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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale

LE IMMAGINI VIVE coordinamento scientifico di Carmelo Occhipinti

L’età contemporanea a cura di Carmelo Occhipinti

Roma 2015, fascicolo II, tomo II

UniversItalia Horti Hesperidum, V, 2015, II 2


Il presente volume riproduce il fascicolo II (tomo II) del 2015 della rivista telematica semestrale Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Direttore responsabile: Carmelo Occhipinti Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Francesco Grisolia, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com/

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Studi letterari, Filosofici e Storia dell’arte Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141

Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2015 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-794-8 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE TOMO I BRAM DE KLERCK, Inside and out. Curtains and the privileged beholder in Italian Renaissance painting VALERIA E. GENOVESE, Statue vie: lavori in corso

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DANIELA CARACCIOLO, «Qualche imagine devota da riguardare»: la questione delle immagini nella letteratura sacra del XVI secolo

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CRISTINA ACUCELLA, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo

89

MARIA DO CARMO R. MENDES, Image, devotion and pararepresentation: approaching baroque painting to neuroscience, or a way to believe

127

NINA NIEDERMEIER, The Artist’s Memory: How to make the Image of the Dead Saint similar to the Living. The vera effigies of Ignatius of Loyola.

157

ALENA ROBIN, A Nazarene in the nude. Questions of representation in devotional images of New Spain

201

PAOLO SANVITO, Arte e architettura «dotata di anima» in Bernini: le reazioni emotive nelle fonti coeve

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TONINO GRIFFERO, Vive, attive e contagiose. Il potere transitivo delle immagini

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ABSTRACTS

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Horti Hesperidum, V, 2015, II 1

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TOMO II PIETRO CONTE, «Non più uomini di cera, ma vivissimi». Per una fenomenologia dell’iperrealismo

7

ARIANA DE LUCA, Dall’ekphrasis rinascimentale alla moderna scrittura critica: il contributo di Michael Baxandall

27

A. MANODORI SAGREDO, La fotografia ‘ruba’ l’anima: da Daguerre al selfie

77

FILIPPO KULBERG TAUB, «They Live!» Oltre il lato oscuro del reale

91

ALESSIA DE PALMA, L’artista Post-Human nel rapporto tra uomo e macchina

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ABSTRACTS

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EDITORIALE CARMELO OCCHIPINTI

Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: «Chi sei?» G. LEOPARDI, Dialogo della natura e di un islandese

Poco prima che si chiudesse l’anno 2013, nel sito internet di «Horti Hesperidum» veniva pubblicato il call for papers sul tema delle «Immagini vive». Nonostante la giovane età della rivista – giravano, ancora, i fascicoli delle sole prime due annate –, sorprendentemente vasta fu, da subito, la risposta degli studiosi di più varia formazione: archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti. In poche settimane, infatti, il nostro call for papers si trovò a essere rilanciato, attraverso i siti internet di diverse università e istituti di ricerca, in tutto il mondo. Risonanza di gran lunga inferiore, nonostante l’utilizzo degli stessi canali, riuscivano invece a ottenere le analoghe iniziative di lì a poco condotte da «Horti Hesperidum» su argomenti specialisticamente meglio definiti come quello della Descrittione di tutti i Paesi Bassi (1567) di Lodovico Guicciardini (a proposito dei rapporti artistici tra Italia e Paesi nordici nel XVI secolo), e del Microcosmo della pittura (1667) di Horti Hesperidum, V, 2015, I 1


C. OCCHIPINTI

Francesco Scannelli (a proposito del collezionismo estense nel XVIII secolo). Evidentemente era il tema in sé, quello appunto delle «Immagine vive», a destare una così inaspettata risonanza. Tanta risonanza si dovrebbe spiegare – mi sembra – in ragione di una nuova e sempre più diffusa esigenza, molto sentita ormai da parte degli studiosi di storia artistica (sollecitati, più o meno consapevolmente, dagli accadimenti del mondo contemporaneo): l’esigenza, cioè, di indagare certa qualità ‘attiva’ che le immagini avrebbero posseduto nel corso della storia, nelle epoche, nei luoghi e nei contesti sociali e religiosi più diversi prima che esse diventassero, per così dire, gli ‘oggetti’ – in un certo senso ‘passivi’ – della moderna disciplina storico-artistica, prima cioè che le stesse immagini si ‘trasformassero’ in ‘reperti’, diventando, così, non necessariamente qualcosa di ‘morto’ (rispetto a una precedente ‘vita’ perduta), bensì diventando, in ogni caso, qualcosa di ‘diverso’ da ciò che originariamente esse erano state. Già per il solo fatto di essere ‘guardate’ sotto una prospettiva disciplinare come quella della storia dell’arte, che è vincolata a proprie istanze di astrazione e di scientificità (in funzione, per esempio, delle classificazioni o delle periodizzazioni), le immagini non hanno fatto altro che ‘trasformarsi’: ma è vero che, per loro stessa natura, le immagini si trasformano sempre, per effetto della storia e degli uomini che le guardano, e dei luoghi che cambiano; tanto più, oggi, le immagini continuano a trasformarsi per effetto dei nuovi media i quali, sottraendole a qualsivoglia prospettiva disciplinare, ce le avvicinano nella loro più imprevedibile, multiforme, moderna ‘vitalità’. Il fatto è che, immersi come siamo nella civiltà nuova del digitale – la civiltà delle immagini virtuali, de-materializzate, decontestualizzate che a ogni momento vengono spinte fin dentro alla nostra più personale esistenza quotidiana per ricombinarsi imprevedibilmente, dentro di noi, con i nostri stessi ricordi, così da sostanziare profondamente la nostra stessa identità – ci siamo alla fine ridotti a non poter più fare a meno di questo flusso magmatico che si muove sul web e da cui veniamo visceralmente nutriti, e senza il quale non riusciremmo proprio a decidere alcunché, né a pensare, né a scrivere, né a comunicare, né a fare 6


