberazione avevano portato nel tradizionale esercito italiano, basato su una gerarchia assoluta, una ventata di democrazia ma ora la guerra era terminata, dei volontari non c’era più bisogno, era necessario ristabilire la vecchia disciplina, piegare di nuovo l’esercito alle mene monarchiche e reazionarie. Da questa convinzione, in carcere nacque più forte la necessità, al mio rilascio, di impegnarmi nella politica.

Il valore d’una scarpa Mentre ero al fronte e poi a Gaeta il Pci in Umbria cresceva rapidamente. Nella sola provincia di Perugia dai 5.000 iscritti del 1944 passava ai 25.000 del 1945 reclutando massicciamente nelle campagne e soprattutto tra i mezzadri, dove i giovani che tornavano dalle dolorose esperien-


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ze della guerra avvertivano il bisogno di spezzare la gabbia mezzadrile, di conquistare nuove e migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal giorno della liberazione partiranno le lotte mezzadrili e parallelamente, dall’altro lato, si avrà la resistenza strenua degli agrari ad ogni seppur minima rivendicazione. Nelle città, dove partiti, sindacati, amministrazioni debbono lottare contro la fame, la disoccupazione, il ripristino di servizi fondamentali e delle fabbriche danneggiate dalla guerra, i partiti tra unità e conflitto si preparano alle elezioni amministrative che si terranno nella primavera del 1946. Lo scontro tra socialisti e comunisti da un lato e democristiani dall’altro, come nel resto d’Italia, avvia quella rottura che nel maggio del 1947 si produrrà nel governo del paese. È la prima mia esperienza politica del tempo di pace. Allora comunisti e socialisti erano uniti da un patto e nelle elezioni marciavano fianco a fianco. Così nella giornata elettorale mi ritrovai in sella alla magnifica Guzzi 500 guidata da Libero Cecchetti, socialista, per un giro nei seggi di campagna. Andavamo a notevole andatura quando due giovani, un uomo ed una donna che in bicicletta camminavano ai due lati della strada, al rumore della moto, conversero verso il centro della strada. L’urto fu inevitabile. L’uomo sbalzato di sella finì nel fossato e noi strisciammo a lungo sul selciato rialzandoci alla fine con qualche escoriazione. Anche l’uomo risalì sulla strada, ai piedi aveva una sola scarpa. Fu a questo punto che la donna, prima ancora di vedere come stava l’uomo, che poi era suo marito, quasi gridò: “e la scarpa, la scarpa nuova!?” Oggi si potrebbe ridere, ma allora c’era poco da scherzare. Un abito, un paio di scarpe erano un bene prezioso, ancora c’erano le carte annonarie che valevano persino per le camere d’aria delle biciclette, e quei generi che non erano tesserati era difficile trovarli anche a caro prezzo. Quella era l’Italia dell’immediato dopoguerra.

Elezioni ed oratori A Città di Castello, come nelle principali città umbre, nelle amministrative prevarrà la sinistra e ciò a dimostrazione della profondità di un sentimento che era maturato in oltre mezzo secolo di battaglie


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popolari, talvolta vittoriose e più spesso perdenti. Tuttavia avvertivamo che la Dc si presentava già come una forza potente, aiutata apertamente dalla Chiesa e appoggiata da molte forze conservatrici. Ricordo il grande corteo che si formò nella mia città al momento della vittoria elettorale delle sinistre unite. Ma nella gioia tra i comunisti vi fu un motivo di amarezza: la grande partecipazione ai nostri comizi aveva acceso l’entusiasmo dei compagni ed essi erano certi di risultare dalle urne il primo partito. Invece fummo soltanto il terzo e questo spinse noi giovani ad una riflessione sui nostri limiti ed anche a lavorare per affermarci come gruppo dirigente malgrado la nostra forte inesperienza e incapacità politica. Nel comitato di sezione v’erano molti uomini maturi ma per i loro impegni, allora la giornata di lavoro era di fatto di nove o dieci ore, non erano nella condizione di sviluppare una intensa attività. C’era poi un anziano che aveva vissuto sulla propria pelle il 1922 e il fascismo e che amava ricordare quel periodo buio e la resistenza di pochi. Per noi giovani era come se parlasse di mille anni addietro, lui viveva nel passato, noi pensavamo al futuro. Capisco i giovani di oggi quando raccontiamo queste storie, loro pensano al domani, ma dobbiamo avvertirli che a noi poi, nella lotta di ogni giorno, la incorruttibilità, la resistenza, l’onestà di vita e di ideali di quegli uomini “anziani” ci servirono, eccome! Le elezioni politiche del 1948 furono una esperienza ben diversa. Nel maggio del 1947, dopo un viaggio negli Stati Uniti, De Gasperi formò un nuovo governo senza i socialisti ed i comunisti. Stalin rimproverò poi i comunisti di non essersi battuti più duramente contro quella esclusione, ed anche se a molti compagni il ritorno all’opposizione piacque, il Pci condusse la sua battaglia democratica per riaffermarsi come forza di governo. Anche a Città di Castello facemmo qualche iniziativa. Tra le altre partecipammo ad una assemblea indetta dal Pri, oratore l’avvocato Parlavecchio. Egli sosteneva che il Pri era rimasto al governo per mantenere il più a sinistra possibile la Dc. Il teatro era gremito, io non avevo mai parlato in pubblico, tuttavia, sotto la spinta dei compagni, chiesi di intervenire. Posi all’oratore questa domanda: “se non ce l’ha fatta la grande forza elettorale e poli-


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tica della sinistra a tenere ferma la barra del rinnovamento del Paese stando al governo, come pensate di potercela fare voi che siete una modesta forza elettorale e politica?” Non ricordo la risposta, ma i repubblicani insieme ai socialdemocratici ed ai liberali restarono al governo. A proposito della capacità della nostra sezione di parlare al pubblico della città dobbiamo dire che eravamo all’anno zero. Ogni volta che dovevamo affrontare il pubblico del teatro o della piazza dovevamo cercare un oratore della federazione o della sezione di Umbertide che, contrariamente a quello che succedeva a noi, aveva oratori di notevoli capacità, ad iniziare da Ruggero Puletti, che poi, dopo una crisi seria, si staccherà dal Pci. Noi ci limitavamo a tenere comizi nelle campagne. Allora per trovare riuniti i contadini si doveva andare all’uscita della messa. La prima cosa che ti raccomandavano i compagni del posto era di non attaccare la religione e la famiglia e ciò coincideva con la linea del Pci che aveva votato l’articolo 7 della Costituzione e che sapeva distinguere bene tra politica e religione. I nostri oratori dei primi anni dopo la Liberazione erano operai ed artigiani, qualche volta studenti. Eravamo tutti alle prime armi e cercavamo di seguire le indicazioni dei nostri giornali. Ma non sempre bastava. Ricordo un contraddittorio a Selci. Il segretario di quella nostra sezione che ci aveva raccomandato il massimo garbo, trattandosi di una zona per noi difficile, ad un certo punto, preso da chissà quale impeto, lui piccolo calzolaio del borgo, balzò sul tavolo degli oratori gridando “Vedo sangue”. Fu tirato giù dal tavolo ma ormai la frittata era fatta. Oppure un nostro oratore che era salito su un cumulo di fascine per parlare alla gente appena uscita dalla chiesa e che, mentre magnificava la nostra forza, perse l’instabile equilibrio e rotolò a terra assieme alla legna. Anche io feci le prime prove in campagna. Durante le elezioni del 1946, assieme a Celso Ghini, che era venuto ad osservare, andammo in bicicletta in una lontana frazione. Credevo che fosse lui l’oratore, invece volle che parlassi io. Era la prima volta che parlavo in pubblico. Ad un certo punto, citando quello che in altra epoca aveva detto un santo, forse Ambrogio, affermai che la proprietà era un furto. Ghini mi


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lasciò finire e poi gentilmente mi fece notare che quella affermazione era anarchica e sbagliata. Così imparavamo. Voglio ricordarne qualcuno di quei nostri primi oratori, i fratelli Ugolini uno muratore, l’altro tipografo, Benedetti imbianchino, Venanzio Ciliberti studente, Pino Pannacci impiegato, ed altri ancora. Anche così con le sue debolezze ed i suoi errori di linea il Pci stava, nell’alto Tevere, facendosi le ossa.

Sospeso per servizio Si andrà alle elezioni del 1948 con una polemica aspra ed una divisione politica che stava divenendo profonda. Cos’era successo? Stava cambiando nel profondo la situazione internazionale. Il contrasto tra le potenze occidentali e l’Urss si stava acuendo per molti motivi, e forse era inevitabile che una visione radicale del liberalismo e quella altrettanto radicale del comunismo non potessero collaborare. Certo pesarono le politiche di potenza messe in atto in punti particolarmente sensibili dopo Yalta. Pesò il regime imposto da Stalin alla Polonia così come il timore da parte dell’Urss, ridotta allo stremo, di un attacco dell’Occidente che aveva il monopolio dell’arma atomica. In Italia sulla rottura di una unità che sembrava destinata a durare a lungo certamente pesò la situazione internazionale, ma anche i prestiti americani, i grandi gruppi industriali e conservatori, la chiesa cattolica. Affrontammo il 1948 con uno spirito battagliero e nella convinzione di poter vincere, forti della unità delle sinistre che s’erano unite in un solo cartello elettorale con il simbolo di Garibaldi, “il Fronte popolare vincerà” scrivemmo e negli ultimi giorni per dare certezze, scrivemmo anche “il Fronte popolare ha vinto” Con il senno del poi debbo dire che si avvertiva, mano a mano che si andava verso il giorno del voto, un allentamento dell’adesione al “Fronte popolare” da parte di ceti medi e di intellettuali. In Umbria le sinistre ebbero una notevole affermazione, ma in Italia? Fu per noi un brutto risveglio, un risveglio che ci fece discutere e riflettere molto. Aveva vinto la Dc e con lei i moderati ed i conservatori del nostro paese. Il Fronte aveva preso soltanto il 31% dei voti, la Dc quasi la maggioranza assoluta. La sua propaganda era stata


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efficace ed era basata sull’anticomunismo e sulla necessità degli aiuti americani. La Chiesa la sostenne arrivando persino a scomunicare gli elettori di sinistra. Un aiuto forse inconsapevole lo diedero tanti che sui muri scrivevano “ ha da venì baffone” ed anche le forche di Praga. Passammo tra compagni una serata amara. La prima decisione fu quella di farsi vedere in città non come dei vinti. I primi segni da dare? Il giornale “L’Unità” bene in vista ed il distintivo del Pci all’occhiello. Mettere quel distintivo per me, che persino al fronte mi ero rifiutato, in segno di uguaglianza, di portare i galloni da sergente, fu dura. Purtroppo molti miei appunti di allora si sono persi per la strada, ho ritrovato solo qualche foglio. Si nota la distanza tra un atteggiamento “anarcoide” come quello appena citato e il richiamo quasi militaresco alla disciplina. Vi si nota anche la forte tensione morale che animava me come tanti altri compagni. Sarà l’attentato a Togliatti e quello che accadrà dopo a far sentire la durezza dello scontro sociale e politico in atto nel paese. A quel 14 luglio 1948 che vide in piazza tanta gente e qua e là forti proteste, seguì una dura repressione governativa mirante al ridimensionamento delle sinistre ed in particolare del Partito comunista. Tra il 1948 ed il 1953 saranno 62 i lavoratori uccisi, oltre 3.000 i feriti e quasi 100.000 i fermati, migliaia i licenziati per motivi politici. La grande maggioranza di loro erano comunisti. E qui debbo dire che quell’onda colpì anche me. Come segretario della sezione di Città di Castello fui accusato di “vilipendio al governo” per un manifesto che la locale sezione del Pci quel 14 luglio aveva fatto affiggere sui muri della città e che aveva come titolo “via il governo degli assassini!” Ero allora dipendente del Comune e per motivi di servizio con altri colleghi quel giorno, sin dal mattino, in bicicletta, ero andato in campagna e solo nel pomeriggio, al rientro, seppi dell’attentato a Togliatti. Pochi giorni dopo fui convocato dai Carabinieri e lì serenamente sostenni che, pur essendo segretario della locale sezione, per motivi di lavoro quel giorno ero stato assente e diedi i nomi dei colleghi che potevano confermare la veridicità della mia tesi. Per quel fatto pochi giorni dopo, senza attendere nessuna convocazione della magistratura, per ordine del Prefetto fui sospeso senza assegni dal servizio, in attesa del rela-


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tivo processo. Avevo 26 anni e da quando ne avevo diciotto mi ero, come si dice, “guadagnato la pagnotta”. Da quel momento ero senza un soldo e tornavo di nuovo a carico dei miei genitori. Per la verità anche prima, tra i 14 e i 18 anni durante l’estate avevo lavorato, come si dice oggi, “part-time” nella tipografia “Arti grafiche” come correttore di bozze, quattro ore la mattina per pochi soldi, ma particolarmente utili a me ed alla mia famiglia. Venne qualcuno da me a dirmi che se mi ritiravo dalla politica forse... Quanto eravamo tornati indietro! Come dovevo reagire? Come reagii io, e come reagì la sinistra prima alla sconfitta e poi alla persecuzione?

Come arrivai a Gubbio Mentre nel Psi s’avvia una discussione che lo porterà a un distacco sempre maggiore dal Pci, nel Pci il dibattito sarà forte tra chi pensava che occorresse serrare le fila in vista di una forte repressione e chi, con Togliatti, riteneva che il Partito e le sinistre avessero le forze per far avanzare, seppure tra molte difficoltà, su una strada democratica la giovane Repubblica italiana. Davanti all’offensiva del Governo e delle destre il Pci non rinuncia alla sua linea di grande apertura democratica, trova nelle fabbriche e nelle campagne le forze per reagire. Anche a Perugia ci fu battaglia. Forse per istinto più che per convinzione – ancora politicamente mi sentivo molto impreparato – in Comitato federale, dove ancora ero soltanto un invitato, votai per la linea di Togliatti. Avendo ora tutto il tempo a mia disposizione intensificai la mia attività politica. Fu in quel periodo che la Federazione di Perugia costituì i comitati di zona ed inviò funzionari della federazione a dirigerli1. Nel comitato s’incontrarono molti compagni che poi dirigeranno, localmente o su scala provinciale, il Pci per molti anni. A guidare il Comitato di zona venne il compagno Riccardo Tenerini spirito battagliero e critico che ci servì da guida e da collante. Fu un periodo particolarmente vivace dell’attività politica e sindacale dell’Alto Tevere2. In quel periodo vennero organizzate numerose iniziative politiche


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e di lotta. Un giorno mi ritrovai con Libero Cecchetti in un’aia di Coldipozzo ad aiutare un contadino nella divisione del grano secondo la legge vigente: 53% al mezzadro ed il 47% al proprietario. Il giovane padrone di quella bella tenuta, certo Spinelli, voleva mandarci via dall’aia ma noi protestammo dicendo che eravamo ospiti del contadino e perciò rimanemmo. Era il 1949, ne ricavammo un avviso del tribunale ed un processo per “istigazione a commettere appropriazione indebita e per minacce verso il proprietario”. Nel 1951 il processo, nostro difensore il concittadino ed amico Stelio Zaganelli (che avrà diverse altre occasioni per difendermi ancora nei decenni successivi), terminò con la piena assoluzione. Nel settembre del 1949 mi trasferii a Gubbio per assumere l’incarico di segretario della locale Camera del lavoro. Gubbio era allora davvero povera. Le miniere di Branca, che sino a qualche anno prima avevano occupato oltre mille operai, erano state chiuse, la disoccupazione aveva colpito tanti padri di famiglia costretti ora a vivere alla giornata o ad emigrare nelle terribili miniere del Belgio e dintorni. La chiusura delle miniere fu un duro colpo per la città. Molti artigiani e commercianti dovettero chiudere bottega ed emigrare. Nelle campagne la povertà era estrema e le famiglie dei mezzadri erano troppo numerose per quello che rendeva il podere. Trovai la Camera del lavoro senza una lira e devo la mia sopravvivenza dei primi mesi alla garanzia che per me fecero, presso una trattoria sita nel rione S. Martino, alcuni compagni molto stimati in città. L’organizzazione era allo sbando poiché da mesi mancava una guida ed il periodo si presentava difficile perché l’unica sovvenzione possibile era la raccolta del grano presso le famiglie contadine al momento della battitura, ma la battitura era avvenuta da tempo. Debbo dire che non mi persi d’animo. Aiutato da un giovane del posto, Burocchi, e da molti compagni iniziai a fare riunioni in tutte le frazioni dell’eugubino e ciò mi consentì di conoscere la oggi famosa “base” e di farmi conoscere. I “rossi” erano tanti e l’entusiasmo dei giovani contadini grande, era il periodo della conquista della Cina da parte dei comunisti di Mao Tse Tung e ciò serviva a dare entusiasmo anche a questo nostro popolo di contadini poveri.


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Lei dove va? Nel corso di uno sciopero generale in difesa delle libertà andammo davanti alle poche fabbriche, ma non era facile. La dura situazione economica dell’eugubino costringeva gli operai ad essere sottomessi. Mi ricordo che andai ai cancelli della miniera della Marna e parlai con gli operai. Avevamo un gruppo di bravi compagni, tra cui mi piace ricordare Carlo Ghirelli, Oreste Facchini e il buon Martini, padre di un mucchio di figli ancora piccoli. Alcuni minatori mi fecero una proposta strana, quella di andare a parlare con il padrone per averne l’assenso. Ed io andai verso la direzione, ma proprio il padrone mi fermò in mezzo al piazzale ed avemmo una discussione breve che all’incirca si svolse così: “lei dove va” mi chiese l’industriale “a parlare con lei. Mi hanno incaricato gli operai di chiedere il suo consenso allo sciopero”. Stette un momento in silenzio e poi mi disse: “dovrebbero arrestarvi tutti”. Sapevo già la risposta, così troppi padroni vedevano il sindacato, e perciò gli risi in faccia e tornai dagli operai che si affrettarono, salvo pochi, ad entrare. A quel punto decisi di far entrare anche quei pochi. Perché racconto questo episodio? Perché è anch’esso il segno di una epoca che oggi, con il lavoro precario, si cerca di far rivivere. Come altro segno fu la chiamata in tribunale per me e per il segretario della locale sezione comunista Giuseppe Bei Clementi per un volantino del Pci ritenuto ingiurioso verso un agrario. Non fu condannato il segretario di sezione, che era anche vicesindaco di Gubbio, ma il sottoscritto e ancora una volta per un’azione che non mi apparteneva. Qualche tempo dopo per la loro attività sindacale furono licenziati Ghirelli e Facchini. Il Primo Maggio del 1950 Gubbio vide i frutti di quel lavoro di tanti compagni comunisti e socialisti. A migliaia vennero dalle frazioni più vicine e da quelle più lontane, famiglie intiere, a piedi, cantando, con qualche tricolore e tantissime bandiere rosse. Fu un enorme corteo e si parlò nella grande piazza di S. Francesco, oratore ufficiale Francesco Alunni Pierucci. Subito dopo la mietitura vennero le lotte per la divisione del grano. La parola d’ordine della Federmezzadri era quella di ottenere oltre il


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50%, un tre per cento previsto dalla legge ma cui i padroni si opponevano, ed accantonare un altro cinque per cento che il sindacato rivendicava. Vi furono alcuni punti di lotta vivaci, alcune denunce ed al buon Palazzari, un contadino di Cipolleto, fu dai carabinieri sequestrato tutto il grano. Sarebbe stata la fame se non fosse intervenuta per alcuni mesi la solidarietà dei vicini. Quello era un tempo di grande solidarietà nelle campagne. Si batteva il grano con le bandiere iridate della pace sui pagliai e, in alcuni casi senza la scala. La scala era la macchina che dalla trebbiatrice portava la paglia sul pagliaio, dove uomini l’assestavano. Si batteva senza questo mezzo perché i proprietari insistevano nel farne pagare il costo soltanto al contadino. E battere senza scala voleva dire impiegare più tempo e più gente e ciò non sarebbe stato possibile senza l’entusiasmo e la partecipazione di tanti giovani. Un grande volontariato allora persino combattuto! È di questo periodo anche lo sciopero contro il licenziamento di cinque operai lavoratori del tabacco, che ebbe luogo a Città di Castello. I contadini presidiarono l’entrata della fabbrica, ma purtroppo molte tabacchine facevano ressa per entrare. Vi fu uno scontro con la polizia, un uomo di parte padronale sparò qualche colpo di pistola, un contadino rimase ferito, molti furono i denunciati, poi... poi le tabacchine a testa bassa entrarono quasi tutte. Le conseguenze? Molti lavoratori denunciati, alcuni operai licenziati in tronco3. In quella lotta imparammo che non si poteva imporre dall’esterno uno sciopero, anche se le motivazioni erano più che giuste; non avevamo calcolato il peso della repressione padronale ed anche del suo paternalismo, le tabacchine di Città di Castello per merito dei sindacati e loro avevano una paga superiore a quella degli altri tabacchifici.

Perche divengo “funzionario” Sul finire dell’anno, mentre preparavo una lotta dei mille e più disoccupati, venne a Gubbio Alfio Caponi, segretario della Camera del lavoro provinciale e mi propose di andare a Perugia all’organizzazione di quella Camera del lavoro. Accettai pur lasciando Gubbio con


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dolore. La città mi aveva dato tantissimo sul piano umano e su quello politico. Da Gubbio uscivo con una visione molto più larga della vita del nostro popolo e delle lotte giuste da sostenere per il suo riscatto. A Perugia il primo impatto fu con i cancelli chiusi dell’Angora Spagnoli. Avevano licenziato in tronco un membro della commissione interna, Carmelina D’Amico. Riuscii a parlare con un gruppo di operaie ma non riuscimmo a mobilitare le operaie in difesa della loro collega. E non sembri strano, da un lato la paura di perdere il posto di lavoro, dall’altro la divisione interna stava portando il nuovo sindacato cattolico ad una posizione egemone con l’aiuto del proprietario ed anche, perché non dirlo, con la introduzione di nuovi sistemi di cottimo respinti dalla Cgil ma accettati dalle operaie che, assieme ad una fatica maggiore, ottenevano anche un miglioramento del loro salario. Così, di fatto, divengo nella Camera del lavoro di Perugia sino ai primi mesi del 1953 e poi nella Federazione comunista “funzionario” o come allora si diceva con un sorriso, “rivoluzionario di professione”. È un salto in un mondo pieno di ideali ma anche di difficoltà d’ogni tipo. Prima di tutto quella dello stipendio, che era in teoria allineato a quello di un operaio metallurgico, ma nella realtà ben diverso poiché veniva pagato si può dire, a rate, e che poi, quando s’accumulavano molti arretrati, finiva in una riunione in cui volontariamente si rinunciava ad una parte. L’altro era l’ambiente. Perugia non era una città facile, ancora rinchiusa o quasi dentro le mura ci accoglieva con il massimo di indifferenza. Anche nelle sezioni comuniste della città sentivamo questa nostra estraneità all’ambiente e ci vorranno molti anni e molta nostra capacità per farci finalmente accettare per quello che meritavamo. Per risparmiare dormivamo (alcuni di noi che venivano dalla provincia), in una sala della Camera del lavoro che allora era in locali adiacenti all’albergo “Brufani” in viale Indipendenza, e che usufruiva nell’inverno di un minimo di riscaldamento proveniente dall’impianto del Brufani. Eravamo davvero degli “accampati”4. Il giorno si faceva orario d’ufficio e la sera, per la Camera del lavoro o per il Pci, si andava a tenere riunioni in provincia. La Camera del lavoro allora aveva una Gilera 750, magnifica moto, ma utile per uno solo, per cui spesso, con


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qualche macchina si andava in quattro o cinque a tenere riunioni diverse; lo stesso si faceva per le riunioni del Pci. Fin qui poco da dire ed invece c’era qualche problema non solo perché dovevamo sempre fare i conti con la benzina, che qualche volta ci lasciava per strada, ma anche perché spesso restavamo senza cena, ed a trent’anni non è cosa da poco. Inoltre le varie riunioni non finivano tutte alla stessa ora; ce n’era sempre una che finiva molto tardi ed allora toccava attendere per strada la macchina, cosa d’inverno poco piacevole. Alcune volte restava il segretario locale, ma spesso ti lasciava da solo, giustamente, scusandosi che lui la mattina presto si doveva alzare per andare al lavoro perché già aveva rubato qualche ora al necessario riposo. Allora perché restare a fare proprio a Perugia il funzionario del sindacato e poi del partito? Sarebbe retorico dire per passione, ma insomma qualche ideale ci muoveva davvero e poi perché nelle periferie e nelle campagne la situazione era ben diversa ed in particolare tra i contadini eravamo riconosciuti come compagni dirigenti. Certamente in una situazione relativamente migliore si trovavano i compagni funzionari che abitavano a Perugia e tra loro e noi “stranieri” allora correva fraterna amicizia. Inoltre a Perugia si impara a conoscere un territorio più vasto, una città più grande e si partecipa ad una vita politica più complessa che nell’insieme ti legava più direttamente alle vicende sociali e politiche nazionali.

Imparammo a fare politica Ed è nella lotta politica che come me, in Italia, migliaia di lavoratori divengono attivisti e dirigenti e talvolta funzionari, mal pagati e sorvegliati a vista dalla polizia. Tutti abbiamo lavorato con costanza ed abnegazione, e in molti frequentato le poi tanto criticate scuole di partito a livello locale o nazionale, dove assieme ad una storia falsa del Partito comunista bolscevico e dell’Urss e ad una edulcorata del Pci, abbiamo imparato a fare politica, quella grande nazionale e internazionale ma soprattutto quella di tutti i giorni, una politica concreta


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delle nostre città e regioni (è durante il corso che frequento nel 1951 a Bologna che scriverò la mia tesina sulle lavoratrici del tabacco, tesina che per la sua concretezza sarà pubblicata dalla scuola in accordo con il sindacato nazionale delle tabacchine). Nel tempo, contadini ed operai che sapevano appena leggere diventeranno dirigenti del Partito e delle altre organizzazioni di massa, amministratori dotati di grinta e di buon senso, quello appunto cui li richiamava la lezione di Togliatti che potrebbe compendiarsi nel motto “veniamo da lontano ed andiamo lontano”. Una lotta di lunga lena tesa a ricomporre l’unità necessaria per vincere battaglie parziali e maturare tempi nuovi. Sono quelli gli anni della lotta per la difesa delle fabbriche e per l’occupazione, per la riforma agraria, per la libertà e la pace. In questo confronto serrato con le altre forze politiche e con una posizione sempre più critica verso i paesi socialisti matura quel grande processo dei quadri del Pci di adesione piena ai grandi principi di libertà e di democrazia, di difesa e di sostegno della Costituzione repubblicana. Tanta utopia e passione e tanta concretezza. Plaudiamo a Stalin ed all’Urss e nel 1950 alla vittoria di Mao in Cina, ma nel contempo tentiamo di dare vita ad una azione politica che superi i confini di una categoria e di un territorio, per divenire la lotta di una popolazione. È di quegli anni il piano del lavoro della Cgil, del 1951 il tentativo della Federazione perugina di dare organicità ad un programma di sviluppo economico e sociale e del 1952 uno studio che inquadra con acutezza i problemi della regione umbra alla luce della sua storia economica e politica, anche se sottovaluta le potenzialità del movimento popolare. È dalla segreteria della Camera del lavoro della provincia di Perugia che partecipo a quello sciopero a rovescio dei disoccupati di Gubbio (di cui parlo in uno scritto mai pubblicato prima), la cui Camera del lavoro era diretta da un altro castellano, Adolfo Bambini, eroe della guerra partigiana nel modenese, alla liberazione assunto come dirigente nella polizia e poi espulso, assieme a tanti altri partigiani, dal ministro degli interni Mario Scelba. Tra il 1948 ed il 1953 si hanno in Umbria grandi lotte di intere categorie e di vaste zone. Nelle città di Terni, Spoleto, Foligno, nelle zone delle miniere si reagisce alla smobilitazione delle industrie belliche e


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del settore minerario. In molte realtà ci si batte per l’occupazione. Grandi saranno gli scioperi di Terni e Spoleto, quelli a rovescio di Gubbio e di altre località, e molto intensa è la battaglia per le rivendicazioni dei mezzadri e per la riforma agraria. Anche merito di quegli studi del Pci sarà la individuazione di obbiettivi che molte volte riusciranno a mobilitare intere popolazioni, ceti diversi, città e campagne. Sono di questo periodo le conferenze di produzione in molte grandi aziende agrarie, dove alla semplice rivendicazione, in base a dati certi ricavabili dai libretti colonici dei contadini e dalla loro esperienza pratica, si definiscono le opere e le macchine necessarie per l’ammodernamento delle aziende e le possibilità di lavoro per braccianti ed operai. Come sono di questo periodo le iniziative tese a formulare zona per zona piani complessivi di rinascita. Anche da stralci di miei interventi e discorsi si può capire quanto era cambiata la predicazione socialista e quanti dati reali portassimo a sostegno delle nostre tesi. E le tante riunioni presso le zone dei minatori per difendere sino allo stremo, al Bastardo, a Spoleto, a Tavernelle le miniere; la relativa organizzazione di studi per lo sfruttamento a cielo aperto o con la gassificazione della lignite assieme alle lotte di piazza di minatori e delle loro donne, lotte appoggiate da tutte le categorie. È da sottolineare il fatto che proprio nella fase di una dura offensiva delle forze conservatrici e del clero, mentre si consumava la rottura dell’unità sindacale, l’Umbria iniziava a ritrovare i motivi di quella unità necessaria ad una sua riscossa.

Le nuove elezioni È in questa situazione che arrivano le elezioni amministrative del 1952 e le politiche del 1953. Ormai sono “funzionario” a tempo pieno mentre la causa che dovrebbe restituirmi l’incarico di dipendente comunale per ovvie ragioni politiche non si fa. Perciò mi dimetto da impiegato comunale e mi candido nella lista comunista alle elezioni amministrative di Città di Castello. Qualcosa è cambiato nel metodo elettorale: i partiti che si apparentano tra di loro e che raggiungono il


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51% dei voti avranno un premio di maggioranza, così ha voluto la Dc nella speranza di rifare il 1948. È una battaglia elettorale molto vivace quella che vivo a Città di Castello. C’è ancora l’intervento massiccio della Chiesa che a Città di Castello ha una forte Azione cattolica e che, come Curia, pubblica un periodico di taglio popolare diretto da un prete intelligente quanto conservatore, un prete che diverrà famoso come vescovo di Prato per il modo con cui perseguitò una coppia che viveva assieme senza il vincolo del matrimonio religioso. Tracce di questo dibattito si ritrovano in un mio discorso di quel periodo, così come vi si ritrovano gli appunti di un comizio che avendo per titolo “Don Giuseppe se fosse vera sarebbe troppo grossa” si riferiva alle forzature politiche che quel parroco, come tanti altri, si dice facesse nel confessare tante donne. I parroci mobilitarono l’intera Azione cattolica per impedire quella iniziativa e pressioni serie giunsero a me, che dal manifesto risultavo essere l’oratore ufficiale. A quel comizio, che malgrado le minacce più o meno velate tenemmo, venne tutta la città. Da giorni avevamo capito di stare giocandoci le elezioni. Attorno al palco mettemmo compagni fedeli e ben preparati a non cadere in alcuna provocazione. Ed all’inizio provocazione vi fu, ma il tono serio del comizio e l’attenzione della gente riuscirono a superare quel primo momento ed allora avemmo la certezza di avere agito nel giusto. Perché ho raccontato questo fatto? Perché da esso si capisce come la Chiesa in quel periodo avesse una funzione di grande peso negli avvenimenti politici e come in situazioni come quella di Città di Castello ben poco fosse lo spazio lasciato alla libera iniziativa di un partito che si affermava laico come la Democrazia cristiana. In Umbria il nuovo metodo elettorale non cambia niente, vincono ancora le sinistre e sono loro a godere del premio, cioè di più consiglieri rispetto alla proporzionale pura. Anche io sarò eletto e svolgerò il mio compito di consigliere comunale di Città di Castello per due legislature cioè sino al 1960. Il metodo dell’apparentamento sarà riproposto dalla Dc alle elezioni politiche del 1953. Contro quel sistema elettorale si batteranno le sinistre ed anche delle forze liberali. E queste forze liberali furono presenti anche a Perugia. Conservo ancora l’invito ad un convegno degli


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“indipendenti di sinistra” firmato dal professore Giuseppe Nucci. Ricordo benissimo la sala dei Notari strapiena ed il grande applauso che accolse al suo ingresso il senatore Francesco Alunni Pierucci, appena tornato da Roma dove, in Parlamento, era in corso la grande battaglia dell’opposizione contro quella legge e la mia emozione nel presentarlo (avevo già lasciato il Sindacato ed ero nella segreteria del Pci). Allora definimmo quella legge “legge truffa”. Dico allora, perché poi dopo la caduta del muro di Berlino e dei partiti della prima repubblica di fatto col maggioritario quel metodo in parte è stato introdotto nel sistema elettorale italiano. La Dc, che aveva puntato su di esso per riottenere una larga maggioranza, sarà battuta. Lo scontro frontale durato cinque anni voluto da tutte le forze conservatrici non ha avuto i risultati sperati, ora anche la Dc deve riflettere sulla sua politica, sui suoi limiti, sulla forza delle opposizioni.


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2. Il crollo di un mito 1953-1963

Il rapporto segreto Andarsene o restare? Passammo il Rubicone La mia svolta Dalla Sicilia a Dresda Riparte la battaglia per l’Umbria La terra La repressione continua La tela unitaria Le magliette a strisce La prima marcia “Ecco perché siamo forti” Le nostre risate


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Il rapporto segreto Voglio iniziare questo decennio da quel 1956! Che botta, compagni! Eppure l’anno era cominciato bene. Le elezioni amministrative avevano confermato la forza dei comunisti. Quei risultati ci avevano fatto superare i colpi che avevamo ricevuto nelle fabbriche e la perdita della maggioranza nella elezione della commissione interna della Fiat e, per quello che riguardava l’Umbria, la sconfitta della Cgil nelle elezioni della commissione interna della più grande fabbrica privata, la “Perugina”. Con grande interesse, nella primavera del ‘56, avevo seguito il XX congresso del Pcus. Kruscev, l’astro nascente, aveva affermato che la guerra ormai si poteva evitare, le atomiche rendevano urgente il disarmo e la coesistenza. Sul piano interno il XX aveva criticato il culto della personalità e affermato il valore della direzione collegiale, mentre delineava grandiosi progetti di sviluppo economico e sociale. All’improvviso la notizia dirompente: i giornali, nei primi giorni di giugno, pubblicano il rapporto che Kruscev aveva letto in seduta segreta ai delegati del XX congresso. Un rapporto che faceva a pezzi il mito di Stalin e lo dipingeva come un crudele e sanguinario dittatore che aveva oppresso popoli interi e che, dopo il congresso del Pcus del 1934, aveva deportato ed ucciso quasi l’intero Comitato centrale. No! Non era possibile! I giornali borghesi stavano montando una grande provocazione! “l’Unità” se la cavava con articoli reticenti del nostro corrispondente da Mosca, Boffa. Proprio in quei giorni mi capitò di accompagnare in auto a Gubbio il compagno Pietro Ingrao, allora direttore de “l’Unità”. Gli domandai perché, su quel famigerato rapporto, parlasse solo Boffa mentre tacevano tutti i massimi dirigenti del partito. Non mi ricordo le parole esatte della sua risposta ma il senso si. Eravamo prudenti perché ancora non sapevamo. E forse era vero che anche il direttore del nostro giornale, come noi tutti, non sapesse, ma... Togliatti e Scoccimarro, nostri delegati ad assistere al XX congresso del Pcus, sapevano tutto perché avevano letto già allora il rapporto segreto di Kruscev. Solo che avevano taciuto, nella speranza che quel rapporto davvero rimanesse segreto. Qualcuno invece,


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forse per impedire un ritorno indietro, l’aveva dato agli americani proprio perché avesse la massima diffusione. Forse lo stesso Kruscev, che sapeva quanto grandi fossero le resistenze dell’apparato sovietico al nuovo corso? L’interrogativo ancora oggi rimane. Il fatto è che, dopo molte esitazioni, la direzione del Pci affermò che quel rapporto era vero e che vere erano le accuse che esso rivolgeva a Stalin. Solo che, scriveva Togliatti, il problema non riguardava soltanto Stalin ma era il sistema stesso che doveva avere subito deformazioni profonde. In preparazione dell’VIII congresso del Pci, che si tenne nel dicembre del 1956, la discussione nel partito fu lunga e spesso aspra. Ognuno di noi ebbe voglia e tempo per discutere.

Andarsene o restare? Ancora una volta nella vita ero chiamato a scegliere e la cosa non era affatto semplice. La decisione più facile era andarsene. Smettere di fare il funzionario di partito, tornare alla vita normale fatta di casa e lavoro. Questa soluzione debbo dire francamente mi tentò, anche perché dall’interno del partito saliva una critica dura contro il grande peso che avevano i funzionari di ogni livello. Ho detto soluzione facile, ma giusta? Qui inizia il tormento. Si poteva stare con i compagni anziani che ritenevano che fosse Kruscev ad avere sbagliato tutto; oppure staccarsi definitivamente dall’Unione Sovietica e puntare a cambiare tutto il gruppo dirigente del nostro partito, da Togliatti in giù, come pensavano molti intellettuali. Io ragionai così: indubbiamente era grave che i nostri dirigenti ci avessero nascosto fatti tanto negativi avvenuti nell’Urss e nei paesi del cosiddetto socialismo reale, ma un po’ anche noi avevamo voluto, per spirito di corpo, chiudere gli occhi su fatti che erano persino troppo evidenti, ad iniziare dalle forche di Praga. C’era dunque una autocritica personale, anche per me, da fare, ma mi parve non si potesse gettare via tutta l’esperienza della rivoluzione russa, la vittoria sul nazismo costata all’Urss oltre 20 milioni di morti. C’era nel bacile


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l’acqua sporca, ma anche il bambino. Allora credetti che quel bambino potesse essere salvato e debbo dire che ci misi anch’io troppo tempo – sino al crollo del muro di Berlino – per capire che il sistema non era riformabile, che avevano ragione quegli intellettuali, come da noi Pio Baldelli, che già allora, nel 1956, ritenevano giusto per il Pci rompere con quel tipo di esperienza socialista. Ma poi, perché avrei dovuto abbandonare una esperienza come quella del Pci. Noi in Italia con le armi prima e poi con la nostra democratica partecipazione alla vita politica del paese avevamo le carte in regola. Noi in Italia eravamo una forza che aveva combattuto per ripristinare la libertà ed in quel periodo stavamo lavorando per far partecipare alla vita politica attiva di milioni di lavoratori, che sino ad allora le classi dirigenti del nostro Paese avevano condannato al silenzio. Perché avrei dovuto troncare, così ragionavo, una attività rivolta a migliorare il tenore di vita di tanti operai di tanti contadini che con le nostre battaglie avevano intravisto, e qualche volta già conquistato, un futuro migliore? Demagogia, qualcuno dirà. No, senso della realtà. In Umbria avevamo lottato, oltre che per la libertà, per nuove condizioni di vita della nostra gente, una gente umile e nel contempo orgogliosa e tenace, una gente che attraverso i sindacati ed i partiti democratici, quello comunista in prima fila, ora lottava per il proprio riscatto da un passato di sfruttamento e di estrema povertà. Io mi sentivo fiero delle mie scelte, della mia attività politica. Con questa convinzione superai d’un “balzo” anche la rivolta ungherese del 1956. Proprio nei giorni della soppressione della rivolta, mentre i carri armati russi sparavano, venne a Perugia il compagno Togliatti per parlare, nell’anniversario della rivoluzione russa, alla sala dei Notari. Avevamo preparato la manifestazione con grande cura. Invece folti gruppi di giovani fascisti ed anche di giovani appartenenti a partiti moderati, appoggiati dalla polizia di Scelba, misero in stato d’assedio la città. I compagni che arrivavano dalla provincia con gli autobus furono fermati alla periferia e soltanto in parte, alla spicciolata, sotto lo sguardo dei dimostranti e delle forze dell’ordine che volevano disperderli, poterono entrare nella Sala dei Notari. Lo stesso Togliatti raggiunse la Sala come un clandestino. La grande aula era piena e tra forti


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applausi Togliatti difese l’intervento sovietico in Ungheria. Un momento difficile per il Pci ancora troppo legato all’Unione sovietica.

Passammo il Rubicone In quel clima preparammo il IX congresso provinciale e la discussione divenne subito forte, e talvolta, molto aspra. Vinse, con larga maggioranza, la tesi della giustezza della lotta che in Italia aveva condotto il Pci e che per quella via occorreva, aggiornando profondamente le nostre idee, continuare. Per quello che riguardava i rapporti con l’Unione sovietica si trattava per il Pci di chiedere una svolta reale sul terreno della democrazia e delle libertà. Questa sarà poi la linea di fondo che adotterà l’VIII congresso nazionale del Pci del 1956 e che andrà sotto la parola d’ordine di “via italiana al socialismo”. Una via che poneva l’urgenza di profonde riforme di struttura e che riaffermava con forza la nostra battaglia per la libertà e la democrazia. Detta così sembra che ritrovare la unità del partito fosse cosa facile ed invece costò molti scontri, molta mediazione per evitare scissioni profonde e per portare la grande parte dei comunisti sulle nuove posizioni. A Perugia fu merito del segretario Gino Galli se quasi tutto il partito passò il Rubicone. Soltanto una piccola pattuglia uscì5. Gino Galli, in quella battaglia politica di primaria importanza, seppe mobilitare un grande numero di iscritti al Pci che allora stavano emergendo come nuovi dirigenti. Dopo il 1954, con l’avvento di Amendola alla direzione della commissione nazionale di organizzazione, era iniziato un profondo rinnovamento nella utilizzazione dei dirigenti del Partito. Una nuova generazione veniva avanti a sostituire quella formatasi nella clandestinità degli anni tra il 1920 e il 1940. A Perugia ed in Umbria i cambiamenti furono notevoli ed interessarono oltre che i segretari provinciali e regionali6, larghi gruppi dirigenti. Arrivò allora a conclusione la presenza di un gruppo di giovani studenti ed intellettuali che i vecchi compagni, subito dopo la liberazione, avevano portato alla Direzione del Partito a Perugia e che per motivi di dissenso politico erano stati trasferiti ad altre federazioni o


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che per motivi personali avevano cessato la loro vita di funzionari7, donne e uomini capaci, che un partito più aperto al dibattito democratico avrebbe potuto conservare. Il IX congresso provinciale segnò il passaggio definitivo della direzione politica dai compagni della clandestinità8 alle nuove generazioni9. Questo passaggio fu possibile malgrado le perdite di cui abbiamo parlato perché una parte di quel giovane gruppo dirigente degli anni ‘4010 era rimasto ed assieme a loro era cresciuta una nuova generazione che poi guiderà il Pci perugino nei successivi venti anni. Una generazione che era stata pronta ad affrontare la sconfitta del 1948 e la dura repressione che ne era seguita, una generazione decisa a spingere avanti con grande apertura la lotta per la emancipazione delle classi subalterne. Non sta a me raccontare la vicenda ternana, ma lì il ricambio fu ancora più vasto perché oltre il segretario della Federazione, che era anche segretario regionale, si trattò di sostituire una direzione formata in larga parte da dirigenti che provenivano da altre regioni con un quadro locale anziano e nuovo che in qualche modo era stato umiliato. Anche a Perugia in quei primi anni ‘50 avemmo la immissione di giovani quadri esterni11 ma furono pochi e pesarono pochissimo sulle vicende del Pci perugino.

La mia svolta Fui anch’io parte di quel nuovo gruppo dirigente della Federazione perugina e continuai con più decisione sulla strada che alcuni anni prima avevo intrapreso, aggiornando però la mia visione circa il mio ruolo nel partito e nella vita. La situazione del paese stava mutando profondamente. Era il momento dello “schema” Vanoni e del miracolo economico. Sulle tavole degli operai per la prima volta entrava la “fettina” e molti potevano andare al lavoro con un ciclomotore e poi con la Vespa. La Dc stava cambiando dopo il congresso di Napoli del 1954. Finiva l’era di De Gasperi, iniziava l’era di Fanfani, di Moro e dei “professorini”. La linea che si affermava si proponeva di far uscire la Dc da una certa chiusura conservatrice e moralista, di aprire al Psi, di insediare la Dc come forza di potere che vuole avere con sé, oltre la Confindustria, i grandi


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committenti di una industria di stato che sta divenendo sempre più forte (arriverà nel 1975 a controllare il 50% della produzione nazionale), la “razza padrona”, come sarà chiamata. Ecco perché non mi sentivo più un “rivoluzionario di professione” che come un frate ha fatto un voto perenne, ma un uomo libero che per quella fase decideva di continuare a fare, in una società dai rapidi mutamenti e di forte sviluppo della economia nazionale, il “funzionario” di partito. Un uomo più attento anche alla storia ed alla bellezza di una terra come l’Umbria. Andare per la strada della collina che va a Marsciano in un meriggio di primavera era come ascoltare Vivaldi e vedere lo sfondo delle pitture del Perugino: le colline, i cipressi, la campagna in fiore, le tante tonalità di tenero verde. E poi le piazze mozzafiato di Perugia, Gubbio, Bevagna, Todi! La prima volta che salii sul trenino che da Spoleto andava a Norcia, quella grande opera di ingegneria che una politica più assurda che miope ha poi distrutto, rimasi sorpreso ed affascinato. La vita di partito inoltre ti poneva di fronte a problemi sempre nuovi. I mesi faticosi e piacevoli della scuola di partito a Bologna, le campagne elettorali a Tortona, patria di un Fausto Coppi allora all’apice dei suoi successi, e poi a Castelleone la zona delle leghe bianche di Guido Miglioli. Tagliai i miei baffoni staliniani che portavo dai giorni della macchia e dissi alla mia fidanzata che potevamo sposarci, mettere su famiglia, avere dei figli da crescere sperando in un periodo di progresso e di pace. Insomma erano tanti i segnali di una svolta profonda del mio modo di essere e di vedere il futuro. Nel gennaio del 1957 sposai Silvana, una operaia dell’Angora Spagnoli. Una cerimonia bella e semplice nella sontuosa “sala rossa” del Comune di Perugia, “officiante” il vicesindaco della città Francesco Innamorati. Cara Silvana, consentimi di dire oggi che sposarti è stata la cosa più bella che ho fatto nella mia lunga esistenza. Lasciamo le emozioni e torniamo al dunque. Dopo la cerimonia, un rinfresco offertoci dalla federazione del Pci presso il circolo dei Vigili urbani e poi partenza per il viaggio di nozze. Allora niente pranzi di centinaia di persone come si usa oggi, solo un addio al celibato ed al nubilato qualche giorno prima delle


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nozze, con cenette da consumarsi in casa con gli amici più intimi. L’arredamento dell’appartamento che avevamo preso in affitto (ci costava ogni mese mezzo stipendio) così come gli abiti per le nozze, li comprammo “a debito”. Del resto era quello un tempo in cui tanti lavoratori facevano la spesa di ogni giorno non pagando subito e tanto meno facevano spese rilevanti per abiti e arredi pagando immediatamente. Allora, presso i negozi di generi alimentari si “segnava” e le spese maggiori si facevano con cambialine a scadenza mensile.

Dalla Sicilia a Dresda Gli stipendi dell’ultimo mese Silvana ed io li consumammo – ecco gli sprechi! – in un bel viaggio di nozze. Diciamo che volemmo approfittare del biglietto di prima classe donatoci dal Pci. Infatti allora i nostri parlamentari, assieme ad una parte cospicua del loro onorario, versavano al partito anche dei biglietti delle ferrovie statali cui avevano diritto i loro familiari. Io e Silvana decidemmo di raggiungere la Sicilia, una terra di cui avevamo tanto sentito parlare ma che non avevamo visto. Mezzo secolo fa non c’era il turismo di oggi e potemmo visitare, quasi in solitudine, i musei vaticani, Pompei, i monumenti di Taormina e di Siracusa. Tanta gente invece la trovammo ad Agrigento, dove nella Valle dei templi potemmo ammirare magnifici balletti di gruppi folcloristici di tutto il mondo perché, senza saperlo, eravamo capitati nella grande “Festa dei mandorli in fiore”. La Sicilia, i suoi antichi templi, i grandi olivi, gli alberi fioriti, il mare azzurro, lasciano una sensazione profonda che ti rimane dentro per tutta la vita. Dopo quasi 50 anni Silvana ed io siamo tornati a vedere quelle terre. Bellissime, meglio coltivate di allora, ancora grandioso lo spettacolo della Valle dei templi: anche se bisognerebbe alzare una grande tela che impedisca di vedere, da quella valle, il disastro urbanistico di Agrigento. Anno 1957. Mi è rimasto nella memoria, oltre che per il matrimonio, per un altro evento che mi pare giusto raccontare. Nell’estate feci la mia prima visita in uno dei paesi del socialismo reale: la Germania


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dell’est. Avrei potuto visitare quei paesi già qualche anno prima, se mi fosse stato rilasciato il passaporto. Il perché mi veniva negato era semplice. Nell’estate del 1947 avevo partecipato al “Festival della gioventù” che si teneva nella magnifica città di Praga. Praga ci aveva accolto con grande entusiasmo; ancora il suo presidente Benes non era stato “defenestrato” e non erano state alzate le forche. Quando feci domanda per il passaporto per la Cecoslovacchia erano al governo in Italia anche le sinistre, ma quando tornai da Praga le sinistre erano già state cacciate dal governo. La guerra fredda era iniziata. Per dieci anni non ottenni più il passaporto perché reo di quella gita a Praga. Ora, nel 1957, la situazione politica era un po’ cambiata ed io potei godermi 15 giorni di riposo in una bella villa circondata dai magnifici boschi della Turingia. In quella occasione con altri ospiti visitai le città di Iena, Weimar, Dresda. Dopo Weimar andammo al campo di concentramento di Buchenwald. Otto chilometri per una strada tra dolci colline e ordinate casette; poi all’improvviso la grande sabbiosa distesa del campo di concentramento, i forni crematori, migliaia di scarpine di bambini. Mi accorsi, allora, di stare rifiutando quella realtà, una violenza ed una crudeltà troppo grandi, una tragedia senza limiti. Ti resta per sempre un dolore nell’anima. Visitai Dresda, una città divisa in due dal fiume e dal disastro. Nella parte ferita, ma ancora in piedi, vedemmo la celebre Galleria, ammirammo quadri di artisti italiani, la bellissima Venere del Giorgione. Affacciandoci ad una terrazza, guardammo l’altra metà della città, oltre il fiume. Un mare sterminato di macerie era quello che restava delle case e delle decine di migliaia dei suoi abitanti dopo le ondate delle fortezze volanti americane, a pochi giorni dalla conquista alleata della città. Un ricordo pungente, questo, che fa capire meglio il grande valore dell’unità europea, la marcia difficile ma necessaria della sua unità politica.

Riparte la battaglia per l’Umbria Dopo l’VIII congresso nazionale riparte con più decisione la battaglia del Pci per lo sviluppo dell’Umbria. Prende nuova forza la lotta per


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l’Ente regione, per la rinascita economica e culturale e si fa un grande sforzo di ricerca per conoscere i cambiamenti in atto nella struttura economica e sociale. Già nel 1949 mi ero interessato, in qualità di dirigente sindacale, dei problemi operai seguendo da vicino, come ho già scritto, alcune fabbriche e taluni sindacati di categoria. Molte cose intanto erano cambiate. Nelle campagne diveniva imponente l’esodo dei mezzadri. Io ero convinto che quella fuga fosse inarrestabile e talvolta scherzando, ma non troppo, dicevo all’amico e compagno Alberto Goracci che loro, dirigenti dei mezzadri, come i comandanti di una nave che affonda, sarebbero eroicamente colati a picco con la categoria.

La terra Negli anni ’60 poi il movimento sindacale e politico non seppe cogliere la grande occasione dei mutui governativi per l’acquisto della terra da parte dei mezzadri12. Da qui muoveva il mio nuovo interesse per quello che in Umbria stava succedendo nell’industria e nella vita delle città. Ho ritrovato una relazione che nel 1957 feci alla Conferenza provinciale degli operai comunisti. Era il risultato di un lavoro che avevamo avviato tra gli operai e che ci portò a conoscere le difficoltà di molte vecchie aziende ma anche prospettive nuove di lavoro per chi usciva dal mondo contadino. In diverse fabbriche stava crescendo l’occupazione, molti giovani stavano entrando nel mondo del lavoro, un mondo fatto di qualche industria medio grande e di tante industrie piccole, un mondo che faceva leva sul bisogno di tanti lavoratori per creare regimi duri nelle fabbriche e spesso per pagare, in particolare nell’edilizia, salari inferiori alle medie contrattuali. Una relazione autocritica, come era nello stile, ma aperta a grandi e persino spericolate possibilità di successo. Comunque un lavoro che apriva a tanti attivisti, che vivevano una vita difficile nelle fabbriche una visione di vasto respiro e che aveva al centro i temi delle grandi riforme di struttura, del regionalismo, della rivendicazione in Umbria di alcune infrastrutture che ritenevamo essenziali, come l’Autostrada del sole, un ob-


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biettivo, questo, che allora ad Amendola sembrò trascurabile ma che ci avvicinava ai ceti medi produttivi. Come mi ricorda uno dei miei pochi taccuini e quaderni di appunti di tanti anni di attività, nel dicembre del 1957 fui destinato di nuovo dal partito alla Camera del lavoro provinciale. Sicuramente fui inviato per il lavoro svolto come partito verso la classe operaia, ma… allora girava una boutade: appena ti assentavi dalla segreteria del Pci andavi a finire in qualche zona difficile dell’attività. Con i dirigenti della Camera del lavoro cercai di dare più sostanza ai sindacati di categoria. Alcuni come i ferrovieri, i tipografi13, gli elettrici, avevano una capacità autonoma, altri avevano bisogno di essere sostenuti nella loro attività come gli alimentaristi, gli edili e fornaciai, le tabacchine, i tessili, gli autoferrotramvieri14. I mezzadri che erano il più grande sindacato avevano le loro leghe in tutta la provincia ed erano dirette da un loro apparato centrale. Importanti per l’attività che svolsero e per i sacrifici che sopportarono furono i funzionari segretari delle locali Camere del lavoro o capilega15. Di quel periodo, un momento particolarmente interessante fu una nuova fase contrattuale alla “Perugina”. Nella fabbrica era arrivato un gruppo di tecnici di elevato livello che dovevano riorganizzare il lavoro. L’ingegnere Grassi, rappresentante la direzione dell’azienda, discusse con noi circa la introduzione di un nuovo metodo di cottimo: il “bedaux corretto”. Nella contrattazione fummo aiutati dall’ingegnere Di Gioia, che allora dirigeva l’ufficio studi della Cgil nazionale (Dopo la sconfitta alla Fiat, attraverso un processo autocritico, la Cgil ora era alla avanguardia nella contrattazione in fabbrica dei nuovi metodi incentivanti). Partecipai a quella trattativa assieme a Elio Caprini ed a Mario Potenza, socialista intelligente ed estroso che, dopo la elezione di Alfio Caponi al Parlamento, era arrivato da Roma a coordinare la segreteria della Camera provinciale del lavoro. Fu quello un momento che ci mise al passo con l’attività che si svolgeva nelle più moderne fabbriche italiane e che ci permise di tornare ad essere maggioranza nelle elezioni della commissione interna alla “Perugina”. Nei primi anni ‘50 i nostri attivisti in quella fabbrica erano stati messi in condizione di non poter operare e Marcella


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Cesarini, una signora che godeva di grande prestigio e che era segretaria della commissione interna, era stata mandata a pulire i gabinetti. Le altre operaie non ebbero la forza di protestare per questo evidente sopruso, ma il giorno del suo onomastico le fecero trovare il tavolo di lavoro pieno di fiori.

La repressione continua Per capire quel clima ecco alcuni fatti. Durante uno sciopero della categoria con alcuni compagni stazionavo davanti ai cancelli della “Perugina” a Fontivegge, in verità con scarso successo, quando venne la polizia e ci fece allontanare. Io tornai davanti ai cancelli sostenendo che quello era un pubblico marciapiede. La polizia mi sollevò di peso e, malgrado le mie proteste, mi caricò sulla camionetta che partì a sirene spiegate verso il centro della città dove mi lasciò libero; l’orario d’ingresso degli operai alla Perugina ormai era passato. In quegli anni così andavano le cose non soltanto alla “Perugina” ma anche in altri settori, come alla “Angora Spagnoli”, nelle autolinee, nei cantieri edili e nelle fornaci, da “Nardi” a Selci Lama e da “Franchi” a Bastia Umbra, allo “Spolettificio” di Spoleto, nei tabacchifici, ecc. A questo si aggiungevano i molti incidenti sul lavoro talvolta anche mortali in particolare nell’edilizia. Il 22 marzo del 1955 ventitré minatori rimasero uccisi e molti altri feriti per lo scoppio del grisou nelle miniere di Morgnano di Spoleto. Fu il lutto di una città. Partecipai a quei funerali: un grande corteo funebre e un silenzio assoluto che come un macigno avrebbe dovuto schiacciare i responsabili di quel disastro! E intanto continuavano le denuncie contro chi sosteneva le lotte dei lavoratori. Ricordo che nel 1954 fu arrestato a Gubbio, assieme ad alcuni mezzadri, Bruno Nicchi, dirigente comunista impegnato nelle lotte mezzadrili; nel 1956 fu fermato durante un comizio Gino Galli. Anche a me, durante la manifestazione del primo maggio a Spoleto, fu intimato dal maresciallo dei carabinieri di non parlare di politica. Avevo da poco iniziato quando mi sentii tirare per la giacca.


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Compresi che era il maresciallo ma continuai tra gli applausi dei tanti lavoratori che affollavano la piazza. A proposito di comizi e della nostra propaganda alcune considerazioni generali e qualche specifico riferimento alla mia attività. Riguardando le mie carte degli anni ‘50 e primi anni ‘60, mi sono accorto che soprattutto trattasi di appunti di comizi e di relazioni. Solo in qualche caso di articoli scritti su giornali. Noi funzionari ed attivisti facevamo infatti prevalentemente riunioni e comizi. Quante riunioni in piccoli e freddi locali pianoterra, pieni di fumo, e quante discussioni intorno ai problemi della linea generale e alle questioni umbre e locali! Va tenuto in conto che allora a leggere i giornali erano pochissime persone e questo sia per mancanza di tempo che per difficoltà oggettive; molti compagni avevano fatto appena le elementari e poi avevano conosciuto più vanghe e badili che giornali e libri; nelle riunioni il valore della introduzione, del dibattito che ne seguiva e poi delle conclusioni era grande e determinava la linea da seguire e le iniziative concrete da prendere. I comizi nelle piazze dei tanti centri, piccoli e grandi, erano il modo di far sentire alla gente la presenza, le idee e la forza del partito, con i compagni che attorniavano l’oratore con grande partecipazione. Perciò i comizi erano preparati con cura, con attenzione sia ai grandi temi che a quelli particolari, con sempre qualche pizzico di demagogia per dare nei momenti difficili, ed erano tanti, nuovo slancio ai compagni. Lodovico Maschiella, ottimo oratore, soleva dire che senza la predica domenicale per lui non era festa. Un altro mezzo di diffusione delle idee e di battaglia diuturna erano i manifesti ed i volantini. Essi per noi che non avevamo né radio, né (dopo il 1954) la televisione furono strumenti essenziali per portare avanti le battaglie politiche e sindacali. Quanti ne ho scritti, da solo o in collaborazione con qualche altro compagno! Va da sè che se tante idee e tanta passione tradotte in fatti attraverso lotte ed iniziative hanno lasciato un forte segno, tutta la fase della preparazione appare cancellata e invece meriterebbe una attenta ricerca.


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La tela unitaria Come mi ricorda il quaderno d’appunti, dal 1957 al 1960 sono nella segreteria della Camera provinciale del lavoro. È un periodo di nuovo interessante e proficuo. Si fanno passi avanti nella contrattazione nazionale ed aziendale, si conquistano alcune importanti leggi16. Anche in Umbria si ha una ripresa delle lotte. Non consideravamo più la Cisl e la Uil come “scissionisti” bensì come sindacati con i quali dovevamo trovare, e trovammo, dei punti di intesa per mandare avanti le lotte dei lavoratori. Ed i sindacati furono parte decisiva di quel grande scatto dell’Umbria che fu lo sciopero generale del 21 ottobre 1959 e che in molte località divenne sciopero di intere popolazioni e da cui maturò quella discussione del 17 febbraio 1960 sull’Umbria in Parlamento, dibattito sostenuto da tutti i parlamentari umbri a sottolineare la forza del movimento popolare della regione e la unità che, in tempi di profonde divisioni politiche, era in grado di determinare a livello politico oltre che sindacale. Era questo il risultato di un lavoro che la Cgil ed il Pci andavano facendo per rinsaldare l’unità delle sinistre ormai non sempre facile per il distacco lento del Psi dal Pci. Noi comunisti seguivamo inoltre con attenzione quello che succedeva nel campo cattolico ed in particolare nella Dc, perché se i dirigenti umbri approvavano la linea del Vaticano e della Dc nazionale, per altro verso vivevano le difficoltà dell’Umbria e le sofferenze dei lavoratori17. Del resto al 1958 risale l’inizio della collaborazione tra tutte le forze democratiche per dare all’Umbria un piano di sviluppo della regione18. Certamente non tutti approvavano questa linea unitaria: nella Dc v’era l’opposizione dei vari Spitella; nel Psi invece verranno alla luce propositi diversi con il piano Pieraccini (1964); tra i comunisti vi furono isolate voci discordi che riguardavano soprattutto la possibilità o meno di avere un piano per una sola regione in assenza di punti di riferimento nazionali. Il piano fu sottoposto alla attenzione delle forze politiche e sociali nel 1963. Affrontava tutti i più gravi problemi della regione ed indicava possibili soluzioni. Molti fecero osservazioni e nuove proposte. Un fascicoletto dell’ottobre del ‘63 riporta le osservazioni e proposte dei comunisti al piano19. Al X congresso nazionale


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del Pci (dicembre 1972), il compagno Maschiella nel suo intervento parlò della validità del piano regionale e Togliatti, nelle sue conclusioni, giudicò positivamente e come esempio di una buona iniziativa politica il piano umbro. Questa tela unitaria non deve far credere che in Umbria lo scontro politico fosse minore che altrove. Basti pensare alle posizioni del governo nazionale nei confronti delle lotte contadine, alle assurde tesi sul cosiddetto “Plusvalore” sul bestiame che colpiva duramente i contadini e che solo dopo una lunga battaglia vide affermarsi la tesi che dava al bestiame stime basate sui prezzi del momento. Della repressione abbiamo già detto. Un caso sicuramente a sé, ma tuttavia indicativo di un periodo, fu la vicenda nel 1957 delle dimissioni del sindaco di Città di Castello Alunni Pierucci Francesco. Vissi allora come consigliere comunale di quel comune lo strano andamento della crisi che ne derivò. Per le dimissioni di un consigliere di sinistra i votanti a favore del nuovo sindaco si ritrovarono in 20 su 40 consiglieri ed a questo punto la minoranza non si presentò per settimane in consiglio comunale mirando così, per l’assenza del 21° consigliere, ad impedire la elezione del nuovo sindaco e quindi prefigurando il commissariamento della amministrazione. Non valse il costante richiamo alla necessità di eleggere un sindaco piuttosto che dare il comune ad un burocrate inviato dal prefetto. La discussione e l’intera vicenda furono davvero molto complicate, e solo all’ultimo momento amici nostri e suoi riuscirono a convincere il consigliere del Pli, partito cui stavano a cuore le libere istituzioni, a partecipare alla seduta. Fummo allora 21 e potemmo eleggere il nuovo sindaco nella persona di Gustavo Corba, comunista. Fu un ottimo sindaco, dette alla città un piano regolatore predisposto da tecnici di valore nazionale20 con una larga partecipazione popolare, ed avviò quel processo di trasferimento di molte piccole imprese artigiane nell’area destinata a zona industriale, iniziativa che permise il decisivo sviluppo della industria nell’alta valle del Tevere. In quel periodo molte furono le amministrazioni comunali umbre che si diedero piani regolatori puntando con grande forza alla salvaguardia dei centri storici e del circostante ambiente rurale. Cosa dire


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di quella esperienza oggi a quasi mezzo secolo di distanza? Abbiamo salvato i centri storici: è stata una operazione che in questo momento di grande crescita di un turismo culturale ha un valore anche maggiore. Non altrettanto possiamo dire dei nuovi insediamenti sorti, spesso per la spinta delle grandi masse emigrate dalle campagne, senza piani regolatori particolareggiati. Ed anche per i centri storici a me pare che oggi si ponga un grande interrogativo: come impedire che divengano delle scatole belle ma vuote, al massimo, come a Perugia, riempite da studenti albergati in casupole sempre più malandate o ridotti a schiere di seconde case in tanti bellissimi centri minori in cui andare a passare la domenica o le ferie?

Le magliette a strisce Ecco un altro anno decisivo per lo sviluppo della democrazia italiana, il 1960. Sembrava che non si muovesse una foglia, tant’è che la Dc dava al governo una soluzione di destra ed il Msi decideva di celebrare un suo congresso in una città partigiana, Genova. I giornali filogovernativi scrivevano della disaffezione dei giovani dalla politica. E di questa disaffezione trovai a parlare Vinci Grossi e Pio Baldelli. Era ancora inverno e stavano a discutere attorno al fuoco nella casa di Grossi, a San Sisto, quando arrivai ed anche io presi parte alla discussione. Su quella serie di articoli che Baldelli ci sottoponeva, io dissi con grande energia che non ero d’accordo. Parlai della ripresa delle lotte sindacali e delle conquiste di quegli anni, del buon esito delle elezioni politiche del 1958, della nostra lotta umbra. Insomma ero convinto, sulla base della mia esperienza, che ci fosse una ripresa di slancio tra la gioventù. Vennero le giornate di luglio contro il Msi e contro il governo di Tambroni a dimostrarlo. La rivolta dei giovani dalle “magliette a strisce” fu imponente e malgrado la dura repressione governativa (ci furono morti a Palermo ed a Reggio Emilia), la proibizione di ogni manifestazione all’aperto, quel movimento fece cadere Tambroni. A Perugia, come sindacato, indicemmo uno sciopero ed una manifesta-


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zione alla sala dei Notari. Fu davanti alla federazione del Pci, mentre andavo alla manifestazione, che mi fermò il commissario della squadra politica della questura per dirmi che nella sala l’assemblea poteva tenersi ma non doveva dar luogo a nessuno corteo. Con molta fermezza risposi che il corteo per portare dei fiori in S. Pietro alla lapide dei partigiani lo avremmo fatto comunque. Discutemmo ed il commissario accettò la mia proposta di un corteo silenzioso. Tutto si svolse nel massimo ordine. Tirai, anzi il commissario ed io tirammo, un sospiro di sollievo. Dopo molti anni il commissario Ummarino tornò a Perugia come questore. Ci incontrammo in Corso Vannucci e così, di istinto, ci sorridemmo e ci abbracciammo, come si faceva una volta tra vecchi galantuomini. Il governo Tambroni con la sua sconfitta era la dimostrazione delle difficoltà che trovava la Dc a dare un assetto stabile al governo del paese. Dal 1953 ben 15 saranno i governi che si succederanno sino in ultimo al varo nel 1963 di un governo con i socialisti (centrosinistra). Risultato delle lotte di quegli anni fu, a Perugia, l’ingresso nella Federazione giovanile comunista di un folto gruppo di studenti e giovani operai di cui si tornerà a parlare alla fine degli anni ‘60. Passate le brevi ferie del 1960 uscii dal sindacato per dirigere il Comitato comunale di Perugia del Pci. Allora l’andirivieni tra sindacato e partito era nella natura delle cose e non è che questo non piacesse al mio spirito irrequieto e sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Ed a proposito delle ferie non sia dia per scontato che fossero un diritto. Una estate degli anni ‘50 la direzione del Pci scrisse “il partito non va in ferie”. Anch’io quell’anno rinunciai alle ferie e quindi ad alcuni giorni in barca nell’Adriatico. Delle novità fece parte il salto che la federazione del Pci fece nell’uso dei mezzi di locomozione. Infatti passò la decisione di dotare i funzionari che giravano di continuo per tutta la provincia di mezzi di locomozione propri. La Federazione da un lato risparmiava nell’uso dei suoi mezzi e dell’autista fisso e impegnava all’incirca quella cifra per rimborsare i compagni della rata mensile dell’acquisto del mezzo proprio, naturalmente la benzina consumata restava a carico della Federazione. Concretamente la macchina mi costava un po’ più di


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quello che il partito mi dava per pagare le rate, ma in compenso potevo muovermi con molta più libertà, potevo partire per tempo e visitare una città o opere d’arte sparse in tante chiese e musei umbri, potevo, la domenica andare a tenere il comizio portandomi la famiglia, cioè Silvana e, ancora piccoli, i figli Massimo e Mauro, e dopo andare per un pic-nic sui prati della Valsorda come sulle rive del Trasimeno: una conquista o un adeguarsi alle mode più recenti possibili per la diffusione delle piccole Fiat? Lasciammo agli esperti in relazioni umane la sentenza e facemmo diverse le nostre domeniche solatie. Diressi nel comune di Perugia la campagna delle elezioni amministrative del novembre 1960. Suo punto di maggior vivacità fu il dibattito che si ebbe alla sala dei Notari con la Dc. Lavorai alla sua preparazione. La sala era gremita, la disciplina fu assoluta e sicuramente i nostri oratori vinsero per “due a zero”21. Le elezioni confermarono le sinistre alla guida di Perugia, di Terni e di tanti altri comuni.

La prima marcia Non si pensi però che in quel periodo si parlasse soltanto di cose di casa nostra. Nuovi problemi sorgevano sul piano internazionale. Il Pcus si riavvicinava a Tito, però rompeva con la piccola Albania e con la grande Cina, trascinando anche noi, nostro malgrado, come dimostrò la polemica del Partito comunista cinese contro Togliatti, nelle profonde divisioni del movimento comunista internazionale. Con Kruscev, Kennedy e Giovanni XXIII si aprivano spiragli di pace, ma la crisi di Cuba del 1963 portava il mondo sulla soglia della guerra atomica. Nel piccolo Vietnam infuriava la battaglia per la sua indipendenza. Era tempo di lotte per affermare la pace ed in Umbria fummo alla avanguardia per la originalità delle iniziative. È del 1961 la prima marcia della pace Perugia- Assisi indetta da Aldo Capitini. Una grande idea che, oltre alla presenza di elités pacifiste, aveva bisogno nei suoi 27 chilometri di percorso di una grande massa di persone affinché potesse avere una eco nel mondo. E noi comunisti capimmo, allora, che potevamo marciare con quell’uomo che aveva come bandiera la


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“non violenza”, anzi che dovevamo essere massicciamente al suo fianco per assicurare la riuscita di quella iniziativa; lo stesso Togliatti inviò una lettera di piena adesione a Capitini. Sono passati tanti anni ma ogni volta che riparte la marcia Perugia-Assisi mi coglie una profonda commozione ed un certo orgoglio: sono stato anch’io uno degli organizzatori sconosciuti della prima marcia. Oggi, con altri “vecchi” vado alla marcia con l’insegna gloriosa dell’Anpi provinciale. Con gioia vedo aumentare il numero e l’ampiezza delle adesioni e la presenza di tanti giovani rinnova in me, al di là delle nuvole di guerra, forti speranze di pace e di pacifico progresso. Diciamo anche che oggi l’insegnamento di Aldo Capitini, intellettuale perugino di grande valore e di forte personalità, seguace di Gandhi, un segno profondo lo sta lasciando non soltanto tra tanti giovani ma anche nella sinistra tutta per quello che si riferisce alla scelta della “non violenza” per far progredire la pace e la civiltà. Più inascoltata o meglio trascurata oggi mi pare quella parte che dopo la liberazione si espresse con i dibattiti del Cos (Centro di orientamento sociale) e poi attraverso il giornale “Il potere è di tutti”: richiamo fermo al valore insostituibile della partecipazione delle masse popolari alle decisioni, cioè al potere.

“Ecco perché siamo forti” Alla fine del 1962 si tenne il congresso provinciale del Pci e Gino Galli passò alla direzione del comitato regionale mentre Pietro Conti divenne segretario della Federazione. Dopo il congresso, fui chiamato a dirigere la commissione di propaganda, o come diremmo oggi, di informazione, in vista delle elezioni politiche che poi si terranno nel 1963. Eravamo all’avanguardia nell’uso dei mezzi di propaganda e, tra l’altro, demmo vita a sette numeri di un settimanale che, essendo di un solo foglio, trattava un argomento per volta. La novità fu che esso venne inviato a tutte le famiglie della nostra provincia. In quella fatica fui affiancato da un compagno di grandi capacità: Vinci Grossi, che poi sarà consigliere regionale, presidente della Provincia, senatore; grande amico dotato di una fortissima personalità. La campagna


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elettorale del 1963 resta nella mia memoria oltre che per lo splendido risultato umbro (salimmo dal 30% dei voti al 39%), per due fatti. Uno doloroso: Pietro Conti nel corso della campagna elettorale fu colpito da un infarto e dovette essere ricoverato in ospedale. L’altro fu il comizio di Togliatti a Perugia in una piazza di gente festosa. Comizio alto, ispirato alle bellezze di quella piazza, comizio di un capo che aveva saputo far superare al partito il durissimo 1956 e che ora godeva della stima del partito e di tanti italiani. Quella fu una accoglienza ben diversa da quella del 1956! La sera pranzammo al ristorante “La Rosetta”. C’era parte del gruppo dirigente22. Togliatti parlò poco, si divertì a sentirci discutere, eravamo un bel gruppo vivace, sciolto, che discuteva apertamente di tutto e Togliatti così concluse: “ecco perché siamo forti, siamo forti in provincia”. Non poteva farci un complimento migliore. Ma c’è di più: iniziava a capire l’Umbria e perché, pur così poco organizzati rispetto all’Emilia ed alla Toscana, prendessimo tanti voti. Tornò due volte: la prima in occasione della conferenza delle regioni rosse (1963); la seconda l’anno dopo per trascorrere qualche giornata a Norcia, tra quei compagni. Purtroppo in quell’estate la sua vita finì. Aveva vissuto momenti difficili, aveva saputo costruire un grande partito di massa per un paese democratico e rinnovato. Fui tra quelle centinaia di migliaia di persone che accorsero al suo funerale da tutta Italia.

Le nostre risate A proposito delle elezioni la nostra Federazione aveva sempre il miglior sistema per la conta dei voti a mano a mano che ci venivano comunicati dai nostri rappresentanti di seggio e dai risultati di alcuni di quei seggi sapevamo già leggere, con una buona approssimazione, l’andamento delle votazioni. Ad una certa ora il segretario del Psdi Cencetti chiamò Gino Galli per avere i “dati” elettorali e Galli rispose: “più che i dati abbiamo i presi” riferendosi alla nostra forte avanzata. Approfitto di questa battuta per sottolineare come sempre, ma soprattutto con un naturale umorista come Galli, sapevamo ride-


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re delle disgrazie degli altri ed anche sulle nostre e che le campagne elettorali, se erano motivo di tensione, erano per la nostra federazione anche motivo di sfottò e di allegria, e la campagna elettorale del 1963 lo fu in modo particolare se un volantino umoristico, frutto della fantasia di Galli, fu riportato da giornali stranieri per dimostrare la capacità del Pci nel fare propaganda. Ed anche io mi dilettavo a fare qualche vignetta e qualche battuta che alleggerisse il tono serioso dell’attività elettorale e che servisse, più delle cose serie, a mettere in evidenza i limiti dell’avversario. Ho ritrovato tra le mie carte gli appunti di una mia presentazione del candidato a sindaco di Città di Castello di Francesco Pierucci del 1956. Il candidato Dc aveva attaccato duramente Pierucci per l’operato della amministrazione comunale. Io iniziai così il mio dire: “Caro Francesco pensi davvero di rispondere al loro capolista? Non lo fare, non merita. Pillitu ogni quattro anni indossa la corazza, si arma della durlindana, scende in campo, mena gran colpi a vuoto, capitombola giù dal palco, incapace di mantenere un equilibrio. Perde, ripone corazza e spada in attesa di nuove elezioni”. Queste frasi tradotte in vignetta e strofe divennero un motivo centrale della campagna elettorale23. Potrei citare altri casi. Negli anni ‘60, quando i candidati Dc e di altri partiti cominciarono ad usare i “santini” personali (sul davanti la foto del candidato e sul retro la breve descrizione della sua storia e delle sue virtù), spesso utilizzavo nei comizi quella loro propaganda per riderci sopra. Per esempio un candidato scriveva che lui “non si faceva tagliare l’erba sotto i piedi” ed io lo descrivevo come un cavallo affamato. Oppure quando altri candidati facevano cene a loro spese (non come oggi che vai alla cena ma contribuisci versando una somma per la campagna elettorale). Nell’occasione i galoppini presentavano al candidato i giovani o i padri ed il candidato prometteva in cambio del voto un lavoro sicuro. Una bufala si direbbe oggi, ma che occorreva stroncare, ed io mi inventai un momento muto del discorso. Un momento in cui feci soltanto i gesti del galoppino e i cenni di assenso rivolti al questuante dal candidato: scoppiò una grande risata, molti avevano visto dal vivo quella scena ed ora ridendo la demolivano.


