Chromi4

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Mark Vitti

CHROMI4

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Copyright Š 2012 Mark Vitti

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Olivier Meehan si alza dalla sedia con una flûte in mano e annuncia a tutti i commensali che è giunta l’ora. Gli invitati alla festa attraversano i lussuosi saloni del castello per raggiungere il guardaroba e recuperare i soprabiti, salgono lo scalone interno di pietra e si ritrovano sotto un cielo d’inchiostro. Il terrazzo è stato allestito sul torrione più ampio del maniero neogotico, c’è spazio per tutti. I camerieri sono già schierati con altre bottiglie di Krug e Dom Perignon pronte a essere stappate e i vassoi colmi di ricercati dessert, in attesa di soddisfare le richieste di quei pinguini e delle loro dame impellicciate. Mi accorgo che invece i poveracci della servitù si stanno congelando per bene le ossa, mentre accolgono gli ospiti con sorrisi formali offuscati da nuvolette di condensa. Vestono un completo scuro e guanti bianchi, abiti molto leggeri rispetto alle stole di visone e ai pesanti cappotti degli invitati. E a tenerli caldi non hanno neanche tutto l’alcool che gli ospiti hanno in corpo. Dopo quel cenone accompagnato da infinite bottiglie di champagne, è già tanto se questi industriali, finanzieri, speculatori, avvocati, imprenditori e in generale resti in via di decomposizione di una ormai defunta aristocrazia britannica sono stati in grado di trascinarsi fino a questo terrazzo. E la cosa mi sta bene: più sono storditi e con la mente ottenebrata, e maggiori sono le possibilità che nessuno domani conservi un chiaro ricordo di me. 4


Ci siamo trasferiti all’esterno per soddisfare uno dei tanti capricci del padrone di casa; il Committente mi ha concesso solo pochi giorni di tempo per organizzare questo lavoro, ma se c’è una cosa di Olivier Meehan che ho imparato, durante la mia raccolta di informazioni preliminare, è che si tratta di un uomo con fin troppi capricci da soddisfare. Immagino sia normale venir su così, quando si ha la fortuna di nascere in uno dei clan più danarosi d’Europa, padrone del più grande impero dell’acciaio che si sia mai visto a memoria d’uomo. Secondo il rampollo dei Meehan, questa torre gode di una vista privilegiata sullo spettacolo di fuochi d’artificio che il vicino borgo organizza ogni Capodanno, quindi a ogni veglione obbliga i suoi invitati a imbacuccarsi per bene e uscire all’esterno per festeggiare con stile lo scoccare della mezzanotte. Ovvio che lo spettacolo pirotecnico è di suo gradimento: è lui stesso che se lo fa organizzare per autocelebrarsi, dato che possiede tutta quella cittadina, oltre a mezzo Paese. Un teatrino che mi sa tanto di narcisistica masturbazione pubblica del suo ego. Probabilmente anche la sua corte di gallinacci starnazzanti, radunati per l’occasione in questo pollaio di lusso delle Lowlands scozzesi, farebbe volentieri a meno di questo poderoso schiaffo d’aria gelida a metà della serata; di sicuro ne farebbe a meno la servitù. Ma io ci contavo. Se Olivier non avesse rinnovato anche quest’anno la sua personale tradizione, sarebbe stato un bel problema per la sottoscritta, dato che questo terrazzo è il luogo dove avrà inizio la mia piccola silenziosa performance di stanotte. Mentre la crema della dirigenza delle acciaierie Meehan & Smalley si precipita sui beveraggi scambiando battutine e chiacchiere frivole, io mi muovo il più defilata possibile verso il lato del terrazzo che dà sulla costa rocciosa e 5


selvaggia della regione. Sotto, oltre il muretto merlato, il mare nero della notte sciaborda contro gli scogli a intervalli regolari. Riesco a udire in lontananza gli impatti, ma non a vederli: troppo buio laggiù. Una brezza particolarmente fredda mi artiglia il volto. Smetto di scrutare oltre il parapetto e, rabbrividendo, mi stringo con entrambe le mani guantate nel colletto di pelliccia del mio mantello, alzando il bavero fino a coprirmi le guance. Dannazione, fa davvero freddo... Questa pesante cappa di velluto nero e i guanti bordati di pelliccia sono gli unici indumenti che mi proteggono dalla temperatura polare, per il resto il gelo non fa altro che infilarsi nello spacco del vestito a ogni colpo d’aria. O almeno, questa è la mia impressione. Forse è solo che non sono abituata a questo tipo di abbigliamento, ma stasera non potevo certo presentarmi in jeans e sneakers. Controllo l’ora sul mio sottile Raymond Weil da polso e vedo che mancano solo pochi minuti alla mezzanotte: bene. Alzo lo sguardo e scorgo Olivier Meehan che si stacca dalla folla per venirmi incontro con un sorriso da conquistatore latino stampato in faccia: male. Dovrei limitare al minimo contatti di questo tipo durante un lavoro, anzi, dovrei non averne proprio; ma prima che possa inventarmi qualcosa, Meehan mi si è già parato davanti con due flûte di champagne in mano. Me ne porge una e comincia a fare lo splendido... Ma con tutte le seducenti ninfette invitate a questo party che non aspettano altro che accostarsi al danaroso corteggiatore di turno, proprio da me doveva venire? «Ho notato che siete rimasta senza nulla da bere. Prego, favorite pure.» L’allocco sfodera uno stratagemma classico.

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Sarà anche un giovincello, ma l’approccio che usa per provarci con me è più vecchio della fame. «Grazie, signor Meehan.» Rispondo io stando al gioco, facendo gli occhi da cerbiatta e accettando la sua offerta. «Oh, mi chiami pure Ollie. Alla salute.» Trangugia il liquido frizzante del suo bicchiere in un sorso e sospira soddisfatto contemplando il calice vuoto. Porto la flûte alle labbra e medito per un istante se bere anch’io un po’ di champagne. Non credo che Ollie abbia bisogno di correggere i drink delle sue amichette con della benzodiazepina per portarsele a letto, ma per non correre rischi inutili e non tradire le mie regole, faccio solo finta di bere. «Il mio nome lei lo conosce, ma credo che non ci abbiano mai presentato, non ho ragione?» Continua Meehan. «Esatto sign- cioè, Ollie. Mi chiamo Rose Alexander, e sono la sorella di Ian Alexander, vicedirettore della sede di Boston. Lei è stato così gentile da invitare mio fratello, e lui ha deciso di invitarmi a sua volta. Peccato per il suo incidente dell’altro ieri, si sarebbe divertito molto in questa serata.» Già, peccato per il suo incidente. Ho scelto di intrufolarmi in questo castello con l’identit{ di Rose Alexander per il semplice fatto che è l’unica persona sulla lista degli invitati che nessuno dei presenti ha mai incontrato, essendo addirittura nata e cresciuta su di un altro continente. L’unico a conoscerla sarebbe stato il fratello Ian, quindi per lui ho dovuto organizzare un piccolo contrattempo che gli ha poi impedito di partecipare alla festa. Niente di grave, solo una gamba spezzata da un rapinatore che dopo avergli sottratto orologio e portafogli, senza alcun motivo apparente, lo ha colpito più volte con un tubo di ferro alla gamba destra, fino a essere sicuro che sarebbe rimasta fuori uso per un po’. 7


