Certe Stazioni di Lucia Intartaglia

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Lucia Intartaglia

Certe Stazioni


La Narrativa di Harmakis

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Lucia Intartaglia


© Tutti i diritti riservati alla Harmakis Edizioni Divisione S.E.A. Servizi Editoriali Avanzati, Sede Legale in Via Del Mocarini, 11 - 52025 Montevarchi (AR) Sede Operativa, la medesima sopra citata. www.harmakisedizioni.org info@harmakisedizioni.org Tipografia: Universal Book I fatti e le opinioni riportate in questo libro impegnano esclusivamente gli Autori. Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Possono essere pubblicati nell’Opera varie informazioni, comunque di pubblico dominio, salvo dove diversamente specificato. ISBN 978-88-98301-11-9 Finito di stampare Marzo 2015

© Impaginazione ed elaborazione grafica: Sara Barbagli


The wrong of unshapely things is a wrong too great to be told; I hunger to build them anew and sit on a green knoll apart, With the earth and the sky and the water, re-made, like a casket of gold For my dreams of your image that blossoms a rose in the deeps of my heart. di W.B.Yeats

Le cose mal fatte sono un male così grande da non potersi dire; io bramo di costruirle di nuovo e sedere su una collinetta verde in disparte, con la terra e il cielo e l’acqua, rifatti, simili a uno scrigno d’oro per i miei sogni dell’immagine di te che fa fiorire una rosa nelle profondità del mio cuore. Trad di Lucia Intartaglia



A Raffaele , il mio figlio d’oro, l’amore grande della mia vita, che mi ha insegnato tutto quello che so…



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Certe stazioni Torino, autunno 1991

Fu aprendo la porta che lo sentì. Veniva dall’aver camminato tanto; dall’aver confuso con altri il suono dei propri passi. Dall’aver mescolato il proprio odore a quello di altri corpi, di pelli sconosciute. Il pullman era pieno di respiri che le alitavano sul viso, sul collo. Lei teneva il viso girato verso il finestrino e respirava la polvere della strada, i gas di scarico della colonna di macchine. E la solitudine… Sul finestrino la sua faccia appariva e spariva, richiamata da un gioco di luci o dallo sfondo colorato di un altro bus vicino. Solo che non le sembrava la sua faccia, pallida nella macchia scura e scarmigliata dei capelli. Con occhi grandi, pensosi, e le labbra schiuse. Era “l’altra”. Quella che irrompeva d’improvviso fra le sue emozioni, e facendosi beffe di lei si sedeva nella sua mente, come per dire “eccomi a casa”. Sarah la conosceva bene, sapeva quasi tutto di lei. Di come amasse rincantucciarsi per poi aspettare che qualcuno andasse a prenderla per mano e la tirasse fuori. Di come la rabbia in lei si facesse tristezza e assenza totale di voglia di vivere. Di come bastasse aprire uno spiraglio di finestra perché lei entrasse come una tempesta di vento, portando con sé in un turbine foglie di emozioni.


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Eppure “l’altra” fa parte di lei, della sue essenza più vera, com’è vera questa sera col cielo striato di nuvole e l’aria azzurrina attraversata dalle luci al neon delle insegne. Com’è vera la sua mano poggiata al bordo del finestrino, e questa stanchezza intrisa di malinconia. Si chiede se anche gli altri nel pullman sentano questa solitudine piena di gente, di visi, di occhi che si incontrano un attimo e poi si ritraggono. Si chiede quali pensieri abitino questi corpi pigiati l’uno contro l’altro. Quali espressioni si celino dietro queste maschere di noia e di stanchezza. Non gli ha parlato del silenzio. Eppure era già dentro di lei mentre suonava al citofono e il ronzio del cancello, che veniva aperto dall’interno, lo attraversava come un fischio di un treno che laceri la notte. Era entrata e si era seduta compostamente nella poltroncina in pelle davanti alla scrivania. Lui era dall’altra parte di questa e teneva gli occhi bassi e le gambe accavallate. Sarah vedeva sbucare un piede solo di sotto il tavolo, e guardava il calzino bordeaux che emergeva dalla scarpa. Era una cosa reale, quel calzino. E personale. Perfino intima. Non aveva niente a che vedere con l’espressione di lui così composta, con le mani intrecciate in grembo, tranquille, e con la voce educata ma un po’ distante. C’era il cono di luce della lampada fra di loro, e tutto il resto della stanza in penombra. La chaise- longue di vimini ricoperta da un gran foulard dai disegni orientali. La vetrina di libri. I


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quadri. Aveva le mani sudate, e la testa piena di immagini, voci, volti che si rincorrevano come in un carosello. Aveva la testa piena di frammenti. I frammenti della sua vita. E quella sera non riusciva a trovare un filo con il quale ricucirli. Pareva che il silenzio si dilatasse nella sua testa fino a scoppiare, proiettando lontano da lei tutti i frammenti di sé che andava esplorando. Era stato allora che si era messa a parlare, non parole a caso ma parole scelte, pronunciate con voce disinvolta. Parole accurate che potessero arrivare fino a lui e scalfire quella cortina di asetticità che lui – in un modo o nell’altro – riusciva sempre a creare. Si era sorpresa a raccontargli cose buffe, episodi divertenti, come se fosse un compagno per una sera. Che ci fosse cascato o no, non avrebbe saputo dirlo. Sapeva soltanto che il suono della sua risata – così schietta e giovane – aveva spento il silenzio nella sua testa e, per contro, acceso luci colorate da qualche parte dentro di sé, allentando il groviglio di sensazioni che le stringeva il petto. Amava farlo ridere. Quando faceva ancora analisi sul lettino, e lui le era alle spalle, quella risata dolce e fresca come lo zampillo di una fontana la rassicurava che lui c’era. Che la stava ascoltando. Ma certo lui questo lo sapeva, poiché quando lei piangeva, tremante e sudata sul divano, un colpetto di tosse le faceva pervenire non solo la sua presenza, ma anche la sua vicinanza. Avesse voluto, avrebbe potuto toccarle i capelli. Ma l’unico contatto fisico tra di loro, per un accordo tacito di cui Sarah era terribilmente consapevole, era la stretta di mano che si