EDITORIALE

ricerca. In questo modo, però, le immagini che per via digitale, incessantemente, entrano per così dire dentro di noi sono immagini del tutto prive della loro materia, del loro stesso corpo, perché internet, avvicinandocele, ce le impoverisce, ce le trasforma, ce le riduce a immateriali parvenze. Ma così diventa addirittura possibile – ed è questo per molti di noi, come lo è per molti dei nostri studenti, un paradosso davvero mostruoso – diventa possibile, dicevo, studiare la storia dell’arte senza quasi che sentiamo più il bisogno di andare a vedere le opere d’arte, quelle vere, senza cioè riconsiderarle concretamente in rapporto, per esempio, all’esperienza nostra del ‘paesaggio’ di cui esse sono state e continuano a essere parte: non può che venirne fuori, ormai, una storia dell’arte fatta di opere ridotte alla parvenza immateriale la quale, distaccatasi dalle opere d’arte ‘vere’, non conserva di esse alcuna idea di fisicità, né possiede la benché minima capacità di coinvolgimento emotivo che derivava anticamente dalla ‘presenza’, dalla ‘corporeità’, dal rapporto col ‘paesaggio’ e col ‘contesto’, nonché dalle tradizioni e dai ricordi che, dentro quel ‘paesaggio’, dentro quel ‘contesto’, rivivevano attraverso le immagini, vivevano nelle immagini. La storia dell’arte ha finito per ridursi, insomma, a una storia di immagini ‘morte’, staccate cioè dai contesti culturali, religiosi, rituali da cui esse provenivano: in fondo, è proprio questo tipo di storia dell’arte, scientificamente distaccata dalla ‘vita’, a rispecchiare bene, nel panorama multimediale e globalizzato che stiamo vivendo, il nostro attuale impoverimento culturale. In considerazione di quanto detto, questa miscellanea sulle «Immagini vive» è stata pensata anzitutto come raccolta di testimonianze sugli orientamenti odierni della disciplina storicoartistica la quale – oggi come non mai afflitta, per di più, dall’arido specialismo accademico che l’ha ridotta alla più mortificante inutilità sociale –, ambisce, vorrebbe o dovrebbe ambire, alla riconquista dei più vasti orizzonti della storia umana, nonché alla ricerca dei legami profondi che uniscono il passato al presente e, dunque, l’uomo alla società e le civiltà, seppure lontane nello spazio o nel tempo, l’una all’altra.

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C. OCCHIPINTI

Ebbene questi due fascicoli della V annata (2015) di «Horti Hesperidum», ciascuno diviso nei due tomi che ora finalmente presentiamo, raccolgono i contributi di quanti, archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti, abbiano voluto rispondere al nostro call for papers intervenendo su argomenti sì molto diversi, però tutti collegati a un’idea medesima: quella di verificare, nel passato come nel presente, una certa qualità ‘attiva’ che sia storicamente appartenuta, o appartenga, alle immagini. Esattamente come lo enunciavamo nel sito internet di «Horti Hesperidum», alla fine del 2013, era questo il contenuto del nostro call for papers: La rivista semestrale «Horti Hesperidum» intende dedicare il primo fascicolo monografico del 2015 al tema delle “Immagini vive”. Testimonianze letterarie di varie epoche, dall’antichità pagana all’età cristiana medievale e moderna, permettono di indagare il fenomeno antropologico dell’immagine percepita come presenza “viva”, capace di muoversi, parlare, interagire con gli uomini. Saranno prese in particolare considerazione le seguenti prospettive di indagine: 1. Il rapporto tra il fedele e l’immagine devozionale 2. L’immagine elogiata come viva, vera, parlante, nell’ekphrasis letteraria 3. L’iconoclastia, ovvero l’“uccisione” dell’immagine nelle rispettive epoche

Ora, una siffatta formulazione – cui ha partecipato Ilaria Sforza, antichista e grecista – presupponeva, nelle nostre intenzioni, le proposte di metodo già da noi avanzate nell’Editoriale al primo primo numero di «Horti Hesperidum» (2011), dove avevamo cercato di insistere sulla necessità di guardare alle opere d’arte secondo un’ottica diversa da quella più tradizionalmente disciplinare che, in sostanza, si era definita, pure nella molteplicità degli indirizzi metodologici, tra Otto e Novecento. Allora, infatti, ci chiedevamo: Ma sono pienamente condivisibili, oggi, intenzioni di metodo come le seguenti, che invece meritano la più rispettosa storicizzazione? Ri-

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EDITORIALE

muovere ogni «ingombro leggendario», auspicava Longhi, che si frapponesse tra lo storico e le opere. Considerare queste ultime con il dovuto distacco scientifico. Guardarle «in rapporto con altre opere»: evitare cioè di accostarsi all’opera d’arte – come però sempre accadeva nelle epoche passate – «con reverenza, o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo». Negare, in definitiva, «il mito degli artisti divini, e divinissimi, invece che semplicemente umani». Queste affermazioni, rilette oggi alla luce di nuove esigenze del nostro contemporaneo, finiscono per suonare come la negazione delle storie dell’arte in nome della storia dell’arte. Come la negazione degli uomini in nome dello storico dell’arte. Come la negazione dei modi di vedere in nome della connoisseurship. Come la negazione, in definitiva, della stessa ‘storia’ dell’arte. Infatti la storia ha davvero conosciuto miracoli e prodigi, maghi e stregoni, opere orribilmente belle, sovrumane, inspiegabili, e artisti terribili e divini. Lo storico di oggi ha il dovere di rispettare e comprendere ogni «ingombro leggendario», senza rimuoverlo; dovrebbe avere cioè il dovere di sorprendersi di fronte alle ragioni per cui, anticamente, a destar «meraviglia», «paura», «terrore» erano i monumenti artistici del più lontano passato come anche le opere migliori degli artisti di ogni presente. Quell’auspicato e antiletterario distacco scientifico ha finito in certi casi per rendere, a lungo andare, la disciplina della storia dell’arte, guardando soprattutto a come essa si è venuta trasformando nel panorama universitario degli ultimi decenni, una disciplina asfittica, non umanistica perché programmaticamente tecnica, di uno specialismo staccato dalla cultura, dalla società, dal costume, dalla politica, dalla religione».

