Hillary Olsen Ital 460 Ilona Klein 21 novembre 2013 Lectura Dantis: Paradiso XXVI Acquisire una visione perfetta è l’obiettivo di tutto il viaggio di Dante il Pellegrino nella Divina Commedia. Nel XXVI canto del Paradiso il tema della vista viene esposto chiaramente perché il Pellegrino perde la vista prima di essere interrogato dall’apostolo Giovanni sulla carità. Questo canto racchiude il tema principale della Divina Commedia, cioè la transizione dall’amore all’Amore che viene raffigurata tramite la riapertura dei suoi occhi e le nuove prospettive che ne scaturiscono. I temi della vista, dell’amore e della natura della lingua si uniscono in questo canto e lo rendono rappresentativo di tutto il viaggio del Pellegrino e perciò un’analisi precisa del XXVI canto del Paradiso serve per sottolineare gli obiettivi del Poeta nello scrivere la Divina Commedia. Già dall’inizio del canto si capisce che il contenuto è significativo perché la premessa del canto è l’esame sulla carità, la più importante delle tre virtù teologali. Verso la fine del canto, Dante il Pellegrino incontra Adamo e il loro dialogo è ciò che attira l’attenzione su questo canto. Il Pellegrino chiede ad Adamo quale lingua parlasse e l’esposizione sulla lingua di Adamo nel canto XXVI contraddice direttamente la dichiarazione data da Dante nel De vulgari eloquentia. Precedentemente Dante aveva dichiarato che “il linguaggio di Adamo si era spento in seguito alla confusione babelica” (Santangelo 697). Nei versi 124–126 del canto XXVI però Adamo afferma: “La lingua che io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile /
Olsen 2 fosse la gente di Nembròt attenta.” Queste due affermazioni contrastanti sono state argomento di discussione e questo studio considera la discussione accademica nell’analizzare e sintetizzare i temi del XXVI canto del Paradiso: la vista, l’amore e il linguaggio. La cecità di Dante il Pellegrino in questo canto illumina la vista letteraria e spirituale del Poeta, e la restaurazione della vista rappresenta la conversione, consentendo poi al Poeta di ridefinire la natura del linguaggio e di favorire l’uso del volgare. Questo studio analizza i temi principali del XXVI canto del Paradiso e l’analisi del saggio è basata sulla prova storica e sulla ricerca erudita relativa a ciò. Attraverso la lente della storia e della ricerca i tre temi vengono esaminati sia separatamente che collettivamente. Nell’esaminare i temi letterari individualmente, si capisce di più il loro significato e il loro valore. L’analisi collettiva dei temi rivela i collegamenti che esistono fra di essi ed espone il messaggio inteso dal Poeta. In aggiunta agli scritti di altri studiosi, questa ricerca considera anche altri scritti di Dante stesso, particolarmente la sua esposizione sulla natura e la storia della lingua che si trova nel De vulgari eloquentia. Per capire meglio lo sviluppo dei temi durante l’intera Commedia, ci si riferisce a diverse allusioni alla vista e all’amore che si trovano in Inferno, Purgatorio e Paradiso. Le altre fonti incluse nella bibliografia servono per approfondire i tre temi principali del canto e per collegarli. Esse sono state scelte a motivo dell’analisi chiara dei tre temi, ma particolarmente in considerazione della loro attenzione alla ritrattazione di Dante sulla natura del linguaggio umano. La ritrattazione di Dante è il punto centrale di questo studio perché collega i tre temi ed è una manifestazione della conversione, sia spirituale che letteraria, rispettivamente del Pellegrino e del Poeta. La ricerca presentata in questo studio si concentra sullo scopo e sul significato della