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Inaspettatamente segretario Un periodo denso L’amaro ‘64 Che fare? E il molino traballò Molini Un’azione unitaria d’alto significato Tra la gente L’XI Congresso: noi e Ingrao Le grandi lotte La casa di pietra Il distacco dei giovani Le nostre eresie Un grande successo, ma... I nuovi problemi La fretta e il ricambio Non si colse l’essenziale


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Inaspettatamente segretario All’inizio del 1963 per la seconda volta pensai di abbandonare la vita di funzionario di partito. Questa scelta derivava da due motivi diversi ma entrambi importanti. Il primo: dopo venti anni di vita politica a tempo pieno sentivo l’esigenza di tornare ad essere un semplice cittadino, ora avevo famiglia e stava per nascere un secondo figlio ed io potevo, date le molte assoluzioni ed amnistie, riprendere l’attività scolastica come me ne dava diritto il concorso cui avevo partecipato con successo nel lontano 1941, oppure qualcuno dei miei interessi nascosti poteva divenire un mestiere artigianale o commerciale, ove si tenga conto che eravamo in una fase di sviluppo della economia nazionale. L’altro motivo riguardava lo sviluppo delle cose all’interno della federazione del Pci di Perugia. Stava avanzando rapidamente un gruppo di giovani studenti ed operai e già ad esso avevamo affidato non solo la direzione della federazione giovanile, ma anche settori importanti della vita del partito. Era questo un gruppo vivace che nutriva rispetto verso noi più anziani, ma che risentiva dei tempi nuovi e portava una forte istanza di rinnovamento nella linea e negli uomini. Sentivo che quel ricambio poteva riguardare anche il sottoscritto e non volevo attendere che qualcuno mi dovesse dire: “per piacere, alzati da quella sedia”, preferivo andarmene di mia volontà. La improvvisa malattia del segretario della federazione Pietro Conti costrinse me e Gino Galli ad una attività che riguardava l’andamento della intera campagna elettorale. Una esperienza che, diciamolo francamente, fu di grande soddisfazione sia per il lavoro svolto che per gli splendidi risultati. Dopo le elezioni, dato il prolungarsi dell’assenza di Conti, dovetti continuare nell’attività di direzione della federazione (a chi veniva colpito da infarto i medici raccomandavano lunghissimi periodi di riposo e comunque l’obbligo di star lontano da forti emozioni e da stress, cose che invece la politica comporta in alta misura). A questo punto la direzione regionale e lo stesso Pietro Ingrao pensarono che fosse necessario eleggere un nuovo segretario della federazione e proposero di avanzare la mia candidatura. Cosa divenivo? Un segretario di ripiego in attesa del legittimo segretario eletto


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alla unanimità dopo un congresso? Riflettei a lungo. Avvertii l’appoggio pieno delle sezioni, più incerto in qualche dirigente di primo piano. Se accettavo come dovevo agire? Accettai, non volli sentirmi provvisorio e, come segretario a pieno titolo, puntai sulla collaborazione di un vasto gruppo di compagni ad iniziare dalla scelta di una segreteria, tutt’altro che compiacente, composta da compagni dotati di esperienza e di forte personalità24, e affidando settori di lavoro ad un gruppo di giovani. Mi sono domandato in quale giorno e mese ho iniziato la mia attività di segretario della federazione. Ebbene, pur ricercando con attenzione tra i miei appunti, non sono riuscito ad andare più in là di una data generica: autunno 1963. Di fatto inizio questo mio racconto di un decennio, denso di avvenimenti politici e molto impegnativo, con un ricordo tanto importante quanto impreciso. Il fatto è che avevo un modo di seguire l’attività un po’ strano e assolutamente insoddisfacente per chiunque avesse voluto avere poi una traccia su cui basare il suo racconto. Quella traccia, sia sotto forma di appunti o meglio di diario, non l’ho conservata e perciò devo affidarmi ai ricordi e ai pochi documenti rimasti. Sia le riunioni che i vari dibattiti li seguivo prendendo raramente qualche stringata nota, ma piuttosto tracciando disegni astratti su quei primi due o tre foglietti che mi capitavano sotto mano. Era un metodo (se così vogliamo chiamarlo) per seguire con attenzione una riunione che mi portavo dietro dai banchi di scuola. Una volta, già una volta, come nelle favole. Era l’ultimo anno di magistrali e la professoressa Pierangeli stava commentando un brano della Divina Commedia. Io scarabocchiavo. L’insegnante mi richiamò un paio di volte: “Gambuli stia attento!” ed io “sto attento”. Quasi indignata la professoressa, dopo la sua lunga lezione, all’improvviso mi dice: “Si alzi Gambuli, mi riassuma la lezione”. Io la riassunsi con notevole fedeltà perché quegli scarabocchi mi consentivano il massimo della concentrazione e quindi anche della memorizzazione. Ora qualche disegno di quelli del mio lungo corso di vita politica l’ho conservato, ma non mi serve proprio per questo lavoro. Voglio anche notare come questo del disegno fosse una mia nascosta passione e come durante le feste o le ferie, ad essa dedicassi parte del mio


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avaro tempo e come poi, da pensionato, abbia provato a cimentarmi oltre che con il disegno, con la pittura della ceramica e con gli acidi per l’acquaforte. I risultati di quelle “opere” si possono vedere nelle pareti di casa mia o in quelle dei miei parenti ed amici. Troppo tardi ho affrontato questa mia tendenza, ma poi sarei divenuto un artista? Non mi pongo il problema, perché ho vissuto come volevo e questo è il massimo che si possa avere dalla vita.

Un periodo denso Quello che mi sta davanti sarà un periodo denso di fatti politici. Muore Papa Giovanni XXIII, viene ucciso Kennedy, viene silurato Kruscev. In Russia prevale il clima di restaurazione, in Vietnam gli Usa intensificano una azione militare che il popolo di quel paese avvierà alla definitiva sconfitta. È il momento dei grandi miti della sinistra: Ho Chi Min in Vietnam, “Che” Guevara in America latina, Mao Tse Tung in Cina con la sua rivoluzione culturale ed i famosi libretti rossi che la gioventù cinese sbandiera nei suoi immensi cortei. Nelle università d’America e d’Europa arriva l’onda studentesca che sogna “la fantasia al potere”. In Italia sono gli anni tribolati del centro sinistra, del tentativo del colpo di stato di De Lorenzo e soci, del grande movimento degli studenti e poi del 1969 operaio, cui si risponde con le trame eversive, con le bombe e le stragi. A sinistra il movimento studentesco crea i suoi collettivi, da vita ad organizzazioni politiche, crea giornali e leader, sconfina talvolta in organizzazioni paramilitari e nelle sue forze più eversive dà il via alle “Brigate Rosse”. È anche un periodo in cui le lotte degli studenti, delle donne, della classe operaia aprono nuovi orizzonti alla vita sociale, politica e sindacale del nostro paese. Sono gli anni nei quali la democrazia entra nella scuola, che il movimento femminile pone ormai come maturi i problemi del divorzio e dell’aborto, che il sindacato si batte per la salute nei luoghi di lavoro, per una pensione migliore, per uno statuto dei lavoratori.


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L’amaro ‘64 In questo quadro vivono e lottano i comunisti in Umbria ed in quella cornice si sviluppa anche la mia attività, resa più vivace e talvolta vorticosa dal succedere degli straordinari eventi cui sopra ho appena accennato. Alle elezioni amministrative del 1964 andammo sull’onda del grande successo del 1963. Il partito aveva dimostrato di avere una linea giusta ed aveva tanto entusiasmo, forse troppo. Molti compagni erano convinti che la nostra marcia verso la conquista del 50% dei voti fosse possibile, che avremmo persino potuto fare a meno di un partito socialista che, dopo l’uscita della sua sinistra che aveva dato vita al Psiup, tendeva a governare con la Dc non solo al centro ma anche negli enti locali. Purtroppo non conducemmo la battaglia contro quell’atteggiamento settario. C’è da aggiungere che i socialisti furono abili e trasformarono questo nostro impeto in una critica che coglieva nel segno. Confermammo nelle elezioni per la amministrazione provinciale i voti del 1963, mentre per le comunali il risultato fu più variegato e tale da rendere i socialisti arbitri della soluzione da dare ad alcune importanti giunte. A Perugia, a Città di Castello, a Foligno, a Gualdo Tadino furono varate giunte di centro sinistra ed i sindaci furono tutti socialisti25, dimostrazione questa della duttilità che in quel momento seppe dimostrare la Dc non pretendendo in quei comuni alcun sindaco. A Spoleto ed a Gubbio, essendo impossibile fare una giunta di centro sinistra, i socialisti preferirono andare al commissariamento della amministrazione e così si tornò a ripetere le elezioni, finché alla fine vinse la sinistra. Certamente alcune nostre posizioni di chiusura non contribuirono a sciogliere positivamente qualche situazione, come invece dimostrò il caso di Todi, dove noi cedemmo il sindaco, e della amministrazione provinciale dove la volontà unitaria prevalse e fu possibile varare una giunta di sinistra diretta dal comunista Il vano Rasimelli. Indubbiamente i documenti con cui siglammo quegli accordi furono brevi e generici, e di questo ci rimproverò la Direzione del Pci, ma i fatti successivi dimostrarono che quella critica era ingiusta. Nel gruppo dirigente vi fu chi giudicò i risultati elettorali una


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sconfitta e da lì trasse per il futuro convinzioni errate. Il Comitato federale a larga maggioranza sostenne, seppure in un quadro autocritico, che il risultato era stato sostanzialmente positivo. Era cambiato in alcuni punti il panorama delle amministrazioni comunali, ma il partito aveva mantenuto gli straordinari risultati del 1963, dunque aveva retto bene nel suo complesso ed aveva ancora in mano possibilità grandi di sviluppo della sua azione politica. Quando penso all’entusiasmo che anima una forza politica, penso, con un paragone inadeguato, al tifo esistente nel mondo del calcio. Vinci: tutti presenti, tutti contenti. Perdi: sei retrocesso, pochi ti seguono e alcuni ti sono contro. Un po’ successe così, dopo quelle elezioni. Paragone inadeguato si dirà, si tratta di cose ben più importanti. È vero, ma un giorno Grossi, entrando in segreteria, disse: “Siamo rimasti in pochi a girare per questi corridoi della federazione”. Avevamo la voglia di superare quel momento e lo superammo, il problema di sempre è quello di non arrendersi alle prime difficoltà. E noi non ci arrendemmo.

Che fare? La prima questione che ci si pose fu quella dell’“apparato”. Nelle città dove si erano formate giunte di centrosinistra, i nostri funzionari si reggevano anche su quella parte dell’indennità che assessori e sindaci cedevano al partito. Ora quella parte veniva a mancare ed il problema finanziario si presentava come insolubile. Chiedemmo aiuto alla Direzione del partito, ma essa ci rispose negativamente, anzi ci consigliò di ridurre drasticamente il numero dei funzionari. Noi non potevamo seguire quella linea perché la fuga dalle campagne aveva fatto scomparire interi comitati di sezione e c’era bisogno di un lavoro certosino per ritessere le fila dell’organizzazione. Ponemmo la questione ad una riunione di funzionari. Decidemmo assieme ed alla unanimità di stringere la cinghia ed andare avanti sino a quella nuova avanzata del partito che cercavamo di delineare26. Negli anni che seguirono le vicende elettorali del 1964 relativa-


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mente alle forze politiche due problemi si posero alla nostra attenzione. Il primo riguardava il nostro atteggiamento rispetto ai socialisti, il secondo al variegato mondo cattolico, ivi compresa parte della Dc umbra, con il quale avevamo avuto contatti intensi. Da un articolo del segretario regionale Gino Galli su “Rinascita” del luglio 1965, come dal rapporto di attività del Comitato federale del dicembre 1965 in preparazione del congresso, risulta chiaramente una nostra posizione autocritica relativa al nostro precedente atteggiamento nei confronti del Psi e la volontà di impegnarci per una linea più estesa possibile di collaborazione27. Questo certamente non diminuì la critica puntuale e severa che noi portammo alle giunte di centrosinistra ed in quei comuni dove i socialisti avevano preferito il commissario prefettizio a possibili giunte di sinistra. In particolare, vorrei ricordare la critica ben argomentata che il gruppo consiliare di Perugia28 portò all’operato della Amministrazione che nel tempo andò sfornando piani di sviluppo voluminosi, ma che nella pratica finì con il ritardare, ed anche bloccare, ogni iniziativa concreta. Considerammo con attenzione tutti i punti di unità con i socialisti. L’unità reggeva in importanti Amministrazioni, teneva nel sindacato unitario che stava ritrovando il filo di una lotta comune con gli altri sindacati, reggeva in altre organizzazioni, in particolare nelle campagne con le cooperative per la macinazione del grano e delle olive.

E il molino traballò A questo proposito, durante la campagna elettorale del 1964 fummo investiti da un grave problema. Il Molino cooperativo di Umbertide, convinto della possibilità di favorevoli interventi statali e di crediti delle banche a basso interesse, aveva provveduto all’ampliamento dei suoi impianti indebitandosi fortemente. A questo si era aggiunto il fatto che la fuga dalle campagne di tanti mezzadri, soci del molino, riduceva fortemente l’operatività dell’azienda. Il Molino era in una situazione fallimentare. Gli agrari stavano aspettando sulla riva che passasse il cadavere della cooperativa. Dalle riunioni che


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facemmo con i compagni del movimento cooperativo sembrava che fosse impossibile qualsiasi soluzione. Fu Pietro Conti a sollecitare Francesco Pierucci ad accettare l’impossibile incarico di salvare l’azienda. Pierucci, con il fattivo contributo dei socialisti e dei comunisti, compì il miracolo29.

Molini Il fatto era che non soltanto il molino di Umbertide si era trovato in una situazione difficile. La fuga dalla mezzadria aveva creato problemi seri anche ad altri molini cooperativi dell’Umbria ed in particolare della Toscana. Questo era venuto a discutere ad Arezzo con i dirigenti comunisti dell’Umbria e della Toscana il compagno Gerardo Chiaromonte della Direzione nazionale. Sua opinione era che si dovesse consigliare il movimento cooperativo a tagliare quelli che si dimostravano rami secchi prima di giungere al loro fallimento, che poi avrebbe anche significato per migliaia di contadini perdere le quote in grano versate ai molini e che talvolta erano abbastanza elevate. Noi umbri contrastammo quella linea affermando che nostro dovere era sostenere e contribuire al superamento delle difficoltà dando ai molini cooperativi nostri uomini che godevano di grande stima e notevoli capacità come avevamo fatto nel caso di Umbertide, aggiungendo che altri Molini come quelli di Ellera e di Castiglion del Lago30 godevano di ottima salute ed erano di sprone agli altri per andare avanti. Questa fu, in quegli anni di sorda lotta da parte del governo e degli agrari contro le cooperative “rosse”, la linea che seguì il Pci in Umbria, una linea di aiuto e di sostegno disinteressato, cioè ben lontano dalle ipotesi che le cooperative fossero per i partiti vacche da mungere, ma piuttosto, nel caso dei molini, uno strumento per liberare i contadini da una evidente situazione di sfruttamento rispetto al modo di operare dei vecchi molini padronali per la macinazione del grano e delle olive.


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Un’azione unitaria d’alto significato Alla ripresa della nostra azione unitaria giovarono alcuni fatti. Intanto nella provincia di Terni l’alleanza con i socialisti aveva retto. A Perugia l’Amministrazione provinciale, sotto la guida di Ilvano Rasimelli, iniziò a dimostrare una coesione della sinistra che permise di formulare ed attuare con rapidità programmi concreti su tutti i fronti istituzionali in cui era chiamata ad operare. Quello che in quegli anni, prima del ‘68 studentesco, fece risaltare in modo particolare il lavoro della Provincia fu la battaglia per la chiusura dei manicomi. Gli uomini e le donne rinchiusi negli ospedali psichiatrici vivevano spesso in condizioni inumane. All’inizio della battaglia Ilvano Rasimelli mi invitò a visitare il manicomio di Perugia. L’impressione che ne riportai fu profonda in generale, ma in un reparto quello che vidi superava ogni limite umano! Quella visita servì a farmi divenire un fermo sostenitore della riforma. Un’impresa non facile, anche per resistenze che si ebbero tra gli operatori e con diverse parti politiche, non esclusi alcuni comunisti. Fu merito di Ilvano Rasimelli e di un nutrito gruppo di giovani psichiatri, tra i quali vorrei ricordare Carlo Manuali, uomo di grande intelligenza dotato di acuto spirito critico, se l’operazione registrò un notevole e crescente successo. Ad esso contribuì la capacità politica di portare il problema tra la gente, davanti alle popolazioni dove si manifestavano i casi più difficili ed emblematici. Grazie a questo lavoro in Umbria, la riforma psichiatrica non passò come fatto di vertice ma come grande atto rivoluzionario di massa, anticipando ideali che mossero le grandi lotte studentesche ed operaie del 1968-69. Anche per la Direzione del Pci si trattava di un evento nuovo. In un corridoio delle Botteghe Oscure, fui fermato da Chiaromonte, che allora dirigeva il lavoro di massa del Pci, per chiedermi cosa stesse succedendo nella psichiatria in Umbria. Cercai di spiegargli le cose, ma si trattava di un tema nuovo per lui ed anche per me non facile da spiegarsi in pochi minuti. Mi chiese come pensavamo di continuare e gli risposi all’incirca così: “Lasciateci portare avanti questa esperienza, per noi è molto importante. Del resto l’Umbria non è quella regio-


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ne un po’ matta ed un po’ riformista di cui parlano i compagni Pajetta ed Amendola?” Abbiamo già detto come nel periodo della elaborazione del Piano di sviluppo umbro i nostri collegamenti con la parte più avanzata della Dc fossero intensi e proficui, tali cioè da portare a conclusione quei lavori entro i primi mesi del 1963. Anche con forze cattoliche, che dopo il Concilio Vaticano II in qualche modo si muovevano su una linea di apertura a sinistra, noi avevamo molti contatti. Fu forse alla fine del 1963 che al termine di una riunione presso la Direzione fui chiamato da Togliatti nel suo studio. Voleva sapere dei nostri contatti con i cattolici. Ne fui molto sorpreso e credo la mia informazione fosse inferiore alle sue aspettative. Non pensate ad un mio timore di fronte al capo. No, per me, per un richiamo alla mia prima esperienza politica un po’ anarchica, tutti gli uomini sono uguali, tutti degni del massimo rispetto. E rispetto per lui lo avevo, perché lo consideravo un uomo che aveva dato un contributo grande nel risollevare l’Italia dalla guerra e nell’assicurare con la Costituzione un lungo periodo di pace e di progresso. Togliatti aveva dato sempre una grande importanza ai rapporti del Pci con il mondo cattolico, questione questa che sarà poi ripresa con grande forza da Enrico Berlinguer, questione ancora di primo piano nella politica italiana. La costituzione delle giunte di centrosinistra s’insinuava come un cuneo in questa politica di apertura di tutte le forze democratiche e minacciava anche lo sviluppo economico e sociale dell’Umbria. Come dovevamo agire nei confronti della Dc? La linea fu quella di forte critica alle posizioni conservatrici e reazionarie dei gruppi dirigenti della Dc e di colloquio positivo verso le forze cattoliche avanzate.

Tra la gente Non si pensi però che quel periodo fosse solo segnato dal dibattito interno e da quello con le altre forze politiche. Dalle relazioni mie e di altri compagni al Comitato federale di Perugia balza evidente il richiamo al lavoro verso le grandi masse popolari. Ponemmo con


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nuova forza i problemi della casa, della salute, delle pensioni, della scuola. Tornammo con grande decisione a mettere le mani sui problemi della classe operaia, delle campagne dove la politica del governo e lo stesso piano Pieraccini miravano ad incentivare le aree ricche delle pianure e ad abbandonare le altre, che in Umbria erano il 90% della terra. In Umbria il Piano Pieraccini, in alternativa al Comitato del piano promosso dalle due Province e dalle Camere di Commercio, creò un comitato di programmazione dal quale i comunisti erano quasi esclusi. Dopo molte riunioni, quel Comitato dovette far proprio il piano già elaborato democraticamente dalle Amministrazioni provinciali e dalle Camere di commercio! Guardammo con nuova attenzione all’edilizia che si stava sviluppando, alle fabbriche che aumentavano rapidamente la loro mano d’opera, alle imprese nuove e numerose e capimmo meglio che ora, di fronte al disfacimento della mezzadria, c’era in Umbria una classe operaia in forte sviluppo. Una classe che usciva in larga misura dal ceppo mezzadrile, che andava a fare i lavori più faticosi ed umili, che mancava ancora di una sua autonomia e, pur mantenendo una notevole fedeltà agli ideali sociali e politici della vita mezzadrile, si sentiva debole e doveva assoggettarsi di fronte alla prima necessità: lavorare, portare a casa un pane per la famiglia e, se donna, contribuire a migliorare il basso tenore di vita del nucleo familiare. Era una classe operaia in larga parte nuova, debole di fronte agli industriali, che doveva ritrovare i motivi per organizzarsi e reagire ai bassi salari, ad un lavoro che spesso andava ben oltre le otto ore soprattutto nell’edilizia, agli scarsi guadagni di un lavoro a domicilio che ormai occupava migliaia di donne. E con la mentalità del buon contadino che una casa l’ha sempre avuta, povera sì ma pur sempre una casa, questo nuovo operaio la domenica, invece di riposarsi, lavorava alla costruzione di una sua casetta in qualche periferia dei vecchi centri storici piccoli e grandi. Quando, dopo molti anni, parlavi con loro di quel periodo ti dicevano delle loro pesanti fatiche domenicali e dei panini con la mortadella che avevano mangiato per risparmiare i soldi necessari per la costruzione di quella casa. Noi lavoravamo per favorire una presenza nuova del sindacato


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nelle fabbriche, puntando su alcune aziende e su settori importanti quali l’edilizia, il tessile, l’alimentare. Un lavoro non facile ma che vide intere categorie in lotta per i salari e per nuove norme contrattuali e che iniziò a preparare le grandi lotte operaie del 196931.

L’XI Congresso: noi e Ingrao In questo momento di ricambio delle grandi forze lavoratrici della nostra provincia ci colse il dibattito in preparazione dell’XI congresso del Pci. Togliatti era morto e se già lui negli ultimi tempi aveva dovuto parlare a proposito del gruppo dirigente, non più del tutto compatto, di “sensibilità diverse”, ora sotto la guida di Luigi Longo, personalità che godeva di grande autorità ma con un carisma inferiore a quello di Togliatti, quelle diversità rischiavano di divenire irreparabili rotture. Tra i massimi dirigenti, chi si scostò dal progetto di tesi, elaborato durante tutta l’estate del 1965 da una numerosa commissione, fu il compagno Pietro Ingrao e con lui un piccolo gruppo di membri del comitato centrale. La discussione si infiammò in un partito che aveva superato il 1956 e lo stalinismo, ma che era rimasto ad un centralismo democratico che ammetteva la discussione ma pretendeva di arrivare alle conclusioni sempre all’unanimità. Alcuni punti del dibattito si mostrarono come decisivi e su essi le posizioni si mantennero distanti. Non è mio compito qui descriverli ampiamente, ma almeno alcuni titoli debbo citarli. Le tesi parlavano di fallimento del centrosinistra e ad esse veniva opposta una tesi diversa, quella del rafforzamento del potere dei monopoli. Le tesi erano arrivate a prospettare in economia idee guida che favorissero una programmazione democratica da maturare con le altre forze democratiche, ma ad esse si opponeva un ben delineato “modello di sviluppo”, per alcuni “avanzato”, per altri “socialista”. Sul problema dell’unità delle sinistre, le tesi avanzavano la proposta del “partito unico” delle sinistre come problema attuale, mentre dall’altro lato sembrava darsi per perso il Psi e si delineava una linea di grandi movimenti di massa e di unità anche con forze cattoliche. Sul tema della democrazia interna, la opposizione


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alle tesi invocava il diritto di avanzare progetti e documenti alternativi per tutta la fase congressuale e, più in generale, richiedeva un allargamento della vita democratica del partito. Nel novembre del 1965 alla presenza di un compagno del centro del partito, Calamandrei, portammo le tesi in comitato federale. Ho riletto con grande interesse una copia del verbale di quel comitato ritrovata tra le mie carte e che allora, su mia proposta, inviammo alla Direzione del partito. Risulta che eravamo tutti d’accordo con Ingrao sulla massima libertà di dibattito in sede congressuale e sul bisogno di una più vasta democrazia, cui come umbri aggiungevamo il problema di un decentramento della direzione del partito a livello regionale. Sul resto il dibattito fu molto vivace e le posizioni molto diverse. Dei compagni, diciamo la generazione della resistenza, una parte si schierò, con distinguo molto personali e diversi, sulle posizioni di Ingrao; l’altra parte, anch’essa con motivazioni per alcune parti diverse e con dubbi sui tempi di realizzazione del partito unico, si schierò sulla linea delle tesi. Il gruppo dei giovani si mosse su una linea più radicale che di fatto chiedeva la possibilità di correnti, il distacco definitivo dall’Urss, una attenzione nuova alla grande rivoluzione cinese, un modo diverso di impostare la lotta per la pace e la coesistenza, oltre alle questioni poste da Ingrao32. L’intervento di Calamandrei apparve ai più troppo schiacciato sulle tesi e da ciò derivò una difesa più strenua della libertà e frasi aspre furono dette, tanto aspre da farmi consegnare alla segreteria la lettera delle mie dimissioni. Era la mia fiera protesta verso un dibattito che travalicava ogni limite. Esse furono subito respinte. A fatica fu ricomposto un minimo di unità del gruppo dirigente. Arrivammo al congresso nazionale del Pci in un clima di tensione e con un attacco ad Ingrao che rischiava di andare oltre un dibattito politico aperto, quasi per colpirne l’eresia. Noi portammo la posizione del nostro congresso provinciale di adesione critica alle tesi, ma di difesa strenua del diritto ad avere posizioni diverse e di difenderle senza che alcuno potesse prenderle a pretesto per chissà quali misure censorie. Ho tra i miei fogli la breve relazione che feci in comitato federale circa la attività della nostra delegazione.


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Le grandi lotte Nel 1967 avvengono alcuni cambiamenti ai vertici del partito in Umbria. Il segretario regionale Gino Galli va a Roma come vice responsabile della commissione propaganda della direzione del partito, allora diretta da Giancarlo Pajetta. A lui nel regionale succede Raffaele Rossi, al quale sarà chiesto di tornare ad abitare a Perugia33. Il 1968 inizia con il movimento studentesco in pieno sviluppo. A Perugia, finalmente il movimento occupa l’università mentre la massa degli studenti medi invade le città dell’Umbria con grandi cortei. Il mondo studentesco con i suoi entusiasmi, empiti rivoluzionari, piccole rivendicazioni, si è messo in moto. L’università di Perugia aveva da oltre 20 anni una direzione democristiana e conservatrice, rettore magnifico Giuseppe Ermini, notabile forte ed intelligente della Dc nazionale che, se sul terreno della democrazia frenava, su quello dell’espansione dell’università godeva nella Dc un ruolo privilegiato. Inoltre l’università, per la frequenza di molti studenti meridionali e per una scelta del Msi nazionale di inviare a Perugia studenti del sud per farne una roccaforte del Fuan, da alcuni anni vedeva il netto prevalere del Fuan, filiazione del Msi, nelle elezioni degli studenti. Ora l’occupazione da parte del movimento studentesco rappresentava un punto di svolta grandissimo; stavano entrando nell’Università per la prima volta i figli degli operai e dei contadini, anche se la testa del movimento era spesso costituita da figli della buona borghesia umbra. Il partito nel corso del 1967 aveva svolto una attività e tenuto anche convegni sul problema della scuola, ma non possiamo dire che a Perugia fosse alla testa di quel movimento e sulle cause ed anche sui limiti torneremo più avanti. Invece diversa fu la partecipazione della CGIL e del PCI alle grandi lotte operaie di quegli anni. Abbiamo accennato prima ad alcune difficoltà che nel corso degli anni ‘60 aveva trovato la lotta operaia nella provincia di Perugia ed anche della lenta risalita dell’azione operaia, dei sindacati e del partito nei luoghi di lavoro34. Nel 1968-69 l’estensione dell’azione sindacale unitaria fu amplissima e dopo venti anni tornarono allo sciopero le tabacchine, l’Angora Spagnoli ed altre fabbriche dove il pro-


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prietario aveva sempre negato il diritto dei lavoratori ad eleggere le commissioni interne, o le aveva subordinate al suo potere. Dopo venti anni si tornava a scioperare all’Angora Spagnoli e questo fatto mi riguardava un po’. Mia moglie aveva vissuto in quella fabbrica, dove era entrata ancora ragazzina, tutti quegli anni e per lei, attivista della Cgil, non erano stati anni facili. Non era semplice scioperare quando si era così pochi a farlo da potersi contare sulle dita di una mano, come non era facile l’8 marzo distribuire all’interno della fabbrica “Noi donne”, giornale dell’Unione donne italiane, o la mimosa. E quei momenti difficili, quando la commissione interna di fatto era sostituita dalla SAS, organizzazione della Cisl, quando la Cgil era discriminata, li ritrovavo interi nei racconti serali di Silvana. Era il suo uno sfogo, un dar voce ad amarezze profonde, perché il coraggio di continuare ce l’aveva da sola. Ora, nel 1969, le operaie erano unite e assieme lottavano Cgil, Cisl, Uil; anzi alcune attiviste della Cisl e delle Acli andavano oltre la Cgil, verso l’estrema sinistra, e questo faceva un po’ arrabbiare Silvana.

La casa di pietra È di quel periodo il nostro cambiare definitivamente casa. Dopo il primo appartamento in affitto in via Serafino Siepi, per circostanze diverse, avevamo cambiato abitazione tre volte. Per ultimo un quartierino all’Elce ormai non più sufficiente. I figli crescevano e, per nostra fortuna, avevamo in casa anche una anziana zia di Silvana che faceva loro da nonna. Allora per i dirigenti comunisti era impossibile avere un alloggio delle case popolari, la discriminazione arrivava anche lì. Con l’accordo della sorella e della madre di Silvana, potemmo vendere la casetta che loro possedevano alla Conca e, con la parte di Silvana, avviare a costruire una casa nostra, senza più dover pagare l’affitto ed anche saldare qualche debito che avevamo accumulato in quell’ultimo periodo. La famiglia era cresciuta, nuovi problemi erano sorti e le nostre paghe divenivano sempre più insufficienti. Fu di quel momento anche


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l’unica polemica che io ebbi con il Pci nazionale sui problemi del mio sempre magro salario. Naturalmente i denari della vendita rimasero insufficienti per costruire una casa, ma utili per poter partire e per accendere un mutuo. Scegliemmo il colle di Lacugnana perché la posizione era bella e la terra costava pochissimo. La zona era scomoda, senza acqua, né luce, e la stradetta che conduceva a quell’appezzamento era poco più di un tratturo. Più che una casa, facemmo un capannone di pietra grezza (cento metri quadri soltanto, come prevedeva la legge) in una collina di pietra. Vennero fotografi inviati da avversari a fotografare la “villa” che io e Bruno Nicchi (era una bifamiliare) avevamo costruito, ma la povertà del fabbricato e la desolazione del terreno spoglio e pietroso che lo circondava fecero sì che quelle foto non fossero mai pubblicate. Debbo dire che oggi la casa è bella per il suo esterno di pietra rosata a vista (i fondi grezzi trasformati in piccoli quartieri ove abitano i figli) e per il lavoro certosino compiuto per costruire muri e muretti a reggere la poca terra che facevamo arrivare con i camion e che ora fa vivere cespugli e piante. E bellissimo è il panorama che si scopre, con quei tramonti verso il lago Trasimeno che mutano colore ad ogni momento.

Il distacco dei giovani Le elezioni politiche del 1968 videro una nuova avanzata del Pci in Umbria. Avevamo presentato con grande apertura come candidati uomini di grande valore35. Le elezioni confermarono la linea scelta dalla federazione di Perugia dopo le elezioni del 196436. V’era la possibilità di nuova avanzata ed in Umbria si poteva battere il centro sinistra, andare decisamente verso il ristabilimento di maggioranze di sinistra in tutte le amministrazioni e nel nuovo istituto regionale ed aprire nuovi spazi alle forze più avanzate della Dc e di un mondo cattolico, che anche in Umbria vedeva scendere in lotta con gli operai, oltre alla Cisl ed alle Acli, molti sacerdoti, alcuni dei quali tornavano anche a lavorare in fabbrica o nelle campagne. Scrivemmo nel rap-


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porto di attività del dicembre del 1968 in preparazione del XIII congresso provinciale: “la guerra di trincea è finita”. Con questo entusiasmo mi preparavo alla prossima battaglia per le elezioni regionali ed amministrative, quando, nel 1969, ci sorprese il distacco dal partito di un gruppo di giovani che dirigevano la Fgci e che avevano posizioni di rilievo anche nel partito37. Fu un colpo durissimo ma non avveniva all’improvviso. La differenza di giudizio politico era iniziata a manifestarsi nel 1962 con un documento del compagno Mario Mineo, professore che godeva per la sua preparazione ed intelligenza della stima di tanti studenti di sinistra. Cosa c’era di diverso rispetto alla linea del partito in quel documento? Il richiamo alla rivista “Quaderni rossi”, una critica alla linea del Pci nel dopo 1948, al presunto cedimento a destra dopo il XX congresso del Pcus, all’atteggiamento verso la Cina, ed altro ancora, c’era invece di positivo ed attuale il richiamo alla estensione della democrazia nel partito, problema aperto in tutti i partiti comunisti ed in particolare in Italia dove si voleva avanzare su una via democratica. Allora inizia la discussione della federazione con quei giovani. Ognuno di noi più anziani era arrivato al partito con motivazioni diverse e con una visione della prospettiva diversa, spesso crudamente rivoluzionaria; poi, attraverso la esperienza nel partito, era arrivato alla conclusione di identificarsi con quella che l’VIII congresso del Pci aveva definito come la “via italiana al socialismo”, anche se sulla linea restavano divergenze serie come quelle dimostrate nel corso del dibattito in preparazione del congresso del partito del 1966. La discussione è tracciata dai comitati federali, in particolare quello del 1965 al quale ho già accennato. C’è tra le mie carte una relazione ben documentata e molto aperta di Vinci Grossi del 1966, al Comitato Federale di Perugia, sulla Cina; c’e il tentativo di Pietro Conti di dare sfogo alle nuove esigenze di molti giovani compagni creando nel 1968 il circolo “Carlo Marx”, c’è soprattutto il difficile lavoro che con loro facevamo davanti alle scuole, dove spesso dovevamo scontrarci con gruppi fascisti ben organizzati e preparati alla lotta di strada, che poi si vedrà non esiteranno a picchiare con catene ed anche a colpire con coltelli38. Perché allora comunque la rottura si operò? Il punto critico


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dove stava? Non nel confronto con Terni, dove la Fgci guidava dal suo nascere il movimento studentesco. Due realtà umbre: Perugia e Terni, profondamente diverse l’una dall’altra. Abbiamo spesso ripetuto che l’Umbria non era una unità economica ma politica, figlia cioè di una politica che aveva saputo unire in un unico progetto tante diversità anche profonde. E diversa era stata, dalla Liberazione in poi, la vita di due città come Perugia e Terni. A Terni la classe operaia era egemone e gli studenti erano figli di una generazione che dopo la Liberazione aveva condotto una lotta continua per la difesa e lo sviluppo della industria di stato e della regione, per la pace (in una manifestazione per la pace era morto Trastulli) e il socialismo in Italia.

Le nostre eresie Perugia era una città borghese, con una classe operaia in formazione ed in maggioranza femminile, circondata da una campagna dove la forza delle sinistre, l’abbiamo già detto, si stava sfaldando per la forte emigrazione. All’Università dominavano i fascisti e la parte più reazionaria della Dc. La linea che noi ponevamo con grande forza non era di riformismo spicciolo, di un municipalismo minore, ma una linea che, partendo dalle difficoltà della classe operaia e del mondo contadino, non si chiudeva in se stessa ma ricercava l’alleanza con tutti gli strati attivi della popolazione, alleanze profonde in alcuni casi, per obbiettivi limitati in altri, ma sempre mirante a fare dell’Umbria una regione con un proprio governo ed un proprio progetto di sviluppo. Una regione dove il Pci era stato sempre in prima linea nella lotta per la pace e per la liberazione di popoli oppressi: nel 1967, ancora con Capitini, aveva di nuovo marciato da Perugia ad Assisi. Allora se c’era un ritardo nel partito a Perugia di cosa si trattava? Sicuramente, come poi la storia ha dimostrato, i giovani avevano ragione quando ponevano il problema dell’Urss in termini di rottura e anche quando volevano superare nel partito il centralismo democratico per andare alla possibilità di correnti. Ma… c’era un MA grande come una casa: era profondamente diversa la linea strategica sia per


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ciò che atteneva ai temi della pace e della coesistenza pacifica, sia relativamente alla possibilità in Italia di una grande lotta di massa capace di attuare nel breve periodo una società socialista. E su questo resto del parere che i giovani sbagliassero e rischiassero di andare incontro ad una avventura dal tragico finale. Per la seconda volta, dopo la Liberazione, a Perugia un gruppo di giovani politicamente preparati, si allontana dal Pci. La prima volta disperdendosi, ora dando vita ad una formazione autonoma. Poi ci sarà una terza volta, e non si tratterà solo di giovani, ma di una parte, seppure minoritaria, del Pci che al momento della trasformazione in Pds andrà a formare il partito della Rifondazione comunista. Allora la nostra da sempre terra di eresie? Come con Iacopone e con Francesco? E questi moti, ereticali tra virgolette, portano nel loro seno la richiesta ed anche la forza dei mutamenti epocali perseverando nello “errore” come Iacopone o rientrando criticamente nei ranghi come Francesco? Allora, per superare le distanze che si erano create, ci vollero orecchi attenti e comprensione verso quel gruppo e verso tanti altri giovani che, spinti da forti motivazioni, si muovevano in un terreno nuovo non privo di insidie e che rapidamente si dispersero nei più svariati gruppi: troskisti, filocinesi, aderenti a Lotta Continua, ad Avanguardia Operaia e ad altre sigle ma che proprio per un colloquio che a Perugia restò intero con il Pci non debordarono nell’area del terrorismo e poi, nel corso degli anni, a partire dal 1970, iniziarono in larga misura a rientrare nelle file del Pci, cosa che sempre non avvenne altrove. Ed il gruppo di dirigenti del Pci non si stancò di lavorare con tenacia e pazienza alla conquista o alla riconquista dei giovani. Una attività sviluppata attraverso convegni ed iniziative diverse, come emerge dai documenti dell’epoca, ma anche di lavoro individuale mirante alla conquista di tanti giovani alla strategia del Pci. Vorrei qui citare qualche esempio relativo all’attività che allora svolsi verso determinati gruppi od anche verso singoli giovani. È del 1971 l’incontro che io e Nicchi avemmo una sera nei locali della federazione con un gruppo di intellettuali, per discutere sulla linea e sulla possibilità di una loro eventuale adesione al partito. Diverranno gli animatori del collettivo


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scuola del Pci. È di quel periodo la discussione a Marsciano, dopo una riunione, con un giovane studente della Università cattolica di Milano. Gli suggerii di leggere con Gramsci i principali scritti e discorsi di Palmiro Togliatti. Oppure le serate passate per le vie del centro di Perugia con un altro giovane intellettuale. E ancora le chiacchierate che feci con un giovane medico per convincerlo ad iscriversi al Pci. Cito questi esempi non per qualche merito personale, ma per affermare che il gruppo dirigente non solo predicava dal pulpito, ma cercava di accostarsi ai giovani interessati a discutere seriamente di politica.

Un grande successo, ma... È con il successo elettorale del 1968 e con le grandi lotte operaie e studentesche che arriviamo alla campagna elettorale del 1970. Si tratta di eleggere nei comuni (esclusi Gubbio, Assisi e Spoleto) le amministrazioni comunali, i Consigli provinciali e, per la prima volta, il Consiglio regionale. Che il partito si sia rivolto decisamente verso la classe operaia lo dimostra il fatto che in 15 tra i maggiori comuni della provincia di Perugia su 460 candidati ben 200 erano operai, tanti i rappresentanti degli altri ceti, molti gli studenti. Per il Consiglio regionale, su 22 candidati della provincia di Perugia, soltanto il sottoscritto è funzionario di partito ed altri due (Pietro Conti ed Alberto Goracci) funzionari di organismi di massa. Gli altri sono impegnati, come si diceva allora, “alla produzione”, insegnanti, professionisti, commercianti, impiegati, operai, studenti, contadini; di dieci eletti solo tre saranno i funzionari. Per gli otto di Terni abbiamo un funzionario di partito ed uno degli organismi di massa, un giornalista; eletti saranno due funzionari e un insegnante. Le elezioni furono un grande successo. Tutto oro? No. Noi eravamo convinti che i socialisti avrebbero avuto, per accordi nazionali ed in caso di vittoria, il Presidente della Giunta regionale e noi di conseguenza il sindaco di Perugia. In questo senso aveva spinto la direzione del partito nella fase degli accordi per quelle regioni dove si pensava avrebbero governato le sinistre, cioè la Toscana, l’Emilia, l’Umbria. Ed in


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quella direzione ci eravamo mossi quando unanimemente negli organismi dirigenti avevamo deciso la candidatura di Ilvano Rasimelli a capolista di Perugia e quindi nella prospettiva futuro sindaco, e di Pietro Conti, liberato dall’impegno sindacale, a capolista al consiglio regionale e perciò candidato a vice presidente del governo regionale. Ritenevamo d’aver compiuto ottime scelte quando, alla vigilia della scadenza della presentazione delle liste, fummo chiamati a Roma ed una delegazione della Direzione del Pci, nel corso di una breve riunione, ci disse che vi era un cambiamento nell’accordo con i socialisti: a noi sarebbe andata la presidenza del governo regionale, al Psi quella del sindaco di Perugia. Avevamo senza chiederlo ottenuto una grande vittoria: la direzione della giunta regionale! Ce la meritavamo per il lavoro compiuto in tutti quegli anni, per la battaglia che avevamo fatto per ottenere l’istituto regionale e per la rinascita dell’Umbria. Tuttavia venivano rimesse in discussioni le candidature che avevamo proposto. Che fare, cosa decidere nel giro di pochi minuti? Dovevamo buttare all’aria il lavoro compiuto? Potevamo dire al sindacato, che a lungo aveva esitato a liberare Conti dal suo incarico, ed allo stesso Conti che tutto era saltato? E come dovevamo affrontare la questione con Rasimelli, che aveva tutti i titoli per la massima carica regionale? Dovemmo decidere subito. Mantenemmo in piedi le scelte fatte, non potevamo fare diversamente, ma sapevamo che esse non sarebbero passate lisce. A Ingrao, che a proposito della candidatura di Conti sollevò la obiezione di un Conti troppo spostato a sinistra, io risposi che Conti conosceva molto bene la società umbra ed i suoi problemi e che quindi sarebbe stato un presidente di ampie vedute. Così tornammo a casa, e fu naturale che se Conti accettò volentieri il salto di qualità del suo incarico non fu così per chi, meritatamente, avevamo candidato a sindaco di Perugia, carica che in caso di vittoria sarebbe tornata ai socialisti. Allora, telefonicamente, Rasimelli minacciò le sue dimissioni da capolista e da candidato. Il fatto è che lui aveva ragione a reagire così e noi, d’altra parte, non avevamo torto: “Roma” allora prima decideva e poi ti consultava (ma oggi è cambiato qualcosa in questa materia?). Seguirono delle burrascose telefonate di Rasimelli prima con Gustavo Corba poi con Vinci


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Grossi ed infine con me, e non ci facemmo complimenti. La mattina dopo, da buon comunista, Rasimelli mi telefonò per affermare che manteneva la candidatura. Un gesto generoso, di cui lo ringraziai. Tuttavia una incrinatura di non poco conto si era creata. Comunque, come ho già detto, il successo fu enorme non solo per i risultati elettorali che confermarono le percentuali del 1968, ma per il successo che avemmo sul piano delle alleanze, dei rapporti con parti importanti delle altre forze politiche democratiche, e soprattutto per la affermazione della linea che avevamo impresso alle forze politiche e alla società regionale nel suo insieme. Alberto Provantini ha raccontato l’esordio del primo consiglio regionale; l’autorità che subito godette il governo regionale e la sua capacità di incidere sulla realtà umbra furono sorprendenti. In quegli anni fecero passi decisivi la democrazia partecipata, la cooperazione, l’industria piccola e media, i servizi sociali: asili, sanità, assistenza. Fu un periodo in cui, per la prima volta nella storia, la società umbra si ritrovò unita al governo regionale e locale per il rinnovamento sociale e culturale della regione. La piccola Umbria, con il suo statuto e le sue leggi fu, assieme alla Lombardia ed all’Emilia, alla testa dell’affermazione degli istituti regionali come nuovo governo democratico. Era il risultato di tanti anni di iniziativa e di lavoro delle sinistre e delle forze democratiche laiche e cattoliche, della capacità dimostrata nel dare alla regione una identità politica nuova ed assieme di aver indicato gli strumenti di potere e di democrazia per far avanzare l’Umbria.

I nuovi problemi Gli anni 1970 e 1971 furono anni di vivace attività politica, tuttavia dopo la strage della Banca dell’agricoltura di Milano (1969) vi fu una ripresa della destra che coglieva i suoi frutti con più evidenza a Reggio Calabria e all’Aquila. Anche in Umbria si avvertì in qualche modo quell’onda. Nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972 in Umbria come Pci non facemmo alcun passo avanti, mantenemmo i voti del 1968 e del 197039.


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Ora va detto che intanto erano avvenuti dei ricambi ai massimi vertici del partito in Umbria. Dopo la elezione del segretario regionale Rossi nel 1968 al Senato della Repubblica, io ero stato eletto segretario regionale. Segretario della federazione di Perugia era divenuto Gustavo Corba. Nel 1971 Corba si dimise da segretario, creando un notevole problema poiché il naturale successore, Bruno Nicchi, non voleva assumere quell’incarico. Riuscimmo a persuadere Bruno Nicchi a divenire segretario della federazione. Era una buona scelta. Nicchi, per aver fatto parte da tempo del gruppo dirigente della federazione, conosceva molto bene sia il partito che i problemi dell’Umbria. Tuttavia i risultati del 1972 e le dimissioni di Corba dicevano chiaramente di un partito che aveva difficoltà ad avanzare ulteriormente e ciò, in un momento di forte vivacità politica in Umbria, non poteva non determinare discussioni nei gruppi dirigenti. Si poneva un problema relativo alla politica del Partito ed alla sua capacità di realizzazione. Cosa era avvenuto nel partito e nel suo rapporto con le istituzioni che ora, assieme ai socialisti, dirigevamo, dopo le grandi avanzate del 1963 e del 1968 ed in particolare dopo i grandi risultati politici delle prime elezioni per il consiglio regionale? Una parte grande della dirigenza del Pci passava alla direzione della vita pubblica regionale e, si badi bene, non si trattava solo di coloro che erano stati eletti nella pubblica amministrazione, e gia erano molti quelli che prima davano tutta la loro attività al partito, ma anche di tutti coloro che dopo il 1970 erano venuti ad assumere incarichi in molti degli enti che ora dipendevano dalla regione. Si trattava cioè non soltanto del peso che la regione e gli enti locali avevano oggettivamente e delle notevoli capacità dei nostri amministratori ma del rischio che si palesava di uno spostamento della direzione politica dal partito alle istituzioni e della riduzione del ruolo del partito a semplice portatore di acqua. Avvertire questo pericolo non voleva però dire risolvere una questione tanto complessa e nuova, soprattutto in un momento che il partito, per la uscita di tanti dirigenti, si trovava in evidente difficoltà, soprattutto a Perugia. In qualche modo cercammo di affrontare il problema, sbagliando però la parola d’ordine, che non doveva essere, come invece fu, la rivendicazione del “primato del partito”, roba questa che non appar-


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teneva più alla visione che noi avevamo rispetto a tutte le organizzazioni di massa, delle quali già da tempo avevamo sancito la più ampia autonomia e quindi a maggior ragione questa era attuata da anni nelle pubbliche amministrazioni. Il problema che sorgeva era sì quello di una autonomia della regione e degli Enti locali, ma anche quello della possibilità di una forte iniziativa propria del partito, equilibrio che si poteva ottenere soltanto attraverso una lunga esperienza ed una seria discussione. E questo intendeva dire quel gruppo che dirigeva allora il partito, come si può vedere dagli atti di quel periodo. A quella discussione invece tutti sfuggimmo, ed io non ebbi la forza di porre in modo esplicito e corretto un problema che diverrà importante negli anni che seguirono, che determinerà rotture nei gruppi dirigenti che si successero e che ancora oggi pesa.

La fretta e il ricambio Allora tutto si ridusse all’urgenza, sostenuta da alcuni, del cambio dei massimi dirigenti, cioè Gambuli e Nicchi, per fare largo ai giovani. Nicchi ed io ad Ingrao, che ci pose con decisione il problema di questo ricambio, opponemmo quelle che ci parvero le nostre ragioni. Intanto il gruppo dei giovani si era ridotto per l’uscita dei compagni che facevano capo al circolo “Carlo Marx” e con difficoltà, dopo che tanti giovani comunisti erano andati nel 1970 a dirigere le istituzioni. Stavamo ricostruendo un gruppo qualificato che però a nostro avviso non era ancora maturo per quegli incarichi. Portammo, a dimostrazione della nostra volontà di far loro spazio, il lavoro preparatorio ed il fatto che nel 1971 a Terni avevamo candidato a segretario della federazione il giovane Claudio Carnieri, che avevamo ampiamente rinnovato il gruppo parlamentare, che la segreteria della federazione perugina era fatta di giovani40. La politica ha i suoi lati strani: mentre a Perugia mi veniva imputata una scarsa attenzione alle nuove leve, come membro del comitato centrale la direzione del Pci mi aveva mandato a seguire a Rieti il congresso provinciale e, come risulta dalle brevi relazioni che poi feci


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alla direzione del partito, riuscii a dare coraggio, unità e rinnovamento ad un partito che era in crisi. Segretario della federazione di Rieti fu eletto il giovane Proietti, che poi sarà parlamentare. Non solo. Era quello un periodo in cui seguivo con particolare attenzione quello che avveniva nel mondo cattolico. In uno scritto su Cronache Umbre del marzo 2005 Claudio Carnieri fa notare come le mie posizioni anticipassero gli articoli di Berlinguer sul “compromesso storico”41. In quel periodo stavo inoltre lavorando intensamente per dare al partito uno strumento di informazione che fosse all’altezza dei tempi e che stimolasse il dibattito all’interno della società regionale. Dopo lunghe discussioni e la ricerca dei mezzi finanziari per far vivere un giornale, nel dicembre del 1972 usciva nelle edicole il numero zero di “Cronache Umbre” tipo rotocalco, che prima come quindicinale e poi come settimanale, per alcuni anni fu una palestra per un vasto gruppo di giovani giornalisti e rappresentò quanto i comunisti nel partito e nelle istituzioni stavano discutendo ed attuando. A dirigerlo fu chiamato il giovane Renzo Massarelli che si dimostrò all’altezza della situazione42.

Non si colse l’essenziale Questi fatti non furono sufficienti. Il dibattito sull’urgenza del ricambio non colse l’essenziale anzi lo negò ad una discussione che era urgente nel partito ed a mio parere le conseguenze furono serie. In quel momento io e Nicchi, pur continuando a sostenere con forza che ancora i tempi per la promozione a Perugia dei giovani non erano maturi, ci dimettemmo, e solo su invito del partito restammo per preparare la conferenza regionale del partito, che si tenne poi nell’aprile del 1973. Fu in quella sede che rinunciammo ai nostri incarichi. Perché sebbene convinti delle nostre tesi non demmo battaglia? Eppure il compagno Di Giulio, che aveva seguito i lavori di preparazione della conferenza regionale per conto della direzione del Pci, poco prima che questa avesse luogo, in un incontro alla presenza del


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segretario della federazione di Terni Claudio Carnieri, aveva insistito per una nostra permanenza negli incarichi che avevamo. Oggi, per quello che mi riguarda, posso dirlo: sicuramente per un malinteso senso della unità del partito. Allora aprire un discussione sulle nostre persone pensavamo potesse servire solo a rompere l’unità del gruppo dirigente, in presenza poi di una presa di posizione negativa nei nostri confronti di colui che da anni con successo, aveva presieduto di fatto la vita del partito in Umbria, cioè Pietro Ingrao (va sottolineato che era metodo di lavoro della Direzione del Pci affidare ai vari compagni del massimo organismo la supervisione delle diverse regioni). Oggi posso confessarlo: mi dimisi anche per orgoglio, ma di questo non posso fare autocritica perché anche esso ha contribuito a guidare nel suo lungo cammino la mia vita. Di fatto il 9 aprile del 1973, mio 51° compleanno, terminai il mio compito di segretario regionale e divenni un libero battitore, funzione che mi era molto più congeniale. Anche Nicchi si dimise, l’avevano dovuto considerare vecchio a 42 anni quando invece le motivazioni reali erano ben altre: si trattava concretamente di quale iniziativa e autonomia dovesse godere il partito davanti ad una così vasta ed autorevole presenza nostra nelle istituzioni della regione.


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Rimanemmo Provincia La mia ansia Un passo avanti, due indietro! Un problema irrisolto Un attacco brutale L’aria era cambiata Apriamo l’ospedale “Silvestrini” Chi doveva dirigere le Usl? L’ospedale e gli uomini Incontro Natta La sinistra in crisi Dopo la caduta del Muro Ed io? E l’Umbria? E il mondo?


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Rimanemmo Provincia Alcune considerazioni prima di affrontare il periodo che va dal 1973 al 1990. Ingrao arrivò in Umbria come candidato alle elezioni politiche del 1958. Ho già detto come poi per tutti gli anni a venire seguisse con particolare cura i problemi dell’Umbria. In “Cronache Umbre” del novembre 1958 scriveva: “Spetta alla classe operaia e alle masse lavoratrici di porre oggi le rivendicazioni dell’Umbria come problema del posto dell’Umbria nella nazione, della funzione che l’Umbria ha da assolvere e chiede di assolvere in una Italia moderna, di ciò che l’Umbria non solo ha da chiedere, ma può dare all’Italia”. L’Umbria con le sue iniziative e lotte tra il 1944 e gli anni ‘70 ha assolto a questo compito cui la chiamava Ingrao? Già dall’inizio degli anni ‘50 il Pci e, più in generale, le sinistre e la Cgil con la lotta per la rinascita regionale avevano iniziato a trasformare l’Umbria da una espressione soltanto geografica, fatta di tanti campanili, in una nuova realtà economica e politica unitaria. Già si lavorava a saldare le campagne alle città, gli operai ai ceti medi urbani, ad andare oltre gli steccati della politica nazionale per trovare in tutte le forze democratiche gli stimoli per far uscire la regione da quel rischio di meridionalizzazione che si poteva produrre con la chiusura dei grandi impianti della Terni e con l’inizio della fuga dalle campagne. Nel 1958 già si era avviata la lotta per conquistare l’Ente regione. Il contributo fortemente positivo di Ingrao si sentirà negli scioperi generali, nella discussione unitaria in Parlamento sull’Umbria, poi in tutta la vicenda politica umbra negli anni a venire. Non si trattò soltanto di una battaglia attorno ai problemi della economia regionale. Nel 1958 Giancarlo Menotti inventa un festival di carattere internazionale, ma la sua attuazione è possibile perché, in una città ricca di storia e di monumenti come Spoleto trova una sponda nella sinistra ed in particolare nel sindaco comunista di quella città Gianni Toscano. Il “Festival dei Due Mondi” farà di Spoleto, ed anche dell’Umbria, un centro della cultura e dell’arte mondiale, ed il festival sarà in alcuni momenti cassa di risonanza delle grandi lotte dei minatori in difesa della occupazione. Nel 1961, per iniziativa di Aldo Capitini, ha luogo nei 27 chilometri del


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percorso Perugia-Assisi la prima Marcia della pace in Italia. Essa raccoglie una parte significativa dell’intellettualità italiana e mondiale e riesce ad avere una grande eco perché vede, ecco il fatto nuovo, la partecipazione di una massa grande di gente. Sono in larga parte operai e contadini militanti della sinistra umbra e del Pci in particolare. In quegli anni dal niente le sinistre in Umbria daranno vita ad una forte attività nella cooperazione di trasformazione dei prodotti agricoli (poi, con la regione la cooperazione si allargherà in modo decisivo nei settori dell’agricoltura, del lavoro, del consumo). Tra il 1960 ed il 1963 sarà varato il “Piano regionale di sviluppo”. Caso unico in Italia, costruisce una piattaforma regionale di sviluppo economico e sociale, ed alla sua elaborazione contribuiscono tutte le forze democratiche. Negli anni poi della massima estensione del centro-sinistra in Umbria (ma anche di un continuo recupero della unità delle sinistre i cui risultati si vedranno dopo le elezioni del 1970) avremo la modernissima battaglia politica ed ideale contro quella istituzione repressiva che erano i manicomi. Chi è venuto al Pci con la grande onda del 1968 e ‘69 ha avuto il compito ed anche il dovere, proprio delle forze giovani, di criticare l’attività di chi li ha preceduti, ma da quel periodo è rimasto affascinato e quel periodo resta come una base solida per ogni futuro della politica delle sinistre in Umbria. Non è stata l’iniziativa politica delle sinistre un adagiarsi sulla linea nazionale, salvo piccole uscite, come dei giovani compagni hanno detto leggendo quella esperienza di una generazione che ha lottato per venti anni contro il fascismo e di quella della resistenza, ma una politica creativa sui grandi temi della pace, dello sviluppo economico, della cultura, della battaglia per dare modernità ai costumi nazionali. Una capacità che nel 1963 aveva colto Togliatti, ma a cui mancò il tempo per più significativi sviluppi. Cosa mancò negli anni ‘70? A mio parere mancò la possibilità di trasferire sul piano nazionale alcuni valori della esperienza umbra. Si trattava forse di accelerare oltre ogni limite politico il passaggio della direzione politica alle nuove generazioni tenendo anche in conto che quelle di mezzo, cioè nate negli anni trenta, erano insufficienti a


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coprire i ruoli che derivavano dai nuovi compiti. Sicuramente, sempre a mio parere, si apriva l’urgenza del passaggio di alcuni dei quadri, del gruppo che aveva conseguito quei risultati, a livelli di direzione nazionale. Qualche tentativo ci fu, ma sempre in subordine, mai in primo piano43. Sì, mi pare che ci fosse da scegliere. Qui il limite della mia direzione. Dovevo dare battaglia, lavorare per affermare che avevamo, sul campo, meritato di partecipare al lavoro del gruppo dirigente centrale del Pci. Purtroppo il quadro umbro non è stato promosso, i suoi santi in paradiso non sono stati sufficienti. Eravamo una piccola regione, rimanemmo soltanto una “provincia” dove senza rischiare si era sperimentato, e proprio per i suoi limiti di piccola regione non ci fu bisogno di dichiararne neppure eventuali eresie. Larga parte di quel gruppo dirigente si è poi rinchiuso nel piccolo recinto regionale divenendo sempre più marginale. Qualcosa deve essere cambiato negli ultimi anni nella selezione nazionale dei quadri se Katia Bellillo ha potuto fare l’esperienza di ministro, se Marina Sereni è nella segreteria nazionale dei Ds, se Stefano Fancelli è divenuto presidente nazionale della Sinistra Giovanile.

La mia ansia Nei primi anni ‘70 il partito vedeva crescere la sua influenza in Italia ed anche in Umbria. In Umbria ormai erano migliaia i giovani operai, studenti ed intellettuali che si iscrivevano alla Fgci ed al Pci, che partecipavano alle molteplici iniziative politiche. Avevamo avuto, nel corso degli anni ‘60, molte iniziative di solidarietà con i popoli in lotta, anche perché a Perugia le due Università ed in particolare la Università per Stranieri attiravano studenti da tutto il mondo e questa presenza ci metteva in contatto con la vita di quei popoli. Gli studenti greci presenti a Perugia ci fecero vivere da vicino il dramma del colpo di stato dei colonnelli del 1967. Gli studenti arabi ci proposero i temi della lotta del popolo palestinese. Negli anni ‘70 avemmo le grandi assemblee alla sala dei Notari contro la dittatura di Pinochet in Cile, le manifestazioni con gli “Intillimani” e quella con Luis Corvalan segretario del Partito comunista cileno.


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Sulla base della crudele esperienza cilena nel novembre 1973, Berlinguer propone una linea di unità con tutte le forze democratiche, linea che andrà sotto il nome di “compromesso storico”, cogliendo una situazione che stava maturando anche all’interno della Dc con Aldo Moro. Così si preparava la grande vittoria elettorale del Pci del 197644. Torniamo all’Umbria. Liberatomi del pesante fardello della direzione regionale del Pci, non mi siedo ma continuo a lavorare con lo stesso impegno di prima. Nell’autunno del 1973 prendo parte attiva alla campagna elettorale amministrativa che si svolge a Gubbio. Con i compagni di questa città lavoro alla sua impostazione. È durante una riunione per preparare l’inserto di “Cronache umbre” su Gubbio che troviamo la parola d’ordine che guiderà la campagna elettorale. Gubbio aveva vissuto un periodo nero della sua economia ed era stata la rappresentazione più vera delle “città del silenzio”, come Gabriele D’Annunzio aveva chiamato le città umbre. Ora invece qualcosa si muoveva e, contro una Dc che già gridava la miseria di Gubbio e le responsabilità della amministrazione uscente di sinistra, proponemmo come tema centrale della campagna elettorale “il decollo di una città” cogliendo in tutta la nostra propaganda elettorale i segni di un risveglio dell’economia eugubina. Non si vincono le battaglie senza “idee forza” a cui riportare il complesso delle cose che affermiamo. A Gubbio vincemmo, ma io non partecipai alle ultime battute. Uno degli ultimi giorni della campagna elettorale, mentre salivo le scale del Comune, m’ero dovuto sedere sugli scalini, la testa mi girava ed il cuore andava a mille. Presi la macchina e andai all’ospedale di Umbertide. Allora era primario Germano Marri. Mi visitò e mi accompagnò al reparto cardiologico dell’ospedale di Perugia, dove il professore Pasquale Solinas mi mise in terapia intensiva e, dopo una settimana, mi consigliò di andare a trovare al Cim di Perugia Carlo Manuali, il bravo psichiatra cui ho già accennato. Si trattava di uno stato d’ansia e di una fase di depressione. La fatica, talvolta amara, dell’ultimo periodo aveva silenziosamente scavato. Ero convalescente quando scoppiò la guerra del Kippur e la crisi del petrolio che la domenica fece riscoprire a tutti gli italiani il piacere delle strade libere dal traffico automobilistico ed in cui dovevi muoverti a piedi, in bicicletta e i più fortunati a cavallo.


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Lo devo a Carlo Manuali ed alla sua pazienza di ascoltarmi se nel giro di pochi mesi riuscii a venirne fuori ma, come sa chi per la depressione è passato, ogni tanto l’amarezza risale inavvertita e ci vogliono molti calmi ragionamenti per cacciarla.

Un passo avanti, due indietro! Ripresi tuttavia rapidamente a interessarmi con passione del mio lavoro di consigliere regionale e dell’attività di propaganda ed informazione del partito e partecipai attivamente alla battaglia sul divorzio. Per la Regione preparai un riuscito convegno a Norcia nel 1974 sui problemi dell’informazione in Umbria, dal quale uscì anche un progetto di legge regionale che, debbo dire, non riuscì mai a divenire legge. Svolsi una certa attività per “Cronache Umbre”45. Nella primavera del 1974 partecipai alla costituzione e poi alla prima fase dell’attività del Cicom (Centro informazione e comunicazioni di massa). Soci fondatori il comune di Perugia e la Provincia, primo presidente Giovanni Mancini46. Intanto il Comune di Perugia aveva avviato un corso per operatori di video-tape e di altri audiovisivi. Un anno dopo, per incompatibilità, io diedi le dimissioni dal consiglio di amministrazione. L’attività del Cicom finirà purtroppo rapidamente, ma sicuramente rappresentò un momento essenziale per la formazione di operatori umbri della informazione ed in particolare della televisione. Negli anni ‘70 prenderanno il via prima le radio locali, come “Radio Umbria” dove furono attivi Fausto Belia ed un gruppo di giovani. Poi, per la determinazione di Gino Galli, nascerà “Umbria Tv”. La mia attività nel settore della informazione continuerà anche dopo che nel 1975 fui rieletto consigliere regionale. Tra l’altro collaborai alla impostazione dei telegiornali di “Umbria Tv” i cui programmi inizieranno con un gruppo di giovani compagne47. Per sollecitazione di Galli conduco due rubriche. La prima, un commento a fatti politici del giorno, dal titolo “La finestra”, che andava in onda all’ora di pranzo e che durava appena tre minuti, nello stile copiava un po’ la rubrica che nella Tv nazionale curava Giuseppe Fiori. Durò


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per circa un anno finendo, all’atto della mia nomina a presidente della Usl. Ho conservato i testi di quelle trasmissioni e poco tempo fa li ho riletti con piacere. La seconda rubrica che conducevo era un dibattito tra due esponenti politici che aveva per titolo “Senza rete”. Intanto nel 1975 ancora una volta avviene un avvicendamento ai vertici del comitato regionale e della federazione di Perugia. A sostituire al regionale Raffaele Rossi torna da Roma Gino Galli, segretario della federazione al posto del giovane Giampaolo Bartolini è eletto Francesco Mandarini che alla “Perugina” e poi nel consiglio regionale aveva fatto notevoli e positive esperienze e che appariva maturo per quell’incarico. Anche la giovane segreteria della federazione viene ricambiata ed alla guida della organizzazione tornerà Bruno Nicchi, che conosce il partito come le sue tasche. Mi piace affermare che anche io fui tra quelli che vollero il ritorno di Nicchi. In occasione del Congresso del Pci del 1975 cessa la mia attività di membro del Comitato centrale cui avevo avuto l’onore di far parte negli ultimi anni.

Un problema irrisolto Nelle elezioni politiche del 1976 Pietro Conti fu candidato al Parlamento italiano e per questo dovette rinunciare alla presidenza della giunta regionale dell’Umbria, cui era stato rieletto dopo le regionali del 1975. Si disse allora che il Partito voleva in parlamento uomini che avevano fatto una brillante esperienza regionale come Pietro Conti in Umbria, Fanti in Emilia, Carossino in Liguria. Una spiegazione questa vera ma che non persuase né l’interessato né una parte del partito. C’era dietro una visione diversa relativamente ai luoghi della politica ed i dirigenti di allora, Galli e Mandarini, scrivendo belle e giuste pagine sul superamento del primato del partito, nei fatti puntavano a ristabilire un riequilibrio tra la direzione politica delle amministrazioni locali, il cui vertice era la regione, e quella di un partito che in quegli anni aveva vissuto prima una crisi per il travaso di tante forze verso la pubblica amministrazione ma che poi, attraverso un ampio reclutamento, stava superando quel momento e voleva riaffermare una sua libera e precisa identità.


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Tornava a riproporsi il problema della autonomia del partito rispetto alla autonomia della regione e degli enti locali, tuttavia anche questa volta come nel 1973, purtroppo, non divenendo momento di una franca discussione, restava motivo di malintesi e malumori (doveva essere una questione seria se nell’ultimo congresso dei Ds il segretario regionale ha voluto ribadire il “primato della politica”. Solo che ora il dibattito avviene alla luce del sole mentre allora, per una vecchia abitudine, riguardava soltanto ristretti gruppi dirigenti). Ed il dibattito odierno a me pare molto utile dove miri davvero a superare una tendenza che appare fin troppo chiara e cioè il rischio che il partito divenga un trampolino personale di lancio per la conquista di una nomina a consigliere di un qualsiasi ente pubblico, visto come punto massimo del successo personale, rischiando di capovolgere il modo di vivere il partito politico. Si pensi che nel 1952 il compagno Gino Scaramucci, che allora dirigeva la zona Foligno-Spoleto, ritenne che il partito, eleggendolo presidente della amministrazione provinciale, volesse emarginarlo! Vale l’esempio di Gino Galli cui fu proposto più volte di divenire dirigente di pubbliche amministrazioni ed anche parlamentare: ha sempre rifiutato per dedicare tutta la sua vita alla diretta attività del partito. E merita ricordare la fatica che assieme a Remo Valenti feci per convincere il contadino Quinto Pecorari a divenire sindaco di Sangiustino.

Un attacco brutale Pietro Conti fu eletto deputato. Subito dopo le elezioni, vi fu un brutale attacco a quella che era stata la sua politica alla regione relativamente ad un presunto clientelismo. Un attacco concentrico che dal Msi, a parte del Psi, alla Cisl, a certa stampa fascista di carattere nazionale, arrivava sino a qualche comunista. Durava da settimane questa campagna senza che vi fosse una presa di posizione ufficiale del Pci. A quel punto mi alzai in consiglio regionale e difesi l’operato di Conti. Non si poteva, senza reagire, subire l’attacco ad un compagno profondamente onesto che aveva dato molto all’istituto regionale, anche a rischio della


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propria malandata salute. La sera mi telefonò Pietro Conti per ringraziarmi ed io gli dissi: “Pietro, l’ho fatto perché l’ho sentito un mio dovere”. Il mio intervento ebbe la forza di far cessare subito e completamente la campagna diffamatoria. Ancora oggi sono convinto che la politica deve essere fatta con il cervello, ma anche con il cuore. Diversa fu la vicenda della mia elezione a presidente del Consiglio regionale. Nel 1976, con un Pci nazionale che si avvicinava all’area di governo, s’erano intensificati i rapporti con la Dc ed il Pci ora puntava ad eleggere presidente del Consiglio regionale non più un uomo della maggioranza ma uno della minoranza, un democristiano. Ne nacque un braccio di ferro con i socialisti, che non volevano rinunciare a quella presidenza che sin dal 1970 era stata retta da Fabio Fiorelli, una personalità molto forte e capace. Infine, per la irriducibilità delle posizioni, si convenne di eleggere provvisoriamente un comunista. Così, nel 1977, fui eletto “provvisoriamente” presidente e contro ogni aspettativa durai per tutto un mandato, cioè esattamente un anno. Dopo di me venne il repubblicano Arcamone, segno di un superamento delle tesi estreme. Sotto mio impulso, il consiglio regionale mise in programma un incontro “esercito-ex partigiani” che avvenne poi nell’autunno del 1978 e che il nuovo presidente Arcamone mi lasciò guidare sino alla sua conclusione, naturalmente con l’aiuto di un piccolo ma efficiente gruppo di funzionari, in larga parte formato da donne. Fu una grande magnifica manifestazione di carattere nazionale alla quale partecipò la città e fu un momento nel quale molti giovani manifestarono la loro simpatia verso quella sfilata di migliaia di ex partigiani e volontari nei gruppi di combattimento e di quei reparti dell’esercito che avevano ereditato la gloria della lotta per la liberazione dell’Italia ancora occupata dai nazifascisti. Fatto importante in un momento difficile.

L’aria era cambiata Già all’inizio del 1977 l’aria per noi era cambiata. È del febbraio la dura contestazione al segretario della Cgil, Luciano Lama, all’università


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di Roma, mentre cortei si svolgono in varie città italiane all’insegna dello slogan “né con lo stato, né con le Brigate Rosse”. Al grido di “bebe-Berlinguer” tanti giovani alzano la mano destra con il pollice alzato e l’indice puntato come ad esprimere solidarietà alla lotta armata. In quei mesi feci una esperienza diretta di questo nuovo clima partecipando, come presidente del consiglio regionale, a diverse assemblee nelle scuole medie di Perugia. Il 25 aprile del 1978 il sindaco socialista di Bastia Umbra, Alberto La Volpe, mi invitò a partecipare ad una assemblea in teatro con i giovani. Trovai alla presidenza un giovane cantautore che io non conoscevo, ma che era già famoso tra i giovani e forse molti erano venuti soltanto per lui. Il dibattito perciò andava avanti stancamente, tutti aspettavano che Antonello Venditti cantasse. Lui, invece, era venuto per discutere di politica. Alla fine disse che avrebbe cantato una sola canzone ed attaccò con “Bomba non bomba arriveremo a Roma”. Io, intervenendo subito dopo, gli feci notare l’equivoco che si nascondeva dietro quelle parole e gli dissi: “un altro, bomba non bomba, marciò su Roma, ci rimase 20 anni e portò il paese alla rovina”. Venditti si congratulò con me per la franchezza. Il Pci dai risultati del 1976 aveva concluso che era maturo l’ingresso nell’area di governo ed una sua diretta partecipazione. A luglio di quell’anno, con la astensione del Pci e di tutti i partiti del centro sinistra, si varò il governo Dc di Andreotti. Ma cos’era accaduto, nel giro di pochi mesi, da determinare la rivolta di tanti giovani elettori contro il Pci? I tanti giovani che avevano votato a sinistra si aspettavano molto di più dal risultato elettorale, forse troppo ma, secondo me, subito dopo la vittoria del 1976 dovevamo con grande forza proporre un governo a direzione socialista cui noi avremmo dato l’appoggio esterno. Era immatura una simile proposta oppure era lo stato dei nostri rapporti con i socialisti che lo impediva? Il Pci continuò nella sua linea ed essa fu in parte raccolta, nel febbraio del 1978, da Aldo Moro che propose di includere il Pci all’interno della “maggioranza programmatica”, contro il parere palese degli Usa. Nel marzo del 1978 Moro verrà rapito, proprio mentre si tornava a votare il secondo governo Andreotti. Il terrorismo raggiunse il suo punto più alto, ma proprio da questo misfatto e poi


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dall’uccisione dell’operaio dell’Italsider Guido Rossa inizierà una sua rapida discesa. Vivo questo nero periodo della democrazia italiana come presidente del consiglio regionale e sviluppo tutte le iniziative in difesa della democrazia che il mio ruolo rendeva possibili. Sulla condotta da tenere per Moro le forze politiche si dividono. I socialisti sono per aprire una finestra alla trattativa, la Dc ed il Pci sono nettamente contrari. Lo Stato è salvo, ma la morte di Moro peserà nel futuro di una repubblica che già viveva una crisi profonda e la politica di Moro e di Berlinguer saranno sconfitte da una ripresa delle forze che vogliono escludere ancora i comunisti dal governo. Saranno i governi del “preambolo”del vecchio centro sinistra prima e del “CAF” poi, guidati da Craxi-Andreotti-Forlani, che condurranno il paese sino alla caduta dei partiti usciti dalla Resistenza e dalla cui disgregazione nascerà questa traballante seconda repubblica. Tuttavia negli anni ‘70 vengono fatti alcuni passi in avanti. I giovani conquistano il voto a 18 anni, sono varate le leggi per chiudere i manicomi e per la riforma sanitaria. Presidente della repubblica viene eletto il socialista Sandro Pertini. I comunisti si muovono con notevole iniziativa nel campo della politica internazionale e della vita dei partiti comunisti. Berlinguer tenta con i comunisti francesi e spagnoli di avviare “l’eurocomunismo”, realizza lo strappo da Mosca, afferma che la spinta propulsiva dell’Urss è esaurita e che si sta meglio sotto l’ombrello della Nato che sotto i regimi dell’Est. Per il carisma di cui Berlinguer gode sarebbe stato possibile allontanare definitivamente i comunisti italiani dal carro sovietico, ma gliene mancò il tempo. Non si pensi oggi che una rottura definitiva con l’Urss fosse impresa facile. All’inizio degli anni ‘80 contro la politica di Berlinguer di distacco dall’Unione sovietica si costituì una corrente diretta da Armando Cossutta e sostenuta dal Pcus. Cossutta venne alla sala dei Notari a spiegare le sue opinioni e, si noti bene, la Sala non era piena soltanto di giornalisti venuti da tutta Italia a sentire il dissidente o di curiosi, molti erano i compagni comunisti.


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Apriamo l’ospedale “Silvestrini” Nel 1980 esco dalla Regione e sono eletto al Comune di Perugia. Il partito mi chiama a dirigere la nascente Unità sanitaria locale di Perugia. Incarico che accetto sia per sperimentare un istituto nuovo, sia per provare un mestiere che ho fatto solo nel ruolo di consigliere, quello di amministrare in prima persona un ente pubblico. Sarà una esperienza tanto appassionante quanto difficile che durerà per cinque anni. Credo, in quella prova, di aver commesso notevoli errori, e per amore dell’unità delle sinistre di avere accettato alcuni discutibili compromessi, ma anche di aver portato a termine questioni che mi premevano particolarmente quali l’allargamento della democrazia, il potenziamento di alcuni reparti di medicina di altissimo livello ? trapianto del midollo ? ed infine di aver avviato a soluzione la vicenda dell’ospedale Silvestrini. Una vicenda travagliata perché la sua costruzione era durata venti anni e poi perché erano molti quelli che preferivano trasformarlo in una clinica dell’esercito Americano oppure in un albergo. Anche tra gli operatori sanitari vi fu chi mise in atto un’azione di contrasto che si espresse con aspri quanto assurdi comunicati, articoli sui quotidiani e denunce alla magistratura. Non ci si meravigli delle denuncie contro il presidente della Usl di Perugia. In quegli anni furono molte, fortunatamente tutte conclusasi bene per me. Fu quello un periodo che, nelle riunioni delle USL di tutta Italia a Roma, parlavamo della tempesta di denuncie che pesavano sulle spalle dei presidenti; credo che il presidente della Usl romana ne avesse alcune decine, non per reati infamanti ma per le disastrate strutture ospedaliere che le USL avevano avuto in eredità cui era impossibile rimediare in un breve lasso di tempo in mancanza di adeguati finanziamenti. La stessa agibilità e messa in sicurezza del Silvestrini richiesero una lunga trattativa con gli organi che dovevano garantire il rispetto delle norme vigenti. È da tenere in conto che la realizzazione dell’immobile era durata tanti anni, che le leggi in materia di sicurezza degli impianti erano profondamente cambiate e che per taluni impianti, come quello elettrico, si erano succedute più ditte e qualcuna era scomparsa o fallita, per cui era difficile ricomporre i tracciati


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dello stesso impianto. Fu di aiuto a superare quelle difficoltà il sindaco Giorgio Casoli. La difficoltà più grande riguardava la quota necessaria per il suo arredo, 12 miliardi di allora, e noi ne avevamo solo una parte e non potevamo per legge accendere mutui. Trovammo un sistema per avere credito dalle ditte appaltatrici per quegli 8 miliardi che ci mancavano. Nel giro di pochi mesi indicemmo le gare d’appalto e montammo tutti gli impianti, sale operatorie e cucine comprese. A metà del giugno del 1986 il Silvestrini fu inaugurato. Era l’ultimo atto della mia travagliata presidenza. Rinunciai a candidarmi ancora ed un giornale parlò di mio “gran rifiuto”. No. Dissi allora, celiando, che era la prima volta in vita mia che fuggivo davanti al nemico, e con gli amici festeggiai la mia uscita.