In effetti, dalla cultura figurativa contemporanea provengono segnali ineludibili – gli odierni storici dell’arte non possono non tenerne conto – che ci inducono a muoverci in ben altra direzione rispetto alle indicazioni enunciate da Roberto Longhi nelle sue ormai lontane Proposte per una critica d’arte (1950) alle quali ci riferivamo nell’appena citato Editoriale di «Horti Hesperidum» del 2011. Pensiamo, per esempio, a quanto si verificava in seno alla 55a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2013), quando artisti e critici dovettero condividere il bisogno di ritrovare la fede – quella fede che, anticamente, era così sconfinata – nel ‘potere’ delle immagini, e di ritrovare, tentando di recuperarla dal nostro passato, «l’idea che l’immagine Horti Hesperidum, V, 2015, I 1

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C. OCCHIPINTI

sia un’entità viva, pulsante, dotata di poteri magici e capace di influenzare, trasformare, persino guarire l’individuo e l’intero universo»: d’altronde una tale idea non la si poteva affatto ritenere estranea alla tradizione culturale da cui noi stessi proveniamo nonostante che la modernità ‘illuministica’ abbia tentato di cancellarla, respingendola come vecchia, come appartenente a una «concezione datata, offuscata da superstizioni arcaiche»1. Così, persino sulle pagine del catalogo della stessa Biennale del ’13 (come pure su quelle dell’11, dove era fatta oggetto di rimpianto addirittura la potenza mistica di cui in età medievale era capace la ‘luce’, contro il buio introdotto da una deprecata età dei ‘lumi’), l’urgenza di un rinnovato sguardo sul passato e sulla storia era già di per sé un fatto sorprendente e audace: tanto più se, per contrasto, ripensiamo all’altrettanto audace rifiuto del passato che lungo il XX secolo fu provocatoriamente mosso, in nome della modernità, da parte delle avanguardie e delle neoavanguardie. Del resto, «la parola ‘immagine’ contiene nel suo DNA, nella sua etimologia, una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunti»2: ma visto che gli uomini del nostro tempo se ne sono dimenticati, serviva ricordare ai visitatori della Esposizione Internazionale che il misterio primigenio della scultura funeraria era, ed è, quello «di opporre alla morte, all’orizzontalità informe, la vericalità e la rigidità della pietra»3. Di fronte a questa nuova disponibilità dei ‘contemporaneisti’ nei confronti della ‘storia’, gli storici dovrebbero, da parte loro, tornare a cercare nel contemporaneo le motivazioni della loro stessa ricerca. Sottratte alle rispettive dimensioni rituali, magiche, funerarie, devozionali e religiose – quelle dimensioni che la civiltà moderna, multimediale e globalizzata ha tentato di annul1 La Biennale di Venezia. 55a Esposizione d’arte. Il palazzo enciclopedico, a cura di M. Gioni, Venezia, Marsilio, 2013, p. 25. 2 Ibidem, p. 25. 3 Ibidem, p. 26.

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EDITORIALE

lare definitivamente – le immagini sono diventate vuoti simulacri, come paiono esserlo quando le si vedono esposte, scientificamente classificate, dietro le vetrine o dentro le sale dei musei al cui interno esse hanno finito per arricchirsi di significati nuovi, certo, ma diversi da quelli che molte di esse possedevano al tempo in cui – citiamo sempre dal catalogo dell’esposizione del ’13 – «magia, miti, tradizioni e credenze religiose contavano quanto l’osservazione diretta della realtà»4.

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Ibidem, p 28.

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«NON PIÙ UOMINI DI CERA, MA VIVISSIMI». PER UNA FENOMENOLOGIA DELL’IPERREALISMO PIETRO CONTE

1. Uccidere (la statua di) un papa È l’alba del 6 maggio 1527 quando i lanzichenecchi di Carlo V, vittoriosi sull’esercito schierato dalla Lega di Cognac, danno l’assalto alla Città Eterna. Papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, realizza immediatamente che ogni tentativo di resistenza è ormai vano e che in ballo, adesso, c’è la sua stessa vita: protetto da guardie svizzere disposte a farsi trucidare pur di metterlo in salvo, fugge attraverso il Passetto di Borgo e ripara tra le solide mura di Castel Sant’Angelo, da dove inizia a intavolare una trattativa con l’imperatore asburgico che si protrarrà per diverse settimane. Se per il pontefice sono certamente tempi duri, ancora peggio vanno le cose per le sue immagini: duecento chilometri più a nord, a Firenze, la cacciata della famiglia medicea e la proclamazione della Repubblica portano allo scoperto sentimenti di odio Horti Hesperidum, V, 2015, II 2


P. CONTE

e rivalsa che, non potendo indirizzarsi contro le persone in carne e ossa, prendono di mira i loro rappresentanti iconici. Benedetto Varchi racconta che alcuni giovani, «entrati una mattina per tempissimo nella chiesa della Nunziata», individuarono l’effigie votiva di Clemente e la «ferirono di più colpi, e fecero cadere e levarono via»1; sorpresi dai frati, ma decisi a completare l’opera, gli assalitori continuarono a colpire l’immagine con picche e alabarde e alla fine, chiosa lapidario Giovan Battista Busini, «l’ammazzorno»2. Anche quando fanno sorridere, le parole non vanno mai sottovalutate: rigorosamente parlando non si «ferisce», non si «ammazza» una statua, bensì un essere vivente. E tuttavia nel racconto del Varchi è proprio questo il punto cruciale, la convinzione che l’immagine non sia del tutto distinta dalla persona raffigurata, ma conservi con essa una stretta relazione. Non c’è bisogno di risalire all’effigie di Clemente per sapere che «ammazzare» una statua può indubbiamente essere interpretato come un gesto simbolico e un atto propagandistico: le innumerevoli offese contro le immagini (e in particolare contro le immagini monumentali) di dittatori e capi di stato caduti in disgrazia accompagnano e spettacolarizzano il crollo dei regimi anche ai giorni nostri3. La consapevolezza della risonanza mediatica e della connotazione politica di tali gesti iconoclastici non deve però far perdere di vista il valore evocativo dell’immagine: dire che chi si accanisce contro una statua sa benissimo di avere di fronte ‘soltanto’ una statua, e non il nemico ‘vero e proprio’, significa dire qualcosa di ovvio e al tempo stesso di profondamente sbagliato. Ovvio, perché bruciare un’immagine non equivale certo a bruciare una persona; sbagliato, perché «vediamo la replica concreta del corpo o di una sua parte, e reagiamo come se fosse reale»4. Recare un danno d’immagine, da questo punto di vista, non significa semplicemente recare un danno VARCHI 1858, vol. I, pp. 526-528. BUSINI 1860, p. 33. 3 Sul tema si veda GAMBONI 1997. 4 FREEDBERG 1989, p. 240. 1 2