Solo io e quel delinquente di strada sappiamo che il motivo per cui l’ha fatto sono i centocinquanta dollari che gli ho passato per quel lavoretto; in aggiunta a tutto quello che avrebbe trovato addosso all’uomo da rapinare, ovviamente. «Sì, ho saputo! Davvero terribile quello che gli è capitato, spero che si rimetterà presto. Sono felice che almeno lei sia riuscita a venire, Rose.» «È stato Ian a convincermi. Anzi, a costringermi.» Aggiungo una risatina da ochetta per alleggerire l’atmosfera. «Ha detto che se non mi fossi goduta il Capodanno per causa sua, per lui sarebbe stato ancora peggio. E ha aggiunto che se io avessi insistito per rimanere, lui stesso mi avrebbe preso a calci con la gamba buona fin sull’aereo!» Altra risatina scema, stavolta anche lui si lascia trasportare. In realtà entrambi i fratelli Alexander sono rimasti chi a casa, chi in ospedale, ma mi sono bastate un’e-mail e una telefonata per confermare la presenza di Rose a questo party. «È tipico di Ian.» Commenta Meehan divertito, anche se a occhio e croce non ha nemmeno idea di chi stiamo parlando. «Comunque ora capisco come mai non mi ricordavo di averla mai vista a una delle mie feste. Mi sarei ricordato senz’altro di una ragazza così avvenente.» Ecco che ritorna alla carica con le sue patetiche avances mascherate da conversazione casuale. «Lei è troppo gentile.» «No, parlo sul serio! Ma nonostante questo è venuta qui senza un cavaliere?» Annuisco, mentre lancio un’altra veloce occhiata all’orologio: tre minuti alla mezzanotte. Questo bellimbusto comincia davvero a rompere, e intanto il tempo corre. 8


«Oh, ma a questo possiamo rimediare. Vede Rose, nemmeno io stasera sono in dolce compagnia, quindi penso che potremmo trascorrere il resto della serata assieme, per fare conversazione e conoscerci un po’ meglio.» Mi viene l’orticaria solo a pensarci. «Ahimè, qui c’è parecchia confusione, ma noi possiamo raggiungere la torre nord. All’ultimo piano ho fatto allestire una saletta di svago, è molto riservata. È l’ideale per godere del panorama della volta notturna, sempre molto affascinante. Adoro conversare sotto le stelle, che da sempre illuminano i cieli ma anche i cuori dei poeti, dei naviganti, degli innamorati, dei sognatori...» Oddio. Questa sua ultima uscita è talmente pietosa e melensa, che sono costretta a mordermi il labbro per evitare di scoppiargli a ridere in faccia. «Certo, mi sembra una buona idea.» Rispondo invece. «Ma dobbiamo ancora vedere i fuochi d’artificio.» «Ha ragione! Lo spettacolo avrà inizio a breve, ne sono sicuro.» Fa per porgermi il braccio e accompagnarmi al centro della festa, ma purtroppo per lui non ho nessuna intenzione di seguirlo. «La raggiungerò subito, Ollie. Mi conceda solo un minuto.» Gli rispondo, estraendo un rossetto e uno specchietto dalla mia pochette Gucci. «Certo, faccia pure.» Meehan sembra capire bene le frivolezze di una donna, alza le mani insegno di resa e indietreggia verso la folla di invitati. «Ma si ricordi che se non bacerà qualcuno allo scoccare della mezzanotte, non bacerà più nessuno per tutto l’anno!» Minaccia lui, e poi se la ride come se quella fosse la battuta del millennio. Io mi rinfresco per davvero il rossetto e controllo che il resto del trucco e i capelli siano ancora in ordine. Prendo tempo per farlo allontanare. Prendo tempo perché fra poco 9


il cielo stellato tanto amato da Meehan sarà pieno di detonazioni e fantasiose forme multicolori. E a quel punto tutti i nasi degli invitati saranno puntati all’insù come pali del telefono, incuranti di quello che succede loro attorno. E finalmente io potrò fare la mia mossa, nessuno dei presenti sarà più interessato a sapere che fine ho fatto. Forse Meehan potrebbe chiederselo, visto che mi ha messo gli occhi addosso, ma quando realizzerà che non sono più qui intorno, io sarò già parecchio lontana da questo castello.

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Questo per esempio sarebbe un momento perfetto per mettersi in azione. Se non fosse per quell’armadio in completo scuro e cappotto che non mi toglie gli occhi di dosso da quando Meehan è venuto ad attaccare bottone. È un bianco, circa trentacinque anni, non sono sicura che sia inglese o scozzese. Mi sembra di vedere un rigonfiamento anomalo sul suo fianco destro, all’altezza della cintura. Una pistola? Le guardie personali del padrone di casa non sono armate, non con armi da fuoco almeno. Ne ho contate parecchie da quando sono entrata, ma questo qui dev’essere una guardia del corpo speciale. Forse il capo del servizio di sicurezza? Dannazione, avrei voluto più tempo a disposizione per raccogliere dati sui soggetti chiave! Normalmente saprei vita morte e miracoli di qualunque ostacolo mi si potrebbe parare davanti durante un lavoro, come questo Pistolero. Un forte rumore. Un fragore di vetri infranti, uno scoppio. Non può essere un fuoco d’artificio, però. Grasse risate. Ah, una delle dame ha urtato un tavolino e una bottiglia di bollicine è finita per terra, spargendo il liquido che conteneva in ogni direzione.

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Noto che il Pistolero ha finito per essere attirato anche lui dalla confusione e non mi sta più tenendo d’occhio. Decido di prendere la palla al balzo. Specchietto e borsetta ormai non mi servono più, anzi, mi sono solo d’intralcio. Mi libero le mani lanciandoli oltre il muretto di cinta e mi accomodo sulla fredda pietra. Faccio perno con le mani e ruotando il busto scavalco il parapetto, prima con la gamba sinistra, poi anche con la destra. Continuo a girare fino a trovarmi faccia a faccia con il muro esterno del castello e comincio a scendere verso il basso calandomi a forza di braccia, puntando i piedi negli appigli che riesco a scovare fra una fila di pietre e l’altra. L’intera operazione non dura che una manciata di secondi: prima che chiunque possa rendersene conto, io sono già sparita dalla loro vista, e tanti saluti. Proseguo fino a quando il muro diventa troppo liscio e insidioso per continuare, e lì mi fermo. Adesso inizia la parte divertente. Ovvero complicata: per proseguire ho bisogno di un po’ più di aderenza. Bloccata così, in balìa del vento gelido, mi tengo ben salda alla parete con la mano sinistra e uso i denti per sfilare dalla destra il guanto bordato di pelliccia che indosso, poi lo lascio precipitare giù verso la costa rocciosa. E ripeto l’operazione invertendo le mani. Sotto quei guanti ne indosso un altro paio, sono molto più sottili e non servono affatto a riparare dal freddo. Si tratta di guanti da roccia che uso per avere una presa migliore quando devo produrmi in folli acrobazie come quella che sto per compiere, ma fanno anche comodo per evitare di lasciare impronte digitali. Abbasso lo sguardo per studiare la situazione: finora va tutto a meraviglia, mi trovo esattamente dove devo essere. Solo tre piani più in alto. 12