Chi doveva dirigere le Usl? Che gli organismi dirigenti non potessero andare avanti come la legge di riforma li aveva voluti fu dimostrato dal fatto che nel giro di poco tempo la legge cambiò profondamente la struttura delle Ulss e quindi anche dei suoi organi dirigenti. Si fece allora quello che si sarebbe dovuto fare nella fase di transizione, allorché era necessario portare i tanti istituti delegati ad operare nella sanità ed anche nell’assistenza, come la legge di riforma sanitaria prevedeva, ad una unica struttura, in una operazione estremamente complessa. In quel momento si trattava di mettere assieme e dare loro una dirigenza tecnica e sanitaria alle grandi strutture come gli ospedali, l’Inam (cioè il grande reparto della mutualità operaia), le piccole mutue ed i vari enti di derivazione nazionale. Allora ci sarebbe stato bisogno di una direzione unica per governare quel periodo ed invece furono varati “comitati di gestione” in cui erano presenti maggioranze e minoranze, soluzioni infelici in particolare in quel periodo in cui le amministrazioni navigavano, a seconda dei componenti il comitato, tra il centro sinistra nazionale e l’unità a sinistra. La nuova legge tagliò, con ritardo ed ormai fuori tempo, la testa al toro nominando un amministratore unico. Non potevo essere eletto io perché a quell’incarico si


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poteva accedere solo essendo laureati (non laureati soltanto in medicina o in economia) ed io laureato non ero. La democrazia italiana dimostrava di avere ancora bisogno di vecchi steccati e antiche corporazioni! Se si sa leggere e scrivere si può divenire sindaci, deputati, ministri, capi di stato ma non si può dirigere alcuni enti locali! Questo esempio vale anche per altri settori. In Italia, dove la libertà di stampa sta scritta nella Costituzione, non si può dirigere un giornale, una rivista, un qualsiasi foglio periodico locale se non si è iscritti all’albo dei giornalisti e non si ha il relativo tesserino.

L’ospedale e gli uomini Torniamo al tema. L’ospedale si era aperto per merito di quel comitato di gestione e mi piace sottolineare il contributo che allora diedero i componenti comunisti Alberto Goracci e Paolo Riccioni, come il grande contributo di alcuni funzionari ed in particolare quello del direttore sanitario Orfeo Carnevali. L’edificio era moderno e modernissimi furono arredamenti e impianti tecnici, in particolare le sale operatorie. Avevamo anche puntato su operatori di grandi capacità. Ed io sono convinto che il crescente successo del Silvestrini sia dovuto a quei medici che allora avviarono l’attività e in primo luogo al chirurgo Ugo Mercati per merito del quale l’ospedale godette subito di chiara fama48. Oggi vedo che quella battaglia ha portato quei frutti che allora, come in un sogno, io ed altri vedevamo: tutto l’ospedale di Monteluce si sta trasferendo al “Silvestrini” che diverrà, tra Firenze e Roma, il migliore e più moderno ospedale, con l’intera facoltà di Medicina e le relative cliniche. Mi si permetta una notazione personale. Avevo lasciato da tempo l’incarico di presidente della Usl quando mi feci visitare dal professor Ugo Mercati per una minuscola ernia. Il fatto si dimostrò più complesso e dopo una serie di esami seppi d’avere un tumore alla prostata. L’impatto con un tumore non è mai facile e non lo fu per me, la mattina che me ne fu data comunicazione. Quelli che seguirono


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furono giorni in cui mi passò davanti tutta la vita. La bella gioventù, gli anni della maturità venuti troppo presto con la guerra e poi questo eterno impegno politico. Sentivo di avere speso bene la mia vita, potevo passare sopra ai miei errori ed alle mie debolezze. E la famiglia? Ormai i figli erano anch’essi entrati nella maturità ed avevano formato le loro famiglie, mi dispiaceva non avessero raggiunto un traguardo che per me era stato impossibile: laurearsi, ma la scelta era stata loro o forse, ecco un mio rimorso, totalmente preso dall’attività politica in quegli anni per loro decisivi li avevo seguiti troppo poco? Inutile ora piangere sul latte versato, sono dei bravi cittadini e ciò è già molto. E Silvana, stiamo così bene assieme, dobbiamo lasciarci? Giunsi alla conclusione che anche questa era un’altra battaglia da combattere a testa alta. Iniziai con il dire alla mia famiglia che io volevo sapere tutto e la stessa cosa dissi a Ugo Mercati. Dopo pochi giorni, nel novembre 1991, mi ritrovai disteso in un letto di quella sala operatoria che avevo voluto modernissima: chirurgo il professor Mercati, anestesista il professor Gerardi. Grazie a loro ancora sono vivo, con il contributo di farmaci che impediscono alle cellule malate, che ancora possono esserci, di moltiplicarsi.

Incontro Natta Nel 1986, quasi del tutto libero da impegni amministrativi (sono solo consigliere del Comune di Perugia), vengo eletto presidente dell’Anpi provinciale, incarico che svolgerò per una decina di anni. Mi viene inoltre proposto dal partito di dirigere una nuova edizione di “Cronache Umbre”. Ci lavoro sopra con alcuni compagni ai fini del contenuto, della periodicità, del pareggio amministrativo. Cosa non facile poiché ogni volta che “Cronache Umbre” è scomparso dalla scena in primo luogo è stato per difficoltà finanziarie. Negli anni ‘50, come comitato regionale avevamo dato alle stampe un periodico che chiamammo “La nostra lotta”. Ne facemmo per alcuni numeri una larghissima diffusione che nella pratica risultò completamente gratuita. Il comitato regionale del Pci per questa iniziativa si indebitò sino al collo


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ed erano tempi difficili per le finanze del partito per cui con autoironia dicemmo che non si trattava di “nostra lotta” ma di “nostra botta”. Ora penso ad un mensile agile, con una impaginazione moderna e che, oltre i temi politici, guardi a quelli della società. I suoi inserti si apriranno poi alla musica, all’umorismo, alla poesia, al costume. La rivista sarà l’unica a presentare i bilanci in pareggio e merito particolare sarà quello della collaboratrice, signora Giuliana Bonanni, che curò la pubblicità. Fu condirettore Alberto Stramaccioni e segretario di redazione l’ottimo Sergio Capobianco. Numeroso il comitato di redazione. Collaborarono per la grafica artisti come Romeo Mancini, Lucio Manna, Wilma Lok, umoristi come Gal e Vergoni, poeti, scrittori. Gli inserti furono numerosi: due numeri uscirono su “Umbria Jazz”, un numero fu dedicato alle donne riproducendo una bellissima mostra che sull’argomento si era tenuta a Terni49. Un inserto, nel novembre del 1987, fu dedicato alla marcia della pace Perugia-Assisi che si era svolta ad ottobre ed alla quale aveva partecipato il segretario del Pci Alessandro Natta. Avevo conosciuto da vicino qualche anno prima Natta per aver partecipato con lui ad un congresso del partito comunista bulgaro. Una esperienza tutta particolare, non solo per il clima di estrema chiusura del dibattito, ma soprattutto perché Natta era tartassato dai dirigenti di quel partito che volevano la partecipazione del PCI ad un incontro internazionale dei partiti comunisti, incontro al quale noi eravamo decisi a non prender parte. Natta verso sera ci invitava ad una passeggiata (le mura avevano orecchi) per informarci dell’andamento dei colloqui ed infine giunse alla conclusione di partire prima della fine del congresso per tagliare la testa al toro. All’arrivo della Marcia della pace alla rocca che sovrasta Assisi, ci ritrovammo accanto seduti sullo scalino del palco eretto per i discorsi ufficiali. Ricordammo i giorni di Sofia e poi io gli chiesi come andava il partito. Era un periodo di duri contrasti interni, modestamente gli suggerii di far sentire con più forza la sua presenza. Purtroppo era un signore della politica ed alla prima occasione, una sua malattia, fu sostituito. Si disse di sua volontà. Forse quel cambio con le nuove leve era maturo ma in Natta la ferita rimase profonda, ed a me dispiacque molto.


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La sinistra in crisi Gli Usa negli anni ‘80 sono diretti dal conservatore Ronald Reagan e l’Inghilterra dalla reazionaria Margaret Thatcher. I paesi socialisti cercano di scrollarsi di dosso il giogo sovietico. La Polonia con l’aiuto del nuovo papa polacco Wojtila conquista l’indipendenza. Michail Gorbaciov tenta con decisione di aprire la strada alla democrazia ed alla autonomia piena dei paesi del cosiddetto “socialismo reale” e noi comunisti italiani apriamo di nuovo il cuore alla speranza. Una speranza che si dimostra effimera e che si conclude al termine degli anni ‘80 con la caduta del muro di Berlino e poi con la rapida fine dell’impero sovietico. Come comunisti italiani sentimmo le conseguenze del ritardo di un giudizio definitivamente negativo sui paesi socialisti, Urss in prima fila. Sapevamo molte cose ma ci illudevamo ancora. Abbiamo sbagliato. Molti anni prima avremmo dovuto affermare il nostro distacco non soltanto dal Pcus, ma da molti di quei principi che, di fatto, non condividevamo più, mancò il coraggio di una battaglia aperta all’interno del Pci contro ritardi e doppiezze che ancora vivevano e che poi si sono espressi dopo il 1989 con la rottura del vecchio Pci, con la formazione di partiti diversi. Allora i nostri avversari parlarono della “crisi delle ideologie” e intendevano crisi delle idee della sinistra, non di quelle della destra e del capitalismo. E, diciamolo, la crisi era vera e profonda e discendeva dal fallimento delle società del socialismo reale. Ma le idee, le grandi idee muoiono con la caduta dei regimi che hanno tentato di attuarle? Sono morti per sempre i grandi ideali della rivoluzione francese e quelli dell’ottobre russo? Rivoluzioni che divorarono i propri figli e che diedero vita la prima all’impero di Napoleone e la seconda alla terribile dittatura di Stalin? La storia riuscirà a cancellare mai quegli “assalti al cielo”? Nel momento della grande crisi delle idee della sinistra la Francia celebrava il bicentenario della Rivoluzione del 14 luglio 1789. Una molla interiore potente mi spinse a Parigi a quelle celebrazioni. Di fronte ad un mondo ancora profondamente ingiusto e crudele volli forse


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dire a me stesso che oggi più di ieri, correggendo i tragici errori, dovevamo alzare alti i nostri grandi ed umani ideali: Liberté, Egalité, Fraternité, aggiungendo ad essi la esperienza della “non violenza”. A questo punto con la caduta del muro di Berlino e la nascita del Partito democratico della sinistra e di Rifondazione comunista potrebbe finire il mio racconto. Ero partito con l’idea di dare un ordine al mio piccolo e personale archivio e mi trovo ad aver scritto un lungo racconto. Perché? Qualcuno mi ha molto sollecitato ed anche perché di una esperienza, la mia, seppure piccola resti qualcosa. Ho raccontate le cose così come le ho vissute e perché qualcuno non interpreti male i risvolti critici che verso alcuni compagni vi sono dentro voglio aggiungere qualche parola sulla mia generazione. Cari compagni d’una vita, anche voi che non ci siete più, quante franche discussioni e scontri politici e lotte condotte assieme e sempre tanta solidarietà e stima ed amicizia profonde. In particolare tu Vinci Grossi mi manchi, per la tua cultura, la tua indipendenza di giudizio con la quale amavo scontrarmi, con i nostri ritiri autunnali nella tua casa di Boccassuolo! Una vita è trascorsa, ma diciamolo, che vita! Degna davvero di essere vissuta.

Dopo la caduta del Muro In questi anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino molte cose sono cambiate nella vita delle persone e nella storia dell’umanità. In Italia in poco tempo sparirono tutti i partiti di governo ad iniziare dalla Dc per finire al Psi. Alcuni dicono che a spazzare quei partiti fu il vento di “mani pulite” ossia l’intervento drastico della magistratura sulla corruzione dilagante. Ma io non sono di questo parere, semmai “mani pulite” fu la conseguenza di una profonda crisi politica che attraversò il paese. E mi spiego. La causa principale di quel crollo fu la fine dei paesi comunisti ed in primo luogo dell’impero sovietico: non c’era più bisogno dei partiti che facessero “diga” contro il comunismo. Anziché per la “corrotta” Dc si poteva votare “Lega Nord” e,


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poi, “Forza Italia”. La richiesta saliva in primo luogo dai vecchi e nuovi ricchi dell’Italia del Nord e le parole d’ordine che gridavano erano sì quelle contro la corruzione (Roma ladrona), ma l’obbiettivo era la fine delle mediazioni sociali della Dc e del Psi, per instaurare un regime che, attraverso i condoni fiscali ed edilizi, desse inizio ad una nuova era di totale libertà dove, ridotte al minimo le spese sociali dello stato, finalmente si potessero ridurre quasi a zero le tasse, e si potesse avere mani libere nell’edilizia come nel sistema creditizio. Questo spiega la nascita di “Forza Italia” (gennaio 1994) e la sua rapidissima crescita. Nel giro di qualche mese, alle elezioni politiche (marzo 1994), si passò, da una situazione che dava come vincente, di fronte allo sfacelo dei partiti governativi, la sinistra ed i suoi alleati, alla vittoria della alleanza di centro destra ed alla trionfale affermazione di “Forza Italia”, partito di un industriale cresciuto all’ombra del potere. Come operarono in quel periodo quelle che erano state le forze di opposizione alla Dc ed ai suoi governi? Poiché abbiamo detto di Berlusconi e del suo partito, vediamo come si atteggiarono le due forze che con maggiore determinazione avevano lottato contro i governi Dc, cioè il Msi e la “Lega Nord”. Il Msi a Fiuggi rigettò, in parte solo formalmente, il passato e le sue teorie antidemocratiche e si schierò con il centro-destra. Anche la Lega, che per le sue idee di rottura dell’unità nazionale era agli antipodi rispetto al Msi (già nel 1994 si era ribattezzato “Alleanza Nazionale”) si schierò con Berlusconi. Il Pci, prima con il discorso di Occhetto alla “Bolognina” (1989) e poi con il congresso di Rimini (gennaio 1991), ruppe definitivamente con il Pcus e cambiò, assieme al suo storico nome ed alla sua bandiera, anche la prospettiva, liberandosi da ogni suggestione rivoluzionaria per un terreno socialdemocratico. Già dai tempi di Berlinguer il Pci aveva iniziato a stabilire rapporti fraterni con i vari partiti socialdemocratici europei. Una rottura, quella di Rimini, tanto profonda con il passato da determinare una scissione e la nascita di un partito nuovo alla sinistra del Pci, il partito della “Rifondazione comunista”. La vittoria del centro destra durò pochi mesi. Sotto l’incalzare della protesta sindacale la Lega si staccò e ciò consentì di dare vita a quel governo, che la destra considerò illegittimo e che chiamò spre-


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giativamente del “ribaltone”. Quel governo durò sino alla sua regolare scadenza (1996). Nel frattempo era sorto uno schieramento di centro sinistra, L’Ulivo, che con l’adesione critica del partito della Rifondazione comunista (la desistenza) vinse le elezioni. Il suo leader, il cattolico Romano Prodi, divenne presidente del Consiglio dei ministri. L’Ulivo al Senato ebbe la maggioranza da solo, mentre alla Camera la maggioranza era possibile solo aggiungendo i seggi di Rifondazione. Dopo tre anni, ed una politica che stava risanando le finanze tanto da rendere possibile l’ingresso dell’Italia nell’area dell’Euro, il voto contrario di una parte di Rifondazione determinò la caduta di Prodi. Ancora una volta, il passaggio di una parte del centro destra (il gruppo di Cossiga) a sinistra, rese possibile il governo di Massimo D’Alema prima e quello di Giuliano Amato poi. Sia il governo D’Alema che quello di Amato si mossero dentro una fase di crescente ostilità di una parte notevole del paese, una parte che manifestava segni evidenti di scontento e che riteneva possibili nuovi grandi passi in avanti della economia italiana, sotto il segno di una grande liberalizzazione, e, quindi, un deciso miglioramento della propria condizione civile ed economica. Nelle elezioni amministrative e poi in quelle politiche del 2001 si ebbe la vittoria di un centro- destra che aveva saputo delineare nella sua propaganda la possibilità di un nuovo “miracolo economico”, posti di lavoro per tutti e, per gli anziani, più ricche pensioni. Alla fine della legislatura, con il suo peso schiacciante la maggioranza parlamentare, cioè il centro-destra, ha potuto fare tutte le leggi che ha desiderato. Sino a cambiare a colpi di maggioranza nel profondo la Costituzione e la legge elettorale. I risultati del centro-destra sono sotto gli occhi di tutti. Il “miracolo” non c’è stato, anzi c’è stata prima stagnazione economica ed ora crisi. Lasciando mano libera alla speculazione sull’euro il governo ha prodotto il più grande passaggio della ricchezza dalle mani del 90% della popolazione (operai, contadini, impiegati, pensionati, giovani, ceto medio-basso) a quelle del 10% (antichi e nuovi ricchi, ceto medio alto). Da ciò una riduzione dei consumi popolari ed una crescita elevata degli acquisti di beni di lusso, come costosissime auto e belle barche.


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Ed io? Fatte queste poche considerazioni, vediamo ora come mi sono ritrovato di fronte a tanti mutamenti. Per la mia visione politica fu facile aderire al Pds e, attraverso quei tentativi di allargamento del partito ad altre forze, che furono la “Cosa 1” e la “Cosa 2”, ai “Democratici di sinistra”. Termine che nel tempo sarà letto in due modi diversi dai vari dirigenti. Come via socialdemocratica, oppure come avvio della formazione di un grande partito democratico, incontro di tutte le aree laiche con quelle del cattolicesimo sociale. In una intervista mi fu chiesto come stessi dentro a questo nuovo partito ed io risposi “scomodo”50. Neppure oggi ho capito perché assieme all’autocritica, circa il nostro ritardo nel distaccarci dall’esperienza dell’Unione sovietica, si dovesse nella sostanza annullare tutto quel grande patrimonio rappresentato dalle lotte, dalle sconfitte, ma anche dalle vittorie, delle forze più avanzate della società italiana (comunisti, socialisti e mondo cattolico). Tese ad affermare la democrazia ed a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse popolari. Era un patrimonio che andava recuperato, che oggi potrebbe servire per battere definitivamente il polverone anticomunista che si cerca di gettare addosso non solo alle forze di sinistra ma persino a quelle più moderate che si schierano con la sinistra. Forse da quella rimozione errata del passato è dipeso anche l’allontanamento di molti dirigenti. No, non c’è stato alcun “alto là”, piuttosto una dimenticanza, un far finta che noi un po’ più anziani non c’eravamo più, una assenza che sembrava non voluta, ma piuttosto reale. Ho accettato tutto questo con dolore. Potevo negli scorsi anni dare di più, e non per fare concorrenza alle nuove leve. Sapevo che il ricambio di generazioni è un fatto fisiologico e necessario. Con questo non me ne sono stato in questi lunghi anni con le mani in mano, ed anche questo mio lungo racconto vuole riportare alla luce momenti noti e meno noti del nostro passato ricco di contraddizioni come di motivazioni ideali. Sino al 1992 ho continuato a dirigere “Cronache umbre”, così come ho continuato per alcuni anni ad essere presidente dell’Anpi provinciale di cui ancora sono membro del diretti-


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vo. E, pur molto in là con gli anni, come Anpi cerchiamo con iniziative rivolte ai giovani di ricordare i drammi del nostro passato ed il valore della libertà e della Costituzione nata dalla Resistenza. Per le esperienze anche recenti che ho vissuto posso affermare che i giovani vogliono sapere e che troppo spesso siamo noi e la scuola ad avere paura di dir loro la cruda verità di quel secolo e delle sue enormi tragedie. Ho anche continuato a scrivere qualcosa sull’esperienza partigia51 na . E sono stato attivo, alla base, nel campo del volontariato, insomma se le forze calano e ti impediscono di correre i tempi della politica, resta questa una grande passione assieme alla speranza di un mondo migliore.

E l’Umbria? In questi anni nelle elezioni il maggioritario, come del resto su scala nazionale, è prevalso. Sindaci e presidenti sono stati eletti direttamente e quindi hanno avuto più potere. Di conseguenza, ma non obbligatoriamente secondo me, le assemblee consiliari hanno visto diminuito il loro ruolo. Che questo accada però dipende dalle capacità e dalla autorevolezza di sindaci e presidenti. In Umbria il centrosinistra ha continuato a dirigere la Regione, le due Province e la grande maggioranza dei Comuni. La politica parla di un’Umbria che deve guardare al futuro, deve fare “sistema”, “squadra” per potere, nelle nuove condizioni, avanzare. Di fatto l’Umbria ancora oggi cammina sul profondo solco tracciato negli anni trascorsi, mentre la “innovazione”, se c’è, sembra inferiore ai nuovi tempi dettati dal mercato globale. Che fare? I progetti ed i sogni sono molti non sempre riconducibili ad unici disegni ed anch’io godo dei miei sogni, figli anch’essi del passato ma desiderosi di novità. Un mio sogno ricorrente? L’energia. Se essa manca, o scarseggia, od ha costi altissimi arresta lo sviluppo. Ebbene, sento tanto parlare di fonti pulite, di eolico, di trasformazione di prodotti della terra in gasolio, ma troppo poco di energia idrica. Io vedo l’Umbria come un grande catino. Dalle tante pieghe delle sue costole scendono nella


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valle umbra del Tevere tanti torrenti ed alcuni fiumi. Una volta quando ancora non si conosceva l’elettricità, quei torrenti prima a monte, poi in collina ed infine a valle venivano sfruttati per dare acqua ai molini. Una piccola diga, un “bottaccio”, e l’acqua lavorava a monte, poi nei colli ed infine in pianura prima di gettarsi nel Tevere che tutto raccoglieva e che portava, come oggi, le sue acque verso la capitale e nel mar Tirreno. Oggi essa è sfruttata solo dalle grandi dighe sul Tevere di Montedoglio, di Corbara e poi dalla diga alle porte di Roma. Inoltre dalla cascata delle Marmore. Quante centraline e centrali, oltre alla erigenda diga di Ponte San Giovanni, potrebbero costruirsi su tutti i fiumi umbri? Quanta energia potrebbero produrre? È un sogno o potrebbe essere domani una grande inesauribile ricchezza per l’Umbria? E sull’industria il mio sogno non vede ancora soluzioni. Come si fa a fermare, senza leggi nazionali, le multinazionali che comprano aziende in salute per chiuderle, oppure le comprano per portare via brevetti e macchinari? E ancora: “fare sistema”, ma per quali obbiettivi? Per “delocalizzare”, come si dice con questo termine bruttissimo quando si tratta di trasferire in Romania od in Cina la produzione, oppure per unire aziende, Università e Regione per ricercare ed innovare le produzioni? Ce n’è di battaglie da fare per questi tanti giovani precari o addirittura licenziati! Infine un altro sogno. Non vedo la superstrada E45 trasformata in autostrada: aiuterebbe più di oggi soltanto a riempire la valle del Tevere di gas dei TIR. Vedo invece nel mio sogno una ferrovia che dalla valle del Tevere a Città di Castello biforca ed un ramo va ad Arezzo ed un altro, il più importante, quello che dovrà trasportare i TIR che risalgono l’Umbria, verso la Romagna e l’est europeo. Altri sogni si potrebbero fare, e forse molti di noi li fanno, per l’agricoltura e per il turismo, quello delle città e quello agreste. I miei preferisco lasciarli nel cassetto.

E il mondo? Un mondo, questo nostro, che si muove con rapidità, ma dobbiamo sapere che non si trasforma in meglio senza passione e lotta poli-


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tica. Oggi un paese con 280 milioni di abitanti, si dice “democraticamente”, ma con la “guerra preventiva” e con i carri armati (come in Irak) e con 800 basi militari sparse in tutto il pianeta, pretende di dirigere il mondo. Ma quale mondo ci aspetta? Già appaiono all’orizzonte potenze come la Cina e l’India con due miliardi di abitanti e con giganteschi passi avanti nelle più sofisticate tecnologie. Anche l’Europa ricerca con la sua Comunità una strada per far pesare di più i suoi, già oggi, 400 milioni di abitanti e le sue possibilità tecnologiche pari a quelle americane. Dove va questo mondo che vede un miliardo di persone consumare più degli altri 5 miliardi? I problemi della pace, della soluzione pacifica dei conflitti tra gli stati, dell’uso delle fonti di energia, della vivibilità del pianeta Terra sono i problemi che già oggi dobbiamo affrontare, senza steccati ideologici, religiosi e politici, ma con grandi aperture, per un graduale superamento delle crescenti difficoltà. Oggi la scienza e la tecnologia hanno ampiamente superato la capacità dei popoli e delle loro classi dirigenti, cioè della politica, di saper utilizzare a fin di bene l’enorme ricchezza che esse ci propongono. Dobbiamo sapere che solo noi, popoli e forze politiche, possiamo fare quel grande passo avanti oggi indispensabile per affrontare positivamente i grandi problemi posti dalla attuale realtà.


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1 La zona dell’alto Tevere comprendeva i comuni di Città di Castello, Sangiustino, Citerna, Monte Santa Maria Tiberina, Umbertide, Pietralunga, Montone, Lisciano Niccone, Gubbio, Scheggia, Costacciaro, Sigillo e per un periodo anche Gualdo Tadino. 2

I nomi che ricordo di quel comitato: per Gubbio Giuseppe Bei Clementi, Edda Panfili giovanissima, Gianni Uccellani, Gianni Bellini, ecc.; per Umbertide, Alfredo Ciarabelli, Serafino Faloci, Umberto Cavalaglio, Antonio Rossetti, Umberto Mancini, ecc.; per la zona di Città di Castello oltre il sottoscritto Pino Pannacci, Silvio Antonini, Gustavo Corba, Remo Valenti, Bruno Nicchi ed altri. 3

Caterina Fonti, Rosina Benedetti, Mario Guerrini, ed il segretario della commissione interna Silvio Antonini, che per quella lotta si buscò un mandato di cattura e dovette stare per alcuni mesi uccello di bosco. 4

Io, Agostino Bernacchi, Elio Caprini, ed anche il socialista Alessandro Nucci che aveva famiglia a Marsciano, e Silvio Antonini quando non tornava a casa (a Città di Castello aveva moglie e tre figlie). 5 Uscì dal partito battagliando il prof. Pio Baldelli; la prof.ssa Fernanda Maretici, il prof. Menghini, ed altri uscirono in silenzio. 6

Al posto di Albertino Masetti, che aveva diretto prima il partito a Bologna e che dal 1951 dirigeva il comitato regionale e la federazione di Terni, subentrò alla federazione di Terni Raffaele Rossi, dopo aver diretto per alcuni anni la federazione di Perugia, classe 1923. A Perugia a sostituire il segretario della federazione Raffaele Rossi andò Gino Galli, classe 1925.

7

Erano studenti: Ermanno Rosso, Riccardo Schicchi, Persiano Ridolfi, Luciana Fittaioli, Riccardo Tenerini, Nive Navoni. 8 Venivano dal periodo fascista e dalla lotta clandestina i compagni Armando Fedeli, Mario Angelucci, Gino Scaramucci, Francesco Alunni Pierucci, Dario Taba, Alberto Mancini, Emidio Comparozzi, Enea Tondini, Fausto Minciaroni. 9

Le nuove generazioni: Pietro Conti, Lodovico Maschiella, Bruno Nicchi, Luigi Bazzucchi, Umberto Pagliacci, Silvio Antonini, Alberto Goracci, Ostelio Quaglia,


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Luigi Bellini, Germano Marri, Carlo Manuali, Tullio Seppilli, Clara Roscini, Pino Pannacci, Gianni Barro, Settimio Gambuli e altri ancora; alcuni sindaci come Giuseppe Bei Clementi a Gubbio, Italo Fittaioli e poi Giovanni Lazzaroni a Foligno, Gianni Toscano e poi Mario Monterosso a Spoleto, Serafino Faloci e poi Umberto Cavalaglio ad Umbertide, Bruno Meoni a Castiglion del Lago, Gustavo Corba a Città di Castello, Nicola Brunella a Gualdo Cattaneo, Renzo Agrifoglio a Montefalco. Con le elezioni del 1958 Alfio Caponi, tipografo, già segretario della Camera del lavoro, sostituirà in parlamento Armando Fedeli, figura storica del movimento comunista. La preparazione di quelle elezioni, sotto la direzione di Gino Galli rappresentò un momento veramente democratico della scelta dei candidati attraverso un ampio e libero dibattito nelle sezioni. 10 Tra

i giovani degli anni ‘40 che rimasero a dirigere il partito a Perugia ricordiamo Raffaele Rossi, Gino Galli, Ilvano Rasimelli, Francesco Innamorati, Vinci Grossi. 11 A Perugia da Bologna vennero Giacomino Masi che diresse l’organizzazione della federazione e Passerini che svolse più ruoli. Anche Edda Orsi venne allora e sarà l’unica che resterà a Perugia per tutta la vita. 12

Negli anni ’60 il governo varò una legge che concedeva mutui al 2% a chi volesse acquistare, consenziente il proprietario, il podere ove lavorava come mezzadro. Scrive Quinto Pecorari nel suo libro “I miei valori” (tipografia Arti Grafiche, Sansepolcro, 2006): “Io, da comunista, ero molto favorevole a questa legge e non capisco il silenzio del Pci, se infatti avesse fatto una seria propaganda per convincere i contadini all’acquisto del podere, oggi non saremmo qui a constatare che con l’abbandono delle campagne da parte dei contadini, i proprietari terrieri sono ritornati a disporre a piacere della terra”. Sono d’accordo con te caro Quinto, anche se l’autocritica arriva con uno storico ritardo! 13

Il sindacato tipografi era diretto da un operaio socialista di notevoli capacità: Remo Arpino.

14 Il sindacato autoferrotramvieri era diretto da un dipendente della centrale umbra, Siro

Bellaveglia, indipendente, lettore di un giornale di destra, sindacalista tenace. Alla filovia responsabile era Fausto Gobbi, padre di numerosi figli. I funzionari che si presero cura di alcuni sindacati furono: agli alimentaristi Umberto Pagliacci poi Elio Caprini, agli edili e fornaciai Amedeo Rosati poi Giovanni Rosati, alle tabacchine prima Liliana Cervelli poi Gianna Selvi, ai tessili ed ai metallurgici Settimio Gambuli. All’INCA, cioè all’assistenza sindacale Walter Micheletti, Remo Venturini, Egidio Papalini. 15

I mezzadri, dopo la gestione di Francesco Pierucci (che tra l’altro ebbe il merito di fondare “Il Solco”, l’unico giornale veramente letto dai contadini) e di Fausto Minciaroni, saranno sotto la responsabilità dell’operaio comunista Silvio Antonini, del mezzadro socialista Libero Cecchetti e per le donne Primetta Martini, una giovane contadina toscana. La lega a Perugia fu diretta prima da Alberto Goracci e poi da Nazareno


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Zuccherini. I segretari delle locali Camere del lavoro furono: a Foligno prima Paolo Ortolani e poi Vincenzo Loreti; a Spoleto Ilio Mariani e poi Franco Pallucchi; a Città di Castello in ordine Lilo Fiordelli, Agostino Bernacchi, Dante Fontanelli; a Gubbio Adolfo Bambini, Severino Faloci, Domenico Conti; a Gualdo Tadino Alberto Mancini poi Antonio Toni; a Todi Ottavio Pazzaglia; a Marsciano Lamberto Marconi; a Umbertide Antonio Rossetti poi Celestino Sonaglia, a Città della Pieve Gino Trenta poi Marino Serafini; a Castiglione del Lago Novello Marcantoni che purtroppo perì in un incidente nel 1959; a Sangiustino Quinto Pecorari e Remo Valenti ed altri ancora. 16

Nel 1957 i lavoratori conquistano la “scala mobile” che per trenta anni difenderà i salari dalla svalutazione. Nello stesso anno viene costituita la Corte Costituzionale. Diviene obbligatoria la scuola sino ai 14 anni. Vengono chiuse le case di tolleranza (1958). Nel 1962 verrà nazionalizzata l’industria elettrica.

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È del periodo di cui parliamo l’uscita di “Presenza”, periodico di notevole interesse e di larga apertura democratica, diretto da giovani cattolici che leggevano Gramsci e Gobetti. Nell’università dirigevano assieme ai socialisti ed ai comunisti gli organismi studenteschi.

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Nel comitato del piano erano rappresentate le Camere di Commercio di Perugia e Terni, le amministrazioni provinciali e l’associazione per lo sviluppo economico dell’Umbria diretta dal deputato democristiano Filippo Micheli, che divenne il presidente della commissione del piano regionale. Assieme a lui lavorarono i socialisti Fabio Fiorelli, Ennio Tomassini, Mario Belardinelli, i democristiani Mario Santi, Gianni Fogu, i comunisti Gino Scaramucci, Lodovico Maschiella e Mario Bartolini. Del comitato scientifico fecero parte personalità di livello nazionale come Siro Lombardini, Francesco Indovina, Miro Allione, Italo Insolera ed intellettuali umbri cattolici Mario Santi e Mario Serra, ed il comunista Ilvano Rasimelli.

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Il fascicoletto del Pci di “Osservazioni e proposte” al piano regionale di sviluppo esce nell’ottobre 1963. Il documento giudica positivamente il piano, ma dà indicazioni più puntuali su alcuni problemi: dalla dinamica dei salari e profitti, all’urgenza della riforma agraria ed alle misure immediate da prendere in agricoltura, alla riforma delle partecipazioni statali, alle strutture sanitarie alla scuola.

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Al piano regolatore di Città di Castello lavorarono gli architetti Mario Coppa e Marinella Ottolenghi, il professore Paolo Abbozzo, l’architetto Angelo Baldelli. Per la progettazione della zona industriale fu incaricato l’ingegnere Ilvano Rasimelli.

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Nel dibattito con la Dc alla sala dei Notari, per il Pci furono oratori Ilvano Rasimelli, Vinci Grossi, Francesco Innamorati.

22 Alla

cena con Palmiro Togliatti alla “Rosetta” erano presenti Gino Galli, Ilvano Rasimelli, Vinci Grossi, Lodovico Maschiella, Settimio Gambuli, Bruno Nicchi ed altri. 23 Relativamente alle lotte tra il Pci e la Dc a Città di Castello, dobbiamo dire che


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poi tra il sindaco Corba e Pillitu, divenuto presidente della Cassa di Risparmio, vi fu un lavoro comune per lo sviluppo delle industrie nella nuova zona industriale. Le sconfitte di Pillitu si dovettero in parte alle lotte interne alla Dc ed in parte ad una politica democristiana di sostegno aperto ad agrari gretti ed incapaci, come dimostra una statistica relativa ai comuni della diocesi di Città di Castello: nel 1952 su 9.479 case coloniche erano fornite di acqua interna soltanto 2.207, di latrine 3.115, di bagno 371, di elettricità 5.824. 24

Della segreteria fecero parte Bruno Nicchi, Vinci Grossi, Ostelio Quaglia, poi Paolo Giometti.

25

Sindaci socialisti furono a Perugia Antonio Berardi, a Città di Castello Luigi Angelini, a Foligno Sante Brinati, a Gualdo Tadino Baldassini.

26 Alcuni nomi di quel gruppo di compagni, molti operai e contadini con forti capacità politiche e con un grande spirito di sacrificio: Paolo Ortolani a Foligno, Franco Pallucchi a Spoleto, Ottavio Pazzaglia a Todi, Marino Serafini a Città della Pieve, Gianni Megni a Gualdo Tadino, Alfiero Bastreghi a Magione e poi Bruno Nicchi, Gustavo Corba, Paolo Giometti, Umberto Pagliacci, Cesare Pesaresi, Wanda Trottini, Ostelio Quaglia, Giuliano Patacca a Marsciano, Michele De Chirico a Spoleto e altri cui mi sfuggono i nomi. 27 Scriveva Gino Galli su “Rinascita” del luglio 1965: “Il mantenimento della maggioranza di sinistra è stato affidato – più che a una rinnovata iniziativa politica unitaria – soprattutto alla conquista di rapporti di forza numerici tali da rendere matematicamente impossibile il centrosinistra, con il risultato di permettere, nella pratica, un logoramento sempre più profondo dei rapporti con la base socialista e di facilitare, quindi, l’attacco che alle posizioni unitarie hanno sferrato i gruppi dirigenti di destra, con alla testa quello della federazione socialista perugina”. Nel rapporto di attività del partito del dicembre 1965 è scritto: “Il rovesciamento delle alleanze del Psi nella provincia ha determinato in alcuni settori del nostro partito posizioni di risentimento e di chiusura che hanno reso più difficili la formazione di giunte unitarie in altri comuni dove forse era possibile arrivare ad accordi unitari con il Psi ed il Psiup”. 28

Il gruppo consiliare di Perugia era forte tra gli altri di uomini come Francesco Innamorati, Tullio Seppilli, Luigi Tittarelli.

29 Alcuni tenaci avversari che avevano scritto: “Centinaia di milioni – dei coloni cre-

duloni – sono stati macinati – dai compagni tanto amati – per salvar la situazione – così fai sottoscrizione – ma sta certo che ad un tratto – perdi la sorca ed il gatto”, rimasero con un palmo di naso. 30 I molini che eccellevano erano quelli di Castiglione del Lago, diretto prima da Renato Luigetti e poi da Sante Ricci e quello di Ellera, diretto prima da Francesco Pierucci e poi da Renato Luigetti.


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31 Nel 1965 abbiamo uno sciopero generale, parzialmente riuscito, indetto dalla Cgil e dalla Cisl per i problemi generali dell’economia umbra; all’inizio del 1966 oltre 60.000 lavoratori umbri scenderanno in lotta. Più debole invece fu la ripresa delle lotte mezzadrili. È da tenere in conto che i mezzadri della provincia di Perugia, che nel 1953 erano 179.000, nel 1967 sono ridotti a 56.000, per scendere poi a 28.000 nel 1970. 32

Sulle posizioni di Ingrao troviamo Alfio Caponi, Ilvano Rasimelli, Vinci Grossi, Lodovico Maschiella e Tullio Seppilli. Sulla posizione delle tesi Gino Galli, Settimio Gambuli, Gustavo Corba, Francesco Innamorati, Bruno Nicchi, Silvio Antonini, Alberto Goracci e molti dirigenti delle organizzazioni di base. Sulla linea più radicale Enrico Mantovani, Giorgio Svolacchia, Ugo Mariuccini.

33 A

far parte della segreteria regionale saranno chiamati Eclo Piermatti, segretario della federazione di Terni, Settimio Gambuli, Ostelio Quaglia e Gustavo Corba. Pietro Conti, che sin dal 1965 aveva ripreso l’attività politica come responsabile del comitato comunale di Perugia del Pci, nel 1967 andrà a dirigere la corrente comunista della Camera del lavoro di Perugia e poi nel 1969 ne diverrà il segretario regionale sostituendo il socialista del Psiup Libero Cecchetti. A Conti nel comitato comunale del PCI succederà Paolo Giometti.

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Come Pci nel 1965 tenemmo un incontro operai – parlamentari umbri; nel 1967 un documentato e partecipato convegno provinciale sui problemi operai; un altro convegno operaio lo tenemmo nel 1969 (relatore Alfio Caponi, conclusioni di Pietro Ingrao).

35 Saranno candidati nel 1958 Pietro Ingrao, Dario Valori dirigente nazionale del Psiup, Luigi Anderlini del gruppo Parri. Sarà candidato anche Raffaele Rossi. 36

Relativamente ai risultati elettorali: nella provincia di Terni si passò dal 38,4% del 1963 al 41,3% del 1968; nella provincia di Perugia dal 39% del 1963 al 42% del 1968.

37 Come documenta Alberto Stramaccioni nel suo libro “Il Sessantotto e la sinistra”, in una lettera di dimissioni, un gruppo di giovani militanti abbandona il Pci. La lettera viene inviata alla vigilia del XIII congresso provinciale del Pci di Perugia che si terrà dal 10 al 12 gennaio 1969. I nomi dei firmatari sono: Mauro Volpi, Francesco Bottaccioli, Anna Gloria Simonucci, Gianfranco Bottaccioli, Marcello Catanelli, Claudio Paoloni, Walter Tremonte, Bruno Orsini, Mario Ottolenghi, Renato Covino, Ugo Mariuccini, Gianpaolo Bottaccioli, Giorgio Filippi, Federico Cipiciani, Enrico Mantovani, Mario Migliucci, Mario Natali, Lorenzo Rocchetti. È da notare che nello stesso periodo con analoghe argomentazioni alcuni militanti del Psiup inviano al partito una lettera di dimissioni firmata da Fabrizio Bracco, Armando Pitassio, Carlo Baioletti, Luciano Sartoretti, Saverio La Sorsa, Giancarlo Baranti, Francesco Morrone. Nella lettera di dimissioni inviata alle segreterie provinciali del Pci e della Fgci si sottolinea la portata degli avvenimenti internaziona-


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li e il ruolo negativo svolto dai paesi socialisti e soprattutto dall’Urss “nell’eliminazione di ogni effettivo potere sovietico e proletario, ecc.” e per quanto riguarda il partito italiano nella lettera si sostiene che le sue stesse scelte di fondo “hanno trasformato il Partito comunista in un partito che ha perso in gran parte il suo carattere di classe e la sua base ideologica marxista-leninista”. Un partito con una linea che appare sempre più inserita nella “logica borghese”, cioè nella logica costituzionale e parlamentare, ed i movimenti di massa sono un “semplice strumento di contrattazione” per ottenere “centri dì potere borghese”, e quindi date le attuali condizioni oggettive ritengono sia ora di costruire un “partito rivoluzionario”. 38 Furono accoltellati dai fascisti i compagni Aldo Seguenti, Angelo Caporali e Eugenio Boldrini. Poi si saprà del tentativo di colpo di stato di Junio Valerio Borghese (l’ex comandante della Decima Mas) e dei campi militari in Umbria di addestramento di alcuni nuclei fascisti. 39 Nelle elezioni del 1972 mantenemmo i voti del 1968 e del 1970, l’unica forza che guadagnò un po’ fu il Msi che passò dal 5,4% del 1970 al 6,56% del 1972. Il Psiup passò dal 4,65 al 2,83%. 40

La segreteria perugina del Pci era formata dai giovani Gian Paolo Bartolini (vicesegretario della federazione), Marco Roscini, Giuliano Patacca, Claudio Bazzarri. 41

Scrivo: “Sorge l’esigenza di una strategia comune di fronte ai problemi della direzione da dare al paese. Nel paese l’unità reale tra le forze socialiste e cattoliche ha camminato, ha animato tutti i processi di rinnovamento, ha visto marciare assieme grandi masse di popolo” (in “Cronache Umbre” del gennaio 1972). E ancora: “Con nuova forza poniamo il problema dell’unità delle sinistre, dell’incontro tra comunisti, socialisti e cattolici come unica via per dare uno sbocco positivo alla situazione politica del paese” (in “Cronache Umbre” del maggio 1972).

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“Cronache Umbre”, oltre il direttore, ebbe alla fotografia il bravissimo Sergio Coppi. La segreteria di redazione fu formata da Leonardo Caponi, Settimio Gambuli, Raffaele Rossi, nel collettivo tanti giovani. 43

A Roma ebbero incarichi: Gino Galli come vice alla propaganda, Lodovico Maschiella come membro del direttivo Enel, Fabio Ciuffini per i problemi dei trasporti. Sicuramente validi per esperienze nazionali di primo piano oltre Pietro Conti erano i compagni Gino Galli, Raffaele Rossi, Ilvano Rasimelli, Lodovico Maschiella, Ezio Ottaviani. Da un punto di vista di competenze più specifiche Tullio Seppilli, Carlo Manuali, Fabio Ciuffini. 44

Nelle elezioni politiche del 1976 il PCI passa dal 27,61% dei voti al 34,4% in Italia ed in Umbria dal 41,69% al 47,27%. Solo nel 1984 il PCI supererà di poco quella soglia alle elezioni europee, anche per il peso che allora ebbe la tragica fine di Enrico Berlinguer.


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In “Cronache Umbre” fui presente con una rubrica leggermente ironica che firmavo MIG, e con gli inserti elettorali per la Regione e per il comune di Perugia.

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Ho ancora tra le mie carte la prima relazione del presidente Giovanni Mancini

47 In studio ai telegiornali di “Umbria Tv”: Lucia Baroncini, Flavia Marchionni, Gabriella Mecucci. 48

Oltre al chirurgo Ugo Mercati, voglio ricordare il bravissimo anestesista Aldo Gerardi, gli ortopedisti, i medici trasferiti dal “Grocco” che avevano una alta specializzazione in malattie polmonari. 49

La mostra di Terni fu elaborata da Giovanna Petrelli con la collaborazione di Maria Luisa Boccia, direttrice della rivista “Reti”.

50 Vedi

“Cronache Umbre”, anno I, N. 3, maggio – giugno 2003, p. 86. Intervista di Alberto Provantini a Settimio Gambuli dal titolo “Umbria rossa, Togliatti e...”. Allora la mia critica sottolineava le troppe correnti nate in seno ai DS e le divisioni assurde della sinistra italiana.

51 Vedi

nel volume “L’Umbria dalla guerra alla resistenza” (edito da ISUC / editoriale Umbra 1998, p. 263), il mio studio dal titolo “Il movimento partigiano nell’alta Umbria e la brigata proletaria d’urto”. Ed anche in “Cronache Umbre” anno II, N. 1, gennaio – febbraio 2004, p. 58, il mio articolo dal titolo “La resistenza: un’altra cosa davvero”


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1. Maestro a Cordigliano di Todi. All’uscita della messa. Mia madre mi appoggia la mano sulla spalla. Il primo a sinistra è mio padre.


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2. 1943: Vittorio Veneto, corso allievi ufficiali di fanteria. 3. Estate 1944: partigiano. 4. Maggio 1945. Piove di Sacco. La guerra è finita. A sinistra Livio Dalla Ragione.


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5. Foto ripresa da un filmato di guerra. Liberazione di Adria. Io il primo a sinistra, in mezzo il tenente Ferri, a destra Gustinelli. 6. Anni ’50. Sala dei Notari. Celebrazione della resistenza.


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7. Anni ’50. Silvana al suo posto di lavoro alla “Angora Spagnoli”. 8. Sala dei Notari – Federmezzadri. Primi anni ’50. Si riconoscono da sinistra: Persiano Ridolfi, Alfredo Ciarabelli, Fausto Minciaroni, Primetta Martini, Agostino Bernacchi, Settimio Gambuli.


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9. Al Congresso nazionale Cgil, 1952, Napoli. 10. 1952, sindacalista. Alle spalle il manifesto per il Congresso nazionale degli Alimentari. 11. Al tavolo di lavoro di “funzionario� del Pci. A destra Raffaele Rossi segretario della federazione.


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12. Presso la sede della Provincia: da sinistra Pietro Conti, Ilvano Rasimelli. 13. Luglio 1956. CittĂ di Castello: sul palco al microfono il sindaco Pierucci, appena dietro Giancarlo Pajetta, a destra Pino Pannacci.


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14. 20-1-1957 - Sposi 15. Venezia 1968 - La mia famiglia. 16. Convegno delle Regioni Rosse - 1963. Sala dei Notari - In fondo a destra Palmiro Togliatti e Pietro Ingrao.


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17. 1968 - Al Congresso nazionale del Pci 18. Fine anni ‘60 - Saluto al Psi perugino. 19. Pietralunga - 21.9.1975 - Tavola rotonda sulla Resistenza


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20. XV Congresso nazionale del Pci - 1975. 21. 1977 - Pietro Ingrao Presidente della Camera dei Deputati in visita ufficiale a Perugia.


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22. 1977 - Omaggio agli antifascisti rinchiusi - Ventotene - Luglio - Parla Vinci Grossi Presidente della Provincia. Alla sua sinistra Umberto Terracini. 23. 24 ottobre 1978 - Autorità militari e civili di fronte a cui sfilano gli ex volontari dell’esercito di liberazione ed i militari di leva.


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24. Con Pajetta 25. 1981 - Piediluco - Una riunione con Ingrao. Da sinistra: Ilvano Rasimelli, Settimio Gambuli, Germano Marri, Francesco Mandarini, Pietro Ingrao, Gino Galli, Alberto Provantini. In basso: Vincenzo Acciacca e Caudio Carnieri.


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26. Marcia della Pace: con Alessandro Natta e Giancarlo Pajetta 27. 22 maggio 1984 - Inaugurazione accademia anatomico chirurgica e complesso universitario in via del Giochetto.


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28. Anni ‘80 - Arbitro una partita tra i dipendenti della Ulss. 29. Città di Castello - 25 aprile 1985 - Celebrazione 40° anniversario della Liberazione.


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30. 1985 - Sala dei Notari. Manifestazione per eliminazione delle barriere architettoniche. 31/32. 2005 - Sala dei Notari. Convegno sul 50esimo della Liberazione.


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Nota In questa parte del libro è contenuta una raccolta di scritti, discorsi e appunti di Settimio Gambuli, da lui stesso selezionati e raggruppati secondo la periodizzazione da lui prescelta. Al termine di ogni parte degli scritti, è riportata un’elencazione del vasto materiale documentario contenuto nell’archivio di Gambuli, ed oggi consultabile presso la sede dell’Isuc, Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, nel Deposito a lui intestato (D.Isuc).


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A Gaeta a far gavette Verso le elezioni politiche del 1948 Il vero ruolo del Pci L’industria del tabacco e delle lotte operaie Lo sciopero a rovescio di Gubbio Finalmente si faranno le elezioni? Qual è il nostro programma Il parroco così parlava alle donne Per la rinascita Il Comune al popolo Le piccole e medie industrie e noi Noi e le operaie La protesta dei mezzadri La società “Terni” e le guerre

Nell’Archivio 1943-1953


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“A Gaeta a far gavette” I testi che seguono sono stati tratti dal libro “A Gaeta a far gavette”, storia della vita partigiana di un gruppo di giovani di Città di Castello e poi della loro partecipazione alla guerra di liberazione nel “gruppo di Combattimento Cremona” scritto sotto la forma del romanzo, edito dalla “Protagon” nell’anno 1990. Il libro, come tutti gli scritti, è depositato presso l’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea.

A casa. L’otto settembre 1943 a Istia, alta sull’Ombrone, Gamo e Manni erano scesi verso il fiume a cogliere fichi quando da una casa vicina sentirono la radio che annunciava l’armistizio. Risalirono di corsa la costa per dare la notizia e trovarono l’accampamento in festa: ridevano, cantavano a squarciagola: “Noi a casa vogliamo andar.” Il mattino seguente il clima era cambiato. Cosa stava succedendo? C’erano scontri con le truppe tedesche? Forse dovevano trasferirsi a Grosseto per bloccare possibili attacchi tedeschi? Dunque la guerra non era finita. Le ore passavano e l’incertezza cresceva; giungevano le notizie più diverse: a Roma si combatteva, ormai i tedeschi tenevano tutto sotto controllo; treni carichi di soldati italiani risalivano l’Italia diretti ai campi di concentramento nazisti. “Che facciamo tenente?” “Attendiamo ordini, ancora dovremmo essere un esercito.” “Ma il colonnello dov’è?” “Sarà a prendere ordini.” “Dove, sono passati due giorni, sta succedendo in Italia il finimondo e lui dove s’è cacciato?” “Ve lo dico io, quello che voleva fare di noi degli ufficiali con i coglioni sotto è scappato!” “Taci Palumbo, ti dovrei denunciare.” “Denunciare chi? Mica possiamo finire come un gregge di pecore! Ormai chi li da gli ordini? A farci prendere come fessi io non ci sto.” La mattina dopo venne il “tenente buono” che tutti sapevano antifascista: “Ragazzi – disse e tutti gli si fecero attorno – a me pare che siamo alla fine, nessuno sa dove sono il re e Badoglio, sembra che ormai i tedeschi abbiano in mano la situazione; qui corriamo il rischio di finire prigionieri, l’esercito si sta sfaldando, ma... ricordatevelo, la fase più dura


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viene ora, la lotta contro il nazismo ed il fascismo inizia ora, io me ne vado per continuare a battermi, arrivederci e buona fortuna.” “E no, no, così non può finire!... L’onore d’Italia, la Patria, siamo scesi in guerra a fianco della Germania... ed ora... perché dobbiamo tradire... che figura facciamo di fronte al mondo?” Gennaro lo scettico, il disfattista, il più lavativo di tutti, quello che sempre brontolava e si lamentava di ogni cosa che doveva fare, all’improvviso stava diventando fascista! Che stava succedendo nella testa di tutti quei ragazzi, dove sarebbero andati e con chi? “Ciao Gennaro, caro il mio napoletano – disse facendosi avanti nel cerchio un ragazzo magrissimo e moro moro con il suo accento barese – io me ne vado, vado incontro agli inglesi; se vuoi, statti con il tuo duce e con quegli assassini delle SS.” “Palumbo, hai detto bene, anch’io me ne vado” disse forte il suo amico più caro, Manni. Iniziarono i saluti e gli abbracci, gli otturatori delle mitraglie furono buttati nell’Ombrone, i fucili gettati nel fiume o portati via assieme alle bombe a mano: in pochi minuti il 1° battaglione allievi ufficiali sparì: come neve al sole, come tutto l’esercito. A Valdescura. I vecchi avevano gli occhi cerchiati per la notte insonne e trattenevano a stento le lacrime; abbracciavano quei figli con lo sguardo, avrebbero voluto avvolgerli in una corazza indistruttibile. Alla Cima scesero dall’autobus di linea e s’avviarono per i Cinque Faggi verso Castelguelfo. I colli erano bianchi di neve ed a mano a mano che salivano il suo spessore aumentava. Fortunatamente il sentiero già battuto da altri rendeva la marcia abbastanza agevole. Dagli zii di Ivo, proprietari dello spaccio di Castelguelfo, arrivarono affamati e con i piedi bagnati; nessuno di loro aveva buone scarpe. Li fecero salire al piano superiore per rifocillarli vicino al camino che troneggiava nell’ampia sala. Zio Italo, alto, dinoccolato, con la sua voce querula, cominciò a fare domande come usano i nostri contadini quando un forestiero arriva a casa loro: lo tengono per ore a ‘veglia’ perché lui, l’ospite, è il loro giornale, il loro legame, nella lunga stagione invernale, con un mondo lontano. A pomeriggio inoltrato Italo sazio di notizie disse: “Vi abbiamo trovato una casetta dove


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potete alloggiare, è disabitata ma in buono stato, basterà che l’attrezziate un po’. Sotto c’è Adriano che vi aspetta, la strada è poca, ma troverete in qualche punto neve alta.” Adriano, piccolo e tozzo, faticava a tirar fuori le sue gambette dalla neve e così dovettero darsi il cambio per tracciare la rotta su quel mare bianchissimo di neve che in alcuni punti arrivava al petto. Scorsero una casa in fondo alla valle: “Siamo a Valdescura” ansimò Adriano. Un cane abbaiò e Adriano gridò forte: “Di casa, Patrizio, Olinto!” Un’ombra apparve sulla loggetta. “Salite” disse una voce chiara. Salirono la scaletta esterna e si ritrovarono nella cucina. A sinistra della porta d’ingresso ardeva la legna nel focolare, in mezzo alla stanza stavano un lungo tavolo di legno e le panche per sedervi attorno. “Patrizio, sono questi i ragazzi che devono andare a Montebello” disse Adriano. Un uomo sulla cinquantina, tirando lente boccate di fumo dalla sua pipa, li squadrò a lungo e poi parlando quasi a se stesso: “Donne, bisogna farli mangiare; toglietevi le scarpe e venite attorno al fuoco, Mirka una fascina.” Per non farli cadere. “Andiamo al rifugio, accompagnaci Adriano” fece Livio. “No, no, Montebello è una bicocca, vi ritroveremmo gelati domattina e perciò stanotte dormirete qui”. Patrizio, respinte le deboli obiezioni di Livio, li accompagnò: in mezzo alla spaziosa stanza, fredda ed a tetto, troneggiava un letto matrimoniale: “Dovete arrangiarvi, tre daccapo e due in fondo, ci starete e caldi”. Patrizio li lasciò per tornare dopo poco tempo; soddisfatto li guardò dal lume dell’acetilene e per non farli cadere dal letto rimboccò le lenzuola. Al mattino; aperti gli scuri della piccola finestra s’affacciò davanti a loro un mondo di neve; in cucina li accolse un gradevole calore ed una tavola apparecchiata. Come furono arruolati. Raccontava in una sua recente visita ai veterani del “Cremona” di Umbertide, il Generale Ferrara, allora


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comandante di un reggimento del “Cremona”, il 22°, che per la bisogna egli si fece inviare da casa le memorie di Garibaldi, perché in quella situazione solo il Generale Garibaldi gli poteva insegnare qualcosa. E scrive in un suo libro di memorie pubblicato nel 1962 il comandante dell’altro reggimento, il 21°, Ettore Musco: “nel Cremona... furono immesse regolarmente varie bande di partigiani umbri, emiliani, romagnoli, toscani, le quali vennero praticamente a completare i ranghi di fanteria, nella misura media di oltre il 60%. Si trattò dunque di un esperimento che non trova riscontro neppure nella storia delle nostre quattro guerre d’Indipendenza”, e più oltre “l’arduo esperimento innovatore compiuto dal Gruppo di Combattimento Cremona poté, nel complesso, aver esito pienamente favorevole, specie nel servizio di linea, ma soprattutto nell’impiego in campo aperto durante la fase conclusiva delle operazioni”. “Qui lo slancio ardimentoso senza limiti e il più vivo spirito antagonistico dei volontari non tardarono ad armonizzarsi con la più salda coesione disciplinare, con l’ammirevole sobrietà e con la straordinaria resistenza fisica dei soldati regolari. Anche sotto l’aspetto più specificamente disciplinare i risultati conseguiti furono, nel complesso, pienamente soddisfacenti...” L’arresto. Gli ufficiali stavano impettiti e seri ai due lati del colonnello che rapido dichiarò il loro arresto e immediatamente in sala apparvero molti carabinieri che al comando di un capitano li ammanettarono come furfanti e li trascinarono fuori dove c’era un Dodge pronto. Rimase loro solo una forma di protesta: uscendo dal comando di reggimento ammanettati sopra il camion scoperto presero a cantare a squarciagola l’inno degli anarchici: “Ed è per voi sfruttati, per voi lavoratori che siamo ammanettati al par dei malfattori”. L’ufficiale dei carabinieri, grande e grosso come un armadio, taceva imbarazzato e capiva che persino i suoi dipendenti guardavano con simpatia quei ragazzi in catene, alla fine della guerra, mentre stavano per tornare a casa, dopo aver rischiato per mesi volontariamente la pelle.


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“È andata bene quella mattina perché avevamo deciso di andare disarmati a quella specie di riunione, se avessimo avuto le nostre pistole in quel momento, chissà. Avremmo anche potuto commettere un’enorme sciocchezza; non dimenticate che venivamo fuori da una guerra nella quale avevamo sempre agito d’iniziativa nostra.” Gli altri convennero con Gamo che sarebbe potuto accadere e Pistola aggiunse: “All’annuncio dell’arresto a me sembrò che qualcuno avesse portato la mano alla fondina, per fortuna senza arma.” Qualche giorno prima del processo, nel carcere di Rovigo, s’era presentato come loro difensore d’ufficio un sottotenente del Cremona che sembrava la réclame della timidezza. Li aveva ascoltati con attenzione e aveva concluso che, seppure non fosse del mestiere, la questione non gli sembrava facile ma, se fossero stati d’accordo, poteva chiedere a suo fratello, ufficiale anche lui ed avvocato, di aiutarlo nella difesa. La condanna. L’aula del tribunale dove si svolse il processo era piccola. Alti sugli scanni i tre giudici ed a destra sul podio il pubblico ministero; davanti il tavolo degli avvocati difensori ed a sinistra, guardati a vista da un folto gruppo di carabinieri, su tre file di panche, i quindici accusati. Il presidente aveva la testa quasi pelata ed il viso rotondo e rubizzo. Con i suoi gradi da generale e la caramella all’occhio sembrava uscito dalla penna di Grosz. Guardò a lungo i prigionieri, contemplò la parte vuota della sala riservata al pubblico e con aria solenne dichiarò aperta la seduta del tribunale militare del Gruppo di combattimento Cremona. Un ufficiale lesse in fretta i capi d’accusa. Escusso l’unico teste, il comandante di compagnia, furono ascoltati i rei i quali esclusero ogni loro volontà di venir meno agli ordini, ma si richiamarono anche ai loro diritti di volontari arruolati con un determinato contratto. L’avvocato, in divisa da ufficiale di fanteria, s’alzò in piedi e con lo slancio tipico dei difensori nel foro civile iniziò la sua difesa citando alcuni articoli del codice militare. Fu a quel punto che il generale sibilando con più forza del solito la ESSE disse in tono deciso: “Tenente, ssse è venuto qui per difendere gli imputati continui, ma ssse invece intende darci una lessssione di codice militare taccia.”


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Fu come se l’avvocato avesse ricevuto una sciabolata, esitò un momento, guardò sorpreso il generale che l’aveva interrotto e riprese: “Se fossi un ciabattino farei bene le scarpe, da tempo sono avvocato e credo di far bene il mio mestiere.” Riprese la sua difesa ma, dopo pochi istanti, ebbe la ventura di citare un altro articolo del codice militare e di nuovo fu interrotto dal presidente che sibilò: “Avvocato le ripeto, ssse è venuto per darci una lesssione di codice, taccia.” E l’avvocato tacque. Aveva capito che tutto era stato deciso prima e che parlando rischiava solo di irritare i giudici ed aggravare la pena agli accusati. La seduta in camera di consiglio fu brevissima. Al loro rientro, tutti in piedi, il generale, quasi sottovoce come si vergognasse, pronunciò, sempre sibilando la ESSE, la sentenza: il reato di ammutinamento del quale erano stati accusati era stato derubricato a disobbidienza; a Livio e Gamo, riconosciuti capi dell’azione criminale, era inflitta una pena di 18 mesi, a Marcello. Pistola, Vittorio, Nannone, Franco, Aristide, Salvatore di 12 mesi, mentre Armando, Ivo, Gosto, Mario e Pietro ebbero 8 mesi e se la cavarono con la condizionale. Solo Memo fu assolto, chissà perché, forse perché oltre ad avere una medaglia d’argento presa sul campo come Livio, aveva famiglia.

Verso le elezioni politiche del 1948 Stralcio intervento al Congresso della Sezione del Pci di Città di Castello (novembre 1947). Archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 1, depositato presso l’Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea, d’ora in poi D.Isuc.

C’è stato questo miglioramento che io ho illustrato? Io penso che esso ci sia stato e si possa considerare un buon miglioramento. Il primo pubblico esame lo demmo nel marzo 1946 con le elezioni amministrative. Il risultato fu buono per un partito che si presentava per la prima volta alle elezioni: avemmo 3.500 voti. A due mesi di distanza e cioè alle elezioni politiche ottenemmo 4.500 voti. Un passo era stato fatto. Le elezioni sindacali ci hanno poi dimostrato che altri


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passi ancora sono stati fatti e che i lavoratori ripongono nel nostro partito una buona fiducia. La prossima grande prova sarà quella delle elezioni politiche. Dobbiamo preparare il terreno per queste elezioni, dobbiamo divenire il primo partito nella nostra zona. Per fare questo è necessario esaminare il passato e tracciare una linea per il futuro. È necessario aprire la discussione con il tema dell’organizzazione. È questo infatti, che determina il buon funzionamento delle sezioni, e dipende dall’organizzazione se le cellule si riuniscono oppure no, se nel partito c’è una disciplina oppure no, se il partito è vivo oppure no. Esaminiamo il passato. Abbiamo organizzato il partito secondo le direttive centrali, ma abbiamo dato troppo poco rilievo ad una direttiva, ad un articolo dello Statuto del partito: la disciplina. I compagni di base, i Comitati di cellula e spesso gli stessi componenti i comitati di Sezione hanno mancato. Nessuno si è ricordato che nel nostro partito c’è una disciplina che deve colpire chi non assolve il suo compito, chi sbaglia, chi si dimentica di avere una carica in funzione di Partito. Così si spiega il fatto che i compagni di base non abbiano sentito il dovere di partecipare alle riunioni di cellula, il fatto che i componenti i comitati di cellula si sono addormentati, il fatto i che i comitati di sezione, o meglio i due o tre elementi sgobboni del comitato di sezione si siano caricati sulle spalle tutto il fardello e a salti, a strappi come l’asino abbiano cercato di portarlo un po’ avanti; questo spiega anche il fatto di propagandisti che comandati di andare in campagna non ci siano poi andati, questo spiega il fatto che la Camera del Lavoro con i Sindacati abbia girato talvolta come una ruota a parte, che il Comune abbia navigato con una barca che non era la barca della nostra Sezione. Tutto quanto ho detto serve però ha spiegare quest’altro fattore importantissimo: che il Comitato di Sezione non ha avuto la necessaria autorità. Trattato questo problema passiamo alla Propaganda. Come essa è stata per il passato e come essa, secondo il mio parere, dovrebbe essere per il futuro. Dobbiamo innanzi tutto rilevare che in queste campo non molto è stato fatto. La federazione ha assolutamente mancato nei confronti della nostra zona quando trinceratasi dietro la frase (non c’è bisogno


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di cannoni per convincere la gente) ha due volte sbagliato. Primo: perché dal 2 Giugno ad oggi nessuno dei deputati da noi eletti è venuto a spiegare al popolo quale attività ha svolto in seno alla Costituente ed a chiedere quali sono i bisogni di questa popolazione (tolta la visita della Pollastrini ai lavoratori del tabacco). Secondo: quando non ha voluto tener conto della reale situazione di Città di Castello, cioè del fatto che noi non abbiamo qui nessun compagno all’altezza di tenere comizi in Città e quindi di poter spiegare spesso al popolo la situazione del nostro partito in Italia e nel mondo. A questi due fatti si deve in parte il rilassamento dei compagni della nostra sezione. Ma anche noi abbiamo dal canto nostro rimediato male a questa deficienza. Ci siamo lasciati superare dalla Dc nei quadri murali, abbiamo fatto poche riunioni in campagna, non siamo stati che rarissime volte nel comuni vicini, non abbiamo dato nessun impulso alla nostra stampa. È necessario rimettere il tempo perduto. Cosa dovremo fare domani? La sezione dovrà avere un nucleo ben preciso di attivisti i quali non perdano mai d’occhio la campagna e comuni vicini. Essi dovranno naturalmente obbedire al Comitato di Sezione e dovranno attraverso loro riunioni prepararsi.

Il vero ruolo del Pci Intervento ad un’assemblea della Sezione del Pci di Città di Castello (settembre 1948). Archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Non posso considerare salda questa organizzazione senza discutere alcuni minuti intorno ad un interessante argomento e cioè intorno allo opportunismo che regna nelle nostre Sezioni. Opportunismo è una parola dura, una parola che tra i comunisti non dovrebbe neppure esistere ma che c’è. C’è perché molti compagni si sono dimenticati che il Pci è il partito del popolo è il partito della giustizia, c’è perché molti compagni si sono dimenticati che essere iscritti al nostro partito significa lottare per il popolo e per la giustizia, c’è perché molti compagni non hanno ancora capito che essere comunista


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significa lottare, significa dar tutto per il partito senza mai chiedere nulla al partito e cioè dar tutto al popolo senza mai chiedere nulla al popolo. E mi voglio spiegare meglio. Molti compagni credono sia dovere del partito mandarli al lavoro (siamo compagni – dovete farci lavorare – essi dicono) e talvolta minacciano le dimissioni ecc. Questi compagni non hanno capito che vuol dire essere comunisti. Questi compagni non vogliono capire che a tutti può essere permesso fare delle ingiustizie meno che a noi, questi compagni non hanno capito che il partito può aiutarli soltanto in questo, anzi in questo deve mettere tutto il suo impegno: nella richiesta delle giuste rivendicazioni degli operai e dei contadini, nelle agitazioni per trovar lavoro alle masse disoccupate, queste sono le cose giuste, questi sono i giusti mezzi con il quali il partito può aiutare i compagni. Ed oggi in questo duro periodo politico è bene che tutti i compagni imparino bene cosa vuol dire essere comunista, è bene che tutti i compagni lascino da parte tutto quello che è egoismo, tutto quello che è frutto di questo, anzi di questi regimi borghesi, per divenire degli altruisti che lottano prima per tutti i diseredati, per tutti gli affamati di Italia e del mondo e poi in ultimo, soltanto in ultimo per sé. È dura per degli uomini questa morale, ma se ci vogliamo considerare comunisti dobbiamo applicarla. Opportunismo ho detto ed opportunismo un po’ se ne vede anche nelle cariche del partito perché è opportunismo prendere un dato incarico e poi tenersi il nome di capo X o di rappresentante Y come una carica onorifica qualsiasi. Per il partito bisogna lavorare sempre ma ancora più ci si deve impegnare quando si ha un posto di responsabilità.

L’industria del tabacco e delle lotte operaie I brani che qui si riportano sono estratti dallo studio su “L’inchiesta del tabacco nel quadro dell’economia e delle lotte operaie della provincia di Perugia”, lavoro prodotto nel 1951 e pubblicato dalla Scuola Centrale di Bologna del Pci per i corsi di formazione interna. L’intero studio è nella cartella n. 1, D.Isuc.

Presentazione. È consuetudine nei corsi organizzati nelle Scuole centrali del Pci di stimolare gli allievi a presentare, a conclusione


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della loro permanenza alla scuola, un proprio lavoro o studio su un argomento politico, storico o di dottrina. Tali lavori sono conosciuti nelle nostre scuole come lavori creativi e costituiscono un elemento non trascurabile del nostro insegnamento che tende a sviluppare le capacità individuali degli altri e a dare ai nostri corsi un carattere attivo e creativo. Allo scopo di far conoscere questo aspetto della nostra attività educativa e nell’intento di mettere a disposizione delle nostre Scuole centrali, regionali, provinciali e locali i risultati di questa particolare attività, abbiamo deciso di pubblicare alcuni di questi lavori, scegliendoli tra i migliori in mezzo a centinaia di essi. Nello sceglierli abbiamo tenuto conto sopratutto della misura dello impegno che, nei limiti di tempo e di documentazione loro concesso, gli autori hanno portato nella elaborazione dei loro scritti. È superfluo dire che avendo tali scritti carattere, puramente scolastico interno, non essendo, cioè, stati redatti in vista di una pubblicazione e non elaborati, quindi, in forma definitiva dagli stessi autori, li pubblichiamo con tutte le riserve necessarie, e più precisamente come materiali soggetti ancora ad esame, a critica e ad elaborazione definitiva che impegnano unicamente i singoli autori in quanto allievi delle nostre scuole. Gli agrari sono i proprietari dei tabacchifici. Fu soltanto la spinta verso un facile guadagno, che, a poco a poco, convinse gli agrari della nostra provincia alla coltivazione del tabacco. La ricchezza di acque, il terreno ed il clima adatti, i grassi utili che derivano dalla sua coltivazione fecero sì che gran parte del territorio, che prima era riservato al granturco, fosse poi coltivato a tabacco. Ma troppo spesso il raccolto viene messo alla mercé della pioggia e dell’abbondanza delle acque del Tevere e dei suoi affluenti. II tabacco è un prodotto che necessita di cure speciali e sopratutto di una razionale irrigazione. Eppure nessun bacino – se se ne esclude uno di proporzioni molto modeste sorto in questo ultimo giro di tempo nel Comune di Sangiustino – è stato creato per trattenere le acque nei periodi primaverili al fine di utilizzarle nei periodi di secca. Le numerose liti che ogni anno avvengono tra i coltivatori di tabacco per l’utilizzazione delle acque confermano appieno la urgenza della soluzione di questo problema.


