PADIGLIONE ITALIA
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In copertina: Rossella Biscotti - You have to be focused “The Undercover Man�, 2008 fotografia, pennarello rosso Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani. 4
DALL’INTERNO
L'Italia vista 9 Dal confine La rana in croce 15 Da Ginevra Parole a spasso (per l’italia) - Intervista a Philippe Daverio 23 Da Parigi Le Futurisme: n’est pas un mot français - Intervista a Giovanni Lista 33 Da Rotterdam The Undercover Man - Intervista a Rossella Biscotti 43 Disidentità italiane Gli Italiani la fanno meglio 57 Da Urbino Pittura dove? Pittura come? 65 Da Venezia Lista d'attesa 77 Da Milano L'ultima di Gianni - Flavio Favelli 87 Guardo e Riguardo 92 5
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“Dobbiamo fare un piccolo atto di umiltà e prendere atto del fatto che non contiamo più nulla. L’Italia è un paese che è stato cancellato dagli schermi radar del mondo. Con l’eccezione del nostro passato, se arrivasse uno tsunami e non ci fosse più l’Italia, nessuno se ne accorgerebbe” Carlo De Benedetti
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“Il mondo dell’arte italiano a differenza di quello politico è sempre stato un mondo bipolare; oggi l’Arte Povera, domani la Trans-Avanguardia. Oggi Burri domani Guttuso. Oggi Cattelan domani Vezzoli. Tutto quello che accadeva in mezzo è spesso andato perso non esistendo un sistema museale in grado di sviluppare un panorama equilibrato e più ampio.”
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Francesco Bonami
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Bianco-Valente Materia prima, 1995-2008 Cartina geografica e chiodo da 10 cm 21 x 30 x 6,5 cm Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli
L’ITALIA VISTA di Marco Neri
Padiglione Italia è un nuovo trimestrale a diffusione gratuita interamente dedicato all'arte italiana moderna e contemporanea nel mondo. Un progetto che nasce dalla considerazione che la crisi di sistema che sta investendo anche l'arte italiana non sia solo economica, ma ben più profonda, estesa ed anche preoccupante di quanto appaia. Possibile che il contributo che gli artisti italiani hanno sempre saputo offrire alla scena internazionale, in tutte le epoche ed in ogni decennio del “secolo breve” - spesso trainandola - si sia inaridito al punto di scomparire quasi completamente? Ragionare su questo arretramento, capirne le cause, osservare a fondo il problema e da
più punti di vista, è uno dei motivi fondanti di questa testata, convinti come siamo che l'arte italiana, accesa, brillante ed acuta se non trainante - lo sia tuttora e non per partito preso. Dunque guarderemo in lungo e in largo l'Italia attraversandola città per città, da Bolzano a Palermo. Il nostro viaggio dentro la situazione italiana comincia dal confine, da Bolzano appunto, dove Emanuela De Cecco ci racconta in dettaglio quello che è successo in una delle poche città che un bellissimo museo dedicato all'arte contemporanea ce l'ha, ma da cui ha subito preso le distanze. Dopo Bolzano sarà la volta di Ginevra - e in questo caso non è la città ma la nostra Bria - che domanda ad uno degli esperti
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01 d'arte più nazional-popolari della penisola le ragioni del declassamento italiano sulla scena internazionale. Sempre con Ginevra ce ne andremo poi a Parigi, dove è stata messa in discussione addirittura l'italianità del Futurismo proprio mentre se ne festeggia il centenario. Dopodiché ci sposteremo a Rotterdam insieme a Gianni Romano, per conoscere da vicino Rossella Biscotti, una giovane artista italiana che con un lavoro dedicato a sua volta all'attività di un altro “italiano all'estero” ha catturato il nostro interesse. Per riprenderci dalla trasferta la tappa successiva si consumerà tra le mura di casa, ovvero dentro l'elettrodomestico più amato dagli italiani: un viaggio dentro la TV in compagnia di Marco Senaldi. A seguire un breve soggiorno nella città natale di Raffello guidati da Luigi Carboni, per vedere da vicino alcuni tra gli studenti più interessanti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino e cominciare ad osservare da vicino
Lorenzo Scotto di Luzio La vita è una merda, 2002 Inchiostro su carta, cm 21x29,7 Cremona Collezione privata
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lo stato di salute della creatività italiana fin dai suoi spazi di produzione più giovane. Dopo Urbino saliremo a Venezia, dove Alfredo Sigolo ci informa su quel che sta accadendo da quelle parti, dopo la discussa mostra di Francesco Bonami e prima di sapere come sarà il prossimo Padiglione Italia - quello ufficiale - quest'anno alla Biennale di Arti Visive. Il viaggio si concluderà a Milano, dove andremo a vedere una mostra per niente “fashion” una volta tanto. Questo è il programma del primo numero di Padiglione Italia ed ora si parte. Seguiteci, ne vedrete delle belle.
L’ITALIA VISTA
Riccardo Gusmaroli Sicilia, 2002 cm 92x116, carta stradale piegata Courtesy dell'artista
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DAL CONFINE
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LA RANA IN CROCE L’arte come presenza anfibia
Queste riflessioni, primissima parte di una ricerca più ampia, nascono da quasi un anno di osservazione a distanza ravvicinata di una vicenda travagliata. La vicenda in questione riguarda il museo d’arte contemporanea di Bolzano e i fatti accaduti a partire dalle proteste per l’esposizione dell’opera di Martin Kippenberger (la “rana crocefissa con un boccale di birra in mano”) di cui molto si è letto e ascoltato dalla primavera del 2008 ad oggi. Non credo sia una buona idea liquidare questa controversia come un episodio di per sé irrilevante, credo piuttosto che tentare di capire i diversi punti di vista dei soggetti che in questa storia hanno avuto un ruolo attivo (la direzione del museo, i politici, i media, il pubblico…) possa fornire molti elementi utili per comprendere il funzionamento di una macchina complessa come un museo d’arte contemporanea. In presenza di un conflitto, i soggetti coinvolti rendono esplicite le proprie posizioni in maniera molto più leggibile rispetto a quando tutto procede senza ostacoli. Nel caso specifico di Bolzano non è difficile riconoscere che il nodo principale del conflitto
di Emanuela De Cecco
ruota attorno alla delicata questione del rapporto tra una presenza molto più visibile rispetto al passato (il Museion è infatti attivo da vent’anni) e l’identità del territorio. Come è accaduto in moltissimi casi – uno dei più eclatanti è il Guggenheim Museum di Bilbao progettato da Gehry – è un dato acquisito che un museo d’arte contemporanea sia uno degli elementi capace di contribuire in modo significativo all’avvio di un processo di trasformazione del luogo stesso, andando ad agire appunto sull’identità del luogo stesso. Ma questo processo innescato dai “contenitori” è proprio delle opere d’arte in essi contenute. L’idea di trasformazione, da quando l’arte ha incluso la possibilità che, cambiando di contesto, un oggetto x possa diventare un’opera, è un punto cardinale dell’arte della contemporaneità. Date queste premesse, è evidente che il conflitto provocato dalla presenza della rana va ad inscriversi in un conflitto più ampio e difficilmente evitabile, tra chi pensa l’identità come elemento dinamico e chi la pensa come elemento definito, pertanto resistente alla trasformazione. 17
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È possibile pensare che il corto circuito sviluppatosi tra queste due visioni radicalmente differenti sarebbe, prima o poi, comunque esploso, innescato da altri possibili pretesti. In questo complesso gioco delle parti, uno dei ruoli più complicati è quello dell’amministrazione, in quanto da un lato, nell’investire molte risorse sul piano economico e simbolico, ha intenzionalmente dato il via a questo processo, ma allo stesso tempo sa che la perdita di contatto con la parte di comunità refrattaria alla trasformazione ha delle conseguenze. Non c’è dubbio che il museo abbia giocato la carta della provocazione, così come è chiaro che la provocazione sia un’arma a doppio taglio. Come atto di comunicazione funziona, ma la reazione innescata probabilmente in questo caso ha assunto un peso superiore a qualunque previsione. In tutto questo, il paradosso è, e lo affermo avendo ben presente il pesante costo personale e sociale per le 18
persone coinvolte direttamente in questa vicenda, che il conflitto ha fatto emergere dei nodi già esistenti, cosa che non sarebbe accaduta con una conduzione più rassicurante o orientata all’intrattenimento. Il conflitto di per sé è una risorsa: quando un problema sommerso diventa visibile, è possibile comprendere meglio dove e su quali aspetti è necessario intervenire. Sarebbe stato molto peggio, nonostante tutto, se la reazione fosse stata distratta o indifferente. La situazione si complica quando le visioni contrapposte si consolidano e i contendenti si irrigidiscono ognuno nella propria posizione ritenendola immutabile: il rischio è che una spinta di grande apertura si trasformi in una spinta di altrettanta forza ma nella direzione opposta. La conseguenza è lo spostamento verso scelte difensive e la rinuncia ad una risorsa come l’arte, preziosa proprio in quanto presenza interrogante. Di seguito un primo riepilogo sintetico delle
LA RANA IN CROCE
Le tappe principali della controversia. Alla fine di maggio del 2008 apre al pubblico il nuovo edificio del museo d’arte contemporanea di Bolzano progettato dagli architetti berlinesi KSV. Sguardo periferico e corpo collettivo è anche la prima vera e propria mostra con cui la direttrice svizzera Corinne Diserens inaugura il suo mandato. Qualche mese prima, a cantiere aperto, il museo si era aperto alla città per 24 ore. È l’occasione per “la cittadinanza e per tutti coloro che desiderano ‘appropriarsi'di questa struttura pubblica all’interno del tessuto urbano, di rendersi conto di come siano stati spesi soldi pubblici e verificare dal vivo come e quanto sia possibile ridurre la distanza tra arte contemporanea e pubblico cui è destinata” (A.A, 14/12/2007). All’anteprima il pubblico accorre numeroso. I commenti sui giornali sono positivi, qualche voce diffidente c’è ma è la minoranza. Quando in primavera, parte la tre giorni di apertura del museo, si conferma la stessa percezione. L’edificio è pieno di visitatori, in città arrivano in molti anche da fuori.