Olsen 3 ritrattazione di Dante. Nel corso dello studio si vedrà che le esperienze di Dante il Pellegrino nel XXVI canto del Paradiso rappresentano ad un microlivello ciò che il Poeta descrisse ad un macrolivello in tutto il viaggio del Pellegrino. Il microviaggio su cui questo studio si concentra inizia alla fine del XXV canto quando il Pellegrino perde la vista perché rimane abbagliato quando guarda lo splendore di San Giovanni; Dante descrive quest’esperienza così: “Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta / di vedere eclissar lo sole un poco, / che, per veder, non vedente diventa” (118–120). Dante poi si volge per guardare la sua Beatrice: “Ahi quanto ne la mente mi commossi / quando mi volsi per veder Beatrice, / per non poter veder, benché io fossi / presso di lei, e nel mondo felice!” (136–139). A questo punto del suo viaggio Dante è già stato “promosso” da San Pietro e da San Giacomo rispettivamente nell’esame sulla fede e sulla speranza. Ed è in questo stato di cecità che Dante viene esaminato da San Giovanni sulla carità. Secondo Giorgio Santangelo “Il fatto è che Dante, delle tre virtù teologali, assegna alla carità un compito eccezionale nel processo della redenzione dell’uomo” (686). Karlheinz Stierle notò l’importanza che il Poeta diede alla carità, la terza delle virtù teologali, sottolineando il fatto che, quando San Pietro esaminò il Pellegrino sulla fede, gli pose una domanda semplice: “Fede, che è?” (Par. XXIV.53). Nel XXV canto, Giacomo, oltre ad una risposta alla sua domanda, chiede una testimonianza al Pellegrino: “Dì quel ch’ell è, dì come se ne ‘infiora / la mente tua, e dì onde a te venne” (46–47). La domanda di San Giovanni invece è personale e inquisitoria: “Dì ove s’appunta l’anima tua” (XXVI.7–8). Qui Dante usò la gradazione per dare enfasi all’importanza della terza virtù teologale. In replica al quesito posto da San Giovanni, Dante deve tentare due volte di rispondere in maniera soddisfacente: la prima volta Dante risponde in maniera abbastanza generica, dicendo che desidera l’amore di Dio. Secondo Stierle il modo ambiguo in cui Dante risponde allude ad un
Olsen 4 amore altrettanto ambiguo e non sincero (406). Il Pellegrino risponde: “Lo ben che fa contenta questa corte, / Alfa e Omega è di quanta scrittura / mi legge Amore lievemente o forte” (16–18). Stierle continuò: “La scrittura che ‘mi legge Amore o lievemente o forte’; non è possibile non pensare alla situazione intima di Paolo e Francesca, lettore e lettrice che ascoltano la voce di Amore fino al momento in cui l’identificazione immaginaria si trasforma in immaginario vissuto” (406). Quest’allusione all’amore di Paolo e Francesca in Inferno V, illumina la natura storta e ambigua dell’amore data nella prima risposta. San Giovanni lo rimprovera dicendogli: “Certo a più angusto vaglio / ti conviene schiarar: dicer convienti / chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio” (Par. XXVI.22–23). Dante poi espone la logica del suo amore per Dio. La sua descrizione dell’amore richiama alla mente l’esposizione sull’amore che si trova proprio al punto testualmente centrale di tutta la Commedia. Nel XVII canto del Purgatorio Virgilio dice queste parole importanti: “Né creator né creatura mai / . . . fu sanza amore, / o naturale o d’animo” (90–92). Questo riferimento ai due tipi d’amore, l’amore naturale e l’amore d’animo, racchiude il tema e lo scopo principale del viaggio di Dante, cioè la transizione dall’amore (d’animo o erotico) all’Amore (naturale o divino). Dante parlò di questa transizione a metà strada nella sua opera per far capire ai lettori che l’amore dentro di lui (sia per Dio che per Beatrice) stava cambiando in Amore. Non è a caso che Dante viene accecato prima di quest’intervista con l’apostolo Giovanni. Infatti Dante sviluppa il tema della carità, o dell’amore perfetto, e prepara i lettori facendo riferimento alla vista e alla cecità durante tutta la Divina Commedia. Il primo esempio di cecità nella Commedia si trova nel II canto dell’Inferno quando Virgilio, spiegando la catene della grazia, parla di Lucia (Inf. II.97–102). Santa Lucia è cieca e Mandelbaum spiegò che ella è “the patron saint of sight and the symbol of illuminating grace” (Inf. 349). Il nome di Lucia indica che