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I risultati economici ottenuti dai primi concessionari (cioè dai primi proprietari di tabacchifìci) ed in particolar modo dal tabacchificio di Città di Castello – che nel 1911 sorse come un Consorzio tra coltivatori di tabacco della zona e che poi mano a mano divenne lo strumento fondamentale di oppressione economica e politica dei più grandi agrari locali – spinse gli agricoltori delle altre zone del Perugino verso questo tipo di industria. Di questo passo si arriva ad avere oggi nella provincia ben 28 tabacchifici che occupano un totale di oltre 5.000 operai (4.000 donne). Così i più grandi agrari divenendo proprietari di fabbriche trasferiscono anche in questo campo la loro brutalità e la loro oppressione. Le tabacchine ed il contratto di lavoro. È in questo ambiente dove la miseria domina, dove la disoccupazione dal 1946 ad oggi è raddoppiata raggiungendo la cifra di 20.000 senza lavoro, dove i piccoli operatori economici conducono una vita talmente grama da essere costretti a cercare lavoro per i propri familiari presso le poche fabbriche che esistono nella provincia (il numero degli addetti all’industria è appena di 38.000, ossia il 6% di tutta la popolazione) che sorgono e si sviluppano i tabacchifici. È in queste zone che i concessionari trovano la forza lavoro per i tabacchifici, forza lavoro che inizierà a divenire tale soltanto con la sua entrata nella fabbrica ma che ancora, per un lungo periodo, porterà con se tutti gli elementi che sono propri della piccola borghesia urbana e rurale. Nel tabacchificio di Branca ad esempio il proprietario trova una parte degli operai tra i membri delle famiglie coloniche della sua tenuta, a Città di Castello tra gli artigiani e nei nuclei familiari che a centinaia ogni anno sono costretti a staccarsi dal «ceppo» della famiglia colonica. Soltanto chi ha visto l’affannosa corsa di queste donne alla ricerca del lavoro, le lunghe file negli uffici di collocamento, i litigi che spesso avvengono tra queste stesse lavoratrici per stabilire chi abbia maggior bisogno, soltanto chi ha guardato da vicino a quali umiliazioni, a quali ricatti vergognosi sono sottoposte queste giovani e giovanissime donne spinte dall’urgente bisogno di un lavoro, può render-


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si conto di come sorga questo tipo di proletariato. L’unica fabbrica dove queste lavoratrici hanno in gran parte subito il processo di proletarizzazione è quella di Città di Castello. Già alla fine della guerra vi lavoravano circa 700 operai che, nella loro stragrande maggioranza, ritraevano i mezzi di esistenza soltanto dal loro misero salario. Però dalla fine della guerra ad oggi a Città di Castello sono state assunte circa 400 operaie (110 nel 1946; 100 nel 1948; 50 nel 1949; 72 nel 1950) le quali, senza dubbio, hanno ritardato, su tutto l’assieme delle lavoratrici, questo processo di proletarizzazione, benché si debba tener presente che il 90% circa di queste 1.100 operaie vive in città e quindi assume la fisionomia di proletariato puro. Alcuni dati particolareggiati e indicativi. Ad Umbertide su 300 operai abbiamo 270 donne e 30 uomini; a Lisciano Niccone (Reschio) su 90 operai 90 donne; a Deruta (Casalina) su 122 operai 120 donne; a Città di Castello su 1380 operai 1.100 donne. Nell’insieme la media delle donne supera l’85 % del totale. A Deruta su 120 donne 70 non superano i 21 anni. A Marsciano su 130 donne 60 non superano i 21 anni. A Fratta Todina su 150 donne 75 non superano i 21 anni. A Città di Castello la percentuale delle donne sotto i 21 anni è invece molto bassa. Le paghe che le tabacchine percepivano prima e durante la guerra erano estremamente misere. Per esemplificare prendiamo lo stabilimento maggiore il quale ci può dare un’idea sufficientemente chiara su quella che era la situazione economica di questa categoria e su come si siano andati sviluppando i rapporti di lavoro nella nostra provincia: la Fattoria Autonoma Coltivatori Tabacco (Fact) di Città di Castello. Dal 1915 al 1926 le tabacchine percepivano 7-8 lire di salario al giorno. Nel 1932 dalle 8 alle 12 lire giornaliere. Sin dal 1911, anno in cui sorse la Fact, le operaie furono sottoposte ad uno sfruttamento bestiale: esse lavoravano spesso, oltre le normali otto ore, tutta la notte senza ricevere, per questo straordinario, alcun compenso. Nei primi anni nessuna previdenza assisteva queste lavoratrici. Il lavoro era così faticoso e mal retribuito che malvolentieri gli operai in cerca di occupazione si decide-


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vano ad accettare questo posto di lavoro ed appena se ne presentava l’occasione cercavano di cambiare mestiere. Dopo alcune lotte per miglioramenti salariali le 100.000 lavoratrici del tabacco sparse in tutta Italia, in oltre 1.000 magazzini, riuscirono ad ottenere il primo contratto nazionale di lavoro. Il contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato il 10 novembre 1947, prorogato al 31 ottobre 1949 con accordo del 17 marzo 1949, è stato rinnovato dopo serrate lotte il 3 marzo 1950. Senza dubbio il contratto del 1947 è stato una grande vittoria su scala nazionale anche se in qualche tabacchificio – come a Città di Castello dove la politica paternalistica del padronato aveva concesso una serie tale di miglioramenti da far passare, senza dure lotte, i tabacchini della Fact alla avanguardia della categoria – non riesca a superare, in molti suoi punti, quanto i lavoratori già avevano raggiunto. Purtroppo oggi il contratto di lavoro non è totalmente rispettato dal concessionario. Egli cerca ogni appiglio, ogni incompletezza per pigiare la mano sulle lavoratrici. Sino al 18 aprile 1948 le tabacchine erano temute dal proprietario ed il grado di sfruttamento era, senza dubbio, diminuito nei confronti del periodo che va dalla formazione degli stabilimenti al 1944. La vittoria democristiana del 18 aprile è sembrata a questi agrari l’inizio di una nuova era nella quale si poteva e si doveva dare il via alla marcia verso lo sfruttamento più duro, verso la prepotenza più indegna ed odiosa. Infatti i concessionari, basandosi su vecchie armi, che la lotta delle tabacchine non era riuscita a strappare loro di mano, hanno dato inizio alla loro azione. Queste armi sono: 1) non far riconoscere come totalmente industriali i tabacchifici e quindi il lavoro che le tabacchine compiono in maniera di offrire al proprietario, tra l’altro, la possibilità di sfuggire alla costituzione della Commissione interna; 2) il diritto di licenziare a fine lavorazione le maestranze e quindi di poterle riassumere «nominativamente»: questa possibilità permette al proprietario il licenziamento di tutti gli «indesiderabili». È evidente come attraverso questi mezzi i proprietari non soltanto


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riescano a frenare la lotta dei lavoratori, ma s’aprano la strada verso il non rispetto del contratto, come, a miglior dimostrazione, vedremo in seguito. È quindi giusto ora soffermarsi su questi due punti. Lavoro agricolo od industriale. La tesi dei datori di lavoro secondo la quale i tabacchifìci sarebbero aziende da non poter completamente classificare nel ramo industriale è veramente assurda. Infatti anche dando uno sguardo al contratto nazionale di lavoro delle tabacchine ci accorgeremo subito del fatto che i proprietari, pur dovendo riconoscere alcuni diritti uguali a quelli delle categorie industriali alle lavoratrici, hanno voluto dare agli stabilimenti una forma ibrida che grosso modo possiamo classificare: a) stabilimenti quasi industriali (quelli umbri che lavorano la fase secca appartengono a questo tipo); b) stabilimenti quasi agricoli (quelli umbri durante la lavorazione del verde). È stata la legislazione fascista che ha sanzionato questa divisione assurda e ridicola. Allora il fascismo, che mai si preoccupò di dare un contratto nazionale di lavoro alle tabacchine, mirò con queste disposizioni ad ottenere due cose care al cuore dei proprietari e cioè a creare la divisione tra i lavoratori, a sfruttarli il più possibile. Riprova ne sia il fatto che mentre essi tabacchifici erano divisi in agricoli ed industriali lo Stato pagava il tabacco allo stesso prezzo in entrambi i casi. Per questa confusione, ieri cara al fascismo ed oggi alla Democrazia cristiana, le tabacchine perdono una serie di diritti tra cui gli scatti di contingenza e la rivalutazione salariale. La cosa però più grave è che da questo fatto deriva la pratica impossibilità di eleggere la Commissione Interna negli stabilimenti. Su questo problema i concessionari, di fronte alle sollecitazioni degli organismi sindacali dei lavoratori, menano il can per l’aia e, facendo leva sulla disorganizzazione esistente tra le maestranze, mandano la questione «per competenza» alle loro organizzazioni sindacali centrali le quali, cosa del resto naturale, si guardano bene dal rispondere. È chiaro che la tesi dei proprietari regge soltanto perché questo


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Governo così vuole. Infatti, altrimenti, quale differenza può esservi tra un tabacchificio ed una qualsiasi altra industria dove si trasforma il prodotto? Il tipo di lavoro che si fa nei tabacchifici non può essere che industriale. Il diritto alla riassunzione. L’art. 3 del contratto stabilisce che le lavoratrici che hanno prestato la loro opera nelle ultime campagne hanno la preferenza nelle assunzioni. Le disposizioni di legge, emanate dal fascismo e ancora oggi in vigore, consentono ai concessionari la facoltà della richiesta nominativa delle tabacchine. La disposizione di legge «naturalmente» finisce per avere il sopravvento su quanto stabilito nel contratto. Questa diventa quindi oggi l’arma più formidabile che ha il proprietario nelle sue mani. Egli dice all’operaia «se non produci tanto, alla prossima lavorazione non ti riassumo» mandando così all’aria il contratto che proibisce ogni forma di cottimo e ogni minimo di produzione. Ma, conseguentemente, il proprietario non si ferma qui e arriva sino a dire «se tu ti iscrivi alla Camera del lavoro, se tu scioperi, io non ti riassumo», dando così un calcio a tutte le libertà sindacali e politiche. Clamoroso il caso dei 5 operai dì Città di Castello che già da decine di anni lavoravano alla Fact e che non furono riassunti all’inizio della lavorazione 1949-‘50 soltanto perché così piaceva ai proprietari. Vi è stata, e v’è ancora oggi, una serie di questi casi che, anche se meno clamorosi, sono altrettanto importanti. Spesso il proprietario non riassume le operaie incinte perché per il periodo del parto (12 settimane) esse hanno diritto al 90% della paga, globale e questo deve essere pagato direttamente dal concessionario. A Branca, come già nella premessa abbiamo detto, il proprietario assume al lavoro alcune contadine della sua tenuta (esse già da anni possiedono il libretto di lavoro e lavorano in quella ditta) e con la minaccia della «non riassunzione» riesce non soltanto a tenere a freno queste donne nella fabbrica e ad imporre una determinata produzione, ma riesce anche a soffocare lo spirito di lotta dell’intera famiglia


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colonica la quale sa che, se si unisce agli altri contadini nelle lotte mezzadrili, sarà colpita dal padrone Anche per questo, che è un problema fortemente sentito dalle tabacchine, l’unico mezzo per la sua soluzione è la lotta. Il supersfruttamento. Molti lavori che, secondo il contratto nazionale – art. 30 – dovrebbero essere compiuti dagli uomini, vengono invece fatti dalle donne con gravi conseguenze fìsiche. Così è per il trasporto delle ballette di tabacco, che pesano dai 50 ai 60 chili, dal deposito alla sala di cernita – trasporto che viene fatto con appositi carretti ma che in certi punti richiede di essere spostato a forza di braccia – come anche per l’incannamento. In molti stabilimenti le donne eseguono anche il lavoro dei forni, delle stufe e dell’imbottamento, lavori che, se normalmente sono già duri per gli uomini, sono oggi resi ancora più faticosi e deleteri per l’alto grado di sfruttamento esistente nei tabacchifici. Le tabelle di produzione messe in atto alla Fact, che è la fabbrica dove lo sfruttamento è più razionale e spietato, servendo da prepotente stimolo al lavoro, ci chiariscono da sole molte cose. Ma per avere un’idea più concreta di questo supersfruttamento sarà bene esaminare con quali mezzi – dopo aver distrutto, almeno alla superficie, ogni spirito di lotta e di organizzazione degli operai – esso viene condotto. Il concessionario sa che per imprimere un maggior ritmo a tutta la produzione è necessario far leva sulla sala di cernita poiché, se essa produrrà in misura maggiore, tutti gli operai, legati come sono alla produzione di questo reparto, saranno costretti ad aumentare il proprio ritmo di lavoro per non creare ingorghi e quindi per non aver richiami e punizioni. Il primo mezzo, per far aumentare la produzione nella sala di cernita, è quello di infondere negli operai la paura della «non riassunzione». Altri mezzi sono i provvedimenti disciplinari come le multe (che sono sempre state numerose e che in questi ultimi tempi tendono a salire nel numero e nella qualità), le sospensioni, i richiami. Le operaie bersagliate dalle caporeparto e dalle caposquadra, spa-


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ventate dall’atteggiamento padronale, per raggiungere la media di produzione si trovano costrette ad entrare mezz’ora od un’ora prima dell’orario normale (talvolta anche due) ed a uscirne altrettanto tempo dopo. Nel tabacchificio di Trestina, dove il personale è nella stragrande maggioranza nuovo del lavoro e dove da esso si pretende una media che va troppo al disopra delle reali possibilità, pena il licenziamento, le operaie nello intervallo che va dal mezzogiorno alla ripresa del lavoro anziché riposarsi, seguitano a lavorare frammischiando il poco pane alle lacrime di dolore, di rabbia e di paura del licenziamento. Il diritto al sussidio di disoccupazione. La lavorazione del tabacco è generalmente stagionale. In Umbria in tutti i tabacchifìci la lavorazione dura dai mesi di ottobre-novembre ai mesi di marzo agosto, variando da stabilimento a stabilimento per aggirarsi da un minimo di 4 mesi ad un massimo di 11. La legislazione del lavoro, che è ancora quella fascista, dando in questo caso la possibilità ai concessionari di non pagare l’assicurazione contro la disoccupazione, fa sì che queste lavoratrici non possano aver diritto al sussidio anche quando potrebbero rientrare nei termini delle vigenti leggi. Eppure i zuccherieri sono riusciti a strappare questo diritto, così come, del resto, sono riusciti i tabacchini di Città di Castello e di Sangiustino. In alcune provincie, sino a quando i comunisti furono al Governo, le tabacchine usufruirono del sussidio di disoccupazione. Dopo la vittoria Dc del 18 aprile anche questo sussidio straordinario fu revocato. Il Comitato interministeriale sosteneva la tesi che detto sussidio non spettava alle tabacchine in quelle provincie ove, essendo la lavorazione considerata di breve durata, le stesse non erano assicurate contro la disoccupazione; inoltre questo sussidio non poteva essere concesso neanche in quelle provincie ove, pur essendo le tabacchine assicurate contro la disoccupazione, esisteva un periodo di sospensione stagionale, durante il quale era sospesa la indennità ordinaria di disoccupazione. Così il Governo sistemava anche in questo campo le tabacchine. Il sindacato a più riprese protestò ma nulla valse a muovere il Governo


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da questa sua tesi; anzi forte della sua maggioranza parlamentare bocciò la clausola dei deputati socialisti e comunisti, che prevedeva la estensione dell’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione a tutte le maestranze tabacchine (questo quando la Camera votò la legge 264 in sostituzione della 373). I concessionari sfruttano anche i mezzadri, i coltivatori diretti, i medi proprietari. Se queste sono le tariffe delle operaie è opportuno, per completare il quadro, spiegare come gli agrari concessionari sfruttino i lavoratori della terra, siano mezzadri che coltivatori diretti, ed i medi proprietari. Naturalmente il più sfruttato è il mezzadro. Noi sappiamo, dalla precedente trattazione, che l’essiccazione del tabacco viene generalmente compiuta dal colono. Egli raccoglie il tabacco, lo ammannocchia, lo essicca in appositi locali (essiccatoi), lo pressa ed in ultimo lo consegna al tabacchifìcio. Non possiamo dire che questa fase della lavorazione abbia un carattere agricolo. La fase di essiccazione, che dura decine di giorni e richiede determinate capacità, è estremamente faticosa, di grande responsabilità. Per questa fase il colono non vede migliorare la propria percentuale di guadagno, così come sarebbe naturale, ma, anzi, a seconda delle zone, deve provvedere alle spese per la legna o per la mano d’opera occorrente per l’ammannocchiamento o per altro ancora. Quando il tabacco viene portato alla fabbrica entra in campo lo sfruttamento verso i coltivatori diretti e i medi proprietari oltre che verso il colono. Qui essi, per la fissazione della qualità del tabacco, quindi del prezzo, devono sottostare al giudizio insindacabile del perito tecnico il quale è un diretto dipendente della ditta. Ora, ammesso per esempio che il produttore porti allo stabilimento 20 quintali di tabacco, dei quali 10 siano di prima qualità e 10 di seconda scelta, chi ci può assicurare che sia classificato così come dovrebbe essere piuttosto che come vogliono i padroni della fabbrica? A questi problemi a Città di Castello se ne aggiunge un altro che investe direttamente i coloni e, seppure indirettamente, anche gli strati medi coltivatori di tabacco: i coloni hanno diritto ad essere soci della fabbrica, ma questo diritto viene loro negato.


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La lavorazione del tabacco è un’industria privilegiata. Ben pochi sono i rischi che il proprietario corre. Egli già prima del ritiro sa quanto il Monopolio pagherà il tabacco a lavorazione ultimata. Questione quindi di calcoli e di buona lavorazione. Di buona lavorazione perché, durante essa, una parte del tabacco che al produttore è stato classificato di seconda categoria può passare di prima e quello di terza di seconda. A conclusione di queste cifre, sulla base di queste e delle considerazioni fatte, citiamo il guadagno annuo dei tabacchifìci perugini: guadagno annuo generale dei tabacchifici della Provincia di Perugia da 1 miliardo e 200 milioni a 1 miliardo e 500 milioni di lire. Citiamo il guadagno annuo di tre tabacchifici: guadagno annuo del tabacchificio di Città di Castello, con 27 mila quintali lavorati da 350 a 400 milioni di lire; guadagno annuo del tabacchificio di Giontella di Bastia, con 11.000 quintali lavorati, da 150 a 180 milioni di lire; guadagno annuo del tabacchificio F.lli Pascoletti di Ponte San Giovanni, con 4 mila quintali lavorati, da 50 a 70 milioni di lire. Lo sviluppo continuo di questa industria, gli enormi guadagni che gli agrari della nostra provincia ne traggono, il vasto campo che essa investe nello sfruttamento, la grande funzione economica e politica ribadiscono ancor meglio l’importanza e l’entità che questa lotta ha assunto e assumerà nel prossimo avvenire. Il dopo 18 aprile. Il partito non si sviluppò negli stabilimenti e a Città di Castello nel 1947 sui 1.000 e più operai della Fact avevamo appena 40 iscritti (30 uomini e 10 donne). Il lavoro della cellula si esauriva in beghe. Il livello politico ed ideologico dei compagni era bassissimo. Il Partito non si interessava della fabbrica e l’iniziativa era lasciata nelle mani dei più volenterosi. Talvolta, per di più, alcuni iscritti non godevano la stima degli operai. Ma la situazione di Città di Castello era in fondo la situazione di tutti i tabacchifici e la grande adesione alle correnti sindacali di sinistra era soltanto il frutto di una situazione generale esistente nel paese. Non a caso nelle elezioni sindacali del 1947 l’80% dei voti, alla Fact, fu dato alla corrente comunista.


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Una cattiva valutazione della situazione aveva convinto noi dirigenti che in quel settore le cose andassero bene. La reazione aveva manovrato in quegli anni e noi eravamo ciechi! Il lavoro esterno del clero e dell’Azione cattolica, il giornale della curia, l’Acli, l’opera padronale tesa a smorzare la lotta alla corruzione, alla divisione nella fabbrica, ci avevano minato il terreno. Ci dovemmo svegliare, quando, subito dopo il 18 aprile, la reazione padronale iniziò. Essa iniziò con il non ritiro delle quote sindacali, aprendo le porte dello stabilimento ai parroci, organizzando i sindacati scissionisti, corrompendo, intimidendo, isolando i membri delle Commissioni interne, non riassumendo gli operai più attivi. Iniziò con i premi, le gare, le gite, i balli, ecc. Questa opera padronale raggiunse l’apice quando alcuni scioperi, indetti in maniera affrettata e senza un obbiettivo esame delle reali possibilità esistenti, fallirono. Le organizzazioni politiche e sindacali si frantumarono, lo spirito di lotta fu soffocato, le operaie ridotte alla mercé del concessionario. Nel febbraio 1950 questa categoria scese in lotta in tutta la provincia (era una lotta nazionale per il rinnovamento del contratto di lavoro). La lotta fu estesa alle larghe masse contadine le quali, per rivendicare alcuni loro diritti, scesero al fianco delle tabacchine. I fatti di Città di Castello, di Umbertide, di Sangiustino, della zona di Perugia segnarono la ripresa con una prospettiva più larga di questa azione che era stata sottovalutata e trascurata. La mancanza della continuazione, dell’ampliamento della lotta intrapresa unita alla deficiente opera di chiarificazione dei motivi di lotta, sia prima che dopo lo sciopero, contribuirono negativamente sui risultati e le tabacchine furono di nuovo soffocate dai proprietari. Soltanto Umbertide registrò una relativa vittoria. Comunque questa era la prima pietra posta a dimostrare che, soltanto con una lotta molto più ampia, molto più larga, era possibile organizzare le tabacchine, risvegliare in loro la coscienza di classe, ridar loro fiducia nelle loro forze e nelle forze del popolo. Oggi, seppure si registri qualche altro passo in avanti, ancora molta è la strada da fare.


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Lo sciopero a rovescio di Gubbio Questo articolo non è stato pubblicato (la sua preparazione è nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 4 D.Isuc).

La goccia che fece traboccare il vaso fu la notizia secondo la quale con una delegazione composta da rappresentanti della Camera del lavoro provinciale e dell’Unione Donne Italiane (Udi), recatasi in Prefettura per esporre «le immediate necessità e la tragica situazione di tanti disoccupati», il Viceprefetto aveva dichiarato: «La Prefettura ha esposto la situazione al Ministero ma questo non ha stanziato alcuna somma». Così spariva anche il tanto atteso piccolo sussidio natalizio. La Camera del lavoro allora indiceva per la domenica 17 dicembre una assemblea al teatro comunale. Lì si decideva di proclamare per il 22 dicembre uno sciopero generale. “L’Unità” del 22 dicembre 1950 titola «Sciopero generale a Gubbio per ottenere la costruzione di strade – indignazione per la assoluta indifferenza governativa mentre oltre mille disoccupati vivono nella miseria». E nel testo tra l’altro si racconta che «intanto la Camera del lavoro di Gubbio sta continuando le riunioni nelle frazioni per popolarizzare l’agitazione mentre i mille e più disoccupati di quel Comune si stanno organizzando rapidamente per condurre a fondo questa lotta...». E ancora “L’Unità” di sabato 23 dicembre titola «Una città lasciata isolata per mancanza di strade – OLTRE 500 DISOCCUPATI DI GUBBIO INIZIANO LO SCIOPERO A ROVESCIO – In un’azione dimostrativa i manifestanti si dispiegano lungo la Fossato di Vico-Umbertide per riparare la strada. Una commissione accompagnata dal Sindaco e dai dirigenti sindacali presenta al Questore precise richieste. Commoventi episodi di solidarietà dei contadini e della intera cittadinanza». II 26 dicembre 1950 lo sciopero fu davvero generale. Chiusero i negozi e le botteghe artigiane e per la prima volta dal 1948 fu sciopero nelle fabbriche di Gubbio: i tabacchifici di Padule e Fassia, le fornaci Fagioli, il cementificio. Scriveva allora «l’Unità»: “l’unità di tutta la popolazione è l’aspetto che maggiormente colpisce in questa lotta, di fronte alla quale non c’è stato dissenso né tra gli uomini, né


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fra le categorie economiche né fra le correnti politiche, ad eccezione che per i dirigenti della Democrazia cristiana, i quali hanno preferito all’azione comune l’appartarsi in un agnostico isolamento». E il giorno successivo sulla strada Umbertide – Fossato di Vico saranno mille disoccupati con mogli e figli malgrado il vento sferzante ed il nevischio. Il milione che il Prefetto aveva tardivamente stanziato per i disoccupati non serviva più, volevano un lavoro vero, non la carità. Intanto in un moto di grande solidarietà si raccoglievano i viveri e in città giravano i fogli per una sottoscrizione. I contadini dai colli vicini scendevano sulla strada per offrire pane e vino ai lavoratori in lotta. Il 1951 nacque a Gubbio con i disoccupati in lotta. Lo sciopero a rovescio continuò per tutto gennaio mentre assieme ad esso continuò la presenza delle jeep della «Celere», sempre più numerose e minacciose nel tentativo di demoralizzare gli scioperanti e l’intera città. La prima domenica di gennaio ebbe luogo al teatro una manifestazione imponente «presenti tutti i parlamentari della provincia, il Sindaco e i rappresentanti sindacali», e il 10 gennaio si ebbe una manifestazione di protesta caratterizzata da una grande partecipazione di donne «di madri, spose e figli e dei disoccupati che attendono una sollecita e positiva risposta alle giuste richieste presentate al governo» annota il cronista. E mentre l’agitazione si estende a Tavernelle, Bastardo, Marsciano e Umbertide il governo dà una risposta che era solito dare in quel periodo a chi chiedeva lavoro. Titola “l’Unità” del 16 gennaio «La selvaggia aggressione della Celere a Gubbio» e il sottotitolo «Decine di feriti – una donna, madre di sette figli, in osservazione all’ospedale – lo sciopero a rovescio continua con l’appoggio dell’intera cittadinanza». Cosa era avvenuto? Il pomeriggio di sabato 13 gennaio, reparti della Celere, giunti di sorpresa sulla strada dove i disoccupati dimostravano, li avevano aggrediti di sorpresa picchiando anche le loro donne e i bambini. A Gubbio poi avevano dato vita a caroselli colpendo senza distinzione chiunque si trovasse sulla strada. Infine tornati in campagna avevano perquisito alcune case di contadini sequestrando addirittura attrezzi agricoli e cioè forche, roncole e falci!


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Diverso fu in quel giorno l’atteggiamento dei Carabinieri che pur numerosi non parteciparono all’attacco, anzi uno di loro proprio durante l’azione della celere si avvicinò ad un disoccupato e di nascosto gli mise nelle mani un paio di scarpe. Solidarietà imprevista, ma anche inizio di una nuova maturità tra le forze dell’ordine, malgrado Scelba.

Finalmente si faranno le elezioni? Stralcio dagli appunti di un comizio in sala chiusa a Città di Castello (marzo 1952). Gli appunti sono nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Un amico proprio ieri mi chiedeva: si faranno le elezioni? Molti cittadini si pongono questo interrogativo e non hanno tutti i torti poiché già marzo è iniziato ma non abbiamo nessuna comunicazione in proposito. Potremmo dire che già ufficiosamente tutto è chiaro, che già la Dc lavora a tale fine, però se noi guardiamo al passato ci sorge qualche dubbio. Infatti sono due anni che è scaduto in Umbria il mandato delle amministrazioni comunali ed ancora la convocazione delle elezioni non è stata decisa. È noto che le nuove elezioni non si fanno con il sistema proporzionale ma con gli “apparentamenti” e nel tempo e nel modo che più piace ai signori della Dc. Chi ricorda la primavera del 1951, chi allora ha seguito il lento processo di maturazione delle convocazioni elettorali sa che l’Umbria era stata inserita in quel turno, poi ne è stata esclusa perché così è piaciuto ai papaveri alti alti della Dc. In quel momento la Dc aveva in Umbria gravi liti interne ed i “parenti poveri” i partiti minori da sempre suoi alleati non avevano intenzione di abboccare all’amo DC. Certo che nel turno del 1951 anche senza i voti umbri i risultati non furono quelli sperati dalla Dc, queste “bestiacce” delle forze popolari non crollarono ma si rafforzarono. Fu così che la Dc perse in Italia due milioni e mezzo di voti mentre le forze di sinistra aumentarono di mezzo milione i loro voti. Cose queste che capitano a chi pensa di ingannare impunemente il


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popolo. Capì allora la lezione la Dc? Riguardò criticamente il suo programma? Comprese che la crisi che subito dopo si abbatté sul governo e sulla Dc, sui partiti liberale e socialdemocratico aveva le sue origini nel profondo scontento delle masse popolari? Io non credo, anzi sono convinto che la Dc presa dallo spavento per quei risultati che riducevano quel partitone ad una normale forza elettorale, e soprattutto preoccupata per non poter continuare l’arraffa arraffa negli Enti pubblici e privati, abbia subito deciso di buttarsi più a destra possibile. Le occorreva quindi cancellare dalla memoria degli elettori le promesse del 18 aprile, strizzare l’occhio ai monarchici ed ai fascisti e divenire i più fedeli assertori della politica atlantica. Ed i socialdemocratici ed i repubblicani? Per loro valeva la politica del carciofo instaurata con le leggi elettorali dell’apparentamento, ossia in nome dell’anticomunismo mangiarli foglia a foglia. Amici e compagni, un anno è passato da quelle consultazioni amministrative e quattro dal 18 aprile e rifare la storia di questo periodo di dominio Dc vuol dire ripartire dalle untuose parole di De Gasperi del 25 febbraio 1948. Egli affermava: “Mi batto per la libertà politica ma anche per la giustizia sociale. Se vincerò sarà la vittoria di un popolo di civiltà millenaria... Volto con lo sguardo alle forme sociali progressive dell’avvenire in cui il popolo lavoratore deve trovare la sua sicurezza e la sua preminenza”. Quale giustizia sociale abbiamo ottenuto e quale libertà? Tutte illusioni elettorali, la verità è che oggi la miseria galoppa, le condizioni di vita del popolo peggiorano ogni giorno. De Gasperi interviene ma solo per fare leggi anticostituzionali, antisindacali, per uccidere e bastonare i lavoratori che chiedono giustizia. Chiedono un piano serio per l’industria, l’aumento dei salari, la riforma agraria, meno tasse per i lavoratori autonomi, la riforma delle pensioni, una scuola laica ed efficiente. In Italia si vanno sempre più allontanando i due mercati esistenti: quello dei ricchi e quello dei poveri e le contraddizioni aumentano.


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Qual è il nostro programma Stralcio dagli appunti di conferenza tenuta a Città di Castello in vista delle elezioni amministrative (marzo 1952). Gli appunti sono nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Sui comunisti italiani oggi sono pubblicate le opere di Gramsci, di quest’uomo che l’anticomunismo ha fatto operare in carcere. Chi non vede la profonda umanità delle “lettere dal carcere” e la sua immensa preparazione filosofica e culturale, lo studio attento e profondo delle strutture italiane, il rispetto per gli altri, il profondo spirito democratico che lo anima? Oggi i comunisti possono parlare ed agire e quindi le loro azioni, le loro parole, le loro sofferenze sono viste e sentite da tutti. Per questo l’anticomunismo crolla. Qualcuno potrà dirmi, cosa c’entra tutto questo con le elezioni amministrative? Il fatto è che l’orientamento politico generale pesa anche sulle amministrative così come dalla politica del governo dipendono molte difficoltà delle amministrazioni locali. Comunque le elezioni si faranno e se la data non è stata fissata questo fa parte dei metodi elettorali Dc: impedire che gli altri si mobilitino. Ma noi siamo già mobilitati ed i motivi non mancano. Qual è il nostro programma, cosa vogliamo portare avanti in Umbria, e qui a Città di Castello? La nostra è una provincia arretrata, l’indice nostro economico è 11,60 quello lombardo è 22. Per noi i problemi sono: la riforma agraria, lo sviluppo dell’industria, i problemi della montagna, le strade ed il ripristino della ferrovia. Sino ad oggi agrari, industriali, clericali hanno impedito ogni passo avanti. Assistiamo a cricche e ad invadenza clericale. Invadenza sostenuta ideologicamente da “Voce cattolica” che in nome della libertà e dell’anticomunismo si scaglia non più soltanto contro le forze di sinistra ma contro tutti coloro che intendono fare una critica, persino contro un giornale di destra come “La Nazione”. È difficile trattenere le risa quando Zeta sul Mattino di ieri invita socialdemocratici e repubblicani ad apparentarsi con la Dc ma poi da loro una bella unghiata. Pensano costoro che gli italiani siano soddisfatti di come oggi le


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cose vanno in Italia? Cari Dc vi abbiamo visto all’opera e vorremmo che il vostro triste esperimento finisse. Noi pensiamo che una via d’uscita ci sia e che essa stia nell’unione di tutti i cittadini per la rinascita dell’Alta valle del Tevere e dell’Umbria. Questa è la base della nostra attività e per noi le elezioni amministrative sono soltanto un episodio di questa più grande battaglia. Su questa base ampia e progressiva cerchiamo le alleanze elettorali, per questo lanciamo l’appello a tutte le forze antifasciste e laiche, a tutti gli strati popolari. Siamo convinti che solo con questa unità di intenti riusciremo a progredire, così come ieri sulla base di una larga unità popolare riuscimmo ad abbattere la spietata idra nazi-fascista. Nessuno faccia finta di scandalizzarsi per questa nostra apertura morale e politica perché questa è stata sempre la linea di condotta dei comunisti ed al VII congresso del Pci il compagno Togliatti precisava che noi eravamo disposti ad appoggiare, anche senza parteciparvi, quel governo che si fosse staccato dal Patto Atlantico. Non è questa una posizione di debolezza ma di senso del dovere nazionale. Qualcuno senza dubbio potrà dirci che qui a Città di Castello talvolta siamo stati settari, abbiamo avuto un esagerato senso del partito. Può darsi. siamo un partito giovane e quindi errori di questo tipo ne avremo fatti. Nessuno però può dirci di non avere sempre agito lealmente ed onestamente, mai nessuno è stato da noi pugnalato alle spalle, anzi se pugnalate vi furono il bersaglio fummo noi. È per questa nostra sincerità e per la continua autocritica che riusciamo a superare i nostri errori. Noi oggi sappiamo che il Pri ed il Psdi sono delle forze che hanno le loro radici nel popolo: popolo siamo noi e popolo loro. Abbiamo gli stessi interessi da difendere. Per questo proponiamo loro – al di fuori di problemi teorici ed ideologici – di unirsi per la conquista di comuni obbiettivi. Noi sappiamo che soffrono come noi quando vedono i risultati di certi concorsi magistrali ove vince solo chi è dell’azione cattolica, sappiamo che soffrono quando vedono le cricche locali che agiscono dietro il paravento della DC. Ebbene cosa può trattenerli da allearsi con noi? Noi pubblicamente ci impegniamo a garantire loro la più ampia voce in capitolo e non solo a chiacchiere come la Dc ma con fatti concreti. Noi saremmo felici di


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avere al nostro fianco nella direzione della cosa pubblica queste forze, più grande sarà l’unità popolare maggiori i risultati, più forti la pace, la democrazia, il progresso.

Il parroco così parlava alle donne Dagli appunti di un comizio nel rione “la Mattonata” a Città di Castello (16 maggio 1952). Archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Chiediamo scusa agli abitanti del rione. Invitiamo tutti alla calma ed alla serenità. Ci siamo trovati costretti a questo comizio, oltre che per porre una domanda ad un parroco, per smascherare un sistema di propaganda. Non ho niente contro questo parroco ma secondo il racconto fattoci da alcune donne Don Giuseppe avrebbe riunito un gruppo di donne della sua parrocchia e piangendo avrebbe detto loro che se ecc. ecc. Noi non vogliamo credere vero quel racconto, l’intelligenza si rifiuta di prestarvi fede. Però ci sentiamo portati a ritenere ciò possibile perché ci accorgiamo che tutta la loro propaganda è basata su simili enormità. Ricordate la cartolina sulla Russia; per un calcolo elettorale hanno riaperto la ferita ai padri dei dispersi; ma di pensioni non parlano. Ci dicono che Menghi ed altri parroci piangano in altre Sale parrocchiali (sarà una parola d’ordine generale?). Ricordiamo i manifesti elettorali del 18 aprile (i peli sotto ai piedi, le facce bruttissime, il coltello tra i denti, ecc) e guardiamo i manifesti di oggi della Dc (mitra in mano, pace ad uncino, baffone terribile. Vi dico sinceramente che fanno pena e per non vederli costretti ad un simile sforzo di fantasia verrebbe voglia di accontentarli. Ma come fare? È difficile andare in giro con la faccia contratta come vogliono i loro manifesti, oppure farsi crescere i peli sotto i piedi. No, no. Noi siamo parte integrante del popolo lavoratore e perciò nelle amministrazioni che abbiamo guidato abbiamo portato le esigenze del popolo, il grande cuore, l’umanità profonda dei lavoratori, la volontà di tassare solo chi può pagare, cioè i ricchi.


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È per questo che l’amministrazione uscente è stata di gran lunga migliore delle precedenti. La differenza tra l’amministrazione di Napoli da voi diretta che in un anno ha speso solo 8 milioni per l’assistenza e la nostra che ne ha spesi quasi 30 nasce dal fatto che noi esprimiamo l’animo e l’intelligenza popolari mentre voi esprimete l’animo dei grandi proprietari gretti, egoisti, dal cuore di pietra. Ecco perché la nostra amministrazione ha favorito le tabacchine, ha portato l’acqua in casa a 400 famiglie, ha portato scuole e luce elettrica in alcune frazioni. Ed in preparazione di queste elezioni abbiamo con un grande lavoro alla base tenuto una grande conferenza per la rinascita dell’Alto Tevere. Ed anche se qualcuno racconta che siamo stati settari con un religioso potremmo portare l’elenco delle suore che il comune assiste.

Per la rinascita Stralcio articolo nel giornale “il Comune” di Città di Castello (15 maggio 1952). Archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Questo sommariamente il programma del nostro Partito. Esso è stato ampiamente discusso con tutti i cittadini. La sua elaborazione è venuta attraverso decine e decine di assemblee popolari convocate nei rioni e nelle frazioni e culminate con il Congresso del Popolo Tifernate. Presupposto per la realizzazione, abbiamo detto e lo ripetiamo, è l’impegno di lottare per lo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, per la risoluzione del problema delle comunicazioni. Punti principali del programma le scuole e la cultura popolare, le strade, le case, le tasse, l’assistenza, l’igiene pubblica, lo sport. Da queste numerose riunioni, cittadini di tutte le idee hanno portato il loro fattivo contributo con modifiche, consigli: hanno modificato e approvato questo nostro programma. Noi siamo orgogliosi di quanto abbiamo fatto. Noi siamo sicuri, se non avremo creato cosa perfetta, di essere rimasti aderenti alla realtà e di aver giustamente interpretato la volontà dei cittadini. Anche la Democrazia cristiana, come fece il 18 aprile, dirà: «Anch’io intendo


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fare tutto ciò, nel mio programma!». Ed esso sarà una meschina trovata elettorale risultato di un freddo calcolo o, peggio ancora, della oratoria sviluppata in una sala (sede abitudinaria dei comitati civici) da poche persone.

Il Comune al popolo Articolo sul giornale di Città di Castello “il Comune” (23 maggio 1952). La fotocopia è conservata nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 1, D.Isuc.

No, mai gli agrari che per lungo tempo con i podestà governarono Città di Castello svolsero una politica intesa a migliorare le condizioni di vita delle nostre popolazioni, mai essi si autotassarono. Gli agrari vollero il Comune soltanto per difendere i loro interessi, per infierire contro la popolazione che condannarono a pagare le spese della pubblica amministrazione. No, mai le cricche locali hanno governato per il popolo. Le cricche mirano alla direzione della Cosa Pubblica per meglio speculare, per meglio portare a compimento i loro loschi affari. Per questo le cose sono chiare nel nostro Comune. Il blocco clericale è il fronte degli agrari e, delle cricche, il loro unico scopo è quello di carpire la volontà popolare per ridare a Città di Castello un regime podestarile intento solo a tassare i lavoratori ed a fare gli interessi di poche ricche famiglie. Ma essi non passeranno, le formazioni popolari si stanno battendo con tutta la loro energia, forti della solidarietà della gran parte della cittadinanza. Essi non passeranno perché Città di Castello vuole che al Comune vadano uomini onesti e capaci che amano il popolo e che governano veramente in nome e secondo i desideri del popolo. È proprio, però, per queste considerazioni che gli agrari e le cricche locali stanno dando un ritmo frenetico alla loro azione propagandistica. Gli atti di aperta intolleranza, le calunnie, le accuse, gli insulti, portano tutti questa firma. E questi attacchi diventano talmente


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isterici e grossolani che molti degli stessi dirigenti saragattiani e repubblicani seguono oggi con ripugnanza le manovre della barca Dc alla quale ieri, per mala ventura, s’unirono. Mancano poche ore al momento delle elezioni. Noi invitiamo tutti a riflettere, a ragionare. Il voto non è questione di vita o di morte. È cosa normale che capita ogni periodo di tempo in un regime repubblicano e costituzionale. Il voto del 25 deve però insegnare ai dirigenti Dc e degli altri Partiti ad essa apparentati che il popolo non condivide questa loro politica di oppressione dei diritti, di odio e di divisione popolare. Il voto del 25 maggio, confermando la sua fiducia alle forze popolari, deve insegnare a tutti che gli elettori della nostra città vogliono che in un’Italia, protesa alla pace con tutti i paesi, il pubblico denaro sia speso per far rinascere l’economia nazionale e con essa l’Alta valle del Tevere.

Le piccole e medie industrie e noi Stralcio di un intervento al Comitato federale del Pci di Perugia (14 giugno 1952). L’intervento è nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

La domanda da porsi è questa: perché mentre gli operai dipendenti dai Monopoli hanno una buona organizzazione, mentre i mezzadri migliorano continuamente la loro organizzazione, questo settore della media e piccola industria non fa sensibili passi in avanti? Io penso che una delle cause fondamentali sia questa: in questo settore noi manchiamo di chiarezza di idee, noi non sappiamo dare una prospettiva altrettanto chiara di quella che stiamo dando ai coloni o ai minatori di Spoleto. Per esempio quando nella media e piccola industria abbiamo impostato la lotta per l’aumento dei salari e degli stipendi l’abbiamo fatto variando di ben poco e talvolta di niente la impostazione usata per i complessi monopolisti. C’è cioè un appiattimento della lotta. Consideriamo questo settore della piccola e media industria alla stregua della grande industria e poi pensiamo che gli


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operai ci possano seguire su questo terreno confuso e talvolta anche non giusto. Noi, in linea generale, possiamo dire che la stragrande maggioranza degli operai della nostra provincia sono politicamente con noi, sono influenzati dalla nostra politica, sono d’accordo con le lotte che abbiamo impostato ed impostiamo per la Rinascita, capiscono che noi ci battiamo tenacemente per il benessere di tutti, però, io penso, essi avvertono – sia pure in maniera confusa – che noi non abbiamo nulla di concreto, di preciso, di chiaro che li riguardi direttamente. Da qui balza la necessità di dare una chiara prospettiva anche a questo settore. Il compagno Scoccimarro, nel discorso tenuto a Perugia durante l’ultima campagna elettorale, faceva notare come nella nostra Provincia la media e piccola industria fossero seriamente minacciati dalla politica di guerra del Governo e dall’egoismo dei Monopoli. Vorrei esaminare un settore: l’edilizia. Io non voglio qui porre la importanza dello sviluppo, in questo settore, della lotta per il piano del lavoro cosa ormai nota (almeno nelle sue linee direttrici) ma un’altra importante questione da noi troppo poco esaminata. Gli edili, spesso, lavorano 9 o 10 ore al giorno e vengono retribuiti per 8 ore. Perché? Esaminiamo come si trova questa industria nella provincia. Sono rari gli impresari che abbiano più di 50 operai alle loro dipendenze. Questi impresari per ottenere un qualsiasi lavoro debbono partecipare alle aste e li fare degli sconti, delle riduzioni tali per cui il loro guadagno rimane possibile solo a condizione che gli operai non siano retribuiti secondo il contratto di lavoro. Va tenuto presente che questi impresari difficilmente possono avere la possibilità di adeguare alla tecnica moderna le loro attrezzature per cui sono costretti a lavorare con metodi talvolta addirittura preistorici. Inoltre nei confronti del totale delle spese – in questa industria – forte è la spesa per la mano d’opera e quindi addirittura enormi divengono le spese per le assicurazioni sociali, spese che in altri settori (per esempio nell’elettrico) scendono a percentuali quasi insignificanti. Anche i cantieri scuola


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giuocano negativamente e quasi esclusivamente in questo settore. La tassa del 4% grava particolarmente su questo settore. Ebbene, noi pensiamo che gli operai non si rendano conto delle difficoltà dei loro impresari? È vero, noi dobbiamo guidare i lavoratori, farli battere non soltanto per non subire alcuna riduzione dei loro diritti ma anche per conquistarne dei nuovi, però dobbiamo convincerci che essi ci potranno seguire soltanto se ci batteremo sul terreno più giusto, soltanto se sapremo loro indicare con esattezza chi sono i veri responsabili della loro miseria, soltanto se sapremo discernere chi sono i loro nemici e chi sono o potranno essere i loro alleati. Altrimenti, se le cose vanno male, o perlomeno non bene, in questo settore, dovremo criticare la nostra azione, correggere i nostri metodi di direzione. Ho portato un esempio, ma potremmo estendere l’analisi ad altri settori (esempio concreto ne sia l’Officina Cipolla). Approfondire l’analisi in questo campo, certamente significa migliorare l’organizzazione degli operai umbri, significa portare avanti la lotta per la rinascita, per la pace indirizzandola verso nuove alleanze e nuovi successi. Proprio per questo noi riteniamo sia giusto, in occasione della preparazione del Congresso della nostra Camera Confederale del Lavoro (congresso che avrà luogo in ottobre), iniziare a porre alcune di queste questioni in alcune categorie e fabbriche. Certamente noi non potremo per allora aver esaminato tutto il problema però potremo fare delle esperienze interessantissime che nella pratica ci insegneranno meglio la strada da seguire.

Noi e le operaie Stralcio di un intervento al Comitato federale di Perugia (30 giugno 1952). L’intervento è nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Ebbene oggi vorrei esaminare alcuni settori dove le cose sono, dal 1949 andate peggiorando. Ebbene questi settori sono i tessili, l’abbi-


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gliamento, le tabacchine. Sono cioè i settori dove maggiore è il numero delle donne impiegate. È allora che ci accorgiamo che la nostra azione verso le donne o è insufficiente oppure non è giusta, non risponde alle loro esigenze, alla loro cultura politica sindacale, per cui cade nel vuoto. Noi diciamo che le donne hanno votato per noi. È vero, un maggior numero di operaie hanno votato per noi. Però queste operaie non hanno fiducia ancora nella lotta che conduciamo; occorre dar loro questa fiducia. La borghesia con la sua ideologia riesce ancora ad operare nel senso che le demoralizza. Inoltre esse non riescono ancora a comprendere la profonda necessità di difendere le libertà e la pace. Sta a noi far loro capire queste cose. Occorre però capire la importanza di questo problema ed occorre che anche le organizzazioni di partito ed il Partito nel suo insieme arrivi a capire queste cose. Fate caso. Queste donne non leggono la nostra stampa. Non vengono alle nostre riunioni. Non intervengono ai comizi (salvo rare occasioni). Queste donne leggono giornali tipo Grand Hotel, sentono la radio governativa, la predica del padrone e del prete. Non contiamo i soprusi nelle fabbriche. Io penso sia già troppo ciò che esse contro questa marea avversaria riescono a capire. Dicevo prima della preparazione dei congressi sindacali. Ebbene in alcune di queste fabbriche incontreremo grandi difficoltà per discutere con i lavoratori e persino per farli votare. Cosa fare? Io penso che vicino alla ricerca di mezzi nuovi per organizzare la discussione e la votazione noi dobbiamo intensificare la nostra azione di propaganda per dibattere i temi fondamentali della nostra lotta per fare acquistare una maggiore chiarezza di idee a questi lavoratori. Occorre fare una propaganda adeguata al grado politico di queste masse femminili. Occorre riuscire finalmente a formulare dei seri quaderni di rivendicazioni da far leggere e firmare, occorre insistere sulle libertà e sulla Pace.


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La protesta dei mezzadri Stralcio degli appunti per un comizio tenuto al Teatro comunale di Gubbio (marzo 1953). Gli appunti completi sono nell’archivio personale, cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Questa manifestazione di protesta è la risposta all’atteggiamento della classe dirigente nei confronti dei mezzadri e quindi di tutte le categorie produttive delle nostre campagne. Non è la prima e nemmeno l’ultima. In questi anni – dopo la liberazione – i mezzadri, unitamente a tutti gli altri lavoratori, hanno sostenuto dure lotte. Hanno subito centinaia di arresti, processi, cariche della celere. Frutto magro di queste lotte il 3% sui prodotti. Oggi ancora siamo qui riuniti per esprimere la nostra decisa volontà. Motivo le ultime sentenze della Corte di Cassazione sul plusvalore, non quello di Marx, ma quello relativo alla comproprietà del bestiame. Ancora una volta gli agrari hanno avuto ragione. Nel 1932, durante quella crisi, non fu così, allora a danno del mezzadro prevalse la tesi che noi oggi sosteniamo e cioè che il bestiame per la parte del mezzadro va calcolato ai prezzi di mercato. Ed è da ricordare che durante la ritirata tedesca i contadini a loro rischio nascosero il bestiame. Cosa ancora più grave è che oggi si mira a trasformare queste sentenze, anche quella sui contributi unificati, in leggi dello Stato. Il problema è che si vogliono rimettere in discussione i nuovi patti agrari, la giusta causa nelle disdette, insomma si vuole dare il via ad una politica di repressione del movimento contadino e questo quando la crisi economica invade tutto il nostro paese. Questo governo incapace a risolvere la crisi cerca di trovare una soluzione tornando al recente passato. Ed ecco i dati della tragedia nella nostra provincia. 22 mila disoccupati; 105 mila ettari privi di piantagioni. Su 33.390 case coloniche ben 18.810 sono da riparare e 4.710 da rifare di sana pianta. Flessione nell’occupazione rispetto al 1948 del 10%, salari inferiori alla media nazionale, aumento delle insolvenze cambiarie. 87 strade da rifare e 62 da costruire, per circa 848 chilometri. Acquedotti in 37 comuni; 39 comuni in aree depresse. Un umbro spende per il cinema di media all’anno 827 lire contro una media nazionale di 1.810.


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Vediamo più da vicino la situazione di Gubbio. Nel 1927 la popolazione era di 33.544 abitanti, oggi è di 31.212; il grano, produzione fondamentale rimane su una resa di 11 quintali ad ettaro, mentre la media nazionale sta salendo. Il vino, le colture specializzate sono scese da 150 ettari a 115; anche la produzione dell’oliva è scesa. I bovini, nel 1929 contavano 11.827 capi e nel 1951 sono 11.136. Il concime chimico usato su 27.300 ettari è di appena 26.110 quintali di fronte ad una esigenza tripla. A tutto questo per l’Eugubino si aggiunga la chiusura delle miniere, la mancanza di strade, la demolizione della ferrovia. Ecco la tragica situazione che noi denunciamo. Ma non ci limitiamo ad essa: indichiamo anche i mezzi per superare l’attuale stato delle cose. Occorre che i grandi agrari (Torlonia, ecc.) reinvestano, occorre che lo Stato aiuti i piccoli e medi proprietari, occorre che lo stato finanzi le opere necessarie alle strade, alle scuole, ai servizi fondamentali (acqua, luce, ecc.), occorre, aggiungiamo noi, sospendere la politica del riarmo per un periodo di tempo, cioè sino a quando la situazione non sarà migliore. Prima diamo da mangiare ai nostri bambini e poi si vedrà. Ecco la nostra proposta, ecco perché sosteniamo i nuovi patti agrari, la stabilità sul fondo, un amore per una terra che per il mezzadro possa essere remunerativa. Al posto della paura del padrone noi sollecitiamo la elaborazione dei piani aziendali in primo luogo nei 26 poderi dei Torlonia: un piano per 5 anni che, anche alla luce dei dati che emergono dai libretti colonici, sappia determinare quali piantagioni, quali miglioramenti dei terreni, quale meccanizzazione, quali case riparare, quante giornate lavorative per braccianti ed operai. Questa è la linea che oggi vogliamo portare avanti per modificare l’attuale stato delle cose. Oggi la vita dei nostri coloni è misera. Abbiamo calcolato che per 12 ore di lavoro al giorno il colono percepisce una paga di sole 116 lire. Questa vita, la mancanza delle più elementari norme igieniche producono molte malattie (tifo, tubercolosi, ecc) ed un’alta mortalità infantile. Oggi solo un vecchio su 100 vive sopra i settanta anni nelle nostre campagne. E questi sono i reali motivi della fuga dalle nostre campagne. Soltanto un partito come la Dc può rimanere sordo dinanzi ad una


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situazione come questa che ho descritto e che è suffragata da dati certi. Una Dc questa umbra che in queste elezioni mira ad apparentarsi persino con il Msi e con i monarchici e che su scala nazionale si assoggetta sempre più agli Usa. Noi contro questa situazione ci battiamo e continueremo a lottare con tutte le nostre forze. Cresce il malcontento popolare e perciò non bastano le leggi elettorali truffa, sempre più larghe masse scendono in lotta ed anche su scala mondiale avanza un grande moto di rinnovamento come si può vedere in Egitto, in Tunisia, in Indocina, in Corea. Si alza qui da noi anche la voce dei parroci più sensibili: cosa facciamo per risolvere questa miseria? E noi? Vogliamo andare avanti con la lotta per i nuovi patti agrari, per la trasformazione dell’agricoltura e quindi per la rinascita della nostra economia, avanti assestando in queste competizioni elettorali un nuovo colpo alla Dc ed alle forze reazionarie, avanti per la vittoria, perché trionfino libertà e giustizia.

La società “Terni” e le guerre Stralcio degli appunti della conferenza tenuta a Spoleto dopo il 3° Congresso nazionale della Cgil e delle lotte contro la smobilitazione del complesso Terni. Archivio personale cartella n. 1, fascicolo n. 2, D.Isuc.

L’Italia si è formata non attraverso una profonda rivoluzione borghese ma con un compromesso tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud: il Sud è divenuto una colonia del Nord. Questo blocco ha sempre dominato il popolo italiano. L’industria italiana, debole strutturalmente, anziché prendere la via della riforma agraria e della industrializzazione del Mezzogiorno e delle campagne, ha scelto una via meno pericolosa e cioè farsi aiutare dal Governo, allearsi agli agrari e scegliere la via del finanziamento delle proprie imprese per tentare avventure coloniali e di guerra. Così l’industria di base italiana nasce come industria di guerra finanziata dal Governo.


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Sarebbe interessante vedere come è nata la Terni e come si sono sviluppate le acciaierie e le miniere. Diamo alcuni dati. La Terni nacque nel 1884. Lavorò subito per le coloniali. Nel 1900 aveva 1.000 operai, nel 1932 ne aveva 3.000. Nel 1938 ne aveva 7.200 (guerra d’Africa e di Spagna) Durante il periodo della guerra arriva ad avere oltre 20 mila unità, oggi non ne ha nemmeno 14 mila e continua ancora a smobilitare. La produzione delle ligniti di Spoleto segue questa curva a saliscendi: 1886: 27.000 tonnellate (primo anno di produzione); 1889: 126.000 (Crispi – Eritrea); 1894: 54.000; 1897: 116.000 (guerra abissina); 1912: 140.000 (guerra libica); 1918: 161.000 (prima guerra mondiale); 1919: 65.000; 1932: 79.000; 1936: 176.000 (guerra civile spagnola e campagna di Etiopia); 1941: 370.000 (seconda guerra mondiale); oggi: 250.000. Così la borghesia italiana ogni volta che vede crescere il contrasto tra le strutture economiche e le necessità popolari cerca la via della repressione, del fascismo, delle alleanze più meschine ed infine della guerra. È una costante che si ripete, da Crispi a Pelloux, a Mussolini, fino ad oggi. Quando diciamo queste cose ci accusano di fare della politica, la politica della Cgil: pace, scambi con tutti, lavoro produttivo. La politica da popolo lavoratore il quale nulla ha da guadagnare da imprese folli e da guerre, la politica di difesa dei diritti dei lavoratori. Il problema della libertà nelle fabbriche non ce lo siamo inventato: repressione, multe, licenziamenti, proibizioni di attività sindacali, supersfruttamento. Vediamo il caso della Terni. La produzione per ogni unità lavorativa era nel 1949 di 15 mila chilo-


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grammi; nel 1952 era aumentata a 17 mila. Gli infortuni sul lavoro erano – nel 1948 – 750 per ogni mille operai, nel 1951 erano calati a 125. Gli utili netti della Terni erano 675 milioni nel 1949 (di cui 340, cioè il 50% delle Acciaierie). Nel 1951 saliti a 784 milioni (di cui 500, il 65%, delle Acciaierie), e questo con 1.000 operai di meno. Per eliminare questa situazione, avvertita da tutti, i lavoratori di tutte le correnti, noi proponiamo uno “Statuto del Lavoratore” Siamo ad un bivio. C’è la necessità dell’unità di tutti i lavoratori per porre un freno a questa situazione che di fatto è diventata un problema nazionale. Di fronte a tale emergenza la Cgil prospetta alcune soluzioni, che beninteso non mirano a sovvertire la società oppure a fare delle trasformazioni così radicali da cambiare il sistema. Noi pensiamo che tale necessarie trasformazioni possano avvenire anche nel quadro del sistema capitalistico-borghese e che esse possano portare un giovamento non soltanto ai lavoratori ed alla economia italiana ma anche ai medi proprietari ed alla media industria. Pensiamo anche che esse servano a pacificare gli animi e a far ritrovare al popolo italiano quella unità che è indispensabile per migliorare la situazione economica del nostro Paese. Ciò che noi chiediamo è la nazionalizzazione della Montecatini, l’effettiva nazionalizzazione dell’IRI, una riforma agraria adatta alla bisogna. Ciò è legato al problema della industrializzazione del Mezzogiorno, all’aiuto che lo Stato messo in queste condizioni potrebbe dare al Mezzogiorno. Ciò è legato alla piena utilizzazione degli impianti e quindi alla produzione di beni strumentali e di concimi a minor prezzo. Inoltre chiediamo la nazionalizzazione dell’industria Elettrica, in mancanza della quale si oppone un grave ostacolo allo sviluppo industriale del Paese. Naturalmente la riforma agraria, i crediti per la meccanizzazione delle campagne, possono offrire un largo campo di impresa all’industria italiana. Inoltre chiediamo che lo Stato investa per quattro-cinque anni almeno 200 miliardi per opere pubbliche, 10 miliardi per crediti agrari in favore di piccoli e medi proprietari, 90 miliardi per acquisto di macchine agricole. Inoltre chiediamo che gli agrari reinvestano nella produzione il 15% della produzione lorda vendibile.


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Tra agrari e Governo così potremmo utilizzare circa 540 miliardi all’anno. Non è una cifra eccessiva per una nazione che intende spenderne 600 per le armi. L’accettazione di queste proposte permetterebbe nel giro di pochi anni uno sviluppo dell’industria di base del 30-40%. Naturalmente chiediamo anche un effettivo miglioramento delle retribuzioni dei lavoratori come elemento capace di rilanciare il mercato interno, di farlo uscire dalla attuale stagnazione. Chiediamo una legge speciale sull’apprendistato che, alleggerendo le piccole e medie industrie dai gravami delle assicurazioni sociali e facendole pesare sullo Stato, mette queste industrie in condizioni di poter assumere apprendisti e metta lo Stato nella possibilità di emanare un decreto che costringa gli industriali ad assumere giovani nella proporzione del 10% sul totale degli operai occupati. Così potremmo trovare lavoro a 300 mila giovani e potremmo permettere a costoro di imparare una professione. Per le donne chiediamo il rispetto della legge sulla tutela fisica e morale della lavoratrice e vogliamo aprire l’accesso al principio costituzionale di “uguale lavoro uguale salario”, avvicinando i salari delle donne a quello degli uomini. Per i disoccupati noi, oltre che chiedere quello sviluppo industriale ed agrario di cui parlavamo prima, chiediamo (poiché non siamo contrari ai cantieri-scuola) di migliorare le paghe per la formazione-lavoro, e intanto nella attesa del domani di concedere il sussidio di disoccupazione a tutti coloro che non lavorano. In questo quadro rientrano le proposte per lo sviluppo dalla nostra regione, per la salvezza della Terni, delle sue Acciaierie, delle sue Miniere, della sua ricchezza elettrica.


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Nell’Archivio 1943-1953 Cartella n. 1 Fascicoli dal Primo al Sesto Questa è la cartella n. 1 relativa al materiale raccolto tra gli anni 1943-1953 contenente i miei scritti. La cartella è composta da sei fascicoli all’interno dei quali si ritrova il testo integrale degli scritti in precedenza riportati. La cartella contiene anche altri materiali che documentano le diverse vicende della vita politica di quel periodo. Questi materiali sono depositati e consultabili presso l’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea (Isuc), in Piazza IV Novembre a Perugia.

Primo fascicolo - appunti intervento assemblea del Pci di Città di Castello (settembre 1948): contro l’opportunismo - manoscritto articolo su “Sciopero a rovescio” di Gubbio (1951) - relazione su situazione della Sezione del Pci di Città di Castello (24 ottobre 1948) - intervento al Congresso del Pci di Città di Castello (novembre 1947): verso le elezioni politiche - intervento alla sezione di Città di Castello sul problema della moralità (settembre 1948) - fotocopia lista candidati al Comune di Città di Castello per il Pci (da “il Comune” 15 maggio 1952) - da “il Comune” fotocopia articolo su programma del Pci (15 maggio 1952) - da “il Comune” fotocopia articolo sul perché votare Pci (23 maggio 1952) Secondo fascicolo - intervento al Comitato federale di Perugia sul problema sulle conferenze di produzione (25 marzo 1952) - intervento al Comitato federale del Pci di Perugia su piccola e media industria (14 giugno 1952) - intervento al Comitato federale su donne operaie (30 giugno 1952) - appunti comizio elettorale (aprile 1952) - appunti comizio apertura campagna elettorale a Città di Castello (marzo 1952) - appunti comizio nel rione “la Mattonata” di Città di Castello sul problema dell’intervento del clero nella battaglia elettorale a Città di Castello (16 maggio 1952) - appunti intervento al Comitato federale di Perugia sulle difficoltà nostre verso classe operaia perugina (1951) - appunti conferenza su giusta richiesta aumento salari (novembre 1951) - appunti intervento alla Conferenza di organizzazione della Camera del lavoro di Perugia (4 novembre 1951) - conferenza preparata (non tenuta) su internazionalismo proletario (1951)


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- appunti intervento alla manifestazione di protesta dei mezzadri (Gubbio, marzo 1953) - conferenza su “La questione meridionale” (4 febbraio 1952) - appunti vari comizi per elezioni 1953 - appunti comizio a Città della Pieve sui risultati elettorali (giugno 1953) - appunto conferenza a Spoleto su 3° Congresso nazionale Cgil e su lotta contro la smobilitazione del complesso Terni (forse 1953) Terzo fascicolo - fotocopia studio su industria del tabacco (scuola Pci Bologna, 1951) Quarto fascicolo - documentazione e bozze articolo su “Sciopero a rovescio” di Gubbio (fine 1950 – inizio 1951) Quinto fascicolo - autobiografia datata 20 gennaio 1951 - citazione in giudizio del Tribunale di Perugia per i miei presunti reati sindacali (3 marzo 1951) e relativa assoluzione in istruttoria (10 novembre 1951) - invito a “convegno indipendenti di sinistra” (22 febbraio 1953) - copia “appello Stoccolma” per pace (marzo 1950) Sesto fascicolo - studio del Comitato regionale del Pci “sulla situazione dell’Umbria e i compiti principali del Partito” (Terni, ottobre 1952, dattiloscritto, 84 pagine)


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Siamo una grande forza, ma... Arrestano i derubati Saldare due mondi Busseremo a ogni porta La forza dei comunisti Aiutare il Pcus a superare gli errori Il lavoro della della delegazione 8.000 edili: supersfruttamento e bassissimi salari Il lavoro nelle fornaci Schema per il corso della Cgil Agire cambiando strada Il grande sciopero generale I Tambroni passano presto Dopo Tambroni Governo Fanfani: il Psi si astiene Il Comune di Perugia e la “coerenza” Dc Perché la terra ai mezzadri

Nell’Archivio 1953-1963


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Siamo una grande forza, ma… Stralcio dell’intervento al Congresso Provinciale del Pci perugino (23 aprile 1954). Gli appunti sono nell’archivio personale cartella n. 2, fascicolo n. 1, D.Isuc.

È stato questo un congresso preparato democraticamente, dove forte è stata la critica e l’autocritica. I congressi di sezione con i loro pregi e difetti hanno dato un grande contributo alla preparazione di questo congresso provinciale. Da essi nascono alcune indicazioni ed esigenze. È necessario un maggior legame tra lotte particolari e lotta generale, una maggiore attenzione ai centri urbani, la lotta per l’unità nelle campagne, per una nuova politica, per la riforma agraria. Da queste indicazioni, insieme alla necessità di approfondire meglio località per località le varie questioni, sorge l’esigenza di esaminare più profondamente la vita delle nostre organizzazioni, il nostro metodo di lavoro e di direzione, la nostra preparazione. Noi siamo una grande forza, abbiamo realizzato notevoli successi. Le nostre 223 sezioni coprono con i loro 30.000 iscritti vasta parte del nostro territorio. Abbiamo 1.500 compagni che fanno parte dei comitati di sezione, 1.168 cellule, 1.902 collettori. Nel 1954 abbiamo già reclutato 2.351 cittadini di cui 581 donne. Nostri compagni sono nella direzione di sindacati, comuni, cooperative, partecipano a molte organizzazioni di massa. La campagna dell’anticomunismo perde sempre più terreno, i nostri temi della pace, del progresso, della rinascita entrano vieppiù nell’animo delle masse popolari d’ogni partito. E sta bene. Eppure con questa forza, molte le lacune. Pochi i comitati della pace, scarse le organizzazioni combattentistiche dirette da uomini democratici, inesistente l’Anpi, molte società sportive e ricreative non vedono la nostra partecipazione, molti sindacati hanno meno iscritti del partito, la Fgci non esiste nei centri urbani, la cooperazione si sviluppa nelle zone forti mentre nei centri urbani è debolissima. Sono stati questi dieci anni di vita democratica ed oggi sorge dal basso l’esigenza di una discussione più vasta e noi non possiamo essere alla coda. Se esaminiamo le commissioni provinciali di lavoro, se guardiamo i metodi di direzione delle organizzazioni sindacali,


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della cooperazione ci accorgiamo di quanto ancora pesi la direzione personale e come sia lento lo sviluppo di altre forze, come la lotta politica avanzi lentamente. Anche i coordinamenti di zona soffrono di questo difetto, spesso la loro vita è nelle mani di un solo compagno e l’attività di costui soffoca l’altrui iniziativa e se nel passato quel metodo è servito a dare una direzione più stabile oggi non è più così. Oggi il coordinamento deve essere un centro di iniziativa politica locale e di dibattito politico. Nelle sezioni dei centri urbani si pone il problema di esecutivi funzionanti, del segretario che non sia uno sgobbone ma un dirigente politico. Nelle altre sezioni dobbiamo tendere a dare segretari con capacità di direzione. È evidente che tutto ciò pone problemi relativi al legame tra federazione e organizzazione di base, alla qualità di questo legame e cioè: più attenzione ai centri urbani, allo sviluppo di una politica locale, al lavoro educativo, allo studio, ai brevi corsi. Un lavoro paziente di non breve prospettiva, ma che oggi siamo in grado di affrontare. E per riuscire occorre migliorare noi stessi, la nostra preparazione ideologica, occorre dedicare allo studio un tempo che ora appare assolutamente insufficiente. Oggi contiamo sulle dita studi o abbozzi di studi sulla nostra situazione economica e politica. Il comitato regionale aveva fatto un serio lavoro in quella direzione, ma chi ha seguito quell’esempio? Vale lo studio collettivo, ma io ritengo che elementi di fondo siano la riflessione e lo studio individuali. Verso iniziative concrete in questa direzione dobbiamo spingere il partito.

Arrestano i derubati… Stralcio del comizio tenuto a Gubbio subito dopo l’arresto di Bruno Nicchi (estate 1954), dirigente del Pci nell’eugubino. Gli appunti completi sono nell’archivio personale, cartella n. 2, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Ancora una volta ci troviamo qui riuniti per protestare contro l’arresto di un lavoratore il cui solo torto è quello di amare la propria


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terra, di lottare per il suo progresso, di anteporre ai propri personali interessi il bene di chi lavora, di chi soffre; di essere cioè comunista, di dirigere qui a Gubbio il partito che più conseguentemente ha lottato e lotta per la rinascita, per l’avvenire di questa antica città umbra. Chi lotta per il progresso, chi alza la bandiera della libertà e dell’indipendenza, chi vuole mettere un freno all’egoismo ed all’incapacità del ricco ha sempre trovato sul suo cammino il gendarme, la prepotenza, la scomunica, lo straniero. Così da quando i nostri nonni liberali, mazziniani, garibaldini lottarono per l’unità d’Italia, per dare all’Italia uno statuto ed un tricolore; così quando più tardi i primi socialisti cercarono di organizzare la classe operaia ed i contadini per assicurare a tutto il popolo un vivere più civile; così quando dopo la prima guerra mondiale i contadini reclamarono quella terra che sulle balze del Grappa avevano loro promessa gli avidi e spaventati agrari; così dopo la guerra di liberazione – dopo che tutto il popolo italiano con alla testa il suo eroico partito comunista aveva ripreso dal fango il tricolore abbandonato dalla monarchia e dal fascismo e l’aveva riportato alto nel cielo d’Italia – quando il popolo chiedeva una repubblica ed una costituzione per aprire la via a quelle riforme capaci di trasformare la struttura economica del paese, di intraprendere, con una nuova prospettiva, l’arduo lavoro per la rinascita dell’Italia, per la distruzione dei residui feudali e per la limitazione del potere dei grandi trust, causa essi di miseria per milioni di italiani e di tentativi di nuovo fascismo e di guerra. Ogni volta la storia si ripete: saremmo come ieri i “violenti”, i “prepotenti”, i “sobillatori”. E Bruno Nicchi? Cosa avrebbe fatto? Avrebbe risposto male! Anzi. “Ha risposto male e perciò l’ho schiaffato dentro”. “Non mi ha spaventato il triangolo della morte” sentii dire da un rappresentante dell’ordine pubblico qualche giorno dopo l’arresto di 18 contadini di Gubbio, uomini e donne, per violenza privata e per chi sa quali altre diavolerie previste dal codice penale fascista ancora in vigore e che l’antifascista Scelba si guarda bene dal cambiare anche se contrario allo spirito e alla lettera della costituzione repubblicana. Chi sono i nemici di Gubbio? Chi ruba ai contadini, chi non rispetta la Costituzione. Sono gli agrari che non chiudono i conti colonici,


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che portano via centinaia di milioni lasciando in abbandono la terra. Il governo protegge costoro? È il loro paladino? Ha paura della Costituzione? Bisogna anche dire che l’anticomunismo oggi significa proteggere i nemici di Gubbio, arrestare i derubati anziché i ladri, sconfiggere chi lavora invece di chi gavazza. Questo vuole Scelba, ma non la base Dc e soprattutto ad essa e ai suoi giovani mi appello e propongo di trovare assieme la via, assieme anche a quel clero che ancora sente l’antifascismo come un grande valore, che vuol bene a questa terra ed alla sua gente, che vuole il progresso di Gubbio.

Saldare due mondi Stralci comizio per la Cgil a Spoleto per la festa del Primo maggio 1955. Archivio personale cartella n. 2, fascicolo n. 2, D.Isuc.

La classe operaia divenendo alfiere di libertà, di democrazia poneva in modo forte la sua candidatura alla direzione della vita nazionale e la nazione aveva applaudito e voleva che questa forza nuova partecipasse alla direzione della vita nazionale. Purtroppo questa non era la volontà dei governi inglese ed americano, delle forze economiche che avevano sempre dominato in Italia. Dopo la liberazione con le sinistre al governo si erano ottenuti dei risultati, si realizzava la Repubblica, la Carta costituzionale, alcuni miglioramenti economici, ma dal 1947 partiva la controffensiva che puntava a spezzare l’unità popolare e a dividere le masse cattoliche da quelle socialiste, a dividere la stessa classe operaia. Ecco l’involuzione reazionaria: il 18 aprile, il violento attacco alla Costituzione ed alla classe operaia, la legge “truffa”. Si vuole colpire la libertà nella sua cittadella, la fabbrica. Si discrimina negli uffici di collocamento, si diminuiscono i poteri delle commissioni interne come allo Spolettificio di Baiano dove si ricattano i lavoratori impegnati nel sindacato. Vedete, è in questo clima che la Dc ed il governo parlano della loro vittoria alla Fiat! Quanto diversa da quello che pensano costoro è la realtà italiana! Oggi più grande è il malcontento e l’amarezza; i gravi problemi del


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paese non sono risolti ed urge rivedere le strutture dell’economia italiana. I monopoli e gli agrari generano miseria e poi fascismo, per impedire al popolo di vincere giocano alla guerra. Perciò oggi la battaglia è aperta e nell’attuale situazione avvertiamo sintomi positivi: i giovani Dc che si pronunciano per nuovi patti agrari, i liberali del periodico “Il Mondo” che attaccano duramente monopoli e potere Dc, la formidabile lotta di Genova, lo sciopero dei professori, la elezione di Gronchi a presidente della Repubblica. Si tratta di scansare la nebbia per vedere più chiaro, di saper saldare questi due mondi: quello cattolico e quello socialista sui problemi concreti del Paese, nelle fabbriche contro il supersfruttamento, per la garanzia del lavoro, per il rispetto delle commissioni interne. La vittoria recente dei minatori va mantenuta e bisogna andare avanti per la rinascita dell’Umbria, per le miniere, per la riforma agraria, per il lavoro ai giovani, per salari migliori, per la pace. C’è posto in questa lotta per ogni uomo, per ogni organizzazione, per la Cisl, la Uil, la Cgil. E sul problema della pace sono necessarie le più larghe alleanze perché queste sono settimane di grande pericolo (riarmo tedesco, uso delle atomiche).

Busseremo a ogni porta Stralci appunti di un comizio per la raccolta di firme per l’“Appello ai popoli contro la preparazione della guerra atomica” (1955). Archivio personale, cartella n. 2, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Il comitato mondiale dei partigiani della pace nella sua riunione di Vienna del gennaio 1955 ha lanciato un appello ai popoli contro la preparazione della guerra atomica. Esso si propone di far sottoscrivere questo appello ad un miliardo di persone (metà del genere umano). Questo appello è stato raccolto dal nostro comitato nazionale dei partigiani della pace ed oggi in ogni parte d’Italia è iniziata o sta iniziando la raccolta di firme contro le atomiche che vuole superare quella in calce all’appello di Stoccolma del 1950 che raggiunse i 17 milioni di firme.


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Poiché nella nostra regione la Questura ci ha proibito l’affissione di un manifesto che riproduceva questo appello sarà bene darne lettura (segue il testo). «Oggi, quando in Asia ed in Europa si addensano nubi di guerra a me sembra si ponga con urgenza la necessità di mettere al bando l’arma atomica. La questione oggi si pone in termini nuovi perché sono aumentate la potenza e la quantità di atomiche, perché tutte le grandi potenza le hanno e perché alcuni governi stanno preparando sul terreno tattico e strategico l’uso di queste armi. E le forze che si preparano a questo tipo di guerra, mentre affermano che più armi atomiche ci saranno più sicura sarà la pace, tentano di ridurre al fatalismo i popoli, mirano a far rinunciare i popoli ai loro diritti per timore dell’uso delle armi atomiche. Diceva Winston Churchill il 1° marzo 1955 in un dibattito ai Comuni: “Non è affatto escluso che, per un processo di sublime ironia, noi raggiungeremo uno stadio in cui la sicurezza sarà figlia del terrore e la sopravvivenza sorella gemella dell’annichilimento”. È il solito argomento dei guerrafondai, che fu anche quello di Mussolini e di Hitler, cioè la pace armata. Churchill quel discorso lo ha fatto perché a Londra si riuniva la sottocommissione delle Nazioni Unite (Onu) per il disarmo mondiale mentre le proposte dell’Urss per un graduale ed effettivo disarmo venivano rigettate. E vicino alle frasi di Churchill ci sono quelle di Mc Carty, di Foster Dulles, di Dwight Eisenhower, che ad ogni piè sospinto dicono di voler usare le armi atomiche, per ricattare popoli in lotta per la libertà come la Corea, Formosa, o per trattare su quella base con l’Urss. La stessa unità militare europea poggia su queste basi e la forza dei guerrafondai italiani lì poggia. L’accordo militare tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti (UEO) e la sua ratifica sono avvenuti con una debole maggioranza. Infatti in Inghilterra meno della metà del parlamento l’ha approvata; in Francia ha determinato la caduta del governo; in Italia c’è stata una frattura della Dc (Mario Melloni e Ugo Bartesaghi); in Germania un forte movimento contrario della socialdemocrazia e della classe operaia. Riusciremo nell’impresa per la raccolta delle firme e per la pace?


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Dipenderà da noi, dal nostro lavoro; grandi nel mondo sono le forze della pace, alla loro testa i popoli pacifici dell’Urss e della Cina e al loro fianco tutte le forze amanti della pace e governi potenti come quello indiano. Noi in Italia abbiamo un grande movimento popolare, abbiamo milioni di cattolici che si richiamano alla pace di Cristo e di Francesco d’Assisi. Occorre che sempre più viva sia l’unità di queste forze in difesa della pace e per impedire l’uso delle atomiche ed ogni atto che possa originare guerre, come il riarmo tedesco. Busseremo ad ogni porta per raccogliere firme, vogliamo che l’uso della energia termonucleare sia per la pace, sia soltanto una fonte di progresso per l’umanità. Ancora una volta possiamo sconfiggere i nemici della pace, i guerrafondai».

La forza dei comunisti Articolo pubblicato in “Cronache Umbre”, anno II n. 11, 16 giugno 1956

Per un certo periodo alcuni dirigenti Dc, ed una parte della stampa a loro legata hanno giuocato alla «crisi del Pci in Umbria». Ciò è avvenuto dopo che la Democrazia cristiana, con l’attivismo fanfaniano, iniziò un vasto tentativo per risvegliare in funzione anticomunista le masse cattoliche e dopo che menti elette, guidate dal prof. Radi, trovarono nell’«inserimento della Dc nei problemi economici dell’Umbria» la bella formula per far diminuire l’influenza elettorale del Pci – ed anche del Psi – che, per la verità, qui nella nostra provincia il 7 giugno fu più ampia di quanto parrocchie e caserme ne avessero previsto. Da allora, a molti ed in molte occasioni (pubbliche e private, preparate con cura o ricercate), i fanfaniani hanno tenuto all’incirca questo discorsetto: «Sono 10 anni che l’Umbria è rossa e cosa ne ha guadagnato? Si, è vero, in Umbria c’è molta miseria e noi non ce ne eravamo accorti: ora però l’abbiamo capito! Si deve cambiare la situazione ma bisogna che voi cittadini ci aiutiate; vedete, se troppa gente sarà iscritta ai sindacati rossi e voterà per il Pci gli agrari non tratte-


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ranno, i monopoli non si piegheranno ed anche il governo non ci aiuterà. Entri tutta la popolazione nelle file della Cisl e delle Acli, voti per la Dc! Allora faremo la fortuna dell’Umbria, allora i padroni con noi tratteranno e la Dc da sola, amica dei padroni e del governo, guarirà piaghe e ingiustizie!». E con questo discorsetto hanno corso molto. Corrono ancora onorevoli, sottosegretari e ministri democristiani attraverso l’Umbria. Però, dobbiamo rilevarlo, non parlano più di «crisi del Pci» ciò dipende sicuramente dal fatto che la formula dell’«inserimento della Dc nei problemi economici», benché bella e brillante (era, non per niente, frutto d’elevate menti) non poteva e non può aver fortuna perché era viziata. Vizio vecchio e marcio: anticomunismo della specie peggiore, gesuitica. La nostra provincia non di anticomunismo «marca Radi e Fanfani» aveva bisogno e masse di lavoratori e di cittadini votarono per il Pci perché garanzia di un avvenire migliore. Il Partito comunista nella nostra Provincia ha avuto subito dopo la Liberazione un rapido sviluppo. Le masse contadine e operaie umbre – pronte già nel ‘21 a passi rivoluzionari – represse dal fascismo maturarono nella sofferenza e nella lotta aspra una esperienza amara e profonda. Il partito, che aveva fatto della vecchia Russia zarista la grande Unione degli operai e dei contadini, che aveva saputo costruire prima e poi difendere dalla furia nazista lo Stato dei lavoratori, era il mirabile esempio cui la avanzata del nostro popolo guardava. La lotta dei comunisti umbri nel periodo clandestino e nella guerra di liberazione fece il resto: il Partito comunista non fu più soltanto una forza di libertà e di progresso, ma la garanzia più sicura contro ogni rigurgito fascista ed ogni avventura guerrafondaia. Sembrava allora ad alcuni che la democrazia potesse facilmente prevalere in Italia. Vennero, invece, gli anni duri della guerra fredda e del Patto atlantico e gongolarono i reazionari nostrani pensando che assieme al mazziere siciliano avrebbero spezzato le reni ai comunisti e quindi allo schieramento democratico umbro. Ma il popolo umbro aveva veduto giusto dando grande fiducia ai comunisti. Negli anni duri seguiti al 1947 il Partito comunista ha gui-


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dato la lotta, ha incanalato con intelligenza la forza enorme di rinnovamento che le masse popolari generavano. Con calma e fermezza senza farsi impressionare dalla celere ululante, dalle provocazioni fasciste e dai ricatti padronali, i comunisti hanno continuato ad organizzare la lotta per la Rinascita dell’Umbria, per la libertà e la Pace. Sono andati casa per casa trasformando ogni casa di contadino e di operaio in aula di discussione o in scuola di studi sociali (altro che scuole di bestemmie, stupidi!). Hanno sollevato ogni problema ed assieme alla popolazione studiate le soluzioni. Il «cancro umbro» sono gli agrari ed i monopoli. La miseria può essere spazzata, un periodo nuovo può aprirsi se avremo un governo che collaborando con le sinistre (e quindi con i comunisti e non con gli agrari) ci aiuti a tagliare il nostro cancro. Da questa giusta soluzione discesero le iniziative immediate prese per limitare, intanto, il male. Molti comunisti furono arrestati, condannati, feriti e bastonati nelle lotte per la «giusta causa», contro la disoccupazione, per impedire la chiusura delle miniere del Bastardo, per dare le strade a Gubbio. A migliaia i comunisti portarono questa loro ansia di rinnovamento, questo amore per la loro terra nelle più diverse associazioni e soprattutto negli Enti locali dove la volontà popolare li volle a dirigere assieme ai socialisti. E questa capacità di direzione nei Comuni e nell’Amministrazione provinciale è oggi generalmente riconosciuta: i comunisti sono gente che mantiene fede agli impegni presi, e che, malgrado le difficoltà, sà realizzare grandi cose. Sono passati otto anni da quando la Dc, cacciando i comunisti dal governo, diede il via all’anticomunismo bestiale e due anni sono già trascorsi da quando la Dc parlò «d’inserimento» ma non un passo verso la loro soluzione hanno fatto i nostri problemi di fondo. Oggi il movimento democratico nella provincia s’allarga e si estende per mille vie grazie anche ai fanfaniani che soffiando sulla cenere della rassegnazione di certi strati popolari scoprono fuochi nuovi. Nella Democrazia cristiana e in altri partiti del centro governativo avanzano forze nuove. Gli operai democristiani di Città di Castello, i pescatori cattolici del Trasimeno e i professionisti di Gubbio, solleva-


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no questioni per la cui soluzione richiedono l’intervento dei comunisti e quindi l’unità di tutte le forze popolari. E in questa direzione vanno oggi i comunisti: collaborazione di tutte le forze popolari per risolvere i nostri problemi, in basso ed in alto. Potremmo così concludere che l’ondata Dc spumeggia, rabbiosa per l’impotenza, sulla roccia del movimento popolare umbro. Ma non sarebbe giusta l’immagine. In queste dolci nostre colline dove la fatica e la miseria spezzano le reni all’uomo, e nelle nostre città medioevali rimaste ferme da secoli si vanno sempre più sviluppando una forza e una volontà nuove. Il Partito comunista ne è la avanguardia ed alzando la bandiera del rinnovamento da una moderna dignità all’operaio ed al contadino, una cultura nuova all’intellettuale. Contro questa forza gigantesca s’infrangono gli attacchi degli agrari, del Monopolio e della parte più reazionaria della Dc. La spuma dell’ondata reazionaria nello sforzo d’andare controcorrente più alta e rabbiosa s’alza e biancastra s’annulla. Il Partito comunista nel 1955 ha retto all’attacco più duro e serrato che mai dopo il 1945 gli sia stato scatenato contro. Ha retto andando avanti e facendo avanzare in Umbria la causa della Democrazia. Oggi ha già iniziato le operazioni per il tesseramento 1956. Nel giro di poche settimane più di 30 mila comunisti riconfermeranno, assieme a quasi 5 mila giovani, la loro adesione a questo grande movimento ed altre migliaia di cittadini onesti e intelligenti entreranno nelle sue file. Penetra nel popolo sempre più la convinzione che solo rafforzando il Partito comunista avremo in Italia quel periodo di pace e di distensione necessario per porre seriamente mano alla rinascita della nostra Umbria.