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scambiavano nel lasciarsi, e che le lasciava un’impronta nel palmo e l’esatta consapevolezza di essere riproiettata nel mondo reale, semmai fosse quello di fuori il mondo reale. Sarah ne dubitava. In quella stanza, in quella penombra solo le sue emozioni erano reali. Contava soltanto ciò che lei provava, ciò che pensava. Proprio tutto quello che nel mondo esterno non aveva importanza. Cioè lei, Sarah, fuori non esisteva. Certo c’era il suo corpo, la sua voce, quel particolare modo di ridere o camminare. Ma quella non era lei. Sarah non esisteva che lì, in quella stanza, che, per quel che la riguardava, poteva essere sospesa sulle nuvole o poggiata sul fondo del mare… Ma poiché in quella stanza era se stessa, e poiché quella stanza e l’uomo che le apriva la porta erano un tutt’uno, Sarah sentiva che solo con lui poteva svelarsi, che solo perché c’era lui di fronte a lei poteva rivelarsi a se stessa. Questo somigliava all’amore. All’amore che tira fuori da ciascuno il vero io, quello più celato e indifeso. Più protetto. Uscire da quella stanza, staccarsi da lui, significava perdere tutta la sua realtà. Tornava così nel suo mondo, un mondo di piccole cose, di grandi problemi e di qualche gioia, il lavoro, la casa, l’ex marito, i genitori, il suo meraviglioso bambino, e in questo mondo l’unico denominatore comune era l’attesa, il bisogno di ritrovare Sarah in quella stanza. Sarah tre ore alla settimana, Sarah con le gonne lunghe e i capelli scompigliati, con il quaderno di poesie nella grande borsa a tracolla. Sarah che piange, ride e trema. Sarah che vive. Sarah che vorrebbe essere Alice ed entrare nello


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specchio; che si fa ora piccola piccola e Sarah bambina ha la treccia disfatta e gli occhi perduti lontano nelle foto che il papà le scattava all’uscita da scuola. Sarah che ritorna – faticosamente – a farsi donna, e lo guarda negli occhi e silenziosamente implora un gesto, uno sguardo che possa riempirle il cuore di parole. Stasera aveva la poesia con sé, quella che gli ha dedicato ma non ha osato dargli. Avrebbe significato ammettere di amarlo, di volersi spingere oltre quel confine ben definito, oltre le colonne d’Ercole del loro rapporto. Così non gliel’ha letta. Ha solo tenuta stretto al petto la borsa, e nella borsa il quaderno. E ha tirato fuori la vecchia arma dell’allegria, i suoi mots d’esprit, la sua risata argentina. Ha parlato d’altro; di tutto un po’. Fuorché di loro due in quella stanza, del silenzio pieno di echi come una conchiglia, e quando come al solito lui le ha chiesto «vogliamo fermarci qui?» – ed era il commiato – lei lo ha guardato stupita, senza capire perché lui la mandasse via, dal momento che era lì che abitavano insieme. «Non voglio» aveva detto, tornando Sarah bambina, quella che pestava i piedi per terra. Il dottore aveva sorriso. «Ok, ok, vado via!» solo così, poi la stretta di mano e la porta che si richiudeva silenziosamente alle sue spalle e fuori la pioggia. Una pioggia di rabbia e tristezza e la cognizione di essere di nuovo incompleta: Sarah tagliata a metà, che cammina come cieca in questa moltitudine colorata di persone, che va a confondersi in un grande magazzino, e cerca nello specchio il proprio viso e lo scopre solcato di lacrime. Ecco, l’unica certezza che le resterà un giorno sarà dell’aver


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camminato in quella strada, aver imparato le disuguaglianze dell’asfalto, gli ostacoli delle radici dei platani le cui cime disegnano un tetto arabescato sulla sua testa. La certezza che, se tornasse un giorno troverebbe ancora l’impronta del proprio corpo, su quel divano, ad accoglierla. Come è lungo il viaggio di ritorno fino a casa, nel traffico caotico della sera. Sarah pesca dalla borsa il suo quaderno e rilegge la poesia. Gliela darà un’altra volta. Gliela leggerà. Tu non sei l’acqua chiara che disseta, e neppure l’acqua azzurra che s’apre per accogliermi tutta. Sarah vorrebbe essere vicino al mare, adesso. Andargli incontro a piedi nudi, lasciare che l’acqua le lambisca le caviglie e salga piano sul suo corpo che gli si offre. Tu sei la linea blu oltre il mare, quella che segna i confini del mio mondo. E io che amo, senza poterla conoscere. Ecco, ora il bus ha svoltato oltre il complesso ospedaliero e scende giù, lungo il fianco della collina aminea. D’impulso Sarah preme il pulsante che chiama la fermata e dopo un attimo è fuori e respira l’aria che sa di erba e alberi. Evita così l’arteria centrale, gira a sinistra per via Nicolardi e attraversa stradine silenziose che profumano di bosco. Il cielo è color indaco e tinge tutta l’aria intorno. Le ombre degli alberi si delineano disegnate a carboncino. Trecento metri più avanti, il bosco di Capodimonte intona il suo concerto di foglie e di uccelli. È bello quest’angolo di città. Questa quiete di altri tempi.