Olsen 5 lei è una portatrice di luce anche se il suo mondo è coperto dal buio della cecità. L’inclusione della figura di Santa Lucia all’inizio della Commedia e durante tutto il poema presagisce la cecità di Dante e la seguente illuminazione. Dante giustappose gli esempi di cecità con simboli della perfetta visione durante la Commedia. In Paradiso V, ad esempio, Beatrice afferma che “the brightness of the souls in Heaven is a reflection of the degree of their love” (Ruud 232). Parlando della propria radiosità, Beatrice dice: “ché [l’amore] precede da perfetto veder, che, come apprende, così nel ben appreso move il piede” (Par. V.4–6). Ruud spiegò: “Perfect vision is equated with perfect understanding, and understanding of the good moves the will to love the good” e ad amare Dio. (232). Togliendo la vista a Dante Pellegrino, il Poeta asserì che anche egli aveva raggiunto il livello maggiore di comprensione dell’amore di Dio. La cecità è lo strumento tramite il quale egli raggiunge questo livello e la sua mancanza di vista ha uno scopo duplice. Santangelo spiegò gli scopi della cecità: per primo “solo attraverso il distacco dalla oggettività egli può entrare nella vita vera dell’anima,” e poi la cecità “provoca l’intervento di Beatrice, che ‘ha ne lo sguardo la virtù ch’ebbe la man di Anania’” (687). San Giovanni tranquillizza la confusione di Dante quando lo rassicura: “E fa ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta” (Par. XXVI.8–9). San Giovanni poi procede ad esaminare Dante sull’amore. Santangelo chiarì il significato e l’importanza della cecità di Dante nel momento dell’analisi di San Giovanni: “Lo smarrimento momentaneo della vista dà, certamente, al Poeta la possibilità di una intensa concentrazione interiore che, con l’ausilio dell’intelletto, può illuminarlo nel buio fisico della vista spenta” (687). Durante la Commedia Dante usò la luce per simboleggiare la divinità, l’amore e la verità, e la cecità viene usata per sottolineare il rapporto fra l’uomo e queste virtù.
Olsen 6 L’antitesi della luce è il buio, il che è caratteristico dell’Inferno. È ironico, o forse un ultimo momento didattico per il Pellegrino e per i lettori, che a questo punto nel suo viaggio egli perda la vista e tutto il suo mondo venga coperto dal buio. Si può allora interpretare la sua cecità come simbolo dell’Inferno, o meglio, simbolo di coloro che sono “ciechi” verso Dio, il cui mondo è coperto dal buio e privo della divina illuminazione. James Gaffney approfondì quest’idea: Just before his profession of love, Dante is blinded, deprived of light, and therefore in some sense deprived of the external revelation of God. The immediate cause of his loss of light is itself the light of God’s grace reflected by St. John. It is therefore God’s light that initially deprives him of light. . . . He is required to make his definitive profession of love while deprived of the light . . . of heaven, and of Beatrice who has been the vehicle of his own illumination. Both are restored to him immediately when his profession of love is complete. (104) Quest’esperienza è rappresentativa di tutto il viaggio di Dante nel suo progresso verso la presenza di Dio e mette in evidenza la transizione dall’amore all’Amore. Dopo aver risposto alla domanda di San Giovanni, Beatrice e gli angeli del Paradiso si mettono a cantare “Santo, santo, santo!” e la vista di Dante viene ripristinata (Par. XXVI.69–80). Beatrice, con i raggi dei propri occhi, “fugò . . . / onde mei che dinanzi vidi poi” (Par. XXVI.77– 79). Questi sono gli occhi che avevano catturato il cuore di Dante quando li aveva visti per la prima volta; sono gli occhi della sua donna scala; sono gli occhi tramite i quali Dante avrebbe raggiunto la presenza di Dio. Beatrice è per Dante quello che Anania fu per Paolo. San Giovanni descrive lo sguardo di Beatrice con le seguenti parole: “ha ne lo sguardo la virtù ch’ebbe la man di Anania” (Par.