Aiutare il Pcus a superare gli errori Stralcio intervento al IX Congresso provinciale del Pci (Perugia – Sala dei Notari – 3 novembre 1956). Archivio personale, cartella n. 2, fascicolo n. 3, D.Isuc.

Sul movimento operaio internazionale voglio dire alcune cose. Oggi il socialismo è più forte dell’imperialismo, i comunisti hanno


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contribuito in modo determinante a creare questa nuova situazione. L’Urss rompendo le catene dell’imperialismo, creando lo stato socialista, vincendo il fascismo, è stata il cardine di questo processo. Da qui occorre partire per criticare alcuni errori ideologici e politici del nostro movimento e da qui è partita la relazione introduttiva a questo congresso. Errore fondamentale – è stato ripetuto – è il distacco che si è creato tra la realtà oggettiva e l’azione dei partiti comunisti ed il XX congresso del Pcus ha gettato le basi per la correzione. Su una questione vorrei dire la mia opinione e cioè sui rapporti che debbono intercorrere tra i vari partiti comunisti. Internazionalismo proletario non significa ignoranza completa della realtà che esiste in quel determinato paese e del modo come il Partito comunista lì opera, ma la valorizzazione di tutto il positivo e l’esame attento dei difetti, perché proprio nella lotta tra il bene ed il male, nella sofferenza nostra di comunisti, c’è tutta la carica umana e morale ed essa è ben più grande e più bella del roseo schema dove tutto sembra sempre andare benissimo. In questo spirito autonomia piena, assoluta, ed in questo quadro ad ogni partito spetterà il posto che si è meritato e si va meritando con la sua lotta. È certo che quando il Pcus si è posto quegli enormi problemi che ormai vanno sotto il nome di “XX Congresso”, non lo ha fatto per una nostra investitura ma per porsi alla testa di una battaglia giusta che la realtà gli imponeva. Non faremmo un buon servizio al Pcus se non lo aiutassimo a superare gli errori del passato. Errori che io non credo possano essere cancellati all’atto stesso della loro denuncia o subito dopo senza esitazioni e lotte (Togliatti parla di degenerazioni in alcuni settori: sono d’accordo). Autonomia nostra come Pci, questo mi pare vogliano anche i sovietici e insisto su questo punto, perché ancora alcuni compagni pensano di poter riaffermare lo “stato guida ed il partito guida”. Dico questo perché mentre su “Nuovi argomenti” Togliatti ha parlato di “sistema policentrico” (vari centri di contatti, informazioni, coordinamento) poi egli ha rettificato ed ha parlato di “rapporti bilaterali”. Non capisco bene. Io ritengo che i vari partiti comunisti possano avere tra di loro tutti quei rapporti (bilaterali, trilaterali o che so io) che in quel determinato momento giudichino utili e necessari.


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Essenziale è che essi rimangano nello spirito dell’internazionalismo proletario, che essi non mirino ad intervenire bruscamente e non fraternamente nella vita di un altro partito e di un altro popolo (come ad esempio con la Jugoslavia). Sul rinnovamento del Partito. Anche qui dobbiamo partire – oltre che da un giudizio sulla potenza del movimento operaio nel mondo – da un giudizio sulla attività e sulla forza del movimento operaio e del Pci in Italia. Giudizio che non può essere che positivo, queste le tappe fondamentali della sua lotta: abbattimento del fascismo, insurrezione, repubblica e Costituzione, lotta contro i nuovi pericoli di guerra, lotta per salvare la democrazia e per applicare la Costituzione. Il Pci, in questa grande battaglia, da piccola avanguardia è divenuto una grande forza viva ed operante. Nella nostra provincia dobbiamo affermare che la sua opera è stata insostituibile ed ha posto alla società umbra i problemi essenziali per la sua rinascita. Naturalmente questo ha comportato anche errori seri che hanno frenato e ritardato la nostra capacità di movimento. Un problema che va posto è questo: nelle tesi è detto che dal 1953 in poi ci sono stati ritardi e incomprensioni nella lotta per le riforme di struttura e per un nuovo governo del paese. Il problema da porsi non è soltanto quanto questo abbia reso pesante il passo del partito, ma anche come una certa organizzazione, certi metodi di direzione, abbiano determinato un distacco tra dirigenti e base e quindi impedito ai dirigenti di capire appieno gli elementi nuovi della situazione (per questo ritengo giusta la proposta di Galli di fare tesi specifiche su determinati problemi). Senza dubbio la estrema centralizzazione denunciata nelle tesi ha affievolito troppo la voce della base – e non solo della base – ed ha fatto prevalere il centralismo a senso unico. Togliatti ha detto che certi metodi sono stati denunciati alla IV conferenza nazionale del partito. Ed è vero, ma perché si è andati tanto piano nel correggere quegli errori? Certi metodi sono duri a morire. Dobbiamo allargare la democrazia nel partito, dobbiamo far partecipare tutti alla elaborazione della linea politica, dobbiamo dire tutto e ascoltare tutto. Facciamo del partito una casa di vetro – in alto


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e in basso – non abbiamo niente da nascondere (ancora certi spostamenti di quadri avvengono in modo strano). Occorre perciò prima di tutto reciproca fiducia e stima. Sul problema della vigilanza. Vigilanza per alcuni vuol dire ancora sospetto ed anche noi abbiamo nel passato inteso così la vigilanza. Che cosa dovremmo nascondere? Possono mandare a spiarci a sentire ciò che diciamo? Magari potessimo fare tutte le nostre riunioni in piazza! La vigilanza oggi deve essere politica, contro gli errori politici, per l’unità politica del partito. Allora occorrono una serie di misure, alcune delle quali sono indicate nella relazione di Galli, e un’attitudine nuova da esplicare ad ogni livello dalla cellula a tutti gli organismi eletti, alla vita degli organismi di direzione.

Il lavoro della delegazione Relazione al Comitato federale della nostra delegazione all’VIII Congresso nazionale del Pci (dicembre 1956). Archivio personale, cartella n. 2, fascicolo n. 3, D.Isuc.

Sulla partecipazione della delegazione della federazione perugina del Pci all’VIII Congresso nazionale. I delegati sono stati tutti presenti. Il delegato Damiani di Umbertide che non ha potuto partecipare ai lavori è stato sostituito da Cavargini di Città di Castello. Per la delegazione si è subito iscritto a parlare in seduta plenaria Gino Galli. Martedì ha dovuto rinunciare a prendere la parola perché impegnato in Commissione politica (stesura della mozione). Giovedì la presidenza ha chiesto a Galli, come a molti altri, di rinunciare ed inserire l’intervento negli atti del congresso. La delegazione ritiene d’aver dato un notevole contributo in Commissione politica. Ciò è stato possibile per l’attiva partecipazione di Galli e per gli argomenti che a lui aveva fornito il nostro dibattito in sede provinciale e la mozione conclusiva del nostro congresso. Galli è intervenuto sui problemi del movimento operaio internazionale e sulla situazione politica nel mondo. Su questi temi egli, assieme


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ad un altro compagno, è stato incaricato di redigere il testo di modifica della mozione. Inoltre Galli è attivamente intervenuto sui temi della Costituzione, della via italiana al socialismo, dei ceti medi, della piccola e media borghesia, della lotta contro i monopoli e della necessità di una azione più generale, ed infine sui problemi del centralismo democratico. Inoltre la delegazione come tale è intervenuta attivamente sul giudizio da dare sui membri del Comitato centrale che hanno lavorato (o risieduto) in Umbria. La delegazione si è riunita ed ha deciso di far recapitare alla Commissione elettorale una lettera dove si rilevava il legame scarso ed insufficiente che nell’attività c’era stato tra quei compagni del Comitato centrale e l’Umbria (tanto per il contributo che dal Cc attraverso loro poteva venire, come per il contributo che essi attraverso la esperienza umbra potevano portare al Cc). La lettera, elaborata da tre compagni, è stata discussa nuovamente da tutta la delegazione che ha modificato il testo poiché parlava dell’esigenza di un nostro compagno nel Cc al posto di Armando Fedeli. È poi sorto il problema di far aderire a questa iniziativa anche i compagni di Terni e quindi tre compagni hanno preso contatto con la delegazione ternana. La delegazione ternana ha giudicato inopportuna la lettera, sia perché il caso di Albertino Masetti era ben noto, sia perché le critiche a Fedeli non erano di loro competenza e consigliava la nostra delegazione di parlare a voce anziché scrivere alla Commissione elettorale. Abbiamo chiesto se avevano nomi da proporre per il nuovo Cc, ma hanno risposto di no. A questo punto ci riunivamo ancora come delegazione perugina e si decideva di non fare alcun passo in attesa della lettura dei nuovi candidati al Cc. Nell’elenco dei candidati presentato alla assemblea dei delegati il nome di Masetti non c’era ed un compagno ha sollevato il caso. Quindi la Commissione elettorale ha ripreso in esame la questione chiamando a discutere la delegazione ternana. Abbiamo ritenuto nostro dovere riunirci per intervenire ed abbiamo incaricato i compagni Vinci Grossi e Alfio Caponi di discutere con la Commissione elettorale. Così si è fatto.


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8.000 edili: supersfruttamento e bassissimi salari Articolo per “l’Unità” cronaca di Perugia del 6 ottobre 1957 in preparazione della Conferenza degli operai comunisti. Archivio personale, cartella n. 2 bis, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Il censimento industriale 1937-40, alla voce «industrie edilizie» dà 1.065 aziende con 3.889 addetti. Il censimento 1951 alla voce «costruzioni» da 351 aziende con 3.109 dipendenti. Ma queste cifre, che difficilmente corrispondevano alla realtà d’allora, oggi non possono assolutamente essere prese come base. Da un calcolo sommario fatto direttamente – poiché nessun istituto fornisce questi dati – si possono dare come impiegati permanentemente nell’edilizia almeno 8.000 lavoratori, senza considerare i settori del cemento, dei laterizi, della calce e del gesso. È stato quest’ultimo un periodo favorevole per gli impresari dell’arte muraria. Le amministrazioni popolari hanno dato il via a tutta una serie di importanti opere pubbliche, nel quadriennio 1953-‘56 il Genio Civile ha eseguito lavori pubblici per sei miliardi di lire e nello stesso quadriennio si sono costruiti 50 mila vani per abitazione. Questa più intensa attività ha permesso a molti impresari di rinnovare le attrezzature e di accumulare notevoli capitali in immobili ed in liquidi. Con le nuove attrezzature (macchine per fare la calce, montacarichi, impalcature in tubi, ecc.) e con la larga introduzione del cemento armato si è avuta una riorganizzazione del lavoro. Oggi il lavoro è diviso per squadre: carpentieri, pavimentisti, imbianchini, ecc Queste nuove tecniche hanno consentito di costruire più velocemente e con spese inferiori. È necessario e giusto vedere alla luce di questo breve esame in quale situazione si trovano i lavoratori dell’edilizia. Nella nostra provincia sino a pochi giorni fa un manovale prendeva 1.064 lire al giorno ed un muratore di prima categoria 1.366,80. Inoltre a compenso del mancato pagamento delle ferie, della gratifica natalizia, delle feste infrasettimanali e nazionali, della liquidazione (gli edili nello stesso anno lavorano con più ditte) essi hanno una


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indennità giornaliera del 25,16%. Dal 1 ottobre, dopo la conquista del nuovo contratto di lavoro, godono di un aumento giornaliero pari a 83,36 lire per i manovali ed a 140,40 per i muratori. Paghe magre, dunque, rese ancora inferiori da una realtà che non traspare dalla semplice lettura delle paghe giornaliere. Un muratore in un anno non supera mai le 250 giornate di effettivo lavoro mentre un manovale, anche il più fortunato, non va oltre le 200 giornate. Ma nessun manovale lavora in modo continuo. Prendiamo G. di Tavernelle, 40 anni, manovale edile, la moglie ed un figlio. Sino al 1948 ha lavorato nella miniera di Pietrafitta. Da allora sono passati 9 anni ed egli ha lavorato 4 anni e mezzo, restando disoccupato per altri 4 anni e mezzo. Quanti sono i manovali dell’edilizia che si trovano in queste condizioni? Si calcola che almeno un numero doppio dei lavoratori occupati siano i manovali che oggi premono alle soglie dei cantieri per essere assunti. La cifra reale non è più controllabile ed i conti degli uffici di collocamento non valgono molto. La discriminazione, l’eliminazione di ogni controllo operaio sul collocamento hanno svilito agli occhi dei lavoratori questi uffici di collocamento. Molti manovali non «versano» più il loro libretto di lavoro e nella costruzione di abitazioni, lo sfollamento crescente in atto nelle campagne – malgrado la forte emigrazione di nostra mano d’opera all’estero – rende sempre più drammatica questa situazione. I lavoratori costretti a discutere la loro assunzione con l’impresario, in concorrenza con altri lavoratori, sono ogni giorno di più alla mercé del ricatto e del sopruso padronale. Inoltre con la nuova organizzazione del lavoro, mancando attualmente in campo nazionale le tariffe di cottimo, la misurazione dei cottimi nei vari lavori (carpenteria, intonaci, ecc.) avvenendo direttamente tra l’impresario ed una singola squadra permette all’impresario di ridurre i cottimi tanto da costringere i lavoratori a fare sino a 10-12 ore per guadagnarne non più di otto. Oggi il contratto di lavoro non è rispettato integralmente in nessun cantiere. Le tariffe salariali nel comune di Perugia sono rispettate da non più dell’80 percento delle aziende, mentre nella provincia si scende al 40 percento. Ad esempio nel comune di Città di Castello non esi-


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ste più una sola impresa che paghi a tariffa: i manovali per una giornata di 9-11 ore ricevono la paga di 8 ore. Nei piccoli comuni e nelle frazioni la situazione è ancora più grave: l’operaio D., un giovane manovale specializzato di Cacciano (Todi), guadagna per dieci ore di lavoro giornaliero 1.000 lire compresi gli assegni familiari per la moglie (spende 100 lire di miscela per andare e tornare dal lavoro). In molti cantieri gli impresari danno tutti i lavori in sub-appalto a prezzi briganteschi, e spesso capita che i sub-appaltatori, non riuscendo a farla pari, falliscono, lasciando gli operai senza paga. Succede anche che in alcune imprese gli operai si vedono segnate sull’esterno della bustina regolarmente tutte le loro spettanze, mentre poi dentro la bustina trovano una somma inferiore di alcune migliaia di lire alla cifra segnata fuori (e questo è furto, bello e buono). Ma per dire l’estensione del male basta sapere che il sindacato provinciale edili nel 1956 con le sole vertenze individuali ha permesso ai lavoratori di recuperare la cifra di ben 17 milioni di lire. L’accelerato ritmo del lavoro, la giornata più lunga, le scarse misure di sicurezza prese dalle aziende, hanno portato all’aumento costante degli incidenti e degli infortuni sul lavoro. Nel 1956 ci risultano morti per incidenti sul lavoro nella nostra provincia, ben 12 operai del settore edile. L’Istituto provinciale infortuni in una lettera del 7 settembre così scrive al Sindacato provinciale degli edili: «In questi ultimi tempi gli infortuni in edilizia sono notevolmente aumentati, tali che possono ritenersi preoccupanti per la gravità».

Il lavoro nelle fornaci Articolo per “l’Unità”, cronaca di Perugia del 11 ottobre 1957, in preparazione della Conferenza degli operai comunisti. Archivio personale cartella n. 2 bis, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Sino ad oggi le innovazioni tecniche apportate nelle 22 fornaci di laterizi della nostra provincia hanno significato per i quasi 2.000 lavoratori di questo settore soprattutto più fatica e talvolta meno gior-


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nate di lavoro, invece di una più adeguata retribuzione, largamente compensata dallo sviluppo produttivo. Contro i contratti a termine, introdotti assieme alle nuove macchine, hanno scioperato lunedì scorso gli operai della fornace Frazzi a Città della Pieve, mentre in tutta la provincia si svolgono assemblee per ottenere il nuovo contratto nazionale e provinciale che adegui le paghe al reale costo della vita e che permetta agli operai di ottenere una parte dell’utile che all’azienda deriva dal progresso tecnico. Solo le più piccole fornaci, quelle che navigano in difficili situazioni economiche, non hanno portato mutamenti tecnici e cercano di sopravvivere sulle spalle degli operai (paghe inferiori, mancato pagamento varie gratifiche, dilazionamento salari, ecc.). Le altre fornaci hanno, ormai, macchinari moderni. Alcune di esse hanno introdotto ruspe con nastro rotante; altre assieme alle ruspe hanno nuove macchine per la stampa dei mattoni, e infine le più moderne, come la Briziarelli di Marsciano, da tempo usano modernissimi forni per la cottura e l’essiccazione automatica dei mattoni. Tutte queste fornaci usufruiscono ormai di silos per la conservazione della terra per l’inverno. In talune aziende, come la Briziarelli, le macchine legano tutti gli operai al loro ritmo: i lavoratori portano ad esempio gli «inforcatori» che, seguendo il ritmo delle stampatrici, con destrezza «infilano» i mattoni all’uscita delle stampatrici e li adagiano sui carrelli. Dal nuovo sistema di produzione deriva l’esigenza di un aggiornamento dei cottimi che abbia come base il principio del «minimo garantito». Le macchine, e la riorganizzazione del lavoro che ne è seguita, hanno permesso agli industriali di ottenere alti profitti. In questi ultimi 4 o 5 anni infatti la produzione è più che raddoppiata. Il numero degli operai invece, non è aumentato, come largamente dimostra la tabella riportata nel corpo dell’articolo, dedotta dai dati mensili pubblicati per l’Umbria dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. Gli utili degli industriali sono stati alti anche perché le paghe dei fornaciai, qui da noi, sono irrisorie. Un operaio qualificato guadagna


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1.210 lire al giorno ed un manovale comune 1.064,80. Le donne sono il 10% delle maestranze, guadagnando lire 893,60 al giorno pur essendo adibite spesso, contro ogni legge, ai lavori più pesanti. Così il nostro fornaciaio, pur essendo capace come altri e faticando anche più, guadagna, se è un manovale comune, 194 lire al giorno meno di un manovale di una fornace di Roma, della città cioè dove va a finire almeno l’80% dei mattoni prodotti in Umbria. Gli stessi contratti di lavoro sono scarsamente rispettati. Pochi giorni fa, una nota azienda cittadina ha dovuto corrispondere a conclusione di una vertenza intrapresa dal Sindacato, ad un operaio 200.000 lire per mancata corresponsione delle percentuali di maggiorazione del lavoro straordinario, notturno e festivo. Di pari passo, naturalmente procede la politica antioperaia che si concreta in aperte discriminazioni, licenziamento di organizzatori sindacali, nella lotta per impedire la elezione delle commissioni interne o per privarle delle loro prerogative. Anche il contratto di lavoro non rispecchia le esigenze dei lavoratori, anche se le cose sono migliorate in questi anni, grazie alle lotte condotte. Nel 1952, infatti, dopo la firma dei contratti nazionali (essi sono due: uno per il centro-sud e l’altro per il nord d’Italia) gli industriali perugini, approfittando di una certa disorganizzazione tra gli operai, imposero il contratto peggiore, quello del centro-sud. Nel marzo 1955, però, i fornaciai perugini con la lotta riuscirono, se non ad ottenere il contratto del nord, a modificare sostanzialmente il contratto centro-sud. Oggi nella azione per il rinnovo del contratto provinciale, uno degli obbiettivi è proprio quello di ottenere il contratto del nord. Oltre a ciò, i fornaciai esigono il pagamento con la maggiorazione delle «straordinarie» della nona ora di lavoro che effettuano nel periodo estivo. Ultimo aspetto che vogliamo mettere in risalto in queste brevi note è la assoluta mancanza di mezzi protettivi. I «carriolanti», addetti a trasportare i mattoni dai forni all’esterno, a dorso nudo passano dai 60-70 gradi di calore ai 10-20 gradi. Questo solo esempio basta a spiegare i 20 casi di pleurite (alcuni degenerati in tbc) che si ebbero tra gli operai di una fornace di Todi in due mesi dell’estate 1955. Logico,


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quindi, che la lotta degli operai tenda anche alla conquista di una maggior sicurezza sul lavoro come richiedono anche le leggi dello Stato.

Schema corso Cgil Schema per conferenza sui temi organizzativi della Camera del lavoro tenuta al corso di una settimana per dirigenti della Cgil perugina (novembre 1958). Archivio personale cartella n. 2 bis, fascicolo n. 1, D.Isuc.

L’incontro di oggi non vuole trattare questioni teoriche né ripercorrere la storia della nostra organizzazione, non ha il carattere di una “dispensa”. Piuttosto faremo un esame concreto dei problemi nel settore operaio della organizzazione sindacale e della democrazia sindacale nella provincia di Perugia. Alcuni dati relativi al settore: potrebbero organizzarsi circa 30.000 operai, ma realmente organizzati sono circa 6.000. Dopo la liberazione in Italia vi fu una relativa vivacità organizzativa anche se i problemi sono venuti fuori presto: sindacati guidati troppo dall’alto, alcuni vuoti, il peso della scissione, la nascita di Cisl e Uil. Vi furono alcune dure sconfitte (Angora, Perugina) causate dalla scissione e dalla repressione. Ma non basta – occorre un esame critico. Ricercare le cause: nuova organizzazione del lavoro – nuovi gruppi operai – debole e imprecisa nostra attività – settarismo e opportunismo. Oggi abbiamo elaborato alcune linee ma: incrostazioni pericolose (Saffa, Grandi officine) – fabbriche ove non si fa niente – zone ove non si opera – esigenza di conoscenza più vasta – conoscenza altri sindacati. Allora è decisiva la conoscenza della nostra impostazione e poi organizzazione: in primo luogo organismi di direzione provinciali dei sindacati; in molte camere del lavoro mancano gli esecutivi e le leghe; gli attivisti di fabbrica scarsi; problema disoccupati; assistenza; fabbriche che chiudono. Molto il lavoro da farsi e oggi tutto ricade sui segretari Camere lavoro che spesso sono anche capilega e su dirigenti INCA. Diviene spossante il lavoro della segreteria provinciale della Camera del lavo-


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ro perché oltre che orizzontale è sostitutivo anche in senso verticale dei sindacati di categoria, addio democrazia. Da dove cominciare? Mettere ordine a tutti i livelli – mirare all’essenziale. IN FABBRICA: situazione – problema quadri – educazione – conquista fiducia degli operai. Ciò significa conoscere problemi della fabbrica – avere contatti diretti con operai (all’uscita) – continuità nel rapporto con – piano graduale di azione – infine conferenza di fabbrica. NEL TERRITORIO: edili gruppi frazionali, congressi di lega, congresso prov. di categoria – ricerca contatti con alcune categorie – disoccupati. NELLE LEGHE DI CATEGORIA da fabbrica risalire a lega – sua importanza – storia congresso lega – direttivo – possibilità finanziarie e iniziative. NELLE CAMERE DEL LAVORO : funzionamento esecutivo – consiglio generale sindacati. Puntare su alcune fabbriche e sui congressi di alcune categorie (edili, grafici, alimentaristi, autoferrotramvieri).

Agire cambiando strada Articolo pubblicato in “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” del 2 dicembre 1958. Archivio personale cartella n. 2 bis, fascicolo n. 3, D.Isuc.

La «Sogema» ha chiuso i cancelli. Gli operai ed impiegati dipendenti sono stati messi in sospensione. Si dice (è quasi certo) che i Nardi, proprietari della fabbrica di attrezzi agricoli di Selci Lama, abbiano rilevato a buon prezzo la «Sogema» che si trovava ormai in una situazione pre-fallimentare. Questa notizia è la prima questione sulla quale i tifernati debbono riflettere. Alcuni anni fa gli stessi Nardi comperarono la «Safima». Allora molti sperarono in un grande sviluppo di quell’azienda, ma i Nardi invece preferirono chiuderla definitivamente.


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Oggi si ripone la stessa questione. La «Sogema» è una fabbrica di modeste proporzioni, ma attrezzata in modo moderno, ed ha alcuni brevetti di sicuro avvenire nel campo delle macchine agricole. L’esperienza passata non ci fa stare tranquilli. Noi crediamo che le Organizzazioni sindacali come le autorità cittadine debbano conoscere subito l’intenzione dei nuovi proprietari e pretendere, il mantenimento in vita della azienda. Ma l’esame e l’attenzione dei tifernati debbono rivolgersi alla intera situazione della nostra industria. La «Sogema» ha chiuso i battenti così come fece poco tempo fa l’altra industria di attrezzi agricoli «Marinelli». Nel settore tipografico la «Leonardo» ha fallito mentre la «Spe» è notorio che si trovi in gravi difficoltà. È necessario porsi alcuni problemi. Sin qui i dirigenti della industria castellana hanno creduto di superare le numerose difficoltà, che loro si ponevano davanti, decurtando in vari modi i salari e non pagando nella giusta misura gli oneri assicurativi: hanno creduto di ottenere certe somme, che permettessero alle loro aziende di risalire la china, chiedendole a bassa voce alle banche locali, ai nostri agrari, ai vari ministeri. E, per la verità, dobbiamo riconoscere che tali orientamenti avevano fatto breccia anche in certi gruppi di lavoratori. I risultati sono stati fallimentari ed oggi è necessario avere il coraggio di guardare in faccia alla realtà anche se non è bella. Bisogna francamente ammettere che si è andati per una via errata che ha impedito alla nostra industria di mettersi al passo con i tempi. Per salvarsi e soprattutto per svilupparsi la nostra industria non deve più vivere alla giornata. Oggi per ogni azienda è indispensabile lo studio attento dei mercati, la programmazione della produzione, la riduzione dei costi di lavorazione attraverso la introduzione di macchine moderne e la razionalizzazione del lavoro. Altri elementi vitali allo sviluppo dell’azienda sono i costi dell’energia elettrica, le vie di comunicazione, ecc. Per ammodernare l’azienda ci vogliono capitali molto elevati. Da qui discende l’orientamento che si deve scegliere. Ebbene noi crediamo che nella ricerca dei crediti a lunga scadenza e a basso interesse si debba orientarsi in due direzioni. La prima verso le banche locali, alcuni agrari (quelli stessi che hanno conces-


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so crediti alla «Sogema» all’infame tasso del 25%), la «Fattoria Tabacchi». Questa è la “triplice” che ha rastrellato tutti i capitali dell’Alta valle del Tevere e che ha il dovere di ridarne una parte, almeno in prestito, per lo sviluppo della nostra città. La seconda verso il governo che noi crediamo abbia compiti precisi, cui non può sottrarsi, verso la nostra città. Soprattutto per lo sviluppo delle tipografie. A Città di Castello questa arte ha una nobile tradizione. Abbiamo tipografie di fama nazionale e internazionale, abbiamo una mano d’opera altamente specializzata, abbiamo una scuola che ogni anno diploma decine di giovani tipografi. Questo capitale è frutto della fatica e del sacrificio di più generazioni di tifernati e non può andare perduto per sempre. Il governo deve fornire una parte dei capitali necessari alla creazione di una moderna industria tipografica a Città di Castello. Altre due questioni cui il governo deve contribuire alla soluzione sono i prezzi dell’energia elettrica e le vie di comunicazione: tali problemi meritano però una discussione a parte. Certo è che solo attraverso un lavoro ampio e profondo, con la mobilitazione di tutte le forze politiche ed economiche dell’Alta Valle del Tevere noi riusciremo a raggiungere questi traguardi. E la battaglia è indispensabile perché al di fuori di essa c’è il ristagno economico, la degradazione continua delle nostre attività industriali come l’esperienza, a iosa, sin qui ha dimostrato.

Il grande sciopero generale Appunti sommari delle riunioni di preparazione e di esame dei risultati nelle date 21 e 30 ottobre 1959. Lo sciopero era indetto per la rinascita umbra. Lo sciopero fu decisivo per il dibattito unitario in Parlamento. Archivio personale, cartella n. 2 bis, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Preparazione sciopero: riunione segretari Camere del lavoro: 13/10/59 Gambuli introduzione – estendere al massimo sciopero – valore politico – Dc contrasti – prima azione unitaria – spingere con decisione


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Loreti Foligno: forti difficoltà – dirigenti ferrovieri espresso parere negativo – puntare su assemblea e sciopero metallurgici e alimentaristi Caponi per Spoleto: a Spoleto sciopero accolto benissimo – partire dappertutto con massima decisione – attenzione commercianti e studenti. Caprini alimentaristi: emotività – lavorare con immediatezza. Antonini mezzadri: puntare con decisione al massimo non al minimo – puntare ferrovieri – lo sciopero coincide con settimana informazione mezzadri – mezzadri debbono caratterizzarsi con lotta per investimenti in agricoltura. Valenti Città di Castello: d’accordo con sciopero – riunire subito direttivi Camera lavoro e Lega mezzadrile – puntare su fabbrica Nardi, edili, tipografi, disoccupati Fagioli Foligno: fare il possibile. Petrini Gubbio: puntare su problemi largamente sentiti – problemi aziendali – allargare il più possibile. Serafini Città Pieve – fornaci Frazzi vedremo – canale Trasimeno – spostiamo comizio da sabato a mercoledì Toni Gualdo Tadino – faremo possibile Marconi Marsciano: vedere con Comune – dovremo fare possibile. Pucci Umbertide: si mezzadri e disoccupati- tabacchine difficile. Nota. Sono elencate le località ove tenere le 21 manifestazioni previste Esame risultati sciopero: riunione segretari Camere del lavoro 23/10/59 Gambuli: come a proclamazione sciopero hanno risposto: operai fabbriche, altre categorie, contadini, commercianti, artigiani, industriali – attività sviluppata da noi, da Cisl, Uil, Cisnal – come sono riusciti comizi e manifestazioni: unitari o no – con quali parole d’ordine andiamo avanti (blocco licenziamenti, piano regionale, problemi locali e aziendali). Giudizio su risultati sciopero: passi avanti nella lotta contro governo – estensione – avvicinamento posizioni Cisl – sensibilizzati governo e nazione – adesione industriali e commercianti. Loreti, Foligno: resistenze tra operai ed attivisti sindacali – punte di


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campanilismo – sciopero improvviso e imposto dall’alto – corporativismo ferrovieri (solo adesione formale) – forte attività Camera del lavoro, comizio scarse adesioni – forte iniziativa commercianti – negativo: due manifestazioni una noi una Cisl –zuccherificio non riuscito. Gubbio: riuscita superiore previsioni – fatti volantini a tutte categorie e comizi volanti – Cisl prima assente poi trascinata nell’azione – tutti sciopero meno cementificio Barbetti – piena riuscita sospensione commercianti – limitata nostra azione tra mezzadri – comizio poco riuscito. Todi :intensa preparazione sciopero – prima volta sciopero Toppetti, Carbonari, ecc. – commercianti richiedevano azione a oltranza – Cisl sparita – comizio poco riuscito – andare avanti per rinascita larghe alleanze. Umbertide: superiore previsioni riuscita – tabacchi non scioperato Caprini: necessità di continuare lotta – gli obbiettivi erano chiari e ben riassunti nel manifesto – a Perugia operai compreso non trattarsi di solidarietà ma di rinascita – uno dei motivi per cui Cisl ha aderito è stata pressione loro attivisti: premere su attivisti Cisl. Spoleto: giudizio molto positivo su adesione – estendere anche a Terni azione: che oggi sta maturando – insistere su mozione parlamentare – con CISL precisare meglio modalità lotta – a cementerie non riuscito – Saffa due ore. Marsciano: risultato positivo – usciti da situazione di freddezza – CISL immobile – condanna alla Cisl da tabacchine – 24 ore elettromeccanica – mezza giornata tabacchine – 15 ore fornaci – cantieri, ecc – manifestazione Cgil riuscita. Gualdo Tadino: sciopero delle ceramiche – manifestazione con ACLI. Rosati Amedeo: ruolo essenziale giocato da CGIL nello sciopero – possibilità continuare – dare chiarezza a lavoratori – puntare con disoccupati su lavori pubblici. Passignano: buon lavoro – non aderito Acli – sciopero 24 ore – buon comizio. Magione, sciopero 24 ore – Cisl non aveva informato – manifestazione meno riuscita. Bastia-Assisi: puntato su Cipolla, Franchi, Pastificio; per il resto


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puntato su movimento opinione – spinto su attivisti CISL – parlato con industriali. Tavernelle: a Panicale scarsa riuscita – a Tavernelle sciopero riuscito dalle 16 alle 18 – comizio riuscitissimo partecipato anche commercianti – sciopero preparato solo da Cgil – manifesto del Comitato Cittadino. Città Pieve: ripresa fiducia – battaglia critica nelle nostre organizzazioni – fornace tre ore sciopero. Gambuli conclusioni: giudizio altamente positivo sciopero – valore politiche convergenze – avere fiducia nostra linea e nelle possibilità: uscire da bottega – spingere Cisl, fare lavoro su attivisti – andare avanti subito: disoccupati, documento Cgil, problemi rinascita locale.

I Tambroni passano presto Stralcio del comizio tenuto a Città di Castello per celebrare il Primo maggio (1960). Archivio personale cartella n. 2, fascicolo n. 6, D.Isuc.

C’è oggi bisogno di un sindacato forte ed unito per vincere le battaglie del lavoro. In questi giorni la lotta unitaria ha inciso notevolmente sulla vita economica e politica del paese. Quando due anni fa – in vista della crisi del Mercato economico europeo – i gruppi di pressione decisero il blocco dei salari ed i licenziamenti vollero anche darsi un governo che in quell’opera li sostenesse e così nacque il governo Segni. È proprio sotto Segni e suo malgrado che impiegati statali, operai, contadini rompono la linea padronale e riportano in parlamento i loro problemi. Valgano le discussioni parlamentari sull’“erga omnes”, sui contratti a termine, sui sub-appalti. Valga per noi umbri la discussione di febbraio alla Camera sui problemi della depressione umbra terminata con un ordine del giorno unitario che impegna il governo a prendere seri, organici provvedimenti per l’Umbria. Questi i frutti delle lotte dei braccianti, dei tessili, dei metallurgici. Per l’Umbria i frutti delle lotte di Spoleto, di Perugia, dello sciopero generale unitario del 21 ottobre 1959, del movimento per l’ente regione.


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Perciò la Confindustria nella sua assemblea annuale ha deciso la caduta del governo Segni. La Confindustria aveva bisogno di un governo forte e la crisi governativa è anche crisi della Dc, di un forte partito interclassista dove la sinistra per 10 anni ha fatto ciò che la destra ha voluto. Malgrado i Fanfani, i Pastore, la “base”, “rinnovamento”, Cisl, ecc. la crisi si è risolta secondo la volontà dei gruppi di pressione e del Vaticano. Allora è nato il governo Tambroni un governo Dc con il solo appoggio del Msi, un governo contrario alla volontà della maggioranza degli italiani e dei suoi parlamentari. Per un momento, nel corso della crisi, sembrò possibile trovare una soluzione di centro-sinistra e per questo risultato si è impegnato Fanfani. In parlamento la maggioranza era possibile anche se qualche Dc avesse votato contro, ma questo padronato italiano, che non ti dà una lira senza lotta, poteva pacificamente lasciar insediare un governo che avesse iniziato ad applicare la Costituzione? La loro coscienza altamente cristiana e occidentale non poteva. Contro quella soluzione si sono espressi i Pella, gli Scelba, che dissero che per impedire una soluzione avanzata della crisi erano disposti anche a rompere la Dc. La sinistra Dc non ha avuto la forza di contrastare quelle posizioni ed ha ingoiato di malavoglia il governo Tambroni. La soluzione data alla crisi significa via libera ai monopoli ed agli agrari proprio nel momento in cui giungono a maturazione i grandi problemi della pace e dello sviluppo economico. La situazione è grave ma ai padroni del vapore fa comodo dividere il movimento popolare, il mondo del lavoro, i sindacati. Noi riaffermiamo la esigenza dell’unità sindacale per dare battaglia sul terreno rivendicativo ed economico. Gli obbiettivi immediati e di prospettiva dei tre sindacati oggi sono comuni nella sostanza. La prima ondata sindacale ha rovesciato la linea della Confindustria ed il governo. Il movimento sindacale è oggi una grande forza se si muove unito ed in concordia. I Tambroni passano presto se portiamo avanti con fiducia la nostra azione.


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Dopo Tambroni Stralcio appunti del comizio dopo la caduta del governo Tambroni (agosto 1960). Archivio personale, cartella n. 2, fascicolo n. 6, D.Isuc.

In questo ultimo mese è apparso il grande insostituibile valore della stampa democratica. Giugno e luglio sono stati mesi decisivi per le sorti della democrazia italiana. Con l’intrigo, per volere dei monopoli e dei cardinali, si era dato il via ad un governo Dc-Msi premessa per un regime autoritario ed il Msi, spinto da gruppi economici e politici, voleva entrare nel governo del paese. Questa l’idea che aveva portato il Msi a scegliere come sede per il suo congresso nazionale Genova, città fieramente antifascista. È stato proprio in quel momento, quando alcuni credevano che la masse popolari fossero addormentate, che il popolo e soprattutto i giovani hanno risposto all’appello della resistenza. Genova dà battaglia, vive ore grandiose e drammatiche e finisce con il vincere la sua battaglia antifascista e democratica. E sull’esempio di Genova il movimento si estende a tutta l’Italia. A Porta San Paolo a Roma, a Reggio Emilia ed a Palermo dove si spara contro la gente, a Catania. La coppia Tambroni Spataro in 2 giorni fa 10 morti battendo ogni record nella recente storia d’Italia! E la stampa di destra, la televisione travisano ogni fatto, parlano di rivolte di scalmanati, di attivisti comunisti, di scioperi falliti, di esigenza di uno stato forte. Tambroni vuole pieni poteri e i giornali (il Tempo, il Messaggero, il Giornale d’Italia, il Quotidiano, la televisione) sono con lui. Sta alla stampa democratica spiegare la verità, mobilitare il popolo, portare testimonianze ineccepibili. Grande allora è la sollevazione popolare, responsabile è la guida del movimento se al fuoco non si è risposto con il fuoco. Comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, radicali ed anche molti democristiani, fanno capire che il governo deve dimettersi. Da quelle giornate che vedono la caduta del governo Tambroni esce il nuovo governo diretto da Fanfani con l’astensione del Psi. Noi comunisti abbiamo votato contro il governo Fanfani. Siamo per questo isolati come alcuni dicono? Il popolo vuole andare avanti


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Governo Fanfani: il Psi si astiene Stralcio appunti del comizio sul nuovo governo Fanfani (22 febbraio 1962). Archivio personale, cartella n. 2 bis, fascicolo n. 4, D.Isuc.

La crisi governativa è risolta, il nuovo governo di centro sinistra ha avuto la maggioranza dei voti in Parlamento e già si è messo al lavoro con grande zelo, per realizzare quel programma che Fanfani ha esposto alle Camere. Abbiamo oggi un governo che non poggia sui partiti di destra e che oltre ad essere composto da Dc, Psdi e Pri, gode di un’astensione benevola e attiva del Psi. Un governo che ha nel suo programma alcuni temi di fondo quali la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma agraria, il rispetto della Costituzione e l’attuazione delle regioni, la scuola, la sicurezza sociale. Un governo che vede all’opposizione il Pci e che spera attraverso la politica appena enunciata in una decrescita ed in un completo isolamento del Pci. Si pongono ora alcuni problemi. Questo governo, finalmente, vorrà mantenere fede agli impegni? Oppure, attraverso limitate concessioni, cercherà di “catturare” (si dice così) i socialisti nell’interesse dei gruppi dominanti? Ed il Pci, battuto sul suo terre-


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no, cioè sulle riforme, diviso dai socialisti, diverrà poco a poco un corpo estraneo alla società italiana? Certo è che vi sono pericoli seri non per il Pci, ma per il movimento operaio ed in definitiva per il popolo italiano, che ha visto sempre aumentare le sue disgrazie ogni volta che le destre hanno prevalso. Noi, però, sappiamo che il congresso della Dc di Napoli ha dovuto prendere atto di una situazione nuova (sociale, economica, politica) che esiste nel paese e che si riflette con sempre maggiore ampiezza nella stessa base cattolica. Nel 1947 il bandierone dell’anticomunismo aveva nascosto tutto. Ora soffia un vento nuovo che costringe il partito più conservatore ad aggiornarsi per non perdere il potere. Ha detto l’on. Aldo Moro alla Camera richiamando la capacità del Pci di muovere i più larghi strati della popolazione: “Questa ampiezza e questa capacità incisiva (del Pci) determina per la Dc la necessità di collocarsi sullo stesso terreno”. Ecco, dunque, un motivo essenziale che ha spinto la Dc a formare un governo di centro sinistra: battere i comunisti sul loro stesso terreno, staccare da loro i socialisti. Da qui parte la ricerca Dc di una linea più duttile, che affronti alcuni problemi troppo maturi per essere evitati, in modo però che essi non aumentino il potere popolare ma piuttosto servano ad estendere il potere dei monopoli e la compenetrazione tra monopoli e industrie di Stato. Detto questo, dobbiamo ripetere che la nuova spinta della base cattolica, che vuole sostituire l’anticomunismo con una politica vera di riforme, si collega alla grande spinta rivendicativa e democratica delle forze di sinistra. Perciò se avvertiamo i nuovi pericoli non solo non ci chiudiamo in una torre d’avorio ma vogliamo approfittare della situazione nuova che si è venuta a creare per spingere avanti il rinnovamento del Paese. I punti programmatici indicati da Fanfani sono quelli stessi che noi da anni indichiamo al popolo italiano, quelli stessi per cui il popolo ci ha visto alla testa delle dure lotte contro i ricchi, i privilegiati ed i dirigenti della Dc.


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Il Comune di Perugia e la “coerenza” Dc Stralcio di un articolo pubblicato in “Cronache Umbre”, anno III, luglio-agosto 1962. Archivio personale, cartella n. 2 bis, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Una discussione sull’operato delle amministrazioni di sinistra che nel dopo guerra hanno retto il Comune di Perugia ed in particolare di quella attuale, per essere seria, non può partire dagli stessi argomenti sui quali si è stati battuti nella lotta elettorale. Di questo parere non è la Dc che su «Coerenza», foglio della destra Dc perugina, attraverso le interviste di tre suoi consiglieri comunali, da quegli argomenti parte per condurre il suo attacco. Ne derivano conclusioni contraddittorie, perché mentre da una parte si prevede una catastrofe comunale dall’altra si riconosce che i tempi non sono maturi per un cambio che escluda i comunisti, con un implicito riconoscimento della validità della attuale maggioranza. Ma a parte questo, della storia amministrativa più recente di Perugia i tre consiglieri fanno una trattazione di comodo ignorando quello che il Comune di Perugia ha rappresentato nella vita democratica della città e della Regione, trascurando l’attività svolta per dare a Perugia un piano regolatore, per dotare la città e le frazioni di nuovi acquedotti (i lavori sono ormai al termine), per assicurare una vita più civile nelle campagne, per realizzare la zona industriale, per impedire il trasferimento della «Perugina», per municipalizzare i servizi elettrici – e qui giova ricordare che da Perugia è partita l’azione che ha mosso tutta la zona Unes in direzione della nazionalizzazione – per una moderna rete stradale. Dimenticano persino, i censori Dc, la requisizione dell’Azienda Colussi, atto di solidarietà e di lotta in difesa degli interessi operai e cittadini e della stessa morale dello Stato repubblicano, nei confronti di un grande speculatore. Una discussione seria in ogni caso, deve riportarsi agli impegni programmatici delle elezioni del 1960. Non siamo ancora alla metà della attuale legislazione. In quel programma si prevedeva la elaborazione di una variante al piano regolatore generale che preparasse Perugia a divenire una «grande città moderna». Ebbene, la variante è già stata approvata – e all’unanimità – dal Consiglio Comunale.


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Perché la terra ai mezzadri Stralcio appunti per l’intervento al Consiglio comunale di Perugia sui problemi dell’agricoltura, tenutosi alla Sala dei Notari il 27 ottobre 1962. Archivio personale, cartella n. 2 bis, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Il primo motivo per cui noi vogliamo dare la terra ai mezzadri è proprio per garantire uno sviluppo più organico dell’intera economia umbra, per eliminare strozzature che la azienda capitalistica non risolverebbe e che porterebbe ad un livello diverso e più acuto. È certo che non saranno e se verranno i benedetti mutui quarantennali, al tasso dell’1 o del 3%, a garantire il prevalere dell’azienda contadina. Basti un esempio: oggi sono in crisi le cosiddette colture industriali, quali la barbabietola ed il tabacco. I contadini non vogliono più coltivarle. È una crisi di reddito. La fatica, il rischio, la mano d’opera necessaria fanno sì che le entrate non coprano le spese. V’è da cambiare i rapporti all’interno dell’azienda e nei confronti del mercato, v’è bisogno di meccanizzare la coltivazione. Ma a quale prezzo la Fiat, la Federconsorzi, gli agrari, daranno macchine e concimi al contadino? L’agrario ha spesso una cointeressenza nei processi di trasformazione del prodotto e talvolta è padrone degli impianti di trasformazione e in questa fase ottiene un utile che è negato al contadino. Contro i monopoli, la Federconsorzi, le aziende di trasformazione, va la lotta delle masse contadine. Da qui il valore degli strumenti operativi che noi indichiamo: l’ente Regione che decentra il suo potere in agricoltura alle province ed ai comuni e quindi avvicina gli strumenti legislativi alle situazioni concrete; l’ente di Sviluppo Agricolo cioè lo strumento attraverso il quale la Regione opera (un ente che perciò dovrà avere diritti di esproprio delle terre, di elaborazione di piani, di scelta degli investimenti statali); i Consigli di Valle come organismi indispensabili, nell’ambito di zone omogenee, per precisare le esigenze e quindi pianificare ed operare. Solo così l’azienda contadina non sarà sola contro i grandi gruppi economici e realizzerà attorno a sé una grande articolazione econo-


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mica e democratica, che la porterà ad associarsi in cooperative per il lavoro, per gli acquisti, per la trasformazione dei prodotti, per la presenza diretta sul mercato. Questa è la prospettiva nostra e dei contadini per l’agricoltura umbra. Problemi da risolvere subito, prima che l’azienda capitalistica abbia vinto, prima che l’assetto economico umbro sia pregiudicato, prima che prevalga una soluzione antidemocratica della questione contadina.


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Nell’Archivio 1953-1963 Cartella n. 2 Fascicoli dal Primo al Sesto

Cartella n. 2 bis Fascicoli dal Primo al Sesto

Cartella n. 2 Primo fascicolo - conferenza su internazionalismo proletario (1954) - intervento al Congresso provinciale del Pci perugino (aprile 1954) - comizio tenuto a Gualdo Tadino appunti (1954) - comizio tenuto a Gubbio per arresto di Bruno Nicchi (estate 1954) - appunti comizio per manifestazione contadina (1954) - conferenza sui temi “Democrazia interna e direzione collegiale” (1954) Secondo fascicolo - appunti comizio Cgil tenuto a Foligno il 1 maggio 1956 per celebrare il Primo maggio - appunti di un attivo tenuto a Spoleto sul tema: preparazione dei congressi di Sezione e Federazione (1956) - appunti comizio per elezioni amministrative del 1956 - appunti comizio per lancio raccolta firme per la pace contro la preparazione della guerra atomica (marzo 1955). Unito testo appello - appunti comizio a Spoleto per celebrare festa Primo maggio 1955 - dati sui licenziamenti allo Spolettificio di Baiano e appunti di riunione relativa (Spoleto 1957) Terzo fascicolo - relazione contro il riarmo tedesco e contro l’adesione data dall’Italia a quella decisione (1954-1955?) - appunti comizio nel Comune di Perugia sulla campagna elettorale amministrativa: consuntivo delle attività svolte e prospettive, l’arresto del segretario della federazione del Pci Gino Galli (maggio 1956) - appunti presentazione del candidato Pierucci a sindaco di Città di Castello (maggio 1956) - appunti succinti intervento su alcuni giudizi errati nel Pci dell’attuale situazione (13 settembre 1956) - intervento al IX Congresso provinciale del Pci sui temi del movimento operaio internazionale e su quelli del rinnovamento del Pci (30 novembre 1956) - relazione breve su attività nostra delegazione all’VIII Congresso nazionale del Pci


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- appunti di un dibattito in una sezione Pci perugina in merito alle rivelazioni di Kruscev su Stalin - appunti di un intervento ad una riunione dopo i fatti di Ungheria (inizio 1957) Quarto fascicolo - appunti succinti, comizio agitazioni contadine (estate 1958) - appunti succinti conferenza anniversario rivoluzione d’ottobre (novembre 1957) - appunti comizi Passignano e Castel Rigone per celebrare il 1° maggio (1 maggio 1957) Quinto fascicolo - alcuni fogli su diverse questioni economia umbra in rapporto a quella nazionale e anche internazionale (1950-1958) - verbale riunione Pci su Congresso provinciale Cgil Sesto fascicolo - appunti dibattito Comitato federale del Pci di Perugia su candidature (sostituzione Fedeli), aprile 1958 - appunti per il comizio a Città di Castello in preparazione delle elezioni politiche del 1958 - appunti intervento su vicenda dimissioni del Sindaco Pierucci - relazione al Comitato federale sull’attività della Cgil dal 1956 al 1959, bilancio di lotta (17 novembre 1959) - appunti comizio celebrazione 1° maggio a Città di Castello (1 maggio 1960) - appunti comizio caduta governo Tambroni (agosto 1960) - dati su condizione operaia (1945-60) - appunti per un intervento alla conferenza di Spoleto (1960) - appunti su attività Cgil 1957-1959

Cartella n. 2 bis Primo fascicolo - quaderno breve di sintesi riunioni della Camera del lavoro provinciale del periodo che va dal 5 dicembre 1957 al 6 luglio 1960 Secondo fascicolo - articolo de “l’Unità”, su operai edili (6 ottobre 1957) - articolo su operai fornaciai (11 ottobre 1957) - relazione al Convegno provinciale degli operai comunisti (Perugia, 26/27 ottobre 1957) Terzo fascicolo - fotocopia articolo su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” in merito alla chiusura di industrie e all’urgenza rilancio della lotta (2 dicembre 1958)


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- fotocopia articolo su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” sui tabacchifici: salari, occupazione, colture (25 dicembre 1959) - volantino Cgil su sciopero provinciale del 21 ottobre 1959 (stampato il 16 ottobre 1959 a ciclostile) Quarto fascicolo - conferenza sulla situazione in Algeria (1962) - intervento Consiglio comunale di Perugia su problemi dell’agricoltura (27 ottobre 1962) - appunti intervento su crisi a Cuba (1962) - intervento dopo XXII Congresso Pcus (novembre 1961) - appunti comizio sul nuovo governo Fanfani (22 febbraio 1962) - appunti su comunisti, classe operaia e lotte (1961) - articolo su “Cronache Umbre” sull’attività del Comune contro critiche Dc (Anno III, n. 3, luglio-agosto 1962) Quinto fascicolo - pieghevole – campagna elettorale 1963 – diretto agli artigiani - pieghevole di Gino Galli dal titolo “Quello che la Dc ha fatto all’Umbria”, elezioni 1963 - invito Assemblea dei comunisti dell’Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche (6-7 luglio 1963 – Sala dei Notari) Sesto fascicolo - documento prof. Mario Mineo (Verso il X Congresso del Pci) 23 settembre 1962


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Perché Kennedy Una nuova unità per l’Umbria Dopo la rottura Il dibattito squilibrato Né vinti né battuti Noi e il congresso nazionale Cecoslovacchia: perché? Presento Ingrao Si può battere la Dc? Il nostro internazionalismo Quale iniziativa 1970: elezioni regionali 1970: il voto e le alleanze Creano tensione I campanelli d’allarme Noi e Roma Con la direzione del Pci critiche ed autocritiche Una regione aperta Vittorie e limiti di grandi lotte Un partito mutato Aprirci con coraggio Due brevissime note Guai piangere sul latte versato Non ci sono tetti

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Perché Kennedy Stralci dagli appunti di un comizio tenuto a Trevi (dicembre 1963). Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Due fatti hanno dominato la scena politica in questi giorni. L’uno, l’assassinio di Kennedy ha colpito all’improvviso il mondo ponendo in secondo piano ogni altra questione politica. L’umanità, per il ruolo che Kennedy giocava nella scena americana e mondiale, si è come prima cosa chiesta: “e ora? Cosa succederà?” Gli anni della “nuova frontiera” non erano stati anni facili e per un lungo periodo la politica del presidente era apparsa contraddittoria. Non era facile dirigere dalla Casa Bianca dopo che la guerra fredda aveva affidato i punti chiave agli oltranzisti ed al Pentagono. Anche le forze reazionarie europee lavorano perché la guerra fredda continui, perché prolifichino le bombe atomiche; ed i fantocci dell’America del sud e dell’Asia del sud gridano perché sono gli Usa che li ha innalzati e non vogliono cadere. Lo sbarco a Cuba, Berlino, il Vietnam, sino alla crisi dei missili, giungono a mettere di fronte a tutti il pericolo imminente di una guerra atomica. Le vie sono due soltanto: o la guerra atomica subito o la pace. Certo è che in una situazione mondiale di lotta popolare per il socialismo, l’emancipazione, l’indipendenza, la libertà, le forze della pace s’accrescono, conquistano in basso ed in alto nuove posizioni, portano al punto di rottura le vecchie frontiere dell’odio e della guerra fredda. Ecco il contributo dell’Urss, dell’Africa, di Cuba, del sud America, il contributo della lotta dei neri d’America, degli operai dei paesi capitalisti. Queste cose capì Giovanni XXIII. E capirono i laburisti inglesi ed i socialdemocratici francesi. Tutti questi fatti portarono più rapidamente Kennedy verso la nuova frontiera. Certo non era terminata la vecchia politica. Essa continuava nel Vietnam come nel Venezuela, in Spagna come a Berlino; ma due fatti nuovi segnavano l’inizio di una svolta negli Usa: il primo l’appoggio ai neri; il secondo i primi atti concreti verso la distensione (accordo di Mosca, filo rosso, accordi commerciali, l’avvio del disarmo).


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Tutto questo era necessario ricordare nel porsi la domanda: chi ha ucciso Kennedy? In Italia solo il giornale “Il Tempo” poteva accogliere la tesi del “comunista” ed i fatti l’hanno costretto a rimangiarsi presto l’avventato giudizio. Anche Oswald è stato assassinato: nella sede della polizia di Dallas. Ora vi sono quattro commissioni di inchiesta! Quanti proiettili hanno colpito Kennedy? Come? Perché non è stata fatta l’autopsia? Quanti gli sparatori? Come facevano a sapere i1 percorso del corteo? Come è stato ucciso Oswald e chi è Oswald? (Lee Harvey Oswald venne indagato e arrestato come presunto autore dell’assassinio di Kennedy. Oswald però, negando il suo coinvolgimento, non avrà il tempo di essere giudicato. Domenica 24 novembre, mentre viene trasferito dalla Centrale della polizia di Dallas alla prigione della Contea, viene ucciso da Jack Ruby, affetto da gravi turbe psichiche. N.d.R.) Un fatto è certo: Dallas è la capitale del Texas, grande stato del sud, che è contro l’integrazione dei neri: è lo stato del generale Worcher. Una settimana prima è stato colpito Stevenson. Kennedy era stato sconsigliato di andare a Dallas. In un volantino stava scritto di lui: “quest’uomo è ricercato perché colpevole di tradimento”. Forse sapremo, forse no, chi vi era dietro. Moralmente però sappiamo che con lui si è voluta uccidere la “nuova frontiera”, cioè un modo diverso di risolvere i problemi razziali e i problemi della pace. I fatti di Dallas, l’incomprensibile omertà, ci dicono che è vasta la fascia reazionaria, che Kennedy più che essere espressione di una classe dirigente lo era di un desiderio di pace del popolo americano. Ora Johnson non è Kennedy ed alle sue dichiarazioni difficilmente seguiranno atti concreti. Ma anche Johnson vive in questa epoca. E se feroci sono le forze della guerra, potenti sono le forze dei popoli. Allora oggi ci si chiede un nuovo sforzo, una nuova grande lotta per riaffermare la pace.


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Una nuova unità per l’Umbria Stralcio dell’articolo pubblicato in “Il rinnovamento dell’Alto Tevere”, anno IX n. 1, Città di Castello, 1 marzo 1964. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 3, D.Isuc.

In un momento delicato e difficile come l’attuale per l’Umbria è da dove si è giunti che si deve partire se si vuole andare avanti. Il Piano regionale non ammette discriminazioni anzi esige l’unità di tutte le forze vive e progressive della Regione. La programmazione democratica che il Piano postula per realizzarsi ha bisogno dell’ente regione come organo di direzione autonoma; ha bisogno di Enti locali che come l’Amministrazione comunale di Città di Castello sappiano superare assieme alle vecchie visioni corporative e di campanile lo spirito di frazione per una politica economica – comprensoriale e regionale – che abbia al centro della sua attenzione il cittadino; che operi affinché il cittadino umbro non solo abbia un lavoro sicuro e ben retribuito ma possa vivere in insediamenti urbani moderni, dotati di case confortevoli e di servizi sociali efficienti. Altra via in Umbria non c’è. Per questo in Umbria il 40% dei voti è comunista e in questi giorni mentre il Psiup si sviluppa rapidamente, nello stesso Psi si rafforzano quei gruppi che non vogliono rovesciare le alleanze di classe. D’altro canto sappiamo che sia il Pri che la sinistra Dc comprendono come senza l’apporto fattivo dei comunisti in Umbria sia impossibile avanzare. Da queste considerazioni con più forza ed attualità di ieri discende la nostra proposta di giungere alla formazione in tutti i centri di potere locale di nuove maggioranze che comprendano anche le forze politiche cattoliche. Questa proposta non solo non comporta divisioni ma consente la utilizzazione di tutte le migliori energie del popolo umbro ai fini dell’attuazione del programma di sviluppo economico e sociale. Su questa base, noi comunisti, abbiamo iniziato un’azione positiva nei confronti delle altre forze politiche interessate, tenendo presenti i gravi ed urgenti problemi regionali e la necessità di avviarli a soluzione il più rapidamente possibile.


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Dopo la rottura Stralcio della relazione al Comitato federale del 28 giugno 1965. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

L’esperienza umbra di questi mesi mi sembra valida. Noi siamo usciti dalla consultazione di novembre con una ampia zona di rottura delle forze socialiste, con una collocazione della Federazione del Psi su posizioni anticomuniste che ebbero riflessi negativi non solo a livello del potere locale ma anche nella Dc, nella sua ala sinistra. Né oggi, può ancora dirsi che l’atteggiamento del Psi abbia subito una modificazione, almeno a livello di Federazione. Su questo problema del resto la critica nostra verso il Psi è stata ed è giustamente severa. Ma noi non ci siamo limitati a constatare le zone di rottura politica. Siamo ripartiti da un esame serio ed attuale delle condizioni della classe operaia, dei contadini e della regione nell’attuale fase di concentrazione monopolistica e ne abbiamo derivata la possibilità di un’ampia convergenza di forze in una lotta antigovernativa e antimonopolistica. Come prima fase ponevamo l’obbiettivo di uno sciopero regionale che risalendo dai problemi delle categorie ponesse le grandi questioni dell’attuazione del Piano regionale e della costituzione dell’Ente regione. Nel febbraio come Partito dichiarammo una giornata di lotta. Già nel 1959 eravamo arrivati ad una protesta regionale, ma non così ampia come l’attuale. Allora lo sciopero generale non toccò la provincia di Terni. Allora anche le motivazioni erano più incerte e meno di classe; per esempio un ruolo primario lo giocò la questione dell’autostrada. Oggi invece le questioni si sono poste con maggiore chiarezza politica, anche perché le esperienze unitarie fatte intorno ai problemi della programmazione avevano maturato scelte che toccano problemi strutturali tra altre forze. Con decisione abbiamo teso a fare dello sciopero un momento delle lotte per superare quel distacco tra la classe operaia e piano regionale che ritenemmo aver pesato negativamen-


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te sui risultati elettorali. Nei dibattiti a tutti i livelli abbiamo teso a battere le posizioni clientelari e di estensione della “Cassa del Mezzogiorno” sostenute dalle destre, dagli industriali e dagli agrari. E questa volta queste forze non hanno favorito lo sciopero, aziende come la “Perugina”, che nel 1959 erano alla testa delle lotte, oggi si sono trovate su posizioni ben diverse perché la loro politica non comporta ma combatte la esigenza di una “programmazione democratica e regionale”. E battute sono state le posizioni moderate delle forze del centro sinistra che tendevano a mettere in secondo piano l’attuazione del Piano regionale e a non far scaturire l’attualità dell’Ente regione. In questo periodo, su questo obbiettivo, si sono ritrovati uniti il Pci, il Psiup (che prima aveva posizioni diverse dalle nostre) una parte notevole del Psi (Amministrazione provinciale, lombardiani, Anderlini, sindaci, ecc.) la sinistra ha mostrato particolare decisione, ed anche la Uil. Cioè l’aver posto obiettivi politici ripartendo da problemi immediati e concreti ha favorito l’avanzamento di tutto il movimento ci ha indicato una direzione nella quale dobbiamo spingerci con molto lavoro e serietà ma anche con coraggio e fiducia. Ciò non significa che nella preparazione dello sciopero, nella riuscita, nel chiarire i significati politici tutto sia andato bene. Abbiamo detto che è servito a superare un certo distacco tra classe operaia e Piano regionale. Ma molto rimane da fare e guai se non mettessimo ancora l’accento sui vuoti che ancora ha la nostra azione nella classe operaia. Sulle esigenze di collegare di più e meglio le lotte rivendicative con gli obbiettivi politici. La mancata partecipazione alle lotte di tre grandi fabbriche, quali la “Perugina”, l’“Angora” e le “Grandi Officine”, ha un peso negativo su tutto il movimento, frena tutta la marcia, rende più difficile il consolidarsi dello schieramento antigovernativo. Ed anche tutta la preparazione della lotta e lo sciopero tra le masse contadine merita un esame attento, ed il Comitato federale. sarà chiamato a farlo anche perché oggi, con urgenza, si pone il problema d’intensificare con grandi lotte estive l’azione per il 58%, per l’Ente di sviluppo regionale, per la terra.


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Lo sciopero regionale del 22 deve essere considerato in Umbria come un punto di partenza nelle nostre lotte per rovesciare il centro sinistra nei Comuni e per contribuire a far cadere il governo, per dare vita a nuove maggioranze.

Il dibattito squilibrato Stralcio della relazione al Comitato federale del 28 giugno 1965. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Nelle conclusioni intendo vedere oltre il dibattito del Comitato federale come noi dobbiamo andare nel partito in questo periodo. Per il resto, come già ho detto all’inizio, sostanzialmente concordo con le Tesi (congressuali N.d.R.), con quei compagni che si sono richiamati all’VIII, e che vedono le Tesi come uno sviluppo dell’VIII. Questo non vuol dire che nelle Tesi, per me, non ci siano parti da potersi modificare, migliorare, accorciamenti da fare. Vuol dire adesione ragionata ad un certo tipo di impostazione che rifiuta una volontà di far presto, di arrivare subito, ed invece si colloca sulla strada che faticosamente veniamo costruendo da lunghi anni. Certo noi oggi abbiano ricevuto dei colpi. Ma è questo il momento di chiudersi od è il momento di allargare il respiro nostro, di sfruttare tutte le possibilità, tutte le alleanze, di rivolgersi a tutte le forze, di far leva su tutte le contraddizioni per andare avanti secondo il grande insegnamento di Togliatti? Ricordo periodi in cui il partito è stato più in difficoltà di oggi. Ricordo che in questi momenti il compagno Togliatti non alzava il prezzo, ma mirava ad allargare al massimo lo schieramento per rovesciare la tendenza in atto, faceva tutto lo sforzo per far iniziare un processo inverso. Chi ricorda la fase successiva alle elezioni del 1948, il periodo di Scelba, i momenti duri di tensione nel Paese, ha ben presente ad un certo momento che Togliatti disse “noi potevamo appoggiare un governo soltanto che facesse una politica di pace diversa”.


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Sembrava che avessimo rinunciato alle rivendicazioni sociali, ma era evidente che volevamo agganciarci a questo anello, mutare la politica estera, sapendo che di conseguenza poi doveva mutare anche quella interna. Abbiamo ripreso da lì le masse popolari, le abbiamo portate avanti anche attraverso un moto contraddittorio. Mentre le lotte di classe si sviluppavano nel paese, si verificava, in relazione alla situazione più generale, un processo di differenziazione all’interno della classe operaia italiana che si rifletteva nei partiti. Questo processo è venuto avanti. Ha dato certi frutti positivi e altri fortemente negativi. Oggi siamo in un momento duro, ma che cosa dobbiamo fare? Ecco il motivo di fondo delle Tesi: dobbiamo ricercare, descrivere la situazione, approfondire l’analisi. Questo dobbiamo fare, ma con ottimismo, nella convinzione che l’attuale meccanismo può essere rovesciato, che non si è stabilizzato niente e che dipende anche dalla volontà nostra accelerare il processo di fallimento di una determinata politica, della formula che rimane dietro una politica che è profondamente cambiata. Circa il giudizio sul dibattito non sono d’accordo con il compagno Francesco Innamorati. Ritengo che l’attuale rientri nella esperienza nostra di dibattiti aperti, alcune volte anche con sfoghi passionali. Dovremo consentire la massima libertà di espressione se vogliamo riuscire assieme, attraverso una analisi seria ed uno sforzo positivo, ad andare avanti. A me pare che la discussione nel suo complesso abbia respinto gli aspetti più deteriori emersi nel dibattito. Molti compagni sono stati spinti alla ricerca, alla individuazione dei temi di fondo e credo abbiano fatto molto di più di quello che io ho fatto nella relazione. Ad esempio, l’intervento del compagno Gustavo Corba colpisce per l’organicità, per il metodo che c’è dentro. Credo che vadano indicate queste cose anche per sollecitare nella ricerca ognuno di noi. A me pare che il dibattito, partito un po’ squilibrato, sia ritornato alla serietà, abbia ritrovato un suo equilibrio nel corso della discussione e sia giunto a conclusioni abbastanza chiare anche se sono stati esposti pareri sostanzialmente diversi, anche se qualche volta si è avuta la sensazione di una linea che è abbastanza alternativa.


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Io non credo che queste posizioni divergenti possano essere già schematizzate, mi rifiuto di pensare a compagni che discutano in questo modo. Sono convinto che oggi c’è una reazione alla prima lettura, una reazione che avviene in un momento che è particolarmente difficile non solo in generale ma anche nella provincia. I socialisti c’è l’hanno fatta grossa. Certo, ma sul problema delle giunte dobbiamo vedere le loro e le nostre responsabilità. È una materia questa da indagare. È indubbio che di fronte a questo attacco c’è reazione, amarezza. Io ritengo che questo sia un nodo che tutti dobbiamo sciogliere. Ricordiamoci, però, che noi in Umbria siamo una grande forza, siamo partiti da poco, siamo arrivati all’altezza delle altre regioni con questi comitati federali, con queste battaglie operaie, contadine, con la indicazione di alcune linea programmatiche, con la indicazione di alcuni obbiettivi politici, con un discorso che è andato dagli operai ai contadini, ai ceti medi, certe volte attorno ai ceti medi abbiamo discusso per capire dove finivano le alleanze, dove cominciavano le convergenze, dove i nemici. Delle volte abbiamo sbagliato anche, ma eccola questa grande forza che è cresciuta, che è aumentata e che oggi può andare più avanti, che noi dobbiamo portare più avanti. Dobbiamo avere la convinzione che siamo un movimento che ha difficoltà ma che cresce, un movimento che nella nostra provincia, nella nostra regione va esercitando da lunghi anni una egemonia sostanziale. Le idee del Piano, della Regione, della programmazione, del valore della proprietà contadina, del potere dal basso, le abbiamo introdotte noi in questa società largamente medioevale. Ecco la materia sulla quale dobbiamo lavorare con decisione, sulla quale dobbiamo trovare il punto di partenza per estendere la nostra egemonia. Qui il discorso può essere fortemente unitario. Se c’è qualche compagno che si colloca fuori da questo filone discutiamoci assieme, perché non siamo partiti da oggi, come da oggi non è partito il Pci. Abbiamo una storia che non vogliamo fossilizzare, ma che ha tutta un senso, va tutta in una direzione. È una storia che ha avuto momenti duri, che si è espressa in lotte


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dure. Conosciamo questa storia. Io sono convinto che il prossimo inverno e i prossimi anni saranno duri. A questo dobbiamo preparare il partito, perché lo scontro è più ravvicinato, perché stiamo incalzando il capitalismo, non solo in Umbria, ma in Italia e nel mondo. Questa sensazione, questa fiducia noi dobbiamo dare. Tutto questo richiede il superamento di stati d’animo e richiede un esame più approfondito delle tesi. Riandiamole a leggere con modestia, con estrema modestia tutti quanti, come risultato di un lavoro del gruppo dirigente. E ricordiamo che i nostri dirigenti sono il frutto della volontà e delle lotte di tutto il partito, come qui noi siano l’espressione del partito. Leggendo i resoconti del Comitato centrale e le tesi dobbiamo capire, io voglio capire, Longo e Ingrao e Pajetta e Amendola. E io credo che proprio partendo dall’esperienza nostra,da quella franchezza con la quale sempre ci siamo parlati in Comitato federale, noi possiamo dire alcune cose valide ai compagni della Direzione del partito. Tu Grossi proponevi di mandare un ordine del giorno alla Direzione sui problemi del “metodo”. Io propongo di mandare il verbale, perché dal verbale risulta meglio il pensiero del Comitato federale sul metodo. Dal verbale risulta chiaramente che noi non vogliamo criticare Colombi o Ingrao, ma vogliamo affrontare la questione del metodo di direzione e della funzione degli organismi eletti dai congressi. Questo ci preme e se Longo ha detto quelle cose che tu riportavi, compagno Calamandrei, ciò mi riempie di gioia. Capisco i momenti contraddittori. Anche in noi ci sono ogni tanto posizioni autoritarie, perché questo metodo c’è stato nel passato, perché pesa. Io non credo che con un semplice colpo di spugna ci si possa ritrovare puliti. Né possiamo andarcene per far tutto daccapo. Credo invece che dobbiamo restare in tutti i posti di combattimento, dobbiamo far avanzare nuove forze e anche quando sono in contrasto con noi discutere. Nella discussione, nella lotta tu ti rendi conto delle cose, ma matura una concezione del mondo più completa, acquisti un senso più preciso delle difficoltà e vai avanti. Credo che dobbiamo proporci di dirigere i congressi e qui viene un’altra questione, una considerazione fatta dal compagno Calamandrei. Noi abbiamo discusso se presentare o no un rapporto di


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attività, e siamo arrivati collegialmente a concludere che questo rapporto non lo dovevamo presentare ora perché c’è in corso un lavoro abbastanza complesso che ci permetterà di avere un quadro più completo per il congresso. Mi pare che dalla discussione possa venire questo rischio: discutiamo le cose mondiali ed italiane ma non le agganciamo alla realtà nostra, alla nostra attività ed azione politica. Noi dobbiamo dirigere i congressi nel senso che dobbiamo presentare le tesi, spiegare quello che c’è nelle tesi e dobbiamo dire che questo documento è il frutto della volontà dell’organismo dirigente dal partito e con le tesi questo organismo, che non può abdicare alla sua funzione di direzione, si presenta al congresso. Possono esserci riserve personali su singole questioni. L’opinione personale può essere richiesta, dai compagni. Cosa diciamo, di chiudere la bocca? Ognuno di noi, compagni del Comitato federale, ha un profondo senso di responsabilità se è vero che abbiamo fatto tanta strada. Sta ad ognuno di noi dimostrarlo oggi. Quello che è indispensabile portare, oltre l’essenziale delle tesi, è la fiducia, lo slancio. Dobbiamo riunirci in un Comitato federale per presentare questo primo rapporto di attività. Ciò è necessario perché il partito discuta criticamente non solo della Direzione o dell’Urss ma dell’attività e degli errori della nostra Federazione che oggi non sono apparsi. Nel documento dobbiamo portare un robusto spirito autocritico dal quale però non ne derivi che noi non siamo più niente. Siamo il 40% della popolazione e l’autocritica deve contribuire a dare nuovo slancio, deve essere un invito alla battaglia.

Né vinti né battuti Stralcio del rapporto introduttivo al XII Congresso della Federazione del Pci di Perugia 14-16 gennaio 1966. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Noi crediamo di dover riconfermare con forza, nell’interesse del popolo umbro, la sostanziale giustezza della linea che come Federazione


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siamo venuti elaborando dalla guerra di liberazione ad oggi, in particolare dal nostro IX Congresso in poi. La validità di queste scelte è data anche dalla crescita del nostro partito e del movimento popolare, dalla avanzata elettorale del partito. Dal 28% scarso del 1946 e del 1953 siamo passati al 30,64% nel 1958, al 39% del 1963, al 39,52% del 1964. In Umbria non ci sentiamo né vinti né battuti. Non siamo isolati perché siamo oggettivamente una grande forza politica che esercita da molti anni una egemonia sostanziale. I problemi operai e contadini, le linee della programmazione regionale e della Regione sono divenute lotta e azione di massa per l’impulso originale che ad esse abbiamo contribuito ad imprimere. Vediamo le difficoltà attuali e le gravi lacerazioni del movimento popolare, ma anche le possibilità nuove che la situazione presenta. L’Umbria, noi riteniamo, può dare a livello nazionale un contributo maggiore di ieri alla soluzione dei problemi di fondo della vita politica italiana. È partendo dai problemi e dalle lotte delle masse che noi vogliamo ritessere l’unità popolare e la nostra politica di alleanze. Per l’attuazione del Piano regionale, già il 22 giugno scorso, il movimento sindacale umbro (Cisl-Uil-Cgil) promosse uno sciopero generale. Il dibattito parlamentare sull’Umbria che sembra imminente, e sul quale richiamiamo l’attenzione di tutti come nuovo momento di lotta, è uno dei risultati di quella azione. E verso nuove lotte unitarie e di massa bisogna dirigere tutto il movimento, superando però un certo distacco che anche il 22 giugno si palesò tra alcuni importanti gruppi di operai, di contadini e di ceti medi urbani e la direzione del movimento, ripartendo di più dal basso, saldando meglio le lotte rivendicative e settoriali alle lotte generali. Sia chiaro: al centro della nostra azione con la lotta per la pace, per una alternativa unitaria al potere dei monopoli e per nuovi sviluppi della programmazione democratica regionale, sta l’azione della Regione. Isolare la Dc, diminuire il suo potere per liberare dal suo interno le forze più sane, per sciogliere dalla subordinazione altre forze politiche: questo è per noi l’obbiettivo politico centrale. E, seppure difficili siano i nostri rapporti con la Federazione del Psi, concordiamo con le Tesi là dove dicono che “va salvaguardata l’unità che si realizza nelle grandi orga-


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nizzazioni di massa, sindacali, cooperative, associazioni femminili, ricreative e nelle amministrazioni di sinistra”. Con questo spirito lavoriamo oggi in tutte le organizzazioni nelle quali siamo assieme ai compagni socialisti e credo che le loro esperienze positive di questo ultimo periodo siano quelle fatte al nostro fianco nei vari organismi di massa e in particolare nella Amministrazione provinciale. Noi impegniamo i comunisti a rafforzare le organizzazioni democratiche, a dedicare una attenzione più grande alla sviluppo del movimento contadino e alla costituzione di organizzazioni più solide ed estese tra i ceti medi urbani, tra gli artigiani ed i commercianti, noi impegniamo tutto il partito al rilancio della nostra politica unitaria.