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La strada dove abita è stretta e lunga, e conduce fino a Porta Piccola, uno degli ingressi al bosco. Al mattino c’è un piccolo mercato di quartiere con voci e colori abbaglianti, ma le sere – viola e dilatate – sono piene di respiri; passano gatti silenziosi sotto il suo balcone al primo piano. Il cielo è altissimo e intoccabile, eppure a volte un raggio di luna arriva a toccare il suo letto e lei lo accoglie come un amante. I muri della sua casa sono pieni di ferite che la riportano alla terribile sera del terremoto, e i lavori appena incominciati hanno solcato le pareti di grosse lacrime di cemento. Ma è la sua casa. I mobili in legno, la piattaia, il tavolo con la fioriera di rame. E sempre un ciuffo di anemoni o di fresie. La poltrona a dondolo davanti la tv e la stanza del suo bambino con i giochi di ogni tempo che si sono accumulati negli scaffali e che sembrano segnare il ritmo delle loro vite. Un giorno lascerà tutto questo. Lo sa da tanto, forse da sempre. A volte ne parla con il dottore. Sceglierà un mattino azzurro per partire, pieno di sole, col blu e l’oro che vibrano negli occhi e nel cuore. Metterà chilometri e chilometri fra sé e tutto questo. E “questo” è la paura di vivere. Di sapere cosa verrà dopo, sapendo che quanto è stato prima è stato quasi sempre difficile, doloroso, sbagliato. “Questo” sono le sue domeniche solitarie, gli occhi del suo bambino piene di domande. Lei che si stende sul divano, in quella stanza in fondo al mare, e la sua vita diventa un film che scorre sulla parete come su uno schermo, un vecchio film già visto, di cui vorrebbe cambiare il finale. “Questo” è lei che apre le mani ma il dolore non vola via. Resta acquattato da


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qualche parte nella sua testa e le fa dolere anche il sangue. È un silenzio che non vuole voci, ricordi, emozioni. Un silenzio che finge l’assenza del dolore. Un silenzio che somiglia alla morte. Ecco, quando morirà, lei penserà “Io la conoscevo già la morte: era lei quella solitudine. E quel silenzio”. “Non voglio soffrire più! E cosa c’è di sbagliato in questo? È stato sbagliato amare”. Mai una volta che l’amore non sia diventato per lei dolore e poi ricerca esasperata della sua negazione. Da quella volta, la prima volta, che Fausto aveva chiuso le proprie mani intorno alla sua gola e aveva stretto, stretto e lei si dibatteva sul letto dove avrebbe dovuto conoscere l’amore, la tenerezza, il piacere. Si dibatteva e cercava di allentare con le mani la stretta di quelle mani, di spingere lontano da sé il viso dell’uomo che aveva sposato e che non conosceva. Lo scopriva diverso da sé. E ostile. Avrebbe voluto gridare, gridare tutto l’orrore di quei due occhi bruni e insondabili che la guardavano con odio. L’orrore di doversi difendere da una creatura che amava e da cui si era creduta amata, che – invece – diventava il nemico. Il nemico con cui vivere anni ancora, imparando a riconoscere il suono dei suoi passi, il suo odore, il suo respiro, per difendersene. Per rincantucciarsi nell’angolino più nascosto. Imparare a cancellare dal proprio corpo i segni di quella conoscenza che la lasciava sfinita, e nonostante tutto ancora incredula. Imparare a non trasalire più ma vigilare cauta – quanto cauta – per prevenire le esplosioni della sua rabbia. Difendere il proprio bambino da quella rabbia. E cercare di difenderlo anche dalla paura che ne


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era scaturita. Paura di vivere. Soprattutto di amare. È quasi a casa sua. La luce accesa, nel palazzo che fa angolo con un viale privato, è quella della stanza di suo figlio. Lui cercherà sul viso della mamma – anche stasera – i segni di tutti i posti che ha attraversato. Si sente stordita, Sarah. È come se fosse appena scesa da un treno. Dall’aver visto luoghi dove era già stata. Ci sono certe stazioni dove è bello fermarsi e riconoscere un albero, una casa, un palo del telegrafo. Sapere di essere già stata lì e ritrovarsi con le emozioni intatte di un tempo. Ma ci sono stazioni dove il tempo ha disegnato uno scenario di morte, e le si stringe il cuore a cercare la Sarah di allora, quella che era arrivata col passo leggero e gli occhi pieni di luce dei vent’anni. Ci sono certe stazioni dove non si fermerà più. Lascerà che il treno passi oltre. Che scavalchi la barriera del silenzio. Il dottore l’ha tenuta per mano lì, e il dolore si è composto in una immagine. Forse ha finalmente urlato. Dopo tanti anni, le mani che le stringevano la gola hanno allentato la stretta. Forse ha pianto. Ma le lacrime, in quella stanza in fondo al mare, sono diventate corallo. Ha lasciato in certe stazioni quel silenzio. Fu così che aprendo la porta di casa lo sentì: il dolce, insostituibile rumore della vita.


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Segni: Sarah bambina Torino, autunno 1991

Quando ero ancora una bambina e si abitava tutti insieme (tranne mio fratello, che non era ancora nato!), ci si presentò l’occasione di un bell’appartamento, nello stesso palazzo in cui vivevamo. A quei tempi trovar casa era abbastanza facile, ma trovarla nella stessa zona, così da non esser costretti a cambiar scuola e amicizie, rappresentò davvero un colpo di fortuna. Io non avevo ancora sei anni, Virginia ne aveva undici e Anna due circa. La casa che lasciavamo comprendeva una stanza da letto, una cucina abitabile e un servizio. La stanza aveva uno strano pavimento a scacchiera – che mamma si ostinava continuamente a lucidare – e una finestra sbarrata, poiché si era al piano terra e si affacciava in istrada. Da quella finestra, seduta sul davanzale, osservavo la strada raramente attraversata da vetture ma piena di voci e colori come sanno esserlo anche le strade più tranquille di Napoli. Mi sentivo come Sarah Crew – reginetta prigioniera – e non avevo che i miei sogni, solo tanta fantasia, per poter uscire di lì. Quando si faceva sera, due poltrone ai lati del lettone si trasformavano in letti, uno dei quali veniva trasportato ai piedi del letto di mamma e papà per consentire alla culla della più piccola di essere accostata dal lato di mamma. Se questo significava esser poveri, noi lo eravamo. Ma c’era tanto ordine e pulizia in casa e il violino di papà metteva tanta