Nell’oscurit{ distinguo a malapena la finestra che devo raggiungere, e molto più sotto il Mare del Nord che picchia duro contro la costa con le sue onde nere. Cerco di non pensare a quei vortici di acqua rabbiosa e mi concentro unicamente su quella specie di cornicione che spunta dal muro un paio di metri sotto i miei piedi, la prossima tappa della mia discesa. Aumento al massimo la concentrazione e mi preparo per il salto. Inspiro. Espiro. Mi allontano dal muro di qualche centimetro. Inspiro. Mollo la presa e mi lascio cadere nel vuoto, occhi puntati sul cornicione. Quando mi trovo alla giusta altezza, lo afferro con entrambe le mani e arresto così di colpo la mia caduta. Ricevo in cambio un bel colpo di frusta che riecheggia fra le braccia e il dorso, addirittura mi faccio sfuggire un gemito sommesso. Non molto professionale da parte mia, ma è andata bene: non ho mancato la presa. Peso poco e ho braccia, mani e gambe piuttosto forti; per esigenze di lavoro devo sempre mantenere il mio corpo tonico e in perfetta efficienza fisica. Non ho troppe difficoltà a eseguire una manovra del genere, ma non sono neanche indistruttibile. Perdo una decina di secondi per ricaricare le batterie e prepararmi per il bis, nel frattempo il grande spettacolo pirotecnico di Olivier Meehan ha inizio, qualche piano più in alto, lontano dalla mia visuale. È iniziato un nuovo anno, evviva. Tanti auguri, Zlata. Il vento inizia a soffiare sul serio. Le ciocche di capelli neri che ho intenzionalmente tenuto fuori dallo chignon svolazzano qua e là secondo i capricci delle folate gelide, come anche gli orecchini, il mantello e il vestito. È proprio 13


uno svolazzare unico lì sotto, ho le gambe tutte scoperte. Meno male che non sono in balìa di qualche stupido maschietto guardone. Già, sono solo in balìa del vento più freddo dai tempi della Glaciazione di Moho. Ripensandoci credo che baratterei volentieri questo vento del cazzo con un paio di quei guardoni. Meglio non pensarci e focalizzarsi sul prossimo salto. Rilasso il collo, inspiro di nuovo a fondo e mi lascio cadere a peso morto. Stavolta riesco ad aggrapparmi meglio alla sporgenza, niente sollecitazioni muscolari come quelle di prima. L’unica cosa fuori posto è sempre il mantello nero, che ormai non poggia più sulle mie spalle ed è libero di fluttuare nell’aria come quello di un dannato supereroe a fumetti, tenuto al suo posto solo dal legaccio che mi cinge il collo. Sotto di me distinguo infine il balconcino che devo raggiungere, talmente stretto che davvero non so a cosa possa servire, se non da ornamento strutturale. Effettuo l’ultimo balzo oltrepassando del tutto il poggiolo e agguanto la base della ringhiera. Anche questo salto è quasi indolore, ma il mio mantello decide di slacciarsi del tutto e volare via trasportato dal vento. Ciao ciao mantello... Non è una gran perdita, contavo lo stesso di togliermelo una volta entrata, ma adesso oltre alle gambe mi ritrovo anche con le braccia scoperte. E come se non bastasse, il vestito è piuttosto scollato... Non c’è che dire, l’ho davvero scelto bene. Con questa temperatura non vedo l’ora di rifugiarmi all’interno. Mi isso oltre il parapetto, lo scavalco e ritrovo finalmente un supporto stabile sotto i piedi. Gran bel sollievo. Com’era prevedibile la stanza dall’altro lato della porta a vetri è buia e deserta. 14


Prima di congelare per davvero, colpisco uno dei rettangoli trasparenti della porticina con un pugno ben assestato. Il vetro è sottile e va in frantumi senza neanche applicare troppa forza, non si tratta certo di uno di quei solidi doppi vetri riempiti a gas inerte. Il passo successivo è scontato, infilo una mano guantata attraverso la fenditura e aziono la maniglia interna della porta, aprendola. L’istante dopo sono già nell’ufficio di Oliver Meehan, felice di trovarmi al riparo dall’aria gelida. Finora la sortita si sta svolgendo in accordo con la mia pianificazione. Anche se ho dovuto rischiare il collo interpretando la donna-ragno per un po’, con questo espediente sono riuscita a evitare tutti gli uomini della sicurezza sparsi per i corridoi del castello. In base alle informazioni che mi ha fornito il Committente, questa mi è sembrata la strategia migliore e finora sembra proprio che stia pagando. L’ambiente in cui mi trovo è al buio, ma ormai i miei occhi si sono abituati all’oscurit{ e riesco a individuare le dimensioni della stanza e la mobilia che mi circonda. Solidi divanetti stile vittoriano, poltroncine. Un mobile bar, un paio di armature medievali in esposizione, immancabili in un castello, e svariati quadri alle pareti. Cammino con circospezione verso la massiccia scrivania che occupa il lato sinistro dell’ufficio rispetto al balconcino. Cerco di muovermi senza produrre alcun rumore, come è giusto che faccia una ladra professionista, ma con questi stivali col tacco è impossibile. Poco male, dato che lo spettacolo pirotecnico copre tutto con i suoi sordi boati. Ormai va avanti da un paio di minuti e non accenna a volersi fermare. È soprattutto per questo motivo che ho pianificato il mio furto proprio negli attimi successivi alla mezzanotte. 15


Senza indugi raggiungo la scrivania e la aggiro, poi spingo via la sedia girevole in pelle per fare spazio. Appeso al muro retrostante c’è un quadro, circa cinquanta per trenta centimetri. Non è il più costoso della collezione e di sicuro non è il più bello, ma a me proprio questo interessa; lo rimuovo dalla parete e scopro la cassaforte incassata nel muro. È una Mosler non troppo recente, aggiornata però con una serratura digitale S&G Titan al posto di quella originale meccanica. La combinazione per aprirla va inserita tramite tastierino numerico. Un discreto sistema di sicurezza: anche avendo con me un set completo di attrezzi da scasso, ci metterei come minimo un quarto d’ora per riuscire a forzarla senza danneggiare i valori al suo interno. Di trovare la combinazione esatta con un autodialer non ne parliamo proprio, dovrei lasciarlo lavorare sul Titan per almeno mezza giornata, a meno di un colpo di fortuna. Il mio piano non prevede nulla di tutto questo, dato che sono già in possesso del codice di apertura della serratura. Non mi capita spesso una situazione così vantaggiosa, quindi sono parecchio felice di poterne approfittare. Ma per riuscire a farlo devo prima tirar fuori l’unico utensile che mi sono portata dietro questa notte: la piccolissima torcia elettrica Maglite che ho nascosto nella tasca interna del mio stivale destro. La regolo al minimo della potenza e la punto sul chiavistello elettronico da una distanza ravvicinata. Premo il tasto asterisco e il sistema mi conferma la sua attivazione con un segnale sonoro, poi inserisco il codice a sei cifre duesette-sei-cinque-cinque-sei. La serratura si apre con uno scatto e io sono libera di azionare la maniglia e spalancare lo spesso sportello metallico. 16