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«NON PIÙ UOMINI DI CERA, MA VIVISSIMI»

all’immagine, ma anche e soprattutto alla persona – individuale o collettiva – che nell’immagine e con l’immagine si manifesta5. Nella sua Storia del ritratto in cera6, pubblicata nel 1911, Julius von Schlosser tentava di spiegare il potere e l’efficacia di immagini come quella di Clemente VII, che affollavano le chiese fiorentine e impressionavano i visitatori per il loro realismo, rinviando alla stessa nozione di «magia iconica [Bildzauber]» cui aveva fatto riferimento Aby Warburg in un celebre saggio del 1902, Arte del ritratto e borghesia fiorentina7. Per questa associazione tra realismo e magia i due storici dell’arte sono stati ampiamente e a buon diritto criticati8: come sottolineato da Hugo van der Velden proprio in relazione a quelle immagini votive di epoca medicea di cui la statua di Clemente non era che un esempio, «qui non si tratta affatto di magia, a meno che con questo termine non si intenda la magia delle immagini, il loro connaturato potere di interazione»9. Tale capacità interattiva risulta particolarmente evidente nel caso di immagini che, in virtù della loro aderenza all’aspetto esteriore dei rispettivi modelli, vengono percepite come se fossero esse stesse i modelli, gli originali: se una raffigurazione è altrettanto ricca di determinazioni della cosa o della persona raffigurata, allora non c’è più la raffigurazione, bensì soltanto la cosa o la persona raffigurata. Chi assalì l’effigie di Clemente sapeva ciò che stava facendo, era cosciente che quella contro cui si accaniva era soltanto una statua, ma quel manufatto privo di vita veniva percepito come se fosse invece il pontefice in carne e ossa, e questo cambiava completamente le carte in tavola. Quell’immagine vestita di tutto punto rientrava del resto nel novero dei bóti che pendevano dal soffitto dell’Annunziata e che, stando alla testimonianza di Vasari, erano così «naturali e tanto ben fatti» da sembrare «non più uomini di cera, ma vivis5 È questo il principio su cui si basano anche le cosiddette punizioni in effigie, i processi in absentia e la pittura infamante, su cui si vedano BRÜCKNER 1966, ORTALLO 1979 ed EDGERTON JR 1985. 6 WARBURG 1902, pp. 109-146. 7 SCHLOSSER 1911. 8 Si vedano in particolare BRÜCKNER 1966 e FREEDBERG 1989. 9 VAN DER VELDEN 1998, p. 133.

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P. CONTE

simi»10. Dire che quell’ex voto ‘rappresentava’ papa Clemente, allora, non significa genericamente che ne riproduceva le fattezze, ma piuttosto che era lì ‘in sua vece’: significa che la rappresentazione si faceva in questo caso rappresentanza. Quando la distanza tra copia e modello, a livello percettivo, diminuisce fino ad annullarsi, la somiglianza si trasforma in equivalenza e la consapevolezza di essere di fronte a un’immagine cede il passo all’illusione di trovarsi al cospetto di un essere vivente. A svolgere un ruolo fondamentale, in casi simili, è il materiale di cui è fatta l’immagine: l’effigie di Clemente era in cera, sostanza che da millenni si presta a dar corpo al sogno (o all’incubo) di una perfetta metamorfosi. Riscaldata e resa malleabile, essa si rivela mezzo ideale per la riproduzione delle più sottili sfumature epidermiche, dimostrando «una viscosità, una sorta di attività o di potere intrinseco che è un potere di metamorfismo, di polimorfismo»11. La cera consente insomma la massima vicinanza al modello e in virtù di questa sua peculiarità è impiegata da tempo immemorabile per realizzare immagini derivate da calco diretto: ritratti, appunto, che sembrano vivi. Vale dunque per i prodotti della ceroplastica ciò che Hans Belting ha individuato come uno dei principi fondamentali di qualsivoglia antropologia del visuale, e cioè la credenza che le immagini vivano nei loro media allo stesso modo in cui noi viviamo nei nostri corpi: «Fin dai tempi più remoti l’umanità è stata tentata dal comunicare con le immagini come se fossero corpi viventi, e persino dall’accettarle come sostituti dei corpi stessi. In questo caso noi animiamo i loro media per poter esperire le immagini come se fossero vive. Siamo noi a effettuare questa animazione nel momento in cui il desiderio del nostro sguardo entra in relazione con un dato medium. Un medium è l’oggetto, un’immagine l’obiettivo dell’animazione»12. Grazie a quell’effigie in cera era come se Clemente VII si trovasse realmente all’interno della basilica, in dialogo tanto con le VASARI 1568, vol. II, p. 468. DIDI-HUBERMAN 1998, p. 10. 12 BELTING 2005, p. 80. 10 11

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«NON PIÙ UOMINI DI CERA, MA VIVISSIMI»

potenze ultraterrene quanto con i visitatori dell’Annunziata: tutti dovevano sapere che un membro della famiglia dei Medici era diventato pontefice per volere divino. Complice la distanza da cui si era costretti a osservarla, la statua doveva sembrare tanto simile al vero da essere percepita non più come una statua, bensì come il papa in persona; ed è appunto di ‘persone’ che dobbiamo ora parlare. 2. ‘Persone’ di cera Quella di Pigmalione e Galatea è probabilmente la più nota e rivisitata tra tutte le storie di animazione dell’inanimato, mentre assai meno noto è il fatto che Ovidio conceda proprio alla cera, e proprio al culmine della tensione narrativa, un ruolo decisivo nell’economia complessiva del racconto. Riepiloghiamo brevemente. Piuttosto che dedicarsi alle donne in carne e ossa, Pigmalione preferisce votarsi alla ricerca della donna ideale, estenuante compito rivelatosi spesso, per molti uomini, imperdonabile errore. Il re di Cipro ha però un indubbio vantaggio: è uno scultore, e il grande amore non lo deve andare a scovare chissà dove, ma può tranquillamente fabbricarselo in casa. Lavorando di lima e scalpello, lentamente vede affiorare dal blocco d’avorio la fanciulla tanto desiderata: prendono forma le gambe, il busto e le braccia, e infine ecco il volto, così lontano dai turbamenti del mondo. L’opera è conclusa, il risultato magnifico, e tuttavia manca ancora qualcosa: la vita, problema di non poco conto. L’artista ci prova in ogni modo, ma non bastano le carezze, non servono i baci, i doni e neppure le lacrime. Non resta che pregare, e Pigmalione prega fino a quando non trova in Venere benevolo ascolto e il prodigio tutto a un tratto si compie: «Torna ad accostare la bocca e con le mani le accarezza il seno: sotto le dita l’avorio si ammorbidisce e, perduta la durezza, cede duttile alla pressione, come diviene molle al sole la cera dell’Imetto che, plasmata dal pollice, si piega ad assumere varie forme, e