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struggente allegria che di esser poveri, non ci accorgemmo, credo, mai. I nostri Natali erano pieni di doni: quasi tutti quelli desiderati, che ci venivano nascosti perché noi si potesse organizzare una vera e propria caccia al tesoro. Che ci fossero case più grandi, a più stanze e servizi con la vasca era un’idea che non ci sfiorava nemmeno. Quando facevamo il bagno, mamma metteva sul fuoco pentoloni d’acqua che versava poi, tutta fumante, in una grossa tinozza di zinco. Quell’anno le vacanze di Natale furono piuttosto movimentate. La casa cominciò a riempirsi di cartoni, e tutto quanto era di minore o non immediata utilità veniva chiuso nei contenitori. Su ognuno papà incollava un’etichetta con la denominazione degli oggetti. Contemporaneamente il nuovo contratto era già stato stipulato e mamma, ormai in possesso delle chiavi, saliva quotidianamente nella nuova casa a stendere il bucato. Un giorno l’accompagnai. Le trotterellai dietro, su per una scala ripida e brutta, fino ad un piano altissimo – in realtà era un secondo equivalente ad un quarto – e poi la aiutai a reggere il cesto della biancheria mentre lei apriva la porta. Di colpo divenni Alice! Nel tempo le roselline tea e rosa, le fasce grigio-argentee, le piccole foglie di un verde tenero e trasparente della carta da parati setificata sarebbero impallidite fino a sparire. Le assi in legno del parquet si sarebbero staccate e sarebbe stato necessario incollarle nuovamente e ricoprirle con un tappeto. L’intonaco


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delle finestre si sarebbe scrostato a causa delle molte piogge, e degli anni. Ma quando la vidi per la prima volta, la casa mi accolse in tutto il suo splendore: quattro stanze dai soffitti irraggiungibili, i pavimenti in marmo, i balconi senza sbarre – affacciarsi dai quali faceva venire il capogiro – e una cucina enorme dove si poteva pranzare tutti insieme, e un bagno lungo, con una grande vasca e l’acqua corrente calda e fredda. Un vero Regno delle Meraviglie! Una delle stanze affacciava in un giardinetto dove un albero solitario allungava i suoi rami fino alle finestre del palazzo vicino. Quella seppi che sarebbe stata la nostra stanza, coi tre lettini intervallati dai tavolini da notte, una scrivania e un armadio in legno naturale. Il nuovo anno lo iniziammo lì. La sera di Capodanno ci eravamo appena alzati da tavola, dopo un pasto che ci aveva lasciati intontiti, un topolino grigio, saettò alle nostre spalle, sbucando da chissà dove, per sparire nello stanzino rettangolare, lungo e stretto, destinato a diventare nel tempo “il corridoio di papà”, il suo angolo- rifugio dove si sarebbe dilettato a costruire violini e riparare apparecchi radio e tivù. «Che schifo, un topo!» urlò Virginia. Papà rise. «È buon segno» intervenne mamma. Un topo in una casa ristrutturata un buon segno? «Che significa?» mi affrettai a domandare. «Significa che la casa ci vuole, è un segno di buona fortuna, un augurio!» spiegò mamma. Restai perplessa. Prima di andare a letto Virginia chiese che


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si ispezionasse la nostra stanza e ci mettemmo tutti a cercare in giro, sotto i letti, perfino la piccola Anna sulle sue gambette grassocce. Da brava napoletana, mamma credeva ai segni: guai a rovesciare il sale o l’olio! Segno di disgrazia, o vedersi attraversare la strada da un gatto nero! Passare sotto una scala significava poi sciagura imminente! Non so fino a che punto si lasciasse condizionare, so solo che ne parlava con aria convinta, forse riproponendoci antiche storie sentite a sua volta dai propri genitori. Anche la nonna paterna – nonna Virginia, che abitava nel palazzetto rosa adiacente il nostro – aveva i suoi segni, in cui superstizione e saggezza contadina si mescolavano convivendo tranquillamente. «Domani farà bello» diceva a volte. «Nonna, come lo sai?» «Il cielo è rosso: rosso di sera, buon tempo si spera!» Oppure: «Sta per piovere» «Ma se è azzurro!» obiettavo. «Sì, ma le nuvole hanno la forma di un gregge – citava – cielo a pecorelle, acqua a catinelle!» Poi mi prendeva il lavoro di mano, riafferrava delle maglie scappate e mi mostrava come dovevo proseguire. Era una nonnina paziente. «Ho sognato la zia Giuseppina!» annunciai una mattina, appena alzata. La zia, in realtà pro-zia, era la sorella della nonna, più giovane di alcuni anni ma morta già da qualche mese. «Mi diceva “Io sono un’anima purgante”» continuai, mentre


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mamma versava il caffellatte nella tazza. Avevo nove anni e frequentavo la seconda elementare. Da due anni la famiglia era aumentata e, dopo tre bambine, era arrivato un fratellino – tondo e pieno di riccioli – che io aiutavo a camminare, tenendolo per le redini come fosse un puledrino. «Cosa faceva la zia?» mi chiese mamma, incuriosita, sistemando Antonio nel seggiolone e legandogli un bavaglino al collo. «Niente, diceva quello che ti ho detto e veniva verso di me con un vestito bianco, lungo, come quello degli antichi greci» «Un peplo» suggerì Virginia. «È segno che vuole che si dica una Messa per lei», spiegò mamma. Una sera, vedevo la tivù – una tivù in bianco e nero, con solo due reti RAI – sentii la sediolina sulla quale sedevo muoversi, scivolando all’indietro dolcemente. «Sai cosa significa questo?» chiese papà, guardandomi dalla soglia della cucina, con fare divertito. «No, non lo so!» «Guarda il lampadario, Sarah!» fece lui. Io obbedii: il lampadario a sei braccia – ognuno terminante con una campana che conteneva una lampadina – oscillava come un pendolo, avanti e indietro. «Questo significa che c’è un terremoto in atto» «Un terremoto?» Mi sentii accapponare la pelle. Proprio quell’anno, in geografia,