L’ubicazione della cassaforte e la sua combinazione fanno parte del pacchetto di istruzioni consegnatemi dal Committente, una persona di cui non conosco l’identità ma che mi sembra alquanto ammanicata. Infatti non capisco come mai abbia scelto di affidare questo lavoro a una professionista del mio calibro, dato che le informazioni più importanti per raggiungere e aprire la cassaforte erano già in suo possesso. Sicuramente si tratta di qualcuno che conosce Meehan di persona, quindi non vuole trovarsi all’interno del castello quando il furto viene compiuto, così da evitare di attirare sospetti su di sé. La combinazione numerica che mi ha fatto avere in realtà non è un numero, è una parola. I pulsanti della tastiera Titan, oltre le solite cifre, hanno anche raffigurate le lettere dell’alfabeto, disposte in maniera molto simile a quelle dei telefoni cellulari. Ogni numero che ho premuto in realtà corrisponde a una lettera e, mettendo in sequenza le lettere corrispondenti a quelle che aveva in mente Meehan per la combinazione, il risultato che si ottiene è A-P-O-L-L-O, il nome del dio greco. Probabilmente è così che si vede lui nella sua immaginazione, come un lucente dio Apollo. Mentre inizio a frugare nella cassaforte, un sorriso di compatimento compare mio sul volto. Ci sono svariati oggetti all’interno: mazzette di banconote di varia nazionalità, fascicoli da ufficio, una busta bianca piena di fotografie che non perdo tempo a sfogliare, e alcuni astucci per gioielli. Sono proprio questi ultimi che mi interessano. Mi infilo fra i denti la Maglite per avere entrambe le mani libere e apro il primo. Una moneta antica. Non è quello che sto cercando, la metto da parte. Nel secondo trovo un sacchetto di velluto, all’interno ci sono dei piccoli oggetti solidi. Credo proprio di sapere di 17


che cosa si tratta; allento la cordicella che tiene chiuso il contenitore e faccio scivolare i ghiaccioli sul palmo della mano. E invece mi sbaglio: sono smeraldi, non diamanti. Per un attimo sono tentata di portarmi via il sacchetto di preziosi, leggero e di altissimo valore, ma alla fine decido di rimetterli a posto. Non sono venuta qui per quelle pietre, il Committente è stato chiaro: devo prendere solo un anello, lasciar stare qualunque altro oggetto si trovi nella cassaforte, tanto una volta consegnato il bottino sarò ben retribuita. Continuo la ricerca. Trovo un bracciale, degli orecchini e un’altra moneta antica. Poi i miei guanti scovano una scatoletta più pesante, di legno massello. È piuttosto vecchia, un po’ rovinata e tenuta chiusa da un chiavistello metallico. Faccio scattare l’apertura e la apro: finalmente ecco comparire l’anello d’argento che sono venuta a rubare. Una fedina dal disegno semplice, ma con un rombo in rilievo sul bordo esterno. Forse in passato ospitava una pietra preziosa incastonata? Di sicuro adesso sembra solo un anello da pochi soldi; se con tutto il ben di Dio contenuto nella cassaforte di Meehan il Committente mi ha mandato a prelevare solo questo giocattolino, il furto deve essere un messaggio personale di qualche tipo, magari una minaccia. Fatti loro. A me interessa solo portare fuori di qui me stessa e l’anello, poi di questa storia e dei loro protagonisti non voglio più sentir parlare. Un rumore di metallo contro metallo. Una chiave che viene inserita nella toppa, quella della stanza in cui mi trovo. Cazzo.

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La porta si apre, io spengo la torcia e mi accuccio a terra dietro la scrivania, non mi viene in mente nessuna mossa più furba. La luce dell’ufficio si accende, per un istante resto abbagliata e sono costretta a socchiudere gli occhi. Drizzo le orecchie e mi concentro per non farmi sfuggire neanche il più minimo rumore. Passi. Sarà Meehan? In lontananza, i fuochi d’artificio ancora rimbombano a tutto spiano. Il cuore mi batte a mille per la pessima sorpresa appena ricevuta. Stavolta mi sono davvero lasciata sorprendere con le mani nella marmellata e- Dannazione, alzo lo sguardo e vedo quella cazzo di cassaforte ancora aperta! Cazzo, cazzo! I passi si fermano. L’ha vista anche lui. Sarà uno dei gorilla? Un controllo di routine dell’ufficio del suo capo? Ora che è qui non può non aver visto lo sportello aperto, dovevo chiuderlo! Ma avrei fatto troppo rumore, e comunque non ho neanche avuto il tempo di pensarci. Colgo lo scatto di un bottone a pressione e l’inconfondibile suono di sfregamento che produce una pistola quando viene estratta da una fondina di cuoio. Deglutisco, mi impongo di restare lucida.

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Posso farcela, devo solo ragionare con calma... Non sa che sono ancora qui. Devo intervenire prima che possa dare l’allarme. Avr{ una radio? Se correrà via a chiamare i suoi amichetti potrò svignarmela in qualche modo prima che ritorni... Ma non si sta muovendo. Verrà qui a controllare la cassaforte? Mi devo preparare a questa eventualità. Faccio per mettere l’anello al sicuro in qualche tasca, ma questo cazzo di abito da sera non ha nessuna dannata tasca. Lo infilo al mio anulare destro, ma nonostante il guanto che indosso il mio dito è troppo sottile. Riprovo con il pollice e sono soddisfatta di come tiene. Il gorilla di Meehan riprende a muoversi. Ok, sono abbastanza calma ora. Sono calma, se sono calma posso farcela. Devo fare il punto della situazione, capire cosa sta facendo per agire di conseguenza. Sono in vantaggio, ho dalla mia l’elemento sorpresa. Posso farcela. Mi faccio coraggio e con cautela mi alzo quanto basta per poter dare una veloce occhiata oltre la scrivania. È proprio il Pistolero del terrazzo il tizio che è venuto a controllare l’ufficio. Il bastardo magari mi stava cercando da quando me la sono svignata da lì. Si muove con circospezione verso la scrivania dietro la quale mi sono nascosta, con in pugno una SIG Sauer semiautomatica di qualche tipo, presa weaver a due mani. Vuole controllare la cassaforte, ma non sa se la stanza è sicura, allora procede con calma e si guarda intorno in ogni direzione. E poi mi vede, cazzo! Faccio appena in tempo a ricacciare la testa al coperto, che il primo proiettile esploso dalla SIG mi fischia a pochi centimetri di distanza e si pianta nel muro. Un altro colpo, poi un altro e un altro, non riesco a contarli. Tutta la roba 20


che stava sulla scrivania mi cade addosso colpita dalle pallottole. Cazzo! Il gigantesco iMac vola giù e mi colpisce il fianco. Vaffanculo Meehan, vaffanculo il Pistolero! Vaffanculo l’anello! Vaffanculo la Apple! La gragnola di colpi s’interrompe, tintinnii di bossoli sul pavimento. Bastardo dal grilletto facile, hai un tiro istintivo davvero rapido... Ti darò io qualcosa a cui sparare. Agguanto il monitor con computer intergrato da quattromila sterline, che sono sicura mi ha appena stampato un bel livido sulle reni, e lo lancio oltre il lato sinistro della scrivania. Il Pistolero coglie subito il movimento e d’istinto spara un altro paio di colpi nel già defunto iMac, prima di rendersi conto che non ha colpito quello che in realtà aveva intenzione di colpire. Nel frattempo io sono già scattata fuori dall’altro lato della scrivania, lontano quanto basta dalla linea di fuoco. Il Pistolero ovviamente mi vede e aggiusta il tiro. Mi spara ancora addosso, ma io mi sono già buttata dietro un divano rivestito di lucida pelle nera, fuori dalla sua visuale. Le pallottole si piantano nell’intelaiatura del mobile, il bastardo sta ancora sparando alla cieca... E infine si sente il click che tanto aspettavo: fine del caricatore, baby. Emergo da dietro il divano sfilandomi dai capelli uno dei due spilli che tenevano a posto il mio chignon. Lo impugno fra l’indice e il medio, con il pollice che lo tiene bloccato, e carico il colpo portando la mano sopra la spalla destra. Muovo il braccio in avanti di scatto e apro le dita: la bacchetta, che in realtà è uno spiedo metallico più appuntito di una dannata siringa, vola a tutta velocità verso