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P. CONTE

proprio così diventa utile. Stupito, felice, ma incerto e timoroso d’ingannarsi, più e più volte l’innamorato tocca con mano il suo sogno: è un corpo vero! Sotto le dita pulsano le vene»13. Una donna reale, finalmente, ma al prezzo della fine di un sogno – il sogno della donna ideale: «Avrà pensato, lo scultore di Ovidio, che ottenendo la vita per il suo capolavoro di bellezza, lo condannava automaticamente alla bruttezza?»14. Avrà pensato che da quel momento in poi il tempo avrebbe inevitabilmente lasciato il segno sulla pelle dell’amata? In questo paradigmatico e in linea di principio insolubile «paradosso di Pigmalione»15, la statua gode di un unico privilegio rispetto ai vivi: la durata, la persistenza, la stabilità garantita dal materiale di cui è fatta. Guadagnare un corpo, respirare, palpitare, vivere insomma: tutto ciò implica un salto ontologico che si rispecchia nella trasformazione dell’avorio in carne. È qui che entra in gioco la cera. Per descrivere il passaggio dall’istante in cui l’avorio inizia lentamente ad ammorbidirsi a quello in cui assume un aspetto e una consistenza completamente diversi, Ovidio ricorre al fatidico paragone: ut Hymettia sole cera remollescit… Grazie alla sua proverbiale malleabilità, alla straordinaria capacità di adattarsi a forme diverse e alla caratteristica luminosità che sembra provenire dall’interno e trasmettere un’impressione di calore e morbidezza, la cera è il materiale della soglia e della mediazione, e non è certo un caso se Platone definisce il demiurgo – mediatore par excellence tra universo ideale e mondo reale – keroplastes16, facendo del modellatore di cera l’archetipo dell’artefice che infonde il soffio vitale alla materia e riesce a trasformare l’inorganico in organico.

OVIDIO, Met. X, 282-289. BETTINI 1992, p. 77. Per tacere del fatto che una volta animata la statua avrebbe sviluppato anche un carattere e una personalità che non è affatto garantito sarebbero andati a genio al difficile Pigmalione. 15 BETTINI 1992, p. 77. 16 PL. Ti., 74 c. Molte le traduzioni che rendono il termine con un generico «modellatore» o «plasmatore», perdendo così il senso specifico e la pregnanza culturale dell’originale greco. 13 14

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Anche nel racconto ovidiano la mediazione divina opera per il tramite della cera: non più avorio e non ancora carne, eppure, misteriosamente, l’uno e l’altra insieme. Pigmalione non crede, non può credere ai suoi occhi e alle sue mani perché i sensi gli restituiscono l’immagine ambigua di una statua che ha qualcosa della donna e di una donna che ha qualcosa della statua. Ancora una volta un problema di percezione: l’incredulità deriva dal fatto che lo scultore sa di trovarsi davanti a una statua, eppure non può farci nulla – percepisce un essere umano. La cera, dunque, come materia transustanziale, a metà strada non solo tra avorio e carne, ma anche tra mondo dell’immagine e mondo della vita: quello di un’immagine vivente pare un ossimoro che chiama in causa da un lato il rapporto tra sapere e vedere, tra cognizione e percezione, dall’altro quello tra arte e realtà, mostrando come i due ambiti non siano affatto compartimenti a tenuta stagna. Il rompicapo che emerge dal racconto ovidiano riaffiora nel 1931, a quasi duemila anni di distanza, in uno dei romanzi storici più significativi del narratore russo Jurij Nikolaevič Tynjanov, Persona di cera. La vicenda è ambientata a San Pietroburgo, all’epoca in cui la lunga e difficile stagione riformatrice di Pietro il Grande volge al termine. Alla morte del sovrano, nel 1725, un novello Pigmalione, il maestro d’arti Francesco Bartolomeo Rastrelli, si assume l’incarico di realizzarne «il sembiante»17 in cera e legno di quercia. Dopo aver tessuto l’elogio della ceroplastica («vi è una delle belle arti la quale fra tutte è la più vera, e tale essa è, che non c’è modo di distinguere il ritratto che per essa si fa d’un individuo, dall’individuo medesimo che vi è raffigurato»)18, lo scultore si mette al lavoro e in preda a un autentico furor demoniaco realizza una statua straordinariamente fedele all’originale, che viene poi posta a sedere su un’elegante poltrona e sistemata sotto un baldacchino in una stanza della Kunstkammer locale, in compagnia di tre cani e un pappagallo. Il risultato è sbalorditivo: «Benché lui lì non fosse null’altro che un ritratto, una statua, cionondimeno non si sapeva come compor17 18

TYNJANOV 1931, p. 95. Ivi, p. 30.

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tarsi, lì in sua presenza, e nemmeno come parlare, poiché v’erano molte cose che pareva sconveniente dire, in quella sua di lui presenza»19. Di nuovo l’accento cade insistentemente sulla caratteristica «presenza» di una figura di cera percepita non come immagine, bensì come persona. Perché anche in questo caso a essere in gioco è un problema di percezione, tanto più che nel romanzo di Tynjanov l’effigie di Pietro – tuttora conservata all’Ermitage – viene dotata di una machina fatta di «molle segrete»20 che le consentono di alzarsi e mettersi in moto appena qualcuno aziona il meccanismo calpestando, consapevolmente o meno, un determinato punto del pavimento. È ciò che accade a Pavel Ivanovič Jagušinskij, procuratore generale del Senato, quando irrompe ubriaco nella stanza della «Persona» – termine impiegato nella Russia petrina per indicare l’imperatore21 – con l’intenzione di protestare contro il comportamento di un suo avversario politico: di fronte al ritratto del sovrano impallidisce, si toglie il cappello e inizia a parlare con le lacrime agli occhi, mentre la statua lentamente si alza in piedi e con un cenno della mano sembra intimargli di uscire. Quando infine Pietro torna a sedersi, il visitatore si allontana confuso, senza aver ben compreso quanto accaduto22. Estrema appendice di un processo di secolarizzazione che investì le effigi regali cui Ernst Kantorowicz e il suo allievo Ralph Giesey hanno dedicato pagine memorabili23, l’automa petrino va ad affiancarsi ad altre statue di cera protagoniste di una ricca aneddotica nel coevo panorama letterario. Descrivendo l’effigie di Ferdinando III d’Asburgo (1608-1657) collocata su un trono, il grande storico dell’arte Joachim von Sandrart poneva 19

Ivi, p. 123. Sull’impiego della cera per la realizzazione della «Persona» cfr. GA-

SIOROWSKA 1979, pp. 63-70; WURM 2002; FREY 2009. 20 TYNJANOV 1931, p. 124. L’effigie di Pietro I è in realtà

provvista di giunture che permettono di farle assumere posizioni diverse, ma non ha alcun meccanismo che le consenta di ‘animarsi’. Ringrazio la dottoressa Mariam Dandamayeva, Segretaria Accademica dell’Ermitage, per le informazioni fornitemi. 21 Sulla nozione di persona nel romanzo di Tynjanov si veda IVLEVA 2006. 22 TYNJANOV 1931, p. 164. 23 KANTOROWICZ 1957; GIESEY 1960.