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avevo studiato l’origine dei terremoti, i diversi gradi di misurazione e i danni che provocavano, motivo per cui non mi pareva che ci fosse proprio niente di cui sorridere. «Non hai paura, papà?» gli chiesi. Ero ancora in quell’età in cui si parla molto coi genitori e senza alcun imbarazzo. Mi sentivo grande ed ero lusingata del fatto che un adulto mi dedicasse tanta attenzione. «No, non c’è da temere: è di grado lieve. Io ho visto ben altro nella mia vita! Figurati che in Turchia…» e qui si dilungò in un racconto delle sue avventurose tournées. All’epoca lavorava già in un’orchestra stabile, ma per il passato aveva girato il mondo. Quando era in vena ci raccontava dei suoi viaggi e, ascoltandolo, io mi ripromettevo di trascorrere viaggiando la mia intera vita. Grecia, Turchia, Africa, Austria, Ungheria: per me quelli erano solo nomi e macchie colorate sulle cartine dell’atlante. Più tardi il terremoto replicò con maggiore intensità, e noi ci trasferimmo a casa della nonna, al pianterreno, dove vivevano anche zio Lorenzo, unico fratello di papà, e sua moglie. Era uno zio giovane, nato ben sedici anni dopo papà, e un po’ matto. Era molto legato a noi nipoti non avendo figli, ed io, poi, ero la sua preferita! Quella notte noi bambini dormimmo nel lettone degli zii, e i grandi si adattarono su poltrone e divani. Il terremoto non tornò: ci lasciò dormire tranquilli e l’indomani tornammo a casa nostra e la vita riprese come prima. Circa due anni dopo, mamma aspettò un altro bambino. La


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pancia cominciò ad arrotondarsi e col passare dei mesi a farsi sempre più grossa e sporgente. A volte ci consentiva di toccarla, e allora si sentiva un movimento strano come se dentro ci fosse un passerotto che batteva le ali. Poi un giorno mamma si ammalò. Fu necessario che si mettesse a letto; la nonna si trasferì da noi e la nostra vita cambiò. A noi più grandi, Virginia ed io, furono dati piccoli compiti quotidiani come apparecchiare, sparecchiare, spolverare. La nonna era già avanti con gli anni e zoppicava a seguito di una caduta, avvenuta dieci anni prima,che le aveva fratturato il femore. C’erano perciò cose che non poteva fare, e toccava a noi aiutarla. Papà lavorava e assisteva mamma come poteva. Veniva inoltre un’infermiera a farle le flebo poiché non si nutriva più. A noi era permesso vederla pochi minuti al giorno: non sembrava più neanche la nostra mamma tanto era grossa e gonfia, con occhi piccoli e stretti, cerchiati di nero. La sua stanza odorava di disinfettante che l’infermiera bruna usava per pulire ogni cosa. Un mattino, ero a scuola, sentii qualcosa di caldo scivolare giù lungo la gamba. Quando mi toccai, ritrassi la mano macchiata di sangue. «Segno che stai diventando donna» fu l’unico commento di nonna all’accaduto. Non mi spiegò altro, e le domande che mi affioravano alle labbra le ricacciai giù, ripromettendomi di chiedere a mamma appena possibile. Dunque essere donna significava perdere sangue da una parte nascosta fra le gambe e avere dolore fino alla nausea?


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Decisi di essere uomo e cominciai a indossare pantaloni e pullover e volli tagliar corti i capelli. Presi a esprimermi come un maschiaccio, e spesso sorprendevo Virginia a guardarmi perplessa. Anche le insegnanti, a scuola, mi guardavano così. Dove era andata a finire la deliziosa, poetica ragazzina che conoscevano? “Miss sorriso” dall’aria sognante, che scriveva poesie e aveva sempre il voto più alto in composizione? Questa trasformazione durò tutto l’inverno e la primavera. I miei voti calarono paurosamente come quotazioni in borsa. In compenso mamma cominciò a migliorare: ora poteva nutrirsi normalmente, il suo corpo si era sgonfiato e di grosso le era rimasta solo la pancia. Pian piano ci riabituammo a vederla in giro per casa, papà ritrovò il buon umore e la nonna se ne tornò a casa sua, ma veniva a trovarci ed aiutarci quotidianamente. Un giorno, di ritorno da scuola, trovai mamma ad attendermi accigliata. «Sarah – mi disse – sono stata a scuola a parlare con i tuoi insegnanti: cosa combini?» Il cuore mi saltò un battito: andavo male in tutte le materie, da prima della classe ero diventata quasi ultima. «Possibile che proprio tu non capisca che devi studiare? Io sono stata male e tu te ne sei approfittata!» Non era vero! Così, sotto il suo sguardo severo, mi sciolsi in lacrime e quando i singhiozzi si furono calmati le raccontai che ogni mese perdevo sangue, così tanto da inzupparne i pannolini che Virginia mi aveva insegnato ad usare. Credevo di morire,