Martin Kippenberger “Rana crocefissa con un boccale di birra in mano” Museion - Bolzano 19
01 Ma l’ultimo giorno il clima cambia. Scoppia la polemica che catalizzerà l’attenzione generale fino alla chiusura della mostra e oltre. Il settimanale locale di lingua tedesca Zett esprime a voce alta il proprio dissenso per la presenza in mostra di Zuerst die Fusse, scultura in legno dell’artista tedesco Martin Kippenberger (1953/1997). Si tratta di una rana crocefissa che ha in una mano un boccale di birra, nell’altra un uovo, esposta nell’atrio, in alto. È considerata un oltraggio ai valori della cristianità, il giornale raccoglie la disapprovazione espressa dalle autorità locali politiche e religiose che chiedono che la rana crocefissa venga tolta dalla mostra. Da qui in poi per il Museion non c’è più tregua. I giornali danno ampio spazio alla vicenda, i politici anche, c’è chi fa lo sciopero della fame, le comunità religiose insorgono, nei blog si moltiplicano le discussioni, nascono aperitivi dedicati e gadget. Tutti prendono posizione, pro o contro. Nel frattempo cresce il numero dei visitatori che vanno a vedere con i propri occhi il lavoro incriminato. All’inizio di luglio la direzione del Museion organizza una tavola rotonda dove critici,
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storici dell’arte, e artisti sono chiamati a discutere sulla violenza delle immagini. Il tentativo è di inserire il problema specifico relativo all’opera contestata in un quadro di riflessione più ampio ma, dopo le battute iniziali, la rana e i suoi fantasmi riprendono il centro della scena. Il pubblico è numeroso ed eterogeneo, emergono posizioni profondamente differenti, si colgono le ragioni e le passioni che hanno contribuito a determinarle. La protesta non si placa. Gli amministratori locali chiedono nuovamente di eliminare la scultura, la direzione del museo non cede ma copre l’opera con le fotocopie della ricca rassegna stampa raccolta sino a quel momento. Pochi giorni dopo, con l’ennesima pressione, la rana è spostata al terzo piano, vicino ad altri lavori dell’artista. Nel frattempo lo staff del Museion prosegue la sua attività di contatto con la cittadinanza. Gli incontri si tengono nei diversi centri della provincia, il fine è spiegare e ascoltare le reciproche ragioni. A fine luglio il Papa va a Bressanone per trascorrere un periodo di riposo. Il vescovo di Bolzano lo incontra e denuncia il suo
LA RANA IN CROCE
sconforto per la presenza della scultura ritenuta offensiva nei confronti della comunità cattolica. A seguire, in una lettera resa pubblica dal presidente del consiglio regionale, il Papa si allinea al suo dissenso. Il clima si riscalda nuovamente, in autunno ci sono le elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale, a fine agosto il Cda del Museion mette ai voti il destino della rana e l’esito è favorevole a tenerla in mostra: la direttrice ottiene un risultato significativo che sembra rafforzare il suo ruolo e il suo operato. Passa qualche giorno e all’orizzonte compare un altro problema: questa volta entrano in campo i numeri e le divergenze di carattere politico, culturale e religioso, a detta dei protagonisti, restano da parte. Dalla valutazione del bilancio emerge che le spese sostenute siano molto maggiori di quanto stabilito. Il Cda del Museion prima sospende e dopo due settimane revoca l’incarico alla direttrice. La notizia è resa pubblica il giorno dopo le elezioni, ma il Cda sostiene che il provvedimento è autonomo tanto dalle elezioni, quanto dalla vicenda della rana. Dai commenti sui giornali e dalla ripresa delle discussioni sui blog si capisce che non tutti sono dell’idea che non ci siano relazioni tra la decisione presa, gli esiti delle elezioni, il braccio di ferro per la scultura contestata e la motivazione del licenziamento. A ruota, alcuni stretti collaboratori della direttrice perdono il posto. Alla curatrice Letizia Ragaglia è affidata la direzione ad interim. Al momento (novembre 2008) non sono ancora state rese note le intenzioni circa la nomina di un nuovo direttore/direttrice. 21
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DA GINEVRA
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Luciano Fabro L’Italia d’oro, 1971 Bronzo dorato cm 92x45 Collezione Artis Ph: Santi Caleca Courtesy “Italics” Palazzo Grassi, Venezia
PAROLE A SPASSO (PER L’ITALIA) Intervista a Philippe Daverio
Che cos’è l’arte italiana oggi? Oggi l’arte italiana non esiste più nella coscienza del pubblico. L’arte in quanto arte c’è nella propaganda, nel sistema grafico e nelle furbizie dedicate alle vendite, strategie che mettono in risalto riviste e spazi pubblicitari. E proprio lì dove appaiono sederi di ignoti e volti noti, lì vengono declamati un’enormità di geni indefiniti. Ormai l’universo intero è fatto di richiami e distrazioni. Lo stesso vale per il mondo dell’arte, sopra il quale troneggiano, quasi fossero eroi, poche icone di bravura e di pensiero, figure che, per intendersi, ormai piacciono solamente agli “anziani”. Poi esistono i grandi del mercato come Kiefer, o Hirst, nomi ben conosciuti dai signori di buona famiglia, quelli che non leggono libri di letteratura ma che usano il pretesto dell’arte per intonare il loro divano blu con un quadro altrettanto blu. Sono quelli che non conoscono le melodie di Schömberg né i diari di Rilke eppure ritengono perfetto e allo stesso tempo uguale un Kiefer messo vicino ad un dipinto di Ettore Tito. E'davvero tutto perduto? Sono presenti invece degli artisti di tipo più
di Ginevra Bria
artigianale che creano prodott-altri, oggetti che piacciono meno a chi ha i soldi per comprare e investire nell’arte. Molte volte io stesso mi dimentico i loro nomi anche se ora posso dire di Alviani come di Cuoghi di conoscerne, invece, a memoria, il loro percorso estetico. Ma benché l’arte non esista più non è detto che non ci sia. L’arte italiana non è solo in lutto. Questa non è più una mostrina internazionale, è vero, ma c’è una pulsione creativa enorme benché inaspettatamente e potenzialmente repressa. Le istituzioni infatti non guardano più all’arte come medium culturale, ma guardano in maniera diretta al pubblico, ai numeri dei visitatori cercando ad ogni costo la comprensione dell’opera d’arte in sè. Oggi persino il sistema semi-museale, come lo chiamo io, quello composto da particolari imprese culturali che offrono i propri spazi per esporre, non risale la grave china che sta portando l’arte contemporanea all’appiattimento. Bisogna allora chiedersi perché va poca gente al Castello di Rivoli o al Macro di Roma o nei nuovi spazi museali di Bologna? Perché si è formato un sottosuolo di gallerie e di 25
PAROLE A SPASSO (PER L’ITALIA)
A sinistra: Alighiero Boetti Tra sé e sé, 1987 Tecnica mista su carta intelata, 4 opere Cm 150 x 100 ciascuna Collezione Marco Noire e Silvia Chessa Courtesy “Italics” Palazzo Grassi, Venezia
galleristi, quelli che io chiamo i sacerdoti del nulla; quella casta di laureati con laurea breve, casta che espone solo per i propri amici vestiti di nero, quegli stessi ai quali venderanno le opere in mostra, mentre celebreranno la festa nel giorno dell’inaugurazione. Ecco cos’è successo al pensiero critico italiano: è incappato da tempo in una sorta di kindergarten diventando un pensiero analitico fumoso, fatto di nulla. Ma in verità a cosa è dovuta tutta questa fiacchezza? E'dovuta alla forte fiacchezza informativa che non arriva nemmeno al primo grado dell’imbarazzo. Nessuno oggi distingue più le cose. Niente è più diverso dal resto perché nulla va mai oltre lo scambio. E la merce in vendita inevitabilmente si eguaglia smorzando qualsiasi diversivo, qualsiasi scappatoia. Da anni, il pensiero filosofico manca di nomi. Nessuno riesce più ormai ad aggiungere livelli o a rielaborare un processo mentale di rinnovamento applicandolo ai più semplici progressi logici o ai dibattiti scientifici, o ancora agli studi sulle relazioni tra l’uomo e le cose. La situazione dell’Italia è quella di un paese eletto a diventare un palcoscenico a basso costo. Una quinta che serve da sfondo per le più becere scorrerie internazionali. Basta ormai wikipedia, per poter raggiungere in ogni momento una bibbia della nostra quotidianità. Sotto sotto, sotto questo muro da gran parata, eretto, per esempio dalle Istituzioni quali La Biennale di Venezia, sotto questo piatto e battutissimo grande palco c’è un’altrettanto grande produzione artistica. Gli italiani sono maestri nelle arti visive perché ne vanno continuamente alla ricerca. Proprio così come non si accontentano mai della cottura degli spaghetti, mai abbastanza perfetti. Ma questa potenzialità inespressa, questa gigantesca bomba al neutrone è latente ed è pronta ad esplodere. L’arte italiana, ad oggi, è dovuta passare, per farsi vedere, attraverso dei concessionari che hanno creato dei produttori e non degli artisti autonomi. A volte viene da pensare che la fiacchezza viene proprio dall’Opposizione che in Italia non controbatte nemmeno alla linea smorta di Bondi. Ministro che qualche tempo fa ha dichiarato Cascella come il più grande artista italiano di tutti i tempi. Ma in Italia però sono passati e restano altri grandi nomi dell’arte... Certo, anche se di conseguenza i grandi artisti viventi come Kounellis non restano. Il problema è che non permangono nella coscienza del paese, coscienza che è ben diversa dalla realtà. 27
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Lorenzo Scotto di Luzio Voglio diventare un artista famoso, 2002 Inchiostro su carta, cm 21x29,7 Courtesy Antonio Colombo, Milano
E'inutile risvegliarlo, questo pensiero sovversivo, bisogna adottare dei meccanismi di rottura che spacchino le reti della politica. Dunque, che gli artisti siano il faro di questa rivoluzione; che incarnino le figure di Seigner o di Scellini. Che emergano. Ma forse solo fra tre o quattro anni si potrà fare questa svolta radicale. Per ora l’Italia si sta solo preparando, anche se ad osservare le giornate di oggi, con i cortei degli studenti per le piazze, io credo non si possa fare fatica a credere che la rivoluzione stia formando un proprio pensiero. D’altronde, solo qualche giorno fa, i graffiti sono stati dichiarati ufficialmente reato, mentre le sottrazioni indebite per falso in bilancio continuano a 28
vagare impunite nei pelaghi della burocrazia italiana. Bisogna fare qualcosa per espellere dunque, per scomporre questi signorotti alla ricerca del quadro blu da mettere sopra il blu-divano.Quei signori, calciatori tutti ben pettinati, che fanno dell’artigiano della cultura un finto prodotto della cultura italiana. La società deve essere fatta per essere ricostruita costantemente e l’arte deve, attraverso la sua funzione precorritrice, correre il rischio di essere scomunicata. Quello che ha un brand non è arte ma è ormai direttamente inscrivibile in un mercato delle emozioni, un mondo che rischia di rendere l’uomo il protagonista di una
PAROLE A SPASSO (PER L’ITALIA)
gigantesca amnesia. Un uomo che non capisce i contorni che separano la retorica di Hirst da quella di Paladino. Nonostante tutto questo, l’Italia è piena di piccole realtà artigianali che affrontano le loro capacità non cercando alcuna opinione né alcun consenso, ma si dedicano alla comunicazione di universi che solo la storia, un giorno, deciderà poi come e quando divulgare.