Noi e il congresso nazionale Relazione al Comitato federale di Perugia del 5 febbraio 1966. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Nella atmosfera del Congresso – gli avversari hanno dovuto dare atto di questa grande tensione morale – la nostra delegazione crede d’aver adempiuto al mandato datole dal congresso provinciale. La delegazione ha seguito scrupolosamente tutti i lavori del congresso. Su 15 delegati solo Lazzaroni e Mauro Antonini, per impegni di lavoro, hanno partecipato ad alcune sedute e non hanno potuto prendere parte alle votazioni. La nostra delegazione ha lavorato in stretta unità con la delegazione di Terni. Tutte le riunioni sono state comuni. Il lavoro della delegazione s’è sviluppato in particolare nelle commissioni politica e organizzativa, nel contatto con compagni della segretaria nazionale, nell’intervento di Gino Galli. Nella Commissione politica (attraverso Galli) abbiamo in particolare sostenuto: la necessità di dare organicità e rilievo ai problemi dell’organizzazione dello Stato e in particolare all’ente Regione; la necessità di precisare meglio i termini della programmazione, il ruolo dell’industria di stato, le questioni agrarie, alcune questioni sulla


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democrazia di partito. Assieme alle Marche è stato presentato un emendamento sul valore della programmazione regionale (accolto). Nella Commissione di organizzazione (attraverso il sottoscritto) abbiamo sostenuto in particolare l’esigenza di non dare alle Commissioni del Comitato centrale poteri deliberativi, o almeno di sottoporre le decisioni a ratifica del Comitato centrale (respinta). Qui va detto che il Presidente della Commissione non sarà lo stesso compagno che dirige la Sezione di lavoro e che la direzione dirige e coordina questo lavoro delle commissioni, debbono comunque essere giudicate positive (non sono chiuse). È stato accettato di dare verbali a tutti i membri del Comitato centrale e accolta l’esigenza di fare dei Comitati regionali istanze di partito. Tutti convenivano sul ruolo del Comitato regionale ma tutti hanno concluso d’andare per gradi. Solo noi e le Marche abbiamo insistito. Comunque il ruolo è rafforzato. Dobbiamo nella pratica rafforzarlo ancora. Come delegazioni umbre, per non perdere un seggio al Comitato centrale a causa dell’esclusione di Raffaele Rossi, abbiamo molto premuto, Terni soprattutto. Su Rossi però pesava il parere contrario della Direzione per le assenze al Comitato centrale e alcune incertezze sulla sua utilizzazione. Pur essendo dubbiosi sul risultato, abbiamo ritenuto che l’impostazione della questione stesse ai compagni di Terni, e ci siamo battuti per la loro impostazione. Dopo l’intervento di Pajetta abbiamo fatto presente a Natta le preoccupazioni nostre e le possibili reazioni del partito in Umbria. Intervento: Crediamo di aver rispettato il mandato dei congressi umbri e, tenendo conto dell’andamento del dibattito, di aver portato alla tribuna la tradizione delle nostre Federazioni. Sui problemi della democrazia e del dibattito non abbiamo preso di petto nessuno, ma posto con decisione e con precisione alcuni di questi problemi. Il fatto che Luigi Longo abbia ripreso due formulazioni e la platea le abbia applaudite sta a dire che avevamo preso la giusta strada delle proposte precise e costruttive, e che su questa strada il Partito è disposto ad andare avanti.


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Il congresso si è concluso con una mozione unitaria che credo rappresenti per tutti un passo avanti, il risultato di un dibattito vasto arricchito anche da notevoli avvenimenti politici. Non siamo partiti come siamo giunti. Né noi, né le Tesi. La relazione di Longo conteneva elementi di novità rispetto alle Tesi. Le conclusioni ed i documenti politici hanno camminato rispetto alla relazione. Non è mia intenzione riporre le questioni alla attenzione dei compagni. Ma un invito ad esaminare con attenzione, a confrontare alcune parti credo possa essere fatto. La prima è quella relativa ai cattolici, ai caratteri del dialogo tra marxisti e cattolici, ai caratteri dello Stato laico, né confessionale né ateo, al giudizio critico sulla sinistra Dc, sul problema dell’unità politica dei cattolici, all’incontro con la chiesa sui problemi della pace, all’urgenza e possibilità di creare un nuovo più grande schieramento nella lotta per la pace, per l’indipendenza dei popoli, per una nuova politica estera. La seconda, sulla questione della lotta per le riforme. I documenti conclusivi muovono dai problemi urgenti dell’occupazione e della lotta salariale per rinsaldare il rapporto tra la lotta per una programmazione democratica e la lotta per la creazione di uno schieramento politico, di un blocco di potere capace di aprire la strada verso il socialismo. Le conclusioni mentre esprimono la volontà di contribuire alla precisazione e approfondimento con le altre forze politiche degli obbiettivi e degli strumenti di una programmazione democratica rigettano i “modelli astratti”. Infine richiamano con forza sulla lotta immediata per una nuova maggioranza democratica poiché questo è l’aspetto più propriamente politico di tutta la battaglia attuale. La terza parte è relativa all’unificazione. Certo il processo di unificazione su “una chiara prospettiva democratica e socialista” senza “preclusioni pregiudiziali” sarà lungo e complesso. Le conclusioni insistono però sull’urgenza di far leva sulle contraddizioni esistenti nel Psi per contrastare il processo di unificazione socialdemocratica.


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E invitano a lavorare intensamente in questa direzione per “dare subito inizio ad un processo di avvicinamento, collaborazione, collegamento in forme articolate tra il nostro partito e le altre forze politiche”. Ho richiamato questi punti – voi sapete che ce ne sono altri – anche perché su questi problemi dobbiamo lavorare subito.

Cecoslovacchia: perché? Stringati appunti di un intervento ad una riunione di partito subito dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche (1968). Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Se l’accordo dopo l’invasione evita il peggio restano i problemi della libertà, dell’autonomia, del ritiro delle truppe sovietiche. Con chiarezza e tempestività il Pci ha preso posizione all’unanimità. Ed ora discutiamo forti delle nostre idee socialiste. Abbiamo espresso “grave dissenso e riprovazione” per l’occupazione. È stata un’operazione tattica? Oppure discende dalla nostra linea? Senza strategia non si diventa una grande forza, non si fa socialismo. La posizione del Pci discende dalla sua strategia. Quello che avveniva in Cecoslovacchia correggeva i metodi burocratici di Novotny, andava alla ricerca di soluzioni aperte, democratiche. Era in gioco il rapporto tra partito e masse, si applicavano le indicazioni di Lenin, di Gramsci, del XX Congresso del Pcus, del documento di Togliatti a Yalta. Grande importanza si deve al fatto che la Cecoslovacchia ha stratificazioni sociali simili all’Italia e noi indichiamo una via italiana al socialismo con il pluripartitismo. Pericoli reali in Cecoslovacchia? Certo. Di economicismo, di perdita delle scelte collettive fondamentali. Ma non si può sottovalutare l’importanza del “nuovo corso” diretto dal Partito comunista cecoslovacco. E poi, il pericolo consente l’intervento armato di un altro paese senza il consenso del governo, delle forze politiche, delle masse? La dichiarazione Urss del 3 ottobre 1956 affermava di voler


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superare sulla base del XX congresso: “violazioni ed errori che hanno menomato il principio dell’uguaglianza nei rapporti tra stati socialisti” e di costruire rapporti fra le nazioni della comunità socialista: “soltanto su principi di totale uguaglianza, di rispetto per l’integrità territoriale, per l’indipendenza statale e la sovranità, di non ingerenza negli affari altrui”. Ed ecco la seconda questione di principio. Noi riteniamo che stava e sta ai lavoratori cechi e al loro partito combattere su tutti i terreni la controrivoluzione e stabilire le vie di avanzata della società socialista. Noi riteniamo che l’intervento armato non desiderato né richiesto finisca per aiutare la controrivoluzione e non soltanto in Cecoslovacchia. Ed ecco la terza questione di principio: era giustificato l’intervento per “salvare le frontiere del socialismo”, la “visione internazionalista”, la politica di potenza del mondo socialista e dei paesi in lotta per la libertà? Noi crediamo di no. Anche se è vero che da considerazioni serie può discendere la posizione sovietica: chi si è scottato con l’acqua bollente, chi ha subito l’accerchiamento degli anni ‘20, l’attacco di Hitler, le basi Usa attorno all’Urss, il Patto atlantico, la SEATO (SEATO, acronimo di South-East Asia Treaty Organization, era un’organizzazione di difesa per il sud-est asiatico nata con il trattato di Manila del 1954, e sottoscritta da Francia, Australia, Filippine, Nuova Zelanda, Pakistan, Inghilterra, Usa e Thailandia, per fronteggiare la pressione politica e militare dei paesi comunisti dell’Asia. Ebbe una scarsissima efficacia, il suo limite si evidenziò soprattutto durante la guerra del Vietnam, e venne disciolta nel 1975. N.d.R.) Certo il capitalismo vuole i blocchi militari, lo status quo per maturare lo sfaldamento dei paesi socialisti, ma come stanno le cose nel mondo? I confini del socialismo oggi non finiscono con i paesi del patto di Varsavia, potente è il movimento socialista, il movimento di liberazione di tanti popoli. Allora unità nella diversità. Ecco la critica nostra all’Urss fraterna, diversa nel profondo dalla canea borghese.


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Presento Ingrao Stralcio della mia presentazione di Pietro Ingrao in piazza 4 Novembre a Perugia (1968). Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Con questa manifestazione intendiamo avviare la nostra campagna elettorale, né a qualcuno sembri troppo presto. I nostri avversari hanno strumenti potenti e già da tempo sono al lavoro. La Dc ed i partiti del centrosinistra già hanno iniziato alla RaiTv la loro campagna elettorale. Le associazioni degli industriali e degli agrari già operano per sostenere e finanziare i partiti della borghesia. Apparati statali nuovi e vecchi – prefetti in testa – sono a disposizione delle forze di potere. Anche i vescovi – a costo di produrre strappi nella coscienza di tanti cattolici che si rifanno al Concilio – già hanno deciso che i credenti dovranno votare Dc. Certo, noi siamo favoriti dalla giustezza della nostra causa, dal malgoverno della Dc e del centro sinistra, dalle proposte giuste che possiamo fare. Noi siamo con il Vietnam che umilia l’imperialismo americano, con “Che” Guevara simbolo di purezza e di eroismo, siamo con gli studenti di Roma e di Perugia, con gli operai, con i contadini, con gli offesi, gli umiliati, con chi vuole lottare per battere i privilegi, per fare un mondo diverso, più giusto. Ma ciò non basta. Bisogna mettere le gambe alle idee giuste, bisogna tradurle in propaganda, in lotta di massa, nella volontà decisa di grandi masse, nella convinzione che si può cambiare, si deve cambiare la società. Perciò compagni, amici dell’Umbria, siamo qui oggi in tanti. Siamo noi che dobbiamo portare ovunque questa volontà di battere la Dc ed il centrosinistra per far avanzare la causa della pace, per far progredire la causa dei lavoratori e la nostra di umbri. Ed in Umbria possiamo dare un nuovo colpo alla Dc ed al centrosinistra. Certo nel 1963 avanzammo molto. Voi lo sapete. Ma possiamo andare ancora avanti. Sì, la Dc ed i suoi alleati hanno tentato di isolarci e di umiliarci, di batterci. Sì, l’anticomunismo è divenuto la bandiera del centrosinistra in Umbria, ma cosa ha fatto il centrosinistra per l’Umbria?


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La rottura dell’unità a sinistra ha interrotto in Umbria un movimento unitario che per le capacità d’elaborazione e per la vastità delle lotte s’era imposto al paese. Il centrosinistra in Umbria è servito soltanto a dare più potere alla Dc, a rafforzare i gruppi economici più forti dando a Spagnoli la Cassa di Risparmio ed a Buitoni la Centro Finanziaria, a trasferire in carrozzoni Enti che dovevano aiutare lo sviluppo della regione.

Si può battere la Dc? Stralcio della relazione alla 2ª assemblea provinciale dei segretari di Sezione (Foligno, 18 febbraio 1968). Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Credo che i compagni abbiano avvertito il colpo subito dalla Dc con la questione del Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate o SIFAR venne istituito il 1 settembre 1949 dal ministro della Difesa, Randolfo Pacciardi. Esso dipendeva direttamente dal Capo di Stato Maggiore della Difesa. Nella stessa data vennero istituiti i SIOS Servizi Informazioni Operative e Situazione delle Forze Armate. Il SIFAR cambiò nome nel 1965 dopo lo scandalo “De Lorenzo” e prese il nome di SID Servizio informazioni difesa. Nel 1977 il SID fu sostituito dall’attuale SISMI. N.d.R.) Perché Piccoli e Rumor hanno posto il problema del colloquio con noi e perché oggi la Dc va riattestandosi sulla linea di difesa della Costituzione, mentre sino a ieri incoraggiava le manovre qualunquiste della destra sui temi della crisi dello Stato? Certo è manovra, ma perché questo passo indietro? Il problema è che sta maturando un distacco reale tra Dc e Paese, tra Dc e suoi elettori ed esso ripropone divisioni laceranti all’interno della Dc. Si può dire a questo punto: allora c’è una sinistra cattolica, allora nella Dc non sono tutti uguali, il nostro attacco deve essere differenziato. Proprio per questo dobbiamo incalzare la Dc, proprio perché ci sono forze che avvertono la distanza che si crea tra le loro aspirazioni e la politica Dc, che non si riconoscono più in essa.


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Oggi Corghi, Dorigo, decine e decine di circoli cattolici, di ambienti cattolici, rifiutano l’unità politica dei cattolici e già hanno deciso di non votare Dc, di votare a sinistra. Allora con più forza noi dobbiamo dire che si può essere cattolici in due modi: conservatori e progressisti. I primi voteranno per la Dc, è il loro partito. Ma i secondi, quelli che fanno proprio il messaggio di Papa Giovanni, perché dovrebbero votare contro coscienza? Perché dovrebbero essere progressisti nelle lotte, nelle proteste, nelle preghiere e reazionari il giorno del voto? Anche in Umbria dobbiamo incalzarli. Qui malgrado il loro attivismo il malcontento è esteso, il fallimento cresce. Non a caso si dice che non siano d’accordo sulla tattica elettorale: attaccare il Pci alla vecchia maniera o accettare il colloquio? Non a caso c’è uno scontro sul modo di affrontare i problemi economici, e mentre Spitella, Pillitu, Alcini sono per la demagogia spicciola e anticomunista, Micheli ed altri sono per il “Piano umbro” come elemento unitario e alternativo al Piano nazionale. Certo dobbiamo capire che questo giuoco è ancora interno ad una Dc che accetta il centro sinistra e che in fondo è nel complesso dorotea, ma dobbiamo lavorare su queste contraddizioni nella convinzione che l’esperienza di centro sinistra può essere sconfitta, che in Umbria si può far arretrare la Dc e con ciò si può rendere ovunque minoritario il centro sinistra. Cioè noi dobbiamo essere convinti che proprio qui a Perugia, ove troppi uomini della vecchia sinistra cattolica sono rimasti impigliati nella rete dorotea e del centro sinistra, il nostro discorso ha più valore che mai perché superando forze logore, va incontro alle speranze di giovani, di cattolici, di parroci che vogliono impegnarsi con noi per un avvenire diverso, che comprendono come il domani non possa essere con i marines, con De Lorenzo, con gli agrari, con Petrucci, ma sia con i Vietcong, con i comunisti, per costruire una società diversa. Togliere, dunque, i voti a sinistra alla Dc. Si può togliere voti alla Dc. Si può battere la Dc. E allora, del Psu, delle sue corresponsabilità non diciamo nulla? Accusando il centro sinistra già una parte va al Psu e anche al Pri. E dobbiamo dire che se la Dc fa il suo mestiere di par-


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tito conservatore ed integralista il Psu che mestiere fa? Aveva detto che entrando nella “stanza dei bottoni” molte cose sarebbero cambiate, aveva assicurato nel 1963 “che ognuno era ormai più libero”. Poi c’è stato il luglio 1964, il Sifar, il calvario del ricatto Dc e padronale, della rinuncia, del cedimento socialista. Nenni si interrogava: che dovevamo fare? O la borsa o la vita? Avranno salvato la vita ma non la bandiera e neppure la borsa, perché la borsa era dei lavoratori! Queste cose le conoscono gli elettori e gli iscritti al Psu, sanno che sono costate già due scissioni: Psiup, Msa. E già profondo, ai limiti di nuove rotture, è il malumore. La Dc sa scaricare sugli alleati minori i suoi problemi e le sue divisioni. Ecco la strada percorsa da un grande partito per far approdare ormai una minoranza, alla squallida sponda socialdemocratica ove altri giunsero e fallirono nel 1947. Dobbiamo tener conto delle contraddizioni che s’agitano all’interno stesso del Psu anche nella nostra provincia, della lotta dura, serrata che torna a passare tra una parte (per esempio tra molti di coloro che ancora lavorano con noi nei sindacati, negli enti locali) ed i sostenitori del centro sinistra ad ogni costo, del malessere profondo che c’è tra i lavoratori. Dobbiamo insistere sul fatto che il Psu in Umbria già ha perduto gran parte del Psi: Valori, Anderlini e tanti altri dirigenti ed attivisti oggi sono con noi nella battaglia contro la Dc e il centro sinistra. Il posto dei socialisti, se vogliono ritrovarsi, ridare forza al loro partito, risollevare le loro rosse bandiere è con noi, oggi il voto a sinistra è comunista. Il nostro deve essere un invito, uno stimolo vivace e fraterno.

Il nostro internazionalismo Stralci del rapporto introduttivo al XIII Congresso della Federazione perugina del Pci 10-12 gennaio 1969. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Si estende la coscienza tra masse sterminate di sfruttati, tra la classe operaia, tra i contadini, i giovani, i ceti medi che è necessario libe-


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rarsi dall’oppressione imperialistica e dallo sfruttamento capitalistico se si vogliono risolvere i problemi del sottosviluppo e della fame. Se si vuole porre la scienza e la tecnica al servizio del progresso, se si vuole costruire una società a misura dell’uomo in cui ognuno sia chiamato a partecipare e decidere sul futuro della collettività. Si allarga così lo schieramento antimperialista e anticapitalista, nuove forze scendono in lotta, nuovi movimenti nascono e si sviluppano, la contestazione del sistema e la esigenza della liberazione dall’oppressione investe zone sempre più estese del mondo arricchendo di nuove esperienze, di diverse forme di lotta la battaglia generale per il socialismo. L’elemento che ha dato un contributo decisivo a questa più vasta presa di coscienza dei popoli determinando una ondata di fondo che esprime una grande forza innovatrice è stata la eroica resistenza del popolo vietnamita e la sconfitta militare e politica dell’imperialismo americano. L’esperienza del Vietnam insegna che l’imperialismo americano, aspirante al ruolo di gendarme del mondo, può essere sconfitto. Dal Vietnam dobbiamo ricavare una preziosa lezione politica. L’imperialismo americano è stato sconfitto dalla eroica resistenza del popolo vietnamita; dalla sua giusta politica nazionale e internazionalista che gli ha consentito di conquistare alla resistenza ed alla lotta sempre nuovi strati sociali, forze politiche e religiose e che, sulla base di questa larga unità nazionale, ha saputo stimolare e sollecitare l’aiuto e la solidarietà di tutti i paesi socialisti, nonostante il contrasto tra la Cina e l’Urss, e delle forze rivoluzionarie ed antimperialiste di tutto il mondo. Questa, quindi, la lezione del Vietnam. Per sconfiggere l’imperialismo è indispensabile una giusta linea politica e l’unità di tutte le forze antimperialiste. Dai paesi socialisti, alla classe operaia ed ai suoi partiti, alle forze democratiche di tutto il mondo. L’estendersi del fronte di lotta contro l’imperialismo pone problemi nuovi al movimento operaio internazionale che non è più soltanto rappresentato dai paesi socialisti ma che comprende questi paesi, con tutto il loro peso positivo economico, politico, militare, ma anche tutte le forze, tutti i partiti, tutti i movimenti che nei paesi più diversi, nelle più diverse condizioni lottano contro l’imperialismo e per il socialismo.


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Le frontiere del socialismo quindi, abbiamo detto nell’agosto cecoslovacco, non si limitano agli stati socialisti, ma passano all’interno di tutti i paesi, di tutti i popoli che lottano per far avanzare il progresso di rinnovamento sociale e politico. Condizione di sviluppo di questo processo è la mobilitazione delle masse popolari, la loro volontà e capacità di lotta, che potrà essere armata o no, secondo le concrete condizioni storiche e politiche, ma che comunque dovrà essere di massa se vorrà essere vittoriosa, ricercando vie necessariamente proprie ed originali, respingendo esempi di modelli realizzati in altre condizioni o “centri” che intendano imporre la propria esperienza. Le frontiere del socialismo comprendono la classe operaia e le masse popolari dei paesi capitalistici sviluppati che non possono attendere la conquista del socialismo attraverso un intervento esterno. La teoria che la vittoria del socialismo può venire solamente dalla lotta armata delle masse più esasperate dalla povertà o quella che ritiene che la lotta antimperialista debba essere condotta essenzialmente dagli Stati socialisti attraverso la competizione economica, scientifica, militare, dimostra sottovalutazione della capacità di lotta e del ruolo che le masse popolari dei paesi capitalistici avanzati possono assolvere. Noi affermiamo che la classe operaia dei paesi capitalistici e più in generale le masse popolari del mondo intiero hanno un ruolo grande da svolgere nella battaglia per isolare e sconfiggere i gruppi imperialistici: negare questo significherebbe ridurre la lotta antimperialista a un fatto di Stati ed assegnare ai partiti comunisti ed operai del mondo capitalistico soltanto una funzione di sostegno e propagandistico dell’azione degli Stati socialisti, limitando così la loro iniziativa politica. Proprio perché, a volte, atti politici e diplomatici dell’Urss e degli altri Stati socialisti hanno fatto ritenere che questi intendono la lotta per la pace e contro l’imperialismo, come un problema di rapporti con gli Usa o con gli altri paesi capitalistici, si è aperta la discussione sulla validità del principio della coesistenza pacifica in seno al movimento operaio. Questa discussione parte dalla preoccupazione che la politica,


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della coesistenza pacifica possa essere interpretata come divisione del mondo in blocchi contrapposti ed in zone di influenza; come ricerca di un accordo mondiale tra Urss e Usa, e il cosiddetto “bipolarismo”, sacrificando a questa visione gli sviluppi della lotta di classe e dei movimenti rivoluzionari. Bisogna riconoscere che determinati atti di politica estera, come forse lo stesso incontro di Glassboro (nel 1967 la cittadina del New Jersey fu la sede di un incontro al vertice – la Glassboro Summit Conference – tra il presidente americano Lyndon Johnson e il primo ministro sovietico Aleksei Kosygin. N.d.R.) hanno alimentato e rafforzato questa interpretazione. Certamente esistono difficoltà reali a far sempre coincidere la stabilità degli interessi degli Stati socialisti con gli interessi rivoluzionari dei popoli. Ma così come va riaffermato che non vi è alternativa alla pace ed alla coesistenza pacifica, con altrettanta decisione va ripetuto che questo principio non va interpretato ed attuato come una politica di “status quo”, di mantenimento delle attuali situazioni dì divisione del mondo, ma come terreno di lotta per isolare e battere l’imperialismo, nella possibilità per ciascun popolo dì condurre avanti le proprie battaglie per determinare il proprio avvenire, senza dover subire interventi esterni. La critica quindi alla interpretazione ed attuazione errata della politica di coesistenza pacifica va portata avanti nel dibattito in seno al movimento operaio e nei fatti. In tale direzione deve svolgersi con decisione e coerenza l’iniziativa del nostro partito: nella valorizzazione di tutto quello che vi è di positivo nelle varie esperienze di lotta rivoluzionaria ed antimperialista e di avanzata verso il socialismo; sulla base del rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni partito, movimento, stato, nella convinzione che non vi possono essere modelli da copiare e vie di conquista del socialismo, di costruzione e gestione delle società socialiste, valide per tutti. Questa è l’unica base per un nuovo internazionalismo, perché favorisce l’azione comune, offre la possibilità di un confronto di posizioni alla luce dello scontro di classe e permette il superamento delle stesse divergenze e la conquista di una più forte unità. Oggi nel partito esiste amarezza e preoccupazione per lo stato di


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lacerazione e divisione esistente in seno al movimento operaio internazionale. La posizione assunta dal nostro partito di critica e di riprovazione nei confronti dell’intervento militare dell’Urss e degli altri Paesi del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, ampiamente discussa e sempre più condivisa dai compagni, ha fatto emergere con maggiore chiarezza i problemi di principio che debbono essere risolti dal movimento operaio per ritrovare una nuova unità internazionalista. In primo luogo quello relativo alla autonomia ed indipendenza di ogni partito che è responsabile in primo luogo dinanzi alla classe operaia ed alle masse popolari del proprio paese. Ciò significa che la conquista e la gestione della società socialista non può avvenire con l’imitazione di modelli esterni, astraendo da una propria elaborazione politica che sia espressione della propria realtà nazionale, con le sue particolarità storiche, economiche, sociali, politiche e culturali. Quando non si tiene conto di questo principio si vengono a creare situazioni difficili, come si è verificato in Cecoslovacchia ed in altri paesi socialisti, con il determinarsi anche di spinte nazionalistiche che nascono e si sviluppano quando il problema delle caratteristiche e particolarità nazionali non è tenuto nel dovuto conto. In secondo luogo quello relativo al modo di prevenire o di risolvere crisi politiche che possono determinarsi e che deve essere essenzialmente politico, facendo appello alla volontà della classe operaia e del popolo, accettando il confronto politico e vincendolo con il consenso e l’appoggio della maggioranza del popolo nel quadro della legalità socialista, sviluppando forme nuove di partecipazione democratica alla gestione della società socialista. Su questa strada già s’è mosso ed opera il nostro partito, partecipando al dibattito in seno al movimento operaio internazionale e sostenendo queste posizioni anche con successo come è dimostrato dall’ultima riunione di Budapest, in preparazione della Conferenza mondiale dei partiti Operai e Comunisti, nella quale si è ritenuto che le attuali divergenze non debbano portare ad altre condanne e divisioni, ma ad allargare lo schieramento di lotta contro l’imperialismo e preparare la Pace.


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Questa nuova unità internazionale non può essere la somma di singole realtà nazionali che vadano ognuna per proprio conto, ma la componente organica di movimenti che trovano un terreno comune e una comune strategia internazionalista. È evidente che in questa visione non vi è posto per stati e partiti guida. Non vi è spazio per sconfessioni e scomuniche. Al contrario l’accento va posto sulla valorizzazione di tutto quello che di positivo vi è nelle diverse esperienze rivoluzionarie. Da quelle dell’Urss non solo per il valore decisivo della rivoluzione d’Ottobre, per aver battuto il fascismo e costruito una società senza padroni, ma per essere oggi una forza di pace decisiva nella lotta contro l’imperialismo. Per il suo contributo di ogni giorno alla lotta del Vietnam, a quella di Cuba e di tutti i popoli a quella della Cina che tanto preoccupa gli imperialisti. Da Cuba al Vietnam, alla Corea, agli altri paesi socialisti. In questa direzione il nostro partito deve lavorare con coerenza e maggiore continuità: oggi il problema è in primo luogo quello di un’informazione ampia, solidale sulle esperienze e sui successi – prima che sugli errori – delle rivoluzioni socialiste del mondo. E nel quadro di questa informazione maggiore, in una discussione di tutto il partito, una riconsiderazione critica ed autocritica delle diverse esperienze per far emergere tutto quello che di positivo esiste, per contribuire meglio, con pazienza e tenacia, al superamento delle divisioni e delle divergenze e alla conquista di una nuova unità internazionalista. Insieme a queste esigenze dobbiamo portare avanti la lotta contro l’imperialismo americano, contro la Nato, qui in Italia, nell’Europa Occidentale, per il superamento dei blocchi militari. Ecco, brevemente, alcune questioni che già rendono il 1969 diverso dagli anni più recenti. Con il 1968 è finita per il movimento operaio la lunga guerra di trincea ed è iniziata una fase di movimento,un periodo di grandiose e combattive lotte di massa. Dopo il voto del 1963 ci furono attese ed anche speranze. Dopo il 1968 non c’è stata delega. La classe operaia ed il suo partito, le sinistre, i movimenti di massa tradizionali e quelli nuovi con metodi di lotta interessanti e vivaci, spingono avanti, verso cambiamenti profondi il nostro Paese. Dobbiamo avere coscienza che lo scontro di classe diviene più duro,


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molti nodi vengono al pettine, sbocchi politici debbono essere trovati, la grande prospettiva del socialismo deve illuminare con più forza tutto il nostro lavoro. È dai danni prodotti da questo tipo di sviluppo monopolistico alla vita, agli affetti, all’ambiente stesso in cui vive il lavoratore, il giovane, il cittadino. È dall’incapacità del sistema a risolvere gli angosciosi problemi dell’occupazione – oggi in particolare giovanile ed intellettuale – della dignità del lavoratore, della cura dell’infanzia, della scuola, della salute e della vecchiaia dei cittadini, della partecipazione reale alla vita sociale e politica, che sorge impietosa nella coscienza di milioni di uomini e donne, dei giovani in particolare, l’esigenza di dare un nuovo assetto alla nostra società. Perciò diciamo che all’ordine del giorno oggi è il socialismo. Ma affermarlo non basta. Bisogna avere una strategia che sappia delineare la strada da compiere per realizzarlo. E in ciò ci distinguiamo da certi gruppi che lanciano parole d’ordine di tipo insurrezionale, pur sapendo che non sono attuali nel nostro Paese (perciò spesso si riducono a far coda nelle manifestazioni promosse e organizzate dalle forze politiche e sindacali tradizionali). Qualcuno di costoro all’ultimo nostro congresso sostenne che la classe operaia era ormai integrata e la nostra linea strategica sconfitta. Ma avevamo, nella sostanza, ragione noi quando lo richiamavamo a vedere il costo pesante del centro sinistra per le grandi masse, la situazione reale del Paese e le possibilità nuove che si intravedevano e che potevano maturare a condizione di non lasciarci prendere dal panico, di avere fiducia nella classe operaia. Ciò non toglie niente però al fatto che c’è effervescenza giovanile e fretta d’arrivare, c’è una difficoltà di collocazione di forze vive all’interno del partito. Ciò pone con forza il problema dì riflettere, sui limiti, sulle debolezze, sui vuoti e sugli errori del partito e del movimento nel suo insieme. Perciò con forza, abbiamo discusso nei congressi e discutiamo qui i grandi problemi della strategia e delle tappe da compiere par andare avanti nelle condizioni concrete del nostro Paese.


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E nei congressi frequente è stato il riferimento alla recente esperienza francese. Là non c’era una situazione rivoluzionaria, ma c’erano sbocchi politici da dare al movimento e trincee che potevano essere conquistate. Invece ci pare sia mancata la saldatura tra obbiettivi rivendicativi e politici, siano mancati obbiettivi politici che permettessero di superare positivamente la fase del tutto o niente, poiché le elezioni segnavano soltanto di fatto uno spostamento dell’asse della lotta dalle masse al Parlamento. Certo, diversa è la situazione politica italiana e più compiuta ci appare la nostra elaborazione politica. La parte V delle Tesi porta avanti (anche alla luce degli avvenimenti francesi, dello sviluppo dei movimenti autonomi, della ripresa delle lotte per la democrazia diretta) la elaborazione della nostra via al socialismo. Ed il punto 2° afferma che “la via italiana è una via di lotta”... “Le riforme di struttura rappresentano obbiettivi intermedi, la cui caratteristica di fondo è di rispondere in modo positivo all’esigenze delle masse popolari e del paese e di creare movimenti capaci di mobilitare le masse e di riuscire a spostare i rapporti di forza a favore della classe operaia e dei suoi alleati”, “di spostare la lotta a livelli politici via via più avanzati e indicare sin da ora nuove forme di partecipazione di potere e anche nuovi istituti di classe e democratici in cui si concretizzi in modo permanente l’azione delle masse e l’alternativa alla società capitalistica”. Sentiamo anche però che queste affermazioni devono essere portate avanti con coraggio e coerenza, rompendo incrostazioni, e deformazioni, lavorando con fiducia per dare spazio e far crescere il nuovo che sorge, per far sorgere dalle lotte – e non viceversa – le soluzioni politiche e parlamentari, le convergenze momentanee e le alleanze di lunga prospettiva. L’accusa (che talvolta ci tocca per avere imboccato una via “parlamentare” e per essere “integrati”) sappiamo quanto sia falsa e come salati siano stati questi venti anni per il partito, per le sue forze più vive, come dalla stretta di Scelba prima e dallo “storico” centro sinistra poi, si sia usciti perché il partito nella sua battaglia politica ha saputo mobilitare masse enormi e forze politiche.


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Tuttavia quando la presenza stessa nostra nelle istituzioni pubbliche (Parlamento, Provincia, Comuni, enti di ogni tipo), talvolta, è sottoposta ad una critica di base dobbiamo capire le profonde motivazioni politiche, per reagire sul terreno politico, superando limiti e ritardi, ponendoci alla testa della insoddisfazione delle masse. I fatti di Avola e di Viareggio, come ieri il Sifar, sono i punti nodali di una involuzione delle istituzioni democratiche uscite dalla Resistenza, che continua ad estendersi e tende a corrodere e corrompere tutti e tutto. Non è solo il Parlamento che viene svuotato dall’esecutivo e da enti come Iri, Eni, Enel. Da carrozzoni come gli Istituti previdenziali ed assistenziali o come la Federconsorzi. È l’ente Regione che dopo venti anni sta per nascere, ma in una situazione precaria, perché già i Comuni e le Province sono nelle mani dei Prefetti e delle Banche e intanto crescono come funghi enti regionali burocratici. E se il governo ha 83 poltrone, la Rai-Tv né ha mille per essere gestita contro l’utente, e ovunque cresce la corruzione, il sottogoverno, il clientelismo. La borghesia dice che la colpa sarebbe della “classe politica”. Ma noi non siamo su quella barca. Siamo all’opposizione e lottiamo per cambiare l’equipaggio e la rotta. Il nostro impegno può e deve essere più pieno e lineare per rovesciare questa tendenza autoritaria che contrasta con la volontà di grandi masse, per affermare i valori della democrazia che uscirono dalla Resistenza, per realizzare nuove esperienze democratiche. Siamo convinti cioè, e qui rispondiamo a chi vaneggia di lotte armate, che qui non siamo in Grecia né in Colombia, ma in Italia dove, malgrado tutto, la democrazia non è morta, e dove il suo sviluppo pieno e totale è davvero un’arma attuale e possibile per sconfiggere l’autoritarismo e le forze politiche padronali, è l’arma che più spaventa la borghesia italiana. Perciò insistiamo su questo problema perché c’è una svolta profonda da fare nello stesso nostro lavoro, una svolta che tenga conto che oggi, dopo il 1945, per la prima volta, tornano ad estendersi rapidamente forme di democrazia dal basso e proprio qui possiamo ritrovare solide basi nella costruzione di nuove forme di lotta e di gestione


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democratica – così come previde la stessa Costituzione – e ridare una funzione reale agli Enti locali, alle varie istituzioni esistenti, allo stesso Parlamento. Cioè sul terreno delle lotte per la democrazia, come su quello delle riforme dobbiamo esprimere tutto il nostro slancio, tutta la nostra tenacia perché è nella lotta, nell’azione concreta che si può dimostrare la forza rivoluzionaria della linea politica del partito della classe operaia. Quanto abbiamo affermato sottolinea quella parte delle Tesi in cui netta appare la nostra opposizione al centro sinistra, in cui più deciso è il rifiuto a soluzioni di vertici e ad inviti a mettere le mani nelle stanze dei bottoni, in cui più forte e chiara appare la nostra volontà di costruire con la lotta le alleanze per una alternativa reale al centro sinistra. Certo dobbiamo avere coscienza che questa alternativa non è matura ma che può e deve essere maturata, che portando avanti la lotta sugli obbiettivi più sentiti dalle masse, conquistando trincea su trincea, attraverso anche convergenze momentanee, dobbiamo tendere a rafforzare lo schieramento di sinistra, a maturare situazioni nuove all’interno del PSI, a rompere l’interclassismo Dc provocandone la ribellione della base popolare.

Quale iniziativa Stralci dall’articolo pubblicato in “Cronache Umbre” del 12 luglio 1969. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Le nostre idee sull’Ente Regione e quelle Dc. Da qui parte il nostro interesse, la nostra lotta per l’ente Regione. Come momento di costruzione di un potere che poggia su una democrazia di base vasta e articolata. Già due anni fa elaborammo uno statuto per la Regione umbra. Certo, le nostre idee sono del tutto diverse da quelle dell’On. De Mita, democristiano. Egli pensa ad un potere presidenziale, cioè in definitiva ad un’ulteriore centralizzazione che cammini di pari passo con l’accentramento statale e con la concentrazione monopolistica. Si ha in questo modo un rafforzamento dell’esecutivo e una forti-


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ficazione del dibattito politico e dell’assemblea. Questa tendenza va contro le spinte della società civile e postula una riforma dello Stato diversa da quella prevista dalla Costituzione. Peggio ancora la proposta di Piccoli per eliminare la proporzionale per il sistema uninominale e l’elezione diretta del Sindaco (gollismo municipale). Essa elimina il momento del dibattito della assemblea e riduce la funzione dei partiti politici. Essa è la prova generale per modificare la legge per le elezioni politiche (si ricordi che dopo le maggioritarie del 1952 si ebbe la legge truffa!). Invece noi ci muoviamo sulla linea di un rafforzamento della partecipazione popolare o quindi delle autonomie locali, vogliamo fare dei comuni strumenti di lotta per trasformare la società umbra, vogliamo che la Regione divenga un momento essenziale dell’aggregazione delle forze popolari nella battaglia per modificare le strutture dell’Umbria, per determinare nuovi indirizzi nella politica nazionale. Linee d’attività. Per il partito s’apre un momento ancora più intenso di attività. La situazione politica è in rapido movimento. Grandi masse di popolo sono in agitazione. L’Umbria può e deve andare avanti. Può e deve conquistare un governo regionale democratico. Può e deve superare il nero periodo del centro sinistra. Il Convegno degli Enti locali delle sinistre unite e la conferenza degli operai a Perugina, il convegno sulle piccole industrie e sul ruolo delle partecipazioni statali, le iniziative nel settore dell’infanzia a Terni, già hanno esaminato criticamente aspetti del nostro lavoro e tracciato linee di attività in alcuni settori. C’è un problema urgente di conoscenza. Gli elementi della situazione nuova in nostro possesso non bastano a darci intiera la coscienza della situazione, a farci individuare chiaramente la strada da seguire. Da queste constatazioni sorgono tre esigenze: riprendere sistematicamente in tutto il partito il discorso sui problemi dell’economia, superando remore e luoghi comuni, confrontarsi con la realtà per trarne motivi di forza e di lotta; condurre nel partito una battaglia politica ed ideologica per la conquista e la organizzazione delle masse operaie vecchie e giovani secondo l’indirizzo dato dalla conferenza ope-


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raia; creare la convinzione, sopratutto in provincia di Perugia, che dopo il massiccio esodo delle campagne occorre puntare sempre di più sugli operai. Ciò non vuol dire trascurare o sottovalutare il mondo contadino che occupa sempre il 40 % della popolazione attiva della provincia di Perugia. Significa al contrario creare una nuova leva di quadri operai e di contadini e rivedere le strutture del partito tenendo conto dei fenomeni nuovi, puntando in particolare sulle fasce di sviluppo.

1970: elezioni regionali Stralcio della relazione al Comitato regionale del Pci sulla preparazione alle elezioni regionali del 1970. Febbraio 1970. Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Al centro della battaglia elettorale (per comuni, province, regioni) poniamo il problema dell’ente Regione: unifica la lotta portandola a livello politico, dà nuova forza al discorso delle autonomie. Intanto, cosa dire dell’ente Regione e delle sue possibilità? Bisogna dare un giudizio positivo ma critico. È prima di tutto una vittoria popolare (tutta la lotta umbra per la Regione). La Costituzione già offre competenze notevoli ed apre la via ad altre prospettive di governo del territorio. La legge approvata dalla Camera rinvia il potere delle regioni di legiferare di due anni, ma esse possono partire subito con questioni di grande rilievo. Occorre che il Consiglio regionale abbia chiari obbiettivi programmatici di rinnovamento, una determinazione politica, la forza per realizzarli. Solo a queste condizioni la Regione può avere un enorme valore e può spingere avanti la riforma dello Stato (da accentrato, autoritario, napoleonico, a democratico-decentrato). Regione dunque come momento importante della lotta per cambiare la struttura dello Stato ed i meccanismi di sviluppo. Regione necessaria per ampliare alleanze. Regione decisiva per la crescita delle autonomie locali (il controllo sui comuni deve passare alle Regioni) e del potere dal basso. Regioni come strumento della classe operaia e dei lavoratori nella lotta per rinnovare la società nazionale.


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Partendo da queste considerazioni conviene dare al programma un certo taglio: breve, riassuntivo. Il programma in Umbria dovrà rifarsi agli elaborati del Piano regionale e tener conto del discorso in piedi sull’Italia centrale. Ma il tempo è passato ed alcune questioni vanno aggiornate, altre completate (ad esempio la scuola, la casa). Ma la programmazione regionale nelle mani del centrosinistra è fallita e perciò largo spazio va dato al valore della “volontà politica” ed agli elementi concreti che sottolineano questo valore. Va sottolineato che oggi sono le grandi lotte operaie e popolari che spingono avanti con forza – sconosciuta ai tecnocrati ed ai programmatori del centrosinistra – i problemi di fondo della società nazionale, che si battono per affermare un diverso meccanismo di sviluppo che sostituisca alla logica del profitto quella delle riforme.

1970: il voto e le alleanze Stralcio degli appunti di una riunione (del comitato regionale?) subito dopo il voto delle elezioni regionali, provinciali e comunali del 1970. Archivio personale, cartella n. 4 e 5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

In relazione al voto. Il giudizio complessivo non può essere che positivo. La prima parte del comunicato della direzione riassumeva bene questo carattere: successo del Pci contro il tentativo di sbocco reazionario, vittoria netta della democrazia, possibilità politiche positive, regioni come nuovo campo di vita e di iniziativa democratica. La battaglia è stata dura, difficile, anche in Umbria. La Dc e le forze di destra sapevano di giocare una grossa partita. Con il cuneo del centrosinistra introdotto in Umbria nel 1964 si trattava per loro nel 1970 di spaccare e umiliare definitivamente il movimento operaio. A questo obbiettivo da anni la Dc puntava profittando di fatti oggettivi che la favorivano (ad esempio l’espulsione dalla terra di grandi masse mezzadrili, base organizzata del Pci). Lavorando a rafforzare i suoi collegamenti e gli strumenti (ad esempio nell’agricoltura tramite le aziende capitalistiche e i coltivatori diretti, le


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Mutue, l’Ente Valdichiana, l’Ente di sviluppo regionale; e nell’industria, con l’attività dei suoi ministri, la finanziaria, i rapporti con artigianato e commercio). È valutando attacco dall’autunno in poi che anche per il voto umbro diamo un giudizio complessivo soddisfacente. È nel 1963 che il Pci in Umbria passa dal 30 al 39% dei voti. Nel 1968 miglioriamo ancora arrivando al 41,77%. Oggi con meno voti degli emigrati manteniamo e miglioriamo i risultati di quelle elezioni: 41,89 alle regionali, 42,22 alle provinciali. Il voto del partito non è omogeneo rispetto al 1968 e forse è inferiore rispetto alle attese ed ai giudizi che si davano anche per l’ampiezza delle lotte di questi ultimi due anni. Da qui l’esigenza di un esame critico che in Umbria s’è avviato, ma che per essere valido, a mio parere, deve sfuggire a facili approdi. Intanto: come valutare la nuova collocazione politica ed elettorale del Psi in Umbria? La Dc afferma che l’area del centrosinistra s’è allargata. Anche alcuni nostri dirigenti – nell’esaminare i motivi che in qualche zona hanno causato un nostro arretramento anche lieve – sostengono che debole è stato il nostro attacco contro il Psi. Ma intanto: contro quale Psi? Quello nazionale che sta nel centrosinistra? D’accordo, andava attaccato ed è stato attaccato. Ma valutando la divaricazione crescente nel centrosinistra. Quello di alcune zone che resistendo alle decisioni degli organi direttivi umbri si è battuto per il centrosinistra? È stato attaccato e duramente battuto. Ma la linea di tendenza del Psi in Umbria è stata un’altra. Da rottura verso l’unità. Questa linea andava aiutata (certo criticamente) ed i punti di unità (sindacati, amministrazione provinciale) andavano esaltati. Ciò è stato fatto. Il Psi in Umbria complessivamente oggi non è e non può essere una forza del centrosinistra: il centrosinistra in Umbria è stato battuto alle regionali, alle provinciali e quasi generalmente alle comunali. La sconfitta della Dc e delle destre in Umbria proprio per questo è tanto clamorosa quanto chiara e netta e l’Umbria aumenta le contraddizioni all’interno del centrosinistra nazionale. Sicuramente per essersi dichiarato aperto a maggioranze di sinistra e per la sua condotta elettorale corretta verso di noi, il Psi ha otte-


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nuto in Umbria un risultato che nessuno alla vigilia gli attribuiva, riconquistando credibilità in ceti popolari (questo non ha capito il Psiup ed ha pagato). Non ci possiamo dolere se il successo del Psi ci sia costato qualcosa in voti. Dobbiamo avere presente che il quadro delle forze di sinistra, si è allargato. Proprio su questo quadro più ampio, anche se con zone di contraddizione, oggi dobbiamo misurarci.

Creano tensione Stralci di appunti di un comizio a Città di Castello contro la provocazione di Almirante (1 febbraio 1970). Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 5, D.Isuc.

È una manifestazione giusta, non è volontà di isolamento o integralismo, ma volontà di esprimere il nostro pensiero, di discutere, di sottoporre a tutti la nostra opinione e la nostra politica. Del resto questa esigenza di una protesta, di una lotta contro il contrattacco delle destre alle battaglie sindacali dei lavoratori è un fatto ampio se è vero che per il 6 febbraio Cgil-Cisl-Uil hanno indetto una giornata di protesta contro le repressioni e per le riforme. Qualcuno può dire cosa c’entrino i fatti di domenica 25 gennaio con la repressione. C’entrano e molto. È una linea, quella delle destre economiche e politiche, complessa, confusa dinanzi al grandioso moto operaio, ma il cui punto comune sta nella volontà di spezzare il movimento, di riportare tutto indietro. Da qui comprensione, sostegno, difesa ed anche omertà. Dai fatti di domenica sorgono interrogativi cui si deve rispondere: perché Almirante lascia la lotta ostruzionista che alle Camere conduce sulle regioni per venire a Città di Castello? Perché giovinastri possono in pieno giorno impunemente lacerare manifesti e provocare cittadini? Perché si fa fare un corteo non autorizzato con labari e saluti fascisti? Perché non si arrestano individui armati? Perché si fotografa tutto solo dopo aver lasciato le briglie sciolte? Per conoscere figuri che la polizia già conosce? O per chiamare poi a stringenti interrogatori antifascisti e cittadini che hanno


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agito in difesa delle leggi repubblicane, oppure come al “3 BIS” in difesa della propria incolumità dalla prepotenza delle squadracce identiche a quelle punitive del lontano 1921? Ecco dove sta il legame tra Città di Castello da una parte e dall’altra Almirante, Nardi che licenzia, la denuncia contro sindacalisti. Ecco il patto mafioso e la linea generale repressiva che vede uniti padroni ed alti burocrati dello stato e che si traduce in una ondata di licenziamenti, di denuncie padronali e poliziesche, di condanne che contrastano con la Costituzione, urtano persino i magistrati spezzando la loro associazione. Dall’inizio dell’autunno caldo, da Agnelli e Pirelli, ad Annarumma, alle tragiche bombe di Milano, la reazione ha tentato con ogni mezzo di frenare le giuste esigenze di milioni di lavoratori e cittadini. Allora non ci sono pericoli di fascismo? Certo ci sono. De Lorenzo non è un fantasma, la Grecia è vicina, siamo nella Nato, le squadracce fasciste sono protette, ed anche se oggi prevale nel governo una linea moderata dietro ad essa si rafforzano i De Lorenzo ed il fascismo, dietro essa c’è il caos. A tutto questo noi rispondiamo non con azioni di nostre squadre, ma con una linea di lotta delle grandi masse popolari per spostare a sinistra tutta la situazione politica, per una reale alternativa.

I campanelli d’allarme Stralcio della relazione al Comitato federale di Perugia del 29 novembre 1970. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

L’Umbria attraverso le sue esperienze sottolinea il valore delle scelte di fondo compiute dal Comitato centrale sul tema della strategia delle riforme e della programmazione democratica. Dobbiamo però anche dire che l’azione sviluppata in Umbria è insufficiente e sembrano delinearsi due pericoli. Primo: che la lotta per le riforme e contro la smobilitazione sia delegata solo ai sindacati. Secondo: che conquistati Regione e comuni si sviluppi la convinzione che la loro azione possa risolvere i problemi della Regione.


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Ci pare che i fatti di Assisi siano stati a questo proposito un benefico campanello d’allarme. Come un allarme viene dalla ricerca delle strade degli incentivi che, di fronte alla lotta per cambiare con le strutture del Paese le prospettive dell’Umbria, compie la Dc regionale. Qui ancora c’è la doppia anima Dc: da un lato afferma la sua volontà riformatrice, dall’altra mira a risolvere i casi concreti di mobilitazione industriale sdrammatizzandoli e proponendo leggi incentivanti (ad esempio la 614 regionalizzata), tentando di spostare i termini della lotta contro il governo (vedere nell’Italia centrale il caso di Ancona e le Partecipazioni Statali, Giolitti e Piccoli). Contro questa anima occorre battersi polemicamente ma anche con obiettivi precisi per spostare in avanti il movimento unitario. Ad Assisi, poi, una nostra insufficiente elaborazione e attualizzazione del problema sorto attorno alla “legge speciale” e la sottovalutazione della esigenza della mobilitazione popolare ci hanno fatto vedere da vicino il pericolo di un inserimento fascista padronale che poteva prendere la testa di un movimento in difesa di 2.000 posti di lavoro e più in generale dell’Umbria. A nulla sarebbero valsi la forza del Pci, gli impegni governativi ed i piani regionali. La questione non è conclusa, ma più precisa è oggi la nostra posizione e l’attività del partito nello lotte per l’occupazione. A proposito dagli impegni assunti dal governo, ieri per l’Umbria, oggi per lo Jutificio o per Assisi, l’esperienza ci insegna che se non vi sarà uno sviluppo della lotta in tutta l’Umbria non soltanto non saranno mantenuti, ma andremo a nuovi gravi colpi. Da qui l’urgenza della ripresa della lotta per le riforme e per l’occupazione. Una lotta che ha urgenza di momenti regionali (sciopero a dicembre della Cgil) ma anche di una articolazione e di una presenza che – molto più di ieri – non lasci spazi vuoti, che investa nella prossima settimana, tutti i settori e tutte le zone. Grande valore, intanto, ha l’estensione della lotta operaia sui problemi dalla fabbrica, dell’orario di lavoro o degli organici, la partecipazione degli operai alle lotte per le riforme. Che forse debbono trovare più motivazioni umbre, come il problema della casa. Uno sforzo nuovo va fatto verso i contadini. Al lavoro del sindacato, può e deve


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aggiungersi il lavoro degli enti locali. Il partito deve riuscire a costruire in ogni zona degli obiettivi immediati e di prospettiva, partendo dalla realtà attuale e mettendo in movimento attorno ad un comune disegno di iniziative e di lotta tutte le organizzazioni sindacali e democratiche.

Noi e Roma Stralcio della seconda parte della relazione al Comitato regionale del 28-11-1970, in vista delle conferenze provinciali di organizzazione. Presente alla riunione Armando Cossutta della direzione nazionale del Pci. Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 5, D.Isuc.

I compiti nuovi che si pongono al partito in Umbria richiedono un salto di qualità. Vi è il problema di assicurare il “primato del partito” nella nuova situazione caratterizzata da una ampia crescita del movimento popolare, da una ripresa del dialogo tra le forze politiche, dalla estensione della nostra responsabilità nel campo della amministrazione pubblica. Ma soprattutto, se si vuole superare il muro del 42% dei voti, si impone il rafforzamento del partito, la creazione ed il potenziamento delle organizzazioni di massa e soprattutto del ceto medio (coltivatori diretti, artigiani, commercianti: questi sono i punti deboli che oggi, anche per la presenza della Regione, possono essere superati). II rafforzamento del partito in primo luogo significa migliaia di reclutati, costruzione della Fgci e migliaia di giovani nelle sue file. Da questo punto di vista diverse sono le realtà di Terni e di Perugia. A Perugia ai mezzadri, asse portante del partito, delle sue lotte e delle sue alleanze, ora occorreva sostituire un altro asse: la classe operaia. Da tempo il partito lavora in questa direzione e risultati si sono avuti anche nell’avanzata di quadri (consiglio operaio, presenza nei consigli comunali, massiccia presenza operaia), ma oggi dobbiamo porre l’obbiettivo di un più massiccio ingresso di operai nel partito e di un lavoro ideologico e politico che consenta la rapida e sicura avanzata di centinaia di giovani operai per assicurare l’avanzata del partito nella fabbrica, nella Fgci, nelle sezioni, nelle organizzazioni di massa.


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Altro punto importante è il mondo della scuola. A Perugia 20 mila studenti hanno un peso rilevante nella vita della città. A Terni si tratta invece di rinnovare il partito nelle fabbriche per impedire che con l’uscita dalla fabbrica delle vecchie leve si produca una riduzione della presenza del partito. Questo lavoro è iniziato, può fare passi avanti. Con questi obbiettivi è iniziata la campagna di reclutamento nel 1971 ed a Terni come a Perugia si va verso le Conferenze provinciali di organizzazione (attraverso i congressi di sezione) che si svolgeranno entro gennaio. A Terni i congressi di sezione sono già iniziati, ed alcuni provvedimenti organizzativi che investono la federazione sono stati presi. A Perugia è in atto un processo di rinnovamento nel gruppo dirigente della federazione e della Fgci, ed un cambiamento nel tipo di utilizzazione del funzionari: compagni collegati alla federazione, ma più mobili, più diretti verso i punti dove vogliamo che cresca il movimento di lotta ed il partito (operai, studenti, campagne). Al centro dello sforzo delle federazioni vi è la sezione, la ripresa di una sua funzione, di una sua capacità di organizzare tutte le sue forze e di proiettarsi all’esterno. Le recenti esperienze – i collettivi di lavoro (Perugina, sanità, scuola, comune di Perugia) – ci hanno detto che è possibile esercitare una egemonia e mettere al lavoro nuove forze. Per questa strada si riduce anche l’area dei gruppetti organizzati (Circolo Marx ed altri). È una esperienza che certo non può sostituire le organizzazioni di base del partito ma può aiutarle a crescere, a fare politica. Del rafforzamento del comitato regionale abbiamo parlato in altra riunione, affermando l’esigenza di una sua presenza più marcata sui temi dell’ente Regione, dell’economia, della scuola e dell’informazione. A questo proposito va detto che non si è realizzato, per la mancanza ancora di una valida scelta del dirigente, il disegno di un periodico regionale di massa. Certo è che non è un momento facile per la elaborazione e la sperimentazione di alcune soluzioni organizzative. Questo fatto crea tensioni nel partito e zone di incertezza nei gruppi dirigenti. Perciò le conferenze sono momenti rilevanti ed anche perciò riteniamo – per il ruolo che l’Umbria ha assunto nel Paese – necessario un contributo più puntuale ed efficace della direzione nazionale del partito. Non basta rimediare a ritardi politici


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o a superare qualche momento d’incomprensione. Il problema è quello di far partecipare di più i gruppi dirigenti regionali ai problemi nazionali, è quello di un confronto continuo nella ricerca di una linea umbra del Pci per gli anni prossimi. Porre questo problema vuol dire porre le stesse questioni che Longo e Berlinguer hanno posto in relazione al lavoro del centro del partito, ma per la situazione umbra non si possono avere ritardi. Oggi, nei prossimi mesi, si decide se il Pci umbro farà un balzo in avanti oppure se entrerà in un lungo periodo di difficoltà e di crisi.

Con la direzione del Pci: critiche ed autocritiche Prima parte dell’intervento al Comitato Centrale del dicembre 1970. Archivio personale, cartella n. 3, fascicolo n. 5, D.Isuc.

Ritengo giusto il metodo seguito da Berlinguer nell’introduzione. Condivido l’invito al dibattito su alcuni nodi della situazione attuale. La fase politica che attraversiamo per la sua estrema complessità ha bisogno di chiarezza di linea, proprio perché la nostra azione deve essere molto articolata e deve comprendere una serie di obbiettivi immediati ed intermedi che presi isolatamente rischiano di offuscare le prospettive. È chiaro che siamo andati avanti sul terreno segnato dal congresso di Bologna. Il giudizio sulle lotte operaie deve essere fortemente positivo, dalle lotte aspre e dal duro contrattacco avversario è uscita “una vittoria della democrazia e una avanzata del movimento operaio”. La controffensiva reazionaria ha subito dei colpi. Oggi avvertiamo assieme alla ripresa del movimento di lotta unitario e la sua estensione a nuove forze, il delinearsi, seppure tra difficoltà e contraddizioni, di fatti nuovi e tendenze nuove a livello delle forze politiche come per esempio indica la vicenda delle giunte ed i primi mesi di vita delle regioni. Lo scontro duro di questi mesi ha detto come la nostra linea sia il contrario dell’“inserimento” e della “repubblica conciliare”. Nel rap-


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porto è combattuta con forza ogni soluzione moderata o di riformismo spicciolo e parziale per riporre al centro l’intera nostra visione della “strategia delle riforme” e l’immediatezza della battaglia politica per una trasformazione profonda delle strutture fondamentali della nostra società. Il rapporto, giustamente, chiama il partito a sviluppare l’azione politica necessaria per vincere questa grande e difficile battaglia resa però possibile proprio per l’estensione del movimento e per i processi unitari in atto. Un lavoro che oggi più di ieri deve partire dai bisogni più elementari delle grandi masse di popolo per dare ad essi soluzioni più durature, per elevare a livello politico le lotte perché incidano sul meccanismo di sviluppo capitalistico. I traguardi concreti raggiunti con le lotte dell’ultimo anno accrescono la credibilità della nostra linea, aprono con nuova forza i problemi di fondo della società italiana. Questa è la linea che batte l’estremismo – e i suoi sostenitori di destra – che predicando l’isolamento e le fughe in avanti frantuma persino le sue forze, cade nell’anticomunismo. Si è sempre dispiegata compiutamente questa nostra linea? Alcuni momenti di debolezza vi sono stati. In un altro Comitato centrale fu detto che la lotta di primavera per le riforme aveva insufficienze e trasportava con sé forze equivoche ed anche corporative. Il rapporto di Berlinguer oggi dà nuovo respiro a quelle lotte, ne fà dei fatti politici, pone al centro i grandi temi dell’occupazione, dell’agricoltura, del Meridione. Anche l’avvio della lotta contro il nuovo governo di Colombo e contro il suo primo atto, “il decretone”, sono apparsi in alcune zone del partito di difficile comprensione. Quando il compagno Berlinguer accenna a debolezze politiche ed ideali di qualche gruppo dirigente credo tra gli altri si riferisca anche all’Umbria ed a Perugia in particolare, come del resto rilevò nella riunione dei segretari di federazione. Non è mancato chi nel partito ha messo in discussione il comunicato dell’8 luglio, ma nel complesso il partito in Umbria ha visto quell’intervento come tempestivo e necessario per impedire che la crisi (reale ed anche manovrata) avesse gli sbocchi del 1964, che per l’Umbria furono particolarmente negativi e non solo sul piano economico ed occupazionale.


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L’atteggiamento di fronte al “decretone” è stato a Perugia, invece, cosa diversa. Il malcontento operaio per il provvedimento è stato vasto, come rapida è stata la propaganda avversaria ed estremistica nel tentativo di coinvolgerci. Tutto ciò ha coinciso con un momento di stasi del movimento e di un forte impegno del gruppo dirigente umbro nella soluzione dei problemi derivanti dalla vittoria elettorale, nelle giunte sui programmi e le alleanze. In un primo momento il partito ha funzionato da cassa di risonanza. Credo che questo sia già apparso chiaro al gruppo dirigente quando ha cercato il contributo del centro, contributo che per cause oggettive è giunto in ritardo e perciò è stato considerato da alcuni come l’occasione per uno sfogo. Sarebbe però sbagliato vedere solo questo aspetto, trascurare la battaglia che c’è stata contro posizioni estremistiche, per una ripresa effettiva della lotta nelle fabbriche e per lo sviluppo dell’iniziativa politica (dalla massiccia riuscita dello sciopero del 2 ottobre, in particolare alla Perugina, all’azione di massa attorno alla Regione ed al suo Statuto). Azione questa che nel concreto ha realizzato la linea del partito, ha superato deficienze ideologiche. Comunque se problemi di orientamento ci sono stati, c’è stato anche un ritardo del centro nell’avvertire la portata di quei problemi di orientamento. Se, per esempio, la riunione dei segretari di federazione fosse stata fatta un mese prima la reazione complessiva del partito sarebbe stata più tempestiva. Neppure “l’Unità” ha avvertito subito lo stato d’animo che con il “decretone” si stava creando e su cui subito hanno agito forze estremistiche, giornali borghesi, televisione, per falsare le nostre reali posizioni, per attribuirci propositi di “inserimento”. D’altra parte nell’arco di quei mesi, in cui tante vicende si sono accavallate attorno alla crisi di governo, il fatto che sia mancata la riunione del Comitato centrale ha forse pesato sull’orientamento del partito. Oggi, però, decisivo è il lavoro che sta di fronte a noi. Siamo in una fase offensiva, è stato detto. Occorre estendere la lotta delle masse. Prima di tutto della classe operaia nella fabbrica e per le riforme. Ma ciò non basta: occorre il movimento di grandi masse sui temi della occupazione della riforma agraria e del Mezzogiorno, per quindi affrontare i nodi di fondo della nostra alternativa economica e poli-


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tica. Bisogna congiungere e far avanzare lotte, forze sociali e politiche perché il centrosinistra sia battuto da sinistra e si realizzi una alternativa all’attuale gestione di governo. Su questo terreno vediamo anche in Umbria i passi reali in avanti ma anche i problemi insoluti da cui nascono difficoltà e persino pericoli nuovi. Vi è una ripresa della lotta operaia, in alcuni punti vi sono maturazioni e conquiste nuove. Forte è stata la risposta all’attacco ai livelli occupazionali (Jutificio: 120 giorni di occupazione). Vi è una azione nuova della Regione e degli enti locali sul tema dell’occupazione e delle riforme. Ma ciò non copre tutta l’area del malcontento. Anzi vi è il pericolo che su questi problemi si crei un’aria d’attesa messianica. L’avvertimento ci viene da Assisi. Una risposta politica insufficiente e la sottovalutazione di una possibile presa di massa delle destre ha aperto una zona di rischio. Oggi il partito lavora a superare quel rischio centrando il tema della occupazione, ma al fondo c’è il problema di una ripresa più generale sui temi essenziali per l’Umbria: occupazione, agricoltura, programmazione democratica. Il campanello d’allarme di Assisi non deve essere sottovalutato. Noi siamo convinti di trovarci di fronte ad una manovra complessa (parte della Confindustria, socialdemocrazia, on. Preti, Msi e Dc) tesa a colpire la regione rossa che deve misurare le sue capacità prima di tutto sul tema dell’inversione del processo di degrado economico e di disgregazione sociale in atto, una manovra che forse tenderà ad estendersi nei prossimi mesi. Una manovra che vuole far saltare un lavoro politico di grande rilievo che iniziò con le elezioni del 1968 e che è andato avanti con le lotte dell’ultimo anno e con le elezioni del 1970, che è continuato con la estensione delle giunte di sinistra, con la conquista dell’ente Regione. Abbiamo riportato il Psi nell’area unitaria delle sinistre mentre stanno maturando fatti nuovi nella Dc e nel mondo cattolico. L’impostazione della “regione aperta”, il dinamismo e la moralizzazione messi in atto producono fatti nuovi, creano prospettive unitarie ai vari livelli. Il dibattito sullo Statuto della Regione ne è un momento e noi lo abbiamo ritenuto essenziale per rileggere insieme la Costituzione, per realizzare effettivamente “una fase costituente”, e da qui il valore che abbiamo dato alla sua parte programmati-


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ca, alla partecipazione, al decentramento. Essenziale è che a questa lettura partecipino grandi masse non per creare il “miracolo statuto” ma un nuovo impegno unitario per il rinnovamento delle strutture, per la riforma dello Stato.

Una regione aperta Stralci dell’intervento al Convegno di Palermo del 1971. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Noi abbiamo detto “Regione aperta”, nella nostra campagna elettorale, e vogliamo che veramente sia una Regione senza steccati, dove la maggioranza non sia delimitata alle forze che oggi la compongono, ma abbia la possibilità di incontro continuo con le altre forze del Consiglio regionale, con le altre forze democratiche e con le componenti sociali che vivono ed operano nella regione. Sappiamo, però, che una cosa è il dire, un’altra il fare. Noi nel passato, abbiano mosso anche critiche e fatto autocritiche severe sul modo con il quale abbiamo amministrato talvolta le nostre organizzazioni democratiche e in particolare i nostri enti locali. Credo, perciò, che nell’assumere responsabilità più grandi, dobbiamo tenere conto di questa esperienza del passato, rimanendo strettamente ancorati alla realtà delle masse popolari, stabilendo con esse un colloquio permanente e attuando forme concrete di partecipazione. Questo abbiamo cercato di fare con la Regione quando siamo andati a tenere una riunione del Consiglio in una fabbrica occupata dagli operai, lo Jutificio di Terni. Questo faremo nel prossimo incontro fra i sindacati Cgil, Cisl e Uil e l’intero Consiglio regionale per affrontare i problemi dell’occupazione, gravi anche in Umbria. Ma crediamo che questo sforzo vada trasferito nello Statuto dell’ente Regione. È vero che in Umbria siamo governo, ma proprio per questo dobbiamo avere presente la esigenza di democrazia, di partecipazione. Perciò dobbiamo rafforzare i poteri dell’intero Consiglio, i poteri della Presidenza del Consiglio regionale. Dobbiamo fare in modo che


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le Commissioni consiliari che formeremo siano Commissioni che abbiano possibilità effettive di lavoro e che non tutti i Presidenti di queste commissioni appartengano necessariamente alla maggioranza. Uno sforzo dovrà essere fatto per realizzare la partecipazione delle organizzazioni di massa, come per dare una effettiva autonomia agli enti locali. E in questo senso, noi pensiamo che non si debba parlare di delega agli enti locali, ma di corresponsabilità degli enti locali, di compartecipazione degli enti locali, di ampio decentramento, perché la Regione non divenga un enorme apparato burocratico. In questo senso noi abbiamo stabilito un primo apparato di 38 persone. Riteniamo che il definitivo organico dovrà rispettare questi livelli, nella convinzione che con grandi apparati si uccidono la democrazia, le autonomie locali, tutto il tessuto di base. Vogliamo costruire una rete di poteri popolari: Comuni, Amministrazioni provinciali, Amministrazioni regionali, sindacati, movimenti studenteschi, associazioni cooperativistiche, e ancora oltre. C’è un altro aspetto. Le leggi Scelba e le leggi finanziarie hanno già limitato i poteri che la Costituzione dà alle Regioni. E il “decretone” è anche uno schiaffo dato alle competenze della Regione, in una materia, quella ospedaliera, tanto più significativo, in quanto le Regioni erano appena sorte. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo batterci per leggi delega e per leggi quadro di un certo tipo. In Umbria avvertiamo l’esigenza, e anche la possibilità di fare di questa lotta per la conquista di effettivi poteri della Regione, un momento importante della lotta per avanzare sulla via italiana verso il socialismo. Un momento della grande battaglia sulla linea strategica delle riforme di struttura. Noi abbiamo parlato di “fase costituente”, di “riforma dello Stato”, di “rifondazione” (anche Bassetti nelle sue dichiarazioni programmatiche, parla di rifondazione dello Stato). Ebbene noi dobbiamo essere profondamente convinti che per operare questa trasformazione dello Stato, elemento cardine, essenziale è l’Istituto regionale. Dobbiamo essere convinti. Io dico questo con grande forza perché


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ho la sensazione che non tutto il movimento democratico e popolare sia convinto di questo fatto. Io credo che bisognerà poggiare sull’Istituto regionale, per fare delle riforme, agraria o urbanistica, come dei servizi sociali, fatti reali, momenti della vita democratica di base, sotto la direzione ed il controllo delle masse. Da qui discende anche la nostra proposta di riempire di significati concreti e reali, lo Statuto. Uno Statuto non neutro ma di parte, perciò non solo regolamentare ma programmatico. La maggioranza in Umbria, non noi soltanto, ha proposto agli altri questa scelta. Sui contenuti reali dello Statuto stiamo discutendo in Consiglio regionale, nella Commissione dello Statuto, e tra qualche giorno saremo in grado di discutere la “bozza” con gli Enti locali, con le popolazioni interessate. Dare un contenuto programmatico vuol dire trasferire, secondo noi, la parte programmatica e sociale della Costituzione a livello delle competenze regionali. Non trasferirla del tutto meccanicamente, ma cercando di interpretare anche lo spirito dei costituenti, tornando a far discutere della Costituzione, per farne un momento nuovo d’unità di tutte le forze popolari. Ad iniziare dal tema della riforma agraria, che anche in Umbria, unitamente al problema della piena occupazione, è elemento essenziale per mandare avanti le cose.

Vittorie e limiti di grandi lotte Stralci della relazione al Comitato federale che avvia la preparazione della fase congressuale in vista del XIII congresso nazionale del partito (fine 1971). Archivio personale, cartella n. fascicolo n. 1, D.Isuc.

In questi anni forte è stata l’avanzata del movimento operaio e democratico. Conquiste di democrazia diretta, lotte di massa per le riforme, leggi nuove e di riforma (Statuto dei lavoratori, collocamento, divorzio, regioni, casa, università, sanità), unità sindacale in atto, rottura dell’unità


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socialdemocratica, crisi del mondo cattolico e della Dc, processo nuovo di aggregazione della sinistra e nuova collocazione del Psi. Questi alcuni elementi di avanzata. Ed essa è avvenuta lungo la linea indicata dal XII congresso, una linea che ha consentito al partito di guidare il grande moto politico ed ideale in atto e di indicare obbiettivi realizzabili e nello stesso tempo ha impedito avventure, provocazioni, ricorrenti crisi di sfiducia. Questa avanzata ha determinato una reazione complessa. Il rapporto approfondisce questo esame descrivendo la durezza dello scontro in atto, la gravita della crisi economica, le caratteristiche della controffensiva reazionaria, i reali pericoli di svolta a destra. Una “reazione del sistema” è stato detto, che si è riproposta di fronte ad ogni avanzata e che è più minacciosa oggi. L’Italia è un paese nel quale la possibilità di andare a profonde trasformazioni è più grande che in altri paesi capitalistici, ma anche un paese dove sono sempre presenti pericoli d’involuzione. Noi abbiamo la convinzione che seppure il contrattacco reazionario sia “grave e goda di appoggi vasti” esso possa essere battuto e quindi si possa dare alla crisi uno sbocco democratico. Dall’urgenza della crisi in atto, dalla forza del movimento operaio e democratico, dalla necessità di avviarsi al socialismo discendono gli obbiettivi politici essenziali una svolta sostanziale nella politica del paese, quindi un governo che questa svolta esprima. Obbiettivi politici non propagandistici, obbiettivi di lotta e non di “supplenza” o di “inserimento” da porre per essere realizzati, pena una involuzione del paese. Si ripropone quindi con forza il problema degli obbiettivi intermedi, la questione delle riforme e della programmazione democratica, dello sviluppo della democrazia diretta e della vita degli istituti rappresentativi. Si ripropone la questione delle alleanze, il nodo centrale torna ad essere il “blocco storico” cioè la costruzione di quell’insieme di forze sociali e politiche necessarie, nelle condizioni date, per spingere avanti la situazione verso il socialismo. Qui vi è anche l’invito ad approfondire l’analisi critica del periodo che ci separa dal XII congresso. Limiti del movimento di grandi masse per le riforme, ma che si esprime forse come lotta per la con-


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quista di una legge limitata piuttosto che della riforma, che rischia di porre in secondo piano la riforma dei settori produttivi. Limiti del movimento di lotta degli anni 1969-70 che rischia di lasciare nell’ombra le zone e le categorie più povere e quindi di vedere emergere visioni settoriali ed anche corporative. Uno spazio che rischia di essere offerto al qualunquismo, alla demagogia di destra e che può determinare una incomprensione di strati medi produttivi verso le richieste operaie. Da qui l’esigenza di porre al centro, in questa fase di grave crisi economica, i problemi dell’occupazione e del Mezzogiorno, i problemi degli investimenti pubblici e della programmazione democratica. La giustezza di porre assieme al tema dell’occupazione quello delle categorie più disagiate (contadini, pensionati, sottosalariati), la riconferma dell’atteggiamento nostro rispetto al ceto medio produttivo.

Un partito mutato Stralcio della relazione al Comitato federale di Perugia dicembre 1971 – in preparazione del XIII congresso nazionale del Pci (1972).Archivio personale cartella n. 3, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Il contrattacco della destra cerca di incunearsi in quegli spazi e settori non curati o affrontati in modo sbagliato, cerca di organizzare il malcontento dei ceti medi, degli studenti e delle categorie più disagiate. Giustamente chiamiamo il partito alla vigilanza. Abbiamo lavorato per costruire non solo nei comuni, ma nelle scuole e nelle fabbriche comitati antifascisti, abbiamo dato risposte unitarie puntuali e di massa, ma centrale resta per noi la questione delle alleanze. Ed essa qui si pone per noi non solo come grande forza di opposizione, ma come forza che gestisce il potere, che deve dimostrare nei fatti di possedere una visione generale dei processi da maturare nella società umbra. Siamo agli inizi di un lavoro, dobbiamo dire che ancora il passato pesa troppo nella vita di tutto il partito, nei sindacati, negli enti locali. I momenti tattici spesso contraddicono la visione strategica o sono


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staccati da essa, ridotti ad episodi. Gli esempi sono molti: la “regione aperta” è stata realmente aperta per problemi come gli ospedali e le giunte? Ancora siamo chiusi a livello delle attuali maggioranze. È debole rispetto alla possibilità tutto il discorso con le altre forze politiche. Che ruolo giocano i ceti medi nella gestione degli enti locali? Cosa facciamo per determinare una loro effettiva partecipazione? Anche come partito si può fare molto di più. E per la piccola e media industria dobbiamo avere chiarezza, nel partito questa questione torna continuamente in discussione e spesso si risolve soltanto in chiave tattica, opportunistica. Non deve essere così. Nel programma della Regione vi è una visione strategica circa la crescita della economia, delle alleanze, delle forze da neutralizzare e di quelle da battere. Nel quadro di una azione robusta per rafforzare il momento pubblico e l’associazionismo nell’economia, uno spazio è lasciato all’industria privata, un sostegno è previsto per la piccola e media industria. Ciò non significa minimamente bloccare le lotte operaie, anzi significa dargli più forza. Dobbiamo discutere questi temi nel partito e con la classe operaia. Ci pare che la combattività sia estesa, ma con l’aggravarsi della crisi economica possono manifestarsi disorientamenti e chiusure corporative, È certo che la possibilità di estendere la presenza operaia nella lotta deriva anche dal nostro lavoro di orientamento cioè dalla chiarezza della prospettiva. E qui già siamo al discorso sul partito. Al centro del nostro lavoro resta la sezione, la sua capacità di rinnovamento e di reclutamento, la sua capacità politica. Validi restano alcuni settori su cui il contributo della federazione ed il lavoro delle sezioni deve essere massiccio: le fabbriche, le scuole, i ceti medi, le campagne. C’è oggi con la realtà rappresentata dalla Regione la questione – posta dal Comitato centrale – del ruolo di direzione politica del comitato regionale e c’è da considerare meglio il livello comprensoriale. Ma, anche ai fini della soluzione di questi problemi, fondamentali divengono i problemi dell’orientamento e dell’avanzamento dei quadri. La composizione sociale del partito è profondamente mutata. Il peso delle sezioni urbane e delle zone operaie è cresciuto. La Fgci è ricostruita e in fase di espansione. In questa situazione già il nuovo


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tende a prevalere sul vecchio. Vi è una frantumazione dei vecchi gruppi dirigenti, una fatica a ricostruire nuovi gruppi capaci di dirigere le lotta di oggi, vi è complessivamente immaturità. Questo processo di ricostruzione deve oggi prime di tutto essere risolto a livello dei gruppi dirigenti regionali e provinciali. Qui è il punto di maggiore autocritica. Vi è fatica nella elaborazione di una linea, vi è assoluta insufficienza nella diffusione della linea stessa. Il ritmo di elaborazione deve essere più intenso e bisogna passare dalla politica “orale” a quella “scritta”. Dobbiamo produrre di più e trovare i necessari strumenti. Un primo passo è l’Unità domenicale, ma c’è il problema delle pagine giornaliere (l’Unità e Paese), c’è l’esigenza di rilanciare “Cronache umbre”, di partecipare di più al dibattito nazionale. Per un giusto processo dialettico tra direzione e base occorre un più deciso lavoro per far partecipare tutto il partito ed in particolare quella notevole parte che è entrata in questi anni e che oggi ha posti di responsabilità. Ciò significa impegnarsi nei prossimi mesi anche in corsi, seminari, aggiornamenti che contribuiscano ad operare nel partito quel salto di qualità che è ancora troppo soltanto nei nostri propositi.

Aprirci con coraggio Stralcio degli appunti dell’intervento al XIV Congresso della Federazione del Pci di Perugia, gennaio 1972. Archivio personale cartella n. 3, fascicolo n. 5, D.Isuc.