Olsen 7 XXVI.12–13). Quest’allusione a Paolo è premeditata poiché Dante vuole paragonarsi all’apostolo nel momento della sua conversione. Anche Paolo si trovava “nel mezzo del cammin” (Inf. I.1) quando si convertì dopo l’apparizione dell’angelo. La restaurazione della vista simboleggia una conversione per Dante. Certamente rappresenta la conversione dall’amore all’Amore. A questo punto del viaggio, il suo amore, sia per Dio che per Beatrice, è perfetto. Massimo Verdicchio indicò un’altra interpretazione della restaurazione della vista: “Dante’s new ‘sight’ is the new allegorical understanding which he acquires through philosophy and which allows him to forge a new poetics and a new understanding of the nature of widom, love, and virtue” (143). Dante considera questa conversione anche in senso letterario. Si sta avvicinando alla presenza di Dio e deve alzare il livello della sua poetica per poter descriverne la gloria con precisione. La nuova prospettiva di Dante influenza l’interazione che presto il Pellegrino avrà con “l’anima prima / che la prima virtù creasse mai”, Adamo (Par. XXVI.83–84). Con la vista restaurata, Dante vede un nuovo personaggio che Beatrice identifica come Adamo. Il Pellegrino gli fa quattro domande, ma Adamo discerne i pensieri di Dante e capisce quello che gli vuole chiedere. La quarta domanda di Dante riguarda la lingua che parlava Adamo: “Vuoi udir . . . / l’idïoma che usai e che fei” (109–114). A questo punto la risposta del primo uomo contraddice direttamente l’affermazione che Dante ebbe sullo stesso argomento nel De vulgari eloquentia. Adamo risponde: “La lingua ch’io parlai fu tutta spenta innanzi che a l’ovra inconsummabile fosse la gente di Nembròt attenta” (Par. XXVI.124–126). “La gente di Nembròt” è ovviamente un’allusione esplicita agli avvenimenti alla Torre di Babele. In Paradiso, secondo Adamo, la lingua adamitica fu persa prima della confusione delle lingue alla Torre di Babele.
Olsen 8 Quando Dante scrisse il De vulgari eloquentia, egli aveva affermato che “il linguaggio di Adamo si era spento in seguito alla confusione babelica” (Santangelo 697). In latino Dante scrisse: Certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse. . . . Qua quidem forma omnis lingua loquentium uteretur, nisi culpa presumptiunis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur. Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad hedificationem turris Babel, que turris confusionis interpretatur. (De vulgari eloquentia 1.6.4–6) Secondo Ruud quest’opinione riflette il punto di vista conservatore dei contemporanei di Dante (365). Dante non negò la confusione delle lingue, ma asserì che la lingua adamitica era rimasta solo agli Ebrei affinché Gesù Cristo (che era ebreo) parlasse una lingua di grazia e non una lingua di confusione (Rati 517). Quindi l’ebraico era la lingua adamica; questo fatto non viene messo in dubbio nel Paradiso, anzi Dante offrì un’analisi sulla creazione, sullo sviluppo e sulla natura della lingua. Prima di parlare dei particolari della ritrattazione di Dante nel XXVI canto del Paradiso bisogna soffermarsi brevemente sulla natura della lingua. Massimiliano Corrado spiegò: “Per Dante il linguaggio costituisce la caratteristica peculiare della specie umana. L’uomo è infatti il solo essere dotato di parola, poiché questa gli è del tutto necessaria per comunicare agli altri i propri pensierei; tale privilegio, rispondente alle necessità e all’essenza stessa della natura umana, è ciò che lo distingue dagli angeli e dagli animali” (37). Il fatto che la lingua rappresentasse un aspetto così importante per Dante acuisce la disparità fra la sua trattazione sulla lingua nel De vulgari eloquentia e la ritrattazione finale nel Paradiso.