Philippe Daverio è nato nel 1949 a Mulhouse, in Alsazia. Tornato in Italia per gli studi universitari, ha frequentato Economia e Commercio alla Bocconi di Milano. Nel capoluogo lombardo ha avuto inizio la sua attività di mercante d’arte.Quattro le gallerie d’arte moderna da lui inaugurate: due a Milano, le altre a New York. Specializzato in arte italiana del XX secolo, ha dedicato i suoi studi al rilancio internazionale del Novecento. Come gallerista ed editore – nell’81 ha inaugurato una casa editrice e nell’84 una libreria, sempre a Milano – ha pubblicato una cinquantina di titoli. Assessore a Milano dal 1993 al 1997 nella giunta Formentini, con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e Relazioni Internazionali, si è occupato del rilancio di Palazzo Reale di Milano, del suo restauro, e del riposizionamento del sistema museale nell’insieme del patrimonio civico. E’stato fra i promotori delle fondazioni (Fondazione Teatro alla Scala, Fondazione Pierlombardo, Fondazione dei Pomeriggi Musicali) intese quali strumento di autonomia e di osmosi tra pubblico e privato nelle istituzioni culturali, ed ha promosso e seguito alcuni lavori pubblici significativi, tra cui il completamento del Piccolo Teatro e del Teatro dell’Arte in Triennale.Opinionista per “Panorama”, “Vogue”, “Gente”, scrive regolarmente per il Sole 24 Ore e saltuariamente per il Corriere della Sera; è inoltre consulente per la casa editrice Skira. Dal 1999 inizia la sua fortuna televisiva in qualità di “inviato speciale” della trasmissione di Raitre Art’è, nel 2000 è conduttore della trasmissione Art.tù, sempre su Raitre. Attualmente è autore e conduttore di Passepartout, programma d’arte e cultura su Raitre, trasmesso anche da Rai International e Rai Sat che ha avuto grande successo e riconoscimento di critica e di pubblico (Premio Flaiano nel 2003, PremioLino e Premio Tiziano nel 2004 ). Daverio si occupa anche di strategia ed organizzazione nei sistemi culturali pubblici e privati, è docente Ordinario presso la facoltà di Architettura di Palermo ed è incaricato di un corso di Storia dell’arte presso lo IULM di Milano, laurea in Comunicazione e gestione dei mercati dell’arte e della cultura, e di corsi di Storia del design presso il Politecnico di Milano. 29
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PAULY & C. | CVM Fondamenta L. Radi, 24 - 30141 Murano (Venezia) - P.O. Box 515 Ph. +39 041 5209899 - Fax +39 041 5203118 - info@pauly.it - www.pauly.it Pauly, CVM, MVM and Pauly Glass Factory are brands of Pauly & C. - CVM | Compagnia Venezia Murano
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DA PARIGI
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Francis Picabia, Udnie, 1913 ( Jeune fille américaine ; La Danse) Centre Pompidou, Mnam, Paris© Adagp, Paris 2008 © Collection du Centre Pompidou, diffusion RMN, photo Philippe Migeat
LE FUTURISME: N’EST PAS UN MOT FRANÇAIS Intervista a Giovanni Lista
Il 15 ottobre 2008, al Centre Georges Pompidou di Parigi, si è inaugurata la mostra Le futurisme à Paris. Une avant-garde explosive che approderà poi a Roma (alle Scuderie del Quirinale, dal 20 febbraio) e a Londra (alla Tate Modern, dal 12 giugno). Qual è stato il suo ruolo, professor Lista, all’interno di questa retrospettiva coordinata da Didier Ottinger? In Francia, secondo una prassi consolidata da anni, le mostre sono organizzate in modo esclusivo dai conservatori dei musei che chiedono agli specialisti del settore di collaborare al catalogo, ma mai di esserne gli organizzatori. Anche in questo caso, Didier Ottinger ha assunto il ruolo di curatore della mostra, chiedendomi di aiutarlo nella definizione della mostra stessa e di collaborare con due scritti al catalogo. Come avviene da sempre, è il conservatore del museo ad apparire ufficialmente come il solo curatore,
di Ginevra Bria
anche se dietro le quinte le cose si svolgono in modo diverso. Lei è un critico e uno storico d’arte italiano, ma vive a Parigi da 40 anni. Secondo lei, che posizione bisogna prendere di fronte all’idea di affidare i veri natali del Movimento ad una sorta di primigenio Futurismo d’Oltralpe? Tutta l’arte moderna è di ceppo francese, a partire dall’impressionismo. Quindi, pur avvalendosi del divisionismo di Previati, che a sua volta era nato dopo il neo-impressionismo e il post-impressionismo, i futuristi devono molto alla Francia. Marinetti era di cultura italo-francese. In ogni caso, c’è un rapporto fortemente dialettico tra cubismo e futurismo. Ognuna delle due correnti ha cercato di attuare un’assimilazione critica delle regole plastiche dell’altra. La mostra al Pompidou indaga l’esposizione dei futuristi alla galleria parigina 35
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LE FUTURISME: N’EST PAS UN MOT FRANÇAIS
Chez Bernheim-Jeune (nel febbraio del 1912), rivelando conflitti e divergenze tra il fronte futurista e quello cubo-futurista, e operando una ricostruzione dal forte valore simbolico. Secondo lei, questa lettura è anacronistica oppure, come è stato detto, si tratta di una sciovinista “appropriazione indebita del Futurismo” da parte dei Francesi? Assolutamente no. Lei si riferisce ad un articolo del Corriere della Sera che è stato il frutto di una totale incomprensione. Posso spiegarle meglio di chiunque la situazione perché ne sono il protagonista. Quando mi sono trasferito in Francia tanti anni fa, il futurismo italiano era considerato da tutti come una variante provinciale del cubismo francese. Ho lottato per anni, pubblicando saggi e articoli, affinché fosse riconosciuta l’originalità della nostra avanguardia nazionale. Poi, nel 2001, ho pubblicato un libro in cui, affinando la mia strategia, ho dedicato un intero capitolo al “cubofuturismo parigino” spiegando che perfino il cubo-futurismo russo non è stato importato dall’Italia, ma da Parigi, quindi i francesi sono costretti ad ammettere che in Francia non si faceva solo cubismo. Didier Ottinger non sa l’italiano e sa molto poco dell’arte italiana. Si è limitato a mettere in scena quel capitolo del mio libro che, tra l’altro, esce ora in italiano da Silvana Editoriale. Per me è una grande vittoria che i francesi ammettano finalmente che il futurismo abbia avuto un forte impatto su Parigi, con la formazione del cubofuturismo in Delaunay, Léger, Duchamp-Villon, Duchamp, Kupka, ecc. Nel suo testo in catalogo, Didier Ottinger ha perfino ripreso pari pari tutte le citazioni che avevo fatto nel mio libro per sostenere una tesi da sempre rifiutata da parte francese. Quindi non si tratta assolutamente di una “appropriazione indebita”, ma di un gesto di apertura in cui per la primissima volta, in modo onesto, viene riconosciuta in Francia l’importanza dell’avanguardia italiana. Non dimentichi che, fino all’avvento della Pop Art, nelle università di tutto il mondo la storia dell’arte moderna era limitata allo studio del cubismo francese.