La drammaticità della situazione è segno della strada percorsa, il vecchio capitalismo ha bruciato molti ponti, logorato molte esperienze. Dalla rottura delle sinistre degli anni ‘60 al sogno della grande socialdemocrazia di Nenni siamo passati all’unità sindacale, all’unità nuova tra le forze di sinistra, alla pressione all’interno dello stesso mondo cattolico (Acli, Cisl, Bonomiana). Oggi punto nodale diviene il rapporto con il Pci se si vuole lo sviluppo democratico ed ordinato del paese. È all’ordine del giorno il problema del ruolo della classe operaia e del suo partito nella direzio-


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ne del Paese. All’infuori di questa strada non ve ne sono altre perché non è possibile percorrere una strada di destra senza creare profonde lacerazioni (e dalla crisi saremmo ancora noi ad uscirne vittoriosi). C’è chi vorrebbe tornare al 1921, ma oggi sarebbe possibile comprimere le grandi forze produttive? Allora si determinò una crisi durata vent’anni e poi il disastro. Solo dopo il 1945 per la presenza del movimento operaio si è aperta quella dialettica tra le forze in campo che ha determinato uno sviluppo economico anche se distorto dal prevalere dei monopoli. Una via di destra porterebbe alla disgregazione non solo il nostro partito ma i partiti che rappresentano altre forze, come l’esperienza storica ha dimostrato. A fronte di questo sbocco avventuroso sta la solidità di una concezione come la nostra che punta alla costruzione di un blocco di forze sociali e di forze politiche, una democrazia ampia e forte. Ed è artificioso disgiungere e contrapporre i due momenti. La teoria riceve conferma dalla prassi umbra. Non soltanto qui vi è una attività per unire le forze sociali, ma essa influisce sul quadro politico. Qui la nostra forza poggia e di più deve poggiare sul movimento di lotta della classe operaia e dei contadini, sulle alleanze, sulle proposte e lotte da fare per coinvolgere tutte le forze interessate allo sviluppo della regione. Qui l’unità delle sinistre è base per aprirsi alle altre forze politiche della “regione aperta”, per imporre alle altre forze politiche una logica diversa, e questa politica crea problemi all’interno di quelle forze – diceva Nicchi – se essa è condotta con rigore e fermezza. Anche in Umbria nella Dc prevalgono vecchie visioni. La sinistra Dc accetta definizioni generali ma poi cede nel concreto a linee arretrate su punti vitali quali la mezzadria, la programmazione. C’è una grande battaglia da fare. Bisogna agire sulle forze sociali che sostengono la Dc, continuare quell’opera di liberazione di forze che è avvenuta nelle Acli, nella Cisl, nella stessa Bonomiana. C’è bisogno di una iniziativa nostra nelle campagne, tra i pensionati, i ceti medi, gli studenti e gli intellettuali. Nostro obbiettivo deve essere quello di saldare le sinistre socialiste alla maggioranza del movimento cattolico, che non ingloberemo, ma che sarà lui stesso a realizzarsi, ad esprimere le sue forme organizzative.


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In questo momento rafforzare le sinistre, mandare avanti il Pci, è la condizione indispensabile per far crescere nel seno del movimento cattolico forze, intelligenze e potenze nuove. Il partito è pronto a questa battaglia? Abbiamo vissuto profondi sconvolgimenti che hanno posto al partito problemi nuovi e drammatici, abbiamo operato un ricambio profondo della base del partito, da congresso prevalentemente contadino a congresso operaio. Ma tutto questo ha determinato squilibri, vuoti, esitazioni, timore del nuovo. Avremmo bisogno di un anno di lavoro sui problemi di linea come diceva Nicchi nella sua relazione (sezioni, seminari, corsi, quadri, donne), ma il tempo incalza e forse in un mese dobbiamo fare la strada di un anno. È possibile? Sì, se riusciamo ad avere chiaro ciò che dobbiamo fare. Se riusciamo a saldare la malizia dei vecchi compagni con il coraggio, l’entusiasmo, la cultura dei giovani. Se saldiamo stabilmente la propaganda, una propaganda attenta ed intelligente, ai temi concreti che travagliano i lavoratori, cioè se saldiamo i piccoli problemi alle battaglie di intere zone e città.

Due brevissime note Relazione alla direzione del Pci sul lavoro svolto prima e durante il congresso della Federazione comunista di Rieti tenutosi nei giorni 5 e 6 febbraio 1972. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Vi invio queste brevissime note sul Congresso della Federazione di Rieti che si è tenuto nei giorni 5 e 6 febbraio. La mozione conclusiva, che sicuramente vi è già arrivata, rispecchia con notevole esattezza l’orientamento politico del Congresso. La posizione di chiusura verso il Psi presente nei mesi scorsi in alcune zone della Sabina appare definitivamente battuta dai congressi di sezione e dal dibattito del congresso provinciale. Notevole spazio in alcuni interventi hanno avuto i temi della crisi, del referendum e delle elezioni anticipate, mentre altri interventi hanno colto scarsamente l’attualità politica. Nelle conclusioni pubbliche (pre-


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senti 150-200 persone) ho insistito sui temi attuali e sulla prospettiva delle elezioni anticipate. All’apertura dei lavori erano presenti, e sono intervenuti con argomentazioni politiche, i compagni del Psi, del Psiup e l’on. Anderlini. Elementi di crisi organizzativa erano presenti all’inizio della campagna congressuale. Essi, a mio parere, derivavano da fattori soggettivi (trasformazioni, disgregazione) e da fattori oggettivi quali i ritardi nell’adeguare l’attività politica ed organizzativa alle trasformazioni avvenute. Nel congresso è stata affermata con forza la possibilità di una azione di massa e politica più incisiva in tutto il reatino. La mozione contiene a questo proposito giudizi e proposte precise. Su di esse dovrà impegnarsi seriamente il gruppo dirigente della Federazione. Sono stati presenti 68 delegati, di cui 8 della Fgci. Gli interventi sono stati 24, di cui oltre la metà di giovani compagni e delegati della Fgci. L’età media dei delegati (41 anni) e la composizione del nuovo Comitato federale indicano i passi avanti compiuti e assieme i limiti che occorre rapidamente superare. Il Comitato federale è stato portato da 27 a 33 compagni, i nuovi sono 14. Nel Comitato federale non risultano incluse donne né compagni della «CISA Viscosa» in quanto non vi erano delegati. Sia la Commissione elettorale che la politica hanno lavorato senza contrasti. (…) Ho inviato alla Direzione del partito una brevissima nota sul congresso di Rieti, ma vorrei aggiungere ad essa qualche altra osservazione. Penso che sia necessario rovesciare la convinzione di molti compagni dirigenti ed attivisti secondo cui il reatino è una zona politicamente arretrata e debole. Vi è una notevole tradizione socialista, vi sono state vivaci lotte operaie e contadine. È vero che un ruolo negativo lo giuoca il fatto che la provincia tende a disgregarsi, ma credo che questo fattore possa essere contrastato e vinto. Nel reatino le sinistre hanno quasi il 50% dei voti e il Pci il 24%: non può essere considerato poca cosa. Nella mia permanenza a Rieti ho lavorato per convincere i compagni a non sottovalutare le capacità del movimento e loro. Ho seguito


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questa linea perché ritengo che occorra loro prima di tutto fiducia nelle loro forze, per avere il coraggio di una iniziativa politica nuova e più ricca e di misure organizzative nuove ed anche più audaci. Infine, Proietti dimostra capacità politiche (buona la relazione al congresso) ma ancora deve affermarsi come dirigente e ciò è possibile. Certo va aiutato. Occorre impedire che altri compagni anziani lo soffochino, occorre far avanzare rapidamente nel direttivo e nella segreteria forze nuove, occorre aiutarlo a trovare i mezzi per avere un apparato giovane e più consistente e più collegato alla realtà. Fraterni saluti e buon lavoro.

Guai piangere sul latte versato Stralcio dell’intervento al Comitato federale di Perugia dopo le elezioni politiche del 7 maggio 1972. Archivio personale, cartella n. 4-5, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Ritengo che la prospettiva conservi una sua validità, certo, attraverso una lotta che proprio per il risultato elettorale diviene più lunga, più seria, più drammatica e richiede più intelligenza politica, più capacità, più tensione. A me pare che sia questo il giudizio che esce dal voto. C’è poi l’esame a livello nazionale delle cose che non hanno camminato, dei ritardi del movimento. Però, anche qui (e su questo Tullio Seppilli non sono d’accordo con te, tu dai una immagine della ricerca che fanno i gruppetti come se essi avessero sempre ragione mentre noi ancora dovremmo darci una linea), io ritengo che sia anche merito della nostra linea il recupero di tanti in questo ultimo periodo, l’attrazione della nostra linea deriva dal fatto di aver mantenuto ferme certe posizioni, di non aver mai ceduto. Ci saremmo trovati in brutti guai in campagna elettorale se avessimo fatto l’occhietto a certe posizioni! E mantenere ferma la linea non vuole dire che restiamo di guardia ad essa, ma vuol dire elaborazione e su questo siamo tutti d’accordo. Credo che anche per una regione come la nostra sia utile una seria analisi sullo stato del partito. Un esame reale, obbiettivo per capire i


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limiti e per vedere come andare avanti. Alcuni elementi li avevamo già individuati e mi pare che il congresso da questo punto di vista non era un fatto trionfale, ma già profondamente critico e individuava delle linee e delle forze per superare alcune situazioni. Il dato elettorale ci può consentire un approfondimento ed una ricerca ulteriori, tenendo però conto del lavoro che dobbiamo fare subito e di quello a medio termine di cui parlava il compagno Nicchi. Guai a noi se ci mettessimo a piangere sul latte versato perdendo di vista le scadenze dei prossimi due o tre mesi. Credo anche che dobbiamo fare uno sforzo di approfondimento. Viene avanti, proprio in questi giorni, guardando il voto delle campagne, la necessità di puntualizzare la nostra strategia, perché le nostre iniziative rischiano di non essere adeguate rispetto a quello che sta avvenendo e allora gli altri allargano la loro base mentre la nostra si restringe. Le forze che vengono via dalle campagne sono le nostre e il tessuto sociale che resta si disgrega… In questo esame però riguardiamo le linee di fondo, dove vogliamo andare e negli altri le cose da colpire ma anche quelle che tendono all’unità. Tendenzialmente verso i compagni socialisti emerge più il dato negativo che gli elementi positivi. Mentre invece essi costituiscono una forza politica con la quale dobbiamo fare i conti, e perciò occorre vedere tutti i lati positivi. Anche con la Dc abbiamo cose da riguardare, comunque questo è un esame che può procedere con calma e deve procedere per tappe se vuol dare risultati seri. Per quello che riguarda il nostro partito ci sono problemi, ma la nostra più urgente questione è quella di come far crescere questo quadro giovane che è arrivato al partito, come riuscire a maturarlo rapidamente e a dargli una preparazione ideologica: un manuale non basta più. Importante è dunque l’attenzione che noi diamo ai giovani nei prossimi mesi. Inoltre, dopo l’avvenuta elezione dei comitati federali c’è il problema di rivedere il comitato regionale, le sue funzioni, i suoi rapporti con la direzione del partito. Io non sono d’accordo con Ilvano Rasimelli, perché uno scambio dialettico tra noi e la direzione c’è stato, il fatto è che la dialettica non consente all’Umbria di vincere.


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Sulla Ibp (Industrie Buitoni Perugina) l’elemento ritardo c’è stato anche perché avevamo preso i compagni toscani per un certo tipo di interlocutori. Sulle questioni di Città di Castello bisogna dire che lì c’è stato qualcosa di più della dialettica. Insomma l’elemento di fondo non è la dialettica ma lo scambio delle informazioni tra noi e la direzione ed anche una partecipazione diversa della direzione ai fatti umbri, ma di queste cose ne abbiamo parlato altre volte.

Non ci sono tetti Intervista rilasciata a “Cronache Umbre”, 31 marzo 1973. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 5, anno 1973, D.Isuc.

Cronache Umbre: La Dc nei suoi propositi di rivincita in Umbria sembra dare per scontato che il Pci abbia raggiunto la sua massima estensione, il suo «tetto elettorale» e che ben poco gli verrà dalla confluenza del Psiup, tu che ne pensi? Gambuli: In politica non ci sono né muri, né tetti. Le elezioni sono un punto di riferimento importante ma guai pensare siano l’unico metro di giudizio. Il Pci in Umbria nel 1963 è passato dal 30 al 39% e nel 1968 dal 39 al 42%, poi s’è stabilizzato su questi valori. Ma in 10 anni la società umbra è cambiata nel profondo. Un solo dato: tra il 1961 e il 1970 i mezzadri sono scesi da 153.887 a 42.971 e se noi consideriamo che avevamo lì la nostra più grande forza politica non è cosa di poco conto essere andati avanti di tre punti nel ‘68 e aver poi consolidato le posizioni. Credi che saremmo così forti oggi se non avessimo compreso i cambiamenti in atto e aderito alle realtà in movimento? Se non avessimo saputo saldare vecchio e nuovo, mondo contadino e nuovo urbanesimo? C.U.: Dal 1970 il Pci dirige, assieme ai socialisti, la Regione e gli Enti locali. I suoi compiti si sono estesi enormemente. Cosa ha provocato questo fatto nel Partito? G.: Il Pci non è un novizio. In Umbria dal 1946 in poi ha diretto,


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assieme ai compagni socialisti, importanti settori della vita pubblica. Unica parentesi è quella di Perugia e di altri centri tra il 1964 e il 1970, ed essa s’è chiusa con un clamoroso fallimento della Dc e con un rapporto nuovo di collaborazione più ampia e costruttiva col Psi. Certo dal 1970 dirigere gli enti locali è cosa diversa. Con la Regione tutta l’azione dei comuni, delle province, delle stesse forze politiche nel loro complesso, si è spostata in avanti. Avevamo previsto questo? Voglio ricordare due elementi importanti per una risposta: le nostre liste nel 1970 sono state ampiamente rinnovate con una forte presenza di giovani operai e intellettuali. La nostra campagna elettorale s’è incentrata sul tema della «regione aperta» come idea di partecipazione di tutte le forze sociali ed economiche e di un nuovo rapporto tra le forze politiche. C.U.: Sì, ma intanto è venuta avanti la grave crisi dell’economia nazionale che dura tuttora e con essa la Dc ha imposto la svolta a destra. In queste condizioni si sono avuti risultati di qualche rilievo? G.: Certo non sono stati in Umbria anni facili. La crisi ha attaccato l’economia umbra in settori vitali e in diverse zone. Andreotti ha operato per mettere la Regione in frigorifero. In queste condizioni nella Dc umbra è divenuta sempre più difficile la vita di coloro che di fronte alle proposte della maggioranza di sinistra di una «regione aperta», avevano all’inizio risposto con una linea che si riassumeva nello slogan del «confronto costruttivo». Di contro, ben diverso è stato l’apporto dell’Umbria vera. Il movimento popolare, le organizzazioni sindacali, le associazioni democratiche hanno operato intensamente. Il 1971 e il 1972 sono anni di lotte contrattuali e nello stesso tempo di lotte per il rinnovamento dell’agricoltura, della scuola, per lo sviluppo industriale, per la crescita economica e sociale dell’intera società umbra. Su queste basi s’è poggiata la Regione esprimendo un nuovo potere di contrattazione rispetto al governo, alle grandi industrie, riuscendo a impegnare forze economiche e sociali, unendo in un grande sforzo collettivo il complesso della società umbra. Oggi sentiamo vivace l’iniziativa economica privata e pubblica; s’estende finalmente la


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cooperazione; nascono i consigli di quartiere e s’avvia una gestione nuova dei servizi sociali. Proprio per questo con più urgenza si pone il problema di un quadro nazionale, positivo, che cambi il meccanismo di sviluppo e avvii una politica di piena occupazione e di riforme. C.U.: È mutata la società, il partito ha assicurato una nuova presenza negli enti locali. Ma il Partito ha subito colpi nelle sue strutture? G.: Due dati. Primo, il tesseramento al partito ed alla Fgci è stato nel 1972 un successo e per il ‘73 si profila una nuova avanzata. Un contributo è venuto e viene dalla confluenza del Psiup che ha portato 2238 iscritti e soprattutto esperienze di grande valore. In secondo luogo, i congressi di sezione tenuti in questi due mesi, hanno avuto una riuscita piena, mostrando un volto ampiamente rinnovato del partito e una forte aderenza alla realtà regionale in movimento. C.U.: Allora si può essere tranquilli per le prospettive? G.: Tutt’altro. Viviamo un profondo processo di adeguamento e rinnovamento del partito in Umbria. Esso è andato avanti, ma è lontano dall’essere concluso. Del resto il Partito è fatto di lavoratori, di gente semplice, non è quella macchina perfetta e tenebrosa di cui ama parlare la stampa conservatrice. Se la società cambia, devono cambiare prospettive di lavoro e metodi di direzione e ciò non avviene mai senza scompensi, contraddizioni ed anche contrasti, senza dibattiti e scelte. E d’altra parte una cosa è predicare idee un’altra mettere loro le gambe, realizzarle, soprattutto in un momento economico e politico duro come l’attuale. Un movimento di lotta e di costruzione, abbiamo detto e ciò significa una costante verifica dell’iniziativa e del lavoro del partito, di tutti i comunisti impegnati ai vari livelli della società regionale. Siamo oltre la metà della legislatura. La Giunta regionale ha varato il «progetto di piano regionale triennale»; sono proposte che hanno il loro fondamento nella vita e nella lotta del popolo umbro e danno obiettivi di lotta per imporre nuove scelte al governo e di costruzione basata sullo sforzo di tutte le energie regio-


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nali. È un nuovo passo avanti, un banco di prova per le forze politiche, per i sindacati, per le associazioni, per tutta la società umbra. C.U.: Cioè occorre che il Partito faccia di più e meglio vuoi dire, ma come? G. deve spingere avanti la propria elaborazione politica, precisare la sua politica di unità delle forze sociali, la sua linea di alleanze e di confronto con le forze politiche. Dobbiamo contribuire alla sconfitta di questo governo, al sorgere di nuovi orientamenti. Dobbiamo maturare nella realtà regionale quel «blocco storico» che è stato al centro del dibattito del 13° Congresso. Ciò richiede un partito più numeroso, più forte, più capace. Attorno a questi temi abbiamo discusso nei Congressi di sezione, di questo nei giorni 6 e 7 aprile discuterà la Conferenza regionale del Partito. In molti congressi sezionali, per esempio, si è rilevata l’insufficienza della iniziativa per rafforzare la democrazia e contro le insorgenze fasciste, e la esigenza di un impegno ben più vasto nei confronti della scuola e dei giovani in generale. Perciò non sarà una conferenza formale o celebrativa, ma fortemente impegnata e necessariamente critica, come si conviene ad un Partito che vuole rinnovare l’Umbria e l’Italia, che non ha «tetti elettorali» da superare ma una strategia unitaria e una tensione ideale da offrire al Paese.


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Nell’Archivio 1963-1973 Cartella n. 3 Fascicoli dal Primo al Sesto

Cartellone n. 4-5 Fascicoli Primo e Secondo

Cartella n. 3 Primo fascicolo - appunti comizio per Marcia della Pace Perugia-Assisi (1967) - comizio, appunti su crisi comunale (1967) - appunti per articolo elezioni amministrative a Gubbio (ottobre 1967) - dattiloscritto su Marcia della Pace del 28 maggio 1967 - appunti su intervento sovietico in Cecoslovacchia (1968) - appunti comizio a Gubbio dopo vittoria in amministrative (1968) - appunti per il comizio, verso elezioni 1968 - intervento, riunione impostazione campagna elettorale 1968 - appunti presentazione Ingrao comizio elettorale 1968 (piazza 4 novembre a Perugia) - articolo su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” (anno IX, n. 1, Città di Castello, 1 marzo 1964) titolo “Per una nuova unità della sinistra” Secondo fascicolo - appunti comizio dopo i fatti di Battipaglia (1969) - appunti relazione al Comitato Federale di Perugia dopo XII Congresso nazionale del Pci (1969): la nostra attività - appunti riunione dopo il XII Congresso nazionale (1969) - intervento al XII Congresso del Pci (Bologna 1969) - relazione al Comitato federale di Perugia circa la preparazione del XIII Congresso nazionale del Pci e il relativo congresso provinciale (1971) - relazione in preparazione della conferenza nazionale delle donne comuniste (circa 1962) - relazione al Comitato regionale del Pci in vista delle elezioni regionale del 1970 (febbraio 1970) Terzo fascicolo - appunti relazione al Comitato regionale proposte nuovo organigramma - appunti riflessioni su “bozza piano sviluppo regionale” (1963) - breve apertura (appunto) al Convegno “Regioni rosse”, Sala dei Notari - riflessioni su “Perugina” (1964-65?) - intervento dibattito dopo elezioni e governo di Città di Castello con il Psi - saluto al 1° Congresso provinciale del Psiup (18/12/1965)


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- commemorazione davanti alla salma di Angelucci (1965) - verso il congresso nazionale: relazione mia al Comitato direttivo della Federazione Pci di Perugia (settembre 1965) - pieghevole: inizio lavori sede Moiano (presente Togliatti 1965) Quarto fascicolo - appunti comizio festa primo maggio (1 maggio 1963) - appunti comizio elezioni politiche 28 aprile 1963 - comizio dopo primo governo di centrosinistra con Psi (marzo 1964) - appunti comizio dopo elezioni 1964, ingresso centrosinistra nei grandi comuni umbri - appunti comizio elezioni a Trevi: uccisione Kennedy (1963) - appunti relazione dopo assemblea comunisti Italia centrale (fine 1963) - presentazione di Longo a inaugurazione Casa del Popolo di Moiano (problemi, lotte agrarie ecc.) estate 1965 - appunti comizio: verso elezioni amministrative 1964 - appunti presentazione comizio Luciano Barca (Perugia, estate 1964) - appunti riunione partito (attacchi al “riformismo” della Federazione) (1967?) Quinto fascicolo - appunti comizio manifestazione contro attacco fascista (Città di Castello 1 febbraio 1970) - presentazione di Ingrao per apertura campagna elettorale amministrative 1970 a Perugia - appunti relazione al Comitato Regionale del Pci su problema linea Pci: presente Cossutta (28/11/1970). Miei appunti sommari su intervento Cossutta. - Appunti intervento al Comitato centrale Pci su lotte e difficoltà organizzative del Pci in Umbria (fine 1970) - Verbale cooptazione compagni ex Psiup nel Comitato regionale del Pci (18/9/1972) - Verbale intervento su problemi della scuola (manca relazione Rossi) (18/9/1972) - Appunti intervento congresso nazionale Psiup che decide ingresso in Pci (1972 - Intervento al XIV Congresso perugino Pci (gennaio 1972) “temi politici e org. Pci) - Relazione al Comitato Federale Pci di Perugia (inizio 1972) su linea politica e lotte - Verbale stringato riunione segreteria regionale Pci mia introduzione (31 ottobre 1972) - Appunti conclusioni (interne e poi pubbliche) al Congresso provinciale Federazione Pci di Rieti (gennaio 1972) Sesto fascicolo - Lettera a Ingrao su divieti polizieschi (15 giugno 1965) - Lettera di dimissioni dopo Comitato Federale (dicembre 1966) - Lettera a Natta su Tesseramento 1968 - Corrispondenza con Direzione Pci su mio stipendio (1968) - Manoscritto mie dimissioni da segretario regionale (fermate in segreteria) novembre 1972


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Cartellone n. 4-5 Primo fascicolo - appunti assemblea di solidarietà Cile dopo uccisione Allende (1973 ottobre) - intervento ad assemblea studenti, sindacati, Enti locali (1972) - relazione sul tema “Bilancio a legislatura”: strumento di costruzione e di lotta (fine 1972 o inizio 1973) - relazione al Comitato regionale del Pci su necessità che nuovo Comitato regionale divenga istanza di partito - relazione al Comitato regionale del Pci su azione di governo e sviluppo lotte (febbraio 1972 - Lotte e governo regionale (stralci) Secondo fascicolo - Intervento a Palermo. Pci e regioni del Sud (1971) - Lettere alla direzione Pci su Congresso Rieti - Relazione su “progetto programma regionale” (aprile 1971) - Quaderno appunti degli interventi al Congresso Pci di Rieti - Verbale riunione Comitato federale di Perugia su tesi per XI Congresso nazionale del Pci, convocazione del congresso provinciale (mia relazione e conclusioni) 15 novembre 1965 - Copia da “l’Unità” intervento alla V Conferenza di organizzazione del Pci (14 marzo 1964) - Relazione al Comitato Federale del Pci di Perugia su campagna elettorale amministrativa (5 settembre 1964) - Relazione al Comitato federale del Pci di Perugia: dibattito su documento del Comitato centrale (verso partito unico) (28 maggio 1965) - Relazione al Comitato federale del Pci: problemi relativi alla attività concreta (25 settembre 1965) - Copia da “l’Unità” articolo su difficoltà formazione giunta comunale a Spoleto (13 dicembre 1966) - Rapporto introduttivo al XII Congresso Pci di Perugia (14/16 gennaio 1966) - Relazione al Comitato federale del Pci di Perugia: giudizio su XI Congresso Pci (5 febbraio 1966) - Relazione al Comitato federale di Perugia 3 novembre 1967 (Conti alla Cgil) - Relazione al Comitato federale del Pci di Perugia: il partito dopo le elezioni di Spoleto (5 dicembre 1966) - Relazione al Comitato Federale del Pci di Perugia: il nostro piano di attività (28 gennaio 1967) - Relazione all’assemblea provinciale dei segretari di sezione: verso le elezioni politiche, possibilità nuovo balzo in avanti (Foligno, 18 febbraio 1968) - Rapporto introduttivo al XIII Congresso provinciale del Pci perugino (10/12 gennaio 1969) - Stralcio della relazione alla 1ª Conferenza regionale dei comunisti umbri, come segretario regionale (Perugia, 12 luglio 1969) fotocopia da “Cronache Umbre” del


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settembre 1969 - Fotocopia articolo da “Cronache Umbre” su possibilità liquidazione giunta di centrosinistra e processo di nuova unità delle sinistre (gennaio 1970) - Relazione al Comitato federale del Pci di Perugia su: problemi di linea del Pci (29 novembre 1970) (2 copie). Presente per la direzione Cossutta. - Intervento alla riunione del Comitato federale del 29 novembre 1970 (intervento di Cossutta) - Appunti intervento riunione Pci dopo elezioni 1970 - Appunti relazione Pci dopo elezioni 1970 - Appunti attivo a Terni: ripresa attività dopo elezioni (4 settembre 1970) - Appunti comizio su situazione generale (1971) - Verbale riunione Comitato Federale di Perugia dopo le elezioni politiche 1972 (7 maggio 1972). - Elenco candidati Pci al Consiglio regionale (elezioni regionali 1970)


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Decollo di una città Malvetani tutto ferro Convegno a Norcia sull’informazione Per una informazione democratica La moralità... Verso le elezioni: 1976 L’amaro 18 aprile Presidente! Moro perché? Uccisione di tre missini Le maschere I nuovi acrobati Dibattito con i cattolici Un partito aperto al dibattito Il nuovo ospedale entra in attività prima di dicembre E i giovani? Francesco Pierucci, ad un anno dalla sua scomparsa Le confidenze di un gran rifiuto Giunte con la Dc La svolta del Pci L’ottimismo della razionalità

Nell’Archivio 1973-2005


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Decollo di una città Articolo pubblicato in “Cronache Umbre” 16 ottobre 1973. Archivio personale, busta n. 8, fascicolo n. 5, D.Isuc.

A Gubbio, finalmente, si avvertono segni nuovi di vita, una fase diversa si sta aprendo nell’economia della città. Qui, dov’era la vecchia stazione ferroviaria, sorgono due fabbriche dell’abbigliamento che occupano oltre 200 operai; tra Semonte e Gubbio sono sorte la Ceramica ICE, altre piccole attività artigianali e sorgerà anche il calzaturificio VAINER; a San Marco sono in via di ultimazione i capannoni dell’EDILCEMENTI che dagli attuali 50 operai andrà ad occuparne quasi 200. E ancora: nuove abitazioni, qualche emigrante che ritorna, gruppi di contadini che si associano a Torre Calzolari ed a Nerbisci; il vecchio centro storico con più botteghe e negozi aperti, con sopra le spalle il Monte Ingino dove le Amministrazioni comunale e provinciale attrezzano sempre meglio la meravigliosa pineta che si estende sino a Sigillo per il tempo libero ed il turismo di massa. Segni nuovi dunque, ma tali da potersi ritenere come una fase nuova, di decollo dell’economia eugubina? Ricordo come ieri il dopoguerra. La chiusura delle miniere, lo sciopero a rovescio di migliaia di disoccupati che, malgrado la furia bastonatrice di Scelba, diede da vivere nel duro inverno del 1950 a tante famiglie ed invertì il processo di isolamento di una città che priva di buone strade s’era vista persino liquidare la piccola ferrovia a scartamento ridotto che la univa da un lato ad Arezzo e dall’altro alla linea Ancona-Roma. Ricordo le denuncie e gli arresti che seguirono per più anni le grandi battaglie mezzadrili, la inevitabile fuga dalla terra, questa grande emigrazione che alla fine degli anni ‘50 colpì l’ultima ragione di vita del centro storico: una economia ormai solo al servizio di un immenso interland agricolo. Fu l’agonia, il fondo cupo del pozzo e, cosa da non dimenticare, il prodotto di una politica democristiana che ancora oggi continua a colpire qui e nel Sud d’Italia. È in quegli anni e in quella situazione che l’Amministrazione comunale di sini-


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stra, anche per le ripercussioni della formula nazionale di centro sinistra, entra in crisi. Emigrate le forze più vive della zona, nel buio della prospettiva sembrò possibile alla Dc rovesciare le sue responsabilità sui comunisti che guidavano l’Amministrazione comunale. Le dimissioni di un consigliere comunista, nel 1965, furono pretesto per la rottura dell’unità a sinistra e diedero il Comune al Commissario prefettizio. Tutto sembrava pronto per aprire le porte del Comune alla Democrazia cristiana. Ma non fu così. Anche se l’attacco della Dc fu durissimo e fortemente fazioso pochi mesi di gestione commissariale prima e l’incerto esito della prova elettorale del 1967 poi servirono a fare di nuovo chiarezza. Nelle nuove elezioni del novembre 1968 questi furono i risultati: su 40 consiglieri, il Pci ne ebbe 19 e 2 il Psiup; al Partito socialista ne andarono solo 5 e alla Dc 14. Il sogno Dc era infranto, un giovane Sindaco comunista prendeva la guida di una giunta Pci-Psiup nella quale, sotto l’incalzare anche di nuovi grandi eventi nel paese, nel 1971 tornarono di nuovo i socialisti. Da allora cinque anni sono trascorsi e non invano per i chiari sintomi di ripresa economica e per un giudizio complessivamente positivo della opinione pubblica sull’operato della Amministrazione comunale e delle sinistre in particolare.

Malvetani tutto di ferro “Cronache Umbre” 31 ottobre 1973. Con il titolo “Mig” la rubrica di cui riportiamo un articolo uscì per 12 volte tra 1973-1974 e poi alcune volte nel 1974-75 con il titolo “La posta di Mig”. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 5, D.Isuc.

Furono in molti a rallegrarsi perché un umbro finalmente era eletto presidente della «Terni». Noi non fummo tra quelli e avevamo ragione. Agli operai di alcuni reparti che sfibrati dal durissimo lavoro scioperavano per ottenere il rispetto degli organici, Malvetani ha risposto mettendo in cassa integrazione altri reparti: a tanto la «Terni» non era giunta neppure nelle fasi più tese delle lotte contrattuali. E allora?


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Essendo alla «Terni» stramaturo il problema degli organici, il Malvetani democristiano pluripresidente di ferro dovrà divenire malleabile alle Acciaierie dove gli operai stanno intensificando la loro giusta lotta con la solidarietà della popolazione, anche se qualche alto funzionario alla Terni continua a gettare le gravi responsabilità dei ritardi della «Terni» nientedimeno che sugli operai per il loro assenteismo. Ora a noi, quasi per caso, è capitata tra le mani una pubblicazione della Camera di Commercio umbra intitolata «Indagine congiunturale nel settore dell’industria manifatturiera della Regione – risultati del secondo trimestre 1973». Cercando tra mille tabelle e dati abbiamo trovato la dimostrazione scientifica della nostra ferma convinzione secondo cui l’assenteismo è una balla che come soffice coperta copre precise responsabilità dei dirigenti della Terni come di tanti governi diretti dalla Dc. Dati alla mano, dal 1° Marzo al 31 Giugno, in Umbria, ogni operaio mediamente ha lavorato 38 ore e mezzo alla settimana. Da ciò è facile concludere – ove si abbiano presenti i normali accidenti quali malattie, infortuni, natività, ferie, ecc. – che gli operai lavorano e sodo, anzi purtroppo fanno lo straordinario. Per la «Terni» va ancora meglio, poiché là la media è stata di 40 ore. Se qui ogni commento è superfluo, uno invece ne merita un eminente dirigente Dc che venerdì 19 ottobre ha accusato i comunisti di essersi pavoneggiati per certe cosette di Gubbio e sabato 20 a Città di Castello proprio lui Baldelli ha fatto la ruota, rivendicando alla Dc il merito d’aver assicurato ai commercianti l’assistenza farmaceutica. Un momento, egregio consigliere regionale Dc pluripresidente, facciamo assieme i conti daccapo. Erano i governi diretti dalla Dc che dovevano dare l’assistenza ai commercianti, agli artigiani e ai coltivatori diretti. Data l’inadempienza dei governi, Regione – Provincia – Comuni hanno deciso di fare supplenza, sacrificando parte delle loro magre risorse. Questo in Umbria hanno fatto le sinistre essendo Governo e Maggioranza e che poi a fare la legge regionale abbia contribuito anche la Dc è un altro paio di maniche. Vede, esimio professor Baldelli, i comunisti, che a Roma sono minoranza, volevano partecipare a far la legge sull’assistenza farmaceutica, ma non hanno potuto


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perché la Dc quella legge non l’ha mai fatta. E allora nessun merito alla Dc Umbra? Si, uno: quello di essere minoranza, risultando questo fatto cosa decisiva per consentire alle Sinistre di risolvere problemi annosi. Ma se questo è risolto altri ben più gravi si profilano all’orizzonte dell’economia Umbra. Si guardi questa storia della mancanza di energia elettrica. Sì, parliamo di queste sospensioni d’energia che se ci lasciano al buio o imprigionati negli ascensori e che producono danno grave alle nostre industrie dissestandone tutta l’organizzazione. Sono andati industriali e Autorità regionali dal Ministro Dc De Mita e questi cosa ha saputo dir loro dell’energia e di altre cosette come il credito? Poco, pochissimo, quasi niente. E intanto quello che sotto la perpetua direzione della «Terni» prima e dell’Enel poi hanno combinato in Umbria sta dando i suoi amari frutti. Produciamo energia idro e termoelettrica a IOSA ma rimaniamo al buio perché Lor Signori hanno sempre operato a rapina privando l’Umbria persino di cabine elettriche e di fili capaci di soddisfare le sue scarse esigenze industriali. E intanto l’Enel che non ha mai avuto le previste Conferenze Regionali ha fatto i salti mortali per ingoiare le ultime municipalizzate. Tornano al pettine i nodi Enel, Terni e Agricoltura. Nel momento in cui l’unità di tutti e la iniziativa e la lotta delle masse sono urgenti e necessarie la Dc non deve ritrarsi come ha fatto in occasione dello sciopero di Gubbio, indetto dai sindacati per lo sviluppo della Città.

Convegno a Norcia sull’informazione Stralcio intervista a “Paese Sera” per il convegno regionale sull’informazione tenuto a Norcia in data 15/16 marzo 1974. Archivio personale, cartella n. 13, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Paese Sera: Informazione non vuol dire solo «stampa»: diversi e articolati sono i processi e i momenti di controlli di egemonia in questo settore. Perché dunque un convegno regionale sull’informazione e qual è attualmente la situazione umbra in questo settore?


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Gambuli: Va innanzitutto precisato che è questo un impegno che deriva dall’articolo 1 dello statuto regionale e dalle indicazioni del piano regionale di sviluppo. La Giunta regionale ha voluto aprire un discorso su questo che è tema attuale, che ha non solo un valore regionale ma nazionale. Non dimentichiamo che scade ora la proroga della convenzione tra governo e Rai-Tv e che sono diverse le associazioni e le categorie non solo professionali interessate ad una riforma della stampa, della pubblicità, della editoria. In Umbria c’è da sottolineare un dato importante. la nostra regione ha subito negli ultimi cinquanta anni un grosso fenomeno di marginalizzazione in questo campo. Nel periodo dell’unità d’Italia, in Umbria v’era un gran numero di giornali di ispirazione liberale, e, successivamente, anche socialista e cattolica. Non fu solo il fascismo a stendere una coltre di silenzio su queste che erano importanti momenti di comunicazione e di partecipazione politica: il dato storico importante è il processo di concentrazione economica e di formazione di grandi gruppi monopolistici. Un processo nato durante il fascismo e che è continuato anche nel dopoguerra. Un processo che ha visto ai margini non solo le forze popolari, ma anche le forze borghesi della nostra regione. Il convegno, quindi, vuol riproporre un tema: così come, analogamente, è stato fatto per altri temi di importanza regionale, come lo sviluppo economico, la crisi energetica, i problemi dei servizi sociali. E nello stesso tempo è un impegno preciso della regione, in direzione di un profondo mutamento dell’apparato statale nel settore della informazione. Oggi l’Umbria non ha un quotidiano: la stampa regionale è scarsa e vive di vita riflessa. Non solo, ma quello che è negativo, filtrata, attraverso le grandi testate, dai gruppi centrali che monopolizzano il settore dell’informazione. Come ad esempio, per la Rai-Tv: non solo sono alcune forze politiche ad essere escluse da questo servizio, ma tutta la comunità regionale è tagliata fuori. Questo determina un’ignoranza dei meccanismi che presiedono al processo informativo, una impreparazione dei quadri, un ulteriore processo di arretramento dell’Umbria.


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Per una informazione democratica Intervista a “Città Perugia”, agosto 1974. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 4, D.Isuc.

Qualche mese fa è stato approvato lo Statuto relativo alla costituzione, mediante associazione tra Enti pubblici, del Cicom (Centro Informazione e Comunicazioni di Massa). I soci fondatori sono il Comune e la Provincia di Perugia. Sull’importanza di questo centro – che ha lo scopo di perseguire il potenziamento, la diffusione e la democratizzazione dell’informazione, nonché la maturazione di una coscienza delle comunicazioni quale fonte di crescita civile, sociale e culturale – abbiamo interpellato il Consigliere Regionale del Pci Settimio Gambuli al quale abbiamo posto le seguenti domande. Città Perugia: Perché la costituzione da parte del Comune di Perugia e dell’Amministrazione Provinciale di un organismo come il CICOM? Gambuli: Attraverso questa forma associativa credo che i due Enti abbiano inteso avviare in Umbria un nuovo servizio nel campo dell’informazione, sul quale oggi si concentra l’attenzione del Parlamento, delle forze politiche, dei potentati economici pubblici e privati. Città Perugia: Nel concreto cosa pensi debba proporsi il Cicom? Gambuli: Alcune sue volontà sono precisate nello Statuto. Starà ai suoi organismi recentemente eletti predisporre su quella base propri piani di attività. A me pare che intanto si può subito puntare sull’uso delle video-tape e di altri audiovisivi. Infatti nell’uso di queste piccole e maneggevolissime macchine da ripresa televisiva, il Comune di Perugia ha già avviato una interessante esperienza sia promuovendo un corso per operatori culturali, che aveva come parte centrale i problemi dell’informazione e della utilizzazione dei videotape, sia, terminato il corso, utilizzando il materiale attorno ad alcuni problemi ed iniziative del Comune, della Regione, dell’Ospedale, e di altri.


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Città Perugia: Ma attraverso questo Ente, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla Tv, il Cicom può pensare ad una TvPerugia sul tipo di Tv-Biella? Gambuli: La possibilità di darsi una struttura del genere ed anche molto migliore in teoria esiste, ma io credo che oggi la battaglia per la Tv debba essere un’altra e di ben altro valore. La sentenza della Corte Costituzionale non ha inteso liberalizzare la Tv bensì ha affermato l’esigenza che il Parlamento provveda a varare una legge per la Tv, realmente democratica così come la nostra Costituzione esige. Sino ad oggi la Tv di fatto è stata uno strumento della volontà del Governo, e meglio ancora della Dc che da trent’anni ormai ha avuto la maggioranza nei governi. Ebbene la sentenza della Corte quando sostiene un uso democratico della Tv intende affermare una gestione parlamentare che consenta un ingresso reale in Tv alle varie correnti di pensiero, alle diverse forze politiche, sociali, economiche che costituiscono questo robusto e multiforme tessuto della democrazia italiana. Qualcuno parta di liberalizzazione, ma essa sarebbe soltanto un grande salto indietro e poi, se far passare la Tv dalle mani del Governo a quelle del Parlamento non è facile, quanto sarebbe ancora più difficile ripigliare le reti ai privati. Proprio per il vuoto che la sentenza ha creato urge questa nuova legge sulla Tv. Città Perugia: Ma si afferma che una Tv liberalizzata sarebbe più ricca e competitiva. Gambuli: Chiacchiere. Certo all’inizio ci sarebbe un fiorire di Tv cittadine, regionali, persino rionali, ma poi? Una centrale televisiva costa milioni, e i cavi, e la realizzazione di programmi? Si tratta di grandi cifre e ciò faciliterebbe i potenti, nel giro di qualche anno le piccole antenne sarebbero liquidate resterebbero poche linee nelle mani della Fiat o della Montedison. Del resto, non è successo così con i giornali? Non assistiamo ad un nuovo processo di concentrazione delle testate?


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La moralità… Intervento al Consiglio regionale del 30 settembre 1976. Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 3, D.Isuc.

Ho chiesto al mio gruppo di intervenire e lo ringrazio per avermene dato la possibilità. Non so se dirò tutte cose che coincidono con quelle che oggi dice il mio partito, ma è necessario che alcune cose siano dette. A seguito della lettera dei tre sindacalisti abbiamo avuto un grande chiasso nella stampa e per la prima volta si è scomodata anche una radio nazionale che non si era mai scomodata per problemi più gravi dell’Umbria. Io ritengo, comunque, che queste cose possono servire a tutti noi e possono anche aiutare a far crescere il dibattito politico in Umbria ed è questo che mi preme. Da questo punto di vista, voglio essere leale con chi ancora si ritiene nostro avversario; voglio essere leale con la Dc, in particolar modo con il suo Comitato regionale per il documento che ha emesso e che mi trova sostanzialmente d’accordo; con l’amico Arcamone che ha ragione quando ricorda che già da tempo diceva alcune cose; non sono d’accordo con le valutazioni che reputo politiche ma gli do atto di essere conseguente; voglio essere leale anche con chi ha fatto il mestiere di giornalista e lo ha fatto con rigore, anche se ha ritenuto di attaccare posizioni che ha pensato fossero quelle dei comunisti. C’è però un limite a tutto e dobbiamo dire che questa cosa è stata ingigantita; anzi, dal dibattito intorno al documento Fiorelli si è cercato di dimostrare che i comunisti sono una certa cosa, di farli su misura e di infilzarli; l’importante era che i comunisti stessero buoni e non reagissero. Siamo disponibili a prenderci tutte le nostre responsabilità ma non a veder travisato il nostro pensiero. C’è stata forse anche una nostra ingenuità nel pensare che presentando con onestà il nostro pensiero, fossimo capiti bene. Non è stato invece così, è stato detto che noi non volevamo esaminare questo problema e questa è una grossa bugia, perché è dal 1975 che gridiamo queste cose rispetto a noi e rispetto agli altri.


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Noi non abbiamo assolutamente niente da nascondere; quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto alla luce del sole e oggi si pensa di aprire una porta in questa specie di buca. Noi vogliamo, invece, fare la casa di vetro alla Regione e in tutti gli Enti locali. Ancora oggi si continua ad assumere in alcuni Enti pubblici, si assume alla Rai e da altre parti, ma di questo non se ne parla. Non serve tentare di isolare il partito comunista in questa vicenda; abbiano ognuno le nostre responsabilità ed allora misuriamoci con le cose reali. Questo discorso vale per le maggioranze di sinistra che ormai governano la nostra regione da trenta anni, salvo qualche interruzione che non ha portato fortuna a chi l’ha voluta e non la porterebbe a chi magari tentasse nuove strade per interrompere questa volontà unitaria delle sinistre in Umbria. Basterebbe la denuncia di una volontà di questo tipo per far perdere quota a coloro che oggi pensano che per questa via si possa ridurre il potenziale del partito comunista. Guardavo in questi anni la storia del nostro partito, la crescita dei voti e pensavo quanta fatica, quanti sacrifici c’erano dietro; dal 27% del 1946 al 47% del 1975-‘76; anche nel 1975 quante cose amare sono state dette! Non basta insultare per far credere alla gente che qualcuno possa non essere onesto. Io personalmente ho dovuto denunciare “Il Popolo” per avere scritto che io avrei costruito casa in un periodo in cui facevo parte di quell’amministrazione: era falso. Come me, si sono trovati nella medesima situazione altri compagni e questi che accusavano avevano magari una seconda o una terza casa e quelli che erano accusati per venti anni magari avevano fatto domanda per fare cooperative e non le avevano avute perché erano comunisti e si discriminavano i comunisti. Qualche volta bisogna dire anche queste cose personali. Collega Modena, anche lei è intervenuto; tante volte io l’ho visto parlare con Conti ed ho sentito anzi che, al di là della lotta politica, c’era una stima che andava alla persona. Aveva il dovere di dire qualche cosa di Conti e forse anche altri colleghi avevano il dovere di dire qualcosa su un uomo che a rischio della propria vita dirigeva una pubblica amministrazione, non guadagnandoci sicuramente, perché il partito paga i suoi uomini come operai metallurgici.


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Quando quest’uomo viene descritto come viene descritto da “Il Borghese”, siamo oltre i limiti della democrazia: siamo all’infamia, alla menzogna, alla calunnia. Non è più politica questa, è schifo. Possiamo capire che ci sono uomini che sbagliano, possono essere anche comunisti qualche volta, possiamo anche colpirli ed i nostri uomini li colpiamo severamente quando sbagliano, ma non arriverebbero ai casi Lockheed rimanendo ministri. Sappiamo che non tutto mai è pulito, importante è che le regole generali prevalgano e nella democrazia è sempre possibile farle prevalere. Il lavoro che noi oggi facciamo in Italia è proprio quello di far ritrovare a tutte le forze politiche le regole della democrazia, della pulizia, dell’onestà. Sui fatti concreti, discutiamone. È ormai una ventina di giorni che siamo a conoscenza della lettera dei tre sindacalisti e quante prove sono venute? Non si può accusare in termini generici. Io rivendico la pulizia morale del mio partito, la rivendico per intero e dico: fuori le prove a chi le ha. Altra cosa è se parliamo di impostazione politica, se ci rifacciamo alla vita che abbiano vissuto come Regione, ai fatti di tutti i giorni, anche per quanto riguarda le assunzioni. Poiché abbiano istituito una Commissione, io propongo che vengano riguardate le assunzioni in tutti questi anni in tutti gli enti pubblici. Noi non abbiamo niente da nascondere. Voglio rifarmi al caso che citava il collega Arcamone e che riguardava gli esperti assunti alla Regione. Era lo Statuto che consentiva quelle assunzioni, che le rendeva necessarie. Quegli esperti hanno servito egregiamente la Regione; è con quegli esperti che la Regione dell’Umbria e divenuta nel giro di due o tre anni una delle regioni che si ponevano all’attenzione di tutti gli italiani. Del resto, oggi vediamo alcuni di quegli esperti in banchi di Consigli comunali e ciò significa che la popolazione nel 1975 li ha graditi. Li abbiano assunti per dare un’ossatura alla Regione e quando il loro ruolo, a norma dell’art. 78, era finito, ci siamo trovati di fronte a due possibilità: o assumerli in modo definitivo alla Regione o liquidarli. Arcamone era dell’idea di liquidarli ed è rimasto dell’opinione che


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assumendoli si sia fatto del clientelismo. Io sostenni invece che queste persone che erano ormai diventate il cemento della nostra regione andavano mantenute; questo è certamente un parere politico che può anche essere discusso; ma da qui al clientelismo c’è tanta differenza. Anche il segretario della Cisl Pomini era dell’opinione di assumere questi esperti. D’altra parte, il nostro rigore lo abbiamo dimostrato nel caso del Cicom. Ci volevano imporre l’assunzione di gente che non aveva alcun diritto ad essere assunta sulla base della legge. In quel caso ci siamo opposti, mentre Pomini anche allora era dell’opinione di assumerli, facendo della demagogia. Anche i sindacalisti a volte, facendo il loro mestiere, sbagliano e cadono nel corporativismo e nella demagogia. Può esserci il caso di qualche assunzione, io non dico di no, ma non lo conosco. Da me sono venuti uomini di tutti i partiti per raccomandare non casi di clientela, ma casi umani. Io so che da me una mattina è venuto non un uomo politico, ma un padre che stava per andare in pensione da un ente pubblico diretto dai comunisti, aveva un figlio malato che aveva da tanto tempo fatto domanda per essere assunto e non trovava strade. Quel padre era sull’orlo della pazzia, stava per uccidersi. Tutti noi ci siamo trovati di fronte a tanti casi e quante volte abbiamo risposto di no. Ma tutti noi siamo degli uomini ed allora cerchiamo di distinguere. Clientela è un’altra cosa: è quando uno si fa il codazzo per i suoi interessi personali o di parte ristretta. Lavorare in un certo modo nell’interesse più generale è cosa diversa. Da un anno poi non ci sono più assunzioni; non assume più la Regione, la Provincia di Perugia, il Comune e l’Ospedale di Perugia. Abbiamo mandato a scuola i nostri figli, ma non sappiamo dove mandarli a lavorare e da un mese discutiamo di questa vicenda e non parliamo più dell’occupazione giovanile e di tutti gli altri problemi gravi che travagliano la nostra regione. Certo, i giovani premono alle porte degli enti locali, della pubblica amministrazione perché l’industria e nelle condizioni che tutti conosciamo; sono parecchi anni che l’industria non investe più. Riportiamo quindi questa vicenda in questo quadro e riportiamo anche la Commissione nominata nel suo giusto metro. La prima questione della Commissione è lo sviluppo della democrazia che tanto


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soffre per la situazione del momento, della crisi profonda che travaglia la gente, di questa programmazione nazionale che non va avanti, che è divenuta un rito quasi inutile. Sono queste le cose da discutere; certo, vogliamo parlare anche della macchina pubblica, della vita dei comuni, della Regione e facciamo anche l’autocritica, perché quando uno sbaglia deve correggersi. Come partito comunista siamo già impegnati da tempo in questo lavoro e saremo in grado di presentare alla Commissione anche una serie di proposte effettive, che non costituiranno il toccasana, ma contribuiranno alla discussione su una serie di campi e lo faremo con serietà e con rigore.

Verso le elezioni: 1976 Stralcio degli appunti per la riunione dell’attivo regionale ad Assisi (1976) in preparazione della campagna elettorale. Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 2, D.Isuc.

Ancora la situazione politica non trova uno sbocco. Comunque, sia che si vada alle elezioni o ad un nuovo accordo di governo a me sembra importante discutere la nostra linea, la sua validità, come andare al confronto (gli altri ci pongono domande, anche il partito quando la situazione diviene complessa difficile chiede). La linea del “compromesso storico” così come è venuta realizzandosi in questi mesi (contratti, caduta lira, aborto, elezioni anticipate) è a fuoco? Non vi sono ritardi rispetto agli eventi ed allo stato delle masse? Sappiamo tutti quanto la situazione del paese si sia aggravata, e come essa si rifletta sulle grandi masse determinando irrequietezza e nuovi stati d’animo. Su questa situazione si innestano manovre politiche di segno diverso, ma che in qualche modo concorrono ad accelerare processi di disgregazione che già da tempo sono apparsi nel seno della società nazionale. Basti ricordarne alcuni: da un lato la ripresa della strategia della tensione (incendi, bombe, speculazioni sul dollaro, ecc.); dall’altro forze politiche che premono per uno scontro frontale (forze interne ed esterne alla Dc). Realisticamente va detto che anche


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sull’altro versante forze radicali hanno pigiato sull’aborto per uno scontro. La stessa linea dei sindacati è difficile da mantenere; la svalutazione favorisce la concentrazione della attenzione sui salari e da qui spinte corporative, mentre in primo piano vanno tenuti i temi dello sviluppo e degli investimenti. In questa situazione quale immagine dare del partito, quale linea proporre? A me sembra che la linea sin qui seguita sia sostanzialmente giusta: dovevamo fare il possibile per risolvere i problemi evitando scontri, dovevamo dare l’immagine di un partito che di fronte alla grave crisi del paese sa proporsi come forza di opposizione costruttiva e, già oggi, come forza di governo che non punta al suo particolare interesse, ma che vuole sviluppare tutta la propria capacità per unire le forze oggi necessarie per uscire, allargando la democrazia, dalla grave crisi che travaglia il paese. Un partito che sa che questo può avvenire solo attraverso un processo difficile e tormentato. Un partito che non ha fretta di entrare nel governo, ma propone un processo politico che possa attuare, senza gravi traumi interni e senza ripercussioni internazionali, la svolta politica profonda e sostanziale di cui il paese ha bisogno (in caso di elezioni questo atteggiamento è essenziale per evitare lo scontro Pci-Dc, per far pesare altre forze, per tranquillizzare). Su questo terreno passi avanti si sono fatti in Italia e fuori. Basti pensare alle amministrazioni governate dalle sinistre assieme ad altre forze, ai rapporti nuovi maturati in tanti punti del paese: vi sono novità espresse dai congressi nazionali del Psi, Psdi, Pli, Dc e una intesa nuova con il Psi. Ed oggi in Europa si parla di “eurocomunismo” e parte larga della socialdemocrazia europea si pone in termini positivi di fronte al problema dei comunisti al governo nell’Europa del sud. Negli stessi USA, anche per una nostra iniziativa, le cose non sono ferme e matura un atteggiamento più realistico nei confronti dell’Italia. Perciò penso che oggi sia più che mai necessario avanzare sulla linea che ci siamo data, facendo fare un nuovo passo in avanti al partito, per farlo uscire definitivamente dalla fase in cui privilegiava la “propaganda”, l’attacco al governo ed alla Dc, per entrare di più in una fase in cui vogliamo emerga la nostra capacità di essere la forza più unitaria e nazionale, capace di una proposta politica che sa tradursi in costruzione concreta rigorosa ed ardita. Una forza che sa imporre a se stessa rigore


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di metodo e di scelte, perciò forza per una costruzione ordinata del rinnovamento della società nazionale. Da qui, a me pare, il risalto che va dato ad una serie di problemi che siamo venuti ponendo con forza e che dobbiamo meglio e di più tradurre anche in Umbria in termini concreti. Mi riferisco al richiamo sulla gravità della situazione del paese, alla esigenza di rigore ed ordine nella spesa pubblica, al dibattito che va aperto sul rapporto tra spesa per gli investimenti e spesa assistenziale, alla esigenza di orientare i mezzi finanziari in primo luogo verso il rinnovamento e la riconversione della industria e lo sviluppo della agricoltura. Certo, ci sono speculazioni ed evasioni da colpire ma c’è una questione che come partito della classe operaia dobbiamo porre sempre di più alla classe operaia ed ai lavoratori in genere se vogliamo essere oggi classe dirigente, se vogliamo conquistare la fiducia di larghi strati del ceto medio da un lato e dall’altro delle masse più marginalizzate. C’è la questione che i sindacati hanno posto nella stagione dei contratti, ma che resta aperta: quella delle lotte per imporre una politica di investimenti, una svolta della politica economica, ed anche dei sacrifici necessari per superare la crisi positivamente. Lotte e sacrifici per dare fiducia e slancio alle donne, ai giovani, ai disoccupati, ai pensionati, al sud, alle campagne. Per essere classe dirigente come lo siamo stati tra il 1943 ed il 1945. Va detto che oggi la situazione del paese è profondamente diversa rispetto al 1945; sono passati trenta anni e diverso è il paese, un paese allora agricolo ed oggi industriale. Alla guerra fredda ed al 1948 è succeduta la distensione, le affermazioni elettorali sul divorzio e nelle amministrative del 1975. Se nuovi pericoli sono all’orizzonte ben più vasto è il movimento operaio e rivoluzionario. Siamo al dopo Vietnam, in Europa sta cadendo l’ultimo baluardo fascista. In Italia al periodo della divisione profonda del sindacato, all’isolamento delle sinistre e del Pci è seguito il 1968, il 1969 operaio, l’unità sindacale e democratica che ha respinto le strategie padronali e della tensione. Non manca chi ci accusa di essere stati deboli sul caso dell’aborto; dissero così anche per il divorzio. Ma poi chi guidò alla vittoria? Questa insistenza nostra sulla linea del “compromesso storico”, che anche a sinistra è giudicata irreale, è giusta. Ma che altro si può prefigurare nel breve periodo se non l’incontro tra Pci, Psi e Dc? La stes-


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sa Dc non vive un reale profondo travaglio, cui una nuova avanzata del Pci e delle sinistre, può dare nuovi inaspettati sviluppi? Noi, io ritengo, abbiamo sostanzialmente seguito una linea giusta. Si tratta di andare avanti con intelligenza e coraggio, si tratta di far vivere la nostra linea nella vita e nell’animo del nostro popolo facendo esperienze concrete: qui sta il nostro impegno politico, la nostra capacità. Forti di questa politica possiamo mobilitare tutte le forze del Pci e tanti simpatizzanti ed amici, possiamo far divenire la stessa campagna elettorale non momento di rottura, ma di nuova maturazione della coscienza del paese, di avvio deciso sulla strada della svolta politica.

L’amaro 18 aprile In “Cronache Umbre” del novembre 1976 usciva la prima parte di un mio studio dal titolo “A 30 ANNI DAL 1946: COME HANNO VOTATO GLI UMBRI”. La seconda parte usciva in “Cronache Umbre” del marzo 1977. Qui riproduciamo lo stralcio relativo alle elezioni del 1948. Fotocopia nell’archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 7, D.Isuc.

Le elezioni del 1946 si svolsero ancora in un clima contrassegnato dalla grande unità nazionale e popolare che s’era determinata negli anni della Resistenza. Negli stessi programmi elettorali, per esempio, presentati dal Pci e dalla Dc nel 1946, «si trovano punti in larga misura convergenti, altri complementari, altri divergenti ma non inconciliabili » (vedi Ghini). Solo sulla questione monarchia-repubblica, subito dopo l’esito del referendum, la lotta diverrà drammatica, per le resistenze della monarchia, ma nello spazio di pochi giorni la crisi sarà superata oltre che per la determinazione delle sinistre anche per l’impegno della Dc, che nell’ultima fase della campagna elettorale aveva scelto repubblica. Ma già la campagna contro il Cln e le Giunte che si formarono dopo le amministrative (di sinistra o democristiane) erano indici di un mutamento della situazione politica. La guerra era ormai finita, ma a Fulton Churchill aveva rilanciato la guerra fredda. Gli alleati prima di lasciare il paese volevano essere certi che le sinistre non prevalessero, la grande borghesia rimessa in piedi dagli alleati cercava la strada per ripristi-


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nare il suo dominio. Il braccio politico che compì l’operazione fu la Dc, cui oltre il sostegno pieno degli alleati e della borghesia andò il massiccio appoggio della Chiesa. Il viaggio di De Gasperi in Usa nel gennaio 1947 appare come il momento della rottura delle forze popolari del nostro paese. Ieri la rottura fu attribuita al servilismo della Dc, ma forse oggi varrebbe capire meglio come in quel momento i vari elementi del giuoco internazionale e interno si intrecciassero. De Gasperi aprì due crisi di governo consecutive con la risoluzione di cacciare i comunisti dal governo e con essi i socialisti per i vincoli stretti che avevano con il Pci. Vale anche ricordare che quando nell’aprile il Pci fu escluso dal governo, nessun Partito comunista faceva più parte dei governi dell’Europa occidentale e che il pretesto per la prima crisi fu offerto dalla scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini. La campagna elettorale del 1948 sarà contrassegnata da tre elementi: l’anticomunismo più sfrenato, cui diedero oggettivo sostegno i fatti di Cecoslovacchia del febbraio 1948, la convinzione diffusa della esigenza di aiuti americani che sarebbero venuti solo se il Fronte popolare fosse stato battuto, l’intervento massiccio della Chiesa. Credo però che debba essere valutata sia la giustezza o meno della costituzione del Fronte democratico popolare, sia la convinzione della vittoria certa del Fronte che provocava alla base errori di settarismo da un lato e timori infondati dall’altro. I risultati in Umbria e in Italia furono questi: ELEZIONI POLITICHE DEL 18 APRILE 1948 PARTITO

ITALIA VOTI

Fronte Dem. pop.

8.137.047

Unità socialista (PSDI)

UMBRIA %

31,03

VOTI

217.962

PROV. PERUGIA %

VOTI

47,1 155.602

%

46,6

PROV.TERNI VOTI

%

62.360

48,4

1.858.346

7,09

24.536

5,3

17.771

5,3

6.675

5,2

PRI

652.477

2,49

28.390

6,1

15.604

4,7

12.786

9,9

DC

12.712.562

48,48

168.740

36,5 127.969

38,4

40.771

31,6

1.004.889

9,83

6.251

1,4

4.317

1,3

1.934

1,5

PNM (monarchico)

729.174

2,78

2.308

0,5

1.721

0,5

587

0,5

MSI

526.670

2,01

10.956

2,4

7.341

2,3

3.155

2,4

Blocco Naz. (PLI)

L’Umbria era una delle regioni che aveva retto meglio l’urto.


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Presidente! Stralcio di articolo pubblicato su “La Nazione” dopo l’insediamento dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale. Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 3, D.Isuc.

Poi l’incontro con i giornalisti. Ci sono state le fotografie di rito, le interviste e le dichiarazioni. Settimio Gambuli è stato chiaro: il nostro paese dovrà affrontare, con il prossimo settembre, un momento difficile e questo terrà inevitabilmente impegnato il consiglio regionale. Poi è entrato nel vivo dei più recenti avvenimenti: «si era parlato di una presidenza balneare, ma io credo che più propriamente si debba parlare di presidenza provvisoria, di una presidenza, cioè, che dovrà preparare una soluzione il più possibile unitaria. Insisto che non si deve parlare di presidenza balneare, nel senso di una presidenza che non lavorerà. Oggi stesso abbiamo cominciato il nostro lavoro, proponendo di convocare il consiglio regionale per i primi di settembre, il che vuol dire che l’attività nostra riprenderà subito dopo il Ferragosto. L’ufficio di presidenza – ha proseguito Gambuli – vuole lavorare seriamente, vuole dare certezza alle istituzioni e credo potrà essere per la esperienza che porta con se, una presidenza efficiente, ed in grado di dirigere con serietà anche con oggettività i lavori del consiglio regionale che crediamo, e personalmente credo, saranno quanto mai intensi». Gambuli ha così proseguito: «In questo senso, come nuovo presidente, ho bisogno della collaborazione dei colleghi in questo ufficio, quindi si svilupperà un lavoro collegiale. Ho bisogno dell’apporto di tutti i consiglieri, perché il consiglio esprima al massimo le proprie capacità, e di capacità effettive e potenziali ce ne sono tante; e credo avremo bisogno dell’intero apparato, i cui pregi ho potuto apprezzare in questi anni di vita regionale. Ed avrò bisogno del contributo della stampa, che io ringrazio per l’interessamento che ha mostrato in questa vicenda; e nella stampa comprendo anche le radio e le televisioni locali che ormai sono una parte della informazione della nostra regione. Vorrei spendere un’ultima parola per ringraziare il presidente Fiorelli per l’attività che ha svolto e per la passione che ha messo in questa attività; e vorrei ringraziarlo per il fatto


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che già nelle dichiarazioni rese in consiglio (ed ancor oggi me lo ha ribadito) egli offre a me, come nuovo presidente, il massimo della sua collaborazione e della sua esperienza».

Moro perché? Intervento al Consiglio regionale per ricordare la figura di Aldo Moro. Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 3, D.Isuc.

Con questo atroce delitto colpita è la Democrazia italiana. In queste ore tremende che attraversa il Paese sento di esprimere il dolore e i sensi di commossa solidarietà di tutti, alla famiglia Moro, alla Democrazia cristiana. Coloro che si sono macchiati dell’assassinio nemmeno possono essere considerati dei criminali di guerra, sono peggiori: perché sono criminali che uccidono in tempo di pace, in un paese libero, dove le forze dell’ordine possono apparire inadeguate rispetto all’organizzazione delle bande eversive, perché sono organismi da tempo di pace. È un attacco perpetrato non solo contro Moro ma contro la Dc, contro tutti i partiti, contro le istituzioni e la Repubblica voluta con il contributo di sangue dal popolo italiano. Contenendo il dolore e la rabbia, inevitabili, dobbiamo chiedere ai cittadini di essere all’altezza della situazione: superando questi momenti con freddezza e rigore nell’assolvimento dei propri doveri, riconfermando gli ideali della Resistenza, facendo appello ai giovani di aderire al valori della Liberazione, non dando tregua alle forze eversive finché non siano annientate. Tutti dobbiamo far ricorso al bagaglio di esperienze della lotta democratica, al periodo della Resistenza che aprì all’Italia una stagione nuova, schiudendo le vie della democrazia contro la barbarie. Proprio oggi, se le circostanze me lo avessero consentito, avrei dovuto partecipare, a Città di Castello, alla cerimonia commemorativa di Venanzio Gabriotti, un uomo della Resistenza, un democristiano ucciso dai fascisti 34 anni fa sul greto di un fiume; sacrificò la vita


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per i supremi ideali della libertà e della giustizia. Anche la nostra vita e la nostra opera restano per garantire alla società un futuro di giustizia e di libertà.

Uccisione di tre missini Intervento in Consiglio regionale subito dopo la uccisione a Roma di tre giovani missini (1978). Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 6, D.Isuc.

Ancora una volta nel mio breve mandato di presidente del consiglio regionale mi trovo ad esprimere una ferma e dura condanna per questa ultima barbara azione terroristica che si è tragicamente conclusa con la uccisione di tre giovani aderenti al MSI e che, come sicuramente speravano le menti direttrici dell’eversione, ha dato il via ad una triste spirale di violenza a Roma ed in altre città. Con il presidente della Camera Ingrao affermo che sarebbe davvero criminale cercare pretesti o giustificazioni solo perché si tratta di giovani della estrema destra. L’abbiamo detto solennemente un mese fa alla sala dei Notari e lo ripetiamo ora, guai non vedere come questo attacco sia diretto a colpire e liquidare la democrazia italiana e guai essere indifferenti: il terrorismo, la violenza vanno isolati e colpiti se si vuole mantenere il paese nell’ordine e nella libertà. Perciò è necessaria una mobilitazione di tutta la società per isolare i terroristi, battere ogni complicità e civetteria intellettuale con l’eversione, liquidare la violenza sotto qualsiasi forma essa si esprima. Solo una grande mobilitazione democratica potrà riportare la lotta politica a civile competizione e alla normalità la vita delle nostre città. Anche il governo deve fare la sua parte con capacità e rigore. Lo stato dell’ordine pubblico nella capitale ed in altre grandi città ci preoccupa, come ci preoccupa il fatto che benché riformati i servizi segreti, pur essenziali, non riescano ad avviare il loro lavoro perché ancora non sono stati designati i loro comandanti. Credo che come consiglio regionale, nel momento stesso in cui ci inchiniamo di fronte alle vittime e mandiamo i sensi del nostro più profondo cordoglio


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ai familiari ed alla città di Roma, dobbiamo ribadire per intero l’impegno assunto alla sala dei Notari.

Le maschere I due titoletti “le Maschere” e “I nuovi acrobati” sono un esempio dei brevi interventi che per oltre un anno (1980) ho fatto alla Televisione “Umbria Tv” e che andavano sotto il titolo della “finestra”. Gli affrettati originali e la loro trascrizione ripulita sono nel mio archivio, cartella n. 8, fascicolo n. 8, D.Isuc.

Perugia, 15 febbraio 1980. È appena apparso per le vie di Perugia ma, aiutato da S. Valentino, ha dilagato a Terni. Cammina fragoroso nelle discoteche e nei veglioni rionali, si prepara per i corsi mascherati di Città della Pieve e di S. Eraclio. Così questo carnevale 1980, breve e minore, s’avvia al termine. Mercoledì sono le ceneri, tempo di riparazione. Quanti di noi in questi giorni avranno detto ai più giovani: ma che carnevale è questo! Una volta, sì, era un’altra cosa! Certo, le veglie, i carnevali dell’immediato dopoguerra erano sfrenati riti collettivi; dovevamo dimenticare e riprendere fiducia. Era il sereno dopo la tempesta e la tempesta era stata terribile. Ci aveva travolto, aveva spento per lunghi anni, quelli della giovinezza, i lumi della festa e ci aveva trascinato negli stenti e nelle trincee della morte. Il tempo è passato, il mondo s’è trasformato, è andato avanti. Anche l’Italia è cambiata in meglio, ma nuovi enormi problemi sono sorti. Siamo di nuovo ad una crisi e c’è chi vorrebbe riportarci indietro con le armi del terrorismo, con il ricatto dello scontro frontale. Noi invece possiamo ancora andare avanti, discutendo, lottando pacificamente, migliorando tutti, giovani ed anziani. Perciò domenica in tanti andiamo a Firenze con lo slogan: “prima di tutto la pace” andiamo per evitare nuove tempeste, e forse anche perché un’altra volta non s’interrompa il vecchio rito del carnevale. Ed anche voi non credete, che pur nel variare dei tempi e dei costumi ci sia sempre bisogno di avere una stagione in cui facendoci maschere possiamo ridere degli altri ma anche di noi stessi?


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I nuovi acrobati 13 agosto 1980. In questa vigilia di Ferragosto voglio parlare degli acrobati. Me li ricordo, ero bambino, quando con il naso all’insù li guardavo. Andavano su una corda tesa tra due alti palazzi d’una piazza aiutati nell’equilibrio da una lunghissima asta. Andavano alti dal suolo, passo dietro passo, poi portavano là sul filo una sedia o un tavolo e infine avanti e indietro con una bicicletta. La gente tratteneva il respiro, aveva attimi di paura, poi esplodeva al termine dello spettacolo in un fragoroso applauso. Quegli acrobati non avevano sotto alcuna rete, per vivere rischiavano ogni volta la vita. Nel circo poi ho visto sempre sotto gli acrobati una rete, con il tempo era divenuta obbligatoria. Perché vi racconto queste cose? Sono scosso dai numerosi incidenti sul lavoro, dai cosiddetti “omicidi bianchi” che quasi ogni giorno leggiamo nelle pagine umbre dei giornali. Ultimo, un operaio caduto lunedì scorso dall’alto di un capannone della Temi, mentre la fabbrica è in ferie. Alessandro Falcini lavorava per una ditta appaltatrice. Ora la sua famiglia lo piange. Certo, in ogni mestiere c’è un rischio, ma questi operai che cadono dalle impalcature sono troppi e ci avvertono che molte cose non funzionano. Non lo sanno gli imprenditori? E l’Inps? E la polizia? E il sindacato? Gli stessi lavoratori? Cadere, sfracellarsi fa parte del rischio nell’edilizia e nella carpenteria? Questo pensano imprenditori ed operai? Per tirar via, per qualche lira in più tirano via gli imprenditori e corrono i cottimisti; persino gli artigiani rischiano la propria pelle. Non sono possibili, non sono necessari, come pretende la legge, ponteggi che proteggano? Perché non usano corde e cinture come i vigili del fuoco? Intralciano il lavoro quegli strumenti? E allora fate come nei circhi, mettete una rete sotto! È chiedere troppo, chiedere di non morire sul lavoro? È necessaria una incessante campagna per ridurre o meglio per azzerare le morti sul lavoro. Altrimenti perché lamentarsi che i giovani sfuggano certi mestieri, forse non hanno l’animo dell’acrobata, ma, credetemi, anch’io farei lo stesso.


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Dibattito con i cattolici Stralci intervento alla presentazione del libro “I cattolici tifernati nel secondo dopoguerra” curato da Don Torquato Sergenti, edito da Confronto nel 1980, 8 novembre 1980 a Città di Castello. Archivio personale, cartella n. 7, fascicolo n. 1, D.Isuc.

Intervengo come comunista e come tifernate. Sono marxista, se per marxismo si intende un metodo per capire la storia e quindi per agire nella storia. Sono comunista se si intende l’impegno per un mondo più giusto, senza guerre, per una Italia democratica, giusta, colta e profondamente umana. Proprio per questa visione ritengo che ogni contributo alla storia sia positivo – ogni angolo visuale che offra documenti, spunti e riflessioni, sprona al confronto e serve, questo è anche un motivo del libro, a leggere meglio l’oggi ed il domani. Mi sono posto il problema di quale intervento fare: formale o critico e di stimolo? Quale contributo posso dare in questa occasione? Ho scelto quello di testimone di ieri, ma di un uomo che vive la vita politica di oggi. Un contributo costruttivo che aiuti a leggere un periodo la cui fase centrale -1947-1956 – è dominata da uno scontro in Italia e nel mondo: è la guerra fredda. “Il filo conduttore di questo libro non è tanto una ideologia politica, quanto la fede religiosa, vissuta come scelta ed impegno” è stato scritto, ma diciamolo, molto vasto è il materiale che riguarda le idee politiche e lo scontro confronto tra il giornale della curia “la voce cattolica” ed i giornali della sinistra. La prima mia domanda è perché sino ad oggi grande sia stata la presa elettorale delle sinistre e quella crescente del Pci in Umbria e nell’Alto Tevere: malgrado la lotta condotta dalla chiesa, dai cattolici, dalla Dc, da una parte della “società civile”. Intanto, la storia non comincia nel 1948. Né per il partito politico dei cattolici, né per i partiti operai. Nell’Alto Tevere i liberali, i radicali, i repubblicani, gli anarchici, i socialisti sono sino al 1900 forze reali e preminentemente urbane. Dopo il 1900 i socialisti penetrando nella giovane classe operaia ed in parte delle campagne (la mezzadria) giungeranno nel primo dopoguerra a conquistare il Comune. Poi il fascismo. Ma a Città di


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Castello è forte e debole. Anche qui è un partito di massa, ma resistono (passivamente) forze socialiste e forze cattoliche. Tra le forze antifasciste più vive vi è una corrente di solidarietà che sapeva superare i vecchi steccati tra popolari e socialisti (ricordo la società dei falegnami, i rapporti positivi tra uomini di idee diverse). Credo che qui l’unità non abbia atteso il 1940-43. Poi c’è il 25 luglio, l’8 settembre, la “bilinciana”. L’antifascismo fatto di massa, le campagne che sostengono la lotta partigiana unitaria: per il movimento cattolico Gabriotti, Don Pieggi, i parroci di Morena, Aggiglione, i ragazzi al fronte Martinelli, Turchi, il povero Perugini. La ricostruzione. Scrive Pillitu nei suoi appunti: “tutto questo fu il miracolo di buona volontà del nostro popolo e frutto della collaborazione delle forze politiche negli anni 44-45 e negli anni immediatamente successivi. Una grande lezione di civiltà e operosità di un popolo che si sentiva ormai ben guidato e spronato nella via del progresso e della civiltà”. Allora non c’era incompatibilità tra marxisti e cattolici? Eppure differenze tra sinistre e Dc già c’erano: ad esempio, sull’articolo 7 della costituzione il PSI più rigido del PCI come sul tema del divorzio. Su quali basi si forma la DC? Dove trova energie e dove consensi di massa? I vecchi popolari quanti sono? Sono i giovani dell’azione cattolica una forza viva tra uomini e donne, una forza mai fascista, una forza divenuta tra il 1921 ed il 1945 più presente soprattutto in città tra gli studenti, nella classe operaia e nel ceto medio. Diversa la situazione nelle campagne, qui c’è differenza tra le zone di mezzadria e le zone dei coltivatori diretti (l’economia ha un peso, anche se parziale). E le sinistre? Il PSI ha una tradizione, un vasto ceto maturo (i Pierangeli, i Venturelli, i capilega) ed ha adesioni tra gli artigiani, gli operai, i mezzadri, le donne. Il PCI? Ha pochi iscritti anziani e sono rimasti alle idee del 1921. Il partito “nuovo” è giovane, in città è debole, non c’è nel ceto medio, tra gli operai anziani, tra le donne. Per i giovani è la adesione ad una forza antifascista, pulita, di trasformazione, ad un programma concreto. Sfogliando “Rivendicazione” come “Voce Proletaria” si ha chiara l’idea che le sinistre puntano: all’unità di tutte le forze democratiche ed antifasciste; a distinguere tra fede e politica; a sostenere che oltre alla fede non toccheranno la famiglia, le libertà,ecc., ma il terreno ricerca-


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to per il confronto è quello sociale, che è poi il terreno sul quale si svolge prevalentemente l’azione e la propaganda dei partiti di sinistra. La rottura del 1947 determina un acutizzarsi dello scontro tra la DC da una parte e dall’altra il PSI ed il PCI ( localmente si vede dagli articoli della “Voce” e dei giornali di sinistra). Il 1948 vede la vittoria della DC, ma l’Umbria è una delle zone dove le sinistre reggono meglio. E qui si pone il primo perché di Biancospino, perché che poi torna a riproporsi in diverse tornate elettorali. Consentitemi a questo proposito domande e considerazioni. Sono rimasto colpito da una frase della introduzione al libro: “ quanto alla stampa dei partiti non vengono presi in considerazione i periodici DC perché in quegli anni, nei periodi elettorali, a causa di “speciali circostanze”, esisteva il collateralismo delle organizzazioni cattoliche con il partito di ispirazione cristiana e quindi le posizioni di questo partito si possono, in certa misura, riscontrare nella posizione ufficiale cattolica”. Qui, forse, in questa identificazione c’è una riflessione da fare: qui non sta un limite serio per le possibilità di espansione della comunicazione tra chiesa e fedeli? E non vi è un limite all’autonomia del quadro cattolico che andava formandosi come quadro di un partito politico cui andava il peso di dirigere il paese? Che cosa voglio dire: che tra il 1945 ed il 1954 “la Voce” strumento religioso, ma anche ideologico e politico, dei cattolici sospinge molto il dibattito sui temi morali ed ideologici lasciando nel sottofondo i termini della lotta reale che vivono il paese e l’Umbria. Non voglio dire che “la Voce” e Biancospino non avvertano i problemi della fame, dei disoccupati, delle ingiustizie nelle campagne, non pensino ad un socialismo cristiano, ma quale è la loro opinione sulla lotta concreta dei mezzadri, sulla richiesta di fondo della terra, sulle rivendicazioni operaie? Qual è l’azione da compiere per l’avvenire di Città di Castello e dell’Umbria? Rispetto ai mezzadri, che nell’alto Tevere sono più della metà della popolazione, la chiesa, il movimento cattolico non compiono lo stesso errore dei primi anni del ‘900 quando stroncarono le leghe bianche? Dalle campagne, dalle lotte contro i 700 grandi agrari umbri parte l’azione delle sinistre ed in particolare del PCI, da qui discende il risultato umbro del 1948. Ed ha ragione Biancospino quando scrive “ e S. Pietro svenne”. Siamo al 1954 ed ormai anche la DC capisce che


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deve “inserirsi nei problemi umbri”. È il tempo dei “giovani turchi” e lo stesso Fanfani afferma che in due nel podere non si può più stare, ma saranno i contadini ad andarsene. Allora non ha avuto valore la lotta condotta dai cattolici e dalla “Voce”? Non contiene verità la sua denuncia sui pericoli dell’est, sulla dittatura di Stalin, sui pericoli per la famiglia in vista delle leggi sul divorzio e sull’aborto? Dal 1956 in poi noi vediamo con occhio profondamente critico le questioni che riguardano i paesi del “socialismo reale”. Anche se non siamo per buttar via con l’acqua sporca il bambino sappiamo che la manca la democrazia, che c’è uno spirito di potenza che può degenerare come nel caso dell’Afghanistan. E questo ci fa capire che anche gli altri possono avere ragione, che non siamo ne vogliamo diventare totalità, che è con altre grandi forze e correnti di pensiero che si può costruire una società migliore. Da qui le nostre idee sulla “terza via” e sullo “eurocomunismo”. Intanto non solo l’Italia ma il mondo cambia. E tre uomini danno il segno di questo cambiamento: Kruscev, Kennedy, papa Giovanni XXIII: è la distensione, la presa di coscienza di porre fine agli armamenti, di superare Yalta, di capire i gravi problemi di un terzo mondo che soffre ma cresce. Un breve periodo il loro, bruscamente interrotto, che però ci ha dato una speranza di distensione. “Confronto” annota: “la storia dirà se la distensione è stata la continuazione della guerra fredda con altri mezzi”. No, mai il mondo industrializzato ha conosciuto un periodo di pace tanto lungo, un periodo che però sta chiudendosi mentre crescono nuove laceranti contraddizioni. E veniamo alle note del libro, cioè a misurarci con coloro che offrendoci questo ricco materiale, ricercano in esso verità e ne traggono continuità. Essi si chiedono perché i comunisti sono ancora così forti nell’alto Tevere (nelle città sono divenuti il primo partito). A me sembra che la loro linea rinnovi troppo poco e la sua essenza resti questa: “la chiesa ha sempre proclamato l’inconciliabilità tra marxismo e cattolicesimo” e quindi tra DC e PCI. Già tanti anni fa noi rispondemmo con la storia della nostra gente e con la esigenza di una nuova grande unità delle forze democratiche italiane per battere questa crisi che non è solo economica, ma morale e culturale, per favorire le forze della pace. Che dire oggi? La fase del-


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l’unità nazionale è finita nel 1978 (è durata neppure tre anni). Di nuovo le posizioni si sono diversificate. Dallo slancio unitario della sinistra si è passati ad un momento diverso. Di riflusso, si dice, di moderatismo e per molti è l’ora di isolare e battere il Pci. Dunque, è così semplice la realtà del paese e del mondo? Non c’è bisogno di un incontro per oggi e domani tra forze cattoliche e forze comunista in Italia? (…) Come concludere. Con piacere ho visto un filo rosso che unisce gli scritti della “Voce”, di Pillitu, di Biancospino, di Don Battilani ed anche di Don Minciotti: la repulsione del fascismo e la giusta rivendicazione degli atteggiamenti di indipendenza, anche puniti, della chiesa e delle sue organizzazioni cattoliche di fronte al fascismo, la esaltazione del ruolo che nella resistenza ebbero il clero ed i cattolici. Qualcosa di quel periodo esaltante e duro abbiamo scritto noi e voi. È poco, troppo poco. Non stanno tra il 1922 ed il 1945 le radici profonde della vita democratica del nostro paese? Vi fu una presa di coscienza e quindi una lotta di popolo. È un cattolico che gira “Roma città aperta”. Non sta in questa fiducia di fondo, che va oltre le lotte contingenti, oltre gli errori ed i vizi di tutti noi, la forza della nostra democrazia? Da qui il gusto del confronto; un confronto che non potrà mai essere arido e che ha dato e può dare buoni frutti. Insomma nessuno di noi semina nel deserto o sugli scogli e credo che per questo mi abbiate invitato. Grazie.