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la faccia del Pistolero. A una distanza del genere non posso fallire. Ma il bastardo si rende conto del pericolo in tempo e alza il braccio sinistro davanti alla testa. Il senbon gli si pianta nella manica del completo gessato, e le sue dita ritornano alla cintura per recuperare un caricatore pieno da inserire nella pistola. Scavalco il divano con un balzo e in un istante gli sono addosso. Lui ricarica la SIG e fa scattare in avanti il carrello, ma prima di riuscire a puntarmela addosso io faccio perno con il piede destro e roteo il corpo slanciando in aria la gamba sinistra. Colpisco la pistola con il tallone e gliela faccio volare via dalle mani, continuo ad assecondare la mia rotazione, poggio a terra il piede sinistro, alzo la gamba destra e lo colpisco allo stomaco con un calcio che farebbe impallidire un centravanti brasiliano. L’ormai ex-Pistolero accusa il colpo, viene sbalzato all’indietro e barcolla ancora un paio di passi per allontanarsi. Nemmeno un lamento di dolore, ma so che quel salutino che gli ho appena fatto l’ha sentito forte e chiaro. Sfilo il secondo senbon dai capelli e lo stringo con mano ferma. Senza più alcun sostegno la mia acconciatura chic mi crolla sulle spalle; vorrei almeno raccogliermi i capelli a coda di cavallo perché non mi intralcino, ma non c’è tempo. E comunque non ho con me un elastico. Mi muovo verso il Pistolero con lo spiedo pronto a colpire, silenzioso e letale, quando lui fa emergere da qualche tasca un coltello a farfalla. Lo apre, fa scattare in fuori la lama e richiude subito l’impugnatura, senza perdersi in nessuna di quelle acrobazie da circo che fanno sempre nei film. 22


Impugna l’arma con la lama rivolta verso l’alto e si mette in posizione da combattimento con la mano sinistra in avanti, aperta. Tecniche di combattimento Kali? È un veterano di qualche unità per operazioni speciali? Comincio a pensare che questa faccenda non si risolverà molto facilmente. Il mio primo senbon è ancora piantato nel suo braccio come un cipresso solitario, lui si comporta come se non sentisse nulla. Del sangue macchia il suo vestito gessato e gocciola per terra lungo il metallo dell’ago. E il bastardo sorride. Mi fissa e sorride. Si sta divertendo. Mi fermo. Ricambio lo sguardo. Ma non il sorriso.

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Quanto tempo è passato da quando ho lasciato il terrazzo? Dieci minuti, almeno. Gli echi dei fuochi d’artificio stanno ancora tuonando nel cielo notturno. Di sicuro nessuno ha sentito il casino che io e il Pistolero abbiamo fatto finora, altrimenti sarebbe già accorso mezzo mondo a controllare cosa stia succedendo. Siamo solo io e lui, una gatta con le spalle al muro e un Pistolero senza più la sua pistola. Forse dovrei cambiargli soprannome, ma le abitudini sono dure a morire. Di colpo le esplosioni pirotecniche cessano, fine dello show. Il Pistolero lo interpreta come un implicito segnale per partire all’attacco. Porta la mano armata a contatto del fianco e poi la spinge in avanti, dal basso verso l’alto; anche la sua arma è fatta per essere usata principalmente di punta. Indietreggio di un passo e mi sposto di lato quanto basta, schivo un secondo e un terzo affondo, poi infilo il mio senbon nell’apertura che intuisco nella sua difesa. Niente da fare, mi devia la mano con il braccio ferito e... Cazzo, mi colpisce di taglio l’avambraccio destro! Per fortuna riesco a evitare che mi fotta i tendini del polso, ma il bastardo mi ha dimostrato che sa come si combatte. Indietreggio e devio con il senbon il suo affondo seguente.

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Forse dopo avermi ferito si è un po’ rilassato, perché subito riesco a pugnalarlo al braccio armato due volte, ma lui nemmeno sembra accorgersene. Non è solo un armadio, è un dannato Terminator. Faccio per ripartire all’attacco, ma all’improvviso la porta dell’ufficio si apre, d’istinto mi congelo sul posto e lancio una rapida occhiata: nella stanza fa il suo ingresso un giovane in smoking, capelli biondi un po’ troppo lunghi, occhialetti dalla montatura leggera e una faccia da ebete. Chi cazzo è questo? «Sto interrompendo qualcosa?» Dice alzando le mani con aria imbarazzata, come se ci avesse sorpresi a pomiciare. «Allora?» Gli chiede il Pistolero, senza neanche voltarsi. «Abbiamo la registrazione. Puoi... fare quello che devi fare.» «Bene.» Conferma lui. Di cosa stanno parlando? C’è una telecamera di sicurezza qui intorno? Le istruzioni del Committente non parlavano di telecamere! Non mi metto a cercarla, devo pensare a difendermi dalla nuova pioggia di coltellate che mi viene scatenata addosso. Un secondo taglio al braccio, perdo altro sangue. C’è qualcosa di diverso nei suoi movimenti. Terzo taglio, mano destra. È più veloce, più imprevedibile... Credo di non riuscire a stargli dietro. Di nuovo la mano destra, cazzo, ha infilato la lama nel mio pugno per cercare di strapparmi di mano l’ago da combattimento. Indietreggio. Ferite da difesa, si chiamano in gergo. So solo che bruciano. 25


Lui non molla. Indietreggio ancora. A un certo punto rigira il coltello e lo impugna con la lama verso il basso. Si abbassa lui stesso, carica il colpo portando il braccio sul petto, si sporge in avanti aumentando al massimo il suo raggio d’azione eLancio un grido di dolore, barcollo all’indietro. Inciampo nei tacchi, cado a terra. Il ginocchio. Porto una mano al fianco e la sensazione di calore umido conferma le mie paure. Cerco di respirare, ho il fiato rotto. Lui incombe su di me come una montagna, sono morta. Non posso ancora morire. Poggio entrambe le mani sul pavimento sporco di rosso, ruoto il bacino e scalcio verso l’alto più forte che posso. Grido di rabbia, grido di dolore. Mi fa male il fianco, mi fanno male le dita. Pianto il mio stivale in faccia al pistolero, slancio anche l’altra gamba e lo colpisco alla mano destra, disarmandolo. Rovino a terra in maniera scomposta. Non respiro bene. Il dolore. Barcolla anche lui stavolta, coprendosi con una mano il labbro ferito. Lo devo finire. Lo devo finire. Stringo i denti, mi alzo in piedi. Sono sfiancata, il mio corpo va avanti unicamente ad adrenalina. Carico l’affondo e punto ai suoi occhi. Come cazzo ha fatto ad afferrarmi il polso in tempo. Sono morta. Con la sinistra mi tiene immobile, con la destra mi schiaffeggia via dalla mano il senbon. Entrambi grondiamo sangue. 26