Georges Braque, Le Viaduc à L’Estaque, 1908, Paris Centre Pompidou, Mnam, Paris © Adagp, Paris 2008 © Collection du Centre Pompidou, diffusion RMN
La mostra Le futurisme à Paris. Une avant-garde explosive è un omaggio alle origini di un’avanguardia che in Italia è stata lungamente demonizzata. In fondo il Manifesto di Fondazione del Futurismo ricevette anche gli onori della stampa su Le Figaro. Secondo lei, nel percorso della mostra, è davvero leggibile un elogio eccessivamente nazionalista, di tipo francese? Sì, c’è un fondo di sciovinismo e di nazionalismo, com’è consuetudine per i francesi. 37
01 Però bisogna pur ammettere che a quell’epoca Parigi era il centro del mondo per quanto riguarda l’arte e la cultura. Pensi ad esempio in che modo avrebbe potuto finire un artista come Van Gogh senza recarsi a Parigi. Il curatore, Ottinger, ha posto al centro il viaggio oltralpe degli avanguardisti italiani, una visione tesa ad analizzare le corrispondenze e le contrapposizioni tra i dinamismi futuristi e le scomposizioni cubiste. Questa scelta è un modo per attenuare l’originalità dirompente dell’avventura marinettiana? E'quindi giusto ridimensionare l’importanza del secondo futurismo (fase talvolta segnata da manierismi sebbene profetica in ambiti come il design, l’architettura e la moda)? Non si tratta di sminuire l’importanza del futurismo, ma di capire la dialettica che c’è stata tra due approcci formali diversi. In fondo, tanto il cubismo quanto il futurismo sono un patrimonio comune della cultura europea che stiamo costruendo. E'interessante allora cercare di capire cosa si sia “importato” da una parte e dall’altra delle Alpi, perché Delaunay e Léger si siano interessati alle idee futuriste e cosa Boccioni abbia visto nei quadri di Picasso. Per quanto riguarda il futurismo tra le due guerre, il problema è molto più ampio nella misura in cui fu costretto a sopravvivere all’interno di una dittatura. Comunque per me è stato molto importante, proprio in termini di opposizione e resistenza nei confronti della cosiddetta “arte fascista”. In mostra a Parigi non si fa menzione del futurismo post-bellico, caratterizzato dal confronto con il Regime mussoliniano: 38
è il momento in cui l’avanguardia si fa conservazione e le rotture si ricompongono dentro simmetrie rigide. La mostra che lei curerà a Milano dal 5 febbraio 2009 quali temi, invece, indagherà? Come dunque riproporre l’attualità futurista oggi, in una contemporaneità tesa continuamente al superamento di un passato al quale però si fa sempre volentieri ritorno? A Parigi non se ne fa menzione per il semplice motivo che per i francesi tutto esiste solo a partire dalla Francia. Quindi Didier Ottinger ha centrato tutto intorno alla mostra del 1912 dei futuristi a Parigi, capitale europea dell’arte e della cultura. Per la mostra milanese, che sto preparando con Ada Masoero, ho deciso di proporre una visione storiografica serena e matura del futurismo in seno all’arte italiana: come si è articolato, cos’ha proposto sul piano dei valori formali, da dove è venuto e dove è finito. La mostra comincerà da Previati e si concluderà con Fontana, passando ovviamente attraverso Boccioni e Prampolini, ma escludendo le figure minori che non hanno conquistato un posto duraturo nella storia. Voglio proporre una visione da manuale e non un guazzabuglio di pittori poco significativi, anche se attivi al seguito di Marinetti. Il futurismo, oggi, va consegnato alla storia. Per quanto riguarda l’attualità del futurismo oggi, per me, prima del mondo delle idee artistiche viene innanzitutto un’attualità di natura etica e morale. Se le raccontassi tutto quello che mi sta succedendo per l’organizzazione di questa mostra, capirebbe subito il senso del più grande insegnamento del futurismo che risiede nella volontà di collaborare, di costruire insieme un volto nuovo e unitario
LE FUTURISME: N’EST PAS UN MOT FRANÇAIS
del nostro paese, insomma di far tacere le rivalità e gli egoismi che sono alla base della pochezza della nostra cara Italia. Per me, la più grande attualità del futurismo è proprio questa. Sono sicuro che per Marinetti il superamento del passato significasse anche abolire la tradizione dei Capuleti e dei Montecchi, dei Guelfi e dei Ghibellini, da sempre causa della rovina degli italiani.
Giovanni Lista, nasce il 13 Febbraio del 1943 a Castiglione del Lago (Perugia). Dottorato in Letteratura Francese (Italia, 1970). Si stabilisce a Parigi dal 1970. Di nazionalità italiana ma francese residente. E'membro dell'International Association of Art Critics (A.I.C.A.) dal 1974. Dottorato i7n Arts and Humanities (Francia, 1985). Dal 1988, collaboratore della rivista d’arte “Ligeia, dossier sur l’art”. “Prix Georges Jamati” per il miglior saggio sulle arti e le scienze sociali pubblicato in Francia (1989). Membro della “Société des Gens de Lettres” dal 1996. “Premio Filmcritica” per il miglior saggio sul cinema e la fotografia Italiana (2002). “Premio Giubbe Rosse” per uno saggio autobiografico (2003). Direttore di Ricerca presso il “Centre National de la Recherche Scientifique” (C.N.R.S., Francia). Autore di libri, articoli, cataloghi e curatore di mostre d’arte ed eventi culturali per le avanguardie del XX secolo (futurismo, Cubofuturismo, arte italiana, fotografia, danza, regia).
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Liberi di pensare solo ai tuoi interessi
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DA ROTTERDAM
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THE UNDERCOVER MAN Conversazione con Rossella Biscotti
Rossella Biscotti è nata a Molfetta nel 1978. Dopo essersi diplomata in scenografia all’Accademia di Napoli ha scelto di trasferirsi in Olanda - a Rotterdam. L’intervista comincia dal suo ultimo lavoro, “The Undercover Man” (2008), un’installazione di video e fotografie presentata alla Prometeogallery nella Ex Chiesa di San Matteo a Lucca.
Rossella Biscotti - You have to be focused “The Undercover Man”, 2008 fotografie, pennarello rosso Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani.
di Gianni Romano
GR: “The Undercover Man” si basa sulla figura di Joseph D. Pistone (Pennsylvania, 1939), agente dell’F.B.I. che ha lavorato per sei anni come infiltrato nelle cosche mafiose newyorchesi sotto la falsa identità di Donnie Brasco, nome che successivamente è diventato familiare al grande pubblico grazie al film di Mike Newell (“Donnie Brasco”, 1997) e all’indimenticabile interpretazione di Johnny Depp. Cosa ti ha spinto a lavorare su questa storia? Ti sei innamorata del film o della storia di quest’uomo che passa parte della sua vita in incognito e lontano dalla famiglia? RB: Non sono particolarmente interessata alle storie di mafia, e non avevo visto il film “Donnie Brasco” prima di cominciare a lavorare su questa storia. Una notte guardando la TV mi è capitato di vedere un’intervista a Joe Pistone all’interno di un documentario della BBC sulla mafia italo-americana. Mi ha colpito proprio la sua persona, non riuscivo a capire chi era e di che parlava, sembrava raccontare qualcosa ma non 45
01 del tutto, come se trattenesse sempre qualche informazione. Mi intrigava come gesticolava, il suo modo di porsi, il suo modo di parlare… GR: Davvero? Ero convinto invece che fosse il concetto di clandestinità ad interessarti, passare parte della propria vita come Undercover Man. RB: Certo, il concetto di clandestinità è parte della sua figura e del suo essere. GR: A quel punto hai pensato di contattarlo? Avevi già in mente cosa fare? RB: No. Ho preso delle note e ho messo da parte la storia. Dopo 2 anni, quando ho saputo che sarei andata a New York, ho ripreso quelle note e ho iniziato fare delle ricerche.
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GR: Immagino non sia stato facile per te contattarlo. RB: Per niente, sembrava impossibile. Lui vive ancora incognito, sotto falsa identitá. Ho contatto molte persone che lavorano o lavoravano con lui, giudici, l’FBI, editori… insomma, ho sparso la voce che lo stavo cercando. GR: E non potevi chiedere direttamente alla mafia? RB: No! Però poi ho avuto un colpo di fortuna. Nel periodo in cui ero a New York mi hanno detto che avrebbe tenuto una conferenza in un luogo pubblico. Ho scritto una lettera e ci sono andata. GR: E che diceva questa lettera. RB: “Sono un artista visiva e sono interessata
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Rossella Biscotti You have to be focused “The Undercover Man”, 2008 fotografia, pennarello rosso Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani. A pagina 44: installazione, fotografie e lampada ARRI, 2008.
alla sua storia”… che mi sarebbe piaciuto incontrarlo e proporgli un progetto d’arte… però in realtà non mi hanno permesso di dargliela. GR: Non ti hanno fatto avvicinare?!? RB: Non volevano, poi ho visto che andava in bagno e l’ho seguito sfuggendo alla sorveglianza, sono riuscita a parlarci qualche secono e a dargli la lettera. GR: Bella storia per un altro film! E quando vi siete rivisti? RB: La storia è abbastanza lunga, sulla lettera c’era il mio numero di telefono, ma lui non mi ha mai chiamato. Allora ho approfittato di un’altra conferenza e li mi sono sono fatta promettere che mi avrebbe contattato. Infatti, mi ha chiamato il giorno dopo, solo che mi ha dato buca al primo appuntamento. Dopo una serie di messaggi sulla segreteria mi ha dato appuntamento in un diner sull’autostrada nel New Jersey. GR: Il New Jersey, ma è il territorio dei Soprano! RB: Ah ah… allora sei tu l’esperto di mafia! Insomma, in questo incontro mi ha dato la sua parola che avremmo lavorato insieme. GR: E dopo quanto tempo avete dunque fatto le riprese? RB: Cinque-sei mesi. GR: E parlavate in italiano? RB: No, lui non parla italiano. È di terza generazione, i suoi nonni erano siciliani. GR: Quello che mi interessa è capire come reagisce una persona con il suo vissuto, senza una particolare cultura umanistica, davanti ad una proposta “artistica”. Era scettico o semplicemente gli sei risultata simpatica? RB: Joe Pistone è una persona molto curiosa e si adatta a qualsiasi situazione, in effetti questo è parte del suo lavoro undercover. Abbiamo stabilito un rapporto di fiducia, gli ho spiegato che era importante che lavorassimo insieme a questo progetto. GR: Dove avete girato? RB: A Roma, nel set che avevo costruito all’interno dell’Istituto olandese e parte dell’audio èstata registrata nell’hotel dove alloggiavamo, il Residence Barberini. GR: Perchè la scelta di riprenderlo da sopra, come in un interrogatorio della polizia? RB: Nel film utilizzo una serie di stereotipi che fanno parte del nostro immaginario cinematografico, dell’estetica del film-noir. GR: Le domande sono scritte da te o cosa? RB: Le domande sono riprese dai processi dove lui è stato testimone, e parte sono domande che gli ho fatto in una serie di interviste. L’ho intervistato per tre giorni, otto ore al giorno... naturalmente poi ho tagliato molto a livello di editing. Le mie domande riguardavano 49
01 la sua identità, come italo-americano e come individuo, e questa in relazione con la struttura dell’FBI e il suo ruolo undercover. GR: Perché hai girato in 16mm e non in video? RB: Per due motivi. Concettualmente e fisicamente la pellicola mi ridava l’idea di una realtà catturata in quel momento ed irrepetibile, e per un effetto estetico: solo il 16mm mi poteva quel tipo di grana della pellicola che appunto rimanda all’estetica noir. GR: Hai lavorato su questi effetti solo con le luci o c’è anche qualche intervento digitale? RB: L’intervento digitale è solo nei numeri di editing che appaiono al di sopra e di sotto dell’immagine e ovviamente ci sono spezzoni presi dalle telecamere di sorveglianza. GR: In che maniera “Quel pomeriggio di un giorno da cani” (1975), il film di Sidney Lumet rifatto da Pierre Huyghe con “Third Memory” (2000) con il vero rapinatore John Wojtowicz ha rappresentato un precedente per questo tuo lavoro? RB: Sai che non l’ho ancora visto “Third Memory”? Ma ne ho sentito parlare. Il punto di partenza è simile, ma il modo in cui io processo tutto il lavoro è completamente differente: io creo una struttura nella quale avviene l’incontro tra me e Joseph Pistone, poi lavoro a partire dalle relazioni create in quella particolare situazione. GR: E il continuo rimando del pubblico al film “Donnie Brasco” ti da fastidio? RB: No, per niente. Il mio film viene dopo “Donnie Brasco”, non potrebbe esistere senza quello e senza quello che si è detto di questa storia. Io utlizzo questa memoria pubblica all’interno del lavoro. GR: E lui, Pistone, come vedeva l’interpretazione di Johnny Depp? 50
RB: Credo che in questo caso sia preponderante il narcisismo nell’essere interpretato da Johnny Depp. GR: E tu, invece, dopo tutta questa esperienza, cosa pensi della versione cinematografica di questa storia? RB: A me sembra un bel film, non particolarmente brillante, mi interessano altre cose… Ad esempio, su YouTube c’è un’intervista in cui Johnny Depp parla di Joseph Pistone. È impressionante perchè ne parla con la stessa intensità con cui io ne ho fatto esperienza. Johnny Depp definisce Pistone un uomo incredibile, “una macchina con sentimento” (a machine with very strong emotion). GR: Ma a te piace il cinema? RB: Si, ma non ne sono dipendente. E a te? GR: Completamente addicted. RB: Io preferisco capirlo più che subirlo. Mi piace scomporre il film, vederlo più volte, capire il meccanismo narrativo, come riesce a suscitare dei sentimenti ecc. GR: Torniamo un po indietro nel tempo. Tu sei pugliese e scegli di iscriverti all’Accademia di Napoli. RB: Esatto. Ho studiato architettura al liceo artistico di Bari e poi scenografia in accademia. GR: Come mai scenografia? RB: Ritenevo che mi avrebbe insegnato qualcosa di più pratico, nel programma c’erano materie diverse che m’interessavano: storia del cinema, teatro… il problema era che l’approccio era fin troppo tradizionale, quindi tutta la mia pratica artistica si è sviluppata lateralmente al mio studio. GR: Ma tradizionale da parte dei docenti o era proprio l’ambiente ad esserlo? RB: Tutto l’ambiente, gli studenti mi consideravano snob, una troppo curiosa, ero
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Rossella Biscotti You have to be focused “The Undercover Man”, 2008 fotografia, pennarello rosso Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani.