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l’accento sul fatto che era in grado di alzarsi e compiere movimenti di una certa complessità, e le sue parole sembrano anticipare quelle di Tynjanov: «Era così simile al vero che una volta un cancelliere ungherese, nonché vescovo di Nitra, cui veniva mostrato il tesoro reale, entrò nella stanza dove sedeva l’immagine regale, e quella tutt’a un tratto si alzò in piedi e cominciò a muovere testa e occhi da una parte all’altra. L’ospite rimase talmente sorpreso da quest’inattesa presenza regale che cadde in ginocchio e si mise a chieder perdono per aver osato entrare senza essere stato chiamato; se ne restò così per un pezzo, finché il tesoriere lo fece alzare e ridendo gli svelò l’inganno»24. La cera è in grado di conferire uno stupefacente grado di Gegenwart – come significativamente recita l’originale tedesco – al soggetto raffigurato, una «presenza» che può anche condurre a esiti ben più drammatici di quello in cui sfocia l’aneddoto tragicomico riportato da Sandrart: trovatosi al cospetto dell’effigie di Federico I di Prussia (1657-1713), un generale «credette che si trattasse del re in persona e si chinò in segno di riverenza, ma quello non proferì parola. Allora, convinto che il re ce l’avesse con lui, si spaventò a tal punto che morì nel giro di pochi giorni»25. Per quanto inverosimili possano apparire, questi racconti vanno presi sul serio in virtù del carattere tipico delle loro narrazioni: come sottolineato da Ernst Kris e Otto Kurz, entrambi allievi di Schlosser, «il problema dell’occasionale veridicità di singole affermazioni […] è del tutto irrilevante, giacché l’unico elemento significativo è quello della ricorrenza»26. E ricorrenti, le vicende descritte in questi aneddoti, lo sono senz’altro. Basti pensare che circa un secolo dopo la costruzione dell’effigie di Pietro, e per la precisione nel 1832, Jeremy Bentham moriva lasciando precise volontà testamentarie: dopo essere stato sottoposto ad autopsia pubblica e privato dei tessuti molli, il suo SANDRART 1675, p. 235. KÜSTER 1737-1769, vol. III, p. 541. Su questa ed altre effigi simili cfr. OTTEN 1988 e BREDEKAMP 2001. 26 KRIS, KURZ 1979, p. 10. 24 25

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corpo doveva essere preservato, vestito di tutto punto e sistemato a capotavola, «come un presidente di sessione durante un convegno»27, ogni qual volta gli amici si fossero riuniti per celebrare l’anniversario della sua nascita o della sua morte. Le volontà benthamiane furono rispettate, ma il trattamento cui fu sottoposta la testa ebbe scarso successo: nonostante gli sforzi profusi, infatti, l’espressione andò rapidamente perduta e il volto non era più presentabile. Lo si sostituì allora con una replica, e il materiale prescelto, nemmeno a dirlo, fu la cera. L’autoicona, così ribattezzata da Bentham stesso, campeggia a tutt’oggi in uno dei locali dello University College di Londra, evoluzione delle tradizionali effigi funebri che non si limita più a riprodurre un corpo in carne e ossa, ma finisce per identificarsi con esso. Torniamo ora a Tynjanov e alla sua «persona» di cera per due ultime osservazioni che permettono di riprendere due diverse, ma al tempo stesso correlate questioni. La prima riguarda il fatto che per tutto il romanzo la ceroplastica pare ambiguamente oscillare tra vera e propria arte e mero divertissement illusionistico: da un lato, infatti, Rastrelli si vanta di essere un grande artista, degno erede di quell’Antoine Benoist che figurava tra i ritrattisti ufficiali di Luigi XIV e che nel 1681 venne accolto all’interno della prestigiosa Accademia di Belle Arti di Parigi28 perché le sue opere, come ebbe a scrivere Félix-Sébastien Feuillet de Conches, erano simili a delle apparizioni29; dall’altro, però, l’effigie di Pietro va a far compagnia ai preparati anatomici di Frederik Ruysch e alle variegate ‘curiosità’ della Kunstkammer di San Pietroburgo, tra animali impagliati e arti deformi. La domanda, BENTHAM 1824, p. 6. SCHLOSSER 1911, pp. 136-140. 29 FEUILLET DE CONCHES 1862-1868, vol. II, p. 244. Sulla stessa lunghezza d’onda un entusiastico madrigale composto in onore dell’artista e citato da VAUDIN 1887, p. 16: «Quel spectacle s’offre à nos yeux? / Ce Cercle est-il vivant? On diroit qu’il respire. / Benoist, ton Art ingenieux, / Par un secret nouveau, semble animer la Cire. / J’admire ton rare talent. / Tes Portraits d’un goût excellent / Causent une surprise extrême: / On croit voir la personne même / Et jamais on n’a fait rien de plus ressemblant». 27 28

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in tal caso, riguarda la possibilità stessa di considerare la ceroplastica – e più in generale la scultura iperrealistica – come autentica forma d’arte. La seconda osservazione concerne invece un particolare significativo del romanzo di Tynjanov, e cioè il fatto che Jagušinskij percepisca il manichino di cera come se fosse un essere vivente nonostante sappia che si tratta in realtà di un artefatto: era stato lui, infatti, a dare disposizioni perché il ritratto, una volta terminato, fosse portato a palazzo per essere vestito con gli abiti regali. Ci si ritrova qui nuovamente a che fare con quel conflitto tra sapere e vedere che costituisce il fulcro teorico fondamentale di tutte le vicende prese in esame finora, da quella mitica di Pigmalione e Galatea a quella storica della statua di Pietro il Grande. Lasciamo momentaneamente in sospeso la prima questione e concentriamoci su quest’ultimo punto, perché un aiuto ci giunge, in modo inatteso e insperato, dalla fenomenologia. 3. La dama in cima alle scale Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento un giovane e brillante studente di matematica, Edmund Husserl, si reca in visita al Castans Panoptikum, rinomato museo delle cere di Berlino. L’incauto universitario trova subito pane per i suoi denti, perché non fa in tempo a entrare che già si trova costretto a pagar dazio alla magia incantatrice del luogo: «Una “dama” fin troppo gentile mi faceva cenno in cima alle scale. Mi è venuto un colpo. Dopo qualche attimo di titubanza, però, mi sono reso conto all’improvviso che si trattava di uno di quei “manichini” costruiti per ingannare la gente»30. Questo episodio apparentemente insignificante lascia tracce profonde nel futuro padre della fenomenologia, che ne farà un vero leitmotiv della propria opera e lo sceglierà come esempio paradigmatico degli spinosi problemi insiti nel concetto di «rappresentazione» e nella definizione delle problematiche legate 30

HUSSERL 1912, p. 423.