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stavo tanto male e “quelle cose” duravano anche venti giorni! Mamma mi accompagnò da un dottore che mi prescrisse delle pilloline che fecero sparire i dolori e l’emorragia. Ritrovai l’appetito e la voglia di vivere. E accettai di essere diventata grande, di essere una donna, ripescando subito gonne e camicette dall’armadio. I voti tornarono quelli di sempre e i professori ripresero ad amarmi. Solo le mie domande restarono senza risposta. Mamma si era limitata a confermarmi che avrei avuto le “mie cose” ogni mese, che ormai ero una donna, in grado di avere a sua volta bambini. «E come nascono i bambini?» chiesi col cuore in gola. «La cicogna…» iniziò, e io risi. «Non è vero, Maria dice che li fanno i genitori…» Maria era una mia compagna di scuola. «Lo saprai quando ti sposerai» commentò mamma seccamente, concludendo la prima e ultima lezione di educazione sessuale che ricevetti da lei nella mia vita. Intanto la primavera era sfociata in un’estate calda. Al mare, quell’anno, andammo con papà. Mamma, ormai agli sgoccioli, ci aspettava a casa in compagnia di sua madre, che era venuta a stare un po’ con noi. Aveva le guance rosee, mammina, e gli occhi ridenti. Perfino la notte che cominciarono i dolori e papà ci svegliò, correndo poi a chiamare la levatrice, perfino “quella notte” aveva l’aria di una ragazzina felice. Io avevo il cuore in gola: ricordavo quando erano nati Anna ed Antonio e mi sentivo emozionata. Aiutai Virginia a spostare i bambini nel lettone mentre mamma, a sua volta, si trasferiva nella nostra stanza, più


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vicina al bagno e alla cucina. Restai sveglia tutta la notte, avvolta in una vestaglia di mamma che ne serbava il profumo. Aspettavo con impazienza di sentire il pianto che ci avrebbe annunciato l’arrivo del fratellino. Solo che lui non pianse. Nacque e morì nello stesso istante. Ce lo lasciarono guardare: era grosso e paffuto ma aveva il viso grigio e un’espressione di sofferenza sulla boccuccia schiusa. Lo adagiarono su una poltrona, in sala, e lasciarono una piccola lampada accesa accanto a lui, come se potesse avere paura del buio. Infine, quando all’alba, stremata, mi addormentai, lo sognai. Nel sogno lo guardavo abbandonato sulla poltrona, come se dormisse. “Ma dorme!” esclamava qualcuno. A quel punto lui apriva gli occhi e, afferratosi un piedino con le mani, se lo portava alla bocca. Poi sorrideva. “Segno che volevi che vivesse, che questa cosa terribile non fosse mai accaduta”, avrebbe detto mamma, se solo avessi potuto parlargliene. Ma non lo feci. Per mesi, per anni mi pare, non fu più la nostra mamma. Era la mamma di Paolo, il bambino morto, e la mamma di Paolo piangeva, non si occupava che meccanicamente di noi, spesso guardava nel vuoto. «Sono io il tuo bambino» le diceva allora Antonio, che contava appena cinque anni. Lei lo abbracciava ma continuava a guardare nel vuoto, a cercare qualcuno che non c’era, e appena poteva scappava da una vicina che aveva di recente avuto una bambina sulla quale mamma riversava il proprio amore, la propria tenerezza, come fosse propria anche la bimba.


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«La gamba mi fa troppo male – disse la nonna un giorno, si era ormai in autunno – segno che domani pioverà!» La parola segno mi fece trasalire, facendomi ricordare d’un tratto del topolino di alcuni (o molti?) anni prima. Non so se ci avesse portato fortuna come aveva pronosticato mamma. Forse sì: papà adesso lavorava nell’orchestra del San Carlo e c’erano più soldi: lo si capiva dal fatto che la carne appariva più spesso sulla nostra tavola e che all’inizio del nuovo anno scolastico avevamo avuto tutti cappotti e scarpe nuovi. Eravamo in buona salute e noi ragazzi prendevamo buoni voti a scuola. Però il fratellino era morto e mamma si era allontanata da noi tutti. Mentre si occupava di Donatella, la piccola dei vicini, si distoglieva da noi, perdeva un po’ delle nostre vite. Io diventai una ragazzina solitaria, che ascoltava Tchaikovsky in una stanza al buio. Anna divenne la bambina di papà, la sua preferita. Virginia rinunciò al suo primo amore e Antonio, da monello qual’era, si mutò in un bambino silenzioso che portava in giro per casa il suo orsacchiotto Winnie Pooh. Ci sarebbe voluto tempo – molto, troppo per noi – prima che il dolore si addolcisse nel suo petto e lei tornasse ad essere la nostra mamma. Ora viene a trovarmi nella casa in cui vivo con mio figlio e parliamo di tante cose, anche del nostro passato. Ora riesco ad abbracciarla e a dirle “Ti voglio bene!” come avrei voluto fare tante volte, quando ero ancora una bambina e si viveva tutti insieme, in un palazzo antico, nel cuore della mia città. E del mio cuore.


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Specchi: Rosaria Torino, 1991

Hanno lasciato la finestra aperta, chissà perché. Eppure Rosa sa bene che tutta questa luce le dà fastidio. Rosaria poggia il gomito sul bracciolo della poltrona e con la mano si fa scudo al viso. Chiude gli occhi: non ha voglia di guardarsi allo specchio e invece, a bella posta, la sua poltrona è proprio davanti allo specchio lungo, incorniciato in mogano. Lei non ha mai amato gli specchi. Anche da ragazza, quando le sue sorelle passavano davanti allo specchio una fetta della loro giornata, ritoccando le labbra o i capelli, o disegnando con una pinzetta l’arco delle sopracciglia, per lei esisteva una lavata di faccia, un’aggiustata col pettine e con la mano. Se si fosse guardata allo specchio avrebbe finito col fare confronti e soffrire. Meglio non guardare allora, non sapere. Ed ora la terapista pretendeva che lei si osservasse, eseguisse allo specchio una parte dei suoi esercizi, accettasse quel corpo sconosciuto, deforme, col braccio piegato, stretto al corpo, la mano chiusa quasi a pugno e la gamba ruotata in fuori. Rosaria non le dà ascolto, naturalmente. Se non si guarda, se non vede quella metà così diversa e bizzarra, può dimenticare perfino di averla. Mica difficile: è una parte che non sente, che non c’è tranne che per il dolore, uno spasmo acuto che le trafigge la spalla e corre lungo al suo braccio, fino alle