quasi ostacolata… tranne poche eccezioni, in accademia infatti c’erano anche Paola Guadagnino, ora gallerista di T293 e Marinella Senatore, artista. Devo dire che c’era anche poca professionalità da parte di alcuni professori, sembravano isolati dal resto del mondo. A me sembra che il criterio di scelta che rovina l’insegnamento. GR: Cioè? RB: I criteri di merito per la selezione degli insegnanti, se un pittore fa dieci mostre all’anno non vuol dire che sappia insegnare a dipingere. È il sistema di scelta che crea una condizione d’ignoranza. GR: È anche per questi motivi che ad un certo punto decidi di trasferirti all’estero? RB: Si, volevo lasciare Napoli e l’alternativa era Milano, però li mi sarei sentita isolata dal punto di vista lavorativo:non trovavo corrispondenza tra i miei interessi in campo artistico e quello che veniva proposto a Milano. Poi pensavo che – comunque – un'esperienza estera sarebbe stata più interessante. GR: E in Olanda, invece, che corripondenze avresti trovato? RB: C’erano artisti che mi interessavano come Yael Bartana, Steve McQueen, Erik van Lieshout ed altri.
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GR: Ma, tranne l’ultimo sono tutti artisti stranieri che hanno scelto l’Olanda come paese d’adozione, eppoi in un momento di particolare xenofobia come quello che fa seguito all’assassinio di Theo van Gogh, il regista. RB: Infatti, è successo due settimane dopo il mio trasferimento in Olanda. Ricordo che durante l’inaugurazione di una mostra raccontavo che non mi dispiaceva di essere in Olanda in questo momento perché sarebbero successe molte cose dal punto di vista sociale e politico. GR: Ed è ancora un paese che aiuta concretamente gli artisti, sostiene l’arte 52
contemporanea? Come sei entrata a far parte di quella scena da italiana? RB: Si, ci sono molti sostegni per l’arte contemporanea. A volte ne ho usufruito. Ho avuto per esempio delle sovvenzioni per la produzione de“Il sole splende a Kiev” e per la pre-produzione di “The Undercover Man”. Per inserirmi, ho iniziato a frequentare delle persone, poi sono stata invitata ad una collettiva allo Smart Project Space per la quale ho realizzato il video “Shooting on Dam Square”. GR: Avevi mai fatto mostre prima? RB: Si, oltre alle collettive, una personale a
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Presente!, scultura (metallo, flash, diapositiva, lenti), cm 80 x 80 x 150. Ogni minuto crea un flash che proietta la scritta “Presente”. Una proiezione quasi impercettible della durata di un microsecondo. Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani.
Napoli da T293 e una seconda a Bruxelles da Paolo Boselli mentro ero già in Olanda. GR: Da Boselli la mostra si intitolava “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Ma tu ti sei mai sentita emigrante? RB: Lo sono sempre stata, anche quando ero in Italia. Comunque vengo spesso in Italia e credo anche di trasferirmi ancora tra qualche mese. GR: Per andare dove? RB: A Bruxelles. GR: Ma non è una città deprimente? RB: Semmai decadente… devo trasferirmi altrimenti divento come Mondrian, troppo razionale, ho bisogno del surrealismo belga. GR: Insomma… vuoi restare all’estero. Negli ultimi anni alcuni giovani artisti si sono trasferiti da Milano a Berlino. Ma non è che è diventanto un po'un luogo comune… RB: Dipende dalle motivazioni personali, dalle scelte di vita… non è che “l’estero” in sé sia una situazione perfetta per un artista, ma credo faccia bene passare un periodo in paesi dove c’è più rispetto per la cultura contemporanea. Ad esempio l’Olanda è un paese perfetto per potersi concentrare sul lavoro, anche se anche qui non c’è una particolare interazione tra diverse discipline artistiche, né una relazione di scambio tra curatore e artista come avviene più frequentemente in Italia. Inoltre in questi paesi l’arte è funzionale all’economia. GR: E non una condizione assistenziale. RB: Non solo, ma vedo meno questa condizione di arte come status che invece ha pericolosamente preso piede in Italia. GR: Che te lo dico a fare… è un po'di tempo che da noi ci sono cose che prendono pericolosamente piede. RB: Joe Pistone direbbe “you have to be focused”! GR: Te lo immagini Pistone in giro per i giardini della Biennale di Venezia che si guarda i padiglioni? Certo che questa ricostruzione di un’identità clandestina è proprio il focus del tuo lavoro. Anche ne “Il sole splende a Kiev” diapositive, testi e video, la memoria collettiva non riesce a distinguere la figura di questo documentarista (Vladimir Shevchenko) che è stato tra i primi ad entrare nella zona rossa dopo il disastro di Chernobyl. È questo tentativo di ricostruzione e impossibilità della stessa, a sua volta indistinguibile dalla “storia” stessa che si concentra il tuo lavoro. Rossella, senti, ma non è che mi hai detto qualche bugia? RB: Che te lo dico a fare… 53
Rossella Biscotti Let me tell you something my friend, scultura con installazione audio e video, 2008. Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani.