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all’immaginazione e alla coscienza d’immagine. Significativo, a tal riguardo, un passo tratto dalla Quinta ricerca logica, simile ma non identico al precedente: «Vagando in un museo delle cere ci imbattiamo lungo una scalinata in una bella sconosciuta che ammicca verso di noi: uno scherzo ben noto. Si tratta di un manichino che per un istante ci ha tratti in inganno. Per tutto il tempo in cui viviamo in questa illusione abbiamo una percezione non diversa da qualsiasi altra. Vediamo una donna, non un manichino. Non appena ci accorgiamo dell’inganno, accade l’inverso: ora vediamo un manichino che rappresenta una donna»31. Finché dura l’illusione abbiamo quindi a che fare con una normale percezione, che solo in seguito si dimostra errata: percepiamo una donna che a ben guardare si rivela essere un manichino. Prendendo le mosse da questa constatazione, il fenomenologo deve descrivere che cosa accade nel passaggio dalla percezione della donna alla consapevolezza di trovarsi in presenza di un’immagine, chiarendo quale differenza strutturale sussista tra il primo atto intuitivo e il secondo. Mentre nella percezione l’oggetto si dà «in prima persona, come in sé presente», nella coscienza d’immagine esso appare «non come presente, bensì soltanto come presentificato»32. La percezione presenta il proprio oggetto direttamente: appare un oggetto, e questo oggetto viene preso per vero e realmente esistente. Perché si dia coscienza percettiva è dunque necessario non solo che l’oggetto appaia «in carne e ossa»33, ma che sia anche creduto vero. Nella coscienza d’immagine, invece, appare sì un oggetto, ma quest’oggetto non è il rappresentato, bensì una sua immagine, un suo Stellvertreter – qualcosa che prende il posto di qualcos’altro. La rappresentazione figurale è contraddistinta quindi da una «mediatezza»34 totalmente assente nella rappresentazione percettiva: l’oggetto

HUSSERL 1900-1901, vol. II, pp. 229-230. HUSSERL 1904-1905, p. 16. 33 HUSSERL 1911-1912, p. 305. 34 HUSSERL 1904-1905, p. 24. 31 32

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non vale per sé, bensì come «rappresentante analogico»35 di un altro oggetto. Perché si dia immagine è quindi fondamentale che ci sia distanza, cioè che spazio fisico e spazio iconico, ‘realtà’ e ‘irrealtà’, siano separati da un intervallo, da uno scarto. Come chioserà Moritz Geiger, altro fenomenologo che al rapporto tra distanza e godimento estetico dedicherà pagine memorabili, «quando godiamo esteticamente un dipinto, un paesaggio, le fattezze di un uomo, una poesia o una sinfonia, c’è sempre una presa di distanza tra io e oggetto»36. Lo ribadirà anni dopo Giovanni Piana, con la consueta forza sintetica: «Una distanza rispetto all’originale è presupposta nel concetto stesso della raffigurazione»37. E di questa distanza dobbiamo essere pienamente consapevoli, il che significa che non possiamo avere dubbi né esitazioni nell’individuare l’immagine in quanto immagine-di qualcos’altro: l’immagine non è, non può essere identità. L’apprensione figurale, diversamente da quella percettiva, possiede infatti il carattere della rappresentazione per somiglianza, che esige la capacità non solo di «vedere come», ma anche di «cogliere il medesimo nella differenza»38: solo così l’immagine si configura come struttura di rinvio. Ma che cosa succede se la distanza tra raffigurante e raffigurato sfuma fino a risultare impercettibile? Come stanno le cose quando la somiglianza cresce al punto da sfociare nell’indistinguibilità? La risposta è una sola: l’immagine cede il posto all’illusione. Se l’immagine non è distinta dal suo referente grazie alle differenze fenomeniche rispetto a una qualunque apparizione percettiva dell’oggetto inteso, allora non c’è più alcuna immagine, ma soltanto un’apparizione identica a una percezione dell’oggetto. Il carattere figurativo della dama di cera è troppo potente, troppo immediato, nel senso letterale del termine: fa HUSSERL 1904-1905, p. 25. GEIGER 1913, p. 108. Sull’analisi geigeriana della nozione di ‘distanza’ cfr. CONTE 2012. 37 PIANA 1979, p. 89. 38 FRANZINI 2004, p. 125 (corsivo mio). 35 36

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venir meno la mediatezza della raffigurazione. Senza mediatezza, però, non si dà nemmeno immagine: come riassume Hans Blumenberg, «il manichino vuol essere la persona, non la sua immagine»39. Ecco che si torna al problema della persona, problema che Husserl ha ben chiaro quando accenna ai «casi limite»40 della rappresentazione e afferma che «in un ritratto perfetto – un ritratto, cioè, che raffiguri una persona in tutto e per tutto, secondo ogni momento – è come se fosse presente la persona stessa»41. Soltanto «come se», però, perché di solito questa «persona stessa», cioè la persona in carne e ossa, appartiene chiaramente a un contesto diverso rispetto a quello della sua immagine: «La persona reale si muove, parla e così via, mentre la persona in immagine è una figura rigida, muta»42. Così, appunto, di solito. Ma la statua di cera ha la stessa forza, la stessa stabilità, la stessa pienezza che attribuiamo a una persona reale, oggetto di percezione. Grazie ad artifici meccanici può muoversi e proferire parole, finendo così per incarnare quel caso estremo in cui la sintesi di coincidenza tra raffigurante e raffigurato abbraccia tutti i momenti di apparizione del primo che sono in grado di diventare portatori di somiglianza rispetto alle proprietà intese nell’apprensione del secondo. Manca quel grado minimo di differenza sufficiente per poter distinguere tra immagine e soggetto riprodotto, e la somiglianza, di conseguenza, si fa identità. La statua di cera, quindi, non è una struttura di rinvio, non cerca di rappresentare, bensì di presentare; ed è per questo che, fin quando vediamo nel manichino una persona reale, non possiamo che avere una normale percezione. Nella misura in cui è percepita alla stregua di un essere umano, la dama husserliana non è fatta più di cera, bensì della nostra stessa carne. Ma come accade che essa (o forse sarebbe meglio dire «ella») viene infine riconosciuta come figura, e non come persona? Quando si svela BLUMENBERG 1989, p. 549. HUSSERL 1904-1905, p. 31. 41 HUSSERL 1904-1905, p. 32. 42 HUSSERL 1904-1905, p. 32. 39 40