Il manrovescio che mi affibbia lo sento solo dopo un po’, quando ho già la testa ruotata all’indietro e il busto sta per seguirla. Resto in piedi solo perché lui mi stringe ancora il polso destro. Sputo sangue sul pavimento. Poi dagli schiaffi passa ai pugni, e lì vedo davvero le stelle. Lo stomaco. Il volto. Di nuovo lo stomaco. Uccidimi e falla finita cazzo. Mi lascio scivolare a terra, non ne voglio più sapere, ma il mio braccio destro è come fosse incatenato. Ho la vista annebbiata da sangue e lacrime, ma capisco che non sto più guardando il pavimento, quello è il soffitto. Ho perso i sensi? Per quanto tempo? Non riesco a muovermi. Sono distesa a terra e il Pistolero mi si è messo sopra a cavalcioni. Le sue mani rosse calano sul mio collo e iniziano a stringere. Non sono solo le mani, vedo tutto velato di rosso. I pollici premono sulla trachea, non sento più il mio corpo. La visione periferica si restringe. Sono stanca, sempre più stanca. Chiudo gli occhi. Sogni d’oro, principessina. Recita una voce molto lontana. Papà? Riapro gli occhi. Certo che non è papà, sono anni che la mia famiglia mi ha lasciato. È il Pistolero. Le sue sono parole di derisione, di umiliazione, non di buon augurio. E sorride. 27


Perché sorridi... Dimmi perché, bastardo! Un momento: il mio primo senbon, quello che gli ho lanciato addosso all’inizio dello scontro. È ancora lì piantato nel suo avambraccio. Non lo sto facendo intenzionalmente, ma adesso sorrido anch’io. Agguanto il bastoncino metallico e mi accorgo che lui rimane un po’ sorpreso nel vedermi ancora capace di compiere movimenti. Lo strappo via dalle sue carni e uno zampillo di sangue mi gronda addosso. Il sangue sa di ruggine. Faccio per infilare lo spiedo nel collo del bastardo, ma lui è più veloce. Stacca la mano destra dal mio collo e blocca l’affondo quando è arrivato a pochi millimetri dalla sua carotide. Perché è sempre più veloce di me? Con una mano sola però non riesce a strangolarmi come si deve, riesco a far entrare in circolo un po’ di ossigeno. So che è un’illusione, ma riesco quasi a sentirlo mentre si arrampica su per il braccio attraverso la rete di capillari arteriosi e raggiunge le dita, donando nuova forza ai miei muscoli. Stringo il senbon e spingo in alto. Lui cerca invece di spingerlo in basso, mentre ancora mi stringe il collo con l’altra mano. Ha le braccia incrociate in un modo strano e non riesce a imprimere tutta la forza di cui sarebbe altrimenti capace. Si concentra un po’ di più sul mio collo, e io riesco a salire fino a bucargli la pelle del suo, di collo. Spinge con più forza verso il basso il senbon, e io respiro meglio, riprendo fiato e riacquisto le forze.

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Ma poi il bastardo comincia a piegarmi la testa da un lato, sempre di più, sempre più in basso. L’unica cosa che riesco a distinguere con chiarezza sono le scarpe lucide di quell’altro damerino biondo quattrocchi fermo davanti la porta chiusa. Dannazione. C’ero andata così vicina.

Break.

La contorta melodia della spina dorsale che si spezza è impagabile, la sensazione sotto le mie dita unica: fottuta femmina, mi hai fatto davvero sudare sette camicie. Per prima cosa controllo l’anello. Quando la stronzetta mi ha attaccato con il suo spiedo ninja, ho visto che lo indossava al pollice destro. È ancora qui, bene. Glielo sfilo e mi accorgo che oltre a essere sporco del suo sangue, sul bordo esterno ha anche un bel graffio. La lucida placcatura in argento è stata raschiata via in quel punto e riesco a distinguere l’anima opaca in acciaio che costituisce il vero materiale di fabbricazione dell’anello. Devo essere stato io stesso a danneggiarlo, quando ho colpito la mano della ladra col mio coltello. Non è un problema, la placcatura argentea è solo una cosa recente e temporanea. È quello che c’è sotto che è importante. Lascio andare il braccio della ladra morta, mi rimetto in piedi e infilo l’anello d’acciaio al sicuro nella tasca dei pantaloni. «È... è...»

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Mi ero quasi dimenticato di quell’idiota, che se n’è rimasto lì impalato per tutto questo tempo. Se non lo fermo io, è in grado di continuare a balbettare fino al prossimo Capodanno. «Sì, Whiteley. È morta.» Gli rispondo. «Oh, ok. Sai, era solo per essere sicuri. Mi è sembrato che durante il... Come lo chiamate voi? Il match? La rissa? Il match forse è meglio. Mi è sembrato che durante il match ogni volta che la mettevi al tappeto lei si rialzasse di nuovo per il round successivo! Incredibile, vero? Infausto! Come alla fine, quando ha usato quello spillo, quel... Quella cosa. A proposito, ma non ti ha fatto male averlo lì per tutto questo tempo? Lì nel braccio, hai presente? Il tuo braccio. Oh! Non che intendessi dire che tu non sia stato bravo! No, no, non mi premetterei mai, sei stato grande come al solito nel tuo... mestiere. Sai che per me sei come un supereroe, no? Preferisci un cowboy? Un astronauta? Davvero brillante, giuro. Brillante.» «Gesù Cristo, Whiteley. Ma non la chiudi mai quella fottuta fogna?» Sempre logorroico come una vecchia suocera, non lo sopporto. «Oh! Hai ragione, questo non è il tempo di perdersi in chiacchiere, ma di agire. Agire!» E se ne esce dall’ufficio. Ma dove va? Ritorna subito dopo accompagnato da un cigolio. Sta spingendo un carrello di quelli usati per le pulizie. «Whiteley...» «Sì, Gray?» «Che cosa diavolo è quell’affare?» «Brillante, vero? Lascia che ti racconti: questa sera a cena, quando hanno servito il salmone e... Ok, non guardarmi con quello sguardo! Lasciamo stare il salmone e andiamo dritti al sodo. Mi sono messo a pensare... Qual è il 30


sistema migliore a nostra disposizione per far sparire il cadavere? E all’improvviso ecco che il mio cervello allenato elabora la soluzione! Ta-dah!» «Ma noi non dobbiamo far sparire il cadavere adesso, chi ha mai parlato di far sparire il cadavere adesso?» Gli rispondo, tentando di mantenere un tono di voce più calmo possibile. «Ah no?» «No.» «Io pensavo che-» «Lascia che a pensare siano gli adulti, tu torna nel box con gli altri mocciosi.» «Vuoi dire che-» «Voglio dire: esci da questo fottuto ufficio, vai a cercare il fottuto boss e portalo qui. E togli dalla mia vista quel fottuto carrello. Basta, nient’altro.» «Sar{ fatto!» Risponde lui pieno d’entusiasmo. «Ah, e senti questa: mi spiace signor Grayson, non posso restare. Devo vedere un tizio a proposito di un cane...» Aggiunge prima di uscire, alterando di proposito il suo tono di voce e facendomi l’occhiolino a ripetizione per sottintendere l’utilizzo di un qualche tipo di linguaggio segreto o in codice. «Fottuto umorismo british.» Dicono che la mia lingua derivi da quella che parlano su quest’isola, ma di sicuro nella testa di Whiteley si parla ancora tutta un’altra lingua.