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DISIDENTITÀ ITALIANE
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“Orlando Furioso” di Luca Ronconi, 1975 Fonte Raiclick.it
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GLI ITALIANI LA FANNO MEGLIO di Marco Senaldi
Gli italiani – ah, sono davvero gente speciale. Anche se sono mammoni, conservatori, lamentosi, la sanno proprio lunga. Quello che hanno in più – quello che li fa amare e odiare al tempo stesso! – è la consapevolezza che la famosa “identità” non è un dato fisso, certo, immutabile, ma un fatto provvisorio, accidentale, soprattutto qualcosa che uno non possiede per nascita, né può fabbricarsi da solo. Anche a causa della loro storia, complicata e non sempre esemplare, hanno dovuto imparare, spesso a proprie spese, che gli arruffapopolo sono i primi a diventare capoccioni, i difensori civici possono trasformarsi in maggiordomi, gli incendiari sono di norma già pronti a trasformarsi in pompieri. Questo atteggiamento di fondo ha conseguenze nefaste, ma anche positive. Da un lato, azioni poco nobili come quella di voltare gabbana appaiono un fatto naturale, accettato remissivamente come una malattia passeggera; dall’altro, però, questa consapevolezza vagamente scettica regala uno sguardo sulle cose che sa coglierne la profonda, intrinseca ambiguità. Basterebbe ripercorre a volo d’uccello l’irripetibile stagione della “commedia all’italiana”, per vedere come nei film di quel periodo una tale consapevolezza avesse
raggiunto apici veramente sorprendenti. In una indimenticabile scena de Il Boom (Vittorio De Sica, 1963), storia di uno yuppie ante litteram pronto a sacrificare un occhio per il successo, Alberto Sordi prova a capire che cosa significa essere orbi, e con mossa geniale il regista mostra in soggettiva il suo sguardo dimezzato, nascondendo di fatto metà inquadratura, facendo così vedere per un attimo “mezzo film” – rompendo la finzione e proprio così mostrandola nella sua interezza di “mezza verità”. Eppure, nonostante ciò, non appena si chiami in causa la famosa “identità italiana” tutti sono pronti a saltar su e a citare questo e quell’altro padre della patria, per ricadere invariabilmente nella trappola dei “santi, navigatori e poeti” che turba i nostri sonni fin dall’infanzia. In realtà, verrebbe da dire, i “veri” santi, navigatori e poeti a cui dovremmo fare riferimento, sono proprio le figure marginali (o a bella posta emarginate) che, invece di arrovellarsi alla ricerca di una (fantomatica) “identità italiana”, hanno ragionato sulla sua inesistenza, o meglio, sull’esistenza di una “dis-identità italiana”, e ne sono stati intelligenti osservatori e insieme autentici testimoni. 59
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Queste idee mi hanno assalito d’improvviso perché di recente ho scaricato dalla rete le puntate di un capolavoro che davo ormai per perso nei meandri della memoria – cioè l’Orlando Furioso, nella versione di Luca Ronconi per la RAI (1975). Per capirci meglio, occorre fare un salto indietro di oltre trent’anni, e pensare a cos’era la tv a metà anni Settanta, circoscritta a due soli canali (due canali!), in bianco e nero, e limitata a circa otto ore di trasmissione al giorno. Il celebre “tempo reale”, il flusso continuo della comunicazione, erano cose di là da venire, e la giornata televisiva terminava verso mezzanotte con la celestiale sigla (una antenna lievemente astratta che si innalzava fra le nuvole) di “Fine delle trasmissioni”. In questo contesto, Ronconi, allora praticamente ignoto al grande pubblico televisivo, aveva realizzato una versione del capolavoro di Ariosto che non 62
apparteneva né al genere “riduzione televisiva” (del tipo I Buddenbrock, o Cittadella), né a quello del cosiddetto “teatro filmato”. Con una mossa di anticipo sui tempi, Ronconi aveva ambientato il suo Orlando negli spazi chiusi del Palazzo Farnese di Caprarola, e aveva optato per una recitazione assolutamente antinaturalistica, aggiungendo per soprammercato elementi stranianti, come l’uso di apparati scenici visibili per muovere cavalli di legno, sagome dipinte, fondali platealmente teatrali, riprendendo il tutto con carrellate lentissime e avvolgenti. Anche se i dettagli si confondono, riesco a ricordare piuttosto bene che trovai già allora quell’opera assolutamente geniale, originale e soprattutto insolita rispetto al contesto televisivo nel quale andava a collocarsi (naturalmente in prima serata!). Ma ricordo anche piuttosto bene le polemiche che ne seguirono, divenute
GLI ITALIANI LA FANNO MEGLIO
A pagina 58 e a sinistra: “Orlando Furioso” di Luca Ronconi, 1975 Fonte Raiclick.it
in breve tanto accese che la puntata successiva l’annunciatrice non si limitò ad comunicare l’inizio dello spettacolo, ma in modo esplicito avvertì il pubblico che il fatto che in scena si vedessero elementi extradiegetici come carrucole, funi, slitte e cavalli di legno, era stato “voluto” dal regista e non era un errore tecnico! Era un’Italia, quella, in cui ci si accapigliava per dei problemi estetici di trasparenza e opacità spettatoriale, cioè su questioni che oggi un docente di teoria e tecnica dei media faticherebbe a trattare in aula coi suoi studenti di terzo anno. E ricordo altrettanto bene il putiferio che si scatenò nella mia classe di quarta ginnasio quando, di fronte all’attacco all’Orlando di Ronconi in favore dell’abominevole Gesù di Zeffirelli fui costretto alla mia prima presa di posizione “militante” e alla strenua difesa dei valori dell’arte d’avanguardia… Potete perciò comprendere il mio stato d’animo quando, dopo più di tre decenni, ho avuto di nuovo la possibilità di rivedere ancora una volta l’Orlando ronconiano – e implicitamente di avere la controprova inoppugnabile della mia lungimiranza di giudizio, temendo segretamente che la visione rinnovata di quel vecchio materiale mi riservasse la cocente delusione della sua evidente pochezza. E invece, non appena le figure di Edmonda Aldini, di Ottavia Piccolo, di Massimo Foschi, hanno ricominciato a muoversi davanti a me sui loro traballanti destrieri e a recitare i mirabili versi ariosteschi nella riduzione di Edoardo Sanguineti – tutto è risultato chiaro: quell’Orlando Furioso è, e resta, un autentico capolavoro. E non solo un capolavoro teatrale, ma un vero capolavoro di videoarte: anzi, a rivederlo adesso, appare piuttosto chiaro che si tratta di una incredibile anticipazione sia delle atmosfere neobarocche del miglior Greenaway, che degli estenuanti carrelli del Barney più sofisticato, quello per intenderci di Cremaster 5, o dei movimenti rotatori alla Tacita Dean. E'dunque un’opera d’arte video-performativa che dobbiamo tornare a fare nostra, che andrebbe letteralmente studiata nelle scuole – non solo perché ingiustamente dimenticata (dal 1975 non è stata più ritrasmessa, nonostante fosse stata vista da bel oltre 9 milioni di telespettatori!), ma perché definisce un pezzo preciso della nostra contraddittoria identità – o se volete della nostra lineare disidentità. Infatti, pur con tutto il suo slancio avanguardista, Ronconi era riuscito ad estrarre dall’Orlando Furioso non qualcosa di moderno che era estraneo all’originale, ma proprio quello lieve scetticismo all’italiana che in Ariosto già nascostamente giace, quel senso di suprema ironia che si sostanzia nella sublime presa in giro del reboante mondo dei cavalieri “antiqui”. E che magari dovremmo applicare anche ai cavalieri di oggi. 63
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DA URBINO
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PITTURA DOVE? PITTURA COME? L’Accademia di Belle Arti di Urbino
Nella grande casa abitano persone diverse; in comune hanno l’idea che questa casa va conosciuta a fondo, stanza per stanza. I suoi inquilini hanno murato le finestre perché non vogliono più distrarsi a guardare il paesaggio. Chi è oggi l’artista visivo? Un testimone del suo tempo, un tecnico specializzato o un poeta universale? Oggi l’artista non è al di fuori del mondo, anzi è consapevole di quello che lo circonda e lo affronta prendendo posizione. La sopravvivenza dell’arte è data dalla capacità di trasformarsi e rinnovarsi continuamente, l’arte contemporanea produce movimenti e tendenze che si succedono incessantemente, ci ha abituati a vedere opere realizzate con tecniche e materiali i più svariati, dagli elementi naturali alle ipertecnologie, dall’oggetto di rifiuto a quello industriale, ecc… In un'epoca in continua trasformazione la carta vincente è sì la forma, i contenuti ma anche la capacità di giocare d’anticipo, l’intendimento è quello di non vivere nella roccaforte della storia ma di entrare nell’ambito dell’attualità e della ricerca. Fatte queste considerazioni possiamo formulare e rispondere alla domanda: dove si colloca oggi
di Luigi Carboni
la nozione di progresso? E può la pittura dopo l’Avanguardia, dopo il Modernismo, dopo le sperimentazioni degli anni Settanta, rivendicare una propria legittimità avendo ancora capacità specifiche di scoperta? Oggi non vi è uno stile consistente, un metodo, un materiale o dei temi che identifichino l’arte contemporanea. Esaminando il panorama attuale non troviamo un modo dominante di osservare l’arte, anzi nessun modo risulta testimonianza di verità. A seconda delle diverse ipotesi o prospettive, troviamo opere legate all’ideologia dei mass media vicini alla produzione industriale in nome di un’uniformità e di una globalizzazione che punta su una idea di pensiero “unico”; vi sono opere che indagano e costruiscono i segni del presente in base alle proprie radici culturali, dallo stile apparentemente tradizionale in difesa della propria individualità e della propria identità; altre opere che lavorano sull’energia espressiva del segno e della materia individuando nello spazio la giusta estensione, oppure opere che costruiscono immagini dallo stile decorativo con risultati intimisti. 67
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Nessuna forma artistica è testimonianza di verità. Vi è quindi una flessibilità che l’arte contemporanea reclama, nessun modo di osservarla è sufficiente, la natura frammentaria delle varie ipotesi ritrae perfettamente quella della nostra epoca, un’unione di opposti che convivono nella loro diversità con tutte le incertezze e le contraddizioni. La conseguenza di questo sgretolamento è che l’arte ha perso il senso dell’avanguardia. Nella concezione avanguardistica l’eredità, il passato, erano visti come un peso, ma la cultura attuale non ha motivo di rinnegare il passato, anzi offre una possibilità di riscoperta in contrasto con il pericolo di ripetere. La pittura quindi si può aprire nuovamente alla 68
ricerca e alla sperimentazione, partecipando pienamente alla riabilitazione di un’arte legata alla seduzione, riqualificando sobriamente il suo spirito aristocratico, ben sapendo che il presente è la nostra unica realtà e che la pittura contemporanea di un certo significato è essenzialmente concettuale. L’arte di servire il the, cinque gesti e sei espressioni, nella cerimonia il ventaglio da visita non serve a niente, ma non lo si dimentica mai. È ovvio che tale legittimazione va ricercata nel vuoto creato dalle ideologie degli anni Sessanta-Settanta, nella caduta dell’idea ottimistica di un progresso continuo e lineare dell’umanità. L’idea portante il “futuro” salta e con lei il senso del domani. La pittura contemporanea
PITTURA DOVE? PITTURA COME?