Un Partito aperto al dibattito Intervista pubblicata in “Cronache Umbre”, 11 agosto 1988. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 6

Settimio Gambuli, dirigente politico, in questa intervista del settembre 1981 ricostruisce i caratteri del rapporto fra il Pci e il movimento studentesco. Cronache Umbre: Quale giudizio dai del movimento studentesco alla luce dello stato del partito nel corso degli anni sessanta e dei suoi caratteri precedenti?


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Gambuli: Credo che intanto per affrontare la questione che mi poni sia corretto partire dai dati delle situazioni reali. Ora nella provincia di Perugia tra gli anni 45-50 una delle forze reali è la classe operaia che però a mano a mano viene liquidata o per chiusure o perché in molte fabbriche viene battuta. La forza sulla quale il movimento si basa per andare avanti sono i mezzadri, i contadini. Ai quali il partito da una coscienza politica e li fa uscire dalla lotta della dimensione della categoria per divenire protagonisti del rinnovamento della regione. E in questo senso la politica del PCI di «rinascita», la politica della rinascita delle città e dell’Umbria e quindi la politica dell’alleanza tra città-classe operaia-ceti medi e città-contadini, diviene l’elemento essenziale trainante che poi si svilupperà verso la fine degli anni 50 nell’idea della Programmazione Regionale e nell’idea della Regione e del regionalismo, e quindi si avranno nella prima metà degli anni cinquanta grandi lotte. Nella seconda metà degli anni 50 inizia la caduta del movimento contadino come conseguenza dell’espulsione dalla campagna. Dai dati si vede quanto divenga più difficile negli anni sessanta sviluppare il movimento di massa per l’assenza più rilevante dei protagonisti fondamentali, dei contadini. Ma c’è anche una ripresa operaia che peserà nelle lotte degli anni successivi… È anche vero che dalla fine degli anni cinquanta c’è una ripresa operaia, ma questa ripresa è generalmente molto lenta in particolare nelle industrie legate all’agricoltura, come le tabacchine. La ripresa è lenta avviene a gradi a gradi. Molecolare e inizia in alcune fabbriche, la Perugina, da altre parti si aggregherà sempre più fino a divenire rilevante, ma ancora interna alle fabbriche negli anni 65-66-67 e riuscirà ad uscire dalle fabbriche e diventerà un fatto di massa negli anni 69-70 con cortei e manifestazioni. Per tutti gli anni cinquanta e sessanta abbiamo una persecuzione delle Commissioni Interne e il licenziamento di chi si poneva alla testa di un movimento, ad esempio le tabacchine. Parliamo dunque di un movimento che esiste e parliamo di un movimento che ha capito ad un certo punto che il protagonista fondamentale, i contadini, stava sparendo, si trasformava in un altra


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cosa, veniva nelle città portava con sé il ricordo di queste lotte non sapeva come adattare queste lotte alla nuova situazione. Qui sta lo sforzo che il Partito ha fatto agli inizi degli anni ‘60 e fino agli anni 70 per trasformare questi contadini venuti in città in operai coscienti per riconquistarli al movimento. Cronache Umbre: Ma in concreto il partito come si mosse in questa situazione? Gambuli: Noi in quel momento parlavamo di un nuovo cambio del cavallo perché un altro cambio era avvenuto nel 40-50 nel momento in cui le avanguardie più combattive erano liquidate: i minatori, gli operai metallurgici di Passignano, Foligno, eccetera. Il Partito che poggiava su due gambe, operai, contadini, si trasformò in un partito che poggiava principalmente sui contadini e dopo gli anni 60 nuovamente sugli operai per riavere un’azione di massa che torna poi negli anni 70. Così come la fase 48-49 crea scompensi al partito nella provincia di Perugia con cadute e riprese, lo stesso avviene negli anni successivi con la politica che chiamammo di rinascita. Cronache Umbre: In questo quadro di grosse trasformazioni sociali quale fu il dibattito all’interno del partito? Quale attenzione ebbero le tematiche delle nuove generazioni e degli studenti? Gambuli: Dal Congresso del ‘66 viene fuori un ampio dibattito con i giovani che da la dimensione dello sviluppo della democrazia interna. Discutiamo con i giovani e nel partito delle grandi questioni internazionali e il Congresso si chiude con un «manteniamo aperto il dibattito». All’XI Congresso a Roma svolgiamo un intervento unitario. La delegazione Perugina nel grosso scontro nazionale riconferma le conclusioni del dibattito perugino. Le iniziative studentesche trovano un partito con questo tipo di dibattito interno. Da una parte è orientato a sviluppare l’iniziativa di base e dall’altra quella regionalistica della programmazione e sottovaluta senza dubbio elementi culturali e ideologici. Le novità del dibattito politico-culturale di quegli anni sono infatti del tutto assenti o comunque patrimonio di piccole minoranze.


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Cronache Umbre: La presenza del partito all’Università di Perugia a metà degli anni 60 qual’era? Gambuli: Alla fine degli anni 50 si chiude un ciclo anche per l’Università che per un periodo è stato positivo. Infatti nel 54-55-56 ci fu ricucitura del rapporto con l’Università tra forze democratiche che battono i fascisti in quel momento e prendono come punto di riferimento ideologico Gramsci e Gobetti. Poi il gruppo se ne va, esce, e prevalgono le forze fasciste. Negli anni successivi l’Università si amplia, arrivano giovani da tutta la regione e da tutta Italia e il MSI che aveva una forza organizzata cerca di fare di Perugia un punto di riferimento e un’Università coagulo di forze che provenivano dalle regioni meridionali verso il centro ed il Nord le aggrega su Perugia. Così arriviamo al ‘68 con una serie di vittorie fasciste dentro l’Università di Perugia. Cronache Umbre: Esiste dunque una difficoltà delle forze democratiche ad entrare… Gambuli: Qui pesa anche la storia di Perugia. I figli dei contadini e operai arrivano solo in quel momento nel 67-68 abbastanza numerosi nell’Università come degli stranieri in patria, insieme agli altri studenti delle altre regioni d’Italia e trovano difficoltà di collegamento e di movimento. Altri gruppi da quelli Perugini dominano la scena. Inoltre è da sottolineare che l’Università era da sempre una roccaforte DC, Erminiana. I comunisti non insegnano e non c’è un professore ordinario comunista e tutti i gruppi di sinistra vengono fatti fuori. Comunque è certo che nel periodo 65-68 ci sono nostre insufficienze di carattere culturale scientifico e debolezze delle forze popolari e studentesche dentro l’Università…

Il nuovo ospedale entra in attività prima di dicembre Articolo pubblicato da “La Nazione” il 10 agosto 1985. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 9.

Il presidente dell’Unità sanitaria locale di Perugia. Settimo Gambuli,


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ha diffuso una nota di riflessioni e di bilancio sui servizi della sanità nel comprensorio perugino. Nel contesto di alcuni approfondimenti, Gambuli annuncia anche l’entrata in attività del nuovo ospedale «Silvestrini». Entro la fine dell’anno il complesso di S. Andrea delle Fratte entrerà in azione. A leggere i giornali si arriva facilmente alla conclusione che nella sanità le cose che non vanno sono in continuo aumento e anche in Umbria, da qualche tempo, mi sembra che la stampa, relativamente alla vita delle Usl, ponga l’accento soltanto sulle zone di difficoltà e sulle notizie negative, in particolare degli ospedali. A questo punto vorrei mettere l’accento, per ciò che si riferisce alle Usl di Perugia, su alcuni fatti. Debbo, prima di tutto e francamente, ammettere che a cinque anni dalla costituzione di questa Usl ci sono nell’ospedale ancora servizi che vivono vecchie situazioni di difficoltà e problemi aperti. Ma a consuntivo di questa gestione della Usl, che dura da appena 4 anni, voglio subito aggiungere che la situazione ospedaliera a Perugia vive in una fase di profonda trasformazione sia per quello che si riferisce alle strutture murarie, sia per l’introduzione di nuove avanzate tecnologie, sia per le nuove capacità acquisite da moltissimi operatori. L’Ospedale intanto è uscito dalle strettezze che lo costringevano, malgrado l’aumento continuo dei servizi, nella vecchia sede del Policlinico e alcuni reparti, per un totale di 300 posti letto, hanno trovato sedi idonee nei nuovi edifici costruiti dall’Università ma per i quali la Usl ha provveduto e provvede sia all’arredo che alla più complessa e costosa gestione. E nel vecchio Policlinico hanno trovato nuove adeguate soluzioni altri reparti e servizi, mentre si sta provvedendo per dare sedi adeguate all’urologia, alla rianimazione d’urgenza, alla radioterapia. In alcuni settori d’attività il balzo in avanti è enorme. Si prenda a esempio la cura dei tumori, cioè di una delle malattie del secolo. Qui l’introduzione del servizio di Total body ha portato a nuovi livelli la diagnostica. L’introduzione, oggi in corso, nel servizio di radioterapia di una nuova macchina, l’acceleratore lineare, consentirà non soltanto di provvedere alla cura di tutti i malati della regione, ma


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anche di ottenere nuovi risultati per la correlazione automatica possibile tra il Total body e questa macchina. A ciò si aggiunga la collaborazione con un efficiente reparto di Oncologia e l’attività ormai avviata in Clinica Medica – con l’introduzione di nuove costose tecnologie – del «trapianto del midollo», cioè della cura radicale per alcuni casi di tumori del sangue. È da rilevare che di servizi di «trapianto del midollo» in Italia ancora ne esistono tanto pochi da contarli sulle dita di una mano, e tra questi il nostro è costruito con le tecniche più moderne. Quando parliamo di questo complesso di mezzi e uomini impegnati sul fronte della lotta al tumore parliamo di una spesa di impianto di alcuni miliardi, cui ha contribuito la regione, di una spesa annuale di gestione per la Usl di più miliardi, e di una specializzazione resa possibile dalla volontà di tanti operatori e anche dalla collaborazione con l’Università. Voglio qui accennare al fatto che un programma di eguale importanza sta per avviarsi per ciò che si riferisce alle malattie cardio-vascolari. Credo che in tempi cosi difficili, per le note ristrettezze finanziarie e per un blocco pressoché assoluto di personale, basterebbero queste imprese a qualificare non solo la Usl ma anche quelle istituzioni che con essa hanno lavorato. E voglio aggiungere che mentre da molte parti d’Italia, come i giornali ogni giorno ci avvertono, la sanità pubblica tenda a smobilitare qui invece venga rinnovata e potenziata. E potrei concludere, ma mi si potrebbe chiedere perché non parlo del Silvestrini. Già prima delle elezioni ebbi a dire alla stampa che l’apertura del nuovo ospedale non partecipava alla gara elettorale, ma a questo punto posso dare alcune notizie certe. Abbiamo già speso per gli acquisti dell’arredo ben 7 miliardi, altri cinque ne spenderemo entro il prossimo settembre. Dal primo settembre il Silvestrini vivrà il periodo della collocazione in loco degli impianti, delle macchine e degli arredi necessari al suo funzionamento ed entro l’anno 1985 sarà in grado di avviare la sua attività. Aver risolto il problema degli acquisti mantenendoli nel tetto dei 12 miliardi previsti nel 1981, malgrado la svalutazione, è soprattutto merito degli operatori, dei tecnici, della Direzione Sanitaria. L’aver trovato i mezzi finanziari necessari è soprattutto merito di


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questa gestione della Usl. Lo Stato sui 12 miliardi di spesa ha partecipato solo con 3 miliardi e la Regione nel Piano 1984-86 ha dato all’Usl per il Silvestrini un miliardo. Gli altri sono usciti o debbono uscire dalle tasche del bilancio d’investimenti di questa Usl, e non è poco. Capisco d’aver soltanto fatto dei cenni e solo per ciò che si riferisce all’attività ospedaliera, mentre i servizi da noi diretti sono molti ma li mi è parso s’appuntassero molte critiche e domande. A settembre, in occasione del dibattito in assemblea sui bilanci ‘84 e ‘85, potremo fornire una più vasta informazione sull’attività svolta e sui programmi in corso di attuazione, mentre sarà compito dei nuovi organi dell’Usl dei quali sollecito ai Comuni la costituzione, tracciare i piani futuri.

E i giovani? Parte di un intervento alla celebrazione del 25 aprile ad Umbertide (1985). Archivio personale, cartella n. 7, fascicolo n. 2 d.Isuc.

Sono passati 40 anni da quel 1945 e la cronaca diviene storia. Si è scritto della resistenza e della liberazione in Umbria, ma poco, troppo poco. Spesso sono memorie di testimoni filtrate dall’usura del tempo, raccolte da giovani che volevano scrivere su ciò che era successo, e loro, se erano nati, erano allora solo bambini. C’è ancora molto da fare per ricostruire un’epoca, i suoi problemi, i suoi drammi, le tragedie e le speranze. Oggi di nuovo sembra che di quella storia non ci sia più bisogno, consegnata, come appare troppo spesso, ad una nuova oleografia senza senso. I ricordi per noi, ormai testimoni anziani e sempre più rari, tumultuano, afferrano le corde dei sentimenti, divengono facili da raccontare solo nei rari momenti in cui ci si ritrova tra amici, ma difficili da scrivere, per ritrosia. Così oggi avverto un imbarazzo a prendere la parola in questa celebrazione. Vorrei stare qui in silenzio e vorrei che noi testimoni parlassimo tutti, come si fa al caffè, per far capire l’atmosfera, i fatti, le idee che ci dividevano, la grande solidarietà che ci univa tra noi ed alla popolazione.


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In questi ultimi tempi il paese ha vissuto una vicenda tragica, che pretendeva di richiamarsi a quegli ideali e a quelle forme di lotta: il terrorismo. Di destra e di sinistra. Invece la differenza era incolmabile ed è anche per questo che ha perso la sua battaglia. Allora la forza di chi osò impugnare le armi nasceva da una aspirazione profonda di un popolo che per venti anni era stato offeso, tradito nei suoi ideali più profondi di libertà, di giustizia e di pace, che era stato gettato nella fornace di una guerra terribile; di un popolo che voleva, con tutti i mezzi, tornare alla pace, alla convivenza civile. Contro la dittatura fascista, contro il tallone nazista era maturata nel profondo l’idea che la lotta non poteva che essere terribilmente dura, cruenta. Lo sappiamo noi che allora vivemmo da uomini quell’alba, molte speranze sono morte, svanite, tradite. Troppa parte della costituzione è restata sulla carta, troppe le divisioni – forse – perché al paese possa essere assicurata una guida certa per tempi di nuovo duri come gli attuali. Io credo che come nel 1944, come nella lotta contro il terrorismo e contro tutte le soluzioni autoritarie che sono spesso apparse nel corso di questi 40 anni, buon ultima la “P 2”, ancora una volta a decidere possa essere la volontà popolare, una volontà che oggi si esprime in primo luogo con il voto, ma che va ben oltre per divenire impegno, ragione di vita, volontà di aprire alla speranza il futuro del paese nella pace. Per questo, pur da sponde diverse, noi vecchi antifascisti, noi popolo democratico dobbiamo continuare a lavorare. Il nostro non è mai stato ne vuole esserlo oggi un atto di fede. È un invito alla ragione. Per questo ci siamo battuti e continuiamo a batterci. Non sempre è giorno di liberazione, non sempre è vittoria. Anche le sconfitte servono, importante è continuare, ampliare i propri orizzonti, la propria umanità, la comprensione verso gli altri. A questo impegno sono chiamati i figli nostri, i giovani. Oggi ci dicono che siano assenti, scettici, chiusi troppo spesso nel privato. Io dico, il ceppo è buono e saldo. Nei momenti decisivi questa gioventù ha dato frutti davvero eccellenti. Così è stato nel 1944-45, così in tante stagioni successive. Anche per questo oggi in Italia libertà e democrazia sono sempre più ampie. Perciò è stato vinto il terrorismo, battute la P2 e le mene autoritarie. Oggi in questo momento di crisi si tenta ancora di uccidere la democrazia e pesano negativamente i mali presenti in questa


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società democratica: la corruzione, le clientele ed il corporativismo, le collusioni tra potere e malavita, la mafia, la droga; pesa l’incapacità di colpire chi trama contro lo stato, chi non paga le tasse, come si sente la grande difficoltà a ritrovare una via nuova per uno sviluppo del paese più sano e giusto. Proprio per questo è la ragione che di nuovo chiede ai giovani di scendere in campo contro i nemici secolari del nostro paese, contro le vecchie concezioni borboniche e reazionarie, contro i grandi avventurieri ed i guerrafondai, per costruire la politica di domani. (…)

Francesco Pierucci: ad un anno dalla sua scomparsa Ad un anno dalla scomparsa di Francesco Pierucci (8 aprile 1985) fui relatore ufficiale in una cerimonia per ricordare la figura e l’opera. Qui riporto le pagine di inizio di quel mio intervento. L’opuscolo con il discorso integrale è nel mio archivio personale, cartella n. 7, fascicolo n. 3.

Consentitemi di ricordare Francesco, a me stesso ed a voi, diritto come un fuso, giovane a 80 anni, a passeggio per Corso Vannucci, con la sua compagna Mirella a braccetto come fidanzatini, pronti a raccontarvi di un loro viaggio, a Parigi, in Svezia o a Milano. Sì, perché a Francesco piaceva conoscere, viaggiare, vivere. Era felice della sua famiglia, di suo figlio che, proprio a Perugia, da regista, girava alcune scene del suo primo film. Francesco, dirigente da una vita del partito, del sindacato, delle cooperative, Senatore e Sindaco, era davvero mille miglia lontano dal “cliché” del “funzionario del partito” o del “notabile politico”, come non era mai voluto passare al ruolo di “pensionato”. Nelle serate trascorse in amicizia lo trovavi sempre aggiornato, pronto al pacato confronto di idee, aperto alle novità, così come al divertimento e allo scherzo fraterno. Francesco Alunni Pierucci, ha scritto molto di storia, ma pochissimo di sé. Quando lo ha fatto è stato solo per testimoniare con la sua esperienza diretta le tribolazioni della gente o le violenze del fascismo. Soleva dire che non era la sua storia che poteva interessare ma quella di un popolo, di un movimento. Sappiamo pochissimo della sua vita di antifascista, di emigrato, di prigioniero, di torturato ed anche dell’attività da lui svolta come pro-


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tagonista negli anni dell’immediato dopoguerra. Ma quello che sappiamo ci serve già a tracciare un quadro ampio tanto è viva la sua presenza nell’attività politica umbra di questo secolo. Francesco nasce all’inizio del secolo (1902) in una famiglia colonica dell’umbertidese. È una vita di stenti quella degli anni a cavallo tra la fine del secolo e il principio del nuovo. Con l’unità d’Italia e per le vicende che ne erano seguite la vita dei contadini in Umbria era ancora peggiorata tanto che i malati di pellagra erano raddoppiati. (Dalle statistiche dell’epoca risulta che tra il 1854 e il 1879 nel circondario di Perugia, soprattutto per la miseria dell’Alto Tevere, su una popolazione rurale di circa 140 mila unità i pelagrosi sono 5.044, e nel periodo tra il 1889 e il 1903 ben 12.813). Pierucci nel suo libro “Mezzo secolo di lotte contadine” ci dà il quadro della vita della sua famiglia al fine di dare una testimonianza sicura delle condizioni più generali dei contadini dell’epoca. Scrive: “I nostri (ricordi) sono chiari a partire, grosso modo, dal 1905 epoca in cui nostro padre, bracciante, decise di prendere un podere a mezzadria (ma) il podere non produceva a sufficienza per nutrire 7 bocche. Padre, madre e 5 figli, di cui 3 maschi e 2 femmine – la primogenita di 14 anni, l’ultima di poco più di 2 anni – per cui le condizioni alimentari non migliorarono di molto. Fame si pativa prima e fame si continuò ancora a patire per diversi anni. Il vitto per circa 7 mesi all’anno era costituito da torta confezionata con farina di granoturco e da verdure”. E la casa? “Non era tra le peggiori”, ma qui salta fuori l’ottimismo di Pierucci perché poi così descrive la sua casa: “le scale erano guaste, i muri interni scrostati e anneriti dal fumo, le finestre con i vetri mancanti, dal tetto diversi coppi rotti lasciavano che l’acqua cadesse in cucina (e da questa nella stalla dei buoi)”.

Si sfoga Settimio Gambuli (le confidenze di un gran rifiuto) di Gianfranco Ricci Intervista pubblicata da “La Nazione” il 29 maggio 1986. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 9.


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Per cinque anni ha tirato una carretta pesantissima e un po’ cigolante. Qualche volta ha sgobbato tacendo, in altre occasioni ha ruggito dimenticandosi anche (con apprezzato stile) della tessera che ha in tasca. Ora Settimio Gambuli, comunista di lunga data e di prestigiosa milizia, lascia («finalmente» – sussurra lui) la presidenza dell’Unità sanitaria locale di Perugia. È questione di giorni. Pochissimi. Giusto il tempo di consegnare alla storia (e alle fatali polemiche…) il «Silvestrini». Il nuovo ospedale che ha alle spalle una vicenda più lunga della novella dello stento. Ma visto un pochino più da vicino, chi è Gambuli? Cosa si nasconde dietro a quella facciata da «burbero benefico», pronto a esplodere cedendo ad un istinto che non sempre fa comodo ai riti della politica? Gambuli ha accettato di radiografare se stesso negli studi di «Tef». Ed ha parlato con molla schiettezza. Presidente si sente un padre storico del Pci umbro? «Ognuno nella vita interpreta, a un certo momento, il ruolo di padre. Oddio… se guardo l’anagrafe, oggi preferirei fare il nipotino». Cinque anni sulla graticola… «Era un dovere che ho cercato di assolvere al meglio. È stata una fatica notevole. E spesso mi sono chiesto chi me l’abbia fatto fare. Ora arrivo esausto al gran rifiuto. Sono consapevole di aver lavorato sodo per un traguardo che merita la mia fiducia. Mi dispiace soltanto d’aver constatato, non solo l’ostilità degli avversari della riforma sanitaria, ma anche la scarsa energia dei difensori, compresi, per certi versi, anche quelli iscritti al partito al quale appartengo». È dura impegnarsi all’Usl: però le ambizioni sono parecchie… «Tutta questa gran corsa non la vedo. Il fatto è che non ci sono, in vista, le medaglie, ma le denunce. Però chi fa politica ha bisogno di sottoporsi a prove». Ma è giusto che un settore specialistico come la sanità sia gestito dai politici? «Bisogna esser franchi: la politica va guidata dai politici. Non credo che i tecnici abbiano diritto di amministrare la cosa pubblica per il solo fatto di avere una laurea. Semmai le loro conoscenze possono essere una qualità in più, se hanno anche talento politico. Piuttosto devo sottolineare il fatto grave che la legge non s’è ancora


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decisa a fissare in modo chiaro le responsabilità dei politici e quelle dei tecnici. Ecco, è questa, la confusione». Si dice che voi uomini di partito vogliate essere tuttologi… «È un errore italiano il supporre che la politica sia una corsa ad arraffare. È, invece, una scienza che tende a soddisfare le esigenze degli uomini, abbracciando, se possibile, il mondo». Gambuli, cosa c’è nel suo futuro? «Nel cassetto di ognuno di noi si celano i sogni di un altro mestiere. Andrà a finire, però, che il fervore di sempre mi condurrà sulle strade consuete. Comunque, io preferisco la politica all’amministrazione». Il Pci sta attraverso una fase delicata… «I comunisti avvertono l’esigenza di essere all’altezza dei tempi che verranno. È bello guardare il passato, ma e più affascinante scrutare il futuro». E lei ci si riconosce in questo Pci scosso dai fermenti dalle più recenti generazioni? «Guai se i padri pensano che i figli portano alla rovina. Bisogna mettersi con quelli che cercano di andare avanti, io non faccio problemi di età… anche perché sarei sempre dalla parte di quelli che perdono. E poi i movimenti dei giovani sono sempre diretti da qualche vecchio». Succede, però, che la stella di certi vecchi, come Ingrao, cessi all’improvviso, di brillare… «Ingrao rimane un grande. Tante volte ha vinto e ha perso. Nel ‘67 rasentò quasi la scomunica. Poi è riemerso. Il fatto è che nel nostro partito ognuno porta solo se stesso. Da noi l’individuo ha un ruolo. Altrove quel ruolo lo hanno le correnti». Com’è cambiato il Pci da 40 anni a questa parte? «È diverso l’ambiente nel quale viviamo. Prima c’era un paese di affamati che uscivano dalla guerra. E il partito comunista rappresenta questo momento. Forse ci volevamo più bene, allora. Chi veniva dalla Resistenza aveva un senso dell’affratellamento molto più forte. Però le idee circolavano meno di oggi. È importante coltivare l’intelligenza e consentire al meglio di emergere. Guai se i giovani non camminassero». Comunque i ventenni sembrano sfiduciati… «Noi eravamo tutti fascisti, con la divisa da balilla. E questa rego-


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la s’è trasformata in un enorme bisogno di libertà. Questa frenesia credo che appartenga anche ai giovani d’oggi». Grazie all’esempio di voi politici? «No, noi potevamo fare di più. Specie negli ultimi venti anni. Ma rifiuto l’idea che i ragazzi tendano a ritirarsi solo nel privato». Torniamo un po’ alla Sanità, la grande imputata… «Si parla spesso male, per esempio, dell’ambiente nel quale agisce il servizio di emodialisi. Sono accuse in parte fondate. Ma stiamo marciando in avanti. Al “Silvestrini” attrezzeremo un distaccamento di dialisi per decongestionare gli affollamenti. E la stessa cosa sarà fatta nelle periferie, a Marsciano, Gubbio. Poi il pensiero va a soluzioni più avanzate: non solo l’espianto, ma anche il trapianto. Perugia “trapianterà” presto». L’Usl perugina è contenta di sé? «I bisogni aumentano ogni giorno. E vengono anche stimolati. Certo, c’è molto da fare. Sì, il rischio è che il tribunale della pubblica opinione italiana faccia d’istinto pollice verso. Però se ragiona ci assolve. Abbiamo compiuto passi significativi. Una sola citazione: oggi realizziamo il trapianto del midollo con macchinari modernissimi. E puntiamo (ecco la grande aspirazione) a rendere efficiente la medicina preventiva. Sarebbe fondamentale chiudere le stalle prima della fuga dei buoi. Abbiamo responsabilità? Mah… mi chiedo perché tutte le Usl d’Italia siano sotto processo. La verità è che ci hanno scaricato addosso il peso di una riforma che non è stata sostenuta dall’alto. Hanno venduto le loro colpe a quelli che stanno sotto. Siamo il capro-espiatorio di un’azienda-Italia che non funziona bene. In una classe, se tutti gli scolari vengono bocciati, vuol dire che il somaro è l’insegnante».

Giunte con la Dc Scritto ricostruito sulla base di succinti appunti di un intervento fatto in Federazione in occasione del formarsi di giunte composte da comunisti e democristiani prima a Città di Castello (1988), poi a Gualdo Tadino per una rottura del centro sinistra cui seguì la formazione di una giunta DC-PCI. Archivio personale, cartella n. 6, fascicolo n. 8, D.Isuc.

La linea di fondo della Dc è vecchia ma ha forze e uomini che


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hanno una presa nuova nella società, come comunione e liberazione o come Malfatti. Che creano attraverso la chiesa nuovi rapporti con la società (volontariato, corsi di studio). Il rapporto con la società apre spazi nuovi alla DC ma anche problemi nuovi. Non credo si debba lavorare per “dividere” la DC, ma per aprire al suo interno contraddizioni reali: a Città di Castello dentro la Dc vi sono momenti strumentali ma anche contraddizioni reali. Anche a Gualdo Tadino sta succedendo la stessa cosa. Allora dove cerchiamo di intervenire e come? Certamente, come dicono alcuni di noi, sui grandi temi della pace e della solidarietà e certo una parte del mondo cattolico dovrà venire a sinistra ma, ma c’è in corso in quelle due città una grossa battaglia che ha appassionato tutti. Allora questa non è forse un fatto di democrazia e di partecipazione bello di fronte alla piattezza che c’è altrove? Solo con i grandi problemi non si va avanti. Allora il problema è degli obbiettivi politici concreti. A Gualdo Tadino: come riportare il Psi entro l’alveo delle sinistre nella chiarezza? Come impedire l’isolamento del Pci nelle prossime elezioni comunali? Questi i problemi: il malessere potrebbe ricaderci addosso; perché l’esperienza storica ci dice che su quella linea non è facile l’unità nello stesso Pci. Sì, dovevamo battere il centro sinistra, dovevamo dividere le forze del centrosinistra, ma per fare cosa? Per andare alle elezioni. Allora lo sbocco sarebbe stato diverso. Come rimediare oggi? Dicono i compagni “raccogliamo firme”, ma basta? Io avanzo una proposta: perché non fare un referendum? Preparato seriamente, con atti formali del Consiglio comunale, ponendo il problema se a Gualdo si tratta di fare “supplenza” alla crisi del centro sinistra per dare un governo sino al 1990, oppure se il problema è quello di andare oggi o a primavera alle elezioni, e andarci come a Città di Castello attraverso le elezioni e con la volontà della città e delle forze politiche.


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La svolta del Pci Intervento all’Assemblea regionale del Pci 1-2 dicembre 1989 pubblicato in “Cronache Umbre”, 1 febbraio 1990. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 6, D.Isuc.

Questo che noi più anziani abbiamo vissuto è stato un secolo diviso in due: la prima metà fatta di due guerre mondiali e grandi rivolgimenti, la seconda dominata dalla guerra fredda: l’epicentro dell’una e dell’altra è stata l’Europa. Il secolo ha visto la crescita di grandi movimenti di massa e la nascita dei nuovi stati del terzo mondo, la diffusione mondiale delle teorie rivoluzionarie, la rottura verticale dei movimenti progressisti e socialisti. In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito ad un rilancio del capitalismo che ha dimostrato attraverso una profonda ristrutturazione – pagata dai lavoratori e dal terzo mondo – la propria vitalità, e ad una crisi crescente sino alla esplosione (per fortuna, o meglio per merito, di Gorbaciov pacifica) dei paesi di cosiddetto “socialismo reale”. Oggi, come all’improvviso, scopriamo che la fatica della trincea è finita, che sono finiti gli svantaggi ma anche i vantaggi che ne derivavano a molti. Per vivere, tutti nessuno escluso, debbono in primo luogo guardare le cose in modo diverso. I grandi problemi che ha di fronte l’umanità esigono che si volti pagina. Il domani non è il seguito di ieri. All’est ciò è visibile, non c’è solo crisi economica e povertà materiale. Quei regimi hanno prodotto una grande povertà di ideali. All’ovest, secondo me, la crisi c’è seppure ancora non sia visibile. C’è infatti oggi tensione nell’economia e malgrado la diffusa ricchezza materiale nei paesi ricchi vi sono zone estese di povertà e nel terzo mondo c’è una enorme miseria. C’è una forte povertà morale ed ideale. Voglio dire che se Bush va all’incontro di Malta è anche perché sente che il suo paese ha di fronte gravi problemi economici, politici ed ideali e che la via del riarmo ad oltranza è sempre meno compatibile con l’avvenire dell’umanità. In questo quadro vorrei guardare per un attimo alla storia di tanti della mia generazione. La guerra ci investì, cercammo strade nuove, mantenemmo alla base della nostra ricerca gli ideali di pace, libertà, giustizia, uguaglianza.


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Nella lotta trovavamo il Pci di Togliatti, lo strumento che ritenevamo adatto a portare avanti quegli ideali, a trasformare la vecchia e sclerotica società italiana. Ed il partito nuovo di Togliatti trovò un milione e più di giovani. Con essi superò vecchie visioni dei compagni “del ‘21” e con essi il partito è divenuto grande, forte ed ha retto agli assalti delle classi reazionarie, ha contribuito in modo determinante a dare al paese libertà, costituzione, repubblica, progresso. A noi il partito ha dato tutto – forza, ideali, dignità – ed ha ricevuto tutto. Nel partito abbiamo trascorso una vita, abbiamo sofferto e gioito assieme, milioni di uomini, donne, giovani. Ed il partito così è divenuto in molti periodi totalizzante e, va detto, ha rischiato e rischia di trasformarsi da “strumento” in “fine”. Rischia di essere Voltaire e religione con i suoi riti ed i suoi cerimoniali, con le sue icone ed insegne. Sì, il Pci è stato un mezzo potente d’avanzata delle masse povere, dei braccianti, dei mezzadri, degli operai. È stata la speranza di uno stato diretto dagli onesti, una grande forza democratica e progressiva al servizio del paese, un impulso continuo alla vecchia società italiana. Siamo fieri d’aver vissuto dentro questa forza, d’esserne stati soggetto ed oggetto, credo che di questa organizzazione politica ne sarà fiera domani la storia d’Italia. Ma se le idee, le utopie, restano, i tempi, i modi, i costumi, le genti cambiano e gli strumenti che hanno aiutato quelle società a crescere divengono obsoleti. Così è per gli attrezzi di lavoro, così è stato nella società italiana: i partiti del risorgimento e della prima Italia unita sono scomparsi o ridotti a poca cosa. Ed oggi quel nostro strumento, il partito, mostra la sua usura. Il comunismo ovunque realizzato ha mostrato limiti enormi e durezze inaudite. Certo ha trovato ieri (Dubcek a Praga) e trova ancor più oggi forze interne che vogliono trasformarlo, renderlo democratico (Gorbaciov), ma per far questo esse devono percorrere “vie nuove” e trovare forme nuove per il “Partito” e per lo “Stato”. Oggi Gorbaciov dice che resta la grande meta del comunismo ma oggi egli vuole fare nel suo paese un socialismo democratico. Sì, proprio così ha detto: un socialismo democratico. E se lui si propone di realizzare in Urss un socialismo democratico, noi quante tappe dovremmo saltare per andare al comunismo? Oggi in Italia credo che tutti noi vorremmo la


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unità delle forze di sinistra e di progresso per realizzare l’alternativa al quarantennale potere Dc, vorremmo umanizzare la società, contribuire alla costruzione di un governo mondiale ed in particolare allo sviluppo del terzo mondo. Per realizzare questi obiettivi basta soltanto dare un’aggiustata allo strumento partito? In questi anni ci siamo adeguati e riadeguati ma siamo al 25-27% ed eravamo al 34, abbiamo perso verso destra e non viceversa, continuiamo a perdere, il partito e il nostro elettorato invecchiano. La sinistra è divisa, una parte – il 13% dell’elettorato – è al governo con la Dc, i Sindacati hanno davanti le grandi difficoltà causate da una ristrutturazione che ha profondamente mutato il volto della occupazione operaia disgregandola ampiamente e, questi sindacati, spesso sono divisi. Non so voi, ma io sono rimasto colpito durante e dopo il 18° Congresso per la assoluta mancanza di discussione che c’è stata su alcuni temi che hanno rimesso in discussione nostre idee di base come la nonviolenza, la leva militare, la fine del centralismo democratico, l’annuncio di una costituente per fare una nuova grande formazione di sinistra. Non si capì allora la portata di quelle novità o si fece finta di non capire convinti che le cose sarebbero restate coma prima? Troppi equivoci, riserve, mediazioni, troppo sapore di gattopardi! Sì anch’io sono stato colpito dal “modo”, dalla forma, con cui Occhetto ha presentato la sua proposta. Ma oggi sento che finalmente si discute sul serio, che vengono fuori le differenze, e di questo oggi abbiamo bisogno. Le mediazioni rischiano di annacquare tutto, e invece c’è urgenza di posizioni diverse ma chiare, tutte legittime, tutte capaci di sollecitare tutto il partito a discutere per scegliere la strada da seguire, realizzare e innovare. Abbiamo bisogno di discutere per darci un programma chiaro, un partito strumento dei tempi nuovi, per avvicinarci nel concreto a quelle idee per le quali tutti noi, seppure in epoche diverse, siamo entrati nel Pci. Ci si chiede con chi, chi entrerà nella nuova formazione. Di questo vorrei parlare anch’io, in un altro intervento. Qui vorrei solo dire due cose. Dobbiamo rivolgerci a quella che abbiamo chiamato sinistra sommersa, c’è cioè di uscire dalle sezioni, di andare fra la gente. In secondo


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luogo avverto l’esigenza di una linea politica nei confronti del Psi perché sino ad oggi il nostro atteggiamento m’è parso schizofrenico ed esso non viene affrontato come si deve neppure nella relazione di Occhetto.

L’ottimismo della razionalità “Cronache Umbre”, Dicembre 1990. Archivio personale, cartella n. 8, fascicolo n. 6, D.Isuc.

Come nel disegno di Romeo Mancini, tracciato nella copertina di questo libro, Maschiella ti veniva incontro sempre sorridente. Un abbraccio, una pacca sulle spalle, una battuta. Lo faceva con tutti quelli che conosceva, umili o potenti che fossero. Era il suo carattere estroverso, il suo gusto di incontrare gente, di stare assieme, la sua voglia di raccontare e discutere che gli uscivano fuori spontanei e prepotenti. Lodovico era un uomo che sapeva ridere e piangere, capace d’arrabbiarsi e subito dopo tornare a discutere, di sbagliare e ricercare nuove vie, pieno di vita e di interessi, ottimista e, diciamolo, piacevole commensale sia per la sua capacità di far vivere una conversazione ricca e brillante, sia per l’apprezzamento che sapeva fare della buona tavola. Giudizi da intenditore così come quando parlava di letteratura, di economia, di politica. Un uomo venuto, come s’ama dire, dal nulla, che nell’incontro con la durezza della vita non ripiega su se stesso, ma lotta, vuole capire, vuole e pretende di dare nell’interesse di tutti. Un uomo che vive e matura dentro questo secolo aspro e che aspramente sembra avviarsi alla sua conclusione, dentro questo paese che esce dalla miseria e s’arricchisce ingigantendo però squilibri e tensioni, in questa Umbria che lui impara ad amare profondamente per le sue genti laboriose, per le sue città, per il suo patrimonio storico ed artistico. E Alberto Stramaccioni, con questo snello libretto, ha il merito di farci vivere con Maschiella le vicende di questo ultimo mezzo secolo. Dagli anni quaranta, alla sua morte, ad oggi.


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Un libretto prezioso, cui, forse, dovrebbe seguire un’edizione completa o almeno molto vasta degli scritti di Lodovico. Un modo questo per offrire non solo agli storici, ma anche alle nuove generazioni, una idea meno schematica e più ricca delle vicende della nostra terra, delle sue genti, delle forze sociali e politiche che ne hanno guidato quella profonda trasformazione che Stramaccioni ripercorre con grande capacità di sintesi. Alla fine dello studio di Stramaccioni si ricava la convinzione che Lodovico si stesse preparando agli anni futuri, al 2000 e che avesse la cultura e la capacità per farlo. Non era stato facile per Ludovico uscire dal mondo contadino, dall’odio per il padrone (si veda il capitolo sull’arresto a pagina 9 e seguenti) e assieme dal rispetto timoroso e dalla paura di una legge che è sempre contro i poveri (“si può fare? mi spetta? c’è la legge?”: questo chiedevano sempre i contadini). Uscire anche da una certa cultura aurea che aveva imparato in seminario, ma che era profondamente subordinata all’ordine esistente. Uscire per dipanare la propria vita entro un progetto ricco di idealità e di sogni, ma assieme profondamente pratico e concreto, capace di rigettare visioni manichee e stupide demagogie dalla vista corta per cogliere quello che di più profondo avevano indicato uomini come Gramsci su temi come il fordismo e la questione meridionale o come il Togliatti dell’inserimento nello stato moderno della classe operaia.


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Nell’archivio 1973-1990 Cartella n. 6 Fascicoli dal Primo al Settimo

Cartella n. 7 Fascicoli dal Primo al Quarto

Cartella n. 8 Fascicoli dal Primo al Nono

Cartella n. 6 Primo fascicolo - Appunti comizio dopo elezioni del 20 giugno (1976) - Appunti comizio per crisi governo (1976) - Appunti su congresso regionale del Psi (1976) Secondo fascicolo - Appunti comizio fine 1975 - Appunti comizio per elezioni (1975) - Appunti comizio dopo elezioni (1975) - Appunti comizio elezioni politiche (1976) - Intervento ad attivo regionale del Pci (Assisi 1976) Terzo fascicolo - Saluto a Ingrao Presidente della Camera in visita ufficiale a Perugia (Sala dei Notari, 1977) - Lettera del gruppo regionale della Dc a Gambuli su soluzione problema presidenza del consiglio regionale (27 gennaio 1978) - Lettera ai capigruppo regione per problema presidenza (6 gennaio 1978) - Intervento su terrorismo (Sala dei Notari, 24 novembre 1977) - Iintervento su attività della Regione (inizio 1978) - Intervento per elezione ufficio di presidenza della Regione (in agenzia ACS settembre 1977) - Intervento manifestazione contro terrorismo (caso Casalegno), Sala dei Notari 24 novembre 1977 - Conferenza presso Federazione Pci su terrorismo (febbraio 1978) - Insediato il nuovo ufficio di presidenza del Consiglio regionale in “La Nazione” del 6 agosto 1977 - Intervento Consiglio regionale su morte Moro (in agenzia ACS maggio 1978) - Intervento in Consiglio regionale su caso Conti (30 settembre 1976) Quarto fascicolo - Discorso su il Pci e i giovani (1977)


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- Dati statistici (1950-1976) - Appunti comizio per il 25 aprile (21 aprile 1977) - Appunti comizio a Gubbio su rivoluzione d’ottobre e oggi (13 novembre 1977) - Appunti comizio contro terrorismo (Sala dei Notari, 24 novembre 1977) - Intervento in Consiglio regionale su rapimento Moro, manoscritto e testo in Agenzia ACS, marzo 1978 - Riflessione dopo Moro (20 marzo 1978) Quinto fascicolo - Appunti su situazione politica e l’elezione Presidente Repubblica (luglio 1978) - Intervento (e appunti di altro) su crisi giunta regionale (fine 1978) - Appunti comizio su crisi governo (1978) - Appunti comizio su caso Lockheed (1978?) - Appunti comizio su situazione politica (1978-79) - Appunti stringati riunione su Rai (30 giugno 1978) - Referendum su “legge Reale” e finanziamento ai partiti: voterò NO: intervento a “Teleumbria” (1978) - Appunti intervento in consiglio regionale su uccisione tre giovani del Msi - Appunti intervento su tentato colpo di Stato in Spagna (febbraio 1981) Sesto fascicolo - Appunti: un anno dopo l’uccisione di Moro (Consiglio regionale 16 marzo 1979) - Appunti riunione dopo elezioni (1979) - Appunti comizio dopo elezioni (1979) - Introduzione a riunione Pci di amministratori pubblici (1979-80) - Appunti comizio elettorale a Città di Castello (1 giugno 1979) - Appunti comizio elezioni europee (Massa Martana, 6 giugno 1979) - Appello elettorale (Tele Aia, 1 gennaio 1979) Settimo fascicolo - Appunti discorso commemorazione compagno Arturo Ferranti (Cerqueto di Marsciano, 25 aprile 1980) - Appunti riunione elezioni 1980 - In ricordo di Giorgio Amendola (5 giugno 1980) - Lettera a “l’Unità” in risposta a articolo Munzi su “Corriere della Sera” (1980) - Appunti riunione per apertura giunte a Dc a Città di Castello e a Gualdo Tadino (1988) - Appunti comizio per elezioni amministrative 1980 - Mia relazione in vista elezioni 1980 - Appunti comizio a Bastia Umbra (7 ottobre 1980) - Note sui problemi informazione (1980?) - Relazione al Comitato regionale Pci su problemi della informazione (1979-80)


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Cartella n. 7 Primo fascicolo - Appunti intervento per presentazione libro “I cattolici tifernati nel 2° dopoguerra” curato da Don Torquato Sergenti (8 novembre 1980) - Corrispondenza Gambuli-Sergenti (1980-1981) Secondo fascicolo - Appunti comizio festa de l’Unità (1981) - Appunti comizio: la crisi delle Falkland (1982) - Appunti comizio festa primo maggio (1 maggio 1981) - Appunti comizio per 60° del Pci (1981) - Appunti comizio (1984) - Appunti comizio referendum su “scala mobile” (1984) - Intervento celebrazione 25 aprile a Umbertide (1985) - Copia intervista (Il Pci e gli studenti), settembre 1981 Terzo fascicolo - Mia conferenza su vita Francesco Pierucci (8 maggio 1986) - Appunti riunione: il Pci dal 33% al 216% dei voti (1983) - Estremo saluto a Silvio Antonini (1986) - Appunti conferenza su Togliatti e Gorbaciov (1987) - Dati sulla diffusione dei giornali in Cronache Umbre (1987) - Presentazione del libro di Solismo Sacco “Storia della resistenza nella zona sudovest del Trasimeno” (1991) Quarto fascicolo - Estremo saluto a Franco Imbroglini (25 novembre 1992) - Lettera ai giornali su tragedia Jugoslavia (26 maggio 1992) Cartella n. 8 Primo fascicolo - Relazione per avvio nuova serie di “Cronache Umbre” e appunti partecipanti e interventi (22 ottobre 1972) Secondo fascicolo - Appunti relazione preparatoria per nuova serie di “Cronache Umbre” di cui sarò direttore – interventi vari e notizie varie (1987) Terzo fascicolo - Opuscolo su “L’industria del tabacco nel quadro dell’economia e delle lotte operaie nella provincia di Perugia” (1951) - Articolo su programma elettorale di Città di Castello (“Il Comune” di Città di Castello, 15 maggio 1952)


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- Appello al voto di Città di Castello (“Il Comune”, 23 maggio 1952) - La lista elettorale del Pci di Città di Castello nelle elezioni amministrative (15 maggio 1952) - Articolo dal titolo “Agire cambiando strada” su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” (2 dicembre 1958) - Articolo dal titolo “Il Tabacco e la Fat” su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” (25 dicembre 1959) - Articolo “nuova unità per l’Umbria” su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” (1 marzo 1964) - Articolo “al confronto con la realtà” su “Il rinnovamento dell’Alto Tevere” (31 ottobre 1966) - Articolo “Cronache Umbre” – “7 ore di multa” (agosto 1955) Quarto fascicolo - Articolo “la forza dei comunisti” su “Cronache Umbre” (16 giugno 1956) - Articolo “Il Comune di Perugia e la Dc” su “Cronache Umbre” (agosto 1952) - Stralcio relazione alla conferenza regionale del Pci umbro su “Cronache Umbre” (12 luglio 1969) - Articolo “Come in Umbria le grandi lotte operaie e popolari pongono i problemi della società…” su “Cronache Umbre” (gennaio 1970) Quinto fascicolo - Dimissioni da Cicom (due copie lettere), aprile 1975 - Articoli vari e rubrica firma “Mig” su “Cronache Umbre” anni 1973-1974-1975 - Articolo su “Città di Perugia” dell’agosto 1974: il Cicom Sesto fascicolo - Articoli “Gruppo di combattimento Cremona” e “la Mattonata va alla guerra” su “Cittadino e Provincia” (giugno 1975) - Articoli su “Cronache Umbre” (1987-1990) Settimo fascicolo - Fotocopia studio “A trenta anni dal 1946: come hanno votato gli umbri” (su 2 numeri di “Cronache Umbre” fine 1979 – inizio 1980) Ottavo fascicolo e ottavo fascicolo bis - Originali della trasmissione in “Umbria Tv” dal titolo “La finestra” Ottavo fascicolo tris - Testi originali trasmissione “La Finestra” da “Umbria TV” (periodo giugno 1979-1980) Nono fascicolo - dichiarazione su ospedale “Silvestrini” (La Nazione, 10 agosto 1985) - intervista su dimissioni da Presidente Usl di Perugia (La Nazione, 29 maggio 1986)


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Discorso di commemorazione in ricordo di Settimio Gambuli tenuto dall’On. Alberto Stramaccioni, nel giorno dei suoi funerali il 4 aprile 2006, presso il Cimitero Monumentale di Perugia.


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Settimio Gambuli, che molti di noi hanno sempre chiamato Mimmo o Mimo, ci ha chiesto di ricordarlo in modo semplice, al di fuori di ogni iniziativa istituzionale, prima di essere cremato. Questa sua ultima volontà testimonia di per sé lo stile, la discrezione e la laicità, con cui ha vissuto la sua esistenza e ha pensato all’atto conclusivo di una vita. Una vita intensa e semplice, vissuta per 83 anni, prima a Città di Castello e poi dagli inizi degli anni ’50 a Perugia, in quella che è diventata la sua seconda città. Uomo colto e intelligente, sobrio e ironico, modesto e saggio, qualche volta un po’ disincantato, ma al tempo stesso appassionato ed impegnato. Una vita dedicata alla politica e alla famiglia, ma anche a tante altre occupazioni, dalla pittura alla lettura, dalla scrittura al giornalismo, dalla passione per la cucina al giardinaggio. Una vita impegnata, che ha voluto raccontare con grande intensità narrativa, in un libro, terminato di scrivere proprio qualche giorno fa, prima di essere ricoverato in ospedale. Un libro che purtroppo sarà pubblicato solo dopo la sua scomparsa, con una prefazione che è in realtà la testimonianza di Walter Veltroni, il quale da tempo conosceva Gambuli. Con questa sua ultima pubblicazione, Mimmo ha voluto ripercorrere le tappe principali della sua vita e ha scelto di dargli un titolo emblematico: “La mia Umbria”. Anche in questo caso ha rifiutato ogni enfasi sulle proprie scelte politiche ed ideologiche, preferendo richiamarsi alle esperienze di vita vissuta nel corso del ‘900, nella sua terra, in Umbria, alla cui gente, storia e tradizioni si sentiva profondamente legato e di cui si considerava espressione, anche per il particolare affetto che lo legava alla sua Città di Castello. Una vita spesa principalmente nell’impegno e nella passione politica, al servizio di un progetto di società più giusta, più libera e più umana.


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Nato negli anni Venti, cresciuto sotto il regime fascista, dopo l’8 settembre ’43, partecipò alla lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo. Prima si impegnò in una formazione partigiana operante in Umbria, la “Brigata S. Faustino” per poi combattere insieme agli alleati, nelle città del Nord, nel “Gruppo di combattimento Cremona”, sul fronte di Ravenna, durante l’avanzata da Alfonsine a Venezia. Da questa prima, drammatica ed intensa esperienza, dove strinse molte amicizie per la vita, ne ricavò un libro dal titolo “A Gaeta a far gavette”, che testimonia la scelta di un ventenne, uguale a molti altri giovani, che decide non certo sorretto da particolari convinzioni ideologiche, di combattere contro le violenze e i soprusi della dittatura fascista e nazista. Questa esperienza lascerà un segno importante nella sua vita. La ricerca continua delle forme e delle espressioni politiche per comunicare valori significativi come quelli della democrazia e della libertà, sanciti dalla Costituzione Repubblicana, saranno in seguito i riferimenti costanti della sua azione intellettuale e sociale. Diplomatosi maestro elementare, dopo la fine della seconda guerra mondiale lascia l’impiego pubblico al Comune di Città di Castello e sceglie di diventare dirigente, prima del movimento sindacale, della Cgil e poi del Partito comunista in Alta Umbria e a Gubbio, sostenendo in particolare le lotte e le rivendicazioni dei minatori, delle tabacchine e dei mezzadri. È un periodo molto duro e difficile quello degli anni Cinquanta, soprattutto per il Sindacato e per il Partito comunista, a causa delle forti discriminazioni politiche e anche delle difficoltà economiche che vivevano coloro che avevano scelto di diventare “rivoluzionari di professione”. Ma Gambuli riesce a superare le difficoltà del momento, anche grazie alla solidarietà dei cittadini e del partito e al sostegno affettuoso della moglie Silvana, operaia della Spagnoli. Nel 1963 viene eletto Segretario della Federazione provinciale del Pci di Perugia e ricopre questo importante e prestigioso incarico politico, negli anni di una forte crescita organizzativa ed elettorale dei comunisti, sia in Umbria che in Italia. L’impegno di direzione politica, si intreccia nella vita di Gambuli, con quello della rappresentanza istituzionale nelle assemblee elettive.


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Negli anni Cinquanta e Sessanta è prima Consigliere Comunale a Città di Castello e poi a Perugia. Negli anni Settanta, non senza qualche contrasto ed amarezza ricopre l’incarico di Segretario Regionale del Pci e di Consigliere Regionale fino ad essere eletto nel 1977 Presidente del Consiglio Regionale dell’Umbria. Sono gli anni delle più intense lotte operaie e studentesche verso le quali Settimio Gambuli è particolarmente attento e sensibile e proprio allora si consolida la sua immagine di leader politico dotato di una certa popolarità, anche per la sua disponibilità al dialogo e per il modo appassionato ed efficace con cui tiene i suoi comizi o gli interventi pubblici, guadagnandosi peraltro anche la stima e la considerazione dei leader dell’opposizione democristiana. L’impegno senza tentennamenti per la difesa delle istituzioni democratiche, contro l’attacco terroristico, lo vede impegnato in un confronto diretto con tanti giovani studenti, che simpatizzano anche per le posizioni politiche più estremistiche. Nei primi anni Ottanta Gambuli, da sempre appassionato dei mezzi di comunicazione di massa, creatore di manifesti e slogan particolarmente efficaci per la propaganda politica, si sperimenta nell’attività giornalistica attraverso un mezzo nuovo, come era allora quello della televisione locale. Conduce una rubrica settimanale particolarmente seguita su “Umbria Tv” dal titolo “La finestra” e coordina un incontro periodico con due protagonisti, chiamato “Senza rete”. In quegli anni diresse poi una antica rivista di politica e cultura del Pci come “Cronache Umbre”. Nel corso degli anni Ottanta assolverà anche ad un compito strettamente amministrativo, il primo nella sua esperienza, nel settore sanitario, ricoprendo il ruolo di Presidente del Comitato di gestione dell’Usl, giungendo ad un risultato significativo come l’avvio del trasferimento di alcuni reparti medici dall’Ospedale di Monteluce al Silvestrini di San Sisto. Settimio Gambuli ha dunque vissuto la sua lunga esperienza politica in modo intenso e appassionato, ma anche con una precisa caratterizzazione culturale ed ideale, fino ad accogliere con speranza e fiducia la svolta del Pci nel 1989, anche se poi non tutti i cambiamen-


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ti avvenuti, dal Pci, al Pds, ai Ds, negli anni successivi, sono stati da lui condivisi. Aveva avvertito, forse prima di altri, la necessità di un radicale cambiamento della politica e del partito, in un mondo che mutava rapidamente. Caparbio, tenace, orgoglioso della sua autonomia politica e intellettuale, da esprimersi dentro e fuori il partito è rimasto comunque fino all’ultimo, iscritto ai Democratici di sinistra. Una forza politica che considerava essere comunque l’unica in grado di rappresentare al meglio, non solo la tradizione popolare e riformista del Pci, ma l’identità di una sinistra laica e moderna in grado di governare efficacemente il paese, nell’interesse della grande maggioranza dei cittadini. Quello riformista, laico, democratico e di governo era un profilo politico che condivideva, al quale ha sempre coerentemente tenuto. La sua capacità di guardare al futuro si ancorava ad un’attenta considerazione del passato e delle radici storiche della sinistra italiana. Estimatore di Palmiro Togliatti e del progetto del “partito nuovo”, Settimio Gambuli è stato uno dei principali protagonisti di quella generazione di dirigenti che dopo la guerra ha costruito il Pci in Umbria. Faceva parte ed era espressione di un gruppo dirigente che aveva al suo interno sensibilità politiche, competenze, concezioni della politica e del potere diverse, ma comunque tutti animati dall’obiettivo di trasformare l’Umbria da una regione mezzadrile, povera ed arretrata, in una regione più ricca ed industrializzata e con una rete diffusa di protezione sociale . Un progetto ambizioso che il gruppo dirigente del Pci umbro perseguì con determinazione e in modo unitario, insieme ai socialisti e ai democristiani più aperti. Ma soprattutto insieme alle forze sociali e imprenditoriali. Il tutto in un rapporto di “scontro costruttivo” con il governo nazionale, attraverso le lotte per la programmazione democratica dello sviluppo. Nacque e si sviluppò in Umbria, una tra le prime regioni in Italia, un movimento sociale e politico composito, il quale chiedeva di attuare un progetto di modernizzazione della regione che poi si e attuò negli anni Settanta con l’istituzione dell’Ente Regione. Un obiettivo questo, tenacemente perseguito da un diffuso e unitario fronte regionalista.


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Settimio Gambuli è stato quindi uno dei protagonisti di questa stagione del regionalismo umbro dove si voleva “la Regione anche con il diavolo”. Si impegnò per questo obiettivo, negli anni Sessanta e Settanta, insieme ad altri dirigenti del Pci della sua generazione, come Gino Galli e Ludovico Maschiella, Francesco Innamorati e Vinci Grossi, Ilvano Rasimelli ed Alfio Caponi, Raffaele Rossi e Pietro Conti, Ezio Ottaviani, Bruno Nicchi, Pino Pannacci, Gustavo Corba, Umberto Pagliacci, Alfredo Ciarabelli, Silvio Antonini, Bruno Meoni, Eclo Piermatti e tanti altri. Una generazione, composita e rappresentativa dell’insieme della realtà regionale, che sui temi fondamentali per lo sviluppo economico e sociale dell’Umbria dialogò apertamente con i leader delle altre formazioni politiche di maggioranza e di opposizione con personaggi come Vincenzo Ciangaretti, Fabio Fiorelli, Massimo Arcamone, Sergio Ercini, Domenico Fortunelli, Sergio Angelini e molti altri. E dai temi della giustizia sociale, questo dialogo si intensificò su quelli della pace e della non violenza con una personalità come quella di Aldo Capitini, ideatore della marcia per la pace Perugia – Assisi. Settimio Gambuli, insieme ad altri, si distinse in questo confronto con i diversi rappresentanti di altre culture e movimenti, come l’uomo disposto al dialogo, anche con le posizioni politiche più lontane da quelle del suo partito. E in particolare, lui ateo, si confrontava con passione, soprattutto con quei cattolici impegnati nelle lotte sociali o antifasciste o in quelle per i diritti civili. Quella di Gambuli quindi è stata un’esperienza politica e umana lunga e intensa, vissuta per tanti decenni assieme alla sua famiglia e in particolare alla moglie Silvana, con cui si era sposato nel 1957 e dalla cui unione sono nati i figli Massimo e Mauro dai quali ha poi avuto due nipoti, Ivan e Valerio. A loro, privati della possibilità di poter vivere ancora accanto ad un uomo giusto e generoso, va il cordoglio per la scomparsa di Mimmo. Caro Mimmo ci hai chiesto di ricordare la tua esperienza umana e politica. Noi l’abbiamo fatto cercando di raccontare la coerenza di una vita, spesa per affermare gli ideali di giustizia e libertà, che hai cercato il più delle volte di interpretare senza alcun pregiudizio ideo-


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logico. Questa è stata in fondo la visione laica della politica e della vita che ci lasci: credere e combattere per i propri ideali con passione e determinazione, nel rispetto delle ragioni degli altri. Un insegnamento che ci sentiamo di poter condividere e raccogliere. Spero con questo di aver interpretato bene le ragioni e le passioni di una vita. Ăˆ comunque cosĂŹ che noi vogliamo ricordarti. Perugia, 4 aprile 2006

Alberto Stramaccioni


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A Abbozzo Paolo 123 Agrifoglio Renzo 122 Alcini 246 Allione Miro 123 Almirante Giorgio 261, 262 Alunni Pierucci Francesco 7, 39, 46, 61, 67, 76, 121, 122, 124, 223, 224, 291, 325, 326, 338 Amato Giuliano 114 Amendola Giorgio 51, 57, 78, 236, 321 Anderlini Luigi 125, 232, 247, 279 Andreotti Giulio 104, 105, 283 Angelini Luigi 124 Angelini Sergio 347 Angelucci Mario 121, 287 Antonini Mauro 239 Antonini Silvio 121, 122, 125, 213, 338, 347 Arcamone Massimo 103, 299, 301,347 Arpino Remo 122 B Baioletti Carlo 125 Baldassini (sindaco Gualdo Tadino) 124 Baldelli Angelo 123 Baldelli Pio 50, 62, 121, 294 Bambini Adolfo 43, 123 Baranti Giancarlo 125 Baroncini Lucia 127 Barro Gianni 122 Bartesaghi Ugo 195 Bartolini Giampaolo 101, 126 Bartolini Mario 123 Bassetti Piero 271

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Bastreghi Alfiero 124 don Battilani 317 Bazzarri Claudio 126 Bazzucchi Luigi 121 Bei Clementi Giuseppe 39, 121,122 Belardinelli Mario 123 Belia Fausto 100 Belillo Katia 98 Bellaveglia Siro 122 Bellini Gianni 121 Bellini Luigi 122 Benedetti (tipografo) 35 Benedetti Rosina 121 Benes Edvard 55 Berardi Antonio 124 Berlinguer Enrico 78, 93, 99, 104, 105, 113, 126, 266, 267 Bernacchi Agostino 121, 123 Berlusconi Silvio 113 Biancospino 315, 317 Bocca Giorgio 30 Boccia Maria Luisa 127 Boffa Giuseppe 48 Boldrini Eugenio 126 Bonanni Giuliana 110 Bonaparte Napoleone 23, 111 Borghese Junio Valerio 126 Bottaccioli Francesco 125 Bottaccioli Giancarlo 125 Bottaccioli Giampaolo 125 Bracco Fabrizio 125 Brinati Sante 124 Brunella Nicola 122 Burocchi 38 Bush George 331


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C Calamandrei Franco 81, 236 Capitini Aldo 64, 65, 86, 96, 347 Caprini Elio 57, 121, 122, 213, 214 Capobianco Sergio 110 Caponi Alfio 40, 57, 122, 125, 126, 203, 213, 347 Caporali Angelo 126 Capponi Vittoria 15 Carbonari 214 Carnevali Orfeo 108 Carnieri Claudio 92, 93, 94 Carossino Angelo 101 Casoli Giorgio 107 Catanelli Marcello 125 Cavalaglio Umberto 121, 122 Cavargini Sergio 202 Cecchetti Libero 32, 38, 122, 125 Cencetti Gino 66 Cervelli Liliana 122 Cesarini Marcella 58 Chiaromonte Gerardo 76, 77 Churchill Winston 195, 306 Ciangaretti Vincenzo 347 Ciarabelli Alfredo 121, 347 Ciliberti Venanzio 35 Cipiciani Federico 125 Ciuffini Fabio 126 Colombi Arturo 236 Comparozzi Emidio 121 Conti Domenico 123 Conti Pietro 65, 66, 70, 76, 85, 88, 89, 101,102, 103, 121, 125, 126, 300, 347 Coppi Fausto 53 Coppi Sergio 126 Corba Gustavo 61, 89, 91, 121,122, 124, 125, 234, 347 Corghi Corrado 246 Corvalan Luis 98 Cossiga Francesco 114 Cossutta Armando 105, 264, 287, 289 Covino Renato 125 Craxi Bettino 105 Crispi Francesco 184

Settimio Gambuli. La mia Umbria

D D’Alema Massimo 114 Damiani 202 D’Amico Carmelina 41 D’Annunzio Gabriele 99 De Bono Emilio 21 De Chirico Michele 124 De Gasperi Alcide 33, 52, 171, 307 De Lorenzo Giovanni 72, 245, 246, 262 De Mita Ciriaco 256, 295 Di Gioia Amos 57 Di Giulio Fernando 93 Dorigo Wladimiro 246 Dubcek Alexander 332 Dulles Foster 195 E Eisenhower Dwight 195 Ercini Sergio 347 Ermini Giuseppe 82 F Facchini Oreste 39 Fagioli 213 Falcini Alessandro 312 Faloci Serafino 121, 122, 123 Fancelli Stefano 98 Fanfani Amintore 7, 52, 189, 197, 216, 217, 218, 219, 225, 316 Fanti Guido 101 Fedeli Armando 121, 122, 203, 224 Filippi Giorgio 125 Fiordelli Lilo 123 Fiorelli Fabio 103, 123, 299, 308, 347 Fiori Giuseppe 100 Fittaioli Luciana 121 Fittaioli Italo 122 Fogu Gianni 123 Fontanelli Dante 123 Fonti Caterina 121 Forlani Arnaldo 105 Fortunelli Domenico 347 Franchi 214 Franco Francisco 23


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G Gabriotti Venanzio 29, 309, 314 Galli Gino 12, 51, 58, 65, 66, 67, 70, 75, 82, 100, 101, 102, 110, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 201, 202, 203, 207, 225, 239, 347 Gallo Orazio 31 Gambuli Ivan 347 Gambuli Marietta 21 Gambuli Massimo 64, 347 Gambuli Mauro 64, 347 Gambuli Oreste (detto Gamonchio) 20, 22 Gambuli Silvana 14, 53, 54, 64, 83, 109, 344, 347 Gambuli Valerio 347 Gandhi Mahatma 65 Gerardi Aldo 109, 127 Ghini Celso 34 Ghirelli Carlo 39 Giolitti Antonio 263 Giometti Paolo 124, 125 Giovanni XXIII Papa (Angelo Giuseppe Roncalli) 64, 72, 228, 246, 316 don Giovagnoli 29 don Giuseppe 45, 174 Gobbi Fausto 122 Gobetti Piero 123, 320 Goracci Alberto 56, 88, 108,121, 122, 125 Gorbaciov Michail 111, 331, 332 Grassi Amos 57 Gramsci Antonio 88, 123,172, 242, 320, 335 Graziani Augusto 21 Gronchi Giovanni 194 Grossi Vinci 62, 65, 74, 85, 90, 112, 122, 123, 124, 125, 203, 347 Guerrini Mario 121 Guevara “Che� Ernesto 72, 244 H Hitler Adolf 23, 25, 195 Ho Chi Min 72

I Indovina Francesco 123 Ingrao Pietro 6, 7, 48, 69, 70, 80, 81, 89, 92, 94, 96, 125, 227, 236, 244, 286, 287, 310, 328, 336 Innamorati Francesco 53, 122, 123,124, 125, 234, 347 Insolera Italo 123 J Johonson Lyndon 250 K Kennedy John 64, 72, 227, 228, 229, 316 Kosygin Aleksei 250 Kruscev Nikita 48, 49, 64, 72, 316 L Lama Luciano 103 La Sorsa Saverio 125 La Volpe Alberto 104 Lazzaroni Giovanni 122, 239 Lenin (Vladimir Ilic Uianov detto) 242 Lok Wilma 110 Lombardini Siro 123 Longo Luigi 80, 236, 240, 241, 266, 287 Loreti Vincenzo 123, 213 Luigetti Renato 124 M Malfatti Franco Maria 330 Malvetani Luigi 293, 294 Mancini Alberto 121, 123, Mancini Giovanni 100, 127 Mancini Romeo 110, 334 Mancini Umberto 121 Mandarini Francesco 101 Manna Lucio 110 Mantovani Enrico 125 Manuali Carlo 77, 99, 100, 122, 126 Mao Tse Tung 38, 43, 72 Marcantoni Novello 123 Marchionni Flavia 127 Marconi Lamberto 123, 213 Maretici Fernanda 121


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Mariani Ilio 123 Mariuccini Ugo 125 Marri Germano 99, 122 Martinelli 314 Martini 39 Martini Primetta 122 Marx Carlo 181 Masetti Albertino 121, 203 Masi Giacomino 121 Massarelli Renzo 93 Maschiella Lodovico 59, 61, 121, 123, 125, 126, 334, 347 Mc Carty Joseph 195 Mecucci Gabriella 127 Megni Gianni 124 Melloni Mario 195 don Menghi 174 Menghini (professore) 121 Menotti Giancarlo 96 Meoni Bruno 122, 347 Mercati Ugo 108, 109 Micheletti Walter 122 Micheli Filippo 123, 246 Miglioli Guido 53 Migliucci Mario 125, Minciaroni Fausto 121, 122 don Minciotti 317 Modena Marzio 300 Mineo Mario 85, 225, Monaldi Sonia 15 Monterosso Mario 122 Morrone Francesco 125 Moro Aldo 7, 52, 99, 104, 105, 219, 220, 291, 309, 336, 337 Mussolini Benito 22, 23, 184 N Natali Mario 125 Natta Alessandro 110, 240 Navoni Nive 121 Nenni Pietro 247 Nicchi Bruno 58, 84, 87, 91, 92, 93, 94, 101, 121, 123,124, 124, 125, 191, 192, 223, 277, 278, 281, 347 Nucci Alessandro 121

Settimio Gambuli. La mia Umbria

Nucci Giuseppe 46 O Occhetto Achille 113 Orebaugh Walter 29 Orsi Edda 122 Orsini Bruno 125 Ortolani Paolo 123, 124 Oswald Lee Harvey 229 Ottaviani Ezio 126, 347 Ottolenghi Marinella 123 Ottolenghi Mario 125 P Pacciardi Randolfo 245 Pagliacci Umberto 121, 122, 124, 347 Palazzari 40 Pallucchi Franco 123, 124 Panfili Edda 121 Pajetta Giancarlo 78, 82, 236, 240 Pannacci Giuseppe (Pino) 15, 35, 121, 122, 347 Paoloni Claudio 125 Papalini Egidio 122 Parlavecchio Vincenzo 33 Parri Ferruccio 125 Passerini 122 Pastore Giulio 216 Patacca Giuliano 124, 126 Pazzaglia Ottavio 123, 124 Pecorari Quinto 102, 122, 123 Pella Giuseppe 216 Pelloux Luigi 184 Pertini Sandro 105 Perugini 314 Petrelli Giovanna 127 Petrini 213 Petrucci Americo 246 Pesaresi Cesare 124 don Piastrelli Luigi 29 Piccoli Flaminio 245, 257, 263 don Pieggi 314 Pieraccini Giovanni 60, 79 Pierangeli 28, 314 Pierangeli (professoressa )71


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Piermatti Eclo 125, 347 Pillitu Luigi 67, 124, 246, 314, 317 Pinochet Augusto 98 Pitassio Armando 125 Pomini Roberto 302 Potenza Mario 57 Preti Giulio 269 Prodi Romano 114 Proietti Franco 93 Provantini Alberto 90, 127 Pucci 213 Puletti Ruggero 34 Q Quaglia Ostelio 121, 124, 125 R Radi Luciano 196, 197 Rasimelli Ilvano 73, 77, 89, 90, 122, 123, 125,126, 281, 347 Reagan Ronald 111 Ricci Gianfranco 326 Ricci Sante 124 Riccioni Paolo 108 Ridolfi Persiano 121 Rocchetti Lorenzo 125 Rommel Erwin 24 Rosati Amedeo 122, 214 Rosati Giovanni 122 Roscini Clara 122 Roscini Marco 126 Rossa Guido 105 Rossi Raffaele, 82, 101, 121, 122, 125, 126, 240, 347 Rossetti Antonio 121, 123 Rosso Ermanno 121 Ruby Jack 229 don Rughi Luigi 29 Rumor Mariano 245 S Santi Mario 123 Sartoretti Luciano 125 Savoia Umberto 31 Scaramucci Gino 102, 121, 123

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Scelba Mario 43, 50, 170, 192, 193, 216, 233, 254, 271, 292 Schicchi Riccardo 121 Scoccimarro Mauro 48, 178 Segni Antonio 215, 216 Seguenti Aldo 126 Selvi Gianna 122, Seppilli Tullio 122, 124, 125, 126, 280 Serafini Marino 123, 124, 213 Sereni Marina 98 Sergenti Torquato 313 Serra Mario 123 Simonucci Anna Gloria 125 Solinas Pasquale 99 Sonaglia Celestino 123 Spataro Giuseppe 217 Spinelli Claudio 38 Spitella Giorgio 60, 246 Stalin (Josif Vassirionovic Dzugasvili detto) 30, 35, 43, 49, 111 Stevenson Arold 229 Stramaccioni Alberto 6, 9, 13, 14, 110, 125, 334, 335, 342, 348 Svolacchia Giorgio 125 T Taba Dario 121 Tambroni Fernando 62, 63, 189 215, 216, 217, 224 Tenerini Riccardo 37, 121 Thatcher Margaret 111 Tito (Josip Broz detto) 64 Tittarelli Luigi 124 Tomassini Ennio 123 Tondini Enea 121 Toni Antonio 123, 213 Togliatti Palmiro 30, 36, 37, 43, 48, 49, 50, 51, 61, 64, 65, 66, 78, 80, 97, 88, 123, 127, 173, 200, 201, 233, 242, 287, 332, 335, 338, 346 Toppetti 214 Toscano Gianni 96, 122 Trastulli Luigi 86 Tremonte Walter 125 Trenta Gino 123


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Trottini Wanda 124 Turchi 314 U Uccellani Gianni 121 Fratelli Ugolini 35 Ummarino Aldo 63 V Valenti Remo 102, 121, 123, 213 Valori Dario 125, 247 Vanoni Ezio 52 Veltroni Walter 11, 343 Venditti Antonello 104

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Settimio Gambuli. La mia Umbria

Venturelli 314 Venturini Remo 122 Vergoni Marco110 Volpi Mauro 125 Voltaire (Francois Marie Auret detto) 332 W Wojtila Karol (Giovanni Paolo II) 111 Worker generale 229 Z Zaganelli Stelio 38 Zeta 172 Zuccherini Nazareno 123


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