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dita. Ciò che odia di più poi è la sua mano, cioè quella mano che, se tutto va bene, se ne sta inerte sulla gamba, col palmo in giù come la terapista le ha insegnato. Se con la destra l’appoggia al bracciolo, dopo un po’ scivola via: le cade in grembo. Se tenta di aprire le dita per afferrare qualcosa ecco che le si chiude a pugno, le fa i dispetti, sfugge al suo controllo. Allora fa quel gioco, quello che faceva da ragazza quando le sorelle giocavano alle sfilate di moda coi vestiti di mamma o con le lenzuola avvolte intorno al corpo come pepli. Rosaria sceglieva sempre di fare la giuria. Addosso a lei le sete, i tessuti leggeri, quelli venuti dall’America, avrebbero perso la loro grazia. Il suo corpo massiccio – i seni pesanti, i fianchi larghi – avrebbero fatto sfigurare anche Dior e Saint Laurent. Allora, seduta a terra, i piedi nudi sul pavimento fresco, poggiata al battente dell’armadio, Rosaria chiudeva gli occhi e sognava. Il sogno era sempre lo stesso o quasi, con qualche variazione sul tema: una serata di gala, una sfilata grandi firme, Firenze o Roma o Parigi. Lei fermava con gli spilli una piega che difettava ed ecco che la modella, come punta dall’arcolaio della fiaba, sveniva, cadeva giù fluttuante, come senza ossa. Lo stilista disperato, confusione e panico. Poi qualcuno la nota, osserva le mani lunghe, il collo affusolato, il vitino snello e la pelle luminosa. Così le sciolgono i capelli, la truccano appena, le fanno indossare l’abito più bello – quello che chiude la rassegna – e la spingono fuori, all’aperto, nella notte piena di vento e di profumi, con luci colorate che si inseguono intorno al suo corpo,


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ai veli che si schiudono con grazia. Rosaria respira a fondo e sorride. È un trionfo. A questo punto del sogno Marianna la svegliava con un grido: “Ti decidi a darmi un voto, sì o no?”, e lei si ritrovava sul pavimento fresco del soggiorno di casa, un taccuino posato sulle ginocchia. Col suo corpo grosso, senza forme, e i grandi occhi chiari, un po’ spalancati come se avesse sempre paura di qualcosa. Una sorta di paura che era lì, dentro di lei. Ed ora la malattia, e soprattutto la terapia, sembrava che volessero stanarla, quella paura, come un vecchio relitto che salga in superficie durante una tempesta. «Hai chiamato?» chiede Rosa, affacciandosi sulla soglia. Lei muove appena il capo. «No» formula con le labbra. Non parla quasi più: è talmente faticoso! Sua cugina si allontana, la sente attraversare il corridoio, entrare in cucina, dire qualcosa ad Assunta ma a voce molto bassa perché lei non senta. Figurarsi, lo sa già cosa dicono. Che si sta spegnendo, come una candela. In realtà non ha più voglia di vivere. Si sente tradita, defraudata di qualcosa. Si era sempre raccontata che invecchiando avrebbe finito con l’accettarsi com’era. E in fondo era vero: passata l’età in cui potesse piacere ad un uomo, o in cui un uomo potesse piacerle, viveva solo del suo lavoro, del difficile eppure soddisfacente rapporto con i suoi allievi.


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Il tempo l’aveva resa più indulgente. Era come un vulcano addormentato, con tanta forza che le ribolliva dentro e, perché no, tanta rabbia ma in superficie quiete, una pacata rassegnazione. Sarah, la sua terapista, insisteva a scavare, a far venir fuori a tratti sprazzi di ribellione. La stuzzicava, la pungolava con benevola ironia. Rosaria era contenta che ci fosse: per lei era un po’ la figlia che non aveva avuto. Non aveva mai conosciuto neanche l’amore, Rosaria. Pensato, sì, sognato, immaginato mille volte e mille volte respinto. Appena maggiorenne era andata a vivere per conto suo, accogliendo in casa con sé Rosa, la cugina povera, cosa che aveva suscitato perplessità in famiglia. Vivevano insieme, dividevano spese, focolare, forse anche il letto? Rosaria aveva riso alle loro supposizioni, aveva fatto spallucce, rassicurato sua cugina con un “lasciali dire, si stancheranno…” E così avevano vissuto insieme – insegnato in due scuole diverse, per evitare chiacchiere – e si erano fatte buona compagnia parlando degli uomini con curiosità, diffidenza, poi rimpianto. Ed ora Rosa era il suo angelo custode, si occupava di lei come di una bambina: la lavava, la vestiva, la imboccava. All’inizio, quando la terapista aveva apportato una ripresa al suo stato, le aveva sgridate ben bene, ottenendo che Rosa le stesse vicino sì ma senza aiutarla e che lei – Rosaria – imparasse ad usare il suo braccio da sola. Le aveva insegnato a camminare, a salire e scendere le scale.


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L’aveva perfino accompagnata due o tre volte in strada, in brevi passeggiate che avevano, era chiaro, lo scopo di farle accettare l’idea che altri, al di fuori della famiglia, la vedessero con la sua menomazione. Poi il rene aveva cominciato a cedere, il cuore a scompensarsi. Sarah continuava a venire ma non pretendeva più tanto da lei. Sembrava capire che, dietro la sua mancanza di forze, c’era una rinuncia precisa. «Non vuole proprio più combattere, vero?» le aveva chiesto una mattina, e le aveva sfiorato il viso in una carezza. Lei aveva scrollato le spalle e guardato fuori della finestra. Poi aveva osservato in tralice il viso dolce della ragazza, la sua espressione preoccupata, che in qualche modo facevano breccia nel suo cuore, e lei, per contro, non voleva più soffrire. Sarah aveva preso la mano e l’aveva mossa dolcemente finché le dita si erano schiuse, il braccio si era rilassato e la fitta dolorosa era quasi scomparsa. Aveva un buon profumo la terapista, un viso grazioso e un corpicino ben fatto ma niente uomini nella sua vita, un matrimonio sbagliato alle spalle e un figlio adolescente. Tanto lavoro e basta. Quando stava ancora bene Rosaria la punzecchiava, le chiedeva se fosse saltato fuori un partito, se non era il caso di scrivere a Marta Flavi. Sarah rideva e le due cugine le si univano in coro. «Il solo uomo che riesca a tollerare è mio figlio», asseriva con un sorriso autoironico. Ora non aveva la forza di parlare, ma se avesse potuto le avrebbe