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Ora che il vero anello è in mio possesso, è tempo di far entrare in scena la copia. La tiro fuori dalla bustina nella tasca della giacca, per rendere la cosa più credibile la sporco per bene con il sangue che mi cola un po’ da tutte le parti, e la poso sulla scrivania del boss. Merda, sono davvero ridotto a un colabrodo, quella stronzetta ha saputo tirar fuori dei trucchi niente male, prima di lasciare questo mondo. Il Committente poteva anche reclutare una ladra più facile da uccidere a lavoro finito, mi avrebbe risparmiato di fare da puntaspilli a questa qui. Ma il furto deve sembrare una faccenda seria, non potevamo certo servirci del primo idiota preso dalla strada, non sarebbe stato credibile. Ci occorreva un professionista. Certo, io avrei preferito un professionista meno abile a proteggersi la pellaccia. Sento del vociare provenire dal corridoio. Oliver Meehan e altre guardie in arrivo. È tempo di recitare la mia scena madre, spero solo che l’idiota non abbia combinato cazzate durante il cammino dalle stanze di Meehan fino a qui. Ed ecco arrivare il boss tutto trafelato. Ma non mi dire, il coglione ha ancora del rossetto sparso ovunque in faccia e la patta dei pantaloni aperta. Whiteley deve averlo interrotto proprio sul più bello. «Gray! Che cosa cazzo è successo?»

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Che faccia ha fatto quando ha visto la nostra principessina con il collo spezzato... Avrei voluto avere una macchina fotografica. «Un furto, signore.» Rispondo, facendo la voce sofferente e stringendo la mano su una delle mie ferite rimediate stasera, una a caso. «Aveva rubato quell’anello.» «Anello?» Meehan si volta e lo vede, poggiato in bella vista sulla sua scrivania. «Figlia di puttana!» Esclama. Poi corre subito a riprendersi il suo tesssoro e si mette a sfregarlo per pulirlo dal sangue. Non sospetta minimamente che sia un falso. «Ho recuperato la refurtiva dall’intrusa dopo averla neutralizzata. Devo averla sorpresa quando aveva appena iniziato a frugare nella cassaforte, era riuscita a prendere solo quell’anellino d’argento.» Aggiungo, per fargli credere che continuo a non sapere nulla della faccenda che sta dietro quel pezzo d’acciaio. Meehan richiude subito l’anello in cassaforte e si volta con gli occhi sbarrati, terrorizzato come se avesse rischiato di perdere tutta la sua fortuna. «Gray... hai fatto un ottimo lavoro. Verrai ben ricompensato per i tuoi servigi di questa notte. Sei ferito? Hai bisogno di cure mediche?» Oh sì che sarò ben ricompensato per i miei servigi, ma non da te e dai quattro spiccioli che mi hai sempre passato. «Sto bene, signore. Più tardi mi farò rappezzare da doc Stanley.» «Come preferisci. Poi bisognerà ripulire tutto, compresa... quella.» E indica con l’imbarazzo di un verginello la stronzetta morta. «Certo, signore.» «Venire a rubare in casa mia... Che razza di rifiuto umano.» 33


«Non sono sicuro che fosse qui solo per il suo tornaconto personale.» Mi avvicino alla brunetta, mi inginocchio e le scosto una ciocca di capelli insanguinati dal viso. «Che intendi dire?» «Ho già visto delle sue foto, signore. Si chiama Zlata Romanic, o qualcosa del genere. Non so se sia un nome reale o fasullo, ma nel suo giro è abbastanza conosciuto. È una ladra acrobata molto abile, forse questa sera lavorava per qualcuno.» «E chi mai... Lascia stare, c’è solo una persona che potrebbe essere dietro a tutto questo.» So chi è l’uomo che è appena venuto in mente a Meehan: suo fratello Lyonel. Il piano del Committente sta funzionando davvero troppo bene, ancora non ci credo. «Devo fare qualche telefonata. Gray, Whiteley: pensate voi a tutto il resto.» «Sì, signore.» Recitiamo all’unisono, mentre il boss leva le tende seguito a ruota dalla sua piccola corte di leccapiedi. «Brillante.» «Whiteley, non parlare. Non rovinarmi questo momento di assoluta, totale, epica vittoria. Dimmi solo una cosa: hai sistemato per bene il video della sorveglianza? Meehan se lo vorrà guardare di sicuro prima o poi. «Ho fatto un lavoro perfetto, non ti preoccupare! Degno di Hollywood! Sai, Spielberg, e poi quell’altro tizio degli effetti speciali.» «Hai tagliato al punto giusto?» «Assolutamente: prima si vede con chiarezza un bel po’ di buio, quindi credo si possa dire che non si vede niente; poi ecco che entri in scena tu! Il cowboy, l’eroe, il protagonista, colui che accende la luce. Seguono delle scene molto coinvolgenti, ci sono tanti spari, calci, schizzi di sangue per terra, sulle pareti, non è uno spettacolo che 34


consiglierei ai più giovani o ai più impressionabili. Ma a un certo punto, sorpresa! La registrazione si interrompe sul più bello! Suspense, cliffanger, dissolvenza in nero. E quello, se non ti è chiaro, sarebbe il momento in cui ho manomesso la registrazione. Poi sono accorso qui nell’ufficio anch’io. E da lì credo che tu sappia già cosa sia successo dopo. Per caso vuoi che ti faccia un resoconto anche di quello che è successo dopo? Sai, caso mai ti fossi dimenticato qualche particolare?» «Bastava che rispondessi sì, fottuto idiota. Domanda: hai tagliato al punto giusto? Risposta: sì.» «Oh, brillante. Me ne ricorderò, in futuro.» Prima che mi venga voglia di uccidere anche lui, gli frugo in tasca e recupero un cellulare usa e getta di un colore orribile. Compongo un numero a memoria e al terzo squillo mi risponde una voce femminile. «Signor Grayson?» «Ho l’anello.» «Ottimo. Sono proprio le parole che mi auguravo di ascoltare. E Olivier pensa che sia ancora in suo possesso? Ha abboccato alla storia di copertura?» «Esca, amo e lenza. È convinto che sia vostro fratello Lyonel il mandante del tentato furto. Non immaginavo che i loro screzi fossero talmente acuti da fargli pensare a lui quasi nell’istante stesso in cui ha saputo dell’effrazione.» «La nostra è una famiglia con molti problemi e molti scheletri nell’armadio, ormai l’avrà capito anche lei. E della ladra che ne è stato?» «Morta. Ormai solo io e lei conosciamo la verità su quello che è successo stanotte al castello Meehan. E suo figlio, naturalmente. Entro domani le riporterò a casa sia lui che l’anello.»