Olsen 9 Il racconto storico di Dante nel De vulgari eloquentia differisce dal racconto biblico trovato nella Genesi. Corrado spiegò: “Il primo dialogo che s’incontra effettivamente nella Bibbia è quello di Eva con il serpente” (41). Nel De vulgari eloquentia invece la parola iniziale viene pronunciata da Adamo. Pier Vincenzo Mengaldo asserì che Dante aveva scelto a favore di Adamo in considerazione della “maggior peccaminosità di Eva . . . e in genere dell’infermità razionale delle donne” (48). Corrado approfondì l’idea di Mengaldo con le seguenti parole: “Dante trova ripugnante il primo dialogo tra la donna e il diavolo (il male), e preferisce perciò— secondo ragione—pensare a un dialogo tra Adamo e il principio di ogni bene (Dio), attribuendo in questo modo all’uomo il ruolo di primo parlante” (43). Il Poeta divagò dal racconto biblico intenzionalmente, affinché i lettori potessero capire meglio la divina natura del linguaggio umano. La razionalità di Corrado è coerente con il fatto che la prima parola di Adamo nel De vulgari eloquentia è El, il nome ebraico di Dio, e anche con la convinzione che l’uomo è stato creato per glorificare Dio. “Il linguaggio è, dunque, il gratuito ‘dono’ che l’incondizionata liberalità divina ha fatto alla sua creatura, affinché la parola umana fosse manifestazione di lode e riconoscenza nei confronti del Creatore; per quetso Adamo, subito dopo essere stato creato, si era rivolto a Dio e ne aveva pronunciato il nome (El) in atto di fervido ringraziamento” (46). Dante divinizzò la lingua umana attraverso il suo discorso e l’inclusione di interpretazioni bibliche e storiche in aggiunta alle proprie idee sul linguaggio. Nel XXVI canto del Paradiso, Dante contrastò la sua posizione nel trattato originale del De vulgari eloquentia con una nuova interpretazione sulla natura e sulla storia della lingua. Adamo dice al Pellegrino che la sua lingua si era spenta prima della confusione babelica e spiega “Ché nullo effetto mai razïonabile, / Per lo piacere uman che rinovella / Seguendo il cielo,
Olsen 10 sempre fu durabile” (127–129). Tramite il personaggio di Adamo il Poeta asserì che il linguaggio viene dagli esseri umani e perciò non dura e non resiste ai mutamenti della popolazione umana. Dante poi ammise che la capacità di parlare è naturale, ma gli uomini possono regionare e stabilire in quale forma e in quale modo parlare (130–132). Secondo il Poeta tutte le lingue “soggiacciono a un costituzionale cambiamento nello spazio e nel tempo, negando di conseguenza all’idioma di Adamo, con una palese retractatio, lo statuto di ‘lingua di grazia’, sacra e inalterabile, che le aveva conferito nel De vulgari eloquentia” (Corrado 32–33). Quindi il Poeta asserì che il linguaggio è degli uomini e che non può durare poiché è soggetto alla natura mutevole degli esseri umani. Benché il Pellegrino avesse già superato i vari livelli del Purgatorio, il XXVI canto del Paradiso rappresenta la sua “vera” purgazione, sia spiritualmente che letterariamente. La purgazione spirituale è la transizione dall’amore all’Amore, mentre la purgazione letteraria apre gli occhi intellettuali del Poeta. La cecità di Dante all’inizio del canto gli fornisce un’esperienza introspettiva durante la quale San Giovanni lo esamina sulla carità. La mancanza della vista in questo momento contrasta con il resto del suo percorso verso Dio e la figura di Beatrice rafforza il tema della visione perché gli ricorda spesso di guardare e di usare gli occhi. Infatti una delle prime istruzioni date da Beatrice al Pellegrino è “Guardaci ben!” (Purg. XXX.73) Qui, invece, quando Dante deve esporre la conoscenza più importante, la sua conoscenza dell’amore di Dio, il Pellegrino viene accecato. In questo momento il buio e il silenzio vengono imposti sul Pellegrino affinché debba non guardare intorno ma guardare dentro di sé, e il Poeta usò questo momento di cecità per sottolineare la sua conversione spirituale.