A pagina 56: Luigi Carboni Foto di Michele Sereni A sinistra: Arianna Marinelli Senza titolo, 2008 Acrilico e china su tela 50x50 cm A destra: Laura Facchini La città muta, 2007/2008 acrilico su tavola 160x140 cm
è il risultato di un’urgenza di una società, che non pensa più a lungo termine, ma che risolve i problemi di volta in volta. L’arte non cambia il mondo, se ne costruisce uno a parte. Arianna Marinelli (Sassocorvaro, 1985) fonde in modo inconsueto l’affollarsi del segno figurativo con una superficie minimale, cercando di costruire una dialettica tra entità opposte: tra astratto e figurativo, tra forma e finzione, tra superficie e profondità. L’autrice predilige i soggetti convenzionali come composizioni floreali: bouquet ibridi, ornamentali, che richiamano alla calligrafia o all’arte tradizionale giapponese, ma anche a elementi liberty, al fumetto o all’arte popolare. Le sue tele sembrano richiamare le decorazioni delle carte da parati, come a suggerire la loro irrilevanza. Tuttavia la limpida semplicità del segno/ decoro, regolando i meccanismi compositivi, manovrando le vibrazioni sottili, svela una delicata sensualità tutta legata al concetto di donna. 69
01 Laura Facchini (Fano, 1982) attraverso una fredda eleganza costruisce seducenti superfici di colore. Rigorose strutture reticolari definiscono spazi visivi vuoti, un mosaico di segni, come in un gioco digitale, danno vita e sostanza all’opera. Lo straordinario e paziente rigore nel tradurre i temi estetici e l’ostinata ripetizione di moduli, sono la forza e la tensione di questa pittura. A prima vista le sue opere appaiono come pura astrazione ma il suo lavoro attinge, nei suoi moduli, al paesaggio urbano. Nelle tele della Facchini concetto e forma sono inseparabili, come la realtà dalla meraviglia. Nelle sue opere Alireza Amirimoghanddam Nejad (Teheran, 1977) ricorre spesso a materiali di recupero quotidiani, l’intervento personale dell’autore è minimo, il significato non risiede nell’oggetto scelto ma nell’alterazione o nella modifica dello stesso. Nell’incontro tra l’autore e l’oggetto risiede la conseguente trasformazione, dopo aver dato all’oggetto una specifica “disposizione”, l’autore nell’installazione cattura la tensione tra le sue intenzioni e la realtà. Il rapporto tra oggetto privato e opera d’arte viene in questo modo alterato e messo in discussione. L’autore aggredisce la realtà, fruga e strappa le radici della banale quotidianità, riuscendo ad esprimere con fragili oggetti nudi, una bellezza effimera e modesta, in termini di grande intimità poetica.
Nella pittura figurativa di Matteo Fuzzi (Rimini, 1982) si possono incontrare, con effetto grottesco, figure popolari e storiche, elementi del repertorio kitsch, pop e immagini colte. L’autore si serve abbondantemente di soggetti e spunti presi da fotografie, ritagli di giornale, cartoline o vecchie immagini, ciò trasmette ai suoi quadri una particolare atmosfera dimostrando un profondo interesse verso l’immagine, ma anche verso il colore. L’autore evoca la realtà come se fosse un’immagine riflessa, una pallida imitazione. Fuzzi svuota la superficie pittorica diluendo il colore, lasciandolo sgocciolare amplifica l’evanescenza della memoria e alleggerisce i suoi dipinti da informazioni eccessive. Andrea La Rocca (Militello Val di Catania, 1983) disegna in punta di penna e di matita i suoi personaggi. Disegni minuziosi, densi di allusioni, tutt’altro che innocenti. Narratore per immagini rifinite in ogni particolare, La Rocca dimostra nella sua leggerezza chirurgica di conoscere con esattezza l’animo umano. Crudele ma trasparente, a colpo sicuro affonda la sua matita in visioni alterate o deformi: improbabili incontri, mostruose visioni, in parte visibili e in parte solo suggerite costruiscono il mondo poetico dell’autore. Pagine di un diario che raccontano piccole delusioni o tragedie minori racchiuse nella storia personale di ciascun individuo. Alireza Amirimoghaddam Nejad Non si parla in aula, 2008 Le sedie trovate, legno e ferro
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Michele Pierpaoli (Fano, 1985) attraverso l’utilizzo del bianco trasparente della carta velina e del nero dell’inchiostro, costruisce con un segno “inciso” un immaginario complesso. Immagini, simboli e segni dalla forte impronta grafica, realizzano doppi e tripli piani, creando un flusso narrativo dove il disegno in bianco e nero diventa un metodo per analizzare il reale. Sulle superfici leggere e mutabili, Pierpaoli incide immagini e segni alternando la natura all’artificio. Presenze e assenze, figure, sembianze di cose, piccoli inganni velati, svelati e riportati sulla superficie della carta si alternano in una continuità di visione che reclama una prima, 72
una seconda, una terza lettura. Pierpaoli passa attraverso le forme e le immagini senza legarsi ad alcuna di esse, con distaccata continuità costruisce l’opera. L’opera simula se stessa, imita i processi della propria creazione in una consapevole assenza di protagonismo, suggerisce e non impone. Questi sei studenti e queste sei opere presentate, non negando mai il nostro tempo, si interrogano e riflettono sul concetto di moderno, sul concetto di ricerca, sul concetto di bellezza; perché naturalmente la bellezza non è esclusa dal moderno. L'errore è cercare ancora la bellezza nei canoni
PITTURA DOVE? PITTURA COME?
A sinistra: Matteo Fuzzi Ninfee, 2008 Acrilico e olio su tela 150x150 cm Sotto: Michele Pierpaoli Senza titolo, 2007 penna, matita e vernice damar su carta 115x95,5 cm
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PITTURA DOVE? PITTURA COME?
che si sono affermati nel passato, canoni che sono stati completamente annullati dall’esperienza culturale ed estetica del Novecento. Mi auguro che queste opere possano mantenere le promesse, con tutto l’ascolto, con tutto il gesto della contemporaneità; ricordando a questi studenti che la carriera di un artista è qualcosa di molto concreto, è una carriera difficile e competitiva, dove la selezione nel percorrere la lunga catena del consenso è molto forte. Alla fine resta l’immagine, eterna attrazione: desiderio senza orgasmo.
Luigi Carboni è nato a Pesaro dove vive e lavora. E' docente titolare della cattedra di pittura dell'Accademia di Belle Arti di Urbino. Principali esposizioni personali: Galleria Spazia, Bologna; Galleria G7, Bologna; Jack Shainman Gallery New York; Jack Shainman Gallery Washington; Galleria Lumen Travo, Amsterdam; Galleria Alberto Weber, Torino; Studio Scalise, Napoli; Studio La Città, Verona; Studio Barnabò, Venezia; Galleria Franca Mancini, Pesaro; Galleria Giò Marconi, Milano; Galleria Otto, Bologna, segue l’invito nel 2003 alla Biennale d’Arte Internazionale di Los Angeles, con una mostra personale alla Galleria Patricia Faure, nel 2006 viene realizzata una sua mostra nelle sala del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino a cura di Raffaele Gavarro con un catalogo Skira edizioni con testi di Luca Beatrice, Luca Cesari, Vittoria Coen, Luciano Marucci, Umberto Palestini, Alberto Zanchetta. A marzo del 2009 si terrà una mostra personale curata da Ludovico Pratesi al Museo d’arte contemporanea “Centro Arti Visive Pescheria” di Pesaro.
A sinistra: Andrea La Rocca Senza titolo, 2008 grafite, china e acquerello su carta 75
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DA VENEZIA
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Gino De Dominicis Untitled, 1992 Carboncino su tavola Cm 100 x 60 Milano, collezione privata Courtesy “Italics” Palazzo Grassi, Venezia
LISTA D’ATTESA di Alfredo Sigolo
Strano anno il 2008 appena trascorso. Due eventi hanno portato sotto i riflettori l’arte italiana, entrambi hanno a che fare con la città di Venezia. Il primo è stato la mostra Italics curata da Francesco Bonami a Palazzo Grassi (dal 27 settembre 2008 al 22 marzo 2009), il secondo la scelta di affidare la curatela del Padiglione Italiano alla Biennale 2009 alla coppia di Beatrice, Luca e Buscaroli. Che hanno di particolare questi due fatti? Innanzitutto nello scenario e nella logistica del sistema dell’arte costituiscono una sorta di invasione di campo. Fuori posto è Bonami, il più internazionale dei curatori italiani, direttore di un museo a Chicago: il suo prestigio se l’è guadagnato tutto all’estero, al punto che è notizia recente che a lui è stata affidata anche la curatela della prestigiosa Biennale del Whitney. Insomma una mostra di artisti italiani in Italia è quanto di più lontano dal personaggio ci si possa aspettare. Non a caso infatti il suo progetto è stato ospitato a casa di François Pinault, ricco imprenditore francese e collezionista, proprietario di un sacco di cose tra cui la casa d’aste Christie’s... e Palazzo Grassi appunto. Ma fuori posto sono anche la coppia già ribattezzata B&B. Loro
sono invece due perfetti prodotti del sistema italiano, praticamente ignoti fuori dai confini nazionali, influenti trend setter e opinion leader della Penisola (soprattutto Luca). Onnipresenti nell’ambito critico e curatoriale, nelle mostre come sulla carta stampata, ovunque era lecito trovarli fatta salva la Biennale di Venezia, unico baluardo italico riconosciuto dagli stranieri come significativo per il sistema e il mercato internazionali, vetrina storica della cultura visiva nostrana all’estero (non a caso proprio a Bonami fu affidata la direzione del 2003). Neppure il più abile stratega avrebbe potuto immaginare un più perfetto cortocircuito che ravvivasse il dibattito intorno all’arte contemporanea nel Bel Paese, che oggi si regge su un sostanziale bipolarismo. Da un lato sta la fetta allineata al circuito internazionale e che in larga parte ne subisce l’influenza, dall’altro quella che rivendica la continuità nella tradizione, impermeabile e autosufficiente, che alimenta un mercato di artisti italiani per un collezionismo esclusivamente locale. Bonami e B&B sono gli eroi di due schieramenti che si ignorano: ognuno fa come se l’altro non esistesse o svolgesse un altro mestiere. 79
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Alberto Burri - Nero Cretto, 1976 Acrilico e colla su cellotex - cm 144,7 x 244 - Collezione privata
Photo: Courtesy Daniella Luxembourg, London / “Italics” - Palazzo Grassi, Venezia