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«Allora le faccio le mie congratulazioni. Signor Grayson, lei è appena diventato quattro volte milionario.» E queste sono le parole che volevo sentire io. Godo. «Grazie, signora. A domani.» Chiudo la comunicazione e restituisco a Whiteley il telefonino. «Tienilo sempre nascosto. Poi quando sei al sicuro, fallo a pezzi e brucialo. Non buttarlo solo nella spazzatura, brucialo. Intesi?» «Mamma non ha chiesto di parlare con me? Potevi passarmela, c’era una cosa che le volevo chiedere da ieri mattina.» «Forse aveva paura che se avessi cominciato a parlare, non l’avresti più finita fino alla fottuta Vigilia di Natale del prossimo anno.» «Questo è un pochino rude da parte tua, ma non c’è problema. So incassare. E adesso?» «E adesso, il tuo ruolo in questa incasinata faccenda è finito. Vatti a fare una dormita, a meno che tu non abbia voglia di andare di sopra a festeggiare con quei rimbambiti ignari di tutto.» «No, non ho nessuna voglia di festeggiare.» Comprensibile. «Allora ci vediamo domani. Anzi, stamattina.» Chiudo il discorso e vado a raccattare le mie armi, che stanno ancora per terra da quando Zlata mi ha disarmato. Raccolgo il coltello, lo richiudo e me lo infilo in tasca. Poi recupero la mia bimba, la mia cara SIG Sauer SP2009, e controllo che non si sia fatta la bua cadendo per terra. A una prima ispezione sembra tutto in regola. Mi volto dopo averla rimessa in fondina e vedo che l’idiota è ancora lì a fissare il cadavere. Ma che cazzo. «Hey, tutto bene?» 36


«Cosa ne sarà di lei adesso?» Mi chiede tutto serio. «Non credo faccia molta differenza. È morta.» «Fammi un favore, assicurati che sia sepolta da qualche parte. Non è necessario che sia una vera tomba, voglio solo evitare che finisca buttata in una fogna, o mangiata dai lupi o a decomporsi in qualche cassonetto della spazzatura.» Detesto quando Whiteley fa il serio. Non posso più dirgli che è un idiota e prenderlo in giro. Se non altro mi risparmio le sue chiacchiere senza fine. «Sei un fottuto sentimentale, lo sai? Aspetta un momento: è per questo motivo che prima ti sei presentato qui con quel carrello per portarla via? Perché volevi assicurarti che non finisse scaricata nel cesso da qualcuno degli uomini del tuo zietto?» «Mi hai beccato. Colpevole. Dopotutto è mia madre quella che ha messo in moto tutto quanto, la mandante di quello che è successo. Mi sento in parte responsabile.» «Gesù Cristo, sei davvero un fottuto sentimentale. Mentre te ne vai, dì a Nigel di venire qui con del nastro adesivo e un rotolo di sacchi della spazzatura, di quelli grandi. La impacchettiamo per bene e la seppelliamo da qualche parte nel bosco. Come una fottuta regina. Contento?» «Grazie, penso di non poter ottenere di più. Sapevo che avresti capito.» Mi sorride e scompare nel corridoio. Scuoto il capo e mi volto verso il cadavere per cominciare a fare il punto della situazione, e per poco non mi viene un colpo.

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I suoi occhi morti sono spalancati e guardano fissi verso di me, per un istante mi è sembrata ancora viva... È solo una fottuta coincidenza. Era questo sguardo che stava fissando Whiteley prima? Mi avvicino di un paio di passi e i suoi occhi accusatori restano sulla porta. È morta, non ci sono dubbi. Mi chino su di lei e le raddrizzo la testa. Ora guarda il soffitto. Buffo... Questa è la prima volta che penso alla stronzetta sparachiodi come a un essere umano. Fino a questo momento rappresentava solo un generico ostacolo fra me e i miei quattro milioni di dollari, un ostacolo da spazzare via senza esitazione. Purtroppo per lei è andata a scegliersi un mestiere molto pericoloso, e ha avuto la sfortuna di incappare nella faida di questa famiglia di ricchi, psicopatici, stronzi, incestuosi exaristocratici europei. Quella burattinaia della Committente ha tessuto le sue trame e ha deciso che qualche pedina andava sacrificata per il bene supremo del suo ramo della famiglia. In questo caso per ottenere un anello molto speciale. Così lo ha definito quando mi ha affidato l’incarico: molto speciale. E non ho davvero idea a che cosa si stesse riferendo, dato che a me sembra solo un anello da pochi soldi come mille altri.

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Poteva anche accadere a me di lasciarci la pelle, so bene di essere anch’io una fottuta pedina. Ma rispetto a te, sono più in alto nella catena alimentare, Zlata. Non poteva finire altrimenti fra noi due. E ora sto anche immaginandomi in un dialogo con la morta... Allungo una mano e le chiudo le palpebre, sono ancora calde. Ora ha un aspetto molto più sereno, ma so che è solo apparenza: un microscopico gesto di umanità non cancella di colpo tutto il dolore a cui l’ho sottoposta stanotte. È perché si tratta di una femmina che mi stanno venendo tutti questi fottuti pensieri? In passato per il mio Paese ho ammazzato guerriglieri e soldati nemici senza battere ciglio, poi criminali e pezzi di merda assortiti da quando ho iniziato a fare la guarda del corpo per gente non proprio pulita e raccomandabile. Ma non avevo mai ucciso una femmina prima. L’arrivo di quel ciccione di Nigel con l’attrezzatura richiesta mi salva dal rischio di avanzare più in là nel ragionamento deviato in cui mi stavo per impantanare. Credo. «Ecco qui la roba, che ci dobbiamo fare?» Mi domanda con il suo fottuto accento londinese incomprensibile, buttando tutto sul divano sforacchiato di pallottole. «Sistemare comoda la principessina e andarla a seppellire da qualche parte. Non vorrai mica lasciarla qui finché inizia a puzzare?» «Vuoi dire che ci tocca scavare? Non possiamo semplicemente attaccarle due pesi qua e là e buttarla a mare?» «No, avevo in mente qualcos’altro.» «E cosa avevi in mente allora?» Ancora non riesco a credere alle parole che sto per pronunciare. 39


«Conosco un terreno consacrato che si trova dietro una chiesetta abbandonata, giù in un angolo sperduto della Cornovaglia. È un posto che ho scoperto per caso la prima settimana che ho messo piede su quest’isola fottuta. C’è pure un vecchio che si è incaricato di tenere in ordine il piccolo cimitero, anche se non so quanti anni possano rimanergli da vivere. È uno che si fa i fatti suoi e non fa domande. Sigilliamola per bene e portiamola giù in garage, poi io mi prendo uno dei Range Rover per un paio di giorni e vado a sistemarla laggiù.» La burattinaia dovrà rassegnarsi ad aspettare più del previsto per poter allungare gli artigli su quell’anello d’acciaio, anche se il ritardo nella consegna mi costerà di sicuro una fetta di ricompensa. Strani scherzi possono giocare un paio di cadaverici occhi scuri dimenticati aperti. O c’entrano anche le fottute parole di quell’idiota di Whiteley? «Balle! Come mai tutti questi casini? Imballare, scavare, corrompere... E vuoi mettere il rischio di viaggiare per tutto il Paese con miss gennaio chiusa nel bagagliaio? Perché ti vuoi addossare tutti questi problemi per un pezzo di carne che non vale il suo peso?» «Perché sì.»

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