Olsen 11 C’è un legame fra la seconda metà del canto, che offre la ritrattazione linguistica, e la prima metà del canto, che narra l’esame sulla carità di San Giovanni e la restaurazione della vista di Dante. Parlando dell’episodio finale di Adamo, Corrado spiegò che “non è estraneo ma completamente rispetto a quello teologico sulla terza virtù teologale” (66). Giovanni Getto approfondì quest’idea e spiegò che nella prima metà del canto il Pellegrino incontra la “pienezza della grazia fondata nelle tre virtù teologali” e che l’incontro con Adamo nella seconda metà rappresenta la pienezza della natura “realizzata in Adamo,” cioè la saggezza e la natura dell’uomo (944). La riapertura degli occhi fisici del Pellegrino assume il senso profondo di un battesimo e rappresenta il rinnovo della vista intellettuale e spirituale del Poeta. Con una nuova prospettiva Dante capisce che l’uso della lingua è arbitrario e fluido. Gli uomini attribuiscono diversi significati ai fonemi della lingua secondo la propria situazione e secondo l’epoca (Verdicchio 145). Quest’affermazione di Dante racchiude la sua conversione letteraria. Tramite l’allusione alla conversione di Paolo, il Poeta giustificò la sua ritrattazione e insinuò di aver raggiunto un livello superiore letterariamente. Dante non si limitò al paragone della conversione. Corrado offrì un’ulteriore interpretazione sull’argomento, spiegando che la rivalutazione del mutamento delle lingue è il modo in cui il Poeta legittimò l’uso del volgare (12). Dante era forse il sostenitore più ardente dell’uso del volgare e la ritrattazione sulla lingua fu rappresentativa di questo sentimento. A questo punto si vede un altro legame tra la prima metà del canto e la seconda. Giorgio Santangelo espose la sua interpretazione sull’idea dell’uso del volgare da parte di Dante. Spiegò che Dante aveva scritto il Convivio in volgare “per una finalità di divulgazione scientifica,” ma l’uso del volgare nella Divina Commedia lo “assurge a un più alto e universale compito, qual è quello di lingua della carità” (699). Non è a caso che Dante cercò di giustificare l’uso del volgare
Olsen 12 nello stesso capitolo in cui il Pellegrino supera l’esaminazione di San Giovanni sulla più nobile delle tre virtù teologali, la carità. È la carità che ha il potere di restaurare la giustizia e la pace al mondo così come l’uso del volgare ha il potere di fare altrettanto fra le persone. La prospettiva ottenuta nella prima metà del canto consente al Pellegrino di capire le parole di Adamo nella seconda metà. La conversione di Dante “nel mezzo del cammin” della sua vita non si limitò alla spiritualità o alla natura del suo amore, ma l’esperienza di Dante fu anche una conversione letteraria in cui il Poeta capì la vera natura della lingua e favorì l’uso del volgare.
Olsen 13 Opere consultate e citate Alighieri, Dante. De vulgari eloquentia. Trans. Steven Botterill. New York: Cambridge University Press, 2005. Stampa. ---. Inferno. Trans. Allen Mandelbaum. New York: Bantam Dell, 2004. Stampa. ---. Paradiso. Trans. Allen Mandelbaum. New York: Bantam Dell, 2004. Stampa. ---. Purgatorio. Trans. Allen Mandelbaum. New York: Bantam Dell, 2004. Stampa. Corrado, Massimiliano. Dante e la questione della lingua di Adamo. Roma: Salerno Editrice, 2010. Stampa. Gaffney, James. “Dante’s Blindness in Paradiso XXV-XXVI: An Allegorical Interpretation. Annual Report of the Dante Society 91 (1973): 101–112. Web. Getto, Giovanni. “Il canto XXVI del Paradiso.” Lectura Dantis Scaligera. Firenze: Le Monnier, 1968. 929–955. Stampa. Mengaldo, Pier Vincenzo. “Adamo: la lingua di Adamo.” Enciclopedia Dantesca. 1 (1970): 47– 48. Stampa. Rati, Giancarlo. “Canto XXVI.” Paradiso. Ed. Pompeo Gannantonio. Napoli: Loffredo Editore, 2000. 501–519. Stampa. Ruud, Jay. Critical Companion to Dante: A Literary Reference to His Life and Work. New York: Facts on File, Inc., 2008. Stampa. Santangelo, Giorgio. “Il canto XXVI.” Paradiso: Letture degli anni 1979–81. Ed. Luigi Gui. Roma: Bonacci Editore Roma, 1989. 685–700. Stampa. Stierle, Karlheinz. “Canto XXVI.” Lectura Dantis Turicensis: Paradiso. Eds. Georges Güntert e Michelangelo Picone. Firenze: Franco Cesati Editore, 2002. 405–418. Stampa.
Olsen 14 Verdicchio, Massimo. The Poetics of Dante’s Paradiso. Toronto: University of Toronto Press Incorporated, 2010. Stampa.