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l’errore? Come prendiamo coscienza di essere stati tratti in inganno? Perché ciò accada deve iniziare a vacillare quell’«orizzonte di familiarità»43 con cui un oggetto si dà nella normale percezione. È necessario che i conti non tornino e che qualche elemento desti il dubbio e spinga alla verifica: per quanto riguarda la figura di cera, questo elemento è dato solitamente dalla mancanza di movimento, oppure – nel caso in cui la statua sia dotata di congegni che la mettano in condizione di compiere gesti più o meno complessi – dalla sua meccanicità. Possiamo ben immaginarcelo: Husserl entra al museo e si dirige verso la biglietteria, getta un’occhiata distratta alla rampa di scale e si accorge della dama che gli fa cenno di salire. Si guarda intorno perplesso per capire se sia davvero lui il destinatario dell’invito e, non vedendo nessuno nei paraggi, si rivolge nuovamente alla sconosciuta. Ancora gli stessi, identici gesti. È questo il momento in cui l’illusione viene meno e alla percezione subentra la coscienza d’immagine: prima era una persona, ora una figura di cera. Le cose però non sono così semplici, perché, anche una volta smascherata, la dama non si dà per vinta: «Con i vestiti e i capelli veri, talvolta dotata di meccanismi in grado di simulare artificialmente il movimento, la figura di cera imita a tal punto l’essere umano che la coscienza percettiva continua a risorgere, allontanando momentaneamente quella figurale»44. Apprensione percettiva e apprensione figurale continuano a subentrare una all’altra anche dopo che ci si è resi conto di trovarsi di fronte a un manichino: «“Sappiamo” che si tratta di parvenza, e tuttavia vediamo un essere umano»45. Ecco il dato fenomenologico più rilevante: il continuo sfasamento tra sapere e vedere. La coscienza percettiva non può imporsi fino in fondo a causa del dubbio che lentamente si insinua, turbando il normale decorso della percezione; viceversa, però, la coscienza d’immagine non riesce a celebrare il suo trionfo perché la straordinaria somiglianza delCALÌ 2002, p. 48. HUSSERL 1904-1905, p. 40. 45 HUSSERL 1904-1905, p. 40. 43 44

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la figura di cera rispetto alla persona in carne e ossa costringe sempre di nuovo a ricadere dall’apprensione figurale a quella percettiva. La descrizione fenomenologica consente dunque di dare una risposta alla questione posta dalle figure iperrealistiche all’estetica intesa come teoria della percezione: il conflitto tra sapere e percepire è riconducibile a quello tra due modalità apprensionali differenti (percezione da un lato, coscienza d’immagine dall’altro) di un unico e medesimo oggetto. Ciò si ripercuote però anche sul secondo problema emerso in tutti i racconti e gli aneddoti precedentemente considerati, e cioè il problema – che riguarda l’estetica intesa non più come teoria della percezione, bensì come teoria dell’arte – della possibilità o meno di attribuire valore artistico a opere iperrealistiche quali appunto le figure di cera. Husserl, a tal riguardo, è categorico: «La parvenza estetica non è inganno dei sensi e l’entusiasmo per grossolani imbrogli o rozzi contrasti tra realtà e parvenza […] è l’esatto opposto del piacere estetico, che si basa su una chiara e tranquilla coscienza d’immagine. Gli effetti estetici non sono trucchi da baraccone»46. La linea argomentativa husserliana è chiara: parlare di arte significa parlare di immagini; le immagini sono strutture di rinvio e devono mostrarsi chiaramente in quanto tali; le figure di cera non lo fanno, quindi non sono propriamente immagini, quindi nemmeno arte. Pare che il ragionamento non faccia una piega, eppure qualcosa non torna, se è vero che a partire dagli anni Sessanta del Novecento la cera figura, accanto a silicone e vetroresina, tra i materiali preferiti da artisti del calibro di Bruce Nauman, Kiki Smith, Urs Fischer, Duane Hanson e Maurizio Cattelan. Questo ritorno in auge della ceroplastica si inquadra in un più generale sdoganamento dell’iperrealismo in ambito artistico, logica conseguenza di tutte le sperimentazioni legate alla poetica dell’objet trouvé e del ready made: se un qualunque oggetto reale, persino un volgarissimo orinatoio, può assurgere allo statuto di opera d’arte, allora quello del presunto eccesso di somiglianza non 46

HUSSERL 1904-1905, p. 41.

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può più costituire un problema, o per lo meno non in linea di principio. Da questo punto di vista Schlosser – che pure aveva torto nel sostenere che la fotografia avrebbe definitivamente soppiantato l’antica arte della cera – era stato ben più cauto di Husserl: «Il carattere spettrale della figura di cera può risiedere soltanto nel suo essere morta – ma artisticamente morta, vale a dire non morta perché norme oggettive la fanno rientrare tra i “peccati dell’arte” […], bensì perché la materia non è stata vivificata, o perché l’artista ha fallito, o semplicemente perché non ce n’erano, di artisti»47. Affermazione decisiva, che riconosce come il problema non riguardi l’iperrealismo in sé e per sé, bensì l’uso che se ne fa: immagini percepite come se fossero esseri viventi possono trovare ormai posto tanto in un museo à la Madame Tussaud quanto in una galleria o in un’installazione di arte contemporanea. E non è certo un caso, allora, se uno dei massimi esponenti della scultura iperrealistica, John De Andrea, alla domanda postagli da Duncan Pollock: «Fino a che punto vuole che le sue figure siano reali?» rispose senza esitare un istante, come un moderno Pigmalione: «Voglio che respirino»48.

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SCHLOSSER 1911, p. 188. POLLOCK, DE ANDREA 1972, p. 86.

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