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01 Le ragioni di questa distanza stanno nella necessità di sopravvivenza di due pianeti fondalmentalmente deboli e autoreferenziali, entrambi vittime dell’assenza cronica di una vera progettualità istituzionale nel campo della cultura contemporanea, solo in parte giustificabile con la necessità di tutelare e valorizzare un patrimonio storico incredibilmente ricco e vasto. Ma stavolta lo scambio e lo sconfinamento dei poli hanno portato alla collisione che non poteva non generare una reazione della quale, prima che i contenuti, è interessante la cronologia. Le critiche alla mostra di Bonami sono partite all’incirca ad aprile e sono andate via via intensificandosi. Serve ricordare che la sua è una mostra generazionale che ha come obiettivo quello di tirare una riga e storicizzare l’arte italiana degli ultimi quarant’anni. Idealmente riparte da dove si era fermato Germano Celant con Italian Metamorphosis 1943-1968 presentata al Guggenheim nel ’94 e arriva ai giorni nostri: 106 artisti per oltre 250 opere. Dentro o fuori? E'la lista la protagonista di questa storia. Per mesi critici, curatori, giornalisti, operatori e collezionisti hanno dibattuto sulla legittimità dell’elenco proposto da Bonami. Chi c’era e non doveva esserci e viceversa. Come s’è detto però, importante è la cronologia. Il dibattito, spesso anche qualificato, si è esaurito tutto prima che l’evento si compisse. La mostra ha inaugurato il 26 settembre. Nei sei mesi precedenti i commenti erano stati incessanti. Il primo ottobre già non se ne parlava più. Perché nel frattempo un altro avvenimento era accaduto. L’affidamento del Padiglione Italiano alla 82
Biennale Arti Visive a Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli Fabbri. La Biennale inaugurerà solo il 7 giugno 2009 ma la scelta è suonata come un affronto, una sfida in campo aperto al sistema avversario. C’è da giurarci, fino all’estate non cesserà il dibattito sulla nuova lista, quella degli artisti che la coppia vorrà scegliere. Una lista che oggi ancora non c’è ma sulla quale già oggi si discute. Guerra preventiva, processo alle intenzioni? L’elemento che accomuna i due episodi consiste proprio in questa miccia accesa dall’attesa, anzi dalla “lista d’attesa”, che però non arriva mai a innescare l’evento esplosivo. Un po'come accade per il Godot di Samuel Beckett. “In Italia, l’arte ha da essere italiana?”, è questa la domanda chiave. Che è anche il titolo di un agile volume che risale al 1942, XX anno dell’era fascista, firmato da un’importante personalità culturale dell’epoca del regime, Ugo Ojetti. Emendata dalla retorica del periodo, fa un certo effetto leggere passaggi come questo: “Anche l’arte, compresa la poesia e la musica, è evoluzione, cioè novità; ma prima di tutto continuità. Dove s’ha da porre l’accento? Sulla continuità o sulla novità?”. Cos’è cambiato nel dibattito odierno? Le liste hanno riacceso in Italia la discussione intorno all’arte, che però ha finito per esaurirsi senza entrare nel merito del ruolo dell’arte italiana e dei suoi contenuti. Si discute di nomi, si discute di approcci curatoriali: internazionale contro nazionale, tradizione o rivoluzione (è il sottotitolo della mostra di Bonami)… insomma “continuità o novità”? Personalismo e formalismo sembrano le uniche categorie-guida da oltre sessant’anni. Ma allora che fine ha fatto il contributo di tanti pensatori
LISTA D’ATTESA
nell’ultimo mezzo secolo? A che sono serviti il neorelismo, lo spazialismo, il poverismo, la transavanguardia e via dicendo? Forse a rendere inattuale, inutile e superfluo il confronto intellettuale? A Bonami è stato rimproverato un presunto approccio revisionista, il tentativo di sistematizzare la storia recente all’insegna di una consequenzialità che da molte parti è negata. Bonami ha risposto difendendo la sua scelta individualista e rivendicando il primato dell’opera sull’artista. Kounellis ha rilanciato inneggiando al “nostro bellissimo disordine”, sostenendo la cancellazione, in nome della ragion critica, del retaggio intellettuale del nostro tempo. Per la coppia Beatrice-Buscaroli il bello deve ancora venire ma già gli si imputa un ribaltamento ed una sostituzione dei valori sinora internazionalmente acquisiti. Bene che vada ci troveremo a fare i conti con una sorta di revisione della revisione, di revisionismo al quadrato insomma. Umberto Eco chiamerebbe forse questo un tipico esempio del suo “passo di gambero”. Ojetti non è poi così lontano. Il nostro è il tempo delle liste. Ve ne sono di ogni genere: la lista degli artisti più significativi, la price list dei loro prezzi, l’elenco dei giovani emergenti e dei più giovani tra i giovani. Ci sono elenchi di gallerie selezionate alle fiere, elenchi di vip invitati ai vernissage, classifica dei collezionisti, le mostre più importanti, le opere più costose, i board dei selezionatori, lo staff dei curatori. Le liste sono dichiarazioni d’esistenza in vita, servono ad appagare un diffuso bisogno di sistemazione, ricapitolazione, collazione e verifica. Si riordina il passato, il presente nasce preordinato. L’inatteso e l’imprevisto, il disallineato e l’incoerente ci spaventano, il nuovo è continuamente differito. Una cosa però sembra esser chiara: intorno all’arte siamo tutti pronti a discutere del chi (il tal artista, il tal gallerista), qualche volta del come (meglio quell’estetica o quell’approccio dell’altro) o del dove (l’origine anglosassone, cinese, indiana, ecc), al massimo del quando (contemporaneità, anacronismo, citazionismo). Mentre sembra estremamente complicato affrontare quello che dovrebbe essere il nocciolo della questione, ovvero il cosa. Qual è il ruolo dell’arte, di cosa si occupa, quali sono i suoi contenuti? Insomma, di cosa parliamo? Domande che oggi forse paiono indiscrete. Nel film di Sergio Leone “Per qualche dollaro in più” Lee Van Cleef diceva a Clint Eastwood: “Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte lo sono, a volte.” 83
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DA MILANO
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L’ULTIMA DI GIANNI di Gianni Romano
Ho sempre pensato che per qualche motivo il pubblico italiano tende a sopravvalutare le frivolezze di certi artisti senza dare l’attenzione dovuta ad una maggioranza di artisti italiani che alle vetrine preferiscono un lavoro meno vistoso, a volte figlio di un duro lavoro di progettazione e ricerca. Questa è la prima cosa a cui ho pensato montando in bici e zigzagando tra il traffico di Zona Tortona in festa per la moda, dopo aver visto la mostra di Flavio Favelli, “Crystal Garden” (a cura di Daniele Perra, ex carrozzeria di Via Tortona, dal 26 settembre al 2 ottobre 2008). L’antidesign dell’artista toscano (nato a Firenze nel 1967), un certo gusto retrò (che nel suo caso si riflette anche nel suo modo di vestire), il rigore progettuale e la voglia di fare (lui dice “ristrutturare”) lo hanno portato ad estendere le sue ricerche persino alla sua casa studio
di Savigno (nell’appennino bolognese): altro che arte pubblica, qui bisogna bussare a casa di qualcuno. Ma, d’altra parte, è proprio la dimensione privata all’interno della quale Favelli cerca di “venirne a capo” con se stesso prima di restituircelo che rende affascinante il suo lavoro. Il “giardino di cristalli” che Favelli ha costruito in una ex-carrozzeria milanese si rifà alla celebre costruzione Art Nouveau di Joseph Paxton, ma naturalmente la ristrutturazione favelliana è il prodotto di numerose visite ai mercatini antiquari e l’impressione è quella di trovarci davanti ad una vecchia serra, probabilmente in disuso. Non troviamo entrate e quindi non ci resta che girarci intorno, sebbene dei lampadari tanto kitsch (sebbene siano in funzione, cioè, fanno luce) rendano difficile anche questa ricognizione. La serra non contiene “effetti
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Flavio Favelli Crystal Garden, 2008
speciali”, non si muove, non ha luci che si accendono all’improvviso cinque volte al giorno… potremmo ritrovarla in “Blair Witch Project” e pensare che ci sta proprio bene. Però siamo in Zona Tortona, la moda fa festa e tutt’intorno alla carrozzeria è pieno di hostess milanesi, modelle ucraine e buyers giapponesi. La stessa mostra di Favelli è organizzata da Roberto Del Carlo (shoemaker in quel di
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Lucca), che in collaborazione con Daniele Perra ha già organizzato altri eventi milanesi con Luca Vitone e Hans Schabus. E comunque è un vero piacere che in un contesto tanto scintillante si riesca a trovare un artista che alle mode concede meno di zero.
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GUARDO E RIGUARDO
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GUARDO Guardo. Prima persona singolare, tempo presente semplice del verbo guardare. G. significa soffermare lo sguardo su qualcosa o su qualcuno sottolineando l’aspetto durativo del vedere. Infatti l’intensità e la durata implicite nel verbo, possono venire determinate con opportuni complementi modali (g. con insistenza, con amore, in tralice, in cagnesco, con malanimo). Nella sua forma riflessiva, g.si indica osservare la propria immagine riflessa; in senso figurale, per sottolineare l’identità di un comportamento criticato in altri (ma ti sei mai g.to allo specchio?), o anche stare in guardia contro eventuali pericoli o tradimenti. Diverse sono inoltre le sfumature di significato che il verbo può assumere in alcune espressioni esclamative o esortative: dalla meraviglia, al disappunto, dal premuroso o risentito avvertimento (g.te ai fatti vostri) fino alla minaccia vera e propria (g.ti bene dal fare una cosa simile).G. significa anche essere esposto, orientato oppure contenere, custodire, rispettare, osservare e persino (stare a g.) seguire l’evolversi di una situazione senza intervenire, per neghittosità o per prudenza. Da intendersi: quest’ultima logica è aliena al vocabolario della rubrica in questione.
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RIGUARDO di Ginevra Bria
Riguardo. Sostantivo maschile. Il riguardo è una considerazione comprensiva di atteggiamenti che vanno dalla precauzione (trattare un oggetto con tutti i r.di) al risparmio (spendere senza r.); dalla premurosa sollecitudine (è pieno di r. per i suoi vecchi) al rispetto (non ha r. per nessuno, manca proprio di r.verso tutti), al trattamento di distinzione o di privilegio (abbiamo ospiti di r.). Eppure, spesso, chiedere senza r. significa anche agire senza scrupoli oppure con esasperante franchezza. Un tempo indicava anche lo stare in guardia (stare in r.). R. vuol dire anche pertinenza, relazione: questo non ha alcun r. con la nostra questione; r. a, in quanto a; a, in r. di, a questo r., a tale r., nei r. di, per quel che concerne (in r. di tuo fratello non è stato deciso nulla) oppure a mezzo di paragone di (la Luna è molto più piccola a r. della Terra). Arcaicamente r. era da intendere come sguardo o aspetto. In questa rubrica r. sarà la considerazione nei riguardi di una persona, di un caso o di un evento che possono configurarsi in un premuroso affetto oppure includere l’idea di rispetto, di ritegno o di cautela in piena coscienza di specifica pertinenza o competenza.
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