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detto di riprovare, di non darsi per vinta. Era sbagliato rinunciare all’amore per paura di soffrire, come aveva fatto lei. E tutto quell’amore che sentiva dentro – quello di cui si riteneva capace – era andato sprecato, perso chissà dove, chissà perché. Una vita inutile, la sua? Rosaria non osa rispondersi. Forse. Forse avrebbe fatto meglio ad accettare quell’avvocato un po’ anziano, titolare dello studio dove lavorava suo fratello Lino. Invece no. La sua vita era stata l’attraversata di un deserto, con qualche piccola oasi rappresentata dai nipoti, figli delle sue sorelle e dei suoi fratelli. E i pronipoti. La piccola Marta veniva a trovarla ogni pomeriggio, la chiamava “Iaia” con la sua vocina cinguettante. Ora è entrato un moscone, un grosso moscone bruno-dorato. Rosaria lo allontana infastidita e subito il viso, non schermato più dalla mano, viene inondato dal sole. Il sole è un liquido caldo che le scivola sulla pelle, la tinge d’oro, le vela lo sguardo. È una spada di fuoco che le ferisce gli occhi, la trapassa, scompone in due l’immagine nell’esecrato specchio. Ecco, ci sono due Rosaria ora. Il suo corpo è tagliato in due. Il raggio l’ha divisa come quel colpo che le prese l’estate scorsa, no, due estati fa. La parte destra, quella sana, per una strana ironia è quella che ha sempre detestato, evitato di conoscere. Il viso largo, lo zigomo piatto, l’occhio grande, chiaro, scrutatore: l’unica sua bellezza.


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Il seno pesante, privo di sostegno, col capezzolo bruno che traspare di sotto il lino bianco della camicia. La gamba tozza, dalla caviglia grossa, che scherno per una che avrebbe voluto fare l’indossatrice o la ballerina! Ma l’altra metà, quella che non sente, che non le obbedisce, che la tradisce continuamente… Rosaria si guarda allo specchio, osserva il suo lato sinistro: il volto sottile, l’arco perfetto del sopracciglio, e poi giù il collo lungo, la linea dolce e piena della spalla, il seno alto da statua greca, il fianco snello, la caviglia esile, il piede minuto. Che leggerezza, che grazia, questo corpo rinnegato che si risveglia, che la appaga, che la ricompensa di tanta amarezza. Perfino i capelli, dalla parte sinistra, le scendono giù dolcemente, si curvano in una piega lucente. Prova a stendere il braccio e il braccio è docile, il suo peso lieve come una piuma. La mano si schiude e Rosaria la porta ai capelli, li tocca, li sente soffici e setati. Anche la sua pelle è di seta. Segue col dito il contorno del suo viso, del suo profilo, come se rimarcasse la scissione del suo corpo. «È il tuo turno» dice Margherita. Rosaria si volta e vede la sorella appoggiata allo stipite, che la guarda con un sorriso. Accanto a lei ci sono Gina e Marianna, e sua cugina Rosa e Assunta, la collaboratrice domestica, e Sarah. E tutte la stanno guardando con un sorriso. «È il mio turno?» chiede Rosaria, e le vede assentire con la


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testa. Allora si alza, prende dalle mani di Margherita il drappo leggero, lo passa intorno al corpo, lo avvolge con grazia, lasciando nuda la spalla. «Te l’avevo detto di guardarti allo specchio!» osserva la sua terapista, contenta. «È vero – pensa Rosaria con un brivido – sono bella, davvero bella!» Scoppia un applauso. Le stanno battendo le mani adesso, come faceva tante volte lei da bambina. «Te lo avevo detto di guardarti allo specchio» insiste la terapista, dolcemente. Rosaria le sorride. Sì, glielo aveva detto e con ragione. Non aveva che da guardarsi allo specchio, dopotutto. Ora il sole ha iniziato una danza sul suo viso, un baluginio di pulviscoli la sfiora. Rosaria si avvicina allo specchio e cerca con le dita la polvere d’oro. Poggia la fronte bruciante contro il vetro fresco e le due mani aperte a ventaglio, tutte e due le mani insieme, finalmente! E muove un passo. Attraversa lo specchio, con un sospiro.


Lucia Intartaglia è nata a Napoli, nel 1951, nella Monte di Dio resa famosa dal grande Erri De Luca. Si è laureata in lettere moderne alla Federico II e successivamente ha conseguito il diploma triennale di Terapista della Riabilitazione: Professione che ha esercitato fino a poco più di due anni fa, quando è andata in pensione. Ha scritto tutta la vita senza mai pensare di proporsi al pubblico. Poi la sua professione l’ha messa in contatto con le vite degli altri e l’empatia e la sensibilità hanno fatto il resto. Sono quindi venuti fuori, nell’arco di quasi vent’anni, i 12 racconti dal titolo “Certe stazioni” con le quali presenta al lettore riflessioni, sensazioni, speranze di personaggi veri e inventati. Attualmente vive ad Aversa con il suo gatto Sonny. Ama la musica jazz che studia e canta.

Questo libro si struttura in 12 racconti che ripercorrono la vita, non solo lavorativa, dell’autrice, tra storie vere e romanzate fatte di partenze dolorose e di ritorni, momenti ricchi di emozioni con risvolti psicologici che permettono al lettore di calarsi e di ritrovarsi in queste vicende della vita.

Euro 